Il perturbante. Aggettivo di freudiana memoria che ha in sé una sintesi ambigua, fortissima: ciò che è familiare e ciò che fa paura, in un’immagine sola. Da qui l’inquietudine. Attrazione e terrore, intimità e sgomento. E siamo in un territorio che potremmo definire l’estetica della soglia, del transito. Annette Messager (Berck, 1943), tra le maggiori artiste europee viventi, premiata nel 2010 col Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, arriva a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia a Roma, per il nuovo ciclo espositivo Une, a cura di Chiara Parisi. E questa passione per l’inquieto, per l’enigmatico, per ciò che perturba, celando e rivelando a piacere, torna anche qui, come una costante del suo sguardo, del suo sentimento per l’esistenza. “Per me è inquietante tutto quello che è ‘familiare’, tutti gli oggetti di cui ci circondiamo, quello che succede nelle nostre vite, quello che succede nell’attualità”, ci dice. “Per me non esistono il surreale e l’immaginazione, la vita è più forte. (…) La vita, per me, è un turbamento permanente”. Che non è paura, o non semplicemente. È lo stupore per una bellezza soverchiante, da cui si intravede l’inaudito, l’incomprensibile, e che però è anche un bastimento di memorie d’infanzia, di relazioni affettuose, di passioni e godimenti, di potenza laterale ed energia impetuosa. Come quella delle donne.
FRAMMENTI AMOROSI. STORIE DI CORPI, DONNE, ANIMALI
E sul femminile riflette spesso, Annette Messager. Della difficoltà d’essere artiste e di conquistare spazio, credibilità, autorevolezza. Le donne spaventano? “Quando ho cominciato il mio lavoro mi chiamavano la fattucchiera”, aggiunge. “La parola utero viene dalla parola isteria, e il sangue che cola ogni mese… Tutto questo può fare paura ancora oggi”. E allora piccoli uteri diventano la decorazione di una carta da parati, nell’ex atelier di Balthus, mentre in giardino una lunga chioma oscilla al vento, brandita dal Mercurio bronzeo del Giambologna. E ancora un’esplosione di serpenti di peluche è come acqua che zampilla dalla celebre Fontana della Loggia, mentre animali di foglie sono scolpiti tra le siepi. Tutto si mimetizza, tutto è frammento che sbuca e risuona, insinuandosi docilmente. All’interno, la grande scalinata centrale è sovrastata da Eux et Nous, Nous et Eux (2000), una pioggia di creature bizzarre, animali impagliati ibridati con peluche, specchi, matite colorate, guanti neri: la poetica dei corpi per la Messager è sempre un fatto di smembramenti, accumulazioni, ombre sotterranee e fascinazione. Una “geografia amorosa”, la chiama lei, citando i frammenti di Barthes. Corpi a pezzi ma che non raccontano il dolore: piuttosto “la tenerezza”. Chiude il percorso una grande installazione del 2004, Histoire de traversins: cuscini rigati, a evocare le divise dei prigionieri di Auschwitz, si fanno architetture morbide, enormi covi d’incubi e di meraviglie, da cui sbucano maschere e micro personaggi. Torna la malia del perturbante. Mentre dall’altra stanza, come un canto, risuonano parole scritte sul muro, con fili di pazienza a cui appendere giochi e vecchi pupazzi: jelousie, spasme, love. Lo spasmo, la gelosia e la passione. Ancora una volta la vita, a tenerci per le viscere e all’altezza del cuore.
dal 15 febbraio al 25 febbraio 2017 Corrado Levi. Arte come differenza
Milano, Galleria Ribot, via Enrico Noe 23. RIBOT è lieta di presentare la personale di Corrado Levi, una selezione di opere recenti realizzate in occasione della mostra. Inaugurazione mercoledì 15 febbraio ore 19. Sarà presente l’artista. Figura di riferimento dell’arte e dell’architettura contemporanee, protagonista poliedrico della cultura milanese, Corrado Levi espone gli esiti della sua più recente ricerca artistica, in un dialogo aperto con lo spazio della galleria. La mostra vuole testimoniare l’esperienza di una stagione culturale che Corrado Levi ha rappresentato anche attraverso la sua attività di critico d’arte, curatore, scopritore di talenti, agitatore di eventi culturali e promotore di impegno sociale. Accompagna l’esposizione una pubblicazione che raccoglie i contributi di artisti e curatori che nel tempo si sono occupati dell’opera dell’artista. Orari galleria: da martedì a venerdì / dalle ore 15 alle 19.30, sabato dalle ore 11.30 alle 18.30, anche su appuntamento.
dal 11 febbraio 2017 – 28 maggio 2017
Meret Oppenheim
Opere in dialogo da Max Ernst a Mona Hatoum
Museo d’Arte – LAC Lugano Arte e Cultura, Piazza Bernardino Luini 6
6900 Lugano +41 58 866 42 3
Meret Oppenheim (1913-1985) è una delle artiste più celebri del Novecento e autrice di opere divenute vere e proprie icone dell’arte del secolo scorso. Il suo straordinario fascino e la sua personalità si sono riflesse nella vita e nelle creazioni dei suoi amici e colleghi come Man Ray, Marcel Duchamp, Max Ernst, Alberto Giacometti, René Magritte e molti altri, facendone una figura centrale nella scena artistica degli anni Trenta. Attraverso più di cento opere, la mostra a lei dedicata documenta tutta la sua carriera, dagli esordi nella Parigi dei primi anni Trenta fino alle esperienze non figurative degli anni Settanta e Ottanta. Nel percorso espositivo le sue creazioni dialogano con quelle dei maggiori esponenti del movimento dada e surrealista e di affermarti artisti contemporanei come Robert Gober e Mona Hatoum.
dal 18 febbraio al 12 marzo 2017
“valigia d’artista” di Alberto Cerchi
Idea d’arte, studio di progettazione visiva, organizza ed espone al Ducale Spazio Aperto, dal giorno 18 febbraio al 12 marzo 2017, una mostra dal titolo “12 valige d’artista” . Le valige sono piccoli musei portatili della propria memoria, dell’arte come viaggio e dell’artista/progettista come viaggiatore in territori sconosciuti. Si collegano idealmente alla “Boite en valise” di Duchamp e quindi al concetto dadaista del ready-made, ma sono soprattutto giochi visivi “oggettivi” alla Munari, con modalità percettive, tattili, formali e strutturali. Dichiarano il loro nomadismo culturale, perché l’arte deve essere sempre pronta a partire, portandosi dietro quello che ci identifica. Noi circoscriviamo la ricerca alla comunicazione visiva, che però a sua volta ne racchiude altre, come in un gioco di scatole cinesi. I partecipanti a questo primo appuntamento sono
Alberto Cerchi, Coca Frigerio, Antonio Gambale, Simonetta Gherardelli, Carla Iacono, Dolores Lavezzi, Giovanna Lox, Rita Malaguti, Francesco Musante, Lucia Pasini, Carla Sanguineti, Luciana Trotta.
Al termine della mostra le valige sono pronte a partire su richiesta per altri luoghi e altre destinazioni
Il lavoro di Pamela Rosenkranz esplora le modalità attraverso le quali i processi fisici e biologici influenzano l’arte. La sua nuova installazione per “Slight Agitation”, dal titolo Infection, si basa sull’azione di un parassita attivo a livello neurologico, che colpirebbe circa il 30% della popolazione mondiale. Un’imponente montagna di sabbia è realizzata all’interno dei vasti spazi della Cisterna, creando un confronto con la sua architettura industriale. Il materiale naturale è intriso di una fragranza ottenuta da feromoni di gatto ricreati in laboratorio, capaci di attivare specifiche reazioni di attrazione e repulsione a livello biologico e di influenzare in maniera subconscia il movimento dei visitatori. Una luce verde RGB illumina dall’alto questa enorme massa alterata chimicamente e ne fa evaporare lentamente il profumo.
Dopo l’installazione di Tobias Putrih che riguardava i concetti di gioco, politica ed emancipazione, il capitolo realizzato da Pamela Rosenkranz sviluppa ulteriormente il tentativo del Thought Council di sollecitare reazioni a livello mentale e corporeo e creare esperienze sensoriali e spaziali. Il suo intervento può essere osservato e vissuto a distanze diverse, che modificano la percezione dell’architettura della Cisterna stessa. La pianta circolare dell’installazione e la ricerca scientifica alla base del progetto rimandano indirettamente alla funzione originaria di questo spazio, che in passato ospitava i serbatoi utilizzati per la fermentazione alcolica. La luce verde che filtra attraverso le vetrate della Cisterna trasforma l’intero edificio in una teca, percepita dall’esterno come un oggetto luminoso, creando un effetto che si intensifica con il buio. I visitatori possono quindi avere un’esperienza diretta e personale dell’installazione da diverse prospettive, enfatizzando le qualità formali della Cisterna: la struttura, l’imponenza e l’atmosfera misteriosa. Una sensazione di incertezza causata da una reazione biologica e da una pluralità di contrasti (profumo e odore, caldo e freddo, densità e vuoto, luce e buio) attiva tutti i sensi. L’installazione di Pamela Rosenkranz sviluppa ulteriormente gli obiettivi di “Slight Agitation”, offrendo al pubblico la possibilità di vivere una nuova esperienza coinvolgente e collettiva.
Il lavoro di Pamela Rosenkranz esplora le modalità attraverso le quali i processi fisici e biologici influenzano l’arte. La sua nuova installazione per “Slight Agitation”, dal titolo Infection, si basa sull’azione di un parassita attivo a livello neurologico, che colpirebbe circa il 30% della popolazione mondiale. Un’imponente montagna di sabbia è realizzata all’interno dei vasti spazi della Cisterna, creando un confronto con la sua architettura industriale. Il materiale naturale è intriso di una fragranza ottenuta da feromoni di gatto ricreati in laboratorio, capaci di attivare specifiche reazioni di attrazione e repulsione a livello biologico e di influenzare in maniera subconscia il movimento dei visitatori. Una luce verde RGB illumina dall’alto questa enorme massa alterata chimicamente e ne fa evaporare lentamente il profumo.
Dopo l’installazione di Tobias Putrih che riguardava i concetti di gioco, politica ed emancipazione, il capitolo realizzato da Pamela Rosenkranz sviluppa ulteriormente il tentativo del Thought Council di sollecitare reazioni a livello mentale e corporeo e creare esperienze sensoriali e spaziali. Il suo intervento può essere osservato e vissuto a distanze diverse, che modificano la percezione dell’architettura della Cisterna stessa. La pianta circolare dell’installazione e la ricerca scientifica alla base del progetto rimandano indirettamente alla funzione originaria di questo spazio, che in passato ospitava i serbatoi utilizzati per la fermentazione alcolica. La luce verde che filtra attraverso le vetrate della Cisterna trasforma l’intero edificio in una teca, percepita dall’esterno come un oggetto luminoso, creando un effetto che si intensifica con il buio. I visitatori possono quindi avere un’esperienza diretta e personale dell’installazione da diverse prospettive, enfatizzando le qualità formali della Cisterna: la struttura, l’imponenza e l’atmosfera misteriosa. Una sensazione di incertezza causata da una reazione biologica e da una pluralità di contrasti (profumo e odore, caldo e freddo, densità e vuoto, luce e buio) attiva tutti i sensi. L’installazione di Pamela Rosenkranz sviluppa ulteriormente gli obiettivi di “Slight Agitation”, offrendo al pubblico la possibilità di vivere una nuova esperienza coinvolgente e collettiva.
Oggetto: Progetto ed opening della Mostra: Alex Martinis Roe
* 24 Febbraio 2017: Bolzano
Mostra dal titolo “Diventare 2”
Comunicato Destinato a tutti coloro che hanno contribuito e supportato il Progetto “Diventare 2”
Un enorme grazie!
Sono stati per me tre anni incredibili di incontri, collaborazioni ed apprendimento.
Ora ci saranno alcuni momenti pubblici dove il progetto sarà esposto con una mostra e sarebbe veramente fantastico se voi poteste partecipare ad alcuni di questi eventi cosicché potremmo condividere la chance di celebrare insieme!
Il primo ” vernissage” della Mostra sarà il 19 novembre con orari dalle 15 alle 18 presso la sede di CASCO (vedi dettagli allegati qui sotto) a Utrecht ( in Olanda).
e poi
* 11 Dicembre 2016 : ” La nostra Rete Futura: Storiografia: Parlare in pubblico e la Differenza Collettiva, Presso Dokzaal ad Amsterdam come parte della Rassegna programmata dal titolo ” If I can’t dance Performance Days”
* 29 Gennaio 2017: evento presso la sede di CASCO ad Utrecht inclusa una serie di attivazioni di alcune delle proposte per la pratica del collettivo femminista dal Vostro Progettto ” La nostra rete futura”
* 24 Febbraio 2017: Inaugurazione della mostra ” Diventare 2″ a Kunst (Bolzano)
* 30 Marzo 2017: Apertura di una istallazione del Film ( a 3 canali) dal titolo ” It Was about opening up the very Notion that there Was a particular perspective” come parte della Rassegna ” The National” alla Galleria d’Arte di New South Wales a Sydney.
* 25 Aprile 2017 : Inaugurazione della Mostra “Diventare 2” presso la sede della Galleria “The Show-room” a Londra, UK
Dunque Vi prego, fatemi sapere se sarete in grado di partecipare a qualche evento!
Cordiali saluti!
Alex
GALLERIA CASCO INVITO, INAUGURAZIONE:
Progetto a cura di ALEX MARTINIS ROE
Sabato 19 Novembre 2016
Il Team di Casco Ufficio per l’Arte, Design e la Teoria vi invita caldamente a partecipare alla Vernice della Mostra “Diventare 2” prevista per Sabato 19 Novembre 2016 dalle 15 alle 18.
La Mostra copresentata da “Casco” e dal Progetto ” Se io non posso danzare, non voglio essere parte / partecipare alla vostra Rivoluzione” riunisce 6 Films del Progetto – Ricerca a lungo termine dell’artista Alex Martinis Roe che porta lo stesso titolo.
Il Progetto-Mostra traccia la genealogia delle teorie del ” nuovo materialismo femminista” e ” della differenza sessuale” attraverso l’impegno con diverse comunità internazionali femministe e le loro pratiche politiche , che includono gli Studi delle donne ( ora denominati ” Gender Studies”) presso l’Universita’ di Utrecht, che è un partner-socio affiliato a CASCO da lungo tempo.
” Diventare 2″ elabora uno svariato numero di pratiche storiche sviluppate da questa comunità ed esplora le loro interconnessioni attraverso le generazioni e contesti differenti.
I 6 Films sono presentati attraverso una installazione modulare architettonica che descrive il lungo viaggio esplicitato dal Progetto – un Viaggio incominciato nel 2014.
Il Progetto “Diventare 2” include inoltre dei Laboratori- Workshops , delle Performances ed un Libro Artistico e peraltro proseguirà con una Mostra che avrà luogo sia a Bolzano che a Londra.
L’Opening include una Conferenza dell’Artista che avrà luogo a Bolzano alle ore 15,15 durante ll’Opening della Mostra “Diventare 2”.
L’Artista Alex Martinis Roe , nata in Australia, e con base a Berlino esplora una politica affermativa della differenza rintracciando attraverso le sue Performances una storia sociale della Teoria e Pratica femminista.
Si impegna nella creazione di Films e documentari, documenti e testi, nonché sitografie dove le strategie dei discorsi e argomenti vengono praticate al fine di mostrare quanto è a che livello il lavoro del femminismo del passato sia connesso alle teorie contemporanee del femminismo del presente e del futuro.
Questi materiali, abbinati con le diverse forme di ricerca e storytelling (narrazione di storie) che utilizza Martinis Roe , supportano lo stitching del tempo e della storia attraverso la sperimentazione variegata e gli incontri con le specifiche comunità dislocate in varie nazioni presso cui e con le quali lei ha lavorato tramite una metodologia creativa generativa verso una solidarietà intergenerazionale.
Siccome l’Opera di una femminista del 20^ secolo è spesso differenziata da ondate generazionali che demarcano le priorità ed i risultati, i Films della Martinis Roe e la loro installazione offrono delle storie alternative di relazioni affermative/positive fra gruppi di femministe di diverse generazioni. Martinis Roe traccia il suo percorso a partire dal primo lavoro politico che tratta ” la differenza sessuale” – una teoria e pratica di soggettività relazionale che implica il relazionarsi verso, il fare spazio, nonché inventare una cultura ” sessuata” che inizia proprio dalle differenze – ed in seguito una nuova teoria femminista materialista che comprende concetti similari, forme e teorie politiche di questo differenziarsi fino ad estendere queste idee attraverso l’esportazione di “Agency” di corpi , materia e del loro intreccio con la cultura in una convergenza fra le scienze e le scienze umane.
La Genealogia, che Martinis Roe traccia, non solo dimostra il processo generativo dello sviluppo di una storia sociale, ma mostra altresì il potenziale al fine di stabilire e praticare una teoria politica come risultato di tale azione, enfatizzando così la connessione fra teoria ed attivismo.
Ogni film esplora la storia e l’organizzazione di un gruppo femminista che emerse negli anni ’70 – ’80 e ’90 , ivi inclusi la Libreria delle Donne di Milano (Italia), il gruppo di Psicanalisi e Politica (Francia), il gruppo di Women’s Studies (ora denominato Programma di Studi di Genere) presso la sede dell’Universita ‘ di Utrecht (Olanda) , una rete di coloro che sono attivisti nella cooperativa di Filmmakers di Sydney, dei Feminist Film Workers, e del Dipartimento di Filosofia Generale presso l’Universita’ di Sydney (Australia), nonché il DUODA ( cioè il Centro di Ricerca delle Donne) e Ca’ La Dona di Barcellona(Spagna).
Utilizzando vari metodi, quali l’osservazione partecipativa, le interviste con delle narrazioni di storia orale, o ricerche d’archivio, nonché pratiche di collaborazione sociale tramite cui Martinis Roe mette in relazione le teorie e le pratiche di gruppi pregressi a quelle di una generazione più giovane di donne attraverso Reenactments ( riattivazioni) , storytelling, traduzioni consecutive nonché la presentazione di Materiali d’archivio.
Il suo lavoro con questa generazione più giovane ha elaborato in seguito lo sviluppo di pratiche femministe collettive, che plasmano e danno forma al soggetto del film che chiude l’opera “OUR FUTURE NETWORK” (2016).
Le installazioni architettoniche che fanno da supporto alla visione dei filmati, il cui design è stato curato da Fotini Lazaridou-Hatzigoga, permettono molteplici incontri e varie modalità grazie a cui visionare l’esposizione.
A partire dai disegni di spazi interni e settings (ambientazioni) materiali – fisici- discorsivi creati dai primi collettivi femministi, queste strutture enfatizzano e sottolineano come sia lo spazio formale, sia dei format di tipo sociale informino / diano forma ad una soggettività vissuta ed incarnata, nonché la pratica politica.
Per maggiori ed ulteriori informazioni riguardo i filmati presenti nella mostra, nonché il programma didattico di formazione relativo al Progettoed anche il programma dettagliato di tutte le attività ad esso connesse , si prega di connettersi e collegarsi al Link specifico ” The Casco Website”.
“Diventare 2 ” è una Mostra-progetto co-commissionata in Olanda da Casco in collaborazione con l’Ufficio per l’Arte, Design e la Teoria, con sede a Utrecht e con l’organizzazione artistico-culturale ” If I can’t dance , I don’t to be part of your revolution ” presenta ad Amsterdam.
I Workshops e performances che accompagnano la Mostra sono stati commissionati dalla Fondazione “The Keir Foundation”.
The exhibition, co-presented by Casco and If I Can’t Dance, I Don’t Want To Be Part Of Your Revolution, brings together six films from artist Alex Martinis Roe’s long-term research project under the same title. The exhibition project traces the genealogy of “feminist new materialist” and “sexual difference” theories through her engagement with different international feminist communities and their political practices, which include Women’s Studies (now Gender Studies) at Utrecht University, Casco’s long-term and affectionate partner. To Become Two elaborates on a number of historical practices developed by these communities and explores their interconnections across generations and different contexts. The six films are presented in a modular architectural installation that speaks to the project’s long journey – commenced in 2014,To Become Twoincludes workshops, performances, and an artist’s book, and will later travel onwards to Bolzano and London.
The opening includes an Artist Floor Talk that will take place in the To Become Two exhibition at 15:15 hrs.
Australian-born and Berlin-based artist Alex Martinis Roe locates an affirmative politics of difference by performatively tracing a social history of feminist theory and practice. She engages in the making of films, textual documents, and material structures and sites where discursive strategies are practiced in order to show how the significant feminist work of the past is linked to contemporary feminist theories and practices of the present and future. These materials, coupled with the different forms of research and storytelling that Martinis Roe employs, support the stitching of time and history across varied experimentation and encounters with the specific and situated communities she has worked with as a generative methodology towards intergenerational solidarity. As twentieth-century feminist work is often distinguished by generational waves that demarcate priorities and achievements, Martinis Roe’s films and their installation offer alternative stories of affirmative relations between feminists across generations.
Martinis Roe draws from the early political work that engages with “sexual difference” – a theory and practice of relational subjectivity that involves relating to, making space for, and inventing a sexuate culture that begins from differences – and later “feminist new materialist” theory, which takes up similar concepts, forms, and political theories of this differing to extend these ideas by accounting for human and non-human forces and modes of relation, exploring the agency of bodies, of matter, and their entanglement with culture in a convergence between the sciences and humanities. The genealogy that Martinis Roe traces not only demonstrates the generative process of developing a social history, but also shows the potential for establishing and practicing a political theory as a result of doing so, thus emphasizing the connection between theory and activism.
Each film explores the history and organization of a feminist group that emerged in the 1970s, ‘80s, or ‘90s – including theLibreria delle donne di Milano (Milan Women’s Bookstore co-operative) (Italy); Psychanalyse et Politique(Psychoanalysis and Politics) (France); Women’s Studies (now the Gender Studies Programme) at Utrecht University (The Netherlands); a network of those active in the Sydney Filmmakers Co-operative, Feminist Film Workers, and the Department of General Philosophy at Sydney University (Australia); and Duoda – Centro de investigación de Mujeres (Duoda – Women’s Research Centre), and Ca La Dona, Barcelona (Spain). By employing various methods such as participant observation, oral history interviewing, archival research, and collaborative social practices Martinis Roe connects the theories and practices of previous groups to a younger generation of women through reenactments, storytelling, consecutive translations, and the presentation of archival material. Her work with this younger generation later resulted in the development of twenty propositions for feminist collective practices, which forms the subject of the final film Our Future Network (2016).
The architectural installations that support the viewing of the films, designed with Fotini Lazaridou-Hatzigoga, allow for multiple encounters and ways of viewing the exhibition. Drawing from the interior spaces and material-discursive settings created by these early feminist collectives, these structures emphasize how both material space and social formats inform lived and embodied subjectivity and political practice.
For more information about the films in the exhibition, the education program related to the project, and an updated and detailed program of all the related activities, please check the Casco website here.
To Become Two is an exhibition project co-commissioned in the Netherlands by Casco – Office for Art, Design and Theory, Utrecht and If I Can’t Dance, I Don’t Want To Be Part Of Your Revolution, Amsterdam. The accompanying workshops and performances are co-commissioned by the Keir Foundation. Presenting partners include <
Termina giustamente nel capoluogo torinese il tour europeo della grande retrospettiva dedicata a Carol Rama, artista scomparsa nel 2015. Una mostra completa e ragionata che consacra ancora una volta una figura geniale e fuori da ogni schema.
Per lei che aveva fatto di Torino, e in particolare della sua soffitta in via Napione, un alveo autosufficiente; per lei che tanti contatti aveva avuto con personaggi celebri del mondo dell’arte e della cultura in generale – da Man Ray a Edoardo Sanguineti – ma che infine, volente o nolente, si circondava di una ristrettissima cerchia di amici o presunti tali; per Carol Rama (Torino, 1918-2015) sarebbe stato sorprendente veder circolare le proprie opere al Macba di Barcellona e al Musée d’Art moderne de la Ville de Paris, e poi all’Espoo Museum of Modern Art e all’IMMA di Dublino, per far ritorno dopo un anno e più nella sua città, alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea.
NEMO PROPHETA IN PATRIA?
Il consueto nemo propheta in patria? Stavolta no, sarebbe – ed è stata – una polemicuccia da disinformati o da rimestatori di fanghiglia. Perché è pur vero che Carol Rama ha dovuto attendere decenni per veder riconosciuta la propria opera, ma d’altro canto chi l’ha portata – finalmente! – agli onori dell’empireo dell’arte è stata la Biennale di Venezia, con quel Leone d’oro assegnato nel 2003, e l’anno successivo Torino, nella veste della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che le dedicò una grande antologica (chi la definì “retrospettiva” fu apostrofato dall’artista con una stilettata: “Non sono mica morta!”) curata da Guido Curto e allestita da Corrado Levi insieme a quella felicissima esperienza d’architettura che fu il gruppo Cliostraat. Certo, ci si può sempre aggrappare al fatto che i curatori di questa grande rassegna itinerante sono “stranieri”: e con ciò? L’internazionalismo ci aggrada soltanto quando sono i nostri connazionali a lavorare, e bene, all’estero?
UN TRIBUTO STRAORDINARIO
Detto questo, gli spazi sotterranei della GAM accolgono un tributo straordinario a un’artista che mai, o quasi, si allineò a tendenze e movimenti, e che pagò cara tale indipendenza, di pensiero innanzitutto, da una cifra distintiva che la rendesse riconoscibile e commercializzabile agevolmente. Ma il prezzo pagato ora risplende con tale graffiante luminosità da far dimenticare finanche la location non entusiasmante: nulla da invidiare a una Louise Bourgeois, volendo restare in ambito femminile e non-allineato; ma soprattutto nulla da invidiare a una schiera di artisti – di qualunque genere e nazionalità – legittimamente osannati. Nessuno come Carol Rama? No, sarebbe un goffo e ingiustificato tentativo di recuperare il tempo perduto. Ma è doveroso reinserirla in una storia dell’arte che necessita, ora più che mai, di una – anzi, di molte – riscrittura. Menzione per la Fondazione Sardi per l’arte, che ha sponsorizzato l’edizione italiana del catalogo, ricco di contributi vecchi e nuovi sull’opera di Carol Rama.
Marco Enrico Giacomelli
Dal 12 gennaio al 4 febbraio 2017
ANTONIA MULAS
San Pietro: la gloria si fa inquieta
Inaugurazione 11 gennaio ore 18,30
Centro Culturale e Galleria San Fedele via Hoepli, 3/b – Milano
La sensazione è che stia per accadere qualcosa. Ogni particolare è carico di indizi ma avvolto nel mistero. I drappi marmorei celano e ornano; il fasto barocco si produce in un’esplosione contenuta, mentre gli ori diventano plumbei e i santi assumono calore umano. E’ la visione rivoluzionaria, femminile, di Antonia Mulas – fotografa, documentarista, artista – della basilica di San Pietro a Roma. Da questi racconti in frammenti emerge come un senso di vuoto, una sorta di ambiguità soffusa. Una fragilità nervosa si impone al cuore della magniloquenza di gesti solenni e retorici. La gloria si fa inquieta.
Antonia Mulas ci conduce in un viaggio di quattro secoli tra le opere di Gian Lorenzo Bernini, Antonio Canova, fino a giungere a Francesco Messina attraverso quindici fotografie di grande formato scattate nel 1977 – 1978, che cercano di catturare con grande profondità ottica, particolari che appaiono sin dal primo sguardo, frammenti di un discorso più ampio, complesso, quasi sottaciuto. Volti e arti deformati da estasi o dolore evocano l’esperienza umana attraversata dal divino, le ore del quotidiano sembrano scorrere sulla pelle dei santi. E’ un racconto scuro, sublime e sensuale che attinge alla profondità dell’anima.
Le statue ritratte solo con luce naturale, semplicemente illuminate dal sole, sono presentate in una sequenza continua lunga in origine 27 metri e mostrata in questa occasione in un frammento di 9 metri.
La fotografia è per Antonia Mulas strumento di conoscenza e relazione: è viscerale, diretta, nuda. Il suo sguardo sui santi è lo stesso riservato alle teste romane, agli impianti della Fiat, all’architettura, alla desolazione del muro di Berlino ripreso in sequenza nel 1976 con il preveggente titolo “Archeologia”. La mostra prosegue in chiesa con due immagini di Antonia e Ugo Mulas in dialogo con le opere del Museo San Fedele Itinerari di arte e fede.
martedì/sabato 16.00 – 19.00
al mattino su appuntamento, chiuso i festivi
di Francesca Pasini
Gli oggetti nell’arte raccontano l’affezione del quotidiano, fluttuano tra memoria e consumo.
Per oggetti intendo i manufatti che legano la “tradizione” visiva ai rapporti d’identità. È un passo dopo l’iconografia cristiana e le sue grandiose invenzioni artistiche; dopo che le avanguardie del secolo scorso hanno rotto lo specchio, dall’Impressionismo a Munch, a Duchamp, al Cubismo, a De Chirico.
E dopo Pae White che, con i suoi fantastici lampadari, si allea alla luce del Chandelier (2014), di Sirous Namazi (Galleria Nordenhake, Berlino), che a sua volta ci trasporta in un ambiente “orientale”. E dopo Chiara Camoni che, con i suoi vasi di terracotta, transita dall’archetipo arcaico alla manualità anonima della scultura, cioè alla creazione allo stato nascente che ognuno potenzialmente ha. E dopo Elisabetta Di Maggio con le sue ceramiche incise, come la calotta-cuffia che protegge l’emisfero del cervello e il volto assente, che ipoteticamente ognuno potrebbe inserire in questa fragile, reticolare, bianca testa “morandiana”. (Museo della Ceramica – Mondovì). E dopo Urs Fischer, che dissemina il pavimento della galleria di Massimo De Carlo (via Ventura, Milano) con sculturine in ceramica di frutta, piccoli animali, personaggi in pose senza scrupoli. E dopo molti e molte.
La difficoltà del contemporaneo sta nel riconoscere i passaggi anonimi che prendono forma e nome con l’arte, e nel capire quale evento emotivo è riconoscibile in un oggetto che, senza l’investitura artistica, rimarrebbe un prezioso possesso personale, mentre una volta entrato nel circuito dell’arte è patrimonio di tutti quelli che lo vedono.
Ritorna Duchamp, ma non è più un oggetto d’uso spostato in un’altra sede e titolato in modo allusivo “Fountain”, è una creazione che tiene dentro di sé il concetto d’uso e lo offre come deposito affettivo e visivo: ci fa immaginare una casa a cavallo tra Iran e Svezia (Sirous Namazi) o il piacere della luce interna nell’abitare occidentale (Pae White) .
Tutto questo è anche il frutto di una femminilizzazione dell’arte che influenza il linguaggio di uomini e donne.
Gli otri scuri, i meravigliosi, trasparenti, bicchieri di Murano, sparsi sulla tovaglia nel Convito a casa di Levi di Paolo Veronese, erano un accenno umanizzante dentro la visione sacra. Ora gli oggetti d’uso quotidiano non sono più un’inserzione dedicata alla vita di Cristo, ma a uomini e donne. Ad esempio, i passeggini da bambini vuoti di Nari Ward.
Chiara Camoni ha segnato un punto importante su questo tema nella mostra alla galleria Spazio A di Pistoia, (“La storia viene sempre dopo”) e nella “Quarta Vetrina” alla Libreria delle donne di Milano (Barricata). Il punto sta in una serie di vasi in terracotta che mantengono il proprio uso e nello stesso tempo aprono il concetto di contraddizione e di inizio.
I vasi a Pistoia sono disseminati su basi bianche, hanno forme libere, variatissime e impreviste, colori che evocano la mobilità della materia e della mano. Hanno una funzione: emettono fischi. Una pratica diffusa nella cultura materiale. Durante la mostra sono stati usati come impensati strumenti d’orchestra, uno aveva una doppia uscita e il fischio è stato modulato in sincrono da Chiara e dal marito Luca Bertolo.
Alla Libreria delle donne di Milano, i vasi in terracotta scura, sono ammassati gli uni agli altri, mantengono la funzione e accolgono fiori freschi recisi. Sono una Barricata dedicata alle donne, alle artiste, alle madri simboliche e alla sua mamma.
Chiara sottolinea che tutto ha origine da un punto, tutto va incontro in modo circolare alla bellezza e al negativo, all’accoglienza e al rifiuto, alla fragilità e alla forza, alla forma e alla sua costante mobilità. I vasi di Chiara accolgono il contatto tra forma e cultura materiale. Da qui inizia la consapevolezza rispetto a sé e agli altri. A volte è in grado di ricevere, suono, colore, a volte no.
La simbologia del vaso è sinonimo di archetipo. Riguarda la nascita della pittura greca, i vasi Attici, e l’origine della vita condivisa che affiora dai contenitori del cibo coltivato. Può essere una metafora dell’iconografia della fede? Non credo. È una visione dello scambio necessario per vivere e crescere. Richiama il ventre materno, ma anche quel respiro che si dilata di fronte alla spensieratezza della gioia e si coagula in un grumo, sul fondo, con l’ansia e il dolore.
Anche per questo Chiara Camoni ha messo al mondo questa folla di vasi che fischiano come uccelli e contengono fiori per tenere compagnia alla casa. Imparare a guardarli in questo modo significa andare oltre Duchamp, non perché sia stato superato, ma perché ogni oggetto è “un appuntamento”, come lui stesso definiva il readymade.
Un appuntamento con chi? Con i bicchieri di Murano di Paolo Veronese, un inizio circolare che si sviluppa dal fiato del vetraio. Non sono entrati nell’iconografia della fede, ma in quella della vita, fragile più che mai.
Oggi Chiara Camoni dichiara che la metafora del ventre materno e la simbologia del vaso, non riguardano solo il momento della generazione, ma il procedere quotidiano tra le cose, gli affetti, i pensieri che talvolta, fortunatamente, acquistano una forma in cui riconoscersi. È una forma volatile, raccoglie il continuo movimento dei tanti frammenti viventi nel pianeta.
È una nuova iconografia? Per il momento accettiamo proustianamente che le cose e gli oggetti incidono su di noi e hanno bisogno di essere rappresentati e raccontati.
(www.exibart.com, 30 dicembre 2016)
dal 14 dicembre 2016 al 8 gennaio 2017
Inaugura martedì 13 dicembre alle ore 18.00, la mostra “I FEDELI” di Laura de Santillana allo Studio Museo Francesco Messina di Via San Sisto 4/a Milano (Via Torino).
Il curatore, Sabino Maria Frassà, introduce così l’esposizione: “nella Chiesa di San Sisto Laura de Santillana colloca 20 sculture di ferro e vetro, tutte bianche o trasparenti, ad eccezione di quattro “libri” rossi. Il dialogo tra vetro, luce e spazio innesca una forte empatia, suggestioni mutevoli e personali, attraverso le quali l’artista invita noi tutti colmare il nostro vuoto interiore e a ricercare in noi stessi (e non all’esterno) le risposte, la saggezza e l’equilibrio. Allo spettatore non resta che vivere questa mostra in silenzio come una preghiera.” Mentre a spiegarne la genesi è l’artista stessa che dice: “La nostra è una società che vive nell’assenza. Assenza di cosa? L’assenza è sempre una mancanza di fede in qualunque modo la si voglia intendere. Quando gli uomini non credono producono un vuoto ed io questo vuoto ho voluto riempirlo dei miei fedeli. Cerco la bellezza nel senso di un’armonia profonda, non estetica, ma trascendente. Il rosso dei “libri di vetro” non è casuale in quanto è la parte sacra, mistica, presente in ognuno di noi.
La mostra, presentata dal Comune di Milano e dalla Fondazione Giorgio Pardi, è il proseguimento del percorso di Laura de Santillana con il progetto cramum (parola latina che significa “crema”, “la parte migliore) sul tema “A chi parla l’arte contemporanea?”. L’artista è inoltre presente fino al 13 gennaio con alcune opere nella collettiva internazionale “Oltre Roma” curata sempre da Sabino Maria Frassà per cramum e Accademia di Ungheria a Roma.
Laura de Santillana nasce nel 1955 a Venezia, è tra le artiste italiane più famose al mondo. Nel 2009 partecipa alla Biennale di Venezia. Sue opere sono state esposte o fanno parte di numerose collezioni pubbliche o private, tra cui Museo Vetrario di Murano, Venezia, Italia, The Corning Museum of Glass, New York, NY, USA, Victoria and Albert Museum, Londra, Gran Bretagna, Metropolitan Museum of Arts, New York, NY, USA, Seattle Art Museum, Seattle, WA, USA, MUDAC, Losanna, Svizzera, Museu de Arte de São Paulo, San Paolo, Brasile, Musée des arts décoratifs, Parigi, Francia, Kunstmuseum im Ehrenhof, Düsseldorf, Germania, Kunstsammlungen der Veste Coburg, Coburgo, Germania.
Nel 2015 aderisce al progetto cramum e partecipa alle mostre Vox Clamantis e Oltre Roma, curate da Sabino Maria Frassà.
Vademecum
I FEDELI
Laura de Santillana
A cura di Sabino Maria Frassà
Studio Museo Francesco Messina
Promosso Fondazione Giorgio Pardi – progetto cramum
14 dicembre 2016 – 8 gennaio 2017
da martedì a domenica ore 10:00 – 18:00
Inaugurazione martedì 13 dicembre 2016 18:00 – 20:00
da lunedì 12 dicembre a domenica 12 marzo 2017
Chiara Dynys – “Look Afar”
M77 gallery via Mecenate, 77 • Milano
Chiara Dynys è una di quelle artiste che, dagli anni Novanta, ha lasciato tracce importanti nel suo percorso attraverso un lavoro assiduo, vario e spesso indirizzato verso tematiche differenti, da quelle sociopolitiche o di ricerca – come il lavoro sugli archivi presentato alla Fondazione Pomodoro nella mostra Scultura Italiana XXI secolo nel 2009 – ad azioni più estetiche come le installazioni di light boxes colorate, o le immagini presenti nella collezione Panza di Biumo a Varese, tutte produzioni legate alla ricerca di qualcosa oltre, di metafisico.
Alla galleria M77 Dynys presenta una mostra personale con un nuovo corpo di lavoro, realizzato appositamente per quest’ampio spazio: l’artista ha lavorato senza posa per aderire e dialogare con i due piani della galleria sviluppando una tematica precisa dedicata a un viaggio in Lapponia dello scorso anno. Look afar è un racconto di un’esperienza speciale vissuta in Svezia: quella dell’aurora boreale che l’artista ha osservato per un lungo periodo, appostata a “spiare” minuziosamente i cambiamenti che questo fenomeno apporta al paesaggio e, soprattutto, alla luce del Nord – fonte di ispirazione e punto di partenza per “guardare lontano” – come suggerisce il titolo.
E Chiara Dynys ci riesce, a guardare lontano: dopo un elegante dialogo con opere di Piero della Francesca al Museo Poldi Pezzoli nel 2013 o il lavoro sui Poisoned flowers (sempre presso M/77 /a St. Moritz) lo scorso anno, qui l’artista ripercorre un viaggio attraverso un cospicuo numero di immagini sviluppate attraverso medium diversi. Per la mostra Chiara Dynys ha infatti realizzato opere pittoriche; dettagli enfatizzati attraverso l’utilizzo di lenti, quasi a indicare una sorta di sfera magica; fotografie e un video in time-lapse con le varie evoluzioni del fenomeno climatico studiato. Un linguaggio di tanti elementi che raccontano un viaggio.
Rossella Farinotti
dal 5 al 11 dicembre 2016
Il Comune di Mercato Saraceno
Assessorato alla Cultura
Rad’Art Project | Associazione artéco INVITANO
Domenica 4 dicembre 2016, dalle ore 16:00
all’inaugurazione della mostra Parжour
di Chiara Pergola
alle ore 18.00: Happening
Parжourè un esercizio di indagine dello spazio urbano realizzato attraverso i più comuni dispositivi mobili ed i sistemi di georeferenziazione ad essi collegati. Aforismi tratti dal Tao Te Ching sono meditati, tradotti e riscritti fotografando e localizzando frammenti delle scritte che si incontrano lungo le vie delle città. La ricerca delle sillabe con cui scrivere il Tao costituisce una forma di “flâneurie” e di ginnastica mentale, che permette di inserire all’interno dei percorsi forzati della vita quotidiana uno sguardo interstiziale che ne ridefinisca codici, segnali, topografia.
I materiali prodotti durante la residenza presso La Chambre Blanche nel 2015, verranno presentati a Rad’Art assieme ad una installazione site-specific realizzata in loco, in cui emergono le tracce del processo di antropizzazione di un ambiente naturale.
L’installazione sarà attivata da un happening che si svolgerà alle ore 18.00
Come raggiungere Rad’Art:
Da Cesena, prendere la SS E45 fino alla seconda uscita di Borello (Bora). Procedere in direzione al centro di Borello; alla prima rotonda, prendere la seconda uscita in direzione di Piavola (SP 29); superata Piavola procedere oltre fino a San Romano. Dopo cinquanta metri del cartello che indica la località, svoltare a destra verso Pieve di Rivoschioper raggiungere San Romano alta. Dopo due tornanti in salita ed in fondo al rettilineo, parcheggiare davanti alla chiesa. Seguire a piedi le indicazioni (50 metri).
GIOVEDÌ 24 NOVEMBRE ALLE ORE 19
ALLA TRIENNALE DI MILANO
LECTIO MAGISTRALIS ORGANIZZATA DA
AFIP INTERNATIONAL
Il secondo appuntamento è con
MARINA BALLO CHARMET, PAOLA DI BELLO E PAOLA MATTIOLI.
Modera FRANCESCA PASINI
Nuovo appuntamento alla Triennale di Milano con le Lectio Magistralis realizzate da AFIP International, Associazione Fotografi Italiani Professionisti. Il secondo incontro, in programma giovedì 24 novembre alle ore 19, propone uno sguardo tutto al femminile durante il quale Marina Ballo Charmet, Paola Di Bello e Paola Mattioli, insieme alla moderatrice Francesca Pasini, rifletteranno sulla fotografia, tra esperienza quotidiana, problematiche socio-politiche e interrogazioni sul tema del vedere.
Le tre artiste sono tra le protagoniste della mostra “L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015”, alla Triennale fino al 7 gennaio 2017.
La ricerca di Marina Ballo Charmet si focalizza intorno al quotidiano, all’ordinario, sia che appartenga alla città, sia alla sfera privata, esplicitando visivamente il laterale, il “sempre-visto” e adottando uno sguardo caratterizzato da mobilità percettiva e dal fuori fuoco, laterale o dal basso – tipico della condizione infantile – che restituisce una visione fluttuante, una “percezione periferica” legata al nostro preconscio; quella di Paola Di Bello indaga alcune delle problematiche sociopolitiche che delineano la città contemporanea, entrando in situazioni di vita quotidiana, spesso caratterizzate da un profondo disagio umano, e determinando uno spostamento del punto di vista; Paola Mattioli ha affrontato temi teorici come l’interrogazione sul vedere, il linguaggio, la differenza femminile, oltre che raccontare con sguardo speculativo, lontano dal classico reportage, grandi e piccole storie, dall’Africa alle fabbriche, dal carcere all’eclissi.
L’iniziativa Lectio magistralis di fotografia e dintorni è promossa da AFIP International e CNA Professioni, realizzata in collaborazione con La Triennale di Milano, il Maxxi – Museo Nazionale delle Arti del XII secolo di Roma, Rete Fotografia e con il contributo di Asphot, Canon, Epson.
dal 21 novembre al 3 dicembre 2016
Lunedì 21 Novembre 2016, alle h. 18.00, nella Sala Eleonora d’Arborea in via Falzarego 35 a Cagliari, il Centro di Documentazione e Studi delle donne inaugura la mostra fotografica
IL CORPO E LA MASCHERA
di Marisa Lallai
Le immagini della mostra nascono dal bisogno di parlare, rievocare un periodo fecondo tra lotte e autocoscienza, dare un volto e un corpo a quegli anni ricchi di relazioni e condivisione.
Una sequenza di scatti per raccontare e ricordare il vissuto di noi donne in un momento storico importante che ci ha viste insieme, unite da un bisogno comune quello di dare espressione e vita a una nuova immagine di sé, alla propria identità nascosta.
La mostra resterà aperta fino al 3 dicembre 2016
e si potrà visitare nei giorni e nelle ore di apertura del Centro
Mattina h. 9.45-13.00 – dal martedì al venerdì
Sera h. 16.00-19.30 – martedì e giovedì
Centro di Documentazione e Studi delle Donne
Cooperativa La Tarantola Via Falzarego 35 – 09123 Cagliari
Tel. 070 66.68.82
dal 22 ottobre al 26 novembre 2016
Chiostro arte contemporanea, Saronno, viale Santuario 11
Il Chiostro arte contemporanea inaugura la stagione con una mostra nell’ambito del suo ciclo di “dialoghi a tre”. Sono collettive concentrate sull’incontro ideale fra artisti diversi per linguaggio, ma accomunati da tematiche o corrispondenze iconografiche ed è il colore grigio che accomuna alcune delle serie condotte dagli artisti scelti per la mostra. Arcangelo e Paola Mattioli espongono già da anni con la galleria, mentre Lucio La Pietra entra per la prima volta negli spazi del Chiostro, riempiendoli con il vibrante e denso mondo di segni e suoni delle sue videoinstallazioni.
“Scala di grigio” è il titolo della mostra, perché quasi tutte le opere, con un solo paio di eccezioni volute, sono modulate su un pentagramma di note di grigio. Nell’ambito pittorico la creazione del colore Grigio è stato per secoli sottoposto a teorie e a sperimentazioni. La concezione classica considera il grigio come un “bianco sporco”, quindi ottenuto aggiungendo al colore Bianco quantità variabili di colore Nero. Tuttavia, esistono altri metodi per ottenere il Grigio: è il caso del grigio ottenuto mescolando in quantità uguali i tre colori primari (Blu, Rosso e Giallo). Insomma è un colore neutro, ma anche ambiguo nelle sue variabili apparentemente infinite.
Questa mostra vuole essere l’occasione di verificare, attraverso il lavoro di tre artisti che usano media molto diversi, come l’espressione possa passare per un linguaggio basato sul segno e sulla gradazione luminosa, non necessariamente illuminata dal cromatismo. Le luci e le ombre costituiscono, infatti, il lessico delle opere in mostra, sebbene il loro dialettico rapporto venga declinato da ciascun artista secondo le proprie inclinazioni.
I quadri di Arcangelo, scelti tra quelli realizzati nella decade tra metà anni Ottanta e Novanta, con l’intento di ripercorrere una fase importante dell’artista, sono un travolgente fiume di materia pittorica che storicamente reagisce al concettualismo degli anni Settanta, ma diviene una rappresentazione pittorica anche e proprio di tale esperienza. La pittura di Arcangelo accoglie in sé un codice di linguaggio essenziale, per quanto evocativo e struggente nei suoi rimandi alla terra d’origine dell’artista, il Sannio.
Luci, sagome e buio, ecco gli elementi che contraddistinguono alcuni lavori di Lucio La Pietra, artista video e filmaker di successo per le redazioni più giovani della televisione. I ritmi de “La Città che scorre” sono infatti quelli incalzanti della città attuale, ma anche nella videoinstallazione “…ma l’amor mio non muore..”, dedicata all’isola di Filicudi, si é testimoni di un breve e folgorante accadimento, che porta a riflettere sulla fragilità dei luoghi incontaminati. “I miei monumenti” è un video dedicato ad alcuni simboli della nostra società, con tutto il loro portato di memoria. La quarta produzione voluta per la mostra è “Neoeclettismo”, in cui l’affastellamento di figure e segni grafici ci racconta della bellezza di una cultura aperta a tutte le influenze. I video sono redatti in bianco e nero, quasi un manifesto di scrittura per Lucio La Pietra, capace di fermare lo sguardo di chiunque passi vicino alle sue opere, come un mago, quasi un moderno sciamano digitale.
Per Paola Mattioli, celebre Signora della fotografia italiana, assistente di Ugo Mulas e quindi protagonista in una Milano intensa e politica, gli scatti in bianco e nero sono una parte sostanziale della sua ricerca. Sono stati scelti con l’artista una triade di immagini del gruppo “Capolavoro”, con visioni astratte della materia ferrosa: i minuti interstizi del freddo metallo divengono nuvole poetiche e volatili, come per le “Eclissi” fotografate nel 1999 a Sant’Anna di Stazzema. La componente ironica e affascinante di Mattioli è invece presente nella sequenza “Shangai Express”, dove il soggetto è l’ombra, ambigua e danzante, delle sue stesse mani che fotografano.
L’allestimento scelto dalla curatrice e dalla gallerista Marina Affanni propone un dialogo tra le opere dei diversi artisti e ne nascono affascinanti accostamenti. Ad accompagnare la mostra sono le voci degli stessi autori che raccontano di alcuni aspetti della loro ricerca in un’intervista condotta da Cristina Casero, che così ha voluto rafforzare la coralità visiva delle opere.
Arcangelo
Nasce ad Avellino nel 1956. Studia all’Accademia di Belle Arti di Roma. Nel 1981 decide di trasferirsi a Milano dove conosce e frequenta numerosi artisti. Sono questi gli anni in cui Arcangelo va elaborando una pittura scura, una vena personalissima e riconoscibile che, pur nascendo nel clima artistico dominato dalla Transavanguardia, si precisa fin da subito per il forte legame con le suggestioni derivanti dalla sua terra d’origine.. Negli anni ’80 nasce il primo ciclo di lavori intitolato “Terra mia”, col quale partecipa alla collettiva “Perspective”, in occasione di Art Basel, Basilea. Seguono le personali alla Galleria Tanit di Monaco di Baviera e alla Galleria Buchmann di Basilea e la collettiva “Nuovi Argomenti” al PAC di Milano. Espone in mostre personali alla Galleria Janine Mautsch di Colonia, Harald Behm di Amburgo e Klaus Lupke di Francoforte. Nel 1987 espone al P.A.C. di Milano, al Museum der Stadt di Esslingen, alla Galerie Maeght-Lelong, Paris e alla Edward Totah Gallery, Londra, dove Arcangelo apre un suo studio londinese. E’ il periodo di una pittura cromaticamente ridotta ai soli pigmenti del bianco e del nero, con l’ausilio di una componente fortemente gestuale e con una particolare attenzione verso i materiali, che lo avvicina semmai alla sensibilità degli artisti Poveristi. Arcangelo afferma infatti un’appartenenza tutt’altro che folkloristica alle sue radici. Il suo Sannio, terra aspra e dura, celebrata in molte sue visioni, è una zona geografica di stratificazioni multiple, un crocevia di culture e di storie che serba traccia dei popoli che vi abitarono: dai sanniti ai romani, dai longobardi ai bizantini. La continuità e la coerenza del lavoro, nei successivi dieci anni, non gli impedisce di apportare varianti anche significative alle sue opere, che si caratterizzano come veri e propri cicli: le Navi, le Montagne, gli Altari, i Misteri, Verso Oriente e Tappeti Persiani. La superficie si frantuma, entra qualche colore, si raggruma nuovamente, si copre di scritte, viaggi attraverso tutti i “luoghi lontani” del mondo. Oggi antichi segni e nuovi pittogrammi si affastellano sulle tele dell’artista, completando l’alfabeto pittorico che ha reso riconoscibile ed unico il suo stile.
Lucio La Pietra
Nato a Milano nel 1977 é laureato in Design al Politecnico di Milano. Lavora e sperimenta nel campo delle arti visive. E’stato docente all’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha fondato un’agenzia di grafica, una casa di produzione video e un fablab. Ha esposto le sue video installazioni alla Triennale di Milano, alla Galleria Cà di Frà di Milano, al Museo Maxxi di Roma, al Museo MAGA di Gallarate, alla Biennale d’Arte di Filicudi.
Paola Mattioli
Nata a Milano nel 1948, si è laureata in filosofia con una tesi sul linguaggio fotografico. Da molti anni si dedica professionalmente alla fotografia di ritratto, ma affronta anche i temi legati alla visione critica, alla complessità del linguaggio visivo e alla specificità di quello femminile, a grandi e piccole storie che affronta con uno sguardo lontano dal classico reportage, con una sottile distanza che mette in gioco con leggerezza e rigore. In ogni sua ricerca emerge la costante riflessione intorno al senso del vedere e del fotografare: un tenace filo rosso che lega gli uni agli altri tutti i suoi lavori. Del suo lavoro è lei stessa a dire di aver scelto di stare contemporaneamente su due piani, uno narrativo e uno concettuale. Nel primo caso privilegia storie connotate da forti nodi tematici, talvolta di impronta sociale o politica; in questo ambito si inscrive anche il ritratto che considera una sintesi di ciò che una persona mostra come suo punto centrale. Alla dimensione concettuale appartiene, invece, lo sguardo che si interroga su quanto sta facendo, la volontà di accostare visioni e linguaggi diversi in una sintesi in cui finalmente si riconosce. Tra i soci fondatori dell’associazione AMICI del Museo di Fotografia Contemporanea, collabora alla rivista “via Dogana” della Libreria delle Donne di Milano e conduce un insegnamento di fotografia al corso di Psicologia e comunicazione dell’Università Milano Bicocca. Ha esposto in diverse mostre personali e collettive fra cui Immagini del no (1974), Donne allo specchio (1977), Cellophane (1979), Ritratti (1985), Statuine (1987), Ce n’est qu’undébut (1998), Trieste dei manicomi (1998), Un lavoro a regola d’arte (2003), Regine d’Africa (2004), Perturbamenti (2005), Donne Donne Donne (2012). Tra le sue pubblicazioni Ungaretti, lettere a un fenomenologo (Scheiwiller, 1972), Ci vediamo mercoledì (Mazzotta, 1978), Donne irritanti (Federico Motta, 1995), Regine d’Africa (Parise, 2004), Fabbrico (Skira, 2006), Dalmine (Skira, 2008), Una sottile distanza (Electa, 2008). Nel 1996 ha vinto il Kodak European Gold Award per l’Italia.
da il manifesto
All’origine del razzismo per Betye Saar c’è soprattutto l’azzurro sporco di una piscina. «Il Brookside Park di Pasadena aveva una piscina. Era aperta per i bianchi tutti i giorni della settimana tranne il martedì, quando i bambini neri o di qualsiasi altra razza potevano usarla: il mercoledì avrebbero cambiato l’acqua». Una volta cresciuta, abituata fin dall’infanzia a saper fare con le proprie mani tutto (madre cucitrice e nonna che realizzava trapunte per racimolare qualche soldo durante la Depressione), Saar cominciò a collezionare immagini dispregiative della comunità african american. Intensificò quell’attività soprattutto dopo l’assassinio di Martin Luther King. Raccoglieva nei mercati bambolette stereotipo, uncle Tom, Mammy, Pickaninny (i ragazzini «negretti»). E poi attraverso un assemblaggio beffardo e ironico, cominciò a proclamare la loro «liberazione» da quella schiavitù dell’immaginario. Nacque così una delle sue opere più conosciute, The liberation of Aunt Jemina (1972) dove la zia – epiteto che sottolinea un destino di servitù – si lancia verso una nuova vita brandendo da un lato la scopa e, dall’altro, un fucile. Avanza irridente su uno sfondo di figure pubblicitarie incentrate sulla sua stessa icona (è un logo per pancake ancora oggi).
Le opere dell’artista Betye Saar, nata a Los Angeles novant’anni fa (1926), sono esposte per la prima volta in Italia, presso la Fondazione Prada di Milano nella mostra antologica Uneasy Dancer. Curata da Elvira Dyangani Ose, riunisce più di ottanta opere tra installazioni, assemblage, collage e lavori scultorei, realizzati tra il 1966 e il 2016.
The liberation of Aunt Jemima, 1972
La «danzatrice incerta» del titolo è naturalmente lei, sorta di sciamana che colleziona memorabilia, sbircia tra le pieghe di credenze e religioni del mondo, apre valigie dimenticate da parenti e sconosciuti per creare le sue sculture sorprendenti, in cui la memoria storica confluisce in quella privata, restituendo un’identità a chi sarebbe rimasto nell’ombra, anonimo. Ogni oggetto condensa in sé un saggio di antropologia e, insieme, abita una Wunderkammer, un gabinetto delle curiosità puntato sulla blackness. È una camera delle meraviglie attiva, dato che sollecita il potere della consapevolezza. I collage di cianfrusaglie – allestiti come fossero in un museo etnografico – sprigionano una energia inusuale, ricollegano il visitatore con un patrimonio collettivo di immagini, sensazioni, album sentimentali. Scorre la controstoria dell’identità della donna (in particolare nera), ma anche la galleria tipologica della schiavitù e il ritratto del razzismo americano. È in atto un processo cognitivo alternativo che usa l’umorismo per allertare la coscienza. Attraverso i meccanismi del comico, come diceva Bergsson, ci si risveglia dall’anestesia del cuore.
D’altronde, Betye Saar è considerata una pioniera del Black Arts Movement e anche una veterana del pensiero femminista afroamericano. Lei, in realtà, sostiene di aver fatto solo la sua arte e che altri «hanno deciso di trasformarla in una militante». E guai a definire i suoi lavori femministi: l’arte va per la sua strada. «Per me il femminismo è una sorta di umanesimo. Il fatto di accettarsi e sapere che andiamo bene così come siamo…L’obiettivo è essere fedele a me stessa». Eppure, Saar in quasi mezzo secolo di produzione creativa ha azzerato il linguaggio corrente e riformulato un immaginario a partire da sé e dalla sua comunità. Il suo archivio di rappresentazioni orrifiche (dai linciaggi ai cliché razzisti) messo in sequenza e assemblato in forme inedite ha spostato l’attenzione, trasfigurato e disperso gli stereotipi, smascherato il dispositivo del razzismo iconografico.
L’artista Betye Saar, oggi novantenne
Tutto, nella sua estetica, gravita intorno all’esistenza quotidiana delle donne nere, spesso con tocchi esoterici, poiché spiritualità e magia hanno un peso non indifferente nella vita di Saar. Anche quando sceglie un oggetto nei mercatini delle pulci (è stata la prima cosa che a voluto fare una volta arrivata a Milano) deve «sentire» la sua anima. Fin da piccola l’artista disegnava, ma soprattutto faceva «cose», manipolava la realtà in finzione. Da grande, saranno gli oggetti vecchi e le fotografie ad appassionarla, «ogni mia opera nasce sempre da una combinazione di quei materiali», dice.
L’ispirazione per quel bricolage viene da lontano. «Mia nonna viveva a Watts (uno dei distretti di Los Angeles fra i più poveri, abitato dalla comunità nera e teatro di scontri violenti nel 1965, ndr) e quando ero bambina andavo a trovarla. Vedevo Simon Rodia che costruiva le Torri di Watts, ero affascinata dalla loro struttura. Una volta adulta, sono andata a studiarle: ero catturata dai materiali e da quella meravigliosa architettura. L’uso degli scarti riciclati di Rodia, cose come piatti rotti, mi hanno guidata verso la ricerca dell’objet trouvé». E l’altro nume tutelare è, dichiaratamente, Corneille con le sue scatole-mondo.
Attraversando le sale della Fondazione Prada, si viaggia migrando con le popolazioni africane alla volta dell’America, si sogna quell’Alpha e Omega dell’esistenza umana raffigurata con barche sospese nel blu e con palle di vetro per predire il futuro (che rimandano anche alle catene della schiavitù), si soffre per la segregazione fra le gabbie, ci si commuove di fronte ai ricordi della zia Hattie, un «memorial» intimo contenuto all’interno di una polverosa valigia. E si strofinano i panni dei bianchi insieme all’archetipo delle Mammy.
Ma l’America di oggi, come la giudica Saar? «Il presidente Obama è una persona intelligente, capace di prendersi cura del prossimo: ha cercato di aiutare chi non ce la faceva da solo. Il suo fallimento è dovuto alla miopia di chi non ha voluto accettare la sua visione. Gli Stati Uniti sono ancora adesso il miglior paese, nel bene e nel male. Il razzismo è un problema che riguarda tutti e stiamo ancora cercando di risolverlo».
(il manifesto, 4 ottobre 2016)
da collezionedatiffany.com
Nata a Monza nel ’38, LeoNilde Carabba può definirsi “una pittrice ed una viaggiatrice che ama esplorare territori e varcare confini”. Artista di fama internazionale e attiva collaboratrice del Movimento delle Donne, ha mosso i suoi primi passi nella Milano degli anni ’60 lavorando al fianco di artisti come Lucio Fontana, Hsiao Chin, Roberto Crippa, Enrico Baj e Piero Manzoni. Figlia di un ingegnere chimico dalla grandissima cultura umanistica e di una pianista di origine dalmata, LeoNilde Carabba è state tra le poche protagoniste femminili ed emergere in quella che si può definire come una delle stagioni più innovative dell’arte italiana ed internazionale. In questa intervista ci racconta 56 anni di carriera caratterizzati da una continua e instancabile sperimentazione perché, come dice lei stessa, “la vita comincia ad ogni momento”.
Fabio Agrifoglio: Come nasce LeoNilde Carabba artista?
LeoNilde Carabba: «L’Arte è entrata nella mia vita con la forza di una rivelazione assoluta. Ero ancora al Liceo Internazionale ed ho capito subito che niente sarebbe più stato come prima. Avevo trovato un centro. Una ragione per esistere. Diventare Artista è stato poi un processo lungo e travagliato, con battute d’arresto e crisi, ma il dubbio non si è mai inserito, neppure nei momenti più difficili, in questo costante processo evolutivo che mi ha portato dal Buio alla Luce. E quando parlo del buio mi riferisco alle Opere dei primi anni ’60, ben rappresentate dal catalogo della mostra presentata da Baj, Crippa e Fontana al Cenobio-Visualità di Milano nel 1964. In queste opere si sente l’influenza di Antonio Recalcati, che avevo conosciuto e frequentato all’inizio della mia avventura, così come si percepisce l’influenza di Jean Dubuffet, che avevo visto in una mostra a Parigi. Queste opere rappresentano bene il tormento interiore in cui mi aveva gettato una difficile situazione familiare».
F.A.: Hai iniziato giovanissima con un padrino di eccezione: Hsiao Chin. Ci puoi parlare della tua prima personale alla GalleriaNumero di Firenze nel 1961?
L.C.: «Come dice Angela Vettese nel suo bellissimo libro “Artisti si diventa”, il gruppo all’inizio del proprio percorso artistico è importantissimo. Hsiao Chin, Alfredo Pizzo Greco, Pia Pizzo ed io ci vedevamo moltissimo. Hsiao era certo quello più affermato ed era fidanzato con Pia Pizzo che poi sposò. Con Alfredo, fratello di Pia, avevo una relazione poetica, nel senso che passavamo ore a leggerci a vicenda le nostre poesie ed io conservo ancora le mie scritte a macchina con le annotazioni a matita di Alfredo. Andavamo assieme alle inaugurazioni e discutevamo per ore del nostro lavoro e di quello degli altri. Una fucina di idee e da questo nacque l’opportunità della mia prima mostra alla Galleria Numero di Firenze su indicazione e presentazione poetica proprio di Hsiao Chin».
F.A.: Scrisse di te Lucio Fontana: “Da più di un anno conosco gli “esseri” di Carabba, non sono mostri né fantasmi, sono esseri intelligenti che ti fanno meditare, sono opere d’arte riuscite”…
L.C.: «Fontana era un signore, generoso ed affabile. Un altro signore era Jean Fautrier, che mi comprò un quadro nel 1964. Una persona importantissima nella mia evoluzione fu poi Pierre Restany, conosciuto da Guido Le Noci della Galleria Apollinaire, una delle gallerie più raffinate di tutta Milano. Da Le Noci incontrai Christo e Jeanne Claude, che poi furono ospiti da me a Roma quando vivevo in una grande casa con Shaila Rubin, cineasta americana. Ho rivisto poi Christo e Jeanne Claude a New York nel 1983, dove fui loro ospite per tre settimane con Serena Castaldi, amica del Movimento delle Donne».
F.A.: Sul catalogo della stessa mostra Roberto Crippa scrisse: “E’ nostra intenzione trovare in noi stessi, dopo le esperienze accademiche che hanno determinato la prima formazione pittorica, un discorso da comunicare con mezzi assolutamente nostri, partire spogliandosi completamente da qualsiasi richiamo o suggerimento, che può venire da altri pittori e da altre scuole, interpretare la realtà del nuovo uomo che ci sta davanti e il suo rapporto con l’ambiente in cui si muove”…
L.C.: «Roberto era un fratello maggiore. Il nostro era un rapporto semplice, cordiale. Diventare artista nella Milano e nella Roma degli anni ’60 era una grande fortuna. Il mondo dell’Arte era aperto, raggiungibile, generoso. Piero Manzoni fu per me un grande amico. Lo andavo a veder stampare in quella che poi divenne la serigrafia Perini, dove stampai a lungo anch’io. Lo incontravo al bar, io bevevo un cappuccino e lui un Pernod: è come se in questo ci fosse la rappresentazione simbolica della distanza tra l’artista di avanguardia e la ragazza di buona famiglia che si sta inoltrando in questo mondo sconvolgente. Anche Tancredi fu per me molto importante, inizialmente più dal punto di vista umano che pittorico, ma tanti anni dopo, quando lui era ormai morto ed io vivevo in California, mi accorsi che avevo appreso molto da lui sul piano tecnico delle velature e del lirismo».
FA: Risale al ’65, invece, la collettiva alla Bianco e Nero di Roma con Accardi, Afro, Burri, Dorazio, Tancredi, Capogrossi…
L.C.: «Nel 1962 mi trasferii a Roma dove conobbi Giulio Turcato, Pino Pascali, Mario Schifano e tutti quelli che gravitavano attorno alla Galleria La Tartaruga. Fui molto amica di Antonino Virduzzo, eccellente incisore italo-americano. Fu lui a presentarmi alla direzione della Galleria il Bianco e Nero. Ero coi “Grandi”, ma lo consideravo naturale e solo ora mi accorgo di quanto fosse eccezionale. A Roma fu molto importante per me l’incontro con Topazia Alliata di Salaparuta. Era direttrice artistica della Feltrinelli e feci con lei una breve, ma entusiasmante mostra: Il quadro della settimana (1964). La considero, come si dice nel Movimento delle Donne, una Madre simbolica. Mi aiutò a crescere come artista e fu un punto di riferimento per la mia famiglia, che era solidale con me, ma inquieta per le mie scelte eterodosse. Tramite lei feci una personale al Bilico con il testo introduttivo di Luciano Inga-Pin».
F.A.: Poi, nel ’67, la personale alla Galleria Vismara di Milano seguita, l’anno successivo, da Acrom con Marrocco, Morandini, Fascetti, Del Pezzo, La Pietra…
L.C.: «Sì, la mostra dalla Vismara fu un successo di critica, di pubblico e di collezionisti. Ebbi anche una breve nota di Dino Buzzati sul Corriere. Cominciò allora la mia collaborazione con gli Architetti Salvati e Tresoldi. La mostra Acrom, del 1969, fu la diretta conseguenza della mia relazione professionale con lo Studio Salvati Tresoldi, dove si tenne la mostra. Ma più che la mostra Acrom fu importante la mostra Dal Segno all’Oggetto a cura di Gualtiero Schönenberger alla Galleria Cadario di Caravate nel 1969. La mostra era concepita con Lucio Fontana e Bruno Munari come maestri – ospiti d’onore come dice Schönenberger nell’introduzione – e 35 artisti che in qualche modo appartenevano all’una o l’altra scuola. Per Fontana lo spazialismo e per Munari il Gruppo MAC. Con Fontana troviamo Getulio Alviani, Enrico Baj, Agostino Bonalumi, Lucio Del Pezzo ed altri. Con Munari ci sono io, unica donna, Enrico Castellani, Mario Ceroli, Ugo La Pietra, Mario Schifano, Ettore Sordini, Arturo Vermi ed altri».
F.A.: A Capogrossi sembra avvicinarsi il tuo tratto stilistico di questo periodo: il modulo di Nilde Carabba. Puoi descriverci le tue opere di metà anni ’60?
L.C.: «Ne parla benissimo Riccardo Barletta nella sua presentazione alla mia bi-personale con Thea Vallé sia alla SM 13 di Roma che alla Galleria San Carlo di Napoli. “Una giovane artista che ha sentito dentro di sé l’urgenza dell’archetipo è Nilde Carabba. Il suo archetipo è costituito dalla lettera greca, maiuscola, <fi>. Figurativamente ha la forma di un anello circolare tagliato in mezzo da una verticale. Analogamente a lei Capogrossi usa della lettera greca <psi>: però, direi, minuscola. Due segni, due simboli, antichissimi. L’archetipo di Nilde Carabba tagliato per metà dà l’archetipo di Capogrossi. Naturalmente non vi è altro possibile parallelismo tra la Carabba e Capogrossi: la prima operante su un impianto simmetrico…” Testo di grande cultura e comprensione dell’opera, ma la cosa più interessante e il suo valore, direi quasi di preveggenza, è quando dice: “Nilde Carabba chiede all’arte un contenuto oltre la sensazione che risolva la crisi antropologica sua e dei suoi contemporanei. In concreto, analogamente al <mandala>, produce un oggetto che, sviluppando la contemplazione e la concentrazione, ecciti gli uomini a questi esercizi ormai disusati. Lo scopo è chiaro e preciso. La strada è lunga, difficile ed irta. L’ <illuminazione> – lo scopo del buddismo – viene qui raggiunta soprattutto sul piano oggettivo”. Quello che io considero preveggenza è che in quegli anni io mi consideravo atea, ma poi la ricerca spirituale divenne uno dei cardini della mia vita».
F.A.: Un modulo, il tuo, che peraltro sembra rappresentare l’unione del simbolo maschile e del simbolo femminile…
L.C.: «Sì certo, ma era ancora del tutto inconscio che, con gli anni, diverrà pienamente consapevole grazie anche alla mia analisi individuale Junghiana ed al mio forte interesse rispetto a tutto quello che era connesso con il simbolo e con la spiritualità. La mia ricerca artistica di quegli anni rifletteva moltissimo la mia ricerca interiore. Il matrimonio mistico divenne molto importante e spesso citato nelle mie dichiarazioni di poetica. E alla base della mia ricerca del “Matrimonio Mistico” è anche nuovo modo che adottati per scrivere il mio nome: LeoNilde. Sottolineando così, nel nome come nel mio destino, la presenza di una radice maschile ed una femminile che si incontrano e, sul piano dell’anima, si sposano. Se, d’altronde, sei un essere consapevole e sei donna nel mondo dell’uomo prima o poi devi porti la domanda se vuoi essere una donna colonizzata, nelle sue varie forme, o se vuoi iniziare quel “Viaggio Alchemico” che ti porterà ad essere totale. Iniziare il viaggio alchemico significa esprimere nella sua totalità sia la parte maschile che la parte femminile di sé.».
F.A.: Ci fu un momento di questa tua ricerca interiore che segnò fortemente la tua carriera artistica?
L.C.: «Probabilmente fu nel 1974, quando la Galleria Fumagalli di Bergamo, nella persona del suo fondatore Alberto Fumagalli, mi rescisse il contratto perché non ero d’accordo a mantenere per sempre uno stile riconoscibile nell’optical geometrico. Certamente persi una grande occasione sul piano del mercato, ma non ero pronta e disposta ad un’operazione di stile. Il “Viaggio Alchemico” è un incessante labirinto in cui ti perdi e ti ritrovi e stranamente adesso che ho fatto l’intero percorso e permesso a parti vulcaniche di me di venire alla luce, sono di nuovo interessata alle mie geometrie mentalmente lucide degli anni ’70 ed ho intenzione di riprendere dei modelli che allora erano monocromi e rifrangenti e aumentarne la complessità rendendoli non solo rifrangenti, ma anche fluorescenti e fosforescenti. Cosa che ho iniziato a fare nel 1995 come chiara evoluzione proprio delle rifrangenze degli anni ’70 e dell’uso di foglia d’oro, d’argento e di rame. Come dice Cristina Muccioli di me: voglio portare il Cielo sulla Terra per illuminare il cammino».
F.A.: Ma esiste anche un tratto sociale comune e costante della tuo percorso. Penso per esempio alla vicinanza al Movimento delle Donne.
L.C.: «Il “Viaggio Alchemico” è iniziato nei primi anni ’70 con il mio coinvolgimento nel Movimento delle Donne dove porto anche il mio essere artista. Nel 1975 organizzai e curai l’edizione di una cartella di grafiche di 9 donne per collaborare al reperimento di fondi per la creazione della Libreria delle Donne. La cartella venne presentata da Lea Vergine. Nel 1976 a Roma con Carla Accardi, Suzanne Santoro, Eva Menzio e altre fondai la Cooperativa Beato Angelico: una proposta “irregolare” per recuperare uno spazio al “femminile” per le donne che si muovono nell’ambito delle arti figurative. Attualmente, per continuare il discorso, sono da circa due anni Curatrice di mostre di Donne per una piccola galleria all’interno del centro L’Alveare».
F.A.: Se non ricordo male esiste anche un tuo momento di riflessione interiore che sfocerà in una profonda revisione, anche stilistica, delle tue opere…
L.C.: «Il Movimento delle Donne aveva messo così in crisi la mia idea di me che nel luglio 1976 iniziai una terapia Reichiana di gruppo con Alberto Torre, grande maestro. Questa terapia mi condurrà a recuperare le parti di me negate. Nello stesso periodo, si inserirà l’analisi Junghiana individuale con la compianta Rosanna Mannini, spirito lucido e ironico che mi ha insegnato a sdrammatizzare e a raffinare le mie capacità di pensiero. Contemporaneamente alle terapie psicologiche fui influenzata dal rapporto con Tina Sicuteri, anche lei compianta, che mi condusse allo studio dell’astrologia, che tanto arricchirà il mio lavoro creativo e poi mi porterà a recuperare le mie lontane origini ebraiche con lo studio della Cabala».
F.A.: La Cabala divenne peraltro centrale nella tua espressione artistica…
L.C.: Sì, lo studio della Cabala si ripercosse nella mia pittura, composi La Stella Polare e l’Albero della Vita, presentato la prima volta alla bella mostra: “Misure Celesti” a cura di Viola Lilith Russo per D’ARS alla ex-chiesa di San Francesco a Como. A questa mostra parteciparono molti artisti di livello internazionale tra cui Tobia Ravà, Héléne Foata, Anna Finetti, Marco Brianza ed altri. Poi realizzai i grandi quadri della Mostra La Musica delle Sfere, presentata dalla Bossaglia alle Segrete di Bocca. Questi quadri sono ispirati e dedicati agli Arcangeli della Cabala con la chiara intenzione di creare, entrando in uno spazio di comunione con le forze spirituali attivate dagli Arcangeli. Studio più che altro da sola, ma ho anche fatto esperienze di gruppo: un gruppo di calligrafia ebraica di dieci giorni nei Pirenei, alcune lezioni con Nadar Crivelli».
F.A.: Come ti vedi oggi dopo oltre cinquanta anni di carriera artistica?
L.C.: «Sono un essere fortunato, ho avuto Grandi Maestri in famiglia e fuori, nel grande mondo, e sono grata perché il mio sentiero è ancora in piena evoluzione e ancora non so bene cosa sarò da grande. Mi riconosco, però, il coraggio che, essendo un po’ esagerata, è spesso sfociato nell’incoscienza. Per questo ho pagato grandi prezzi, ma ne valeva la pena perché senza crisi non si evolve. Nella mia vita ho fatto, visto, capito, creato, amato, sofferto così tanto che potrei anche morire e proprio perché potrei morire posso vivere e continuare il cammino, esplorando nuove forme che già percepisco, ma ancora precisamente non so».
Fabio Agrifoglio: Nato ad Arenzano nel 1962, libero professionista, si occupa principalmente di progettazione di sistemi intranet. Vive e lavora tra la Brianza e la Lunigiana ed è presidente della ‘Fondazione Mario Agrifoglio’, organizzazione nata per preservare e valorizzare le opere di Mario Agrifoglio e per promuovere tutte le espressioni artistiche della black light art.
dal 27 settembre al 5 novembre 2016
Galleria San Fedele in collaborazione con la Nuova Galleria Morone
«I grovigli esprimono la mia tensione verso altri spazi» diceva Maria Lai. Nei primi anni Sessanta le sue mani hanno cominciato a intessere storie misteriose. Storie fatte di uomini fortemente legati alla terra. Ma anche di uomini tesi a elevare il proprio spirito verso nuove dimensioni.
Signora dell’arte, dei fili e dei telai. Signora delle montagne, nella Sardegna rupestre, Maria Lai (1919-2013) è stata una delle interpreti più intense nel mondo della ricerca estetica contemporanea. Un’artista lontana dalle mode, difficilmente riconducibile a un gruppo o a un movimento, ma il cui carisma l’ha consacrata nell’empireo dei grandi nomi del Novecento. La Galleria San Fedele, nell’ambito del suo programma dedicato ai maestri dell’arte contemporanea votati a una dimensione profonda della ricerca spirituale ed estetica, presenta un omaggio a questa grande autrice.
I temi eterni dell’identità, delle origini, della femminilità e della memoria; i temi celesti, i motivi cosmici, le geografie di un universo parallelo, sono alla base di un nucleo di opere popolate di spiriti benigni, di donne e pastori. Abilissima nel passare dal piccolo formato dei libri di cotone, cuciti con testi segreti e sacri, alla dimensione monumentale della land art, ha firmato installazioni e performance, come la celebre Legarsi alla montagna, del 1981, in cui stese un lunghissimo nastro celeste per unire le case del paese di Ulassai alle rocce del Tacco, ossequio alla natura, un rito collettivo per scongiurare frane e sigillare con la montagna un patto di convivenza.
Meraviglioso il valore sacrale conferito da Maria Lai al nastro e al tessuto, simboli di comunione e testimoni dell’origine antropologica del legame sancito fra l’uomo e il paesaggio che lo accoglie. La mostra, promossa dalla Galleria San Fedele in collaborazione con la Nuova Galleria Morone, vede le opere di Maria Lai al centro di alcuni dialoghi ideali fra passato e presente. Ecco allora i suoi libri cuciti accostati a volumi d’epoca, conservati presso le collezioni della Fondazione Culturale San Fedele, fra cui alcuni antifonari del XVIII secolo provenienti dalla distrutta chiesa di Santa Maria della Scala e oggi in San Fedele e un prezioso codice miniato del Quattrocento, libro di preghiere vergato a sud della Francia. Le sue “geografie” incontrano le mappe del padre gesuita tedesco Athanasius Kircher nel un suo bellissimo libro illustrato sulla Cina antica (China monumentis), pubblicato ad Amsterdam nel 1667.
Lungo quello che lei stessa definì un «filo del mistero teso fra terra e cielo», si dipanano altri dialoghi virtuosi, che rappresentano tasselli importanti di storia dell’arte del secolo scorso. Il dialogo fra Maria Lai e Jorge Eielson, maestro peruviano con cui siglò una vera amicizia e un confronto critico stimolante per entrambi. Tre opere di Eielson sono concesse in prestito dalla galleria Il Chiostro Arte Contemporanea di Saronno. Altro dialogo poi con le ricerche spazialiste di Lucio Fontana: un viaggio oltre la dimensione dell’opera scavata in profondità, verso l’eterno e verso l’infinito, che Maria intraprese con i suoi fusi, i pettini, gli aghi, muovendosi piano dentro la scatola aperta di un telaio: universo domestico denso di umori feriali e, insieme, di tensione mistica verso un luogo dello spirito dove convergono tutti i fili dell’esistenza.
Si ringraziano
Collezione Consolandi
Fondazione Marconi
Fino a sabato 5 novembre 2016 dal martedì al sabato 16.00/19.00
l’evento di benvenuto per i nuovi iscritti organizzato dal Dipartimento di Filosofia, la biblioteca ospita nell’antica Ghiacciaia, ,“Soffioni sospesi” (orari: lun.-gio. 9.00-17.45; ven. 9.00-16.00), la mostra delle opere dell’artista Antje Stehn.
L’opera centrale esposta è costituita dall’installazione di una sfera fatta di 5000 soffioni raccolti a Milano. La mostra si arricchisce inoltre di una dozzina di libri d’artista che rimandano, con un linguaggio molto personale, alla poetica che anima il pensiero dell’artista e il suo rapporto con la natura. Le opere sono affiancate da brevi testi, scritti da studenti di filosofia, che entrano nel gioco immaginario qui proposto e lo moltiplicano per lo spettatore.
dal 7 al 22 ottobre 2016 inaugurazione
7ottobre 2016 ore 18 Nadia Magnabosco e Marilde Magni
City Art Via Dolomiti 11 20127—Milano
Accumuli, ossessioni e contaminazioni creazioni di altri mondi
a cura di Micaela Mander
Nadia Magnabosco e Marilde Magni tornano con una doppia personale in cui è possibile ritrovare temi e modi costanti nella loro produzione; altrettanto costante è sempre stato il loro riflettere sull’attualità, e ciò rende la mostra allestita negli spazi di City Art unica e nuova: se da un lato il titolo dell’esposizione è calzante con il loro modo di procedere, appunto per accumuli di materiali, per il ricorrere di ossessioni, soprattutto inteso quale continua riflessione sul ruolo femminile, e per le contaminazioni di oggetti, tecniche, materie diverse, dalla carta agli scontrini, dall’oggetto trovato e reinterpretato, dalla pittura alla scultura all’assemblaggio al libro; d’altro lato, intensa è la denuncia verso quanto sta accadendo nel mar Mediterraneo, le morti in mare, la tragedia di chi parte e non ce la fa, di chi arriva ma viene respinto, e anche di chi resta, soprattutto madri, e non ha più notizia di quei cari che il mare ha risucchiato, nell’indifferenza di troppi e nell’incapacità – o non volontà – dei governi occidentali di proporre valide soluzioni. Allora il sottotitolo della mostra, creazioni di altri mondi, non solo allude alla capacità dell’arte di dare vita a un’opera che è un mondo nuovo, un racconto che, grazie al fare dell’artista, prima non c’era e ora c’è, ma è soprattutto un invito a creare un nuovo occidente possibile, un mondo che non respinga, ma accolga, una babele di lingue e di esperienze il cui intreccio possa generare un colorato mondo di pace.