da doppiozero.com
Paola Mattioli appartiene a una generazione che è anche la mia, che si è nutrita dei saperi delle precedenti contestando però radicalmente quanto di autoritario c’era nella nozione stessa di “maestro”. Nel tempo e mentre la storia sconfiggeva molti nostri progetti senza smentirli, donne come Paola, come ha ben mostrato Cristina Casero nel bel libro che le ha dedicato (Paola Mattioli. Sguardo critico di una fotografa, Postmediabooks, Milano 2016, € 16), sono diventate punti di riferimento nel loro costante approfondimento di una ricerca i cui presupposti sono sorti negli anni fra il ‘68 e i ‘70.
Paola Mattioli ha una formazione filosofica, sviluppata nell’ambiente che intorno ad Enzo Paci e alla rivista “aut aut” ha introdotto in Italia la fenomenologia e ha applicato il suo metodo anche allo studio del marxismo: con una forzatura potremmo dire che una nozione centrale della fenomenologia sta anche al centro della sua pratica. La parola fenomeno ha un doppio senso per via dell’essenziale correlazione fra l’apparire e ciò che appare, per cui la conoscenza afferra le apparenze, gli atti di coscienza e al tempo stesso l’oggettualità di quelle apparenze in una continua tensione.
Casero sottolinea anche il fondamentale apprendistato con Ugo Mulas, con cui Paola ha in comune, in piena autonomia, una caratteristica peculiare di cui spiegherò il carattere. La sua fotografia – come era stato per Mulas – si immerge nelle realtà sociali senza mai diventare reportage, è estranea sia all’idea del “momento decisivo”, la cui importanza simbolica si riassume in un contenuto; sia all’estetizzazione dello scatto, la cui “bellezza” non va colta nell’istante ma nella sequenza con un prima e un dopo in cui si colloca uno sguardo che comprende e perciò costruisce l’oggetto. Mattioli renderà esplicito questo punto di vista nei dittici, presenti nella sua opera fin dagli anni ‘80.
Nel corso degli anni questa pratica si è realizzata su e con oggetti diversi ma con una continuità che il volume ha il merito di rendere evidente. Evocherò allora alcuni momenti di questa continuità.
Dopo le prime immagini scattate nelle manifestazioni del movimento milanese nel ‘69, nascono – con una eccezionale felicità di ripresa in un’artista giovanissima – alcuni ritratti fra cui spicca quello di Giuseppe Ungaretti, che Paola ricorda avere egli stesso “messo in scena”, attraverso le diverse espressioni, la molteplicità della sua esperienza. Dunque fotografie in cui attraverso la sequenza e attraverso il contesto entrano la storia e l’impegno sociale, e ritratti che nascono da un incontro, da un dialogo – come osserva acutamente Fiorella Cagnoni – caratterizzano fin dall’inizio il suo lavoro
Una tappa importante è rappresentata da una serie fotografica realizzata insieme ad Anna Candiani, “Le immagini del No”, esposta alla galleria Il diaframma alla fine del ’74 e pubblicata in volume, che rappresenta la campagna per il No al referendum abrogativo della legge sul divorzio. Ci sono state allora e ci sono ancor oggi in sede di ricostruzione storica due diverse interpretazioni di quel risultato: semplice, indispensabile secolarizzazione della società italiana; o momento di una fase di trasformazioni e conquiste sociali più ampie e coinvolgenti. Le “immagini del No” attestano senza dubbio questa seconda interpretazione, con la diffusione per tutta la città di scritte che evocano drammi e conquiste dei movimenti e coprono i monumenti del centro di Milano come i grandi scenari degli edifici del Gallaratese, un momento importante, oggi purtroppo rimosso, di una vera e propria utopia urbanistica di creazione di spazi comunitari nei quartieri popolari.
L’incontro di Paola Mattioli col femminismo è stato certamente decisivo per la sua vita, per la sua sensibilità ma innanzitutto ha segnato una fase del suo lavoro artistico che è iniziata a metà dei ’70 e i cui caratteri continuano a emergere nel suo sguardo critico. Cristina Casero non entra nelle divergenze e nelle tensioni fra i femminismi che hanno segnato quei decenni, ma coglie nel segno nell’indicare questa centralità. Formatasi in una famiglia della borghesia intellettuale milanese accanto alla madre Luisa Mattioli Peroni, avvocata e attiva nelle istituzioni, e alla zia Piera Peroni, fondatrice di “Abitare”, conquistate e acquisite le faticose certezze della parità, Paola è stata fra le protagoniste di quel femminismo della differenza che ancor oggi si esprime nella Libreria delle donne di via Calvi a Milano, nelle cui pratiche artiste e critiche d’arte, a partire da Carla Lonzi, hanno avuto tanta importanza. Anche per le donne che hanno scelto allora di restare nei gruppi politici, soprattutto a distanza di decenni, quella esperienza si rivela nella sua creativa persistenza un momento di interlocuzione necessario per chiarire le proprie vite e il proprio operare. Partire da sé, affidarsi a sorelle maggiori e madri simboliche, ripercorrere il proprio corpo non (solo) come specchio del desiderio maschile ma come fonte di esperienza creativa, sprofondarsi nella propria specificità senza la quale il genericamente umano rimuove il suo separarsi in due sessi
Questi aspetti, cui si può qui solo accennare, investono il lavoro fotografico di Paola, a partire da una ricerca condotta con Anna Candiani, Carla Cerati e Giovanna Nuvoletti che definire “sul lavoro delle donne” o “sulle donne al lavoro” sarebbe molto riduttivo eppure non del tutto privo di senso. Non sono però foto di denuncia di un lavoro femminile ancora privo di sostegno in un welfare adeguato – anche se tali problemi non sono certo rimossi – ma immagini di donne al lavoro, ognuna delle quali è un ritratto in cui le peculiarità individuali emergono da inquadrature come quella bene evocata dal volume, di una donna al lavello di cucina, forse uno dei meno gradevoli lavori di cura, il cui volto è rappresentato e catturato da uno specchio. Questa ricerca sul ritratto in situazioni che per altri fotografi sarebbero occasioni di reportage sociale è una peculiarità su cui torneremo. In questa seconda metà degli anni ‘70 la nascita della figlia Toni – oggi storica della violenza fascista, innovatrice con altri della sua generazione di quella storiografia particolarmente ricca in Italia – suggerisce a Paola una riflessione sul corpo e sul confronto fra i corpi femminili senza ansia di prestazione ma con la gioia dell’esplorazione, come nel ritratto a due “Sara è incinta”. Proprio all’inizio degli anni ‘80 Paola è anche protagonista di un’esperienza che oggi difficilmente un editore oserebbe. Si tratta della rivista “Grattacielo. Occhi di donna sul mondo”, diretta da Anna Maria Rodari, nella cui redazione fra tante altre troviamo anche Ida Farè e Francesca Pasini, importanti protagoniste dell’innovazione femminista nelle proprie discipline. Un mensile di “politica, cultura e attualità” che si rivolgeva a un pubblico ampio non necessariamente solo femminile o militante, che ha realizzato l’ambizione di un “femminismo diffuso” che rendesse quotidiano il punto di vista delle donne e che ha prestato molta attenzione alle immagini e all’iconografia.
Cristina Casero dedica ampio spazio ad approfondire il tema “del guardare”. Con lo spiazzamento della fotografia attraverso un cellophane che permette di scegliere il lato dell’ostacolo da cui osservare in cui, come scrive Casero, l’ostacolo diventa «una metafora dei limiti dello sguardo, dell’ambiguità del suo rapporto col reale» (p. 56 del volume). Con il ritorno a immagini che evocano anche sofferenza e denuncia come quelle al carcere di san Vittore. Con l’estensione del tema del ritratto alla fotografia delle immagini femminili già “messe in scena”, come nella serie delle statuine e delle immagini femminili pubblicate in un contesto legato alla moda, su “Amica”.
Viste in sequenza, le “Madonne” che rievocano esplicitamente i ritratti cinquecenteschi con le perle a cingere la fronte non sono meno solenni e “autorevoli” delle “signares”, le donne senegalesi dall’ambiguo statuto di “mogli coloniali”, le cui discendenti Paola Mattioli ha scoperto nei suoi viaggi in Africa, alcuni anni dopo, insieme a Sarenco, artista e profondo conoscitore del continente. In questi viaggi ha anche incontrato e fotografato la scultrice Seni Camara, “leggenda vivente” capace di un percorso artistico che evoca sia l’emancipazione sia il partire da sé, dalla propria specificità culturale.
Poco dopo, già nel nuovo secolo, si situa un’avventura di conoscenza e di produzione di immagini che ho condiviso con Paola Mattioli e con altre e altri diventati nel tempo importanti amici e interlocutori. Una mia ricerca sugli operai della Dalmine e la Fiom completata da un capitolo di testimonianze orali è stata l’occasione di una ricerca fotografica di Paola che riattualizzava aspetti costanti del suo lavoro. La ricerca si è sviluppata con gli operai della Landini/McCormick di Fabbrico e con quelli della Dalmine, alle porte di Bergamo, con la mediazione essenziale, in entrambi i casi, delle camere del lavoro di Reggio Emilia e di Bergamo. Si tratta di due realtà molto diverse. A Fabbrico la cultura operaia profondamente intrecciata con quella bracciantile e mezzadrile ha per lunghi decenni prolungato la sua egemonia dai luoghi del lavoro al territorio. L’antifascismo militante delle “bande di pianura” era ancora un’esperienza attuale che aveva portato operai e contadini a ruoli istituzionali, e in ogni momento essenziale della vita – persino la tomba – la falce e martello non erano una forzatura ideologica ma l’attestazione dell’appartenenza a una comunità scelta. Il paesaggio è quindi presente come un protagonista di quell’esperienza sociale.
A Dalmine, un territorio politicamente conservatore, con un mondo contadino a lungo subalterno a quel conservatorismo, le grandi fabbriche sono state a lungo isole di conflitto, di socializzazione politica e di identità: le storie dei militanti della Fiom, della Flm bergamasche rappresentano momenti importanti della storia nazionale dei conflitti sociali del secondo dopoguerra. Invece dei paesaggi, insieme ai ritratti operai vediamo foto che rappresentano i processi lavorativi, le emozionanti fusioni, gli strumenti di lavoro.
Insieme al lavoro fotografico, questa ricerca articolata in due volumi ha compreso saggi storici e una ricerca organizzata da Francesco Garibaldo ed Emilio Rebecchi sulla percezione – da parte di operai ed impiegati della Dalmine – del rapporto fra il loro essere lavoratori e il loro essere cittadini. Queste importanti ricerche, pubblicate entrambe in due bei volumi di Skira, sono state ideate ed eseguite in tempi ben lontani dalle foto di manifestazioni o di donne al lavoro degli anni ’70, quando si decretava da tante parti l’obsolescenza della soggettività della classe operaia.
Nel lavoro di Paola Mattioli gli operai sono presenti come un movimento che – con significative analogie col movimento femminista che i teorici dell’operaismo hanno colto – partiva da sé, dai propri interessi e conflitti per comprendere e trasformare la società. Sconfitte politiche, arretramenti sociali non rimuovono questa feconda unilateralità e Paola, come per tutti i soggetti sociali su cui ha posato il suo sguardo dialogico, li ritrae nella loro individualità che si connette con la loro dimensione collettiva in un gesto, in un atteggiamento… Altri progetti ha in corso che attestano la continuità cui si accennava all’inizio: la società raggiunta attraverso un percorso e non in momenti “esemplari”, il ritratto che sorge da un dialogo e da un confronto, il rifiuto della estetizzazione – delle sontuose signares come degli strumenti di lavoro e delle macchine – e una bellezza che nasce dalle emozioni e dalle riflessioni di chi guarda.
http://www.doppiozero.com/materiali/un-ritratto-di-paola-mattioli per le foto
dal 14 al 27 aprile
Presso Associazione Apriti Cielo!, Via Spallanzani 16 Milano Porta Venezia
Inaugurazione mostra ” In Dialogo” Silvana Giannelli e Giò Marchesi
L’associazione Apriti Cielo! è lieta di presentare due artiste in dialogo con il loro lavoro. Entrambe fanno parte dell’Associazione OndedurtoArte di Vigevano
SILVANA GIANNELLI
L’incontro con l’arte non è mai fortuito. L’incontro con l’arte è una predestinazione. E’ il frutto di un disegno superiore (che l’autore di tale disegno lo si chiami Dio, Allah, Buddah, Fato eccetera non ha alcuna rilevanza) al quale non si può sfuggire. E’ un incontro che può essere posposto, rimandato, procrastinato, ma non ignorato, non cancellato, non soppresso. Può, è vero, essere cercato, organizzato, perseguito anche in mancanza della predestinazone, ma la differenza tra le due situazioni è netta, sostanziale. Una differenza che può essere avvertita anche dagli osservatori meno esperti: nel secondo caso, il risultato dell’operare artistico dei soggetti che hanno ritenuto possibile dedicarsi all’arte senza averne la “spinta genetica” è quasi sempre privo di interiorità, di calore; tecnicamente spesso ineccepibile, ma privo di sincerità. Forzato.
Ben altri traguardi raggiunge colei (o colui) al quale la fortuna ha concesso di avere l’arte nel dna. Nel sangue. Di avere, congenite, non la tecnica, non la padronanza del gesto, bensì l’anima, il cuore, la sensibilità necessarie all’esercizio dell’arte. La forza emotiva, la rabbia indispensabili per riuscire a trasporre su un supporto fisico, concreto le proprie emozioni, i propri sentimenti. La capacità di restituire visivamente quanto, per natura, è destinato a essere astratto, virtuale, dando a questo coacervo di elementi spirituali il senso del “vero”, del “reale”.
Per Silvana Giannelli tutto questo è naturale, spontaneo. Non sono gli studi – che pure ha seguito, – non è il bagaglio, peraltro notevole, di esperienze artistiche ed esistenziali accumulate nel suo cursus vitæ, a dare al suo operare artistico sostanza e contenuti. In lei gli elementi che fanno di un individuo non un artigiano, non un mestierante, ma un artista, un vero artista, sono innati. Una spiritualità profonda, unita a un complesso lirismo (non a caso è anche sensibile e delicata autrice di poesie) e a una estrema capacità di confronto con i sentimenti umani primari, le permette di esprimere con grande efficacia il suo sentire artistico. L’uso, nel tempo, di diverse tecniche, di stili e stilemi diversi, evidenzia una continua evoluzione, libera da forzature e da preconcetti, e dunque in toto interiore, legata in esclusiva alla progressione della quotidianità che la circonda, della quale sa rappresentare, con rari vigore, potenza ed energia, ogni sfaccettatura.
Fa parte del Consiglio Direttivo di Ondedurto.Arte,tesserata AIAPI (Associazione Italiana Arti Plastiche Italia),presente nella Collana Arte e Artisti Contemporanei diretta da Francesca Folino Gallo di prossima pubblicazione.
Mostre tra le più recenti:
personale presso spazio espositivo “Spazio all’arte”- Vigevano marzo 2017
collettiva ondedurto .arte presso Palazzo Merula – settimana letteraria -Vigevano ottobre 2016
collettiva ondedurto.arte Ottaviano (Caserta) maggio 2016
collettiva ondedurto.arte “Pensieri in libertà” a cura di Leonilde Carabba presso Alveare -Milano novembre 2015
Guadalajara Mexico: “Transeoceanica” con Ondedurto.Arte giugno 2015
collettiva nell’ambito dell’evento “Le Bussole del Tempo “- Vigevano settembre 2013
GIO’ MARCHESI
Nasce e vive a Vigevano. Entra nei gruppi artistici d’avanguardia vigevanesi e partecipa attivamente alla vita del gruppo artistico “Il Sagittario” seguendone lo sviluppo sino alla sua scission. Nel 1971 entra in contatto con il gruppo di “Nuova Verifica” e prende parte con viva partecipazione alle varie iniziative pittorico-culturali tra le quali “Itinerario inchiesta Fabbrica-Scuola” e “Proposta per un Dialogo” iniziative socio-culturali in cui si intendeva verificare quali potevano essere i legami di comprensione instaurabili fra l’Arte Moderna e la cultura dominante fra il pubblico di visitarori comuni. Nell’anno 2000 entra nella formazione D’ARS Milano con cui partecipa a mostre collettive e personali che la portano ds avere il suo nome e le sue opere su riviste d’arte, giornali nazionali ed internazionale e sulla prestigiosa “Enciclopedia dell’Arte Italiana” in cartaceo e sul web. (www.enciclopediadarteitaliana.eu cerca marchesi gio) Nell’anno 2014 è firmataria del “Manifesto” che origina l’associazione ONDEDURTO.ARTE nella quale ricopre la carica di Presidente. Tra le varie mostre si ricordano le più recenti:
New Yor: Secret Garden c/o Onisi Gallery-Montecarlo, Monaco: Beach Hotel con Ondedurto.Arte, invitate da sua eccellenza l’ambasciatore Antonio Morabito a rappresentare l’arte Italiana – Guadalajara Mexico: Transoceanica, con Ondedurto.Arte, scambio culturale con gli artisti d’oltre oceano – Vigevano: “Le bussole del Tempo” evento sviluppato in 19 location con mostre ed eventi – Vigevano: nell’ambito della Settimana Letteraria in due spazi di via Cairoli, per la rivalutazione della via stessa, con Ondedurto.Arte, mostre permanenti unitamente ad eventi – Milano: “Sguardi d’autore” presso Museo d’Arte e Scienza – Milano “Pensieri di Libertà” collettiva di Ondedurto.Arte presso Alveare, a cura di Leonilde Carabba.
di Francesca Pasini
In Milano centro, Paola Di Bello collega la costruzione dello sguardo al centro della città. Applicando alle vetrate della Sala Fontana del Museo Del Novecento i particolari delle foto di Piazza Duomo, stampati su pellicole trasparenti, attira il Duomo stesso dentro l’edificio. Si crea un montaggio mobile tra le luci del neon di Fontana, l’architettura reale che appare attraverso il vetro e quella ritratta da Di Bello, visibile in trasparenza. Esterno e interno convivono simultaneamente attraverso la fotografia.
La sincronicità, che Di Bello mette in scena, crea però uno sfasamento. Perché applicare alle finestre delle immagini di ciò che è comunque visibile attraverso le finestre stesse? Tutto quello che guardiamo richiede una messa fuoco dei continui aggiustamenti di quanto emerge mentre ci muoviamo interiormente e, oggi, anche tecnologicamente. Come dice Paola di Bello, la questione non è “cosa si guarda, ma come si guarda”.
Lo sfasamento che ritrae è un punto di svolta decisivo: riduce la “sacralità” dell’immagine a favore della sincronia nella relazione. Prima di tutto tra giorno e notte, che Paola Di Bello realizza sovrapponendo in un’unica lastra l’esposizione diurna e notturna. Piazza Duomo viene pervasa da una luce che a prima vista sembra un effetto speciale, ma i lampioni accesi, non separabili dalla luce del sole, svelano l’enigma dell’ora, come direbbe De Chirico. Luce e ombra non hanno più una dinamica contrapposta, una slitta sull’altra.
Cosa significa? È immediato pensare alla coscienza (di giorno guardiamo, di notte sogniamo) e all’esperienza quotidiana, affettiva, lavorativa. E la domanda diventa: come posso creare un montaggio che faccia dello sfasamento un centro del mio sguardo? Come posso pensare a un centro senza fissa dimora?
Le fotografie di Paola Di Bello sono infatti un centro sincronico vivibile solo nello spazio percettivo. Restituiscono lo sfasamento tra il tempo dello spazio, quello dell’occhio della macchina e di chi scatta. Chi guarda l’immagine si posiziona al centro di questa molteplicità, che a sua volta fa scattare la sincronicità con lo sguardo dell’altro.
È un centro da assimilare più che descrivere, bisogna usare “la lettura della mente” che – come scrive Massimo Ammaniti ( Noi. Perché due è meglio di uno, il Mulino 2014) – “si acquisisce prima della lettura di testi”, cogliendo i significati negli sbalzi espressivi, nei movimenti, nella temperatura, nei colori di cose e persone. La conoscenza che ne deriva, e che definirei emotiva, si sviluppa predisponendo momenti sincronici tra sé e l’altro nel momento in cui “vediamo”. Nell’arte è un processo verificabile, indipendentemente dall’epoca alla quale appartiene.
Già nel 1972 John Berger, in Modi di vedere (ora Bollati Boringhieri 2015), dichiara che “il vedere viene prima delle parole” e così legge la storia dell’arte. “La convenzione della prospettiva, propria dell’arte europea, e comparsa agli inizi del Rinascimento, fa del singolo occhio che osserva il centro del mondo visibile, in esso ogni cosa converge come nel punto di fuga all’infinito. Il mondo visibile si dispone per lo spettatore così come, un tempo si credeva, l’universo dovesse disporsi per Dio”. Da qui, secondo Berger, nasce la contraddizione intrinseca a quel tipo di prospettiva. “Essa, infatti, strutturava tutte le immagini del reale in modo che si indirizzassero a un unico spettatore, il quale, a differenza di Dio, poteva trovarsi in un solo luogo alla volta”. L’invenzione della macchina fotografica rese evidente questa contraddizione e “distrusse l’idea che le immagini fossero senza tempo: rivelò che ciò che vedevi aveva a che fare con la posizione che occupavi nel tempo e nello spazio. Non era più possibile immaginare che tutto convergesse nell’occhio umano come nel punto di fuga all’infinito. […] Ogni disegno o dipinto che si serviva della prospettiva suggeriva allo spettatore che egli era l’unico centro del mondo. La macchina fotografica – e più specificamente – la macchina da presa dimostrarono che il centro non esiste”.
Nell’arte, la lettura della mente è lo strumento per intonare lo sguardo e interpretare il visibile che ha preso corpo lì, in quell’opera. Ed è uno sfasamento rispetto alla tradizionale ipotesi di realtà oggettiva. Succede anche con le parole, quando ci fanno provare/immaginare una dilatazione rispetto al loro specifico valore semantico.
Mentre la critica alla “convenzione della prospettiva” di Berger contribuisce alla lettura che si stacca dalla contraddizione di cui lui parla, diventando il perno per organizzare la percezione contemporanea del visibile quotidiano. Ed è cruciale per elaborare l’uscita dall’iconografia cristiana. La fotografia, la pittura, la scultura non sono più legate a una dimora stabile (chiese o regge aristocratiche), la direzione con Dio è interrotta. Siamo dunque a faccia a faccia con la necessità di organizzare un centro in grado di ruotare attorno alla reciprocità dello sguardo e non alla sua fuga verso l’infinito.
Consapevoli che anche quando ci sentiamo al centro di quell’immagine, non è una percezione stabile, ma una relazione tra due soggetti (l’opera e l’osservatore), che muta in base al tempo, allo spazio, ai sentimenti, come avviene tra le persone. Concordo con l’idea di Berger, “non esiste un centro”: purché si veda nell’opera un soggettoche non sta di fronte a un altro soggetto, ma interviene in modo attivo nella costruzione di uno sguardo reciproco, come già aveva detto Duchamp, e quindi permette la percezione di un centro dove incontrarsi.
È una lettura “trasparente”, come avvertono le fotografie di Paola Di Bello. Da un lato rende visibile il distacco dall’iconografia cristiana, nonostante il Duomo; dall’altro evidenzia l’indipendenza dalla convenzione prospettica rinascimentale e rende possibile la lettura storica della mente in base alla conoscenza che si sviluppa nella dinamica soggetto-soggetto. Paola Di Bello usa l’occhio fotografico per potenziare quello umano, rendendo così possibile la sincronicità di due momenti effettivamente distanti. Non è la soluzione di un enigma che ci era sfuggito, né la semplice potenzialità tecnica contemporanea. È la svolta che permette di “vedere” la sincronicità. È diverso dalla mail che affido al mio computer con la fiducia che sarà letta in tempo reale nonostante l’ora diversa, perché mantiene “fisicamente” la sincronicità di due momenti distanti, sia quando li osservo “dal vero”, sia quando li vedo riprodotti.
La prospettiva “finita”, della molteplicità dello sguardo dei viventi, è in atto.
Paola Di Bello
Milano Centro
a cura di Gabi Scardi
Milano, Museo del Novecento, 14 dicembre 2016-2 aprile 2017
dal 6 Aprile al 24 Giugno 2017
Galleria Arte 92 Via Moneta 1/A 20123 Milano – Italy
A cura di: Paolo Bolpagni
Il titolo della nuova personale di Gabriella Benedini, nella Galleria Arte 92 di Milano, è indicativo di due diverse letture, perché due sono le sale che accolgono questa mostra. La prima, “Leggere frammenti”, è un’installazione che consiste in una vera e propria biblioteca, i cui libri, enigmaticamente chiusi, si offrono al visitatore per essere scelti e consultati. Un ripiano sulla destra invita alla consultazione di questi misteriosi oggetti artistici; alcune colonnine sostengono i libri già aperti, mentre a terra cinque secchi contengono i “frammenti” (vetri, poesie, spartiti etc.) dalla cui elaborazione concettuale e manipolatoria derivano i contenuti della biblioteca.
La seconda sala, “Ascoltare silenzi”, inizia con l’esposizione di quindici sinuosi spartiti, sui quali Gabriella Benedini ha scritto una musica di segni e di stelle. Nel corridoio è tutto un alternarsi di piccole sculture a parete, che suggeriscono il riferimento ad ancestrali strumenti musicali, mentre nel salone campeggiano le “Arpe” bianche in vetroresina, che invitano a un ascolto che richiede silenzio.
Le opere di Gabriella Benedini possono essere percepite come presenze arcane e ancestrali, vestigia di civiltà lontane, ma al contempo sono calate nell’attualità, parlando di inquietudini moderne, seppure non contingenti. Si pongono insomma come oggetti “di confine”, e sfuggono a precise definizioni statutarie, collocandosi tra la scultura, la pittura, la grafica, l’installazione, l’assemblaggio. Molteplici sono anche i materiali impiegati e le procedure che li trasfigurano in funzione espressiva, sempre alla ricerca della tridimensionalità e del non-banale. Il tempo, la memoria, la poetica del frammento, la presenza costante dell’elemento musicale (benché spesso rivolto, oppositivamente, nel silenzio) sono i tratti distintivi del modo di fare e pensare arte di Gabriella Benedini, che trova in questa nuova personale un’ulteriore conferma di un’originalità che la rende unica nel panorama contemporaneo.
Accompagna la mostra un catalogo bilingue, in italiano inglese, con un testo introduttivo di Paolo Bolpagni, le riproduzioni a colori delle opere esposte, ambientate negli spazi della galleria, apparati bio-bibliografici e un’intervista all’artista.
Tel: +39 (0)2 8052347
Email: arte92@arte92.it
da rollingstone.it
In arrivo una rassegna interamente dedicata a una delle figure più controverse e affascinanti dell’arte contemporanea, capace con le sue opere di conquistare maestri come Mirò, Duchamp e Warhol
Ci sono alcuni nomi nel mondo dell’arte che forse al grande pubblico non dicono molto, ma che in realtà rappresentano vere e proprie leggende. Ora non voglio dire che Louise Bourgeois sia una perfetta sconosciuta, ma se uscite per strada e fate il suo nome a 100 persone sono pronto a scommettere che meno di un quarto vi saprà dire chi è. Eppure, la Bourgeois è una pietra miliare dell’arte del ‘900, una artista tra le più celebrate nei musei del mondo.
Il 24 marzo allo Studio Trisorio di Napoli inaugura una mostra a lei dedicata, con decine di disegni e una manciata di statue in bronzo. Oltre a questo, il Museo Madre proietterà Louise Bourgeois: The Spider, the Mistress and the Tangerine, film sulla sua vita delle registe Marion Cajori e Amei Wallach. Come se non bastasse, sabato 25 al Museo di Capodimonte sarà inaugurata la mostra Incontri sensibili, a cura di Sylvain Bellenger e Laura Trisorio, dove verrà esposta per la prima volta in Italia l’opera Femme Couteau.
E allora questa è una buona occasione per raccontare qualcosa dell’incredibile vita di questa donna nata nel 1911, in uno dei boulevards che corrono sulla rive gauche della Senna, da una famiglia che economicamente se la passa bene. Borghesi di nome e di fatto. Il padre la odia fin dalla nascita, voleva un maschio, e questa cosa avrebbe segnato indelebilmente la sua vita e il suo lavoro. Lei cresce tra le umiliazioni del padre e la rassegnazione colpevole di una madre che non fa nulla per difendere la figlia, ma nemmeno se stessa. Tace persino quando il marito assume come “bambinaia” dei figli la sua amante per averla in casa, sempre a disposizione.
Il 14 settembre 1932 la madre Josephine muore. Nonostante tutto, un colpo durissimo per Louise, che cade in una depressione così forte da indurla addirittura a tentare il suicidio. Per fortuna non riesce a togliersi la vita, ma a stravolgerla completamente sì: lascia l’università e inizia a frequentare gli studi di molti artisti a Montmartre e Montparnasse, i cuori pulsanti del fermento culturale europeo. A Parigi abita proprio sopra ad André Breton, grande scrittore e critico d’arte, ideatore del surrealismo. Inizia a studiare arte e a lavorare come assistente di alcuni Maestri.
Disegna e dipinge, e fin dai suoi primi lavori emerge la sua attenzione per il corpo e per la memoria. I traumi famigliari sono ancora freschi e si tramutano perfettamente in sfoghi sulla tela nei riferimenti a un padre che mortificava lei e la madre e che nel suo caso, continua a farlo. Si sposa con lo storico dell’arte Robert Goldwater e insieme si trasferiscono a New York. Diventa amica di Mirò e soprattutto di Duchamp, che sostituisce nella mente di Louise la figura del padre.
Diventa mamma a sua volta, ma questo non le impedisce di lavorare e continua con la produzione di tele e disegni, nel segno della memoria dell’infanzia, della casa, del corpo della donna. Viene fuori un lato combattivo della Bourgeois, in particolare nella serie Femme-Maison, straordinarie opere raffiguranti figure femminili completamente nude, le cui teste sono sostituite da un’abitazione. Con Femme Maison, che significa “donna di casa”, lei si ribella al luogo comune, anticipando di decenni le lotte femministe che avrebbero imposto una nuova visione, libera e autonoma, della donna.
Non riesce a sfondare, ma le sue sculture arrivano agli occhi di Alfred Barr, potentissimo direttore del MoMA, che acquista un lavoro per la collezione permanente del Museo. Passa gli anni successivi a fare il giro di tutti gli psicanalisti della grande mela e la depressione le impedisce di lavorare per oltre 15 anni. Negli anni ’60 inizia a sperimentare materiali organici per le installazioni, come plastica, lattice, gomma, gesso e vetro. Sono gli anni in cui nelle sue opere compaiono espliciti riferimenti ai genitali maschili e femminili. I suoi lavori, sempre più spinti dal punto di vista sessuale, fanno piovere sulla Bourgeois una valanga di critiche. Lei non si scompone, anzi si avvicina ai movimenti femministi e inizia a diventare un punto di riferimento anche dal punto di vista politico.
Louise Bourgeois vede riconosciuto il proprio lavoro molto tardi, infatti la vera consacrazione arriva solamente nel 1982, quando il MoMA di New York le dedica una grande retrospettiva. La prima mostra personale interamente dedicata a una donna per il tempio sacro dell’arte internazionale. È qui che dedica ancora lavori alla sua famiglia e decide di non nascondere più nulla, creando addirittura un’opera che narra il rapporto del padre con la sua amante, l’insegnate di inglese di Louise e le sue sorelle. La mostra farà il giro di America ed Europa, e Louise viene acclamata ovunque. Continua incessantemente a lavorare, creando il ciclo di opere che probabilmente resterà il più famoso nell’immaginario collettivo: giganteschi ragni di metallo, alti oltre 10 metri, che ancora una volta sono il prodotto di una mente che cerca riferimenti continui nei primissimi anni di vita. Quel ragno, infatti, non è altro che la raffigurazione della madre, che Louise vede come instancabile tessitrice delle loro fitte trame familiari. Ancora la sua infanzia, irrisolta, è protagonista
Gli Stati Uniti scelgono proprio lei per rappresentarli alla Biennale di Venezia del 1993 e Bill Clinton in persona le consegna la Medaglia Americana per le Arti. Gli ultimi anni vedono ancora una fitta produzione di opere, oltre a incontri continui con le nuove generazioni di artisti, mostre nei più importanti Musei del Mondo e i più prestigiosi riconoscimenti istituzionali.
Dunque vale la pena fare un giro a Napoli per vedere le sue opere allo Studio Trisorio, ma anche al Museo di Capodimonte. Vale la pena perché questa meravigliosa artista dovrebbe essere celebrata di più, soprattutto per il fatto che il mondo dell’arte l’ha tenuta da parte per 70 anni prima di renderle omaggio. Certo lei non si è fatta scoraggiare e ha saputo aspettare, decidendo di andarsene a quasi 100 anni pur di vedersi riconosciuti i giusti tributi. Infatti Luoise Bourgeois è morta nella sua casa di New York il 31 maggio del 2010, all’età di 98 anni. Ed è curioso sapere che pochi anni fa, su una bancarella di un mercatino di Parigi, sia stato ritrovato un diario che perse su un treno nel 1923, all’età di 12 anni.
È soprattutto questo Louise Bourgeois: il diario smarrito della sua infanzia e il capolavoro di una vita a tentare di riscriverlo.
23 marzo, ore 17, MUSEO MADRE – Film, Talk
24 marzo, ore 19, STUDIO TRISORIO – Inaugurazione Mostra
25 marzo, ore 11, MUSEO DI CAPODIMONTE – inaugurazione Incontri sensibili
info@studiotrisorio.com
www.studiotrisorio.com
dal 24 Marzo al 26 Aprile, 2017
Monica Bonvicini – Our House
Galleria Raffella Cortese
via a. stradella 7 – 1 – 4
inaugurazione alla presenza dell’artista giovedì 23 marzo, h. 19.00 – 21.00 24 marzo | 26 aprile 2017 martedì – sabato h. 10.00-13.00 | 15.00-19.30 e su appuntamento
Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare la prima mostra di Monica Bonvicini nelle tre sedi espositive. Saranno presenti opere concepite e prodotte appositamente per l’esposizione.
Monica Bonvicini è conosciuta soprattutto per le grandi installazioni scultoree, tuttavia la sua è un’attività complessa e completa che include media diversi, dal disegno alle installazioni video passando per la fotografia. Ha studiato arte a Berlino ed alla Cal Arts negli Stati Uniti e dal 2003 è Professore di Arti Performative e Scultura all’Accademia di Belle Arti di Vienna. Vive e lavora a Berlino. La sua ricerca si è sempre sviluppata attorno all’idea di architettura e della sua storia come un linguaggio in grado di unificare problematiche politiche, economiche e sociali. Dagli anni Novanta ha affrontato l’architettura da un punto di vista legato alla teoria di genere, con l’acume tipico dei suoi lavori.
Nella serie di grandi disegni in bianco e nero presentati per la mostra Our House, l’artista si è concentrata sulle catastrofi naturali causate dalle azioni umane facendo riferimento ad alcune teorie sul Capitalocene di Donna Haraway, esponente del pensiero femminista che studia il rapporto tra scienza e identità di genere. Le immagini sono prese da testate online nelle quali si dichiara apertamente che i disastri, dagli incendi agli uragani, sono il risultato del riscaldamento globale e di altri comportamenti ecologicamente scorretti perpetrati dall’uomo. Insieme ai disegni, nello spazio principale della galleria, sono presentate le sculture Diener e il video Slamshut. Prodotti nel 2017, i Diener sono readymade rivestiti che diventano oggetti reminiscenti di servi muti. Queste sculture di dimensioni domestiche, curiosamente appoggiate al muro, sono in origine puntelli per pareti di cemento. Per la mostra in galleria, i Diener sono stati appositamente prodotti a Milano e dintorni, abbracciando così la tradizione di artigianato radicata in una delle città del design più di tendenza e sperimentale d’Europa. Il materiale edile viene quindi trasformato in un oggetto di design eccettrico ma addomesticato.
In via Stradella n.1 sarà presentata un’altra serie a muro, quattro stampe su telaio liberamente ispirate dal libro Testo junkie. Sexe, drogue et biopolitique di Beatriz Preciado. I lavori, insolitamente colorati per gli standard di Monica Bonvicini, sono costituiti da vari ritagli d’immagini di parti del corpo prese da tabloid e riviste scandalistiche. Ne risulta una composizione dove qualsiasi riferimento sessuale viene impoverito per dare risalto ad una analisi del piacere e dell’uso del corpo come materiale di scambio voltato al profitto. Seppure i lavori siano singoli, ognuno riporta una porzione della frase “I like to stand with one leg on each side of the wall” scritta con spray di colore rosa veneziano e ripresa dal testo The German Issue di Heiner Müller.
Bonvicini è recentemente tornata ad esplorare la sociologia legata all’abitare che, in questa mostra, abbraccia strutture sia private che istituzionali. L’artista ha iniziato a lavorare utilizzando elementi architettonici fin dai suoi giorni da studentessa a Cal Arts, ed ha prodotto opere come il grande intervento I Muri (1991), verbrauchte nostalgie (1993), e Wallfuckin’ (1996), per nominarne solo alcuni. Allo spazio n.4 di via Stradella, una parete espositiva di grandi dimensioni è appesa al soffitto sollevata da un lato con una catena. Structural Psychodrama # 3 (2017), questo il titolo dell’opera, è un intervento minimale nello spazio effettuato attraverso l’uso di materiale da costruzione. La drammatizzazione e l’estraniamento derivati da questo intervento confondono il codice di comportamento prestabilito associato alla funzione dell’architettura della galleria, luogo dove esporre arte e, al contempo, luogo dove osservarla e comprenderla. Bonvicini ha vinto diversi premi, tra cui il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia (1999), il Preis der Nationalgalerie für junge Kunst, dallo Staatliche Museen zu Berlin (2005), ed il Rolandpreis für Kunst per l’arte pubblica dalla Foundation Bremen, Germania (2013). I suoi lavori sono stati presentati in molte illustri biennali, tra cui Berlino (1998, 2003, 2014), La TriennaIe Paris (2012), Istanbul (2003), Gwangju (2006), New Orleans (2008), e Venezia (1999, 2001, 2005, 2011, 2015). Ha presentato mostre personali presso Palais de Tokyo, Parigi (2002), Modern Art Oxford, Inghilterra (2003), Secession, Vienna (2003), Staedtisches Museum Abteiberg (2005, 2012), Sculpture Center (2007), Art Institute of Chicago (2009), Kunstmuseum Basel (2009), Frac des Pays de la Loire (2009), Kunsthalle Fridericianum, Kassel (2011), Centro de Arte Contemporaneo de Malága, Spain (2011), Deichtorhallen Hamburg (2012), Kunsthalle Mainz (2013), BALTIC Center for Contemporary Art (2016/17).
dal 1 all’8 marzo 2017
Dea Madre una mostra di Pina Massarelli e Wanda Delli Carri
presso Palazzo Dogana Foggia
Un incontro inevitabile e felice quello che ha portato Wanda Delli Carri e Pina Massarelli a esporre insieme le loro opere. In momenti diversi, Pina l’anno scorso e Wanda poco prima di Natale, avevano esposto le loro opere al Museo Civico di Foggia grazie alla direttrice, Gloria Fazia, che ha molto apprezzato le opere di entrambe, tanto è vero che ha acquistato un’opera di Pina per il Museo e ha scritto la presentazione sul catalogo di W. Delli Carri. Pina ha visto le opere di Wanda, ha riconosciuto oltre alla loro qualità artistica una ricerca affine alla propria e le ha chiesto di organizzare insieme una mostra perché sarebbe stato un modo per rafforzare il discorso che sta a cuore a entrambe: ricercare e rielaborare riti e culti che appartenevano a una cultura e a una civiltà antiche.
Questa cultura, che in seguito è stata cancellata o dimenticata, o si è ritirata in piccole nicchie del mondo, consisteva in una visione magica del mondo che è stata sottovalutata, considerata primitiva e la magia una filosofia semplicistica. Sia studiose, Marija Gimbutas tra tutte, che studiosi l’hanno riscoperta e studiata. Robert Graves per esempio, osservando i miti religiosi antichi riconosce che si riferiscono alle società matriarcali conosciute nell’area mediterranea e in Europa prima dell’arrivo degli invasori dell’Est e del Nord. Svela inoltre che l’Europa antica non aveva divinità maschili e si venerava solo la Grande Dea, immortale, onnicomprensiva e onnipresente, incarnazione della natura terrestre e cosmica; la luna e il sole erano i suoi simboli. Gimbutas dimostra che nel Paleolitico e nel Neolitico le donne erano sacerdotesse e veneravano dee. Nei 3.000 siti che ha analizzato, ha trovato 30.000 sculture di dee, donatrici di vita e fertilità, morte e rigenerazione, che portano inciso o dipinto sulla superficie delle statue una sorta di codice cifrato che ha chiamato il linguaggio della dea. Tutte le prove dimostrano che nell’Europa antica la cultura era caratterizzata da una profonda religiosità verso la dea e dalla centralità sociale delle donne come fonte di vita. Gli uomini hanno funzione di stimolo e impulso ma non hanno potere. Gimbutas descrive questa cultura come matrilineare, matrilocale e matrifocale, egualitaria e pacifica in netto contrasto con la successiva fase indoeuropea che ha avuto un carattere patriarcale e che ha distrutto l’antica cultura. Insomma, la cultura della guerra non è nata in Europa, ma vi è stata portata dalle invasioni di uomini a cavallo provenienti dalle steppe russe. Fin qui il mito, che poggia su ricerche e studi accurati, come è raccontato, tra le altre/i da Heide Göttner-Abendroth nel suo libro Le società matriarcali, Venexia editrice, 2012.
Quello che sappiamo con sicurezza e di cui abbiamo esperienza è che noi tutte e tutti siamo nati e siamo figli di questa cultura occidentale, quella che Vandana Shiva chiama monocultura della mente, che riduce tutto a uno, un tipo di società, un tipo di economia, ecc. e crea modelli fissi, eliminando tutto ciò che non si omologa, che è diverso, eliminando l’alterità o riducendola a uno stereotipo.
La storia sarebbe continuata così se il femminismo non avesse operato una rottura di questa visione monolitica e sviluppato la critica nei confronti dell’idea che il pensiero, il logos fosse uno, universale e neutro. Uno dei pilastri del dominio patriarcale era, infatti, proprio l’idea di una sua presunta universalità ed eternità. Per questo acquistano particolare valore gli studi sul matriarcato che, attenzione, non significa potere delle donne sugli uomini, ma indica l’origine, il principio femminile, perché la parola arché in greco significa anche principio.
La mostra Dea madre, che riflette su queste questioni, fa emergere l’autorità femminile che si basa sulla pratica di stimare e ammirare un’altra donna perché dall’ammirazione si può ricavare un potenziamento per sé e per tutte le altre. Le opere hanno come soggetto la riflessione, avviata ormai da tempo dalle due artiste, sui riti arcaici in onore della Dea Madre e di altre divinità femminili presenti nel territorio della provincia di Foggia, l’antica Daunia. Insieme alle rielaborazioni di immagini della Dea Madre diffuse in tutto il Mediterraneo, Pina Massarelli rivisita, infatti, l’Idoletto di Passo di Corvo e la Stele di Castelluccio. Wanda Delli Carri, con una pittura che imita la scultura, si ispira alle Danzatrici di Ruvo, all’Antefissa e alla Testa di Medusa di Arpi, alla Stele daunia femminile e alle figure degli ex-voto dalla Stipe del San Salvatore di Lucera.
Le opere di Wanda Delli Carri sono attraversate da un filo rosso che dando continuità le tiene insieme come facessero parte di un racconto unico. Il filo rosso rimanda a tante connotazioni appartenenti al corpo e al grembo femminile, dal cordone ombelicale al sangue mestruale. È anche il segno della passione amorosa, dei ricordi, degli affetti e dei legami familiari, ma è soprattutto il simbolo di una ricerca che parte dagli arcaici culti misterici di società pacifiche ed egualitarie che non conoscevano il senso del potere, del dominio e dell’avidità. Il filo rosso si snoda ricucendo simboli, un capitello, una spirale, uno spicchio di luna, le ali di un angelo, i capelli di Medusa, ecc. attraverso tempi e luoghi diversi. A volte è presente una sottile ironia come nell’opera Arche-tipa, in cui la Dea indossa disinvoltamente jeans e scarpe rosse con il tacco. Così come l’altra Arche-tipa che si ispira all’ex voto del III-II sec. a.C. della stipe di San Salvatore di Lucera che sfoggia un rossetto rosso sulle labbra carnose e sensuali. L’ironia è impiegata per allontanare il sospetto che l’artista voglia riproporre una memoria consolatoria dei tempi antichi. Qui e là fa capolino la figura di una donna dei giorni nostri, forse la stessa artista consapevole del proprio impegno di affidare all’arte il compito di ritrovare e far emergere la bellezza e l’incanto del nostro territorio, che non è oggetto di cura e di attenzione come dovrebbe.
Con Wanda dialoga Pina Massarelli, anche lei impegnata nella ricerca e costruzione di una genealogia femminile che la porta alle origini della civiltà della Dea Madre per ritrovare una nuova civiltà. Ma oggi come si può declinare il mito e come possiamo servircene perché abbia significato nel tempo attuale e ci aiuti, donne e uomini, a ritrovare una strada sensata e a mettere in connessione lo spirito antico con quello odierno? Come può un culto così arcaico offrire suggerimenti per arginare le crisi del mondo? Naturalmente sono domande aperte, la cosa importante è non adagiarsi in un atteggiamento consolatorio che non modifica il modo di rapportarsi alla natura e non trasforma la realtà. Però ci sono segnali molto positivi del cambio di civiltà con invenzioni in ogni parte della terra: tante donne e uomini si stanno interrogando sul rapporto con la terra e con i suoi beni e dando vita a pratiche e gesti simbolici e trasformativi.
La mostra di Massarelli e Delli Carri stimola la domanda su che cosa le donne possono apportare come contributo originale alla ricerca e alla riflessione sulla sacralità della terra che ha bisogno di attenzione e cura perché è nello stesso tempo un corpo con le sue fragilità. Non è un caso che Pina Massarelli dia alle sue dee titoli come Accoglienza, Conoscenza, Accudire il mondo. Alcune figure femminili ricordano nella postura donne che si possono incontrare sulla soglia delle case dei nostri paesi.
Pina Massarelli come ceramista, attraverso la manipolazione dell’argilla, uno dei primi materiali usati dalle donne nella preistoria per creare manufatti, ha ripercorso antiche tecniche, accostandosi alla cultura materiale e artistica del territorio di origine, la Daunia, esaminandone la decorazione cosiddetta geometrica e riconoscendovi i simboli della Dea Madre e cogliendone i segni della persistenza nel corso del tempo. Il riferimento ai gesti di cura e di accoglienza che appartengono al mondo femminile e che sono presenti nelle sue opere suggeriscono che non si tratta di un’operazione nostalgica nei confronti di una mitica età dell’oro, ma di una ricerca che riguarda il presente.
Ripensare l’atteggiamento che i popoli antichi avevano nei confronti della Madre Terra significa porsi il problema di proteggere la terra, i suoi doni e i suoi frutti. Capire il senso profondo della vita, l’interconnessione che esiste nella natura se vogliamo ritrovare una nuova civiltà basata sulla ricerca di armonia tra donne e uomini e con il mondo naturale.
Wanda Delli Carri (wandadellicarri16@gmail.com), artista di Foggia, dove vive e opera, si è dedicata fino al 2010 all’insegnamento dell’educazione artistica nelle scuole medie, dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Foggia. Da alcuni anni ha intrapreso l’attività espositiva, ottenendo lusinghieri successi e riconoscimenti.
Pina Massarelli (giusyama@gmail.com) per oltre trent’anni ha lavorato la ceramica nel laboratorio Terra e Fuoco di Foggia, svolgendo un’intensa attività in corsi di ceramica con studenti di varie scuole di Foggia. Dopo essersi dedicata allo studio e alla rielaborazione di forme e decorazioni della ceramica daunia, da alcuni anni si è concentrata sulla scultura in ceramica con immagini che si riferiscono al culto della Dea Madre, secondo le ricerche di Marija Gimbutas
dal 14 al 31 marzo 2017
SBLU_spazioalbello Via Antonio Cecchi 8, Milano Inaugurazione ore 18.00
SBLU_spazioalbello propone la personale di una delle artiste contemporanee più significative per ricerca e soluzioni tecnologiche adottate. LeoNilde Carabba, classe 1938, ha attraversato la seconda parte del Novecento con autorevolezza, ha esposto con i nomi più rappresentativi: Lucio Fontana, Bruno Munari, Agostino Bonalumi, Getulio Alviani, Enrico Castellani. Nel 1975 è cofondatrice della Libreria delle Donne di Milano, l’anno successivo con Carla Accardi, e altre artiste, fonda la cooperativa Beato Angelico per discutere e indagare cosa significa essere donna nel mondo dell’arte.
Tutto il lavoro di LeoNilde Carabba ruota intorno alla ricerca del Significato. Si potrebbe definire la sua l’arte Sacra dell’Origine. L’esoterismo dei simboli della Cabala e dei Tarocchi sono il suo linguaggio quotidiano. Capace di destreggiarsi nei più profondi meandri dell’iniziato, la sua pittura ci parla un linguaggio talmente arcaico che ci ammalia, anche quando fatichiamo a comprenderlo. Le sue opere alludono alla trasformazione, e come in alchimia, aspirano allo stadio successivo in continua evoluzione. La tecnica che usa è complessa e avanzata.
Già nel 1966 comincia gli esperimenti sulla rifrazione della luce giungendo ad ottenere, mediante l’uso di microsfere di vetro, una superficie a intensità luminosa variabile secondo l’angolo di visuale del fruitore, senza l’utilizzo di mezzi meccanici. Da qualche anno, oltre alle microsfere, utilizza pigmenti che reagiscono alla luce nera (o di Wood) e ci offrono una visione dell’opera diversa secondo la fonte luminosa che la illumina. Per la mostra allo SBLU_spazioalbello, oltre ad alcuni lavori di grandi dimensioni, ha preparato due nuove installazioni e una serie inedita di trittici e dittici su carta.
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20146 Milano Via Antonio Cecchi 8 Telefono 02.48000291
E.mail spazioalbello@esseblu.it www.sblu.it
La mostra prosegue dal 15 al 31 marzo 2017: dal lunedì al venerdì su appuntamento tel 02 48000291 / 333 6121941
Sono previste aperture straordinariatutti i sabato dalle 15.00 alle 19.30
LeoNilde Carabba, nasce a Monza il 28 novembre 1938, risiede attualmente a Milano. Ama definirsi “una pittrice ed una viaggiatrice che ama esplorare territori e varcare confini”. Nel 1961 tiene le sue prime mostre personali; da allora espone in numerosi luoghi in Europa e negli Stati Uniti, oggi, con regolarità, in Italia e Germania.
Opere di LeoNilde Carabba in Collezioni pubbliche Pinacoteca di Termoli – Museo d’Arte di Corciano – Museo di Verrucchio Pinacoteca d’Arte di Soncino – Pinacoteca di Bossico, Bergamo – Pinacoteca di Civitanova Marche – Pinacoteca di Bari – Italian-American Museum, San Francisco Museo di Città Bolivar, Venezuela – Maison de la Culture, Namur, Belgio – Oud Hospital Muzeum, Aalst, Belgio – Museo d’Arte di Montecatini – Primo Museo d’Arte Moderna, Asyla, Marocco – Museo de Arte Contemporaneo, Ibiza, Spagna
Scritti sulle Opere di LeoNilde Carabba Writings about LeoNilde Carabba’s Works. Pier Giuseppe Agostoni, Donatella Airoldi, Marina Barla, Riccardo Barletta, Enrico Bay, Rolando Bellini, Carlo Belloli, Mirella Bentivoglio, Emilio Benvenuto, Berenice, Silvia Bollino Bossi, Enrico Bonerandi, Rossana Bossaglia, Silvia Bottaro, Dino Buzzati, Domenico Cara, Franco Paolo Catalano, Christo, Jeanne-Claude Christo, Chiara Cinelli, Alfio Coccia, Jacques Collard, Anna Corio, Roberto Crippa, Giuseppe Curonici, Giancarlo Gabelli, Tino Dalla Valle, Alessandra D’Elia, Salvatore di Giacomo, Geroges Fabry, Elda Fezzi, Luigi Paolo Finizio, Antonio Fomez, Lucio Fontana, Giovanna Galli, Greg Gatemby, Patrizia Gioia, Maddalena Gregori, Ami E. Herskovits, Hsiao Chin, Luciano Inga-Pin, LinoLazzari, Valeria S. Lombardi, Marialuisa Magagnoli, Corrado Marsan, Armanda Mavilla, Rollo May, Marino Mercuri, Berto Morucchio, Cristina Muccioli, Italo Mussa, Sandra Orienti, Clizia Orlando, Aldo Passoni, Simonetta Panciera, Valentina Tovaglia, Gianni Pozzi, Mario Radice, Elisabetta Rasy, Pierre Restany, Marcus Roher, Gualtiero Schönenberger, Maria Torrente, Lorenza Trucchi, Alberto Veca, Franco Verdi, Lea Vergine, Lara Vinca Masini, Francesco Vincitorio, Mariano Vitale, Valentina Tovaglia, Pino Zanchi ed altri.
http://artscore.it/leonilde-carabba-luce-arte-ongaretti/
SBLU_spazioalbello è uno spazio libero per esporre bellezza, con la finalità di diffondere cultura visiva, di provocare dubbi e muovere domande nell’ambito della ricerca del bello, per recuperare la capacità di costruire un’etica della bellezza. SBLU_spazioalbello nasce da un’idea di Susanna Vallebona, visual designer, titolare di Esseblu, che da oltre 30 anni opera nel campo della comunicazione visiva, del design e dell’arte, ed è curatrice dello spazio
dal 09/02/2017 al 23/04/2017
VILLA MEDICI – ACCADEMIA DI FRANCIA
Viale Della Trinità Dei Monti 1 – Roma – Lazio
di Helga Marsala
Il perturbante. Aggettivo di freudiana memoria che ha in sé una sintesi ambigua, fortissima: ciò che è familiare e ciò che fa paura, in un’immagine sola. Da qui l’inquietudine. Attrazione e terrore, intimità e sgomento. E siamo in un territorio che potremmo definire l’estetica della soglia, del transito. Annette Messager (Berck, 1943), tra le maggiori artiste europee viventi, premiata nel 2010 col Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, arriva a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia a Roma, per il nuovo ciclo espositivo Une, a cura di Chiara Parisi.
E questa passione per l’inquieto, per l’enigmatico, per ciò che perturba, celando e rivelando a piacere, torna anche qui, come una costante del suo sguardo, del suo sentimento per l’esistenza.
“Per me è inquietante tutto quello che è ‘familiare’, tutti gli oggetti di cui ci circondiamo,
quello che succede nelle nostre vite, quello che succede nell’attualità”, ci dice. “Per me non esistono il surreale e l’immaginazione, la vita è più forte. (…) La vita, per me, è un turbamento permanente”.
Che non è paura, o non semplicemente. È lo stupore per una bellezza soverchiante, da cui si intravede l’inaudito, l’incomprensibile, e che però è anche un bastimento di memorie d’infanzia, di relazioni affettuose, di passioni e godimenti, di potenza laterale ed energia impetuosa. Come quella delle donne.
FRAMMENTI AMOROSI. STORIE DI CORPI, DONNE, ANIMALI
E sul femminile riflette spesso, Annette Messager. Della difficoltà d’essere artiste e di conquistare spazio, credibilità, autorevolezza. Le donne spaventano? “Quando ho cominciato il mio lavoro mi chiamavano la fattucchiera”, aggiunge. “La parola utero viene dalla parola isteria, e il sangue che cola ogni mese… Tutto questo può fare paura ancora oggi”. E allora piccoli uteri diventano la decorazione di una carta da parati, nell’ex atelier di Balthus, mentre in giardino una lunga chioma oscilla al vento, brandita dal Mercurio bronzeo del Giambologna. E ancora un’esplosione di serpenti di peluche è come acqua che zampilla dalla celebre Fontana della Loggia, mentre animali di foglie sono scolpiti tra le siepi. Tutto si mimetizza, tutto è frammento che sbuca e risuona, insinuandosi docilmente.
All’interno, la grande scalinata centrale è sovrastata da Eux et Nous, Nous et Eux (2000), una pioggia di creature bizzarre, animali impagliati ibridati con peluche, specchi, matite colorate, guanti neri: la poetica dei corpi per la Messager è sempre un fatto di smembramenti, accumulazioni, ombre sotterranee e fascinazione. Una “geografia amorosa”, la chiama lei, citando i frammenti di Barthes. Corpi a pezzi ma che non raccontano il dolore: piuttosto “la tenerezza”.
Chiude il percorso una grande installazione del 2004, Histoire de traversins: cuscini rigati, a evocare le divise dei prigionieri di Auschwitz, si fanno architetture morbide, enormi covi d’incubi e di meraviglie, da cui sbucano maschere e micro personaggi. Torna la malia del perturbante. Mentre dall’altra stanza, come un canto, risuonano parole scritte sul muro, con fili di pazienza a cui appendere giochi e vecchi pupazzi: jelousie, spasme, love. Lo spasmo, la gelosia e la passione. Ancora una volta la vita, a tenerci per le viscere e all’altezza del cuore.
dal 15 febbraio al 25 febbraio 2017
Corrado Levi. Arte come differenza
Milano, Galleria Ribot, via Enrico Noe 23. RIBOT è lieta di presentare la personale di Corrado Levi, una selezione di opere recenti realizzate in occasione della mostra. Inaugurazione mercoledì 15 febbraio ore 19. Sarà presente l’artista. Figura di riferimento dell’arte e dell’architettura contemporanee, protagonista poliedrico della cultura milanese, Corrado Levi espone gli esiti della sua più recente ricerca artistica, in un dialogo aperto con lo spazio della galleria. La mostra vuole testimoniare l’esperienza di una stagione culturale che Corrado Levi ha rappresentato anche attraverso la sua attività di critico d’arte, curatore, scopritore di talenti, agitatore di eventi culturali e promotore di impegno sociale. Accompagna l’esposizione una pubblicazione che raccoglie i contributi di artisti e curatori che nel tempo si sono occupati dell’opera dell’artista. Orari galleria: da martedì a venerdì / dalle ore 15 alle 19.30, sabato dalle ore 11.30 alle 18.30, anche su appuntamento.
dal 11 febbraio 2017 – 28 maggio 2017
Meret Oppenheim
Opere in dialogo da Max Ernst a Mona Hatoum
Museo d’Arte – LAC Lugano Arte e Cultura, Piazza Bernardino Luini 6
6900 Lugano +41 58 866 42 3
Meret Oppenheim (1913-1985) è una delle artiste più celebri del Novecento e autrice di opere divenute vere e proprie icone dell’arte del secolo scorso. Il suo straordinario fascino e la sua personalità si sono riflesse nella vita e nelle creazioni dei suoi amici e colleghi come Man Ray, Marcel Duchamp, Max Ernst, Alberto Giacometti, René Magritte e molti altri, facendone una figura centrale nella scena artistica degli anni Trenta. Attraverso più di cento opere, la mostra a lei dedicata documenta tutta la sua carriera, dagli esordi nella Parigi dei primi anni Trenta fino alle esperienze non figurative degli anni Settanta e Ottanta. Nel percorso espositivo le sue creazioni dialogano con quelle dei maggiori esponenti del movimento dada e surrealista e di affermarti artisti contemporanei come Robert Gober e Mona Hatoum.
dal 18 febbraio al 12 marzo 2017
“valigia d’artista” di Alberto Cerchi
Idea d’arte, studio di progettazione visiva, organizza ed espone al Ducale Spazio Aperto, dal giorno 18 febbraio al 12 marzo 2017, una mostra dal titolo “12 valige d’artista” . Le valige sono piccoli musei portatili della propria memoria, dell’arte come viaggio e dell’artista/progettista come viaggiatore in territori sconosciuti. Si collegano idealmente alla “Boite en valise” di Duchamp e quindi al concetto dadaista del ready-made, ma sono soprattutto giochi visivi “oggettivi” alla Munari, con modalità percettive, tattili, formali e strutturali. Dichiarano il loro nomadismo culturale, perché l’arte deve essere sempre pronta a partire, portandosi dietro quello che ci identifica. Noi circoscriviamo la ricerca alla comunicazione visiva, che però a sua volta ne racchiude altre, come in un gioco di scatole cinesi. I partecipanti a questo primo appuntamento sono
Alberto Cerchi, Coca Frigerio, Antonio Gambale, Simonetta Gherardelli, Carla Iacono, Dolores Lavezzi, Giovanna Lox, Rita Malaguti, Francesco Musante, Lucia Pasini, Carla Sanguineti, Luciana Trotta.
Al termine della mostra le valige sono pronte a partire su richiesta per altri luoghi e altre destinazioni
Inaugurazione venerdì 17 febbraio alle ore 17
Dal 08 Febbraio 2017 al 14 Maggio 2017
Luogo: Fondazione Prada Milano
Telefono per informazioni: +39 02 5666 2611
Sito ufficiale: http://www.fondazioneprada.org
Curatori: Thought Council della Fondazione Prada
Il lavoro di Pamela Rosenkranz esplora le modalità attraverso le quali i processi fisici e biologici influenzano l’arte. La sua nuova installazione per “Slight Agitation”, dal titolo Infection, si basa sull’azione di un parassita attivo a livello neurologico, che colpirebbe circa il 30% della popolazione mondiale. Un’imponente montagna di sabbia è realizzata all’interno dei vasti spazi della Cisterna, creando un confronto con la sua architettura industriale. Il materiale naturale è intriso di una fragranza ottenuta da feromoni di gatto ricreati in laboratorio, capaci di attivare specifiche reazioni di attrazione e repulsione a livello biologico e di influenzare in maniera subconscia il movimento dei visitatori. Una luce verde RGB illumina dall’alto questa enorme massa alterata chimicamente e ne fa evaporare lentamente il profumo.
Dopo l’installazione di Tobias Putrih che riguardava i concetti di gioco, politica ed emancipazione, il capitolo realizzato da Pamela Rosenkranz sviluppa ulteriormente il tentativo del Thought Council di sollecitare reazioni a livello mentale e corporeo e creare esperienze sensoriali e spaziali. Il suo intervento può essere osservato e vissuto a distanze diverse, che modificano la percezione dell’architettura della Cisterna stessa. La pianta circolare dell’installazione e la ricerca scientifica alla base del progetto rimandano indirettamente alla funzione originaria di questo spazio, che in passato ospitava i serbatoi utilizzati per la fermentazione alcolica. La luce verde che filtra attraverso le vetrate della Cisterna trasforma l’intero edificio in una teca, percepita dall’esterno come un oggetto luminoso, creando un effetto che si intensifica con il buio.
I visitatori possono quindi avere un’esperienza diretta e personale dell’installazione da diverse prospettive, enfatizzando le qualità formali della Cisterna: la struttura, l’imponenza e l’atmosfera misteriosa. Una sensazione di incertezza causata da una reazione biologica e da una pluralità di contrasti (profumo e odore, caldo e freddo, densità e vuoto, luce e buio) attiva tutti i sensi. L’installazione di Pamela Rosenkranz sviluppa ulteriormente gli obiettivi di “Slight Agitation”, offrendo al pubblico la possibilità di vivere una nuova esperienza coinvolgente e collettiva.
Il lavoro di Pamela Rosenkranz esplora le modalità attraverso le quali i processi fisici e biologici influenzano l’arte. La sua nuova installazione per “Slight Agitation”, dal titolo Infection, si basa sull’azione di un parassita attivo a livello neurologico, che colpirebbe circa il 30% della popolazione mondiale. Un’imponente montagna di sabbia è realizzata all’interno dei vasti spazi della Cisterna, creando un confronto con la sua architettura industriale. Il materiale naturale è intriso di una fragranza ottenuta da feromoni di gatto ricreati in laboratorio, capaci di attivare specifiche reazioni di attrazione e repulsione a livello biologico e di influenzare in maniera subconscia il movimento dei visitatori. Una luce verde RGB illumina dall’alto questa enorme massa alterata chimicamente e ne fa evaporare lentamente il profumo.
Dopo l’installazione di Tobias Putrih che riguardava i concetti di gioco, politica ed emancipazione, il capitolo realizzato da Pamela Rosenkranz sviluppa ulteriormente il tentativo del Thought Council di sollecitare reazioni a livello mentale e corporeo e creare esperienze sensoriali e spaziali. Il suo intervento può essere osservato e vissuto a distanze diverse, che modificano la percezione dell’architettura della Cisterna stessa. La pianta circolare dell’installazione e la ricerca scientifica alla base del progetto rimandano indirettamente alla funzione originaria di questo spazio, che in passato ospitava i serbatoi utilizzati per la fermentazione alcolica. La luce verde che filtra attraverso le vetrate della Cisterna trasforma l’intero edificio in una teca, percepita dall’esterno come un oggetto luminoso, creando un effetto che si intensifica con il buio.
I visitatori possono quindi avere un’esperienza diretta e personale dell’installazione da diverse prospettive, enfatizzando le qualità formali della Cisterna: la struttura, l’imponenza e l’atmosfera misteriosa. Una sensazione di incertezza causata da una reazione biologica e da una pluralità di contrasti (profumo e odore, caldo e freddo, densità e vuoto, luce e buio) attiva tutti i sensi. L’installazione di Pamela Rosenkranz sviluppa ulteriormente gli obiettivi di “Slight Agitation”, offrendo al pubblico la possibilità di vivere una nuova esperienza coinvolgente e collettiva.
Oggetto: Progetto ed opening della Mostra: Alex Martinis Roe
* 24 Febbraio 2017: Bolzano
Mostra dal titolo “Diventare 2”
Comunicato Destinato a tutti coloro che hanno contribuito e supportato il Progetto “Diventare 2”
Un enorme grazie!
Sono stati per me tre anni incredibili di incontri, collaborazioni ed apprendimento.
Ora ci saranno alcuni momenti pubblici dove il progetto sarà esposto con una mostra e sarebbe veramente fantastico se voi poteste partecipare ad alcuni di questi eventi cosicché potremmo condividere la chance di celebrare insieme!
Il primo ” vernissage” della Mostra sarà il 19 novembre con orari dalle 15 alle 18 presso la sede di CASCO (vedi dettagli allegati qui sotto) a Utrecht ( in Olanda).
e poi
* 11 Dicembre 2016 : ” La nostra Rete Futura: Storiografia: Parlare in pubblico e la Differenza Collettiva, Presso Dokzaal ad Amsterdam come parte della Rassegna programmata dal titolo ” If I can’t dance Performance Days”
* 29 Gennaio 2017: evento presso la sede di CASCO ad Utrecht inclusa una serie di attivazioni di alcune delle proposte per la pratica del collettivo femminista dal Vostro Progettto ” La nostra rete futura”
* 24 Febbraio 2017: Inaugurazione della mostra ” Diventare 2″ a Kunst (Bolzano)
* 30 Marzo 2017: Apertura di una istallazione del Film ( a 3 canali) dal titolo ” It Was about opening up the very Notion that there Was a particular perspective” come parte della Rassegna ” The National” alla Galleria d’Arte di New South Wales a Sydney.
* 25 Aprile 2017 : Inaugurazione della Mostra “Diventare 2” presso la sede della Galleria “The Show-room” a Londra, UK
Dunque Vi prego, fatemi sapere se sarete in grado di partecipare a qualche evento!
Cordiali saluti!
Alex
GALLERIA CASCO INVITO, INAUGURAZIONE:
Progetto a cura di ALEX MARTINIS ROE
Sabato 19 Novembre 2016
Il Team di Casco Ufficio per l’Arte, Design e la Teoria vi invita caldamente a partecipare alla Vernice della Mostra “Diventare 2” prevista per Sabato 19 Novembre 2016 dalle 15 alle 18.
La Mostra copresentata da “Casco” e dal Progetto ” Se io non posso danzare, non voglio essere parte / partecipare alla vostra Rivoluzione” riunisce 6 Films del Progetto – Ricerca a lungo termine dell’artista Alex Martinis Roe che porta lo stesso titolo.
Il Progetto-Mostra traccia la genealogia delle teorie del ” nuovo materialismo femminista” e ” della differenza sessuale” attraverso l’impegno con diverse comunità internazionali femministe e le loro pratiche politiche , che includono gli Studi delle donne ( ora denominati ” Gender Studies”) presso l’Universita’ di Utrecht, che è un partner-socio affiliato a CASCO da lungo tempo.
” Diventare 2″ elabora uno svariato numero di pratiche storiche sviluppate da questa comunità ed esplora le loro interconnessioni attraverso le generazioni e contesti differenti.
I 6 Films sono presentati attraverso una installazione modulare architettonica che descrive il lungo viaggio esplicitato dal Progetto – un Viaggio incominciato nel 2014.
Il Progetto “Diventare 2” include inoltre dei Laboratori- Workshops , delle Performances ed un Libro Artistico e peraltro proseguirà con una Mostra che avrà luogo sia a Bolzano che a Londra.
L’Opening include una Conferenza dell’Artista che avrà luogo a Bolzano alle ore 15,15 durante ll’Opening della Mostra “Diventare 2”.
L’Artista Alex Martinis Roe , nata in Australia, e con base a Berlino esplora una politica affermativa della differenza rintracciando attraverso le sue Performances una storia sociale della Teoria e Pratica femminista.
Si impegna nella creazione di Films e documentari, documenti e testi, nonché sitografie dove le strategie dei discorsi e argomenti vengono praticate al fine di mostrare quanto è a che livello il lavoro del femminismo del passato sia connesso alle teorie contemporanee del femminismo del presente e del futuro.
Questi materiali, abbinati con le diverse forme di ricerca e storytelling (narrazione di storie) che utilizza Martinis Roe , supportano lo stitching del tempo e della storia attraverso la sperimentazione variegata e gli incontri con le specifiche comunità dislocate in varie nazioni presso cui e con le quali lei ha lavorato tramite una metodologia creativa generativa verso una solidarietà intergenerazionale.
Siccome l’Opera di una femminista del 20^ secolo è spesso differenziata da ondate generazionali che demarcano le priorità ed i risultati, i Films della Martinis Roe e la loro installazione offrono delle storie alternative di relazioni affermative/positive fra gruppi di femministe di diverse generazioni.
Martinis Roe traccia il suo percorso a partire dal primo lavoro politico che tratta ” la differenza sessuale” – una teoria e pratica di soggettività relazionale che implica il relazionarsi verso, il fare spazio, nonché inventare una cultura ” sessuata” che inizia proprio dalle differenze – ed in seguito una nuova teoria femminista materialista che comprende concetti similari, forme e teorie politiche di questo differenziarsi fino ad estendere queste idee attraverso l’esportazione di “Agency” di corpi , materia e del loro intreccio con la cultura in una convergenza fra le scienze e le scienze umane.
La Genealogia, che Martinis Roe traccia, non solo dimostra il processo generativo dello sviluppo di una storia sociale, ma mostra altresì il potenziale al fine di stabilire e praticare una teoria politica come risultato di tale azione, enfatizzando così la connessione fra teoria ed attivismo.
Ogni film esplora la storia e l’organizzazione di un gruppo femminista che emerse negli anni ’70 – ’80 e ’90 , ivi inclusi la Libreria delle Donne di Milano (Italia), il gruppo di Psicanalisi e Politica (Francia), il gruppo di Women’s Studies (ora denominato Programma di Studi di Genere) presso la sede dell’Universita ‘ di Utrecht (Olanda) , una rete di coloro che sono attivisti nella cooperativa di Filmmakers di Sydney, dei Feminist Film Workers, e del Dipartimento di Filosofia Generale presso l’Universita’ di Sydney (Australia), nonché il DUODA ( cioè il Centro di Ricerca delle Donne) e Ca’ La Dona di Barcellona(Spagna).
Utilizzando vari metodi, quali l’osservazione partecipativa, le interviste con delle narrazioni di storia orale, o ricerche d’archivio, nonché pratiche di collaborazione sociale tramite cui Martinis Roe mette in relazione le teorie e le pratiche di gruppi pregressi a quelle di una generazione più giovane di donne attraverso Reenactments ( riattivazioni) , storytelling, traduzioni consecutive nonché la presentazione di Materiali d’archivio.
Il suo lavoro con questa generazione più giovane ha elaborato in seguito lo sviluppo di pratiche femministe collettive, che plasmano e danno forma al soggetto del film che chiude l’opera “OUR FUTURE NETWORK” (2016).
Le installazioni architettoniche che fanno da supporto alla visione dei filmati, il cui design è stato curato da Fotini Lazaridou-Hatzigoga, permettono molteplici incontri e varie modalità grazie a cui visionare l’esposizione.
A partire dai disegni di spazi interni e settings (ambientazioni) materiali – fisici- discorsivi creati dai primi collettivi femministi, queste strutture enfatizzano e sottolineano come sia lo spazio formale, sia dei format di tipo sociale informino / diano forma ad una soggettività vissuta ed incarnata, nonché la pratica politica.
Per maggiori ed ulteriori informazioni riguardo i filmati presenti nella mostra, nonché il programma didattico di formazione relativo al Progettoed anche il programma dettagliato di tutte le attività ad esso connesse , si prega di connettersi e collegarsi al Link specifico ” The Casco Website”.
“Diventare 2 ” è una Mostra-progetto co-commissionata in Olanda da Casco in collaborazione con l’Ufficio per l’Arte, Design e la Teoria, con sede a Utrecht e con l’organizzazione artistico-culturale ” If I can’t dance , I don’t to be part of your revolution ” presenta ad Amsterdam.
I Workshops e performances che accompagnano la Mostra sono stati commissionati dalla Fondazione “The Keir Foundation”.
The exhibition, co-presented by Casco and If I Can’t Dance, I Don’t Want To Be Part Of Your Revolution, brings together six films from artist Alex Martinis Roe’s long-term research project under the same title. The exhibition project traces the genealogy of “feminist new materialist” and “sexual difference” theories through her engagement with different international feminist communities and their political practices, which include Women’s Studies (now Gender Studies) at Utrecht University, Casco’s long-term and affectionate partner. To Become Two elaborates on a number of historical practices developed by these communities and explores their interconnections across generations and different contexts. The six films are presented in a modular architectural installation that speaks to the project’s long journey – commenced in 2014,To Become Twoincludes workshops, performances, and an artist’s book, and will later travel onwards to Bolzano and London.
The opening includes an Artist Floor Talk that will take place in the To Become Two exhibition at 15:15 hrs.
Australian-born and Berlin-based artist Alex Martinis Roe locates an affirmative politics of difference by performatively tracing a social history of feminist theory and practice. She engages in the making of films, textual documents, and material structures and sites where discursive strategies are practiced in order to show how the significant feminist work of the past is linked to contemporary feminist theories and practices of the present and future. These materials, coupled with the different forms of research and storytelling that Martinis Roe employs, support the stitching of time and history across varied experimentation and encounters with the specific and situated communities she has worked with as a generative methodology towards intergenerational solidarity. As twentieth-century feminist work is often distinguished by generational waves that demarcate priorities and achievements, Martinis Roe’s films and their installation offer alternative stories of affirmative relations between feminists across generations.
Martinis Roe draws from the early political work that engages with “sexual difference” – a theory and practice of relational subjectivity that involves relating to, making space for, and inventing a sexuate culture that begins from differences – and later “feminist new materialist” theory, which takes up similar concepts, forms, and political theories of this differing to extend these ideas by accounting for human and non-human forces and modes of relation, exploring the agency of bodies, of matter, and their entanglement with culture in a convergence between the sciences and humanities. The genealogy that Martinis Roe traces not only demonstrates the generative process of developing a social history, but also shows the potential for establishing and practicing a political theory as a result of doing so, thus emphasizing the connection between theory and activism.
Each film explores the history and organization of a feminist group that emerged in the 1970s, ‘80s, or ‘90s – including theLibreria delle donne di Milano (Milan Women’s Bookstore co-operative) (Italy); Psychanalyse et Politique(Psychoanalysis and Politics) (France); Women’s Studies (now the Gender Studies Programme) at Utrecht University (The Netherlands); a network of those active in the Sydney Filmmakers Co-operative, Feminist Film Workers, and the Department of General Philosophy at Sydney University (Australia); and Duoda – Centro de investigación de Mujeres (Duoda – Women’s Research Centre), and Ca La Dona, Barcelona (Spain). By employing various methods such as participant observation, oral history interviewing, archival research, and collaborative social practices Martinis Roe connects the theories and practices of previous groups to a younger generation of women through reenactments, storytelling, consecutive translations, and the presentation of archival material. Her work with this younger generation later resulted in the development of twenty propositions for feminist collective practices, which forms the subject of the final film Our Future Network (2016).
The architectural installations that support the viewing of the films, designed with Fotini Lazaridou-Hatzigoga, allow for multiple encounters and ways of viewing the exhibition. Drawing from the interior spaces and material-discursive settings created by these early feminist collectives, these structures emphasize how both material space and social formats inform lived and embodied subjectivity and political practice.
For more information about the films in the exhibition, the education program related to the project, and an updated and detailed program of all the related activities, please check the Casco website here.
To Become Two is an exhibition project co-commissioned in the Netherlands by Casco – Office for Art, Design and Theory, Utrecht and If I Can’t Dance, I Don’t Want To Be Part Of Your Revolution, Amsterdam. The accompanying workshops and performances are co-commissioned by the Keir Foundation. Presenting partners include <
sino al 5 febbraio 2017
Via Magenta 31
Torino – Piemonte
+39 0114429518
gam@fondazionetorinomusei.it
http://www.gamtorino.it
Termina giustamente nel capoluogo torinese il tour europeo della grande retrospettiva dedicata a Carol Rama, artista scomparsa nel 2015. Una mostra completa e ragionata che consacra ancora una volta una figura geniale e fuori da ogni schema.
Per lei che aveva fatto di Torino, e in particolare della sua soffitta in via Napione, un alveo autosufficiente; per lei che tanti contatti aveva avuto con personaggi celebri del mondo dell’arte e della cultura in generale – da Man Ray a Edoardo Sanguineti – ma che infine, volente o nolente, si circondava di una ristrettissima cerchia di amici o presunti tali; per Carol Rama (Torino, 1918-2015) sarebbe stato sorprendente veder circolare le proprie opere al Macba di Barcellona e al Musée d’Art moderne de la Ville de Paris, e poi all’Espoo Museum of Modern Art e all’IMMA di Dublino, per far ritorno dopo un anno e più nella sua città, alla Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea.
NEMO PROPHETA IN PATRIA?
Il consueto nemo propheta in patria? Stavolta no, sarebbe – ed è stata – una polemicuccia da disinformati o da rimestatori di fanghiglia. Perché è pur vero che Carol Rama ha dovuto attendere decenni per veder riconosciuta la propria opera, ma d’altro canto chi l’ha portata – finalmente! – agli onori dell’empireo dell’arte è stata la Biennale di Venezia, con quel Leone d’oro assegnato nel 2003, e l’anno successivo Torino, nella veste della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che le dedicò una grande antologica (chi la definì “retrospettiva” fu apostrofato dall’artista con una stilettata: “Non sono mica morta!”) curata da Guido Curto e allestita da Corrado Levi insieme a quella felicissima esperienza d’architettura che fu il gruppo Cliostraat. Certo, ci si può sempre aggrappare al fatto che i curatori di questa grande rassegna itinerante sono “stranieri”: e con ciò? L’internazionalismo ci aggrada soltanto quando sono i nostri connazionali a lavorare, e bene, all’estero?
UN TRIBUTO STRAORDINARIO
Detto questo, gli spazi sotterranei della GAM accolgono un tributo straordinario a un’artista che mai, o quasi, si allineò a tendenze e movimenti, e che pagò cara tale indipendenza, di pensiero innanzitutto, da una cifra distintiva che la rendesse riconoscibile e commercializzabile agevolmente. Ma il prezzo pagato ora risplende con tale graffiante luminosità da far dimenticare finanche la location non entusiasmante: nulla da invidiare a una Louise Bourgeois, volendo restare in ambito femminile e non-allineato; ma soprattutto nulla da invidiare a una schiera di artisti – di qualunque genere e nazionalità – legittimamente osannati. Nessuno come Carol Rama? No, sarebbe un goffo e ingiustificato tentativo di recuperare il tempo perduto. Ma è doveroso reinserirla in una storia dell’arte che necessita, ora più che mai, di una – anzi, di molte – riscrittura.
Menzione per la Fondazione Sardi per l’arte, che ha sponsorizzato l’edizione italiana del catalogo, ricco di contributi vecchi e nuovi sull’opera di Carol Rama.
Marco Enrico Giacomelli
Dal 12 gennaio al 4 febbraio 2017
ANTONIA MULAS
San Pietro: la gloria si fa inquieta
Inaugurazione 11 gennaio ore 18,30
Centro Culturale e Galleria San Fedele
via Hoepli, 3/b – Milano
La sensazione è che stia per accadere qualcosa. Ogni particolare è carico di indizi ma avvolto nel mistero. I drappi marmorei celano e ornano; il fasto barocco si produce in un’esplosione contenuta, mentre gli ori diventano plumbei e i santi assumono calore umano.
E’ la visione rivoluzionaria, femminile, di Antonia Mulas – fotografa, documentarista, artista – della basilica di San Pietro a Roma. Da questi racconti in frammenti emerge come un senso di vuoto, una sorta di ambiguità soffusa. Una fragilità nervosa si impone al cuore della magniloquenza di gesti solenni e retorici. La gloria si fa inquieta.
Antonia Mulas ci conduce in un viaggio di quattro secoli tra le opere di Gian Lorenzo Bernini, Antonio Canova, fino a giungere a Francesco Messina attraverso quindici fotografie di grande formato scattate nel 1977 – 1978, che cercano di catturare con grande profondità ottica, particolari che appaiono sin dal primo sguardo, frammenti di un discorso più ampio, complesso, quasi sottaciuto. Volti e arti deformati da estasi o dolore evocano l’esperienza umana attraversata dal divino, le ore del quotidiano sembrano scorrere sulla pelle dei santi. E’ un racconto scuro, sublime e sensuale che attinge alla profondità dell’anima.
Le statue ritratte solo con luce naturale, semplicemente illuminate dal sole, sono presentate in una sequenza continua lunga in origine 27 metri e mostrata in questa occasione in un frammento di 9 metri.
La fotografia è per Antonia Mulas strumento di conoscenza e relazione: è viscerale, diretta, nuda. Il suo sguardo sui santi è lo stesso riservato alle teste romane, agli impianti della Fiat, all’architettura, alla desolazione del muro di Berlino ripreso in sequenza nel 1976 con il preveggente titolo “Archeologia”.
La mostra prosegue in chiesa con due immagini di Antonia e Ugo Mulas in dialogo con le opere del Museo San Fedele Itinerari di arte e fede.
martedì/sabato 16.00 – 19.00
al mattino su appuntamento, chiuso i festivi
di Francesca Pasini
Gli oggetti nell’arte raccontano l’affezione del quotidiano, fluttuano tra memoria e consumo.
Per oggetti intendo i manufatti che legano la “tradizione” visiva ai rapporti d’identità. È un passo dopo l’iconografia cristiana e le sue grandiose invenzioni artistiche; dopo che le avanguardie del secolo scorso hanno rotto lo specchio, dall’Impressionismo a Munch, a Duchamp, al Cubismo, a De Chirico.
E dopo Pae White che, con i suoi fantastici lampadari, si allea alla luce del Chandelier (2014), di Sirous Namazi (Galleria Nordenhake, Berlino), che a sua volta ci trasporta in un ambiente “orientale”. E dopo Chiara Camoni che, con i suoi vasi di terracotta, transita dall’archetipo arcaico alla manualità anonima della scultura, cioè alla creazione allo stato nascente che ognuno potenzialmente ha. E dopo Elisabetta Di Maggio con le sue ceramiche incise, come la calotta-cuffia che protegge l’emisfero del cervello e il volto assente, che ipoteticamente ognuno potrebbe inserire in questa fragile, reticolare, bianca testa “morandiana”. (Museo della Ceramica – Mondovì). E dopo Urs Fischer, che dissemina il pavimento della galleria di Massimo De Carlo (via Ventura, Milano) con sculturine in ceramica di frutta, piccoli animali, personaggi in pose senza scrupoli. E dopo molti e molte.
La difficoltà del contemporaneo sta nel riconoscere i passaggi anonimi che prendono forma e nome con l’arte, e nel capire quale evento emotivo è riconoscibile in un oggetto che, senza l’investitura artistica, rimarrebbe un prezioso possesso personale, mentre una volta entrato nel circuito dell’arte è patrimonio di tutti quelli che lo vedono.

Ritorna Duchamp, ma non è più un oggetto d’uso spostato in un’altra sede e titolato in modo allusivo “Fountain”, è una creazione che tiene dentro di sé il concetto d’uso e lo offre come deposito affettivo e visivo: ci fa immaginare una casa a cavallo tra Iran e Svezia (Sirous Namazi) o il piacere della luce interna nell’abitare occidentale (Pae White) .
Tutto questo è anche il frutto di una femminilizzazione dell’arte che influenza il linguaggio di uomini e donne.
Gli otri scuri, i meravigliosi, trasparenti, bicchieri di Murano, sparsi sulla tovaglia nel Convito a casa di Levi di Paolo Veronese, erano un accenno umanizzante dentro la visione sacra. Ora gli oggetti d’uso quotidiano non sono più un’inserzione dedicata alla vita di Cristo, ma a uomini e donne. Ad esempio, i passeggini da bambini vuoti di Nari Ward.
Chiara Camoni ha segnato un punto importante su questo tema nella mostra alla galleria Spazio A di Pistoia, (“La storia viene sempre dopo”) e nella “Quarta Vetrina” alla Libreria delle donne di Milano (Barricata). Il punto sta in una serie di vasi in terracotta che mantengono il proprio uso e nello stesso tempo aprono il concetto di contraddizione e di inizio.
I vasi a Pistoia sono disseminati su basi bianche, hanno forme libere, variatissime e impreviste, colori che evocano la mobilità della materia e della mano. Hanno una funzione: emettono fischi. Una pratica diffusa nella cultura materiale. Durante la mostra sono stati usati come impensati strumenti d’orchestra, uno aveva una doppia uscita e il fischio è stato modulato in sincrono da Chiara e dal marito Luca Bertolo.

Alla Libreria delle donne di Milano, i vasi in terracotta scura, sono ammassati gli uni agli altri, mantengono la funzione e accolgono fiori freschi recisi. Sono una Barricata dedicata alle donne, alle artiste, alle madri simboliche e alla sua mamma.
Chiara sottolinea che tutto ha origine da un punto, tutto va incontro in modo circolare alla bellezza e al negativo, all’accoglienza e al rifiuto, alla fragilità e alla forza, alla forma e alla sua costante mobilità. I vasi di Chiara accolgono il contatto tra forma e cultura materiale. Da qui inizia la consapevolezza rispetto a sé e agli altri. A volte è in grado di ricevere, suono, colore, a volte no.
La simbologia del vaso è sinonimo di archetipo. Riguarda la nascita della pittura greca, i vasi Attici, e l’origine della vita condivisa che affiora dai contenitori del cibo coltivato. Può essere una metafora dell’iconografia della fede? Non credo. È una visione dello scambio necessario per vivere e crescere. Richiama il ventre materno, ma anche quel respiro che si dilata di fronte alla spensieratezza della gioia e si coagula in un grumo, sul fondo, con l’ansia e il dolore.

Anche per questo Chiara Camoni ha messo al mondo questa folla di vasi che fischiano come uccelli e contengono fiori per tenere compagnia alla casa. Imparare a guardarli in questo modo significa andare oltre Duchamp, non perché sia stato superato, ma perché ogni oggetto è “un appuntamento”, come lui stesso definiva il readymade.
Un appuntamento con chi? Con i bicchieri di Murano di Paolo Veronese, un inizio circolare che si sviluppa dal fiato del vetraio. Non sono entrati nell’iconografia della fede, ma in quella della vita, fragile più che mai.
Oggi Chiara Camoni dichiara che la metafora del ventre materno e la simbologia del vaso, non riguardano solo il momento della generazione, ma il procedere quotidiano tra le cose, gli affetti, i pensieri che talvolta, fortunatamente, acquistano una forma in cui riconoscersi. È una forma volatile, raccoglie il continuo movimento dei tanti frammenti viventi nel pianeta.
È una nuova iconografia? Per il momento accettiamo proustianamente che le cose e gli oggetti incidono su di noi e hanno bisogno di essere rappresentati e raccontati.
(www.exibart.com, 30 dicembre 2016)
dal 14 dicembre 2016 al 8 gennaio 2017
Inaugura martedì 13 dicembre alle ore 18.00, la mostra “I FEDELI” di Laura de Santillana allo Studio Museo Francesco Messina di Via San Sisto 4/a Milano (Via Torino).
Il curatore, Sabino Maria Frassà, introduce così l’esposizione: “nella Chiesa di San Sisto Laura de Santillana colloca 20 sculture di ferro e vetro, tutte bianche o trasparenti, ad eccezione di quattro “libri” rossi. Il dialogo tra vetro, luce e spazio innesca una forte empatia, suggestioni mutevoli e personali, attraverso le quali l’artista invita noi tutti colmare il nostro vuoto interiore e a ricercare in noi stessi (e non all’esterno) le risposte, la saggezza e l’equilibrio. Allo spettatore non resta che vivere questa mostra in silenzio come una preghiera.” Mentre a spiegarne la genesi è l’artista stessa che dice: “La nostra è una società che vive nell’assenza. Assenza di cosa? L’assenza è sempre una mancanza di fede in qualunque modo la si voglia intendere. Quando gli uomini non credono producono un vuoto ed io questo vuoto ho voluto riempirlo dei miei fedeli. Cerco la bellezza nel senso di un’armonia profonda, non estetica, ma trascendente. Il rosso dei “libri di vetro” non è casuale in quanto è la parte sacra, mistica, presente in ognuno di noi.
La mostra, presentata dal Comune di Milano e dalla Fondazione Giorgio Pardi, è il proseguimento del percorso di Laura de Santillana con il progetto cramum (parola latina che significa “crema”, “la parte migliore) sul tema “A chi parla l’arte contemporanea?”. L’artista è inoltre presente fino al 13 gennaio con alcune opere nella collettiva internazionale “Oltre Roma” curata sempre da Sabino Maria Frassà per cramum e Accademia di Ungheria a Roma.
Laura de Santillana nasce nel 1955 a Venezia, è tra le artiste italiane più famose al mondo. Nel 2009 partecipa alla Biennale di Venezia. Sue opere sono state esposte o fanno parte di numerose collezioni pubbliche o private, tra cui Museo Vetrario di Murano, Venezia, Italia, The Corning Museum of Glass, New York, NY, USA, Victoria and Albert Museum, Londra, Gran Bretagna, Metropolitan Museum of Arts, New York, NY, USA, Seattle Art Museum, Seattle, WA, USA, MUDAC, Losanna, Svizzera, Museu de Arte de São Paulo, San Paolo, Brasile, Musée des arts décoratifs, Parigi, Francia, Kunstmuseum im Ehrenhof, Düsseldorf, Germania, Kunstsammlungen der Veste Coburg, Coburgo, Germania.
Nel 2015 aderisce al progetto cramum e partecipa alle mostre Vox Clamantis e Oltre Roma, curate da Sabino Maria Frassà.
Vademecum
I FEDELI
Laura de Santillana
A cura di Sabino Maria Frassà
Studio Museo Francesco Messina
Promosso Fondazione Giorgio Pardi – progetto cramum
14 dicembre 2016 – 8 gennaio 2017
da martedì a domenica ore 10:00 – 18:00
Inaugurazione martedì 13 dicembre 2016 18:00 – 20:00
da lunedì 12 dicembre a domenica 12 marzo 2017
Chiara Dynys – “Look Afar”
M77 gallery via Mecenate, 77 • Milano
Chiara Dynys è una di quelle artiste che, dagli anni Novanta, ha lasciato tracce importanti nel suo percorso attraverso un lavoro assiduo, vario e spesso indirizzato verso tematiche differenti, da quelle sociopolitiche o di ricerca – come il lavoro sugli archivi presentato alla Fondazione Pomodoro nella mostra Scultura Italiana XXI secolo nel 2009 – ad azioni più estetiche come le installazioni di light boxes colorate, o le immagini presenti nella collezione Panza di Biumo a Varese, tutte produzioni legate alla ricerca di qualcosa oltre, di metafisico.
Alla galleria M77 Dynys presenta una mostra personale con un nuovo corpo di lavoro, realizzato appositamente per quest’ampio spazio: l’artista ha lavorato senza posa per aderire e dialogare con i due piani della galleria sviluppando una tematica precisa dedicata a un viaggio in Lapponia dello scorso anno. Look afar è un racconto di un’esperienza speciale vissuta in Svezia: quella dell’aurora boreale che l’artista ha osservato per un lungo periodo, appostata a “spiare” minuziosamente i cambiamenti che questo fenomeno apporta al paesaggio e, soprattutto, alla luce del Nord – fonte di ispirazione e punto di partenza per “guardare lontano” – come suggerisce il titolo.
E Chiara Dynys ci riesce, a guardare lontano: dopo un elegante dialogo con opere di Piero della Francesca al Museo Poldi Pezzoli nel 2013 o il lavoro sui Poisoned flowers (sempre presso M/77 /a St. Moritz) lo scorso anno, qui l’artista ripercorre un viaggio attraverso un cospicuo numero di immagini sviluppate attraverso medium diversi. Per la mostra Chiara Dynys ha infatti realizzato opere pittoriche; dettagli enfatizzati attraverso l’utilizzo di lenti, quasi a indicare una sorta di sfera magica; fotografie e un video in time-lapse con le varie evoluzioni del fenomeno climatico studiato. Un linguaggio di tanti elementi che raccontano un viaggio.
Rossella Farinotti
dal 5 al 11 dicembre 2016
Il Comune di Mercato Saraceno
Assessorato alla Cultura
Rad’Art Project | Associazione artéco INVITANO
Domenica 4 dicembre 2016, dalle ore 16:00
all’inaugurazione della mostra
Parжour
di
Chiara Pergola
alle ore 18.00: Happening
Parжour è un esercizio di indagine dello spazio urbano realizzato attraverso i più comuni dispositivi mobili ed i sistemi di georeferenziazione ad essi collegati. Aforismi tratti dal Tao Te Ching sono meditati, tradotti e riscritti fotografando e localizzando frammenti delle scritte che si incontrano lungo le vie delle città. La ricerca delle sillabe con cui scrivere il Tao costituisce una forma di “flâneurie” e di ginnastica mentale, che permette di inserire all’interno dei percorsi forzati della vita quotidiana uno sguardo interstiziale che ne ridefinisca codici, segnali, topografia.
I materiali prodotti durante la residenza presso La Chambre Blanche nel 2015, verranno presentati a Rad’Art assieme ad una installazione site-specific realizzata in loco, in cui emergono le tracce del processo di antropizzazione di un ambiente naturale.
L’installazione sarà attivata da un happening che si svolgerà alle ore 18.00
Come raggiungere Rad’Art:
Da Cesena, prendere la SS E45 fino alla seconda uscita di Borello (Bora). Procedere in direzione al centro di Borello; alla prima rotonda, prendere la seconda uscita in direzione di Piavola (SP 29); superata Piavola procedere oltre fino a San Romano. Dopo cinquanta metri del cartello che indica la località, svoltare a destra verso Pieve di Rivoschio per raggiungere San Romano alta. Dopo due tornanti in salita ed in fondo al rettilineo, parcheggiare davanti alla chiesa. Seguire a piedi le indicazioni (50 metri).