da noidonne.org – Aperta ai Giardini e all’Arsenale la 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, diretta dalla francese Christine Macel

Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi. Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione. Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale. L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà. La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati. Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944). Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale. Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney. La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile. Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra – “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) – un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann – si legge nella motivazione – ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia. Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8). In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.

Tracey Moffatt, Madre con bambino, dalla serie Traversata, 2017, Padiglione dell’Australia, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia (Photo courtesy the Artist, Australia Council for the Arts).

Marzia Migliora protagonista della mostra più sussurrata e forte a Venezia. Dove si prende in esame la storia e il destino della città lagunare, scavando a fil d’acqua
 di Francesca Pasini

 

Quella di Marzia Migliora, più che una mostra, è un’intrusione in casa d’altri. La si sente aggirarsi con calma, curiosità, determinazione. Ca’ Rezzonico è ricca, piena di quadri, di mobili, di luci, alle quali si aggiunge quella che, attraverso lo specchio del canale, si riflette in facciata. Seguire il profilo dei canali, in modo che gli edifici siano ortogonali all’acqua, è l’invenzione dell’urbanistica veneziana. E Migliora mette una pagina argentata tra la copertina e l’inizio del catalogo (hopefulmonster editore, a cura di Beatrice Merz), mentre il doppio ingresso dal canale e dalla terraferma caratterizza il prestigio dell’architettura.

Ca’ Rezzonico è stata completata nel Settecento e in quello stesso secolo Canaletto “anticipa” la funzione della luce nel definire l’inquadratura. Ci vorrà circa un secolo perché la fotografia trasferisca nell’obiettivo questo elemento.

Marzia Migliora analizza il corredo di presenze sociali e artistiche che fanno parte del Museo del Settecento Veneziano.

Il titolo è Velme e già qui s’intuisce che non è tutto oro quel che luccica. “Velma” è, infatti, lo strato fangoso che emerge dal fondo della laguna, quando c’è bassa marea. Marzia ha cercato tra i pavimenti, le stanze, i quadri, i lampadari, la velma che si deposita sotto le maschere del potere, delle invenzioni, degli affetti, delle subalternità.

Lo stemma di famiglia segna l’ingresso da terra: come d’abitudine, anche i Rezzonico usano il motto del potere Si Deus Pro Nobis, ma a questa frase manca un pezzo non da poco. Nella Lettera ai Romani, San Paolo diceva: Si deus pro nobis, quis contra nos? Espungerla significava nascondere la domanda cruciale su chi la pensa diversamente. E sappiamo quanto queste parole dimezzate di Dio abbiano pesato. Migliora “scrive” su due specchi del palazzo Quis contra nos. Non c’è punto di domanda, ma la constatazione che chi è contro si riflette su chi guarda.

Allude al passato? No. È la velma limacciosa di chi in ogni epoca impugna solo la prima parte della sentenza di San Paolo: dall’Isis alla volontà di potenza individuale. Succede anche a Ca’ Rezzonico

Marzia ci avverte appena si entra. Mette faccia al muro, alla distanza di un’asta metrica angolare di un metro, le meravigliose statue dei guerrieri etiopi del Brustolon che adornano il salone d’ingresso al primo piano. La funzione di porta vasi (sostituiti dall’artista con un blocco di salgemma), la posa atletica, le catene, sono il prototipo della giustificazione della superiorità razziale.

Il Settecento a Venezia significa Goldoni e la sua ironia che spesso migra nei proverbi. Perché el can, el vilan, el gentilomo venesian no sera mai la porta? El can perché nol ga le man, el vilan perché el xe vilan, el gentilomo venesian perché ga el moreto. (Perché il cane, il villano, il gentiluomo veneziano non chiude mai la porta? Il cane perché non ha le mani, il villano perché è villano, il gentiluomo veneziano perché ha il moretto). Una battuta che non riduce la durezza del comando sulla servitù.

La luce dell’ironia, dell’intelligenza, della pittura, porta con sé l’ombra della fine. Venezia non è più la padrona del mare, con un ultimo slancio di grandeur trasferisce nella terra ferma la grana formale del potere, nascono ville grandiose come quella Pisani di Stra che aveva per modello Versailles e tante altre. La festa continua, ma qualcosa si è rotto.

Se ne accorge Giandomenico Tiepolo che nel 1791 dipinge il Mondo Novo, lo fa ad affresco nella sua villa di campagna a Zianigo, perché non crede più allo sfolgorio mondano. La rivoluzione francese è dietro l’angolo. Tiepolo immagina un chiosco che contiene una lanterna magica. Turisti, popolo, nobili si accalcano per entrare, sono tutti ritratti di schiena, tranne un bambino forse simbolo del nuovo che avanza. I colori sono fluidi, poco enfatici, malinconia e curiosità hanno la stessa temperatura. È un dipinto simbolico che ora si trova a Ca’ Rezzonico ed è un’altra chiave che guida l’intrusione di Marzia Migliora.

Il suo “mondo nuovo” è quello del lavoro. Colloca nel Portego (la sala che collega la porta d’acqua a quella di terra) La fabbrica illuminata: una fila di banchetti da orafo, con una lampada incorporata, sormontati da un blocco di salgemma. L’oro bianco che ha fatto nascere Venezia. Durante le invasioni del IX secolo, solo gli estrattori del sale sapevano orizzontarsi nell’intrico di barene, canali, maree; erano gli ultimi “cives”  della Decima Regio, la miniera dell’oro bianco dell’Impero Romano. Le luci dei banchetti interferiscono con il simbolo della preziosità. La storia è intricata e la velma ogni tanto affiora. Con agilità Marzia sceglie di abbinare l’oro bianco al lavoro salariato e proietta il riflesso della sua attuale precarietà (i banchetti da orafo provengono da un’industria andata in fallimento) e della velma che soffoca l’ambiente.

Il passato del Settecento e quello del Novecento non sono accostati con un criterio evoluzionistico, ma sul principio di contraddizione tra cambiamento e disparità. Ce lo ricordano ancora Tiepolo, i Mori del Brustolon, Pietro Longhi, Francesco Guardi.

Nelle scene di Carnevale, che questi ultimi dipingono, compare una ragazza con una maschera nera che evidenzia il suo perfetto ovale. Non ha l’usuale cordicella di sostegno, ma una mordacchia nascosta, da stringere tra i denti per far aderire al viso la maschera. Si chiama morèta. Ritorna il gioco di parole sul colore della pelle, e non è un caso, visto che la libertà delle fanciulle mascherate aveva come controcanto la sentenza goldoniana: che la tasa, che la piasa, che la staga in casa (che taccia, che piaccia, che stia a casa). Marzia ne fa una sul calco del suo volto, la chiude in una scatola trasparente e la sospende in un boudoir di Ca’ Rezzonico, in modo che sia visibile fronte/retro, compresa la mordacchia. La maschera dell’esclusione delle donne abita anche tra il Secolo dei Lumi e le glorie di Venezia: negli occhi di Migliora diventa un’immagine di ribellione e di libertà e, con buona pace di Goldoni, la intitola: Taci anzi parla in onore a Carla Lonzi.

Francesca Pasini

di Arianna Di Genova

Intervista. Un incontro con l’artista iraniana al Museo Correr per presentare la serie «My Home in My Eyes». «Sono una nomade anch’io. Quando sei un’immigrata, cerchi di far somigliare a casa ogni spazio dato, salvo poi tornare indietro e non riconoscersi più in quella società lasciata molti anni prima»

 

Quando ha visitato Baku per la prima volta, Shirin Neshat è rimasta colpita dalla forte somiglianza di quella città dell’Azerbaigian con l’Iran natale, così come lo ricordava dai tempi della sua infanzia, prima che la Rivoluzione islamica cancellasse identità, culture e tradizioni, cambiando i connotati del suo paese.
Oltretutto, Baku non è un luogo alieno dalla sua storia famigliare: madre e marito hanno radici ben salde in quella terra e a lei è stato chiesto, nel 2015, di inaugurare con una sua mostra personale lo Yarat Contemporary Art Centre – grande edificio dedicato ai talenti emergenti, situato vicino al porto, con un affaccio sul mar Caspio. Neshat allora colse subito la sfida e si mise al lavoro per la serie The Home of My Eyes, che oggi ritroviamo in Europa, al museo Correr di Venezia, in una teoria di ventisei ritratti fotografici (su cinquantacinque del progetto completo) emigrati in Laguna.

La mostra è un evento collaterale della 57a Biennale di Venezia – a cura di Thomas Kellein – e comprende anche il film Roja (parte della trilogia dedicata ai Dreamers), una visione onirica che diviene la scenografia inconscia dove consumare dolorosi esili esistenziali o riconciliazioni a lungo inseguite. Il disorientamento e lo sradicamento narrato dal video nascono da un sogno ricorrente in cui nel deserto, prima lontana poi sempre più vicina, appariva all’artista sua madre, rivelandosi poi una figura inquietante. «I sogni possiedono un potere indicibile. Quando li si sperimenta, siamo nudi e liberi. Sono sempre in contatto con la realtà, rimandano a luoghi a noi famigliari ma la loro logica è frammentata, poco sensata, condivide le paure dell’anima e della parte più oscura di ognuno di noi…».

In The Home of My Eyes, uomini, donne e bambini di Baku e appartenenti a differenti generazioni, circondano come una corona di sguardi ed emozioni una Madonna lignea del Trecento italiano che apre il suo manto facendosi corpo-architettura, dimora accogliente verso lo «straniero». Quell’arazzo di volti offerti al visitatore sono un crocevia tra Oriente e Occidente, essenzialmente ripercorrono la cartografia di un paese, l’Azerbaigian, che però si fa «mondo» intero.
Frontali, quasi icone bizantine, i soggetti tutti vestiti di nero – come d’altronde l’artista che negli anni ha mantenuto un’eleganza minimale, la sua esile fisicità e il magnetismo degli occhi sottolineati col kajal – sono immortalati in una posa rituale, compiono un gesto di preghiera ma anche di raccoglimento intimo. Qualcuno ha le mani congiunte, qualcun altro, come Malaksima, preferisce far scivolare le dita fino al cuore. Pochi accennano a un sorriso. Il momento è austero.

 

L’importante nel rendere ognuno testimone del proprio tempo era superare il disagio che coglie chi è sottoposto all’implacabile indagine dell’obiettivo e generare nuove empatie attraverso la pratica dell’ascolto e del rispetto.

«Ho volutamente fotografato i miei soggetti in maniera uniforme. Operai, nonne, studenti, persone di etnie diverse dovevano rispondere a una serie di domande sul concetto di casa», spiega Neshat. In senso personale e collettivo. «Sono una nomade anch’io. Quando sei un’immigrata, cerchi di far somigliare a casa ogni spazio dato, salvo poi tornare indietro e non riconoscersi più in quella società lasciata molti anni prima». La casa, allora, non è che un’utopia.
L’impronta da ricercare è quella di El Greco e delle sue tavole religiose, ammirate a Toledo, mentre l’idea per la galleria di ritratti era quella di esprimere una storia solo attraverso i gesti, le posizioni del corpo, l’ascendente dello sguardo: all’inizio, il progetto prevedeva una installazione con sole sette immagini, poi è diventato più corale, si è trasformato in una sorta di «coreografia», come ama definire il suo lavoro lei stessa.

 

Sulla pelle delle persone ritratte, leggerissime, scorrono alcune frasi, le parole «silenziate» dalle immagini. Sono brani di storia individuale, confessioni raccolte dall’artista mescolate ai versi di un poeta persiano, Jamal al-din Nizami Ganjavi (il rapporto strettissimo fra immagine e testi lo si può riscontrare fin dagli albori dei cicli di Neshat e conserva sempre il suo sapore resistenziale). Ma ci sono qui anche i frammenti «diaristici», che gli individui rappresentati hanno affidato all’interlocutrice liberamente nella loro lingua – azero, russo, armeno – e che lei ha tradotto in inglese e poi in farsi, per riconsegnarli in stampe ai sali d’argento sui volti, le braccia, le mani, sfocandoli nella lente della nostalgia.
Filmmaker oltre che artista (con il suo Donne senza uomini nel 2009 – basato sul romanzo proibito di Shahrnush Parsipur – vinse il Leone d’argento al festival del cinema di Venezia), Shirin Neshat vive a New York dalla metà degli anni Settanta, ma torna spesso in Iran, portando con sé il suo sguardo ormai di forestiera. Alle spalle ha una lunga carriera imperniata su una coerenza difficile da rintracciare altrove. Fin dalle sue Women of Allah – donne in chador che puntavano pistole e rimappavano i confini delle icone della sottomissione con un atteggiamento da guerrigliere – indaga il bilico tra tradizione e modernità, mettendo al centro del suo mirino il fondamentalismo islamico.
Lo fa da tempi non sospetti, preconizzando i drammatici risvolti ultimi della storia e spingendo il pubblico dentro un teatro degli opposti mai pacificato (di genere, religione, etnia). Disegna in modo smaliziato geografie sentimentali in perenne movimento e così riesce a sfuggire agli stereotipi, tenendo bene a mente anche Said.
Le sue fotografie prediligono il bianco e nero, colonizzano l’immaginario con la forza di quei due (non) colori e subiscono metamorfosi inaspettate. Come quando mutano pelle evolvendo in poesie visive e facendo scorrere in corpi-pergamene la trama letteraria (e politica) di un paese dalla cultura sterminata come l’Iran.

(il manifesto, 2 giugno 2017)

dal 1 giugno al 6 settembre 2017
PALAZZO MORANDO | COSTUME MODA IMMAGINE
via Sant’Andrea 6 – Milano

Comune di Milano | Cultura, Direzione Musei Storici,
presenta la mostra

OBIETTIVO MILANO
200 fotoritratti dall’archivio di MARIA MULAS
a cura di Maria Canella e Andrea Tomasetig
con Antonella Scaramuzzino e Clara Melchiorre

1 giugno – 6 settembre 2017
conferenza stampa mercoledì 31 maggio, ore 11
inaugurazione mercoledì 31 maggio, ore 18

Uno spaccato di storia milanese dagli anni Settanta ad oggi in un
racconto fatto di personaggi, volti ed espressioni

Dal 1° giugno al 6 settembre 2017, le sale espositive di via
Sant’Andrea 6 di Palazzo Morando | Costume Moda Immagine ospitano la
mostra promossa da Comune di Milano | Cultura, Direzione Musei Storici
e organizzata in collaborazione con l’associazione Memoria & Progetto,
“OBIETTIVO MILANO. 200 fotoritratti dall’archivio di MARIA MULAS”, a
cura di Maria Canella e Andrea Tomasetig con Antonella Scaramuzzino e
Clara Melchiorre.
L’esposizione si inserisce nel palinsesto della Milano Photo Week in
programma dal 5 all’11 giugno: una settimana di mostre, incontri,
visite guidate, laboratori, progetti editoriali, opening o finissage,
proiezioni urbane dedicati alla fotografia.

Maria Mulas è una tra le più importanti fotografe italiane
riconosciuta a livello internazionale che con la sua macchina
fotografica ha saputo immortalare il mondo, dalle architetture ai
personaggi dell’entourage artistico e culturale. Schiettezza, empatia
e verità del soggetto sono i ‘cardini’  su cui si muove la sua ricerca
e ampiamente illustrati nella selezione dei 200 ritratti in mostra a
Palazzo Morando.

Fil rouge dell’esposizione è Milano, la sua intensa storia culturale,
la continua trasformazione che si traduce nell’essere costantemente al
passo con i tempi: Milano è uno specchio che riflette le tendenze
internazionali in ogni ambito della società, dell’innovazione, della
ricerca. Maria Mulas descrive con naturalezza ed empatia i diversi
volti di Milano a cui è particolarmente legata, catturando i ritratti
di artisti, galleristi, critici, designer, architetti, stilisti,
scrittori, editori, giornalisti, registi, attori, intellettuali,
imprenditori e amici che con questa città hanno intessuto un
particolare rapporto.

Fra le numerose personalità italiane e internazionali immortalate da
Maria Mulas si annoverano per il mondo dell’arte Marina Abramovic,
Salvatore Ala, Louise Bourgeois, Alik Cavaliere, Jonh Cage, Christo,
Francesco Clemente, Philippe Daverio, Gillo Dorfles, Gilbert & George,
Keith Haring, Alexander Iolas, Anish Kapoor, Jannis Kounellis, Mario
Merz, Gina Pane, Andy Warhol, accanto a protagonisti indiscussi
dell’architettura e del design quali Gae Aulenti, Mario Botta, Achille
Castiglioni, Bruno Munari e Giò Ponti. Nella teoria di personaggi non
mancano i rappresentanti della moda fra cui Giorgio Armani, Gianni
Versace, Miuccia Prada e dello spettacolo come Valentina Cortese, Luca
Ronconi, Giorgio Strehler, Liz Taylor, Ornella Vanoni. Un’attenzione
particolare è inoltre dedicata all’ambito della scrittura e
dell’editoria con Rosellina Archinto, Natalia Aspesi, Jorge Luis
Borges, Umberto Eco, Inge Feltrinelli, Lawrence Ferlinghetti, Dario
Fo, Gunter Grass, Allen Ginsberg, Nanda Pivano, Andrej Voznesenskij e
molti altri.

Sette sezioni scandiscono il percorso espositivo della mostra: la
prima, “Coda rossa” con macchina fotografica, accoglie autoritratti e
fotografie scattate all’artista dai fratelli Ugo e Mario Mulas e dal
pittore e scrittore Emilio Tadini; seguono nelle sale successive i
fotoritratti di Amici artisti, La città del design, Il mondo della
moda, Le arti dello spettacolo, I borghesi sono gli altri e Scrittori,
giornalisti, editori.
Completano la rassegna fotografica disegni, dediche, cartoline,
scritti e documenti che testimoniano i profondi legami intessuti da
Maria Mulas con le personalità da lei ritratte.

Che si tratti di ritratti posati o di scatti rubati, nelle fotografie
di Maria Mulas si legge una spiccata inclinazione a coltivare
relazioni e incontri, una complicità con il soggetto che trapela dalle
immagini. Nelle opere emerge l’abilità nel cogliere la naturalezza o
l’artificiosità, le espressioni, gli atteggiamenti, le abitudini, i
caratteri, gli stili di vita, in un continuo dialogo tra quotidianità
ed eccezionalità, tra realismo e ironia.

Il progetto di allestimento è a cura di Leo Guerra e Cristina Quadrio
Curzio nell’ambito di una sponsorizzazione tecnica della mostra da
parte di Fondazione Gruppo Credito Valtellinese.

La mostra è realizzata con il sostegno di
Archivio Maria Mulas   –   Libreria Galleria Andrea Tomasetig   –
Fpe d’Officina.
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MERCOLEDÌ 31 MAGGIO 2017

CONFERENZA STAMPA E INAUGURAZIONE
Palazzo Morando | Costume Moda Immagine, Sala Conferenze

ore 11: conferenza stampa
Saluti:
Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura, Comune di Milano
Claudio A. M. Salsi, Direttore Area Soprintendenza Castello, Musei
Archeologici e Musei Storici, Comune di Milano
Presentano la mostra:
Maria Mulas, fotografa e artista
Maria Canella e Andrea Tomasetig, curatori della mostra

ore 18: inaugurazione
ingresso libero
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SCHEDA MOSTRA
“OBIETTIVO MILANO. 200 fotoritratti dall’archivio di MARIA MULAS”
a cura di Maria Canella e Andrea Tomasetig
con Antonella Scaramuzzino e Clara Melchiorre

Palazzo Morando | Costume Moda Immagine
via Sant’Andrea 6 – piano terra
1 giugno – 6 settembre 2017

Orari: martedì-domenica, ore 9-13 e 14-17.30
T. +39 02 884 65735 – 46056 | c.palazzomorando@comune.milano.it |
www.civicheraccoltestoriche.mi.it

INGRESSO LIBERO
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COMUNE DI MILANO | CULTURA
Ufficio Stampa | Elena Conenna
T. +39 02 884 53314
elenamaria.conenna@comune.milano.it
www.comune.milano.it/cultura

Direzione Musei Storici | Ufficio Comunicazione
Simonetta Andolfo, Francesca Tamanini
T. +39 02 884 45924 – 48135 – 63298
c.palazzomorando@comune.milano.it – www.civicheraccoltestoriche.mi.it

UFFICIO STAMPA MOSTRA
IBC Irma Bianchi Communication
Tel. +39 02 8940 4694 – mob. + 39 328 5910857 – info@irmabianchi.it
testi e immagini scaricabili da
http://www.irmabianchi.it/mostra/obiettivo-milano-200-fotoritratti-dall%E2%80%99archivio-di-maria-mulas


Francesca Lolli
   videoartista e performer, fa della performance, provocatoria e sempre originale, il suo metodo espressivo più significativo.

di Susanna Garavaglia

Attrice, classe 1976, si diploma alla scuola di recitazione “Teatro Arsenale”di Milano diretta da Marina Spreafico secondo la linea teatrale di Jacques Lecoq , lavora nella Compagnia del Teatro e contemporaneamente si laurea in scenografia all’Accademia di Brera. Tra le più interessanti performer italiane contemporanee, fa dell’atto performante la summa di una tensione tesa a trovare dentro di sé e a stimolare nel fruitore il senso di questa esistenza, cogliendone la drammaticità nel contrasto tra i limiti del corpo e la immensità della mente, come già la grande Marina Abramovic. Una delle sue prime performances forse ancora involontaria, è stata, nel 2007, quando si è sposata con se stessa nella Chiesa Rossa a Milano, celebrando con tutti i crismi forse il primo automatrimonio. Da lì in avanti ha sempre usato il suo corpo o quello di chi ha lavorato con lei come strumento principale di espressione, “ mezzo pulsante e ricettivo dei mali (e dei beni) dell’epoca in cui mi è dato vivere”.

I temi che affronta sono quelli più legati al quotidiano e nascono da un bisogno fisico, potremmo dire urgente, di condividere immagini in gestazione dentro di lei che chiedono ossessivamente di venire alla luce, intuizioni improvvise che fatica a trattenere dentro di sé. Dall’orrore nei confronti dell’allevamento intensivo degli animali, alle ossessioni del corpo, alle ossessioni del potere o della giovinezza,  al dolore che si fa preda e predatore,  alla ricerca della identità personale così facilmente condizionabile. Gli aspetti più evidenti della energia del Femminile in lei sono Intuizione e Creatività mentre, lacerata tra attimi di Compassione e attimi di chiusura in se stessa, sostiene di ritrovarsi sempre tra Eros e Thanatos. Fondamentale la sua denuncia dei retaggi patriarcali che ancora ci fanno vivere il corpo della donna come qualcosa che di per sé non ha valore ma che trova la sua dimensione soltanto quando é in funzione di quello che i media, il mondo maschile, la moda, il consumismo vogliono che sia.  Una donna coraggiosa e amante della sfida, pronta ad affrontare ogni esperienza a spada tratta, sia nella sua vita personale che in quella artistica. Desiderosa di succhiare la vita e di intingervisi dentro senza fare nessuno sconto, Francesca Lolli vuole capire e mostrare al mondo la nuda realtà come appare, come é, come potrebbe finalmente vederla chi decidesse di svegliarsi dal suo lungo sonno e di aprire finalmente gli occhi.

*Da dove nasce la performance come tuo linguaggio?
La performance come esigenza è nata lentamente, silenziosamente si è fatta sempre più spazio nel mio modo di creare. All’inizio c’era il teatro e con il teatro un corpo a servizio, il mio. In seguito il rigetto di quel corpo, il silenzio. Il linguaggio del video che piano piano è diventato sempre più importante, l’utilizzo del mio corpo all’interno del video ed infine la performance, che io ritengo essere l’assenza di pensiero che si raggiunge quando si è al culmine del pensiero stesso, uno stato di Grazia, l’assenza della carne nella sua amorosa negazione e, per questo, il più sublime dei paradossi.  

*Ci spieghi la differenza tra installazioni, performance e video art? Le installazioni sono opere tridimensionali, vivibili, percepibili come spazi in cui il fruitore è anche il protagonista. La performance vive espressamente del qui ed ora, è influenzata ed è influenzabile, è il momento di sospensione perfetto, è poesia e lacerazione. La video arte è la rappresentazione di un concetto in movimento. Siamo così tanto bombardati da immagini che fruirne in maniera profonda è molto molto difficile.

*Essere un’artista e fare arte oggi..che senso ha per te?
Le frustrazioni sono sempre dietro l’angolo, così schiaccianti ed incredibilmente forti, a volte, da farti perdere il fiato, da farti rimettere in discussione tutta la tua ricerca. Più di una volta mi sono sentita dire di smetterla, che quello che facevo non aveva una valenza artistica

*E come reagisci di fronte a chi non capisce?  Noi tutti cerchiamo riconoscimento, inutile negarlo ma nel tempo ho imparato che la cosa più importante è il viaggio. Per questo ho deciso di andare avanti lo stesso, di continuare a camminare perché non posso farne a meno. Se poi quello che faccio sia arte o meno non lo so e paradossalmente non mi interessa. Quello che so per certo è che sento un’urgenza ed un bisogno di materializzare alcune idee per cercare di renderle universali. Questo mi basta. Devo comunque dire che, oggi, ci sono delle persone straordinarie che sostengono me e la mia ricerca.

*Quali sono i tuoi maestri?
ll primo fra tutti Jacques Lecoq, che con il suo insegnamento (tramandato da Marina Spreafico, la mia insegnante di recitazione) mi ha aiutata a trovare il mio luogo: il mio corpo. Vito Acconci (il primo e più importante amore degli anni dell’ Accademia di Belle Arti), Pier Paolo Pasolini, Andres Serrano (che ho avuto il piacere di conoscere e seguire per un documentario tra l’Italia e la Francia), Lars Von Trier, Marcela Lagarde (accademica, antropologa, femminista e politica messicana), mio padre. La cosa strabiliante è che ogni giorno se ne aggiungono altri.

* L’essere donna orienta la tua arte verso una particolare direzione o credi che faresti arte nello stesso modo anche se tu fossi un uomo? L’essere donna orienta la mia arte fin dal midollo, è imprescindibile, sono nata e vivo in questo corpo di donna e tutte le esperienze che accumulo sono filtrate dall’essere donna. Se fossi uomo? Cambierebbero sicuramente moltissime cose, prima di tutto lo sguardo. Questa è una cosa alla quale ho pensato molto nel tempo, mi piacerebbe poter provare.

*Il tuo corpo è uno dei mezzi attraverso cui ti esprimi nell’arte. Questo condiziona il rapporto che hai con il tuo corpo nella tua vita privata?
Stranamente no. il rapporto che ho con il mio corpo nella mia vita è qualcosa di diverso, di doloroso. Usandolo a servizio ho imparato ad ascoltarlo di più e, spesso, ad ignorarlo più consapevolmente.

*Spesso nelle tue azioni artistiche usi il nudo come mezzo di comunicazione. Perché? Ho sempre cercato di utilizzare il mio corpo come una tela, come un mezzo neutro. In fondo il mio corpo è il primo mezzo che ho a disposizione, il più immediato. Nella mia video performance “Un nodo” la prigione del corpo diventa carcere dello spirito. 

*Parli di concetto patriarcale del corpo della donna. Cosa intendi? Il corpo delle donne è stato (ed è tutt’ora) considerato come un “corpo in funzione di”.
Il corpo viene letto a partire dal sociale ed i mass media hanno un ruolo fondamentale nella creazione identitaria del corpo femminile. In uno dei miei ultimi video “in Uterus – following patriarchal beauty standards since 1976” mi metto un rossetto rosso sott’acqua. Questo a simboleggiare il fatto che prima ancora della nostra nascita subiamo condizionamenti di bellezza che derivano da retaggi patriarcali. Purtroppo non tutti (non tutte nel caso specifico e questo mi addolora) capiscono che nessuno vuole mettere al rogo chi si depila o usa strumenti di seduzione legati all’immaginario maschile. Non ti rende meno femminista mettere un reggiseno imbottito ma metterlo non ti rende più femmina. Sono ancora troppe le persone che credono che il femminismo sia la rivendicazione dell’azzeramento delle naturali e meravigliose differenze tra uomo e donna!

*Ci sono difficoltà per una donna che voglia oggi avere successo nel mondo artistico?
Inutile negare che per le donne non esistano ancora, purtroppo, una lunga serie di difficoltà (non solo nel mondo artistico). Troppo spesso ancora una donna viene considerata ed osservata per il suo aspetto fisico, la sua età, la prestanza e la mancanza di rughe prima di tutto. E questo non è vero solo per chi non sa guardare.

*Sono tanti i condizionamenti creati dal sistema mediatico?
I media ci condizionano in maniera così profonda da fondersi con il nostro DNA. é spaventoso il tipo di inquinamento che ne deriva, soprattutto quando agisce in maniera inconscia. Nessuno di noi ne è escluso. Quello che ci differenzia gli uni dagli altri è il grado di consapevolezza di questo condizionamento.

*Nelle tue performances il silenzio predomina sulla parola. Cosa significa il silenzio per te?
Ho sempre concepito il silenzio come attesa, come un momento di sospensione tra il prima e quello che avverrà poi. Le parole mi fanno molta paura, da sempre. Sono il più grande limite nei rapporti interpersonali. Oggi ancora di più perché mai come ora, a mio avviso, c’è un abuso di parole. Per quanto mi riguarda la parola mi interessa solo se supportata dal gesto, se nasce da esso ma fino ad ora non ne ho mai sentito la necessità.

*Uno dei temi della tua azione artistica è l’indifferenza. Verso chi e verso cosa?
Il mondo che abbiamo contribuito a costruire è un mondo indifferente, distaccato, freddo, disinteressato. I social media ci hanno aiutato a sviluppare sempre di più questo nostro lato insensibile, noncurante. Più che l’indifferenza credo che uno dei miei temi sia la conseguenza dell’indifferenza.

*Come nasce un tuo progetto artistico? Sempre da un’intuizione. A volte nasce spontaneamente, con un’immagine. Altre volte ha bisogno di un periodo più lungo di gestazione. Ma nel tempo mi sono accorta che forzare il processo creativo serve solo a riempirmi di frustrazione, molto meglio lasciare che faccia il proprio corso. Quando l’intuizione si sviluppa in immagini precise è il momento di accendere la telecamera.

Ci vuoi parlare delle tue opere che più ti sono rimaste nel cuore?
Tutte, ognuna a suo modo, sono parte di un percorso importante. Parlerò di una delle ultime: una performance che sto per trasformare in un’installazione. The Red Ritual: si tratta di una performance che dura nel tempo durante la quale cucio una coperta gigante formata da assorbenti con un filo rosso, simbolo del Sangue che unisce le donne di tutti i Paesi, generazioni, culture ed età e che rende possibile la vita stessa.

*Come mai questo tema?
Il ciclo mestruale costituisce ancora motivo di vergogna, di imbarazzo e addirittura in alcune culture di peccato. Recenti ricerche antropologiche hanno evidenziato come il ciclo mestruale e il corpo femminile fossero centrali nell’approccio alla vita tanto da venire considerati sacri; il sangue mestruale stesso era ritenuto generatore e rigeneratore di vita (oltre ad essere considerato un ottimo fertilizzante). Le culture patriarcali, invece, hanno contribuito a condizionare l’espressione del femminile nelle sue varie manifestazioni e al ciclo mestruale è stato trasmesso il senso di sporco e di vergogna, creando così il tabù delle mestruazioni. Ci risulta così più semplice accettare come naturali la sessualizzazione e pornificazione della donna che il processo naturale del ciclo mestruale.

*Collabori più volentieri con persone della tua generazione e quindi della tua età o ti piace anche lavorare con persone che hanno più anni di te?
Ho avuto, negli anni, la fortuna di poter collaborare con alcune persone straordinarie, che si sono affidate completamente. Tra queste quelli che amo definire i miei “alter-corpi”: prima di tutto Giulia Riccardizi, la Make Up Artist che, con i suoi effetti speciali, rende possibili le tante modificazioni  al mio corpo durante le video performances. E poi Francesca Sebastiani, Alice Spito, Domitilla Colombo, Francesca Interlenghi, Alice Massarente e Anna Maria Dammiani. Sorellanza? Assolutamente si. Non avrei mai potuto collaborare con così tante persone meravigliose se il mio più caro amico Paolo Stoppani non mi avesse spronata fin dall’inizio ad intraprendere e ad amare questa mia ricerca. Da diverso tempo ho il forte desiderio di lavorare con persone anziane. Vorrei immensamente avere la possibilità di girare con loro. Vorrei raccontarle in maniera diversa dal modo in cui troppo spesso vengono descritte (soprattutto in Italia a mio avviso). Io vorrei parlare, attraverso i loro corpi, delle infinite possibilità che l’essere umano ha sempre a disposizione, solo in maniera diversa (e questo vale per ogni età della vita). *E’ vero che vorresti coinvolgere tua madre in una tua performance? Mi piacerebbe moltissimo! Mia madre è sempre stata la mia prima e più importante sostenitrice. Per ora sono riuscita a coinvolgerla solo in una piccola video performance ma sono fiduciosa.. in fondo non si dice sempre “il meglio deve ancora venire”?

*Ti aspettiamo al varco, provocatoria Francesca dal cuore morbido morbido!

dal 5 maggio – 8 ottobre 2017

 

Pirelli Hangar Bicocca Via Chiese 2
20126 Milano    T (+39) 02 66 11 15 73
F (+39) 02 64 70 275

 

Presenta la mostra personale di Rosa Barba “From Source to Poem to Rhythm to Reader”, a cura di Roberta Tenconi, un progetto espositivo che raccoglie quattordici opere realizzate dal 2009 a oggi, tra film in 35 e 16mm, sculture cinetiche e interventi site specific.
La mostra, allestita nello spazio dello Shed di Pirelli HangarBicocca, crea un serrato dialogo tra il display delle opere e l’anima industriale della struttura espositiva che le ospita. I cinque film presentati sono ancora inediti in Italia, tra cui The Empirical Effect (2009) – un’indagine sul paesaggio del Vesuvio, per Rosa Barba una metafora delle complesse relazioni tra società e politica in Italia – e i due ultimi lavori dell’artista: Enigmatic Whisper (2017), film girato all’interno dello studio dell’artista Alexander Calder, e From Source to Poem (2016), una narrazione audiovisiva densamente stratificata, in cui, come in un rumore bianco, ogni elemento si sovrappone e si condensa progressivamente. Il film è stato realizzato nel centro di conservazione audio-video della Library of Congress a Culpeper, Virginia, il più grande archivio multimediale al mondo.

Rosa Barba (Agrigento 1972, vive e lavora a Berlino), vincitrice di numerosi premi e presente in mostre e rassegne internazionali, ha fatto del film il suo mezzo espressivo privilegiato. Da anni Barba porta avanti un lavoro di ricerca e sperimentazione che attraversa il linguaggio cinematografico e scultoreo, riflettendo sulle qualità poetiche del paesaggio naturale e umano, sui luoghi come archivio della memoria e scardinando il concetto di tempo lineare. Immagini dall’esito potente, ritratti di architetture obsolete e paesaggi naturali, riprese di deserti remoti ricorrono costantemente nel suo lavoro, uniti a frammenti di testi e a scenari in cui passato e presente si intrecciano.

Attraverso i miei film intendo esprimere l’idea che il tempo sia fatto di storie di individui e di piccole comunità, e che sia un fenomeno flessibile e malleabile. Nei miei film ci sono diverse linee temporali che corrono parallele. Utilizzo un punto di vista da osservatore esterno, senza pregiudizi. Ritengo che la realtà sia un’invenzione, generata dall’interpretazione individuale di eventi reali. I miei film giocano con l’idea che ogni scena possa avvenire nel futuro così come nel passato, in un tentativo di manifestarsi come una soluzione utopica.
(Rosa Barba in conversazione con Mirjam Varadinis e Solveig Øvstebø, in “Time as Perspective”, Hatje Cantz, Ostfildern 2013).

Rosa Barba è nata ad Agrigento nel 1972. Ha studiato all’Academy of Media Arts di Colonia e alla Rijksakademie van Beeldende Kunsten di Amsterdam; attualmente vive e lavora a Berlino. Numerose istituzioni le hanno dedicato mostre personali, tra cui: Secession, Vienna; Malmö Konsthall, Malmö (2017); NBK, Berlino; CACP musée d’art contemporain de Bordeaux; Schirn Kunsthalle, Francoforte (2016); MIT List Visual Arts Center, Cambridge, MA; EMPAC, Rensselaer Polytechnic Institute, Troy, US (2015); Bergen Kunsthall, Bergen (2013); Kunsthaus Zürich, Zurigo; Jeu de Paume, Parigi (2012); MART Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Rovereto (2011); Tate Modern, Londra; Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid (2010).
Rosa Barba ha partecipato a diverse rassegne internazionali, tra cui tre edizioni della Biennale di Venezia (2015, 2009, 2007), la Biennale di San Paolo (2016), la Biennale di Sydney e di Berlino (2014) e la Biennale di Liverpool (2010). Nella primavera del 2016 il MoMA PS1 di New York le ha dedicato una serata speciale di proiezioni e performance.
I suoi film, installazioni e sculture hanno vinto numerosi premi, molti dei quali presso diversi festival cinematografici come il Curtas Vila do Conde International Film Festival, Ann Arbor Film Festival (2016) e CPH:DOX Copenhagen (2015), al PIAC Prix International d’Art Contemporain della Fondation Prince Pierre de Monaco (2015), al Nam June Paik Award (2010).
Oltre alla personale in Pirelli HangarBicocca, a maggio 2017 è prevista l’inaugurazione di un progetto speciale per il Palacio de Cristal, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid

dal 7 – 13 maggio 2017

DRAWINGS FROM LIGHTNING
Artists book / collection of drawings

Inaugurazione domenica 7 maggio 2017 a partire dalle ore 11.00

Biblioteca civica d’arte Luigi Poletti Palazzo dei Muse

i Piazza Sant’Agostino, 337  -41121 Modena – Tel. 059 2033372

A seguire, ore 12.00: Public Talk / Conversazione con le Artiste
‘Il Disegno in Mostra’
Barbara De Ponti, Debora Hirsch, Laura Santamaria
con un approfondimento di
Chiara Pergola

DRAWINGS FROM LIGHTNING
Artists book / collection of drawings
Drawings from Lightning è un libro d’artista formato da una serie di opere ispirate dai cosiddetti Upward Positive Leaders (fulmini ascendenti).  Si tratta di un raro fenomeno naturale che accompagna talvolta i temporali e che consiste nella propagazione di un fulmine dalla terra verso il cielo, al contrario di quello che solitamente avviene.

Nelle opere che compongono il libro alcuni tra i più rilevanti artisti italiani che utilizzano la tecnica del disegno stati chiamati ad interpretare questo fenomeno che diviene metafora  del desiderio e della necessità di lavorare insieme, cercando così di ripensare anche il ruolo dell’artista nell’età contemporanea. Il libro, pubblicato nel 2016 in 250 esemplari, è stato esposto nel 2016 presso la Fonderia Artistica Battaglia di Milano e allo spazio  Choisi-One at  the Time di Lugano;  nel  2017 presso la Galleria Madeinbritaly di Londra.
Paola Alborghetti, Matteo Antonini, Susanna Janina Baumgartner, Marco Belfiore, Maurizio Bongiovanni, Sergio Breviario, Pierpaolo Campanini, Gianni Caravaggio, Daniele Carpi, Arianna Carossa, Jacopo Casadei, David Casini, Giuseppe Costa, Carl D’Alvia, Valentina D’Amaro, Alessandro Di Giampietro, Barbara De Ponti, Enza Galantini, Daniele Girardi, Paolo Gonzato, Michele Guido, Debora Hirsch,  Pesce Khete, Giulio Lacchini, Maria Morganti, Chiara Pergola, Marta Pierobon, Josephine Sassu, Laura Santamaria, Giovanna Sarti, Kristian Sturi, Marcello Tedesco, Luca Trevisani, Lucia Veronesi.

Orari biblioteca: 
lunedì 14.30-19.00
dal martedì al venerdì 8.30-13.00/14.30-19.00
sabato 8.30-13.00

Il 23 marzo scorso è manca MIRELLA BENTIVOGLIO sembra strano ma non è stata ricordata adeguatamente lo ha fatto con il testo che vi proponiamo (la Redazione del sito)

da letteratemagazine.it

Il 23 Marzo ci ha lasciate Mirella Bentivoglio (Klagenfurt 1922-Roma 2017) poeta, artista visiva e inesauribile promotrice di cultura che per più di cinquant’anni ci ha parlato, con il suo lavoro, dell’impronta femminile del mondo. Anche il suo impegno critico e curatoriale, infatti, volto alla ricerca e alla valorizzazione della produzione estetica delle donne, ha accompagnato fin dagli anni ’70 la sua produzione artistica, in un percorso chiaramente segnato dal femminismo.

Siamo lontane, tuttavia, da un’idea di arte portatrice di messaggi ideologici o dalla mera rivendicazione di una maggiore presenza femminile nel mondo dell’arte; piuttosto il suo lavoro -curatoriale ed artistico- ha gettato luce, in modi nuovi ed originali, su questioni politiche ed estetiche che, a partire da quegli anni, hanno attraversato in particolar modo l’arte delle donne e di cui l’artista, nel corso del suo lungo impegno intellettuale, è stata espressione.

Nasce poeta, tuttavia, Mirella che nel 1943 pubblica il suo primo libro di poesie1, ma presto sente l’urgenza di un’espressione diversa, polimorfa, capace di andare oltre la parola, verso la visualizzazione del linguaggio…….segue

per il testo completo con anche le foto seguire il link: http://www.letteratemagazine.it/2017/04/26/luovo-universale-mirella-bentivoglio/

dal 18 al 27 maggio 2017

segnalato da Laura Minguzzi

(traduzione fatta con Traduttore Google scusate alcuni termini inconsueti)

La Showroom presenta Become Two , una nuova installazione cinematografica dell’artista berlinese Alex Martinis Roe che deriva dal suo impegno continuo con le comunità femministe internazionali e le loro pratiche politiche.

Oltre sei film per diventare due tracce le storie di sei diversi, ma collegati, gruppi femministi dagli anni ’70 ad oggi che hanno costruito comunità in Europa e in Australia. Tra queste figurano la cooperativa della Libreria delle donne di Milano; Psychanalyse et Politique, Parigi; Studi femminili presso l’Università di Utrecht; Una rete a Sydney, comprese le persone coinvolte nelle Cooperative Filmmaker di Sydney, i Femministi Film Workers e il Dipartimento di Filosofia Generale dell’Università di Sydney; E Duoda – Centro di investimenti di Mujeres e Ca La Dona a Barcellona.

Utilizzando vari metodi come l’osservazione dei partecipanti, l’intervista di storia orale e la ricerca d’archivio, Martinis Roe offre proposte su come affrontare la società contemporanea attraverso le metodologie femministe. Per il film finale, la nostra rete futura (2016), Martinis Roe ha istituito una nuova rete per esplorare queste storie e ciò che può essere trasferito in metodi per il lavoro collettivo, che ha portato allo sviluppo di venti proposizioni per le pratiche politiche collettive femministe.

Alla Mostra, il progetto si evolverà ulteriormente con un programma di eventi e workshop condotti da Martinis Roe per estendere le proposte di Our Future Network per le pratiche collettive femministe secondo le esigenze, i desideri ei contesti di coloro che partecipano.

Design in collaborazione con Fotini Lazaridou-Hatzigoga. Serie Poster in collaborazione con Chiara Figone. Diventare due è stato prodotto con il sostegno del curatore Susan Gibb.

Programma:

Giovedì 18 maggio, ore 7-9: Introduzione a Bec Become Two
Alex Martinis Roe presenta il progetto in conversazione con Helena Reckitt, docente di curatrice all’oro dell’Università di Londra e partecipante alla nostra rete futura .

Venerdì 19 / Sabato 20 / Martedì 23 Maggio, ore 6-9: Laboratorio a tre parti
Durante tre sessioni, i partecipanti intraprenderanno una serie di esercizi che si espanderanno sulle proposte generate nel progetto Our Future Network per sviluppare ulteriori proposte per nuove pratiche politiche femministe. Questi workshop si concluderanno in occasione di un evento pubblico sabato 27 maggio, dove i partecipanti adotteranno le loro proposte collettive.

I laboratori si adattano a coloro che hanno interesse a pratiche politiche collettive e / o femminismo, ma non è necessario partecipare a una conoscenza approfondita della storia o della teoria femminista. I partecipanti devono poter contribuire a tutti e tre i workshop e l’evento finale, nonché alcune discussioni e corrispondenze con l’artista nelle prime due settimane di maggio.

Per partecipare, si prega di trasmettere espressioni di interesse a Eva Rowson, Coordinatore Programmatico entro Domenica 30 Aprile 17 (vedi dettagli sotto).

Lunedì 22 maggio, ore 6-9: sessione aperta
Un workshop unico per coloro che desiderano apprendere di più il progetto. I partecipanti esploreranno alcune delle pratiche politiche narrate nell’installazione del film attraverso esercizi basati sulla discussione e esperimenti collettivi.

Per partecipare alla sessione aperta, si prega di inviare espressioni di interesse a Eva Rowson, coordinatore del programma entro Domenica 14 maggio ore 17.00 (vedi dettagli sotto).

Sabato 27 maggio, ore 2-6: Salone pubblico
Un salone pubblico dove saranno presentate le proposizioni di nuove pratiche femministe durante i workshop presso The Showroom. Queste proposizioni partiranno dalle pratiche storiche esplorate nella serie Become Two , estese e adattate dai collaboratori del workshop in base alle loro esigenze e contesti.

Partecipazione workshop: espressioni di interesse

Per partecipare al workshop e all’evento finale: inoltrare espressioni di interesse a Eva Rowson, Coordinatore Programma eva@theshowroom.org , domenica 30 aprile alle 17.00.

Per favore includere:
• Conferma di impegnarsi in tutte le date e disponibilità per intraprendere discussioni preparatorie e corrispondenza con l’artista nelle prime due settimane di maggio.
• Breve biografia (100 parole)
• breve dichiarazione di motivazione per la partecipazione (150 parole)

Per partecipare all’officina aperta: inoltrare espressioni di interesse a Eva Rowson, Coordinatore Programma eva@theshowroom.org , domenica 14 maggio ore 17.00.

Includere una breve motivazione di partecipazione (150 parole)

Alex Martinis Roe per diventare due è co-commissionato da ar / ge kunst (Bolzano); Casco – Ufficio per l’Arte, Design e Teoria, (Utrecht); Se non posso ballare, non voglio essere parte della tua rivoluzione (Amsterdam) e The Showroom (Londra). I corsi di accompagnamento e le prestazioni sono co-commissionati dalla Fondazione Keir. Il progetto è stato realizzato con il sostegno del Graduiertenschule der Universität der Künste Berlin e del governo australiano attraverso il Consiglio australiano per le arti e il suo finanziamento e consiglio di arti.

Il progetto sarà presentato da Badischer Kunstverein (Karlsruhe) dal 8 settembre al 26 novembre 2017.

Design in collaborazione con Fotini Lazaridou-Hatzigoga. Serie Poster in collaborazione con Chiara Figone. Diventare due è stato prodotto con il sostegno del curatore Susan Gibb.

Una pubblicazione per diventare due , pubblicata da Archive Books, sarà pubblicata durante la mostra.

Grazie a Ismail Ali: Project ALCHEMY, Mercedes Vilardell, Paddington Development Trust, Chiesa di San Paolo e Centro Comunale, Chisenhale Gallery, Gasworks, Galleria Lisson e Matt’s Gallery per il supporto espositivo presso The Showroom.

Credo d’immagine: Alex Martinis Roe, la nostra rete futura , film ancora della proposizione Produttivi rifiuti , sviluppato in collaborazione con Helena Reckitt, 2016.

da exibart.com

Sono andata per la prima volta a Istanbul nel 1970. Vivevo a Padova. Sergio Bettini, il grande storico dell’arte medievale, organizza un viaggio di studio esteso ai laureandi. “Vedo” l’influenza di Costantinopoli/Bisanzio/Istanbul sulla cultura dell’Occidente, su Venezia e San Marco. Un’impareggiabile “lezione dal vivo” e un viaggio di formazione che ancora ricordo.

Quando ho letto Istanbul di Orhan Pamuk, ho capito che la lezione di Bettini mi aveva così colpito, perché mi aveva ricongiunto alla città dove ero nata, così come fa Pamuk con la sua Istanbul, combinando le tracce dei suoi ricordi familiari e quelli dei tanti che hanno raccontato e studiato questa città simbolo.

Grazia Toderi mi aveva trasportato a Istanbul tra i vapori dell’aereo che si alza in cielo in uno dei suoi primi video Terra, 1997. Ora Toderi e Pamuk creano insieme “Words and Stars”, ovvero il loro incontro nel “Cielo sopra Istanbul”.

Sotto traccia c’è Il museo dell’innocenza, e il desiderio di Pamuk di arricchirlo con l’infinito che ha visto nel video di Grazia, Orbite Rosse (2009), alla Biennale di Venezia. Una storia eccezionale che poteva succedere solo a Istanbul: la città simbolo dello “Stato nascente” dell’Occidente.

A Bisanzio, infatti, durante la dinastia Comnena (XI-XII secolo) è avvenuta la copiatura dei codici greci che hanno salvato la tragedia, la letteratura, la filosofia della culla della civiltà dell’Occidente. Anche questa è una memoria dei miei studi universitari. Mi era sembrato straordinario che un programma di ricerca scientifica, ante litteram, fosse stato scelto per rappresentare il potere di una dinastia e la supremazia di una città.

Anche Roma antica aveva avuto un occhio di riguardo per le statue greche, ma ero sorpresa dall’attenzione politica per il pensiero scritto.

Istanbul è per me una lunga scia che, dalla Basilica dei Dodici Apostoli, da Santa Sofia, dalla Cisterna Bim-Bir-Derek (le mille colonne), dal Bosforo, arriva a Venezia dove sono nata. Forse, l’emozione che ho provato nelle varie volte che sono andata alla Biennale di Istanbul, dipende da questo intreccio tra il mio luogo d’origine e l’inizio dei miei studi artistici, tra i quali ricordo la bellissima lirica bizantina sulle luci di Santa Sofia. La luce di Istanbul, accesa dal riflesso del cielo sull’acqua, concorre in modo decisivo alla percezione materiale, urbana.

Grazia è maestra nell’inserire stelle vere e immaginarie nelle sue “luci pulsanti”, come spesso le chiama, che tutti riconosciamo, ma che non sempre sappiamo inserire nell’osservazione quotidiana. E oggi dal “cielo sopra Istanbul” compie un nuovo passaggio. Le luci che si addensano in un magma fisico – motivo firma di molti suoi video, in particolare Rosso Babele (2006) – qui si diradano, lasciano intravedere la moschea di Solimano, la sinuosa struttura tra il mare e il Bosforo, le colline che fanno da sfondo, qualche ammasso della sua stratificata architettura. In questa galassia brillano, si eclissano, ricompaiono le stelle del cielo e quelle di Grazia. La notte s’illumina di “Words and Stars”, cadenzata dalla grafia delle parole di Pamuk.

L’opera è stata presentata per la prima volta, durante Artissima 2016, a Palazzo Madama e al Planetario di Torino dove, allungati sulle poltrone, abbiamo visto il primo video in bianco e nero. Sopra di noi il cielo e una città intera. Come anomali astronauti, abbiamo assistito al suo respiro di notte, al suo dilatarsi e condensarsi in un percorso senza soluzione di continuità, con il quale Grazia ritrae lo spazio urbano e l’invisibile presenza dei suoi abitanti. In tutti i suoi video, le città non sono vuote: anche se non si vede chi le abita, si sente la temperatura della vita.

Ora, al Mart di Rovereto (fino al 2 Luglio, catalogo Electa), Gianfranco Maraniello, ha raccolto l’intero lavoro, “Words and Stars”, composto di tre installazioni: Monologo, Dialogo, Conversazione.

C’è un risucchio dentro la rotazione del mondo, messa a fuoco su una porzione umana specifica: Istanbul. L’evocazione del globo è intuibile. Si passa dal bianco e nero del Monologo, una proiezione in un unico schermo; al blu-turchese del Dialogo, una doppia proiezione; al rosso della Conversazione, cinque proiezioni su cinque schermi che si dispongono circolarmente nella stanza. Una trilogia potente e intima.

Dire che è un viaggio cosmico è quasi tautologico, la diversità delle riprese e dei colori evidenzia, piuttosto, un viaggio attraverso i linguaggi classici della composizione artistica.

Abbino il bianco e nero all’origine della fotografia e alla scrittura, il blu al cielo, il turchese all’acqua, il rosso alle lampade ai vapori di sodio, che da tempo Grazia usa nella sua “tavolozza”. Il senso pittorico è definito dai colori e dalla riconoscibilità più esplicita di alcune zone della città.

Le parole di Pamuk, che richiamano gli amanti de Il Museo dell’Innocenza, sono il timbro del loro reciproco progetto, ma non creano quella vibrazione che normalmente accade nella lettura. Scivolano sulla galassia di Toderi e, purtroppo, non trovano il punto di pulsazione con le luci, i colori, la densità di questa Istanbul vista da Grazia e voluta da ambedue: non ricongiungono il mio vecchio viaggio di formazione. Peccato.

da arengario.net

Negli spazi dell’associazione Apriti cielo, in un cortile della vecchia Milano, Libera Mazzoleni ha presentato venerdì pomeriggio, dopo essersi esibita nella performance “L’ombra della differenza”, il suo libro illustrato “Lilith & la nonna”.
Apriti cielo è una realtà propositiva di dieci donne, animate da una grande voglia di fare, che sfocia in una serie di attività condivise con chiunque desideri avvicinarsi a questo progetto. Dall’arte figurativa ai laboratori teatrali, a quelli di scrittura e di poesia, dai corsi di informazione e formazione, ai gruppi di discussione: diverse ed eterogenee sono le forme espressive e di interscambio culturale proposte dall’associazione, come le occasioni di confronto sulle tematiche che pongono al centro dell’attenzione l’universo femminile.

“L’uomo è misura di tutte le cose”. La voce di Riccardo Longoni declama la celebre tesi di Protagora, filosofo itinerante dell’antica Grecia, che sosteneva l’importanza della soggettività nella percezione della realtà. Ha inizio così, con questa interpretazione, la performance che con gesti solenni e intrisi di significati rappresenta la dimensione corale del movimento femminista.
“L’uomo è misura di tutte le cose”. La massima viene declamata nuovamente con enfasi crescente, divenendo protagonista assoluta dello spazio e rivelando così il significato assunto attraverso i secoli: benché infatti in età antica il termine uomo indicasse l’intero genere umano, per troppo tempo nella nostra società ha sotteso solamente gli individui maschili.

Mentre risuona la massima del filosofo, la figura di Libera Mazzoleni si staglia contro il quadrato non completamente inscritto nel cerchio, che l’artista aveva poco prima tracciato con vernice nera su un telo bianco. E’ una dinamica citazione dell’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, quella inscenata davanti ad un pubblico di quasi sole donne, ma che qui rimanda alla sopraffazione avvenuta per secoli ai danni dell’universo femminile, e l’equilibro cui si allude, con il gioco geometrico assume una valenza del tutto negativa. L’uomo, inteso come soggetto maschile, è stato ed è tuttora al centro e a capo della nostra società di stampo patriarcale, oggi dominata dalla potenza tecnologica distruttrice e da quella logica numerica che è la finanza.
La performance, così carica di pathos, coinvolge poi il pubblico femminile, che dà voce ai versi più toccanti della poesia “Credo di una donna”, composta nel 1996 da Robin Morgan, femminista statunitense, impegnata fin da giovane a favore dei diritti delle donne e delle classi più deboli.
Ma le donne raggiungono nell’opera di Libera Mazzoleni, come nella società, una dimensione collettiva, che viene abilmente rappresentata con la raffigurazione, ad opera dell’artista, delle loro ombre generate sul telo bianco.
I movimenti femministi appartengono ormai al passato e al mito, e chi vi ha aderito constata oggi con amarezza che i risultati raggiunti si discostano, purtroppo, da quelli sperati. E’ in questa fase storica contemporanea che viene ambientato il libro scritto dall’artista e presentato venerdì al termine della performance. “Lilith & la nonna”, precisa l’autrice, è un lavoro iniziato nel lontano 2008, poi lasciato riposare, come a volte accade in campo artistico, quindi ripreso e infine concluso. E’ un libro incentrato sul movimento femminista letto dagli occhi di una ragazzina, Lilith, che, molto curiosa e vivace, mentre è in vacanza con la nonna, trova in un vecchio baule manifesti e fotografie relativi a quel periodo. E’ questo l’inizio di una percorso di conoscenza e di impegno sociale per la piccola, di un momento di speranza per la nonna e di un’occasione di riflessione, per tutti, sulla condizione femminile nella storia e ai giorni nostri.
Come illustrano le parole introduttive di Graziella Longoni, “Prende avvio così il racconto che richiama alla memoria la straordinaria esperienza corale di molte donne determinate a denunciare la violenza del patriarcato e ad affermare una specifica soggettività femminile, portatrice di una differenza ontologica e culturale da declinare non più come subalternità, ma come valore e diritto alla libera autodeterminazione di sé”.

Lilith, affascinata e incuriosita, interroga la nonna e le sue amiche sulla complessa tematica e, quando viene invitata a ritirarsi nei suoi spazi per svolgere i consueti compiti, si chiude con il cane Moka nella biblioteca della nonna a studiare la storia dei movimenti emancipativi femminili. Il coinvolgimento nella lettura è così grande che quando la bimba si addormenta sogna di compiere un viaggio nella storia delle violenze subite dalla donna attraverso i secoli: in campo politico-religioso con le inquisizioni, in ambito culturale con l’attribuzione della colpa nella cacciata dal Paradiso terrestre e ai giorni nostri con la violenza perpetrata sul corpo femminile, sia nell’imposizione del burqa orientale, sia nella morbosa esibizione occidentale.
Il sogno appena concluso rappresenta per la fanciulla il culmine di un iter formativo molto importante: dopo le letture nella biblioteca della nonna e le visioni oniriche le è finalmente chiaro tutto ciò che prima non poteva capire e adesso Lilith può impegnarsi attivamente per i diritti delle donne. Appena sveglia, infatti, la ragazzina torna dalla nonna e dalle sue amiche, reggendo tra le mani un cartello con quello slogan così emblematico e per lei in precedenza del tutto incomprensibile: “Io sono mia”.

La rivoluzione femminista non termina oggi, perché solo apparentemente le donne hanno raggiunto quell’emancipazione per cui intere generazioni hanno lottato. La strada è ancora lunga, ma la speranza è nelle figure come Lilith, che al termine del suo sogno e del suo percorso di crescita, testimonia alla nonna e alle sue amiche la sua determinazione nel proseguire autonomamente il cammino tracciato da loro.

Libera Mazzoleni è un’artista eclettica, formatasi ai tempi dei movimenti studenteschi. Non ha partecipato attivamente a quelli femministi, ma sull’argomento si è a lungo documentata facendo proprie le istanze del movimento. Ha sviluppato nel tempo verso questi temi una grande sensibilità, che è estremamente visibile in tutta la sua carriera compositiva e risulta fondamentale nel suo percepirsi come donna nella dimensione dell’arte. Libera Mazzoleni si esprime inizialmente attraverso la scultura e in un secondo momento si dedica alla performance, ma nella raffigurazione non si è mai cimentata.
In “Lilith & la nonna” invece a narrare sono proprio le figure, che acquisiscono maggiore definizione man mano che il lavoro progredisce in questa esperienza che per l’artista rappresenta un vero e proprio percorso di apprendimento. E dietro la raffigurazione, dichiara Libera Mazzoleni, si nasconde sempre un cammino compiuto dall’autore che, come sosteneva Hannah Arendt, non è mai visibile. Il processo è percepibile in altre forme espressive, risulta chiaro nella danza oppure nel canto, ma nell’arte figurativa, invece, ciò che appare è solo il risultato finale.

30 marzo – 25 giugno 2017

Palazzo Reale, Piazza Duomo, 14 – MilanoMILANO – Arriva a Palazzo Reale di Milano la mostra Charlotte Salomon Vita? o Teatro?, a cura di Bruno Pedretti, dedicata alla giovane ebrea berlinese Charlotte Salomon. Prima di morire ad Auschwitz, Charlotte affida il racconto di tutta la sua vita a centinaia di tempere, raccolte sotto il titolo Vita? o Teatro?

Dagli anni Sessanta le tempere di Charlotte Salomon sono state esposte in forma antologica in alcuni importanti musei ma sino ad oggi mai in Italia: al Centre Pompidou e al Museo Ebraico di Parigi, alla Whitechapel Art Gallery e alla Royal Academy di Londra, al Museo Ebraico di Berlino e in varie altre città tedesche, a Bruxelles, Tel Aviv, Chicago, New York, San Francisco, Tokyo…

Nelle Sale al piano terra di Palazzo Reale, l’esposizione presenta circa 270 tempere, insieme a decine di fotografie storiche che illustrano la vita di Charlotte e gli avvenimenti del suo contesto, in parallelo alle scene rappresentate nel suo poema autobiografico e ad un filmato che introduce il visitatore nel mondo dei suoi affetti.

La figura di Charlotte Salomon è anche protagonista del romanzo scritto del curatore della mostra milanese, Bruno Pedretti: Charlotte. La morte e la fanciulla (prima ed. Giuntina, Firenze 1998; ed. francese Robert Laffont, Parigi 2006; nuova ed. Skira, Milano 2015).
La mostra è promossa e prodotta dal Comune di Milano | Cultura, Palazzo Reale e Civita Mostre, in collaborazione con il Jewish Historical Museum di Amsterdam.

L’inferno della Shoah restituisce un sorprendente poema allo stesso tempo pittorico, teatrale, narrativo e musicale. Charlotte Salomon è una giovane ebrea berlinese che va incontro ad un tragico destino. Prima di morire ad Auschwitz, Charlotte affida il racconto di tutta la sua vita a centinaia di tempere, raccolte sotto il titolo Vita? o Teatro?

Miracolosamente sopravvissuto alle persecuzioni e alla guerra, questo lascito artistico si rivelerà un autentico canto del destino, che vede proiettata la biografia di Charlotte sullo scenario più tragico del Novecento.

Dagli anni Sessanta le tempere di Charlotte Salomon sono state esposte in forma antologica in alcuni importanti musei ma sino ad oggi mai in Italia: al Centre Pompidou e al Museo Ebraico di Parigi, alla Whitechapel Art Gallery e alla Royal Academy di Londra, al Museo Ebraico di Berlino e in varie altre città tedesche, a Bruxelles, Tel Aviv, Chicago, New York, San Francisco, Tokyo.

La mostra, a cura di Bruno Pedretti, è promossa e prodotta dal Comune di Milano | Cultura, Palazzo Reale e Civita Mostre, in collaborazione con il Jewish Historical Museum di Amsterdam. Nelle sale al piano terra di Palazzo Reale, l’esposizione presenta circa 270 tempere, insieme a decine di fotografie storiche che illustrano la vita di Charlotte e gli avvenimenti da lei vissuti, in parallelo alle scene rappresentate nel suo poema autobiografico e ad un filmato che introduce il visitatore nel mondo dei suoi affetti.

Sull’opera di Charlotte esistono ormai numerosi libri, filmati e naturalmente cataloghi che ne hanno accompagnato le esposizioni, tra cui anche alcune edizioni integrali delle tempere, a cui si sono recentemente aggiunti altri tributi a questa figura eccezionale, di genere sia letterario, sia operistico, sia filmico.

La figura di Charlotte Salomon è anche la protagonista del romanzo del curatore della mostra milanese, Bruno Pedretti: Charlotte. La morte e la fanciulla (prima ed. Giuntina, Firenze 1998; ed. francese Robert Laffont, Parigi 2006; nuova ed. Skira, Milano 2015).

Informazioni su Charlotte Salomon e la sua opera sono reperibili nel sito del Jewish Historical Museum – Museo Storico Ebraico di Amsterdam.

270 tempere, insieme a decine di fotografie storiche che illustrano la vita della giovane ebrea berlinese che prima di morire ad Auschwitz affidò il racconto della sua vita alla pittura, raccogliendo le sue opere sotto il titolo Vita? o Teatro?

La vita e l’opera di Charlotte Salomo

Figlia di Albert e Franziska Salomon, Charlotte nasce a Berlino il 16 aprile 1917.

Medico universitario il padre, musicista amatoriale la madre e celebrata cantante d’opera la matrigna Paula Lindberg, la formazione di Charlotte imbocca dopo il liceo la strada artistica. Frequenta, infatti, dal 1935 al 1938, unica allieva ebrea ammessa, l’Accademia di Belle Arti di Berlino. Nel 1939 lascia la Germania per rifugiarsi dai nonni materni a Villefranche-sur-Mer, vicino Nizza. Qui, nel 1940, a seguito del suicidio della nonna, scopre che anche la madre e la giovane zia di cui aveva preso il nome erano morte suicide.

La terribile rivelazione, insieme alla drammaticità degli eventi che gravavano sulla sua sorte di perseguitata e profuga, la spinge a concepire e realizzare la sua grande opera autobiografica, Leben? oder Theater? (Vita o Teatro?). Si tratta di un lungo racconto pittorico integrato da dialoghi teatrali, intersezioni letterarie e indicazioni musicali che si compone di ben 1325 documenti tra tempere, veline, annotazioni, varianti pittoriche e altre prove, con una scelta di quasi 800 tempere selezionate dall’autrice quali immagini del racconto definitivo. Ultimato da pochi mesi l’immenso lavoro, a fine settembre 1943 Charlotte viene arrestata dalla Gestapo insieme al marito Alexander Nagler e condotta ad Auschwitz. Il 10 ottobre, incinta di alcuni mesi, Charlotte giunge nel campo di sterminio, dove con ogni probabilità viene uccisa il giorno stesso.

La sua opera è sopravvissuta. Consegnata prima dell’arresto al medico di Villefranche-sur-Mer, pervenne in America alla dedicataria Ottilie Moore, che dopo la guerra la donò al padre di Charlotte, fortunosamente sopravvissuto alla guerra e allo sterminio degli ebrei con la fuga in Olanda. Vita? o Teatro? venne affidata dapprima al Rijksmuseum di Amsterdam, sino a quando nel 1971 l’opera passò al nuovo Jewish Historical Museum della stessa città, dove è tuttora conservata a cura della Fondazione Charlotte Salomon.

Segnaliamo anche il testo di Katia Ricci   “Charlotte Salomon. I colori della vita”  (Palomar, 2006), che  dell’opera di Charlotte Salomon ha dato un’ avvincente lettura nel segno della differenza?

da doppiozero.com

Paola Mattioli appartiene a una generazione che è anche la mia, che si è nutrita dei saperi delle precedenti contestando però radicalmente quanto di autoritario c’era nella nozione stessa di “maestro”. Nel tempo e mentre la storia sconfiggeva molti nostri progetti senza smentirli, donne come Paola, come ha ben mostrato Cristina Casero nel bel libro che le ha dedicato (Paola Mattioli. Sguardo critico di una fotografa, Postmediabooks, Milano 2016, € 16), sono diventate punti di riferimento nel loro costante approfondimento di una ricerca i cui presupposti sono sorti negli anni fra il ‘68 e i ‘70.
Paola Mattioli ha una formazione filosofica, sviluppata nell’ambiente che intorno ad Enzo Paci e alla rivista “aut aut” ha introdotto in Italia la fenomenologia e ha applicato il suo metodo anche allo studio del marxismo: con una forzatura potremmo dire che una nozione centrale della fenomenologia sta anche al centro della sua pratica. La parola fenomeno ha un doppio senso per via dell’essenziale correlazione fra l’apparire e ciò che appare, per cui la conoscenza afferra le apparenze, gli atti di coscienza e al tempo stesso l’oggettualità di quelle apparenze in una continua tensione.

Casero sottolinea anche il fondamentale apprendistato con Ugo Mulas, con cui Paola ha in comune, in piena autonomia, una caratteristica peculiare di cui spiegherò il carattere. La sua fotografia – come era stato per Mulas – si immerge nelle realtà sociali senza mai diventare reportage, è estranea sia all’idea del “momento decisivo”, la cui importanza simbolica si riassume in un contenuto; sia all’estetizzazione dello scatto, la cui “bellezza” non va colta nell’istante ma nella sequenza con un prima e un dopo in cui si colloca uno sguardo che comprende e perciò costruisce l’oggetto. Mattioli renderà esplicito questo punto di vista nei dittici, presenti nella sua opera fin dagli anni ‘80.

Nel corso degli anni questa pratica si è realizzata su e con oggetti diversi ma con una continuità che il volume ha il merito di rendere evidente. Evocherò allora alcuni momenti di questa continuità.

Dopo le prime immagini scattate nelle manifestazioni del movimento milanese nel ‘69, nascono – con una eccezionale felicità di ripresa in un’artista giovanissima – alcuni ritratti fra cui spicca quello di Giuseppe Ungaretti, che Paola ricorda avere egli stesso “messo in scena”, attraverso le diverse espressioni, la molteplicità della sua esperienza. Dunque fotografie in cui attraverso la sequenza e attraverso il contesto entrano la storia e l’impegno sociale, e ritratti che nascono da un incontro, da un dialogo – come osserva acutamente Fiorella Cagnoni – caratterizzano fin dall’inizio il suo lavoro

Una tappa importante è rappresentata da una serie fotografica realizzata insieme ad Anna Candiani, “Le immagini del No”, esposta alla galleria Il diaframma alla fine del ’74 e pubblicata in volume, che rappresenta la campagna per il No al referendum abrogativo della legge sul divorzio. Ci sono state allora e ci sono ancor oggi in sede di ricostruzione storica due diverse interpretazioni di quel risultato: semplice, indispensabile secolarizzazione della società italiana; o momento di una fase di trasformazioni e conquiste sociali più ampie e coinvolgenti. Le “immagini del No” attestano senza dubbio questa seconda interpretazione, con la diffusione per tutta la città di scritte che evocano drammi e conquiste dei movimenti e coprono i monumenti del centro di Milano come i grandi scenari degli edifici del Gallaratese, un momento importante, oggi purtroppo rimosso, di una vera e propria utopia urbanistica di creazione di spazi comunitari nei quartieri popolari.

L’incontro di Paola Mattioli col femminismo è stato certamente decisivo per la sua vita, per la sua sensibilità ma innanzitutto ha segnato una fase del suo lavoro artistico che è iniziata a metà dei ’70 e i cui caratteri continuano a emergere nel suo sguardo critico. Cristina Casero non entra nelle divergenze e nelle tensioni fra i femminismi che hanno segnato quei decenni, ma coglie nel segno nell’indicare questa centralità. Formatasi in una famiglia della borghesia intellettuale milanese accanto alla madre Luisa Mattioli Peroni, avvocata e attiva nelle istituzioni, e alla zia Piera Peroni, fondatrice di “Abitare”, conquistate e acquisite le faticose certezze della parità, Paola è stata fra le protagoniste di quel femminismo della differenza che ancor oggi si esprime nella Libreria delle donne di via Calvi a Milano, nelle cui pratiche artiste e critiche d’arte, a partire da Carla Lonzi, hanno avuto tanta importanza. Anche per le donne che hanno scelto allora di restare nei gruppi politici, soprattutto a distanza di decenni, quella esperienza si rivela nella sua creativa persistenza un momento di interlocuzione necessario per chiarire le proprie vite e il proprio operare. Partire da sé, affidarsi a sorelle maggiori e madri simboliche, ripercorrere il proprio corpo non (solo) come specchio del desiderio maschile ma come fonte di esperienza creativa, sprofondarsi nella propria specificità senza la quale il genericamente umano rimuove il suo separarsi in due sessi

Questi aspetti, cui si può qui solo accennare, investono il lavoro fotografico di Paola, a partire da una ricerca condotta con Anna Candiani, Carla Cerati e Giovanna Nuvoletti che definire “sul lavoro delle donne” o “sulle donne al lavoro” sarebbe molto riduttivo eppure non del tutto privo di senso. Non sono però foto di denuncia di un lavoro femminile ancora privo di sostegno in un welfare adeguato – anche se tali problemi non sono certo rimossi – ma immagini di donne al lavoro, ognuna delle quali è un ritratto in cui le peculiarità individuali emergono da inquadrature come quella bene evocata dal volume, di una donna al lavello di cucina, forse uno dei meno gradevoli lavori di cura, il cui volto è rappresentato e catturato da uno specchio. Questa ricerca sul ritratto in situazioni che per altri fotografi sarebbero occasioni di reportage sociale è una peculiarità su cui torneremo. In questa seconda metà degli anni ‘70 la nascita della figlia Toni – oggi storica della violenza fascista, innovatrice con altri della sua generazione di quella storiografia particolarmente ricca in Italia – suggerisce a Paola una riflessione sul corpo e sul confronto fra i corpi femminili senza ansia di prestazione ma con la gioia dell’esplorazione, come nel ritratto a due “Sara è incinta”. Proprio all’inizio degli anni ‘80 Paola è anche protagonista di un’esperienza che oggi difficilmente un editore oserebbe. Si tratta della rivista “Grattacielo. Occhi di donna sul mondo”, diretta da Anna Maria Rodari, nella cui redazione fra tante altre troviamo anche Ida Farè e Francesca Pasini, importanti protagoniste dell’innovazione femminista nelle proprie discipline. Un mensile di “politica, cultura e attualità” che si rivolgeva a un pubblico ampio non necessariamente solo femminile o militante, che ha realizzato l’ambizione di un “femminismo diffuso” che rendesse quotidiano il punto di vista delle donne e che ha prestato molta attenzione alle immagini e all’iconografia.

Cristina Casero dedica ampio spazio ad approfondire il tema “del guardare”. Con lo spiazzamento della fotografia attraverso un cellophane che permette di scegliere il lato dell’ostacolo da cui osservare in cui, come scrive Casero, l’ostacolo diventa «una metafora dei limiti dello sguardo, dell’ambiguità del suo rapporto col reale» (p. 56 del volume). Con il ritorno a immagini che evocano anche sofferenza e denuncia come quelle al carcere di san Vittore. Con l’estensione del tema del ritratto alla fotografia delle immagini femminili già “messe in scena”, come nella serie delle statuine e delle immagini femminili pubblicate in un contesto legato alla moda, su “Amica”.

Viste in sequenza, le “Madonne” che rievocano esplicitamente i ritratti cinquecenteschi con le perle a cingere la fronte non sono meno solenni e “autorevoli” delle “signares”, le donne senegalesi dall’ambiguo statuto di “mogli coloniali”, le cui discendenti Paola Mattioli ha scoperto nei suoi viaggi in Africa, alcuni anni dopo, insieme a Sarenco, artista e profondo conoscitore del continente. In questi viaggi ha anche incontrato e fotografato la scultrice Seni Camara, “leggenda vivente” capace di un percorso artistico che evoca sia l’emancipazione sia il partire da sé, dalla propria specificità culturale.

Poco dopo, già nel nuovo secolo, si situa un’avventura di conoscenza e di produzione di immagini che ho condiviso con Paola Mattioli e con altre e altri diventati nel tempo importanti amici e interlocutori. Una mia ricerca sugli operai della Dalmine e la Fiom completata da un capitolo di testimonianze orali è stata l’occasione di una ricerca fotografica di Paola che riattualizzava aspetti costanti del suo lavoro. La ricerca si è sviluppata con gli operai della Landini/McCormick di Fabbrico e con quelli della Dalmine, alle porte di Bergamo, con la mediazione essenziale, in entrambi i casi, delle camere del lavoro di Reggio Emilia e di Bergamo. Si tratta di due realtà molto diverse. A Fabbrico la cultura operaia profondamente intrecciata con quella bracciantile e mezzadrile ha per lunghi decenni prolungato la sua egemonia dai luoghi del lavoro al territorio. L’antifascismo militante delle “bande di pianura” era ancora un’esperienza attuale che aveva portato operai e contadini a ruoli istituzionali, e in ogni momento essenziale della vita – persino la tomba – la falce e martello non erano una forzatura ideologica ma l’attestazione dell’appartenenza a una comunità scelta. Il paesaggio è quindi presente come un protagonista di quell’esperienza sociale.

A Dalmine, un territorio politicamente conservatore, con un mondo contadino a lungo subalterno a quel conservatorismo, le grandi fabbriche sono state a lungo isole di conflitto, di socializzazione politica e di identità: le storie dei militanti della Fiom, della Flm bergamasche rappresentano momenti importanti della storia nazionale dei conflitti sociali del secondo dopoguerra. Invece dei paesaggi, insieme ai ritratti operai vediamo foto che rappresentano i processi lavorativi, le emozionanti fusioni, gli strumenti di lavoro.

Insieme al lavoro fotografico, questa ricerca articolata in due volumi ha compreso saggi storici e una ricerca organizzata da Francesco Garibaldo ed Emilio Rebecchi sulla percezione – da parte di operai ed impiegati della Dalmine – del rapporto fra il loro essere lavoratori e il loro essere cittadini. Queste importanti ricerche, pubblicate entrambe in due bei volumi di Skira, sono state ideate ed eseguite in tempi ben lontani dalle foto di manifestazioni o di donne al lavoro degli anni ’70, quando si decretava da tante parti l’obsolescenza della soggettività della classe operaia.

Nel lavoro di Paola Mattioli gli operai sono presenti come un movimento che – con significative analogie col movimento femminista che i teorici dell’operaismo hanno colto – partiva da sé, dai propri interessi e conflitti per comprendere e trasformare la società. Sconfitte politiche, arretramenti sociali non rimuovono questa feconda unilateralità e Paola, come per tutti i soggetti sociali su cui ha posato il suo sguardo dialogico, li ritrae nella loro individualità che si connette con la loro dimensione collettiva in un gesto, in un atteggiamento… Altri progetti ha in corso che attestano la continuità cui si accennava all’inizio: la società raggiunta attraverso un percorso e non in momenti “esemplari”, il ritratto che sorge da un dialogo e da un confronto, il rifiuto della estetizzazione – delle sontuose signares come degli strumenti di lavoro e delle macchine – e una bellezza che nasce dalle emozioni e dalle riflessioni di chi guarda.

http://www.doppiozero.com/materiali/un-ritratto-di-paola-mattioli per le foto

dal 14 al 27 aprile

Presso Associazione Apriti Cielo!, Via Spallanzani 16 Milano Porta Venezia

Inaugurazione mostra ” In Dialogo” Silvana Giannelli e Giò Marchesi

L’associazione Apriti Cielo! è lieta di presentare due artiste in dialogo con il loro lavoro. Entrambe fanno parte dell’Associazione OndedurtoArte di Vigevano

 

SILVANA GIANNELLI 

L’incontro con l’arte non è mai fortuito. L’incontro con l’arte è una predestinazione. E’ il frutto di un disegno superiore (che l’autore di tale disegno lo si chiami Dio, Allah, Buddah, Fato eccetera non ha alcuna rilevanza) al quale non si può sfuggire. E’ un incontro che può essere posposto, rimandato, procrastinato, ma non ignorato, non cancellato, non soppresso. Può, è vero, essere cercato, organizzato, perseguito anche in mancanza della predestinazone, ma la differenza tra le due situazioni è netta, sostanziale. Una differenza che può essere avvertita anche dagli osservatori meno esperti: nel secondo caso, il risultato dell’operare artistico dei soggetti che hanno ritenuto possibile dedicarsi all’arte senza averne la “spinta genetica” è quasi sempre privo di interiorità, di calore; tecnicamente spesso ineccepibile, ma privo di sincerità. Forzato.

Ben altri traguardi raggiunge colei (o colui) al quale la fortuna ha concesso di avere l’arte nel dna. Nel sangue. Di avere, congenite, non la tecnica, non la padronanza del gesto, bensì l’anima, il cuore, la sensibilità necessarie all’esercizio dell’arte. La forza emotiva, la rabbia indispensabili per riuscire a trasporre su un supporto fisico, concreto le proprie emozioni, i propri sentimenti. La capacità di restituire visivamente quanto, per natura, è destinato a essere astratto, virtuale, dando a questo coacervo di elementi spirituali il senso del “vero”, del “reale”.

Per Silvana Giannelli tutto questo è naturale, spontaneo. Non sono gli studi – che pure ha seguito, – non è il bagaglio, peraltro notevole, di esperienze artistiche ed esistenziali accumulate nel suo cursus vitæ, a dare al suo operare artistico sostanza e contenuti. In lei gli elementi che fanno di un individuo non un artigiano, non un mestierante, ma un artista, un vero artista, sono innati. Una spiritualità profonda, unita a un complesso lirismo (non a caso è anche sensibile e delicata autrice di poesie) e a una estrema capacità di confronto con i sentimenti umani primari, le permette di esprimere con grande efficacia il suo sentire artistico. L’uso, nel tempo, di diverse tecniche, di stili e stilemi diversi, evidenzia una continua evoluzione, libera da forzature e da preconcetti, e dunque in toto interiore, legata in esclusiva alla progressione della quotidianità che la circonda, della quale sa rappresentare, con rari vigore, potenza ed energia, ogni sfaccettatura.

 

Fa parte  del Consiglio Direttivo di Ondedurto.Arte,tesserata AIAPI (Associazione Italiana Arti Plastiche Italia),presente nella Collana Arte e Artisti Contemporanei diretta da Francesca Folino Gallo di prossima pubblicazione.
Mostre tra le più recenti:
personale presso spazio espositivo “Spazio all’arte”- Vigevano marzo 2017
collettiva ondedurto .arte presso Palazzo Merula – settimana letteraria -Vigevano  ottobre 2016
collettiva ondedurto.arte Ottaviano (Caserta) maggio 2016
collettiva ondedurto.arte “Pensieri in libertà” a cura di Leonilde Carabba presso Alveare -Milano novembre 2015
Guadalajara Mexico: “Transeoceanica” con Ondedurto.Arte giugno 2015
collettiva nell’ambito dell’evento  “Le Bussole del Tempo “- Vigevano  settembre 2013

 

GIO’ MARCHESI

Nasce e vive a Vigevano. Entra nei gruppi artistici d’avanguardia vigevanesi e partecipa attivamente alla vita del gruppo artistico “Il Sagittario” seguendone lo sviluppo sino alla sua scission. Nel 1971 entra in contatto con il gruppo di “Nuova Verifica” e prende parte con viva partecipazione alle varie iniziative pittorico-culturali tra le quali “Itinerario inchiesta Fabbrica-Scuola” e “Proposta per un Dialogo” iniziative socio-culturali in cui si intendeva verificare quali potevano essere i legami di comprensione instaurabili fra l’Arte Moderna e la cultura dominante fra il pubblico di visitarori comuni. Nell’anno 2000 entra nella formazione D’ARS Milano con cui partecipa a mostre collettive e personali che la portano ds avere il suo nome e le sue opere su riviste d’arte, giornali nazionali  ed internazionale e sulla prestigiosa “Enciclopedia dell’Arte Italiana” in cartaceo e sul web. (www.enciclopediadarteitaliana.eu cerca marchesi gio) Nell’anno 2014 è firmataria del  “Manifesto” che origina l’associazione ONDEDURTO.ARTE nella quale ricopre la carica di Presidente. Tra le varie mostre si ricordano le più recenti:

New Yor: Secret Garden c/o Onisi Gallery-Montecarlo, Monaco: Beach Hotel con Ondedurto.Arte, invitate da sua eccellenza l’ambasciatore Antonio Morabito a rappresentare l’arte Italiana – Guadalajara Mexico: Transoceanica, con Ondedurto.Arte, scambio culturale con gli artisti d’oltre oceano – Vigevano: “Le bussole del Tempo” evento sviluppato in 19 location con mostre ed eventi – Vigevano: nell’ambito della Settimana Letteraria in due spazi di via Cairoli, per la rivalutazione della via stessa, con Ondedurto.Arte, mostre permanenti unitamente ad eventi – Milano: “Sguardi d’autore” presso Museo d’Arte e Scienza – Milano “Pensieri di Libertà” collettiva di Ondedurto.Arte presso Alveare, a cura di Leonilde Carabba.

di Francesca Pasini

In Milano centro, Paola Di Bello collega la costruzione dello sguardo al centro della città. Applicando alle vetrate della Sala Fontana del Museo Del Novecento i particolari delle foto di Piazza Duomo, stampati su pellicole trasparenti, attira il Duomo stesso dentro l’edificio. Si crea un montaggio mobile tra le luci del neon di Fontana, l’architettura reale che appare attraverso il vetro e quella ritratta da Di Bello, visibile in trasparenza. Esterno e interno convivono simultaneamente attraverso la fotografia.

La sincronicità, che Di Bello mette in scena, crea però uno sfasamento. Perché applicare alle finestre delle immagini di ciò che è comunque visibile attraverso le finestre stesse? Tutto quello che guardiamo richiede una messa fuoco dei continui aggiustamenti di quanto emerge mentre ci muoviamo interiormente e, oggi, anche tecnologicamente. Come dice Paola di Bello, la questione non è “cosa si guarda, ma come si guarda”.

Lo sfasamento che ritrae è un punto di svolta decisivo: riduce la “sacralità” dell’immagine a favore della sincronia nella relazione. Prima di tutto tra giorno e notte, che Paola Di Bello realizza sovrapponendo in un’unica lastra l’esposizione diurna e notturna. Piazza Duomo viene pervasa da una luce che a prima vista sembra un effetto speciale, ma i lampioni accesi, non separabili dalla luce del sole, svelano l’enigma dell’ora, come direbbe De Chirico. Luce e ombra non hanno più una dinamica contrapposta, una slitta sull’altra.

Cosa significa? È immediato pensare alla coscienza (di giorno guardiamo, di notte sogniamo) e all’esperienza quotidiana, affettiva, lavorativa. E la domanda diventa: come posso creare un montaggio che faccia dello sfasamento un centro del mio sguardo? Come posso pensare a un centro senza fissa dimora?

Le fotografie di Paola Di Bello sono infatti un centro sincronico vivibile solo nello spazio percettivo. Restituiscono lo sfasamento tra il tempo dello spazio, quello dell’occhio della macchina e di chi scatta. Chi guarda l’immagine si posiziona al centro di questa molteplicità, che a sua volta fa scattare la sincronicità con lo sguardo dell’altro.

È un centro da assimilare più che descrivere, bisogna usare “la lettura della mente” che – come scrive Massimo Ammaniti ( Noi. Perché due è meglio di uno, il Mulino 2014) – “si acquisisce prima della lettura di testi”, cogliendo i significati negli sbalzi espressivi, nei movimenti, nella temperatura, nei colori di cose e persone. La conoscenza che ne deriva, e che definirei emotiva, si sviluppa predisponendo momenti sincronici tra sé e l’altro nel momento in cui “vediamo”. Nell’arte è un processo verificabile, indipendentemente dall’epoca alla quale appartiene.

Già nel 1972 John Berger, in Modi di vedere (ora Bollati Boringhieri 2015), dichiara che “il vedere viene prima delle parole” e così legge la storia dell’arte. “La convenzione della prospettiva, propria dell’arte europea, e comparsa agli inizi del Rinascimento, fa del singolo occhio che osserva il centro del mondo visibile, in esso ogni cosa converge come nel punto di fuga all’infinito. Il mondo visibile si dispone per lo spettatore così come, un tempo si credeva, l’universo dovesse disporsi per Dio”. Da qui, secondo Berger, nasce la contraddizione intrinseca a quel tipo di prospettiva. “Essa, infatti, strutturava tutte le immagini del reale in modo che si indirizzassero a un unico spettatore, il quale, a differenza di Dio, poteva trovarsi in un solo luogo alla volta”. L’invenzione della macchina fotografica rese evidente questa contraddizione e “distrusse l’idea che le immagini fossero senza tempo: rivelò che ciò che vedevi aveva a che fare con la posizione che occupavi nel tempo e nello spazio. Non era più possibile immaginare che tutto convergesse nell’occhio umano come nel punto di fuga all’infinito. […] Ogni disegno o dipinto che si serviva della prospettiva suggeriva allo spettatore che egli era l’unico centro del mondo. La macchina fotografica – e più specificamente – la macchina da presa dimostrarono che il centro non esiste”.

Nell’arte, la lettura della mente è lo strumento per intonare lo sguardo e interpretare il visibile che ha preso corpo lì, in quell’opera. Ed è uno sfasamento rispetto alla tradizionale ipotesi di realtà oggettiva. Succede anche con le parole, quando ci fanno provare/immaginare una dilatazione rispetto al loro specifico valore semantico.

Mentre la critica alla “convenzione della prospettiva” di Berger contribuisce alla lettura che si stacca dalla contraddizione di cui lui parla, diventando il perno per organizzare la percezione contemporanea del visibile quotidiano. Ed è cruciale per elaborare l’uscita dall’iconografia cristiana. La fotografia, la pittura, la scultura non sono più legate a una dimora stabile (chiese o regge aristocratiche), la direzione con Dio è interrotta. Siamo dunque a faccia a faccia con la necessità di organizzare un centro in grado di ruotare attorno alla reciprocità dello sguardo e non alla sua fuga verso l’infinito.

Consapevoli che anche quando ci sentiamo al centro di quell’immagine, non è una percezione stabile, ma una relazione tra due soggetti (l’opera e l’osservatore), che muta in base al tempo, allo spazio, ai sentimenti, come avviene tra le persone. Concordo con l’idea di Berger, “non esiste un centro”: purché si veda nell’opera un soggettoche non sta di fronte a un altro soggetto, ma interviene in modo attivo nella costruzione di uno sguardo reciproco, come già aveva detto Duchamp, e quindi permette la percezione di un centro dove incontrarsi.

È una lettura “trasparente”, come avvertono le fotografie di Paola Di Bello. Da un lato rende visibile il distacco dall’iconografia cristiana, nonostante il Duomo; dall’altro evidenzia l’indipendenza dalla convenzione prospettica rinascimentale e rende possibile la lettura storica della mente in base alla conoscenza che si sviluppa nella dinamica soggetto-soggetto. Paola Di Bello usa l’occhio fotografico per potenziare quello umano, rendendo così possibile la sincronicità di due momenti effettivamente distanti. Non è la soluzione di un enigma che ci era sfuggito, né la semplice potenzialità tecnica contemporanea. È la svolta che permette di “vedere” la sincronicità. È diverso dalla mail che affido al mio computer con la fiducia che sarà letta in tempo reale nonostante l’ora diversa, perché mantiene “fisicamente” la sincronicità di due momenti distanti, sia quando li osservo “dal vero”, sia quando li vedo riprodotti.

La prospettiva “finita”, della molteplicità dello sguardo dei viventi, è in atto.

Paola Di Bello

Milano Centro

a cura di Gabi Scardi

Milano, Museo del Novecento, 14 dicembre 2016-2 aprile 2017

 dal 6 Aprile al 24 Giugno 2017

Galleria Arte 92  Via Moneta 1/A 20123 Milano – Italy
A cura di: Paolo Bolpagni

Il titolo della nuova personale di Gabriella Benedini, nella Galleria Arte 92 di Milano, è indicativo di due diverse letture, perché due sono le sale che accolgono questa mostra. La prima, “Leggere frammenti”, è un’installazione che consiste in una vera e propria biblioteca, i cui libri, enigmaticamente chiusi, si offrono al visitatore per essere scelti e consultati. Un ripiano sulla destra invita alla consultazione di questi misteriosi oggetti artistici; alcune colonnine sostengono i libri già aperti, mentre a terra cinque secchi contengono i “frammenti” (vetri, poesie, spartiti etc.) dalla cui elaborazione concettuale e manipolatoria derivano i contenuti della biblioteca.

La seconda sala, “Ascoltare silenzi”, inizia con l’esposizione di quindici sinuosi spartiti, sui quali Gabriella Benedini ha scritto una musica di segni e di stelle. Nel corridoio è tutto un alternarsi di piccole sculture a parete, che suggeriscono il riferimento ad ancestrali strumenti musicali, mentre nel salone campeggiano le “Arpe” bianche in vetroresina, che invitano a un ascolto che richiede silenzio.

Le opere di Gabriella Benedini possono essere percepite come presenze arcane e ancestrali, vestigia di civiltà lontane, ma al contempo sono calate nell’attualità, parlando di inquietudini moderne, seppure non contingenti. Si pongono insomma come oggetti “di confine”, e sfuggono a precise definizioni statutarie, collocandosi tra la scultura, la pittura, la grafica, l’installazione, l’assemblaggio. Molteplici sono anche i materiali impiegati e le procedure che li trasfigurano in funzione espressiva, sempre alla ricerca della tridimensionalità e del non-banale. Il tempo, la memoria, la poetica del frammento, la presenza costante dell’elemento musicale (benché spesso rivolto, oppositivamente, nel silenzio) sono i tratti distintivi del modo di fare e pensare arte di Gabriella Benedini, che trova in questa nuova personale un’ulteriore conferma di un’originalità che la rende unica nel panorama contemporaneo.

Accompagna la mostra un catalogo bilingue, in italiano inglese, con un testo introduttivo di Paolo Bolpagni, le riproduzioni a colori delle opere esposte, ambientate negli spazi della galleria, apparati bio-bibliografici e un’intervista all’artista.

Tel: +39 (0)2 8052347
Email: arte92@arte92.it

da rollingstone.it

In arrivo una rassegna interamente dedicata a una delle figure più controverse e affascinanti dell’arte contemporanea, capace con le sue opere di conquistare maestri come Mirò, Duchamp e Warhol

Ci sono alcuni nomi nel mondo dell’arte che forse al grande pubblico non dicono molto, ma che in realtà rappresentano vere e proprie leggende. Ora non voglio dire che Louise Bourgeois sia una perfetta sconosciuta, ma se uscite per strada e fate il suo nome a 100 persone sono pronto a scommettere che meno di un quarto vi saprà dire chi è. Eppure, la Bourgeois è una pietra miliare dell’arte del ‘900, una artista tra le più celebrate nei musei del mondo.

Il 24 marzo allo Studio Trisorio di Napoli inaugura una mostra a lei dedicata, con decine di disegni e una manciata di statue in bronzo. Oltre a questo, il Museo Madre proietterà Louise Bourgeois: The Spider, the Mistress and the Tangerine, film sulla sua vita delle registe Marion Cajori e Amei Wallach. Come se non bastasse, sabato 25 al Museo di Capodimonte sarà inaugurata la mostra Incontri sensibili, a cura di Sylvain Bellenger e Laura Trisorio, dove verrà esposta per la prima volta in Italia l’opera Femme Couteau.

E allora questa è una buona occasione per raccontare qualcosa dell’incredibile vita di questa donna nata nel 1911, in uno dei boulevards che corrono sulla rive gauche della Senna, da una famiglia che economicamente se la passa bene. Borghesi di nome e di fatto. Il padre la odia fin dalla nascita, voleva un maschio, e questa cosa avrebbe segnato indelebilmente la sua vita e il suo lavoro. Lei cresce tra le umiliazioni del padre e la rassegnazione colpevole di una madre che non fa nulla per difendere la figlia, ma nemmeno se stessa. Tace persino quando il marito assume come “bambinaia” dei figli la sua amante per averla in casa, sempre a disposizione.

Il 14 settembre 1932 la madre Josephine muore. Nonostante tutto, un colpo durissimo per Louise, che cade in una depressione così forte da indurla addirittura a tentare il suicidio. Per fortuna non riesce a togliersi la vita, ma a stravolgerla completamente sì: lascia l’università e inizia a frequentare gli studi di molti artisti a Montmartre e Montparnasse, i cuori pulsanti del fermento culturale europeo. A Parigi abita proprio sopra ad André Breton, grande scrittore e critico d’arte, ideatore del surrealismo. Inizia a studiare arte e a lavorare come assistente di alcuni Maestri.

Disegna e dipinge, e fin dai suoi primi lavori emerge la sua attenzione per il corpo e per la memoria. I traumi famigliari sono ancora freschi e si tramutano perfettamente in sfoghi sulla tela nei riferimenti a un padre che mortificava lei e la madre e che nel suo caso, continua a farlo. Si sposa con lo storico dell’arte Robert Goldwater e insieme si trasferiscono a New York. Diventa amica di Mirò e soprattutto di Duchamp, che sostituisce nella mente di Louise la figura del padre.

Diventa mamma a sua volta, ma questo non le impedisce di lavorare e continua con la produzione di tele e disegni, nel segno della memoria dell’infanzia, della casa, del corpo della donna. Viene fuori un lato combattivo della Bourgeois, in particolare nella serie Femme-Maison, straordinarie opere raffiguranti figure femminili completamente nude, le cui teste sono sostituite da un’abitazione. Con Femme Maison, che significa “donna di casa”, lei si ribella al luogo comune, anticipando di decenni le lotte femministe che avrebbero imposto una nuova visione, libera e autonoma, della donna.

Non riesce a sfondare, ma le sue sculture arrivano agli occhi di Alfred Barr, potentissimo direttore del MoMA, che acquista un lavoro per la collezione permanente del Museo. Passa gli anni successivi a fare il giro di tutti gli psicanalisti della grande mela e la depressione le impedisce di lavorare per oltre 15 anni. Negli anni ’60 inizia a sperimentare materiali organici per le installazioni, come plastica, lattice, gomma, gesso e vetro. Sono gli anni in cui nelle sue opere compaiono espliciti riferimenti ai genitali maschili e femminili. I suoi lavori, sempre più spinti dal punto di vista sessuale, fanno piovere sulla Bourgeois una valanga di critiche. Lei non si scompone, anzi si avvicina ai movimenti femministi e inizia a diventare un punto di riferimento anche dal punto di vista politico.

Louise Bourgeois vede riconosciuto il proprio lavoro molto tardi, infatti la vera consacrazione arriva solamente nel 1982, quando il MoMA di New York le dedica una grande retrospettiva. La prima mostra personale interamente dedicata a una donna per il tempio sacro dell’arte internazionale. È qui che dedica ancora lavori alla sua famiglia e decide di non nascondere più nulla, creando addirittura un’opera che narra il rapporto del padre con la sua amante, l’insegnate di inglese di Louise e le sue sorelle. La mostra farà il giro di America ed Europa, e Louise viene acclamata ovunque. Continua incessantemente a lavorare, creando il ciclo di opere che probabilmente resterà il più famoso nell’immaginario collettivo: giganteschi ragni di metallo, alti oltre 10 metri, che ancora una volta sono il prodotto di una mente che cerca riferimenti continui nei primissimi anni di vita. Quel ragno, infatti, non è altro che la raffigurazione della madre, che Louise vede come instancabile tessitrice delle loro fitte trame familiari. Ancora la sua infanzia, irrisolta, è protagonista

Gli Stati Uniti scelgono proprio lei per rappresentarli alla Biennale di Venezia del 1993 e Bill Clinton in persona le consegna la Medaglia Americana per le Arti. Gli ultimi anni vedono ancora una fitta produzione di opere, oltre a incontri continui con le nuove generazioni di artisti, mostre nei più importanti Musei del Mondo e i più prestigiosi riconoscimenti istituzionali.

Dunque vale la pena fare un giro a Napoli per vedere le sue opere allo Studio Trisorio, ma anche al Museo di Capodimonte. Vale la pena perché questa meravigliosa artista dovrebbe essere celebrata di più, soprattutto per il fatto che il mondo dell’arte l’ha tenuta da parte per 70 anni prima di renderle omaggio. Certo lei non si è fatta scoraggiare e ha saputo aspettare, decidendo di andarsene a quasi 100 anni pur di vedersi riconosciuti i giusti tributi. Infatti Luoise Bourgeois è morta nella sua casa di New York il 31 maggio del 2010, all’età di 98 anni. Ed è curioso sapere che pochi anni fa, su una bancarella di un mercatino di Parigi, sia stato ritrovato un diario che perse su un treno nel 1923, all’età di 12 anni.

È soprattutto questo Louise Bourgeois: il diario smarrito della sua infanzia e il capolavoro di una vita a tentare di riscriverlo.

23 marzo, ore 17, MUSEO MADRE – Film, Talk
24 marzo, ore 19, STUDIO TRISORIO – Inaugurazione Mostra
25 marzo, ore 11, MUSEO DI CAPODIMONTE – inaugurazione Incontri sensibili
info@studiotrisorio.com
www.studiotrisorio.com

dal 24 Marzo al  26 Aprile, 2017

Monica Bonvicini  – Our House

Galleria Raffella Cortese
via a. stradella 7 – 1 – 4
inaugurazione alla presenza dell’artista giovedì 23 marzo, h. 19.00 – 21.00 24 marzo | 26 aprile 2017 martedì – sabato h. 10.00-13.00 | 15.00-19.30 e su appuntamento
Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare la prima mostra di Monica Bonvicini nelle tre sedi espositive. Saranno presenti opere concepite e prodotte appositamente per l’esposizione.
Monica Bonvicini è conosciuta soprattutto per le grandi installazioni scultoree, tuttavia la sua è un’attività complessa e completa che include media diversi, dal disegno alle installazioni video passando per la fotografia. Ha studiato arte a Berlino ed alla Cal Arts negli Stati Uniti e dal 2003 è Professore di Arti Performative e Scultura all’Accademia di Belle Arti di Vienna. Vive e lavora a Berlino. La sua ricerca si è sempre sviluppata attorno all’idea di architettura e della sua storia come un linguaggio in grado di unificare problematiche politiche, economiche e sociali. Dagli anni Novanta ha affrontato l’architettura da un punto di vista legato alla teoria di genere, con l’acume tipico dei suoi lavori.
Nella serie di grandi disegni in bianco e nero presentati per la mostra Our House, l’artista si è concentrata sulle catastrofi naturali causate dalle azioni umane facendo riferimento ad alcune teorie sul Capitalocene di Donna Haraway, esponente del pensiero femminista che studia il rapporto tra scienza e identità di genere. Le immagini sono prese da testate online nelle quali si dichiara apertamente che i disastri, dagli incendi agli uragani, sono il risultato del riscaldamento globale e di altri comportamenti ecologicamente scorretti perpetrati dall’uomo. Insieme ai disegni, nello spazio principale della galleria, sono presentate le sculture Diener e il video Slamshut. Prodotti nel 2017, i Diener sono readymade rivestiti che diventano oggetti reminiscenti di servi muti. Queste sculture di dimensioni domestiche, curiosamente appoggiate al muro, sono in origine puntelli per pareti di cemento. Per la mostra in galleria, i Diener sono stati appositamente prodotti a Milano e dintorni, abbracciando così la tradizione di artigianato radicata in una delle città del design più di tendenza e sperimentale d’Europa. Il materiale edile viene quindi trasformato in un oggetto di design eccettrico ma addomesticato.
In via Stradella n.1 sarà presentata un’altra serie a muro, quattro stampe su telaio liberamente ispirate dal libro Testo junkie. Sexe, drogue et biopolitique di Beatriz Preciado. I lavori, insolitamente colorati per gli standard di Monica Bonvicini, sono costituiti da vari ritagli d’immagini di parti del corpo prese da tabloid e riviste scandalistiche. Ne risulta una composizione dove qualsiasi riferimento sessuale viene impoverito per dare risalto ad una analisi del piacere e dell’uso del corpo come materiale di scambio voltato al profitto. Seppure i lavori siano singoli, ognuno riporta una porzione della frase “I like to stand with one leg on each side of the wall” scritta con spray di colore rosa veneziano e ripresa dal testo The German Issue di Heiner Müller.
Bonvicini è recentemente tornata ad esplorare la sociologia legata all’abitare che, in questa mostra, abbraccia strutture sia private che istituzionali. L’artista ha iniziato a lavorare utilizzando elementi architettonici fin dai suoi giorni da studentessa a Cal Arts, ed ha prodotto opere come il grande intervento I Muri (1991), verbrauchte nostalgie (1993), e Wallfuckin’ (1996), per nominarne solo alcuni. Allo spazio n.4 di via Stradella, una parete espositiva di grandi dimensioni è appesa al soffitto sollevata da un lato con una catena. Structural Psychodrama # 3 (2017), questo il titolo dell’opera, è un intervento minimale nello spazio effettuato attraverso l’uso di materiale da costruzione. La drammatizzazione e l’estraniamento derivati da questo intervento confondono il codice di comportamento prestabilito associato alla funzione dell’architettura della galleria, luogo dove esporre arte e, al contempo, luogo dove osservarla e comprenderla. Bonvicini ha vinto diversi premi, tra cui il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia (1999), il Preis der Nationalgalerie für junge Kunst, dallo Staatliche Museen zu Berlin (2005), ed il Rolandpreis für Kunst per l’arte pubblica dalla Foundation Bremen, Germania (2013). I suoi lavori sono stati presentati in molte illustri biennali, tra cui Berlino (1998, 2003, 2014), La TriennaIe Paris (2012), Istanbul (2003), Gwangju (2006), New Orleans (2008), e Venezia (1999, 2001, 2005, 2011, 2015). Ha presentato mostre personali presso Palais de Tokyo, Parigi (2002), Modern Art Oxford, Inghilterra (2003), Secession, Vienna (2003), Staedtisches Museum Abteiberg (2005, 2012), Sculpture Center (2007), Art Institute of Chicago (2009), Kunstmuseum Basel (2009), Frac des Pays de la Loire (2009), Kunsthalle Fridericianum, Kassel (2011), Centro de Arte Contemporaneo de Malága, Spain (2011), Deichtorhallen Hamburg (2012), Kunsthalle Mainz (2013), BALTIC Center for Contemporary Art (2016/17).

dal 1 all’8 marzo 2017

Dea Madre una mostra  di Pina Massarelli e Wanda Delli Carri

presso Palazzo Dogana Foggia

Un incontro inevitabile e felice quello che ha portato Wanda Delli Carri e Pina Massarelli a esporre insieme le loro opere. In momenti diversi, Pina l’anno scorso e Wanda poco prima di Natale, avevano esposto le loro opere al Museo Civico di Foggia grazie alla direttrice, Gloria Fazia, che ha molto apprezzato le opere di entrambe, tanto è vero che ha acquistato un’opera di Pina per il Museo e ha scritto la presentazione sul catalogo di W. Delli Carri. Pina ha visto le opere di Wanda, ha riconosciuto oltre alla loro qualità artistica una ricerca affine alla propria e le ha chiesto di organizzare insieme una mostra perché sarebbe stato un modo per rafforzare il discorso che sta a cuore a entrambe: ricercare e rielaborare riti e culti che appartenevano a una cultura e a una civiltà antiche.

Questa cultura, che in seguito è stata cancellata o dimenticata, o si è ritirata in piccole nicchie del mondo, consisteva in una visione magica del mondo che è stata sottovalutata, considerata primitiva e la magia una filosofia semplicistica. Sia studiose, Marija Gimbutas tra tutte, che studiosi l’hanno riscoperta e studiata. Robert Graves per esempio, osservando i miti religiosi antichi riconosce che si riferiscono alle società matriarcali conosciute nell’area mediterranea e in Europa prima dell’arrivo degli invasori dell’Est e del Nord. Svela inoltre che l’Europa antica non aveva divinità maschili e si venerava solo la Grande Dea, immortale, onnicomprensiva e onnipresente, incarnazione della natura terrestre e cosmica; la luna e il sole erano i suoi simboli. Gimbutas dimostra che nel Paleolitico e nel Neolitico le donne erano sacerdotesse e veneravano dee. Nei 3.000 siti che ha analizzato, ha trovato 30.000 sculture di dee, donatrici di vita e fertilità, morte e rigenerazione, che portano inciso o dipinto sulla superficie delle statue una sorta di codice cifrato che ha chiamato il linguaggio della dea. Tutte le prove dimostrano che nell’Europa antica la cultura era caratterizzata da una profonda religiosità verso la dea e dalla centralità sociale delle donne come fonte di vita. Gli uomini hanno funzione di stimolo e impulso ma non hanno potere. Gimbutas descrive questa cultura come matrilineare, matrilocale e matrifocale, egualitaria e pacifica in netto contrasto con la successiva fase indoeuropea che ha avuto un carattere patriarcale e che ha distrutto l’antica cultura. Insomma, la cultura della guerra non è nata in Europa, ma vi è stata portata dalle invasioni di uomini a cavallo provenienti dalle steppe russe. Fin qui il mito, che poggia su ricerche e studi accurati, come è raccontato, tra le altre/i da Heide Göttner-Abendroth nel suo libro Le società matriarcali, Venexia editrice, 2012.

Quello che sappiamo con sicurezza e di cui abbiamo esperienza è che noi tutte e tutti siamo nati e siamo figli di questa cultura occidentale, quella che Vandana Shiva chiama monocultura della mente, che riduce tutto a uno, un tipo di società, un tipo di economia, ecc. e crea modelli fissi, eliminando tutto ciò che non si omologa, che è diverso, eliminando l’alterità o riducendola a uno stereotipo.

La storia sarebbe continuata così se il femminismo non avesse operato una rottura di questa visione monolitica e sviluppato la critica nei confronti dell’idea che il pensiero, il logos fosse uno, universale e neutro. Uno dei pilastri del dominio patriarcale era, infatti, proprio l’idea di una sua presunta universalità ed eternità. Per questo acquistano particolare valore gli studi sul matriarcato che, attenzione, non significa potere delle donne sugli uomini, ma indica l’origine, il principio femminile, perché la parola arché in greco significa anche principio.

La mostra Dea madre, che riflette su queste questioni, fa emergere l’autorità femminile che si basa sulla pratica di stimare e ammirare un’altra donna perché dall’ammirazione si può ricavare un potenziamento per sé e per tutte le altre. Le opere hanno come soggetto la riflessione, avviata ormai da tempo dalle due artiste, sui riti arcaici in onore della Dea Madre e di altre divinità femminili presenti nel territorio della provincia di Foggia, l’antica Daunia. Insieme alle rielaborazioni di immagini della Dea Madre diffuse in tutto il Mediterraneo, Pina Massarelli rivisita, infatti, l’Idoletto di Passo di Corvo e la Stele di Castelluccio. Wanda Delli Carri, con una pittura che imita la scultura, si ispira alle Danzatrici di Ruvo, all’Antefissa e alla Testa di Medusa di Arpi, alla Stele daunia femminile e alle figure degli ex-voto dalla Stipe del San Salvatore di Lucera.

Le opere di Wanda Delli Carri sono attraversate da un filo rosso che dando continuità le tiene insieme come facessero parte di un racconto unico. Il filo rosso rimanda a tante connotazioni appartenenti al corpo e al grembo femminile, dal cordone ombelicale al sangue mestruale. È anche il segno della passione amorosa, dei ricordi, degli affetti e dei legami familiari, ma è soprattutto il simbolo di una ricerca che parte dagli arcaici culti misterici di società pacifiche ed egualitarie che non conoscevano il senso del potere, del dominio e dell’avidità. Il filo rosso si snoda ricucendo simboli, un capitello, una spirale, uno spicchio di luna, le ali di un angelo, i capelli di Medusa, ecc. attraverso tempi e luoghi diversi. A volte è presente una sottile ironia come nell’opera Arche-tipa, in cui la Dea indossa disinvoltamente jeans e scarpe rosse con il tacco. Così come l’altra Arche-tipa che si ispira all’ex voto del III-II sec. a.C. della stipe di San Salvatore di Lucera che sfoggia un rossetto rosso sulle labbra carnose e sensuali. L’ironia è impiegata per allontanare il sospetto che l’artista voglia riproporre una memoria consolatoria dei tempi antichi. Qui e là fa capolino la figura di una donna dei giorni nostri, forse la stessa artista consapevole del proprio impegno di affidare all’arte il compito di ritrovare e far emergere la bellezza e l’incanto del nostro territorio, che non è oggetto di cura e di attenzione come dovrebbe.

Con Wanda dialoga Pina Massarelli, anche lei impegnata nella ricerca e costruzione di una genealogia femminile che la porta alle origini della civiltà della Dea Madre per ritrovare una nuova civiltà. Ma oggi come si può declinare il mito e come possiamo servircene perché abbia significato nel tempo attuale e ci aiuti, donne e uomini, a ritrovare una strada sensata e a mettere in connessione lo spirito antico con quello odierno? Come può un culto così arcaico offrire suggerimenti per arginare le crisi del mondo? Naturalmente sono domande aperte, la cosa importante è non adagiarsi in un atteggiamento consolatorio che non modifica il modo di rapportarsi alla natura e non trasforma la realtà. Però ci sono segnali molto positivi del cambio di civiltà con invenzioni in ogni parte della terra: tante donne e uomini si stanno interrogando sul rapporto con la terra e con i suoi beni e dando vita a pratiche e gesti simbolici e trasformativi.

La mostra di Massarelli e Delli Carri stimola la domanda su che cosa le donne possono apportare come contributo originale alla ricerca e alla riflessione sulla sacralità della terra che ha bisogno di attenzione e cura perché è nello stesso tempo un corpo con le sue fragilità. Non è un caso che Pina Massarelli dia alle sue dee titoli come Accoglienza, Conoscenza, Accudire il mondo. Alcune figure femminili ricordano nella postura donne che si possono incontrare sulla soglia delle case dei nostri paesi.

Pina Massarelli come ceramista, attraverso la manipolazione dell’argilla, uno dei primi materiali usati dalle donne nella preistoria per creare manufatti, ha ripercorso antiche tecniche, accostandosi alla cultura materiale e artistica del territorio di origine, la Daunia, esaminandone la decorazione cosiddetta geometrica e riconoscendovi i simboli della Dea Madre e cogliendone i segni della persistenza nel corso del tempo. Il riferimento ai gesti di cura e di accoglienza che appartengono al mondo femminile e che sono presenti nelle sue opere suggeriscono che non si tratta di un’operazione nostalgica nei confronti di una mitica età dell’oro, ma di una ricerca che riguarda il presente.

Ripensare l’atteggiamento che i popoli antichi avevano nei confronti della Madre Terra significa porsi il problema di proteggere la terra, i suoi doni e i suoi frutti. Capire il senso profondo della vita, l’interconnessione che esiste nella natura se vogliamo ritrovare una nuova civiltà basata sulla ricerca di armonia tra donne e uomini e con il mondo naturale.

Wanda Delli Carri (wandadellicarri16@gmail.com), artista di Foggia, dove vive e opera, si è dedicata fino al 2010 all’insegnamento dell’educazione artistica nelle scuole medie, dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Foggia. Da alcuni anni ha intrapreso l’attività espositiva, ottenendo lusinghieri successi e riconoscimenti.

Pina Massarelli (giusyama@gmail.com) per oltre trent’anni ha lavorato la ceramica nel laboratorio Terra e Fuoco di Foggia, svolgendo un’intensa attività in corsi di ceramica con studenti di varie scuole di Foggia. Dopo essersi dedicata allo studio e alla rielaborazione di forme e decorazioni della ceramica daunia, da alcuni anni si è concentrata sulla scultura in ceramica con immagini che si riferiscono al culto della Dea Madre, secondo le ricerche di Marija Gimbutas

dal 14 al 31 marzo 2017
SBLU_spazioalbello Via Antonio Cecchi 8, Milano Inaugurazione ore 18.00

SBLU_spazioalbello propone la personale di una delle artiste contemporanee più significative per ricerca e soluzioni tecnologiche adottate. LeoNilde Carabba, classe 1938, ha attraversato la seconda parte del Novecento con autorevolezza, ha esposto con i nomi più rappresentativi: Lucio Fontana, Bruno Munari, Agostino Bonalumi, Getulio Alviani, Enrico Castellani. Nel 1975 è cofondatrice della Libreria delle Donne di Milano, l’anno successivo con Carla Accardi, e altre artiste, fonda la cooperativa Beato Angelico per discutere e indagare cosa significa essere donna nel mondo dell’arte.
Tutto il lavoro di LeoNilde Carabba ruota intorno alla ricerca del Significato. Si potrebbe definire la sua l’arte Sacra dell’Origine. L’esoterismo dei simboli della Cabala e dei Tarocchi sono il suo linguaggio quotidiano. Capace di destreggiarsi nei più profondi meandri dell’iniziato, la sua pittura ci parla un linguaggio talmente arcaico che ci ammalia, anche quando fatichiamo a comprenderlo. Le sue opere alludono alla trasformazione, e come in alchimia, aspirano allo stadio successivo in continua evoluzione. La tecnica che usa è complessa e avanzata.
Già nel 1966 comincia gli esperimenti sulla rifrazione della luce giungendo ad ottenere, mediante l’uso di microsfere di vetro, una superficie a intensità luminosa variabile secondo l’angolo di visuale del fruitore, senza l’utilizzo di mezzi meccanici. Da qualche anno, oltre alle microsfere, utilizza pigmenti che reagiscono alla luce nera (o di Wood) e ci offrono una visione dell’opera diversa secondo la fonte luminosa che la illumina. Per la mostra allo SBLU_spazioalbello, oltre ad alcuni lavori di grandi dimensioni, ha preparato due nuove installazioni e una serie inedita di trittici e dittici su carta.
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20146 Milano Via Antonio Cecchi 8 Telefono 02.48000291

E.mail spazioalbello@esseblu.it     www.sblu.it

La mostra prosegue dal 15 al 31 marzo 2017: dal lunedì al venerdì su appuntamento tel 02 48000291 / 333 6121941
Sono previste aperture straordinariatutti i sabato dalle 15.00 alle 19.30

LeoNilde Carabba, nasce a Monza il 28 novembre 1938, risiede attualmente a Milano. Ama definirsi “una pittrice ed una viaggiatrice che ama esplorare territori e varcare confini”. Nel 1961 tiene le sue prime mostre personali; da allora espone in numerosi luoghi in Europa e negli Stati Uniti, oggi, con regolarità, in Italia e Germania.
Opere di LeoNilde Carabba in Collezioni pubbliche Pinacoteca di Termoli – Museo d’Arte di Corciano – Museo di Verrucchio Pinacoteca d’Arte di Soncino – Pinacoteca di Bossico, Bergamo – Pinacoteca di Civitanova Marche – Pinacoteca di Bari – Italian-American Museum, San Francisco Museo di Città Bolivar, Venezuela – Maison de la Culture, Namur, Belgio – Oud Hospital Muzeum, Aalst, Belgio – Museo d’Arte di Montecatini – Primo Museo d’Arte Moderna, Asyla, Marocco – Museo de Arte Contemporaneo, Ibiza, Spagna
Scritti sulle Opere di LeoNilde Carabba Writings about LeoNilde Carabba’s Works. Pier Giuseppe Agostoni, Donatella Airoldi, Marina Barla, Riccardo Barletta, Enrico Bay, Rolando Bellini, Carlo Belloli, Mirella Bentivoglio, Emilio Benvenuto, Berenice, Silvia Bollino Bossi, Enrico Bonerandi, Rossana Bossaglia, Silvia Bottaro, Dino Buzzati, Domenico Cara, Franco Paolo Catalano, Christo, Jeanne-Claude Christo, Chiara Cinelli, Alfio Coccia, Jacques Collard, Anna Corio, Roberto Crippa, Giuseppe Curonici, Giancarlo Gabelli, Tino Dalla Valle, Alessandra D’Elia, Salvatore di Giacomo, Geroges Fabry, Elda Fezzi, Luigi Paolo Finizio, Antonio Fomez, Lucio Fontana, Giovanna Galli, Greg Gatemby, Patrizia Gioia, Maddalena Gregori, Ami E. Herskovits, Hsiao Chin, Luciano Inga-Pin, LinoLazzari, Valeria S. Lombardi, Marialuisa Magagnoli, Corrado Marsan, Armanda Mavilla, Rollo May, Marino Mercuri, Berto Morucchio, Cristina Muccioli, Italo Mussa, Sandra Orienti, Clizia Orlando, Aldo Passoni, Simonetta Panciera, Valentina Tovaglia, Gianni Pozzi, Mario Radice, Elisabetta Rasy, Pierre Restany, Marcus Roher, Gualtiero Schönenberger, Maria Torrente, Lorenza Trucchi, Alberto Veca, Franco Verdi, Lea Vergine, Lara Vinca Masini, Francesco Vincitorio, Mariano Vitale, Valentina Tovaglia, Pino Zanchi ed altri.
http://artscore.it/leonilde-carabba-luce-arte-ongaretti/
SBLU_spazioalbello è uno spazio libero per esporre bellezza, con la finalità di diffondere cultura visiva, di provocare dubbi e muovere domande nell’ambito della ricerca del bello, per recuperare la capacità di costruire un’etica della bellezza. SBLU_spazioalbello nasce da un’idea di Susanna Vallebona, visual designer, titolare di Esseblu, che da oltre 30 anni opera nel campo della comunicazione visiva, del design e dell’arte, ed è curatrice dello spazio