di Cristiana Campanini
Passeggiando di fretta o anche sfrecciando in auto con le luci della sera, qualcosa d’inconsueto cattura il nostro sguardo da una vetrina di via Pietro Calvi. Ci suggerisce di rallentare la corsa e i pensieri per aguzzare la vista.
Non propone alcun prodotto. Solo tre legni da carpentiere piantati in verticale. Ciascuno fa da sostegno ad altrettanti disegni, delineando una scacchiera. Alcuni sono rivolti alla strada, altri ci danno le spalle per guardare dentro il negozio. È un’installazione di Marzia Migliora e siamo alla libreria delle donne che, a partire da un’idea di Corrado Levi nel 2001, dà alla quarta vetrina campo libero alla sperimentazione d’artista (donna, ovviamente, più spesso giovane). E quest’ultimo episodio, con mezzi poverissimi e l’eleganza della sintesi, riesce a catturare la nostra attenzione spingendoci a sfiorare il vetro con la punta del naso per indagare i disegni, oltre i riflessi.
Ma soprattutto a entrare. «C’è una grande libertà d’interpretazione in questa piccola cornice», spiega la curatrice Francesca Pasini, motore di una frenetica accelerazione di vetrine d’artista, o meglio vere e proprie mostre a misura di vetrina, una ventina in soli due anni, che hanno visto avvicendarsi Alice Cattaneo, Margherita Morgantin, Goldie Chiari, Liliana Moro. Ciascun episodio è inaugurato da un incontro con l’artista e accompagnato da un multiplo in 10 esemplari in vendita a 150 euro in libreria a sostegno del progetto. «A ogni mostra mi accorgo che il lavoro delle artiste è un universo da indagare — spiega la curatrice con voce calda, spegnendo una sigaretta dopo l’altra — Sono molte, anzi moltissime. E sono brave, mi appassionano sempre di più. Potrei andare avanti così altri dieci anni. Quando ho iniziato a fare il critico, negli anni Novanta, ricordo che i collezionisti, prima d’investire su un’artista, si chiedevano: ma se si sposa e poi ha figli? È cambiato, certo. Ma c’è ancora molto lavoro da fare».
Libreria è una definizione impropria, per questo luogo, che è un’istituzione del femminismo milanese e italiano. Fondata nel 1975 in via Dogana. Circolo culturale, laboratorio di pratica politica per generazioni di femministe, finanziava il suo esordio proprio con l’arte, dalla vendita di opere donate da artiste del movimento, come Carla Accardi, Dadamaino, Nanda Vigo. Lo spazio è scandito da tre stanze: una sala per i libri, una per gli incontri e un’altra con cucina, per i momenti conviviali (moltissimi). «Più che una vetrina, è un vetro.
Non c’è alcun fondo a chiudere lo spazio. E l’artista lavora a tutto tondo. L’arte scende in strada, ma anche in libreria dove l’aspetta una platea partecipativa, allenata a discutere. La sfida è interessante». E Marzia Migliora, artista torinese con una vocazione per i temi universali, come il rapporto dell’uomo con il lavoro e la terra, risponde con le sue chine su collage, delicate composizioni che mimetizzano frammenti dalle illustrazioni dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, tasselli di un ingranaggio da cui innescare libere associazioni oniriche. Il tema? La maternità.

dal 26.11 al 31.12.2017
presso l’Associazione Alveare di Via Ferrera , 8 in Milano,
FRAMES rappresenta, nel percorso artistico di Giuse Iannello, il tentativo di creare una sintesi formale, mettendo in risalto soprattutto il concetto che vuole comunicare. La cornice diventa quindi uno spazio “sacro” che enfatizza e separa, dove l’idea diventa forma.
Su invito di LeoNilde Carabba.
“Io veleggio in galassie sconosciute, Giuse si confronta col reale…attraverso la sua opera complessa e incisiva…l’opera “Bebay 2039-Choose your baby” mi ha veramente colpito perché è un feroce attacco, che condivido pienamente, a questo indegno uso del Corpo della Donna rappresentato dall’operazione utero in affitto.”
Questa è parte dell’inrtroduzione al catalogo della personale di Giuse Iannello FRAMES, curata da Ondedurto.arte presso Spazio Alveare di Milano.
dalla rivista Flash Art 50
Che responsabilità ha avuto una rivista d’arte come Flash Art nelle rimozioni ai danni di artiste che dagli anni Settanta in poi si sono confrontate con le idee e le pratiche femministe? Paola Mattioli e Raffaella Perna riflettono sulle possibili motivazioni della mancata ricezione dell’arte delle donne.
Raffaella Perna: Se sei d’accordo, riprenderei il discorso dal punto in cui lo abbiamo interrotto l’ultima volta, in occasione dell’intervista pubblicata su OperaViva, per tornare a riflettere sulle possibili ragioni della mancata ricezione da parte del sistema dell’arte italiano delle nuove istanze politiche, culturali ed estetiche sollevate negli anni Settanta dal femminismo e sulla rimozione operata dalle istituzioni, dal mercato e dalla critica ai danni delle artiste che all’epoca si sono confrontate con le idee e le pratiche femministe. In quell’occasione notavi, acutamente, come nessuno dei “soggetti rimuoventi” si fosse ancora fatto avanti per provare a chiarire le ragioni di questa rimozione. Oggi Flash Art, rivista d’arte tra le più autorevoli e per molti aspetti coraggiose, fa un primo passo in questa direzione: nel numero speciale dedicato ai cinquant’anni di attività della rivista, costellata da importanti e indubbi successi, la redazione sollecita una riflessione sulle criticità e le lacune che ne hanno segnato la politica culturale. Come giudichi questa “presa di coscienza”? Quali sono a tuo parere i motivi per cui negli anni Settanta Flash Art – insieme alla stragrande maggioranza delle riviste d’arte italiane – non ha prestato attenzione a esperienze come la tua o a quella di artiste come Tomaso Binga, Libera Mazzoleni, Lucia Marcucci, recentemente “riscoperte”?
Paola Mattioli: Mi fa molto piacere che Flash Art abbia pensato a un passo in questa direzione, e lasciami immaginare che la mia definizione di “soggetti rimuoventi”, che tu hai appena ricordato – un po’ provocatoria, sulla quale ho avuto anche molti dubbi – abbia fatto la sua piccola parte.
I miei dubbi si riferivano al rischio di un atteggiamento “lamentoso-richiedente” (purtroppo disastrosamente diffuso nella vulgata) che però non è mai stato una cifra del femminismo per il semplice motivo che la libertà non si può chiedere, magari gentilmente, bisogna proprio prendersela con un gesto di rottura, come hanno fatto le studentesse di Berkeley inventando il separatismo.
RP: Oggi sarebbe ingenuo pensare di poter colmare il tempo perduto, limitandosi unicamente a includere all’interno della narrazione ufficiale le storie di artiste rimaste ai margini. Se il recente recupero di esperienze come quelle del “gruppo del mercoledì” o della Cooperativa del Beato Angelico sono un passaggio salutare e doveroso, tuttavia ritengo utile tenere a mente le parole di Griselda Pollock sul rischio di aggiungere l’ennesimo “ismo” a una storia dell’arte fondata su canoni patriarcali, senza uscire dal perimetro rassicurante dei modelli storico-artistici tradizionali, che sono all’origine stessa della rimozione dell’arte delle donne. Credo che occorra interrogarsi a fondo sulle metodologie con cui è stata raccontata la storia dell’arte italiana per provare a esplorare strade diverse, non necessariamente affini a quelle percorse dalle studiose anglosassoni.
PM: Sono d’accordo con te. L’opposizione di Pollock all’ennesimo “ismo” ci avvisava e ci avvisa che il rischio è grave, da molti punti di vista… Per il piano metodologico – che tu indichi – si potrebbe provare a passare dal “salvataggio del rimosso” (artiste, testi, pubblicazioni, mostre) alla riscrittura di una storia dell’arte del dopoguerra capace di usare categorie comprensive di tutti gli avvenimenti e le sfaccettature del secondo Novecento, e che avrebbe il vantaggio, non secondario, di far emergere nessi inediti e collegamenti straordinari.
L’invenzione politica del separatismo era precisa per quanto concerneva le riunioni, ma non riguardava necessariamente anche la vita quotidiana e le relazioni personali, che mostravano molti aspetti di porosità. Per esempio, mentre Carla Lonzi registrava e trascriveva Vai pure (1980) cosa stava facendo esattamente Pietro Consagra? O mentre Anne-Marie Sauzeau metteva insieme il sesto volume del Lessico Politico delle Donne dedicato a cinema, letteratura, arti visive (1979) quali erano le sue relazioni principali nel mondo dell’arte, quali artisti/e guardava o gallerie frequentava? Ricostruendo questi nessi forse potremmo capire qualcosa di più sui “soggetti rimuoventi”. Erano i fratelli che ci facevano fuori? O era il potere? Certo il cono d’ombra poteva essere provocato da una ritorsione determinata proprio del separatismo
RP: Mi chiedo se la parola tutti possa essere per certi aspetti fuorviante, perché l’attività storico-critica implica necessariamente scelte di ambito e di metodo, con inevitabili esclusioni. Il problema nasce quando chi scrive e interpreta la storia dell’arte, del presente come del passato, evita di “posizionarsi” e di rendere esplicito il proprio punto di vista, con il risultato di proporre una narrazione che, sebbene parziale e soggettiva, viene presentata come neutrale e oggettiva. Per tale ragione troviamo ancora mostre, libri, articoli sull’arte italiana degli anni Settanta (e oltre) in cui i lavori delle artiste si contano sulle dita di una mano o sono confinati in stanzette, senza che i curatori e le curatrici si sentano in dovere di motivare tali scelte.
Non so se il separatismo, in sé, abbia provocato ritorsioni da parte delle istituzioni, forse per molti soggetti attivi nel sistema dell’arte è stato difficile fare i conti con le questioni sollevate dal femminismo, che implicano un ripensamento profondo non solo delle relazioni all’interno della sfera professionale, ma anche sul piano degli affetti, della vita privata, dell’esistenza nella sua totalità. In questo senso la vicenda di Carla Lonzi, che hai appena ricordato, è emblematica; studiosi e studiose come Laura Iamurri, Lara Conte, Vanessa Martini, Francesco Ventrella, Giorgio Zanchetti sono partiti proprio dalla sua figura per rileggere l’arte italiana degli anni Settanta. Un contributo importante all’analisi dei rapporti tra arte e femminismo in Italia proviene, ad esempio, dal recente libro di Giovanna Zapperi Carla Lonzi. Un’arte della vita (DeriveApprodi, Roma, 2017), in cui l’autrice mette in discussione la tradizionale cesura tra una Lonzi prima del femminismo e una Lonzi dopo il femminismo.
PM: Federico Ferrari e Jaen-Luc Nancy nel loro Iconografia dell’autore (Sossella Editore, Roma, 2006) mostrano come l’occhio del romanziere sia “anche sempre uno sguardo critico sul proprio operare”. E aggiungono: “In questo lo sguardo femminile è il più enigmatico degli sguardi autoriali, poiché ciò che esso vede e fa vedere è la ricerca infinita e paradossale di un’identità fondata su una differenza”. Procedendo nel loro discorso i due autori attribuiscono allo sguardo di Ingeborg Bachmann il superamento del “doppio legame, nato dalla volontà di uno sguardo simultaneo”, da una parte verso il fantasma del femminile e dall’altra verso i modelli di scrittura maschili. “Amore impossibile […] che disassa gli occhi e spezza la scrittura”.
Leggero strabismo che – volendolo leggere in parallelo – si può riscontrare anche nella pratica visiva delle autrici degli anni Settanta, le quali hanno poi però proceduto nella direzione di Bachmann.
Forse oggi i “soggetti rimuoventi” di allora potrebbero seguire con maggior curiosità le vicende delle artiste che di lì sono partite, accompagnati dalle parole di Ingeborg: “Verrà un giorno in cui gli uomini avranno occhi di oro rosso e voci siderali, le loro mani saranno fatte per l’amore, e la poesia del loro sesso sarà ricreata…”
Probabilmente noi non abbiamo avuto abbastanza sostegno, come invece hanno avuto le americane, e per parte nostra forse non abbiamo avuto abbastanza coraggio per imporci. Ma – si sa – il mancato riconoscimento istituzionale tende a rendere fragili.
RP: Non credi che ponendo l’accento sulla fragilità delle artiste italiane nel rivendicare spazio e visibilità si corra il rischio di deresponsabilizzare chi all’epoca era parte integrante di quel sistema e che, in molti casi, ha continuato a operare anche nei decenni successivi ignorando la domanda di cambiamento avanzata dal femminismo? Non vorrei che passasse l’idea, tutto sommato pacificatoria, secondo la quale la marginalità delle artiste italiane sia stata in fondo causa loro, delle loro scelte radicali o, peggio, della loro incapacità di gestire il lavoro in termini sufficientemente professionali e competitivi. Numerose artiste ricordano invece di non avere trovato interlocutori e interlocutrici attenti e disponibili al dialogo. A questo proposito mi vengono in mente le parole scritte da Ketty La Rocca a Lucy Lippard nel 1975: “Ancora, in Italia almeno, essere donna e fare il mio lavoro è di una difficoltà incredibile”. Qual è stata la tua esperienza
PM: Dopo il libro Immagini del no (Scheiwiller, Milano, 1974) in cui presentavo il femminismo milanese come protagonista – insieme alla sinistra radicale – della mobilitazione per l’introduzione del divorzio in Italia, nel 1978 il “non rimuovente” – dunque coraggioso – Gabriele Mazzotta pubblicava Ci vediamo mercoledì, gli altri giorni ci immaginiamo (Mazzotta, Milano, 1978). Era questo un libro collettivo delle sette autrici che si erano costituite nel “gruppo del mercoledì”: doppie pagine visive, ironiche, molto inventive, poco spiegate, in cui convivevano disegni, fotografie, vignette e alcuni brevi testi. L’accoglienza non fu delle migliori, passò quasi nel silenzio. Un personaggio importante del mondo della fotografia mi disse: “ma cosa perdi tempo a fare libri così, invece di fare un vero libro delle tue fotografie?”. Un altro personaggio, altrettanto rilevante, mi disse: “Sei troppo femminista!”, come se si potesse dire a qualcuno di essere troppo marxista!
Oggi però quel libro è diventato un libro di culto su cui si fanno seminari universitari e articoli scientifici (penso, in particolare, alle ricerche di Cristina Casero).
I colleghi, i colleghi…
Dopo la partecipazione a “Iconocittà” (Palazzo Massari, Ferrara, 1979) – due autrici/sedici autori – e alla mostra della “Fotografia Italiana Contemporanea” di Venezia ’79 (Magazzini del Sale, Venezia, 1979) – sei/trentotto – non avevo potuto partecipare per motivi personali a “Viaggio in Italia” (1984) – due/diciotto – pur essendo stata calorosamente invitata da Luigi Ghirri. Ho ricordato le cifre di partecipazione delle fotografe a queste mostre non per promuovere le quote rosa, sulle quali sono in totale disaccordo, ma per far vedere che allora la selezione era fortissima e che condivido le parole di Ketty La Rocca.
Se ricordo bene, più o meno a partire da quel momento, ogni mostra, ogni pubblicazione, soprattutto se internazionale, sulla fotografia italiana ha escluso scientificamente le donne dalla ristretta rosa dei partecipanti, tranne rare e discontinue eccezioni. Sarebbe bello fare una ricerca precisa in proposito e capire il perché di tanta determinazione.
Quindi vorrei dire che la rimozione di cui stiamo parlando non ha riguardato solo il periodo degli anni Settanta e le autrici coinvolte nella tematica femminista, ma che c’è anche stata una rimozione, o quanto meno una forte penalizzazione, di autrici importanti da parte di una specie di “friatrìa” che ha preferito compattarsi escludendo. Forse le riviste come Flash Art si sono un po’ allineate a questa posizione, senza interrogarsi troppo…
Ma ora vorrei chiedere a te: siamo così sicure che oggi non avvenga spudoratamente lo stesso?
RP: Mostre come “L’altra metà dell’avanguardia” di Lea Vergine (1980) e libri come Contemporanee di Emanuela De Cecco e Gianni Romano (Costa & Nolan, 2000, ristampato da Postmedia Books, Milano, 2002) hanno segnato una frattura profonda, ponendo domande su cui è importante continuare a interrogarsi per individuare modelli di storicizzazione e di racconto del presente che facciano i conti con le differenze di genere, e non solo. Nel campo della fotografia la situazione mi sembra meno rosea: sono fin troppo numerosi i casi di pubblicazioni e mostre, anche recentissimi, dove la disparità tra fotografi e fotografe è imbarazzante. La logica delle quote rosa mi è estranea, ma quando la percentuale delle donne si avvicina allo zero risulta evidente che persiste un grave problema culturale.
PM: La mia posizione attuale è quella di voler partecipare a mostre di sole donne soltanto quando si tratta di una mostra storica (come la tua sugli anni Settanta, “Altra misura”, alla Galleria Frittelli a Firenze nel 2016); in tutti gli altri casi penso non ci convenga affatto essere relegate nella stanzetta delle donne: si tratta di un separatismo a rovescio, furbo, che permette ancora di escludere il confronto diretto, con una piccola mossa risarcitoria davvero poco interessante.
Paola Mattioli è una fotografa. Tra le serie fotografiche e le pubblicazioni principali, si ricordano: Ungaretti, Lettere a un fenomenologo (Scheiwiller, Milano, 1972); Immagini del no (All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1974); Ci vediamo mercoledì, gli altri giorni ci immaginiamo (Mazzotta, Milano, 1978); “Cellophane” (1979); “Statuine” (1987); Donne irritanti (24 Ore Cultura, Milano, 1995); Dalmine (Skira, Milano, 2008); Una sottile distanza (Mondadori / Electa, Milano, 2008).
Raffaella Perna è storica dell’arte e della fotografia. È autrice del libro Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (Postmedia Books, Milano, 2013) e co-curatrice con Ilaria Bussoni del volume Il gesto femminista (DeriveApprodi, Roma, 2014). Ha curato alla Triennale di Milano la mostra “L’Altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015”, con le opere della Collezione Donata Pizzi (catalogo Silvana Editoriale, Milano, 2016).
di Francesca Pasini
C’era una volta a Milano una grande casa affrescata da Giambattista Tiepolo e Alessandro Magnasco: il Palazzo Archinto di via Olmetto. Quasi completamente distrutto nel 1943 e ricostruito negli anni Sessanta, è sede dell’Azienda Servizi alla Persona (ASP) Golgi Redaelli e dell’Archivio IPAB (l’Istituto Pubblico di Assistenza Benefica), uno dei segni delle attività benefiche che dal XIV secolo fanno parte della civiltà sociale meneghina.
Per recuperare risorse verrà dato in affitto e tutto è stato spostato in viale Bande Nere dove si trova l’ospedale geriatrico Golgi Redaelli. Sono rimasti solo i ritratti dei benefattori. Come mostrare questo patrimonio pittorico? Come raccontare questa straordinaria storia che qui aveva uno sportello per distribuire ai poveri medicine, cibo, soldi? Le città sono in affanno rispetto alla povertà di oggi.
Così l’associazione “Art City Lab”, fondata da Rossana Ciocca e Gianni Romano, ha scelto questo momento di passaggio per tendere un filo d’Arianna tra quadri antichi e opere contemporanee. E fino al 30 novembre 2017, quando verrà presentato il catalogo della mostra, potremo vedere questo “Palazzo dell’Accoglienza” prima che diventi altro.
Tutto inizia con l’artista Sophie Usunier: insieme a Rossana Ciocca propone al Geriatrico Golgi Redaelli, in occasione del lancio di
Milano Attraverso e con il coordinamento di
Non Riservato, un progetto che aveva sperimentato in una casa di riposo in Francia. Una serie di post it gialli vengono appesi alle pareti con delle frasi che servono da invito ad altri messaggi. In breve tempo un lungo corridoio si è completamente riempito di migliaia di pensieri, richieste, critiche, brevi racconti di sé. L’accoglienza ha bisogno di spazio e voci, affetto, cultura. Questo progetto che induce la creazione collettiva apre le porte di Palazzo Archinto e accoglie la mostra “Andar per porte”, un titolo che allude a quest’incontro e alla reciprocità di chi dà e chi riceve in beneficienza e nella vita.
Sophie Usunier, “Ospedale Geriatrico Golgi Redaelli”, 2017
Avviene un nuovo Miracolo a Milano: gli artisti e le artiste sono in prevalenza italiani, cosa non usuale negli spazi pubblici e privati non solo di Milano, ma d’Italia.
Si respira un’affettività che toglie alla selezione il contrappeso dell’esclusione. Come in un labirinto si scovano le opere contemporanee tra i quadri antichi e i vuoti sulle pareti, alcune sono in dialogo diretto, alcune si accomodano, altre sono indipendenti.
Tante voci per partecipare alla trasformazione dell’edificio. Le stanze sono 53 e le opere oltre cento, bisogna scoprirle curiosando tra una parete e l’altra, parlare con gli artisti, leggere le didascalie. Ci vuole tempo, è un bene.
Le opere sono in vendita, saranno fatturate all’artista o alla galleria e una percentuale, valutata di volta in volta, viene lasciata all’associazione “Art City Lab”. Il fund raising si prefigge di mettere a punto un sistema mobile per intervenire in quegli spazi della città che possono trovare nella collaborazione con l’arte la possibilità di riprendere temporaneamente vita. Penso a Palazzo Dugnani, ma ce ne sono molti altri. È questa la funzione di associazioni culturali in dialogo con gli spazi pubblici.
Restano negli occhi le opere che ognuno avrebbe portato lì. Le artiste sono tantissime: è la realtà di questi anni. Oltre a Sophie Usunier con la sua montagnola di 100 giorni circa (2017) di Corriere della Sera, dal 2012 al 2014, ridotto in coriandoli, avverte del momento in cui “i quotidiani non hanno più lo scopo di informare, ma diventano materia da trasformare”.Margherita Morgantin: un flash indimenticabile. In un piccolo light box di color rosso variegato, come in un tramonto, campeggia la scritta SIAMO SOLE (2017), il gioco di parole è intimo e propositivo allo stesso tempo. Come nel testo composto, colorando leggermente alcune lettere di una vecchia tastiera di computer dimenticata negli uffici, sillabandole, leggiamo: i limiti dell’infinito sono le parole per descriverlo.
Fausto Gilberti, Lost control, 2012
E poi Bruna Esposito che protegge con una scopa-rastrello una circonferenza di specchio rotta e ri-assemblata: una dedica a questo spazio, ma anche alla vita quotidiana di tutti (Scopa, 2014). Eva Marisaldi impavesa un soffitto con una fila di nove bandierine disegnate e colorate (Settembre 2017), un segnale di posizione e di augurio. Paola Mattioli, ricompone una Mezzaluna (2001) con 5 foto di questo strumento, simbolo di un taglio necessario per un buon aroma. Allegra Martin, Che del suo pingue patrimonio fece erede il povero, 2017, una delle foto che ha realizzato dentro il palazzo in cui una coppa di cristallo ha come sfondo un particolare di un quadro. La preziosità domestica, la coppa poggia su un centrino di pizzo, si appropria dell’aulicità della pittura.
Ma sono tantissime le artiste, di tante età, da Irina Jonesco, Tomaso Binga a Alice Guareschi, Claudia Losi, Monica Carocci, Pipilotti Rist, Deborah Hirsch, Agne Raceviciute.
Fausto Gilberti con Lost control, 2012, ci fa percepire il travolgimento di una decisione difficile da prendere, una quantità di disegni su china accartocciati sono gettati sul pavimento. Mentre Vittorio Corsini con segatura e inchiostro scrive sul pavimento Perché siamo qui? (2017), rischia di essere calpestata come succede alle domande a cui nessun’altro può rispondere al di fuori di se stessi.
C’è il graffio di Maurizio Cattelan: accanto al quadro di un condottiero armato davanti a un fuoco dipinto da Attila Szucs (Fire 2016), campeggia un suo neon rosso; Fotti. Un abbinamento ustionante. E poi Gabriele di Matteo, VedovaMazzei, Igor Eskinja, Luca Pozzi, Gianluca Codeghini, Diango Hernandez fino a Ylbert Durishti con un ghirigoro sottile di luce blu dentro un bagno buio. Mentre Domenico Antonio Mancini, ci riporta a una contraddizione grande come il mare: Avviso ai naviganti, opera in progress dal 2013. Su vari fogli traccia una mappa del Mediterraneo in cui con una miriade di punti sono segnate le profondità, in un tratto i punti diventano fitti e rossi: segnano l’abisso dei naufragi. La superficie, a prima vista pacifica, mostra la sua contraddizione.
Francesca Pasini
A
Palazzo Archinto, tra i vari ritratti, troverete l’opera di Umberto Lilloni Ritratto di Sofia Gervasini, danneggiata. A proposito di crowdfunding, se volete contribuire al restauro l’Art bonus vi consente un credito di imposta, pari al 65 per cento dell’importo donato…
(exibart.com, 8/11/2017)
da eredibibliotecadonne.wordpress.com
La visita dell’atelier ‘residenziale’ di Dolores De Giorgi è stata preceduta da diversi incontri ‘creativi’ che ci avevano già consentito di conoscerne il ricco e vario bagaglio di esperienze e soprattutto la notevole tempra artistica. La sua partecipazione al progetto ‘Il Segno Femminile’ si è rivelata da subito in perfetta sintonia con i pensieri che di volta in volta venivano messi a tema; in occasione delle mostre allestite da Eredibibliotecadonne nella stagione 2016/2017 dedicate alla ‘Nascita’ e alla ‘RiNascita’ Dolores ha proposto due opere che rappresentavano con sorprendente efficacia il mettere e rimettersi continuamente al mondo connaturato alla condizione femminile: un bassorilievo raffigurante una donna a pezzi tenuti insieme da filo di rame, una statua composta da tronchi orizzontali di un corpo femminile che emergeva trionfante sulle pelli dismesse di precedenti vite. Abbiamo intuito subito che l’artista insieme alla sua visione dell’universo femminile ci offriva anche la plastica rappresentazione della sua biografia, il suo mettersi/rimettersi al mondo come artista e come donna.
Nel corso della visita ci ha infatti raccontato con sorprendente vivacità ed efficacia le sue molte vite: l’esordio con la grafica e la pittura nelle terre nordiche del Veneto e del Piemonte, poi la discesa a Savona anzi ad Albissola e la scoperta della ceramica, l’approdo alla tecnica raku; nel contempo l’attività didattica, come insegnante di educazione artistica, intrecciata naturalmente al ‘lavoro’ di mamma e di nonna e alle altre occupazioni familiari. Che anche in arte abbia avuto diverse vite lo testimonia il fatto che nel suo atelier non ha più lavori grafici o pittorici da mostrarci, ci dice che li ha venduti tutti e noi pensiamo che si tratti di un capitolo chiuso, di una vita passata. Risulta invece molto ben documentata la sua nuova vita con la terra. Dolores dichiara “tornando a lavorare la creta sono tornata alla terra”, intendendo a nostro avviso sia l’elemento primario da cui ha origine ciò che vive nel pianeta sia la gestualità infantile ed ‘innocente’ dell’impastare e manipolare la materia, perché –lei aggiunge- “la creta è di più che una tecnica”.
In effetti la sorprendente esposizione che parte dal garage e sale nella sua luminosa casa in collina ci fa capire in che cosa consista il ‘di più’ di cui l’artista parla: gli oggetti prendono forma e ‘identità’ proprio in virtù del materiale con cui sono costruiti dimodoché il particolare dinamismo espressivo che i suoi lavori presentano appare connaturato alla terra nella sua consistenza e nelle infinite possibilità plastiche che essa offre alla mano e alla creatività dell’artista; l’anima stessa dei soggetti rappresentati, siano essi umani, naturali o immaginari traspare proprio grazie al respiro e al calore che emana dalla materia. Le teste di donne dagli scaffali metallici catturano infatti il nostro sguardo e ci fanno entrare nel loro ‘mondo’ in virtù di pochi energici tratti impressi sulla creta; ci colpisce particolarmente un busto che la mano dell’artista come un colpo di vento ha saputo trasformare da scura massa statica a movimento puro, cosa che del resto avevamo già avuto modo di apprezzare in occasione di una mostra in un’imponente quadro raffigurante la rosa dei venti.
Il prosieguo della visita ci fa capire che se la tradizione ceramica ligure costituisce la trama del suo mondo artistico, una coraggiosa sperimentazione ne rappresenta l’ordito; la tela che viene fuori rivelando impreviste ed inedite sorprese ci presenta la potenza creativa di Dolores nella sua radicale originalità. Il processo raku cui vengono sottoposti gli oggetti appare interpretato con un’arte del tutto personale di stendere gli ossidi a pennello, tale che l’argilla risulta rivestita ma non snaturata nella sua grezza costituzione. La sperimentazione si spinge fino alla combinazione di materiali, che di per sé sembrerebbero incompatibili con la terracotta, con relativa invenzione di tecniche per farli stare insieme; l’accostamento col plexiglass provoca un vero e proprio choc all’occhio di chi guarda per via del contrasto tra l’avveniristica levigatezza e trasparenza di questo e l’ancestrale materialità della creta mentre quello con il ferro, forse il preferito dall’artista, generando anche grazie ad una sapiente declinazione di colori una ‘illusione ottica’ di continuità tra i due elementi, ci regala un primordiale senso di terrena e naturale armonia.
Se ciò che abbiamo visto nel garage ci ha dato una chiara idea della genialità artistica di Dolores, salendo in casa abbiamo avuto testimonianza di come la sua forza inventiva si sposi con una inconsueta abilità tecnica: dagli oggetti d’uso che appaiono sculture alle soluzioni d’arredamento che in modo decorativo disegnano lo spazio racchiudendolo e sottraendone allo sguardo la funzionalità alla singolare intallazione nell’androne del palazzo che nasconde un’antiestetica macchia (esempio di arte condominiale).
Le opere a soggetto femminile rivelano un approccio ‘confidenziale’ di Dolores col tema ed il pensiero che anima la sua azione artistica ci appare in questo caso particolarmente decifrabile se non addirittura familiare. La postura delle teste, la torsione dei busti, ma soprattutto le pelli accasciate come corazze abbandonate dopo una battaglia o che si sollevano trionfanti ci raccontano degli stereotipi con cui dobbiamo quotidianamente combattere, delle molte sconfitte che incontriamo vivendo ma anche della nostra forza e della capacità di affrontare le difficoltà senza soccombere ma emergendo dalle avversità rigenerate proprio grazie alla forza creativa che ci appartiene in quanto donne. Un originalissimo arcangelo Gabriele che sorregge la Madonna mentre allatta il bambino, presentando una inconsueta rappresentazione del presepe, ci rivela come lo sguardo e la mano dell’artista sia in grado di regalarci nuove interpretazioni di soggetti ormai abusati e svuotati traendo inediti significati dai misteri fondanti della nostra cultura.
Le parole di Dolores confermano il legame con l’esperienza femminile che abbiamo visto nella sua arte: come la vita va vissuta giorno per giorno ‘senza programmi’ ma con apertura verso ‘tutto ciò che può capitare’, così l’arte nasce vivendo, dalla capacità di ‘accogliere e tramutare ciò che capita’.
(eredibibliotecadonne.wordpress.com, 2/11/2017)
di Arianna Marchente
Ci sono persone che, fino a un certo punto della tua vita, non sapevi neanche esistessero. Poi, per una serie di coincidenze, ne scopri la storia e ti chiedi come hai fatto a vivere fino a quel momento senza conoscere le loro vite, la loro arte e il loro lavoro.
A proposito di coincidenze qualche settimana fa un’amica mi ha messo tra le mani un libro: il titolo era Scandalose – vite di donne libere, e l’autrice era Cristina de Stefano. Si tratta di una raccolta di brevi biografie di donne scandalose, che hanno cioè avuto il coraggio di tuffarsi di testa nella vita, facendosi male, ma trovando sempre la forza di rialzarsi. È così che ho conosciuto per la prima volta Niki de Saint Phalle, pittrice, scultrice (e moltissime altre cose) di origine francese.
Catherine Marie-Agnés Fal de Saint Phalle nasce a Neuilly-sur-Seine, in Francia, nel 1930. La sua è una famiglia numerosa (lei è la seconda di cinque figli) e particolarmente benestante: la madre è un’attrice statunitense, tanto bella quanto fredda e severa, mentre il padre è un ricco banchiere francese. Il crollo finanziario del ’29 costringe la famiglia a espatriare, e così Niki si trova a vivere a New York. D’estate torna però sempre in Francia, ospite al castello Filerval dei nonni, dove corre, gioca, si rotola nell’erba e familiarizza con la servitù – tutte cose giudicate troppo ribelli e “da maschiaccio”, per una bambina dei tempi.
Facciamo subito una premessa: la particolarità della vita di Niki è data dalla sua capacità di trasformare il dolore dato da un trauma esistenziale in creatività, di mettere la sua vita al servizio dell’arte. L’animo di Niki subisce infatti un colpo durissimo a soli 12 anni, quando suo padre abusa di lei. Come osserva Cristina de Stefano Niki troverà la forza di raccontare questo episodio solo moltissimi anni dopo, poco prima di morire:
L’estate dei serpenti fu quella in cui mio padre, il banchiere, l’aristocratico, mise il suo sesso nella mia bocca
Il primo canale di sfogo Niki lo trova nella letteratura: ha 13 anni quando inizia a scrivere poemi erotici che regala alle sue compagne. Parallelamente crescono dentro di lei la paura e la diffidenza: se la persona che l’ha messa al mondo è stata in grado di farle del male allora chiunque potrebbe rifarglielo. Così inizia a portarsi sempre in giro degli strumenti di difesa: soprattutto bastoni e coltelli.
Nel 1947 si diploma alla Oldfield School, nel Maryland, e l’anno successivo torna a New York, dove posa per Vogue e Harper’s Bazar. È proprio qui che, a soli 17 anni, conosce Harry Mathews, un giovane come lei, appartenente a una famiglia aristocratica che si aspettava da lui una carriera precisa e istituzionale, mentre lui amava una sola cosa: la poesia. Niki e Mathews si riconoscono a pelle, si innamorano, si sposano velocemente in comune e scappano insieme. Nel giro di pochissimo tempo mettono al mondo due figli e si trasferiscono a Parigi, vivendo di rendita. Ma Niki non sta bene, le sue ansie e le sue paure crescono ogni giorno e con l’appoggio del marito decide di farsi curare. Viene rinchiusa per due mesi in un ospedale psichiatrico, dove subisce diversi elettroshock. Tra le mura del manicomio l’unica cosa che le permette di sopravvivere è l’arte: utilizza qualsiasi materiale e qualsiasi colore, per tagliare, incollare e produrre opere. Ed è in questo momento così delicato che comprende la sua vocazione: essere un’artista.
Quando torna a casa nessuno la può più fermare. Inizia a creare, soprattutto sculture, ma non solo. Si integra perfettamente nell’ambiente culturale francese e conosce diversi artisti, tra cui Jean Tinguely, scultore svizzero, di cui si innamora. Nel 1957 divorzia da Mathews e si trasferisce a vivere con Jean. L’arte la aiuta a esorcizzare il trauma dell’incesto, ma non è ancora abbastanza: in lei continua ad abitare un bisogno viscerale di sfogare rabbia e violenza. Deve trovare un modo per incanalare questo bisogno nell’arte. Come fare? La risposta arriva per caso, un giorno del 1961, in cui Niki appende una camicia a un quadro e mette al posto della testa un bersaglio. Inizia a colpire questa figura con le freccette: chiunque sia vuole eliminarla. Capisce che questa è la strada giusta, sostituisce alle freccette una carabina e inizia a sparare alle sue stesse opere. Da qui nasce Tiri o Shooting paintings, un’esibizione durante la quale il pubblico o Niki sparano contro una serie di palloncini pieni di pittura, che una volta colpiti esplodono contro una superficie colorandola.
Nel 1961 ho sparato su mio papà, su tutti gli uomini, sui piccoli, sui grandi, sugli importanti, sui grossi, su mio fratello, la società, la chiesa, il convento, la scuola, la mia famiglia, tutti gli uomini, ancora su mio papà, su me stessa.
In breve tempo, con i Tiri, la sua fama diventa mondiale e l’immagine di una donna che imbraccia un fucile puntandolo contro le sue stesse opere diventa quasi iconica. Eppure questo è solo l’inizio. Grazie ai Tiri Niki ha potuto sfogare la sua rabbia, ora ha bisogno di crescere, ha bisogno di trovare un modo per onorare le donne, che le piacciono così tanto, e per far brillare quella che secondo lei è la dote principale della femminilità, che ha imparato sulla sua stessa pelle: la resilienza, nella sua forma allegra e gioiosa. Per farlo non può che partire dal corpo delle donne. L’idea le viene guardando il profilo di una donna incinta: è l’origine delle Nanas.
Le Nanas sono sculture femminili a grandezza naturale e sproporzionate. Sono donne con la testa piccola e il corpo grande, spesso formose e sempre coloratissime, capaci di assumere qualsiasi posizione. Ballano, combattono, stanno in equilibrio: qualsiasi cosa facciano le Nanas si divertono, sono sempre allegre e al tempo stesso erotiche. È questa la loro potenza, così dirompente che si inizia a parlare del Nana Power e tutte le gallerie d’arte ne vogliono avere almeno una. La più famosa Nana Niki la realizza però con l’aiuto di Jean per il Moderna Museet di Stoccolma, nel 1966. Si chiama Hon/Elle ed è una Nana lunga 28 metri, alta 6 e larga 9, sdraiata per terra in posizione da partoriente, quindi con le gambe divaricate. All’interno della Nana Niki posiziona un bar e un planetario (situato nel seno) a cui il pubblico può accedere passando attraverso la vagina.
Tra Niki e Jean nel frattempo le cose vanno sempre meglio, così, dopo aver ottenuto i rispettivi divorzi, decidono di sposarsi. La loro è un’unione forte, non solo sentimentale, ma soprattutto artistica, non a caso vengono soprannominati i Bonny and Clyde dell’arte. Insieme realizzano moltissimi progetti importanti, soprattutto fontane, come Le Cyclop di Milly-la-Foret o La Fontana di Stravinsky a Parigi. Ma soprattutto collaborano insieme alla costruzione del meraviglioso Giardino dei Tarocchi, a Capalbio, in Toscana: un’area fuori dal mondo, piena di statue incantevoli e mosaici colorati, ispirata al Parc Güell di Gaudì.
Donna con un fucile, capace di capire che la vera forza sta nella vulnerabilità e nella fragilità, madre, artista instancabile, compagna di vita e di lavoro, Niki è morta nel 2002, a causa di una malattia respiratoria. Nella sua vita ha amato tre cose: l’arte, i suoi figli e, in modo incondizionato, tutte le altre donne.
Gli uomini sono molto inventivi. Hanno inventato tutte queste macchine e l’era industriale, ma non hanno nessuna idea di come migliorare il mondo.
(freedamedia.it, 15/09/2017)
di Flavia Matitti
Aperta ai Giardini e all’Arsenale la 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, diretta dalla francese Christine Macel
Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi. Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione. Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale. L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà. La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati. Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944). Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale. Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney. La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile. Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra – “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) – un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann – si legge nella motivazione – ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia. Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8). In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.
Eccola Maria Lai. Eccola assurta al cielo della Biennale di Venezia, che, nella moltitudine delle biennali d’arte nel mondo, rimane la Biennale di Venezia. Perché quella città non presta la sua scenografia all’arte: quella città è l’Arte.
Dopo i Giardini coi padiglioni delle nazioni, l’Arsenale, industria navale veneziana dal XII secolo, è il mondo in una «stanza che non ha più pareti», ma che è un continuum di visioni, intervallate da colonne di mattoni corrosi, intonaci delabré e odori che arrivano dal medioevo.
Arriva da Cardedu, invece, il viatico per chi varca l’ingresso dell’Arsenale. Quattro grandi teli bianchi pendono dall’alto, ingrandimenti di pagine di quaderni delle elementari con scritte le cose che scriveva, tesseva e diceva Maria, in quell’unica e univoca voce che è stata la sua arte. Parole come “mondo”, “isola”, “infinito”, “immenso”, “ago”, frasi in lingua dell’Ogliastra.

Tracey Moffatt, Madre con bambino, dalla serie Traversata, 2017, Padiglione dell’Australia, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia (Photo courtesy the Artist, Australia Council for the Arts).
da unionesarda.it
La curatrice della Biennale, la francese Christine Macel, ha scelto questa quinta e queste parole, ad apertura del Padiglione dello Spazio Comune, «che riunisce artisti le cui opere si interrogano sul concetto del collettivo, sul modo di costruire una collettività che va oltre all’individualismo e gli interessi specifici». Girato l’angolo a sinistra, c’è la documentazione dell’intervento “Legarsi alla montagna”, quell’opera di arte pubblica e ambientale che nel settembre del 1981 ha visto un paese intero, Ulassai, attraversato da un nastro celeste di tessuto di 27 chilometri a legare simbolicamente abitanti, case, vie al Monte Gedili. C’era, a filmare questa avventura dello sguardo collettivo e femminile di Maria, il video artista Tonino Casula, il cui film, adesso, informa il consesso dell’arte mondiale sui fatti del 1981 a Ulassai, assieme alle belle foto in bianco e nero di Piero Berengo Gardin (fratello di Gianni), ritoccate da Maria col celeste sul nastro, in un gesto che ne fa opere, anch’esse custodite dall’operoso Archivio Maria Lai, supportato da Magazzino Italian Art di New York.
Un visitatore giapponese segue le peripezie di questo nastro celeste che corre per un paesino che non è semplice individuare sul mappamondo. Poi si volta e rimane immobile dinnanzi alla distesa di libri cuciti, dentro una lunga teca, come si fosse trovato di fronte alle tavole della legge di Mosé (in realtà qualcosa c’è, in comune). Poi osserva le “Geografie”, il “Lenzuolo” di pagine scritte con la macchina da cucire e il filo nero, la tovaglia per altare, realizzata da Maria quando si è sposata una pronipote, una forma che ricorda la croce, con pagine di velluto rosso cardinale che ricordano non i cardinali ma la passione, in tutta l’estensione del suo vasto significato.
Eccola Maria Lai. Ecco la passione e i significati, tutti, del suo passaggio, leggero e incisivo, alato e scavato, libero e freneticamente cucito a macchina, scritto e ribadito. Ecco il suo «passare leggero su questa terra». La gente gira attorno alle sue opere, l’Arsenale è immenso, contiene mondi immensi, c’è anche una casa di legno della Georgia in cui piove dentro, c’è una vasta porzione di soffitto che si riflette in un lago d’acqua sospeso su un intrico di tubi Innocenti, che ricordano le nostre città ancora transennate (è questa, del veneziano Giorgio Andreotta Calò, una delle opere più magiche de “Il mondo magico”, titolo del padiglione Italia – siamo sempre dentro all’Arsenale – curato da Cecilia Alemani, che comprende anche Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey).
L’Arsenale è immenso, contiene mondi, ma in apertura ti trovi Maria e quel visitatore giapponese si blocca davanti alle sue visionarie “Geografie”, fotografa i libri cuciti, che sono poesia, sontuosità, mistero, codici miniati, libri d’ore, che vengono dal nuragico o dal Monte Sinai, o dal Monte Gedili; fotografa, prende un taccuino, si siede spalle a una colonna e si mette a scrivere. Cosa scriva è un mistero, che attraversa quei caratteri, rimbalza nelle righe cucite di Maria e nell’acqua cheta di Calò, alla fine dell’Arsenale. Difficili da spiegare, i mondi magici toccano e poi però non scompaiono. Restano dentro. «Nell’arte si comincia a capire proprio quando non si capisce», ha scritto Maria.
da noidonne.org – Aperta ai Giardini e all’Arsenale la 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, diretta dalla francese Christine Macel
Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi. Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione. Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale. L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà. La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati. Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944). Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale. Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney. La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile. Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra – “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) – un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann – si legge nella motivazione – ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia. Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8). In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.

Tracey Moffatt, Madre con bambino, dalla serie Traversata, 2017, Padiglione dell’Australia, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia (Photo courtesy the Artist, Australia Council for the Arts).
Quella di Marzia Migliora, più che una mostra, è un’intrusione in casa d’altri. La si sente aggirarsi con calma, curiosità, determinazione. Ca’ Rezzonico è ricca, piena di quadri, di mobili, di luci, alle quali si aggiunge quella che, attraverso lo specchio del canale, si riflette in facciata. Seguire il profilo dei canali, in modo che gli edifici siano ortogonali all’acqua, è l’invenzione dell’urbanistica veneziana. E Migliora mette una pagina argentata tra la copertina e l’inizio del catalogo (hopefulmonster editore, a cura di Beatrice Merz), mentre il doppio ingresso dal canale e dalla terraferma caratterizza il prestigio dell’architettura.
Ca’ Rezzonico è stata completata nel Settecento e in quello stesso secolo Canaletto “anticipa” la funzione della luce nel definire l’inquadratura. Ci vorrà circa un secolo perché la fotografia trasferisca nell’obiettivo questo elemento.
Marzia Migliora analizza il corredo di presenze sociali e artistiche che fanno parte del Museo del Settecento Veneziano.
Il titolo è Velme e già qui s’intuisce che non è tutto oro quel che luccica. “Velma” è, infatti, lo strato fangoso che emerge dal fondo della laguna, quando c’è bassa marea. Marzia ha cercato tra i pavimenti, le stanze, i quadri, i lampadari, la velma che si deposita sotto le maschere del potere, delle invenzioni, degli affetti, delle subalternità.
Lo stemma di famiglia segna l’ingresso da terra: come d’abitudine, anche i Rezzonico usano il motto del potere Si Deus Pro Nobis, ma a questa frase manca un pezzo non da poco. Nella Lettera ai Romani, San Paolo diceva: Si deus pro nobis, quis contra nos? Espungerla significava nascondere la domanda cruciale su chi la pensa diversamente. E sappiamo quanto queste parole dimezzate di Dio abbiano pesato. Migliora “scrive” su due specchi del palazzo Quis contra nos. Non c’è punto di domanda, ma la constatazione che chi è contro si riflette su chi guarda.
Allude al passato? No. È la velma limacciosa di chi in ogni epoca impugna solo la prima parte della sentenza di San Paolo: dall’Isis alla volontà di potenza individuale. Succede anche a Ca’ Rezzonico
Marzia ci avverte appena si entra. Mette faccia al muro, alla distanza di un’asta metrica angolare di un metro, le meravigliose statue dei guerrieri etiopi del Brustolon che adornano il salone d’ingresso al primo piano. La funzione di porta vasi (sostituiti dall’artista con un blocco di salgemma), la posa atletica, le catene, sono il prototipo della giustificazione della superiorità razziale.
Il Settecento a Venezia significa Goldoni e la sua ironia che spesso migra nei proverbi. Perché el can, el vilan, el gentilomo venesian no sera mai la porta? El can perché nol ga le man, el vilan perché el xe vilan, el gentilomo venesian perché ga el moreto. (Perché il cane, il villano, il gentiluomo veneziano non chiude mai la porta? Il cane perché non ha le mani, il villano perché è villano, il gentiluomo veneziano perché ha il moretto). Una battuta che non riduce la durezza del comando sulla servitù.
La luce dell’ironia, dell’intelligenza, della pittura, porta con sé l’ombra della fine. Venezia non è più la padrona del mare, con un ultimo slancio di grandeur trasferisce nella terra ferma la grana formale del potere, nascono ville grandiose come quella Pisani di Stra che aveva per modello Versailles e tante altre. La festa continua, ma qualcosa si è rotto.
Se ne accorge Giandomenico Tiepolo che nel 1791 dipinge il Mondo Novo, lo fa ad affresco nella sua villa di campagna a Zianigo, perché non crede più allo sfolgorio mondano. La rivoluzione francese è dietro l’angolo. Tiepolo immagina un chiosco che contiene una lanterna magica. Turisti, popolo, nobili si accalcano per entrare, sono tutti ritratti di schiena, tranne un bambino forse simbolo del nuovo che avanza. I colori sono fluidi, poco enfatici, malinconia e curiosità hanno la stessa temperatura. È un dipinto simbolico che ora si trova a Ca’ Rezzonico ed è un’altra chiave che guida l’intrusione di Marzia Migliora.
Il suo “mondo nuovo” è quello del lavoro. Colloca nel Portego (la sala che collega la porta d’acqua a quella di terra) La fabbrica illuminata: una fila di banchetti da orafo, con una lampada incorporata, sormontati da un blocco di salgemma. L’oro bianco che ha fatto nascere Venezia. Durante le invasioni del IX secolo, solo gli estrattori del sale sapevano orizzontarsi nell’intrico di barene, canali, maree; erano gli ultimi “cives” della Decima Regio, la miniera dell’oro bianco dell’Impero Romano. Le luci dei banchetti interferiscono con il simbolo della preziosità. La storia è intricata e la velma ogni tanto affiora. Con agilità Marzia sceglie di abbinare l’oro bianco al lavoro salariato e proietta il riflesso della sua attuale precarietà (i banchetti da orafo provengono da un’industria andata in fallimento) e della velma che soffoca l’ambiente.
Il passato del Settecento e quello del Novecento non sono accostati con un criterio evoluzionistico, ma sul principio di contraddizione tra cambiamento e disparità. Ce lo ricordano ancora Tiepolo, i Mori del Brustolon, Pietro Longhi, Francesco Guardi.
Nelle scene di Carnevale, che questi ultimi dipingono, compare una ragazza con una maschera nera che evidenzia il suo perfetto ovale. Non ha l’usuale cordicella di sostegno, ma una mordacchia nascosta, da stringere tra i denti per far aderire al viso la maschera. Si chiama morèta. Ritorna il gioco di parole sul colore della pelle, e non è un caso, visto che la libertà delle fanciulle mascherate aveva come controcanto la sentenza goldoniana: che la tasa, che la piasa, che la staga in casa (che taccia, che piaccia, che stia a casa). Marzia ne fa una sul calco del suo volto, la chiude in una scatola trasparente e la sospende in un boudoir di Ca’ Rezzonico, in modo che sia visibile fronte/retro, compresa la mordacchia. La maschera dell’esclusione delle donne abita anche tra il Secolo dei Lumi e le glorie di Venezia: negli occhi di Migliora diventa un’immagine di ribellione e di libertà e, con buona pace di Goldoni, la intitola: Taci anzi parla in onore a Carla Lonzi.
Francesca Pasini
di Arianna Di Genova
Intervista. Un incontro con l’artista iraniana al Museo Correr per presentare la serie «My Home in My Eyes». «Sono una nomade anch’io. Quando sei un’immigrata, cerchi di far somigliare a casa ogni spazio dato, salvo poi tornare indietro e non riconoscersi più in quella società lasciata molti anni prima»
Quando ha visitato Baku per la prima volta, Shirin Neshat è rimasta colpita dalla forte somiglianza di quella città dell’Azerbaigian con l’Iran natale, così come lo ricordava dai tempi della sua infanzia, prima che la Rivoluzione islamica cancellasse identità, culture e tradizioni, cambiando i connotati del suo paese.
Oltretutto, Baku non è un luogo alieno dalla sua storia famigliare: madre e marito hanno radici ben salde in quella terra e a lei è stato chiesto, nel 2015, di inaugurare con una sua mostra personale lo Yarat Contemporary Art Centre – grande edificio dedicato ai talenti emergenti, situato vicino al porto, con un affaccio sul mar Caspio. Neshat allora colse subito la sfida e si mise al lavoro per la serie The Home of My Eyes, che oggi ritroviamo in Europa, al museo Correr di Venezia, in una teoria di ventisei ritratti fotografici (su cinquantacinque del progetto completo) emigrati in Laguna.
La mostra è un evento collaterale della 57a Biennale di Venezia – a cura di Thomas Kellein – e comprende anche il film Roja (parte della trilogia dedicata ai Dreamers), una visione onirica che diviene la scenografia inconscia dove consumare dolorosi esili esistenziali o riconciliazioni a lungo inseguite. Il disorientamento e lo sradicamento narrato dal video nascono da un sogno ricorrente in cui nel deserto, prima lontana poi sempre più vicina, appariva all’artista sua madre, rivelandosi poi una figura inquietante. «I sogni possiedono un potere indicibile. Quando li si sperimenta, siamo nudi e liberi. Sono sempre in contatto con la realtà, rimandano a luoghi a noi famigliari ma la loro logica è frammentata, poco sensata, condivide le paure dell’anima e della parte più oscura di ognuno di noi…».
In The Home of My Eyes, uomini, donne e bambini di Baku e appartenenti a differenti generazioni, circondano come una corona di sguardi ed emozioni una Madonna lignea del Trecento italiano che apre il suo manto facendosi corpo-architettura, dimora accogliente verso lo «straniero». Quell’arazzo di volti offerti al visitatore sono un crocevia tra Oriente e Occidente, essenzialmente ripercorrono la cartografia di un paese, l’Azerbaigian, che però si fa «mondo» intero.
Frontali, quasi icone bizantine, i soggetti tutti vestiti di nero – come d’altronde l’artista che negli anni ha mantenuto un’eleganza minimale, la sua esile fisicità e il magnetismo degli occhi sottolineati col kajal – sono immortalati in una posa rituale, compiono un gesto di preghiera ma anche di raccoglimento intimo. Qualcuno ha le mani congiunte, qualcun altro, come Malaksima, preferisce far scivolare le dita fino al cuore. Pochi accennano a un sorriso. Il momento è austero.
L’importante nel rendere ognuno testimone del proprio tempo era superare il disagio che coglie chi è sottoposto all’implacabile indagine dell’obiettivo e generare nuove empatie attraverso la pratica dell’ascolto e del rispetto.
«Ho volutamente fotografato i miei soggetti in maniera uniforme. Operai, nonne, studenti, persone di etnie diverse dovevano rispondere a una serie di domande sul concetto di casa», spiega Neshat. In senso personale e collettivo. «Sono una nomade anch’io. Quando sei un’immigrata, cerchi di far somigliare a casa ogni spazio dato, salvo poi tornare indietro e non riconoscersi più in quella società lasciata molti anni prima». La casa, allora, non è che un’utopia.
L’impronta da ricercare è quella di El Greco e delle sue tavole religiose, ammirate a Toledo, mentre l’idea per la galleria di ritratti era quella di esprimere una storia solo attraverso i gesti, le posizioni del corpo, l’ascendente dello sguardo: all’inizio, il progetto prevedeva una installazione con sole sette immagini, poi è diventato più corale, si è trasformato in una sorta di «coreografia», come ama definire il suo lavoro lei stessa.
Sulla pelle delle persone ritratte, leggerissime, scorrono alcune frasi, le parole «silenziate» dalle immagini. Sono brani di storia individuale, confessioni raccolte dall’artista mescolate ai versi di un poeta persiano, Jamal al-din Nizami Ganjavi (il rapporto strettissimo fra immagine e testi lo si può riscontrare fin dagli albori dei cicli di Neshat e conserva sempre il suo sapore resistenziale). Ma ci sono qui anche i frammenti «diaristici», che gli individui rappresentati hanno affidato all’interlocutrice liberamente nella loro lingua – azero, russo, armeno – e che lei ha tradotto in inglese e poi in farsi, per riconsegnarli in stampe ai sali d’argento sui volti, le braccia, le mani, sfocandoli nella lente della nostalgia.
Filmmaker oltre che artista (con il suo Donne senza uomini nel 2009 – basato sul romanzo proibito di Shahrnush Parsipur – vinse il Leone d’argento al festival del cinema di Venezia), Shirin Neshat vive a New York dalla metà degli anni Settanta, ma torna spesso in Iran, portando con sé il suo sguardo ormai di forestiera. Alle spalle ha una lunga carriera imperniata su una coerenza difficile da rintracciare altrove. Fin dalle sue Women of Allah – donne in chador che puntavano pistole e rimappavano i confini delle icone della sottomissione con un atteggiamento da guerrigliere – indaga il bilico tra tradizione e modernità, mettendo al centro del suo mirino il fondamentalismo islamico.
Lo fa da tempi non sospetti, preconizzando i drammatici risvolti ultimi della storia e spingendo il pubblico dentro un teatro degli opposti mai pacificato (di genere, religione, etnia). Disegna in modo smaliziato geografie sentimentali in perenne movimento e così riesce a sfuggire agli stereotipi, tenendo bene a mente anche Said.
Le sue fotografie prediligono il bianco e nero, colonizzano l’immaginario con la forza di quei due (non) colori e subiscono metamorfosi inaspettate. Come quando mutano pelle evolvendo in poesie visive e facendo scorrere in corpi-pergamene la trama letteraria (e politica) di un paese dalla cultura sterminata come l’Iran.
(il manifesto, 2 giugno 2017)
dal 1 giugno al 6 settembre 2017
PALAZZO MORANDO | COSTUME MODA IMMAGINE
via Sant’Andrea 6 – Milano
Comune di Milano | Cultura, Direzione Musei Storici,
presenta la mostra
OBIETTIVO MILANO
200 fotoritratti dall’archivio di MARIA MULAS
a cura di Maria Canella e Andrea Tomasetig
con Antonella Scaramuzzino e Clara Melchiorre
1 giugno – 6 settembre 2017
conferenza stampa mercoledì 31 maggio, ore 11
inaugurazione mercoledì 31 maggio, ore 18
Uno spaccato di storia milanese dagli anni Settanta ad oggi in un
racconto fatto di personaggi, volti ed espressioni
Dal 1° giugno al 6 settembre 2017, le sale espositive di via
Sant’Andrea 6 di Palazzo Morando | Costume Moda Immagine ospitano la
mostra promossa da Comune di Milano | Cultura, Direzione Musei Storici
e organizzata in collaborazione con l’associazione Memoria & Progetto,
“OBIETTIVO MILANO. 200 fotoritratti dall’archivio di MARIA MULAS”, a
cura di Maria Canella e Andrea Tomasetig con Antonella Scaramuzzino e
Clara Melchiorre.
L’esposizione si inserisce nel palinsesto della Milano Photo Week in
programma dal 5 all’11 giugno: una settimana di mostre, incontri,
visite guidate, laboratori, progetti editoriali, opening o finissage,
proiezioni urbane dedicati alla fotografia.
Maria Mulas è una tra le più importanti fotografe italiane
riconosciuta a livello internazionale che con la sua macchina
fotografica ha saputo immortalare il mondo, dalle architetture ai
personaggi dell’entourage artistico e culturale. Schiettezza, empatia
e verità del soggetto sono i ‘cardini’ su cui si muove la sua ricerca
e ampiamente illustrati nella selezione dei 200 ritratti in mostra a
Palazzo Morando.
Fil rouge dell’esposizione è Milano, la sua intensa storia culturale,
la continua trasformazione che si traduce nell’essere costantemente al
passo con i tempi: Milano è uno specchio che riflette le tendenze
internazionali in ogni ambito della società, dell’innovazione, della
ricerca. Maria Mulas descrive con naturalezza ed empatia i diversi
volti di Milano a cui è particolarmente legata, catturando i ritratti
di artisti, galleristi, critici, designer, architetti, stilisti,
scrittori, editori, giornalisti, registi, attori, intellettuali,
imprenditori e amici che con questa città hanno intessuto un
particolare rapporto.
Fra le numerose personalità italiane e internazionali immortalate da
Maria Mulas si annoverano per il mondo dell’arte Marina Abramovic,
Salvatore Ala, Louise Bourgeois, Alik Cavaliere, Jonh Cage, Christo,
Francesco Clemente, Philippe Daverio, Gillo Dorfles, Gilbert & George,
Keith Haring, Alexander Iolas, Anish Kapoor, Jannis Kounellis, Mario
Merz, Gina Pane, Andy Warhol, accanto a protagonisti indiscussi
dell’architettura e del design quali Gae Aulenti, Mario Botta, Achille
Castiglioni, Bruno Munari e Giò Ponti. Nella teoria di personaggi non
mancano i rappresentanti della moda fra cui Giorgio Armani, Gianni
Versace, Miuccia Prada e dello spettacolo come Valentina Cortese, Luca
Ronconi, Giorgio Strehler, Liz Taylor, Ornella Vanoni. Un’attenzione
particolare è inoltre dedicata all’ambito della scrittura e
dell’editoria con Rosellina Archinto, Natalia Aspesi, Jorge Luis
Borges, Umberto Eco, Inge Feltrinelli, Lawrence Ferlinghetti, Dario
Fo, Gunter Grass, Allen Ginsberg, Nanda Pivano, Andrej Voznesenskij e
molti altri.
Sette sezioni scandiscono il percorso espositivo della mostra: la
prima, “Coda rossa” con macchina fotografica, accoglie autoritratti e
fotografie scattate all’artista dai fratelli Ugo e Mario Mulas e dal
pittore e scrittore Emilio Tadini; seguono nelle sale successive i
fotoritratti di Amici artisti, La città del design, Il mondo della
moda, Le arti dello spettacolo, I borghesi sono gli altri e Scrittori,
giornalisti, editori.
Completano la rassegna fotografica disegni, dediche, cartoline,
scritti e documenti che testimoniano i profondi legami intessuti da
Maria Mulas con le personalità da lei ritratte.
Che si tratti di ritratti posati o di scatti rubati, nelle fotografie
di Maria Mulas si legge una spiccata inclinazione a coltivare
relazioni e incontri, una complicità con il soggetto che trapela dalle
immagini. Nelle opere emerge l’abilità nel cogliere la naturalezza o
l’artificiosità, le espressioni, gli atteggiamenti, le abitudini, i
caratteri, gli stili di vita, in un continuo dialogo tra quotidianità
ed eccezionalità, tra realismo e ironia.
Il progetto di allestimento è a cura di Leo Guerra e Cristina Quadrio
Curzio nell’ambito di una sponsorizzazione tecnica della mostra da
parte di Fondazione Gruppo Credito Valtellinese.
La mostra è realizzata con il sostegno di
Archivio Maria Mulas – Libreria Galleria Andrea Tomasetig –
Fpe d’Officina.
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MERCOLEDÌ 31 MAGGIO 2017
CONFERENZA STAMPA E INAUGURAZIONE
Palazzo Morando | Costume Moda Immagine, Sala Conferenze
ore 11: conferenza stampa
Saluti:
Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura, Comune di Milano
Claudio A. M. Salsi, Direttore Area Soprintendenza Castello, Musei
Archeologici e Musei Storici, Comune di Milano
Presentano la mostra:
Maria Mulas, fotografa e artista
Maria Canella e Andrea Tomasetig, curatori della mostra
ore 18: inaugurazione
ingresso libero
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SCHEDA MOSTRA
“OBIETTIVO MILANO. 200 fotoritratti dall’archivio di MARIA MULAS”
a cura di Maria Canella e Andrea Tomasetig
con Antonella Scaramuzzino e Clara Melchiorre
Palazzo Morando | Costume Moda Immagine
via Sant’Andrea 6 – piano terra
1 giugno – 6 settembre 2017
Orari: martedì-domenica, ore 9-13 e 14-17.30
T. +39 02 884 65735 – 46056 | c.palazzomorando@comune.milano.it |
www.civicheraccoltestoriche.mi.it
INGRESSO LIBERO
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COMUNE DI MILANO | CULTURA
Ufficio Stampa | Elena Conenna
T. +39 02 884 53314
elenamaria.conenna@comune.milano.it
www.comune.milano.it/cultura
Direzione Musei Storici | Ufficio Comunicazione
Simonetta Andolfo, Francesca Tamanini
T. +39 02 884 45924 – 48135 – 63298
c.palazzomorando@comune.milano.it – www.civicheraccoltestoriche.mi.it
UFFICIO STAMPA MOSTRA
IBC Irma Bianchi Communication
Tel. +39 02 8940 4694 – mob. + 39 328 5910857 – info@irmabianchi.it
testi e immagini scaricabili da
http://www.irmabianchi.it/mostra/obiettivo-milano-200-fotoritratti-dall%E2%80%99archivio-di-maria-mulas
Francesca Lolli videoartista e performer, fa della performance, provocatoria e sempre originale, il suo metodo espressivo più significativo.
di Susanna Garavaglia
Attrice, classe 1976, si diploma alla scuola di recitazione “Teatro Arsenale”di Milano diretta da Marina Spreafico secondo la linea teatrale di Jacques Lecoq , lavora nella Compagnia del Teatro e contemporaneamente si laurea in scenografia all’Accademia di Brera. Tra le più interessanti performer italiane contemporanee, fa dell’atto performante la summa di una tensione tesa a trovare dentro di sé e a stimolare nel fruitore il senso di questa esistenza, cogliendone la drammaticità nel contrasto tra i limiti del corpo e la immensità della mente, come già la grande Marina Abramovic. Una delle sue prime performances forse ancora involontaria, è stata, nel 2007, quando si è sposata con se stessa nella Chiesa Rossa a Milano, celebrando con tutti i crismi forse il primo automatrimonio. Da lì in avanti ha sempre usato il suo corpo o quello di chi ha lavorato con lei come strumento principale di espressione, “ mezzo pulsante e ricettivo dei mali (e dei beni) dell’epoca in cui mi è dato vivere”.
I temi che affronta sono quelli più legati al quotidiano e nascono da un bisogno fisico, potremmo dire urgente, di condividere immagini in gestazione dentro di lei che chiedono ossessivamente di venire alla luce, intuizioni improvvise che fatica a trattenere dentro di sé. Dall’orrore nei confronti dell’allevamento intensivo degli animali, alle ossessioni del corpo, alle ossessioni del potere o della giovinezza, al dolore che si fa preda e predatore, alla ricerca della identità personale così facilmente condizionabile. Gli aspetti più evidenti della energia del Femminile in lei sono Intuizione e Creatività mentre, lacerata tra attimi di Compassione e attimi di chiusura in se stessa, sostiene di ritrovarsi sempre tra Eros e Thanatos. Fondamentale la sua denuncia dei retaggi patriarcali che ancora ci fanno vivere il corpo della donna come qualcosa che di per sé non ha valore ma che trova la sua dimensione soltanto quando é in funzione di quello che i media, il mondo maschile, la moda, il consumismo vogliono che sia. Una donna coraggiosa e amante della sfida, pronta ad affrontare ogni esperienza a spada tratta, sia nella sua vita personale che in quella artistica. Desiderosa di succhiare la vita e di intingervisi dentro senza fare nessuno sconto, Francesca Lolli vuole capire e mostrare al mondo la nuda realtà come appare, come é, come potrebbe finalmente vederla chi decidesse di svegliarsi dal suo lungo sonno e di aprire finalmente gli occhi.
*Da dove nasce la performance come tuo linguaggio?
La performance come esigenza è nata lentamente, silenziosamente si è fatta sempre più spazio nel mio modo di creare. All’inizio c’era il teatro e con il teatro un corpo a servizio, il mio. In seguito il rigetto di quel corpo, il silenzio. Il linguaggio del video che piano piano è diventato sempre più importante, l’utilizzo del mio corpo all’interno del video ed infine la performance, che io ritengo essere l’assenza di pensiero che si raggiunge quando si è al culmine del pensiero stesso, uno stato di Grazia, l’assenza della carne nella sua amorosa negazione e, per questo, il più sublime dei paradossi.
*Ci spieghi la differenza tra installazioni, performance e video art? Le installazioni sono opere tridimensionali, vivibili, percepibili come spazi in cui il fruitore è anche il protagonista. La performance vive espressamente del qui ed ora, è influenzata ed è influenzabile, è il momento di sospensione perfetto, è poesia e lacerazione. La video arte è la rappresentazione di un concetto in movimento. Siamo così tanto bombardati da immagini che fruirne in maniera profonda è molto molto difficile.
*Essere un’artista e fare arte oggi..che senso ha per te?
Le frustrazioni sono sempre dietro l’angolo, così schiaccianti ed incredibilmente forti, a volte, da farti perdere il fiato, da farti rimettere in discussione tutta la tua ricerca. Più di una volta mi sono sentita dire di smetterla, che quello che facevo non aveva una valenza artistica
*E come reagisci di fronte a chi non capisce? Noi tutti cerchiamo riconoscimento, inutile negarlo ma nel tempo ho imparato che la cosa più importante è il viaggio. Per questo ho deciso di andare avanti lo stesso, di continuare a camminare perché non posso farne a meno. Se poi quello che faccio sia arte o meno non lo so e paradossalmente non mi interessa. Quello che so per certo è che sento un’urgenza ed un bisogno di materializzare alcune idee per cercare di renderle universali. Questo mi basta. Devo comunque dire che, oggi, ci sono delle persone straordinarie che sostengono me e la mia ricerca.
*Quali sono i tuoi maestri?
ll primo fra tutti Jacques Lecoq, che con il suo insegnamento (tramandato da Marina Spreafico, la mia insegnante di recitazione) mi ha aiutata a trovare il mio luogo: il mio corpo. Vito Acconci (il primo e più importante amore degli anni dell’ Accademia di Belle Arti), Pier Paolo Pasolini, Andres Serrano (che ho avuto il piacere di conoscere e seguire per un documentario tra l’Italia e la Francia), Lars Von Trier, Marcela Lagarde (accademica, antropologa, femminista e politica messicana), mio padre. La cosa strabiliante è che ogni giorno se ne aggiungono altri.
* L’essere donna orienta la tua arte verso una particolare direzione o credi che faresti arte nello stesso modo anche se tu fossi un uomo? L’essere donna orienta la mia arte fin dal midollo, è imprescindibile, sono nata e vivo in questo corpo di donna e tutte le esperienze che accumulo sono filtrate dall’essere donna. Se fossi uomo? Cambierebbero sicuramente moltissime cose, prima di tutto lo sguardo. Questa è una cosa alla quale ho pensato molto nel tempo, mi piacerebbe poter provare.
*Il tuo corpo è uno dei mezzi attraverso cui ti esprimi nell’arte. Questo condiziona il rapporto che hai con il tuo corpo nella tua vita privata?
Stranamente no. il rapporto che ho con il mio corpo nella mia vita è qualcosa di diverso, di doloroso. Usandolo a servizio ho imparato ad ascoltarlo di più e, spesso, ad ignorarlo più consapevolmente.
*Spesso nelle tue azioni artistiche usi il nudo come mezzo di comunicazione. Perché? Ho sempre cercato di utilizzare il mio corpo come una tela, come un mezzo neutro. In fondo il mio corpo è il primo mezzo che ho a disposizione, il più immediato. Nella mia video performance “Un nodo” la prigione del corpo diventa carcere dello spirito.
*Parli di concetto patriarcale del corpo della donna. Cosa intendi? Il corpo delle donne è stato (ed è tutt’ora) considerato come un “corpo in funzione di”.
Il corpo viene letto a partire dal sociale ed i mass media hanno un ruolo fondamentale nella creazione identitaria del corpo femminile. In uno dei miei ultimi video “in Uterus – following patriarchal beauty standards since 1976” mi metto un rossetto rosso sott’acqua. Questo a simboleggiare il fatto che prima ancora della nostra nascita subiamo condizionamenti di bellezza che derivano da retaggi patriarcali. Purtroppo non tutti (non tutte nel caso specifico e questo mi addolora) capiscono che nessuno vuole mettere al rogo chi si depila o usa strumenti di seduzione legati all’immaginario maschile. Non ti rende meno femminista mettere un reggiseno imbottito ma metterlo non ti rende più femmina. Sono ancora troppe le persone che credono che il femminismo sia la rivendicazione dell’azzeramento delle naturali e meravigliose differenze tra uomo e donna!
*Ci sono difficoltà per una donna che voglia oggi avere successo nel mondo artistico?
Inutile negare che per le donne non esistano ancora, purtroppo, una lunga serie di difficoltà (non solo nel mondo artistico). Troppo spesso ancora una donna viene considerata ed osservata per il suo aspetto fisico, la sua età, la prestanza e la mancanza di rughe prima di tutto. E questo non è vero solo per chi non sa guardare.
*Sono tanti i condizionamenti creati dal sistema mediatico?
I media ci condizionano in maniera così profonda da fondersi con il nostro DNA. é spaventoso il tipo di inquinamento che ne deriva, soprattutto quando agisce in maniera inconscia. Nessuno di noi ne è escluso. Quello che ci differenzia gli uni dagli altri è il grado di consapevolezza di questo condizionamento.
*Nelle tue performances il silenzio predomina sulla parola. Cosa significa il silenzio per te?
Ho sempre concepito il silenzio come attesa, come un momento di sospensione tra il prima e quello che avverrà poi. Le parole mi fanno molta paura, da sempre. Sono il più grande limite nei rapporti interpersonali. Oggi ancora di più perché mai come ora, a mio avviso, c’è un abuso di parole. Per quanto mi riguarda la parola mi interessa solo se supportata dal gesto, se nasce da esso ma fino ad ora non ne ho mai sentito la necessità.
*Uno dei temi della tua azione artistica è l’indifferenza. Verso chi e verso cosa?
Il mondo che abbiamo contribuito a costruire è un mondo indifferente, distaccato, freddo, disinteressato. I social media ci hanno aiutato a sviluppare sempre di più questo nostro lato insensibile, noncurante. Più che l’indifferenza credo che uno dei miei temi sia la conseguenza dell’indifferenza.
*Come nasce un tuo progetto artistico? Sempre da un’intuizione. A volte nasce spontaneamente, con un’immagine. Altre volte ha bisogno di un periodo più lungo di gestazione. Ma nel tempo mi sono accorta che forzare il processo creativo serve solo a riempirmi di frustrazione, molto meglio lasciare che faccia il proprio corso. Quando l’intuizione si sviluppa in immagini precise è il momento di accendere la telecamera.
Ci vuoi parlare delle tue opere che più ti sono rimaste nel cuore?
Tutte, ognuna a suo modo, sono parte di un percorso importante. Parlerò di una delle ultime: una performance che sto per trasformare in un’installazione. The Red Ritual: si tratta di una performance che dura nel tempo durante la quale cucio una coperta gigante formata da assorbenti con un filo rosso, simbolo del Sangue che unisce le donne di tutti i Paesi, generazioni, culture ed età e che rende possibile la vita stessa.
*Come mai questo tema?
Il ciclo mestruale costituisce ancora motivo di vergogna, di imbarazzo e addirittura in alcune culture di peccato. Recenti ricerche antropologiche hanno evidenziato come il ciclo mestruale e il corpo femminile fossero centrali nell’approccio alla vita tanto da venire considerati sacri; il sangue mestruale stesso era ritenuto generatore e rigeneratore di vita (oltre ad essere considerato un ottimo fertilizzante). Le culture patriarcali, invece, hanno contribuito a condizionare l’espressione del femminile nelle sue varie manifestazioni e al ciclo mestruale è stato trasmesso il senso di sporco e di vergogna, creando così il tabù delle mestruazioni. Ci risulta così più semplice accettare come naturali la sessualizzazione e pornificazione della donna che il processo naturale del ciclo mestruale.
*Collabori più volentieri con persone della tua generazione e quindi della tua età o ti piace anche lavorare con persone che hanno più anni di te?
Ho avuto, negli anni, la fortuna di poter collaborare con alcune persone straordinarie, che si sono affidate completamente. Tra queste quelli che amo definire i miei “alter-corpi”: prima di tutto Giulia Riccardizi, la Make Up Artist che, con i suoi effetti speciali, rende possibili le tante modificazioni al mio corpo durante le video performances. E poi Francesca Sebastiani, Alice Spito, Domitilla Colombo, Francesca Interlenghi, Alice Massarente e Anna Maria Dammiani. Sorellanza? Assolutamente si. Non avrei mai potuto collaborare con così tante persone meravigliose se il mio più caro amico Paolo Stoppani non mi avesse spronata fin dall’inizio ad intraprendere e ad amare questa mia ricerca. Da diverso tempo ho il forte desiderio di lavorare con persone anziane. Vorrei immensamente avere la possibilità di girare con loro. Vorrei raccontarle in maniera diversa dal modo in cui troppo spesso vengono descritte (soprattutto in Italia a mio avviso). Io vorrei parlare, attraverso i loro corpi, delle infinite possibilità che l’essere umano ha sempre a disposizione, solo in maniera diversa (e questo vale per ogni età della vita). *E’ vero che vorresti coinvolgere tua madre in una tua performance? Mi piacerebbe moltissimo! Mia madre è sempre stata la mia prima e più importante sostenitrice. Per ora sono riuscita a coinvolgerla solo in una piccola video performance ma sono fiduciosa.. in fondo non si dice sempre “il meglio deve ancora venire”?
*Ti aspettiamo al varco, provocatoria Francesca dal cuore morbido morbido!
dal 5 maggio – 8 ottobre 2017
Pirelli Hangar Bicocca Via Chiese 2
20126 Milano T (+39) 02 66 11 15 73
F (+39) 02 64 70 275
Presenta la mostra personale di Rosa Barba “From Source to Poem to Rhythm to Reader”, a cura di Roberta Tenconi, un progetto espositivo che raccoglie quattordici opere realizzate dal 2009 a oggi, tra film in 35 e 16mm, sculture cinetiche e interventi site specific.
La mostra, allestita nello spazio dello Shed di Pirelli HangarBicocca, crea un serrato dialogo tra il display delle opere e l’anima industriale della struttura espositiva che le ospita. I cinque film presentati sono ancora inediti in Italia, tra cui The Empirical Effect (2009) – un’indagine sul paesaggio del Vesuvio, per Rosa Barba una metafora delle complesse relazioni tra società e politica in Italia – e i due ultimi lavori dell’artista: Enigmatic Whisper (2017), film girato all’interno dello studio dell’artista Alexander Calder, e From Source to Poem (2016), una narrazione audiovisiva densamente stratificata, in cui, come in un rumore bianco, ogni elemento si sovrappone e si condensa progressivamente. Il film è stato realizzato nel centro di conservazione audio-video della Library of Congress a Culpeper, Virginia, il più grande archivio multimediale al mondo.
Rosa Barba (Agrigento 1972, vive e lavora a Berlino), vincitrice di numerosi premi e presente in mostre e rassegne internazionali, ha fatto del film il suo mezzo espressivo privilegiato. Da anni Barba porta avanti un lavoro di ricerca e sperimentazione che attraversa il linguaggio cinematografico e scultoreo, riflettendo sulle qualità poetiche del paesaggio naturale e umano, sui luoghi come archivio della memoria e scardinando il concetto di tempo lineare. Immagini dall’esito potente, ritratti di architetture obsolete e paesaggi naturali, riprese di deserti remoti ricorrono costantemente nel suo lavoro, uniti a frammenti di testi e a scenari in cui passato e presente si intrecciano.
Attraverso i miei film intendo esprimere l’idea che il tempo sia fatto di storie di individui e di piccole comunità, e che sia un fenomeno flessibile e malleabile. Nei miei film ci sono diverse linee temporali che corrono parallele. Utilizzo un punto di vista da osservatore esterno, senza pregiudizi. Ritengo che la realtà sia un’invenzione, generata dall’interpretazione individuale di eventi reali. I miei film giocano con l’idea che ogni scena possa avvenire nel futuro così come nel passato, in un tentativo di manifestarsi come una soluzione utopica.
(Rosa Barba in conversazione con Mirjam Varadinis e Solveig Øvstebø, in “Time as Perspective”, Hatje Cantz, Ostfildern 2013).
Rosa Barba è nata ad Agrigento nel 1972. Ha studiato all’Academy of Media Arts di Colonia e alla Rijksakademie van Beeldende Kunsten di Amsterdam; attualmente vive e lavora a Berlino. Numerose istituzioni le hanno dedicato mostre personali, tra cui: Secession, Vienna; Malmö Konsthall, Malmö (2017); NBK, Berlino; CACP musée d’art contemporain de Bordeaux; Schirn Kunsthalle, Francoforte (2016); MIT List Visual Arts Center, Cambridge, MA; EMPAC, Rensselaer Polytechnic Institute, Troy, US (2015); Bergen Kunsthall, Bergen (2013); Kunsthaus Zürich, Zurigo; Jeu de Paume, Parigi (2012); MART Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Rovereto (2011); Tate Modern, Londra; Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid (2010).
Rosa Barba ha partecipato a diverse rassegne internazionali, tra cui tre edizioni della Biennale di Venezia (2015, 2009, 2007), la Biennale di San Paolo (2016), la Biennale di Sydney e di Berlino (2014) e la Biennale di Liverpool (2010). Nella primavera del 2016 il MoMA PS1 di New York le ha dedicato una serata speciale di proiezioni e performance.
I suoi film, installazioni e sculture hanno vinto numerosi premi, molti dei quali presso diversi festival cinematografici come il Curtas Vila do Conde International Film Festival, Ann Arbor Film Festival (2016) e CPH:DOX Copenhagen (2015), al PIAC Prix International d’Art Contemporain della Fondation Prince Pierre de Monaco (2015), al Nam June Paik Award (2010).
Oltre alla personale in Pirelli HangarBicocca, a maggio 2017 è prevista l’inaugurazione di un progetto speciale per il Palacio de Cristal, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid
dal 7 – 13 maggio 2017
DRAWINGS FROM LIGHTNING
Artists book / collection of drawings
Inaugurazione domenica 7 maggio 2017 a partire dalle ore 11.00
Biblioteca civica d’arte Luigi Poletti Palazzo dei Muse
i Piazza Sant’Agostino, 337 -41121 Modena – Tel. 059 2033372
A seguire, ore 12.00: Public Talk / Conversazione con le Artiste
‘Il Disegno in Mostra’
Barbara De Ponti, Debora Hirsch, Laura Santamaria
con un approfondimento di
Chiara Pergola
DRAWINGS FROM LIGHTNING
Artists book / collection of drawings
Drawings from Lightning è un libro d’artista formato da una serie di opere ispirate dai cosiddetti Upward Positive Leaders (fulmini ascendenti). Si tratta di un raro fenomeno naturale che accompagna talvolta i temporali e che consiste nella propagazione di un fulmine dalla terra verso il cielo, al contrario di quello che solitamente avviene.
Nelle opere che compongono il libro alcuni tra i più rilevanti artisti italiani che utilizzano la tecnica del disegno stati chiamati ad interpretare questo fenomeno che diviene metafora del desiderio e della necessità di lavorare insieme, cercando così di ripensare anche il ruolo dell’artista nell’età contemporanea. Il libro, pubblicato nel 2016 in 250 esemplari, è stato esposto nel 2016 presso la Fonderia Artistica Battaglia di Milano e allo spazio Choisi-One at the Time di Lugano; nel 2017 presso la Galleria Madeinbritaly di Londra.
Paola Alborghetti, Matteo Antonini, Susanna Janina Baumgartner, Marco Belfiore, Maurizio Bongiovanni, Sergio Breviario, Pierpaolo Campanini, Gianni Caravaggio, Daniele Carpi, Arianna Carossa, Jacopo Casadei, David Casini, Giuseppe Costa, Carl D’Alvia, Valentina D’Amaro, Alessandro Di Giampietro, Barbara De Ponti, Enza Galantini, Daniele Girardi, Paolo Gonzato, Michele Guido, Debora Hirsch, Pesce Khete, Giulio Lacchini, Maria Morganti, Chiara Pergola, Marta Pierobon, Josephine Sassu, Laura Santamaria, Giovanna Sarti, Kristian Sturi, Marcello Tedesco, Luca Trevisani, Lucia Veronesi.
Orari biblioteca:
lunedì 14.30-19.00
dal martedì al venerdì 8.30-13.00/14.30-19.00
sabato 8.30-13.00
Il 23 marzo scorso è manca MIRELLA BENTIVOGLIO sembra strano ma non è stata ricordata adeguatamente lo ha fatto con il testo che vi proponiamo (la Redazione del sito)
da letteratemagazine.it
Il 23 Marzo ci ha lasciate Mirella Bentivoglio (Klagenfurt 1922-Roma 2017) poeta, artista visiva e inesauribile promotrice di cultura che per più di cinquant’anni ci ha parlato, con il suo lavoro, dell’impronta femminile del mondo. Anche il suo impegno critico e curatoriale, infatti, volto alla ricerca e alla valorizzazione della produzione estetica delle donne, ha accompagnato fin dagli anni ’70 la sua produzione artistica, in un percorso chiaramente segnato dal femminismo.
Siamo lontane, tuttavia, da un’idea di arte portatrice di messaggi ideologici o dalla mera rivendicazione di una maggiore presenza femminile nel mondo dell’arte; piuttosto il suo lavoro -curatoriale ed artistico- ha gettato luce, in modi nuovi ed originali, su questioni politiche ed estetiche che, a partire da quegli anni, hanno attraversato in particolar modo l’arte delle donne e di cui l’artista, nel corso del suo lungo impegno intellettuale, è stata espressione.
Nasce poeta, tuttavia, Mirella che nel 1943 pubblica il suo primo libro di poesie1, ma presto sente l’urgenza di un’espressione diversa, polimorfa, capace di andare oltre la parola, verso la visualizzazione del linguaggio…….segue
per il testo completo con anche le foto seguire il link: http://www.letteratemagazine.it/2017/04/26/luovo-universale-mirella-bentivoglio/
dal 18 al 27 maggio 2017
segnalato da Laura Minguzzi
(traduzione fatta con Traduttore Google scusate alcuni termini inconsueti)
La Showroom presenta Become Two , una nuova installazione cinematografica dell’artista berlinese Alex Martinis Roe che deriva dal suo impegno continuo con le comunità femministe internazionali e le loro pratiche politiche.
Oltre sei film per diventare due tracce le storie di sei diversi, ma collegati, gruppi femministi dagli anni ’70 ad oggi che hanno costruito comunità in Europa e in Australia. Tra queste figurano la cooperativa della Libreria delle donne di Milano; Psychanalyse et Politique, Parigi; Studi femminili presso l’Università di Utrecht; Una rete a Sydney, comprese le persone coinvolte nelle Cooperative Filmmaker di Sydney, i Femministi Film Workers e il Dipartimento di Filosofia Generale dell’Università di Sydney; E Duoda – Centro di investimenti di Mujeres e Ca La Dona a Barcellona.
Utilizzando vari metodi come l’osservazione dei partecipanti, l’intervista di storia orale e la ricerca d’archivio, Martinis Roe offre proposte su come affrontare la società contemporanea attraverso le metodologie femministe. Per il film finale, la nostra rete futura (2016), Martinis Roe ha istituito una nuova rete per esplorare queste storie e ciò che può essere trasferito in metodi per il lavoro collettivo, che ha portato allo sviluppo di venti proposizioni per le pratiche politiche collettive femministe.
Alla Mostra, il progetto si evolverà ulteriormente con un programma di eventi e workshop condotti da Martinis Roe per estendere le proposte di Our Future Network per le pratiche collettive femministe secondo le esigenze, i desideri ei contesti di coloro che partecipano.
Design in collaborazione con Fotini Lazaridou-Hatzigoga. Serie Poster in collaborazione con Chiara Figone. Diventare due è stato prodotto con il sostegno del curatore Susan Gibb.
Programma:
Giovedì 18 maggio, ore 7-9: Introduzione a Bec Become Two
Alex Martinis Roe presenta il progetto in conversazione con Helena Reckitt, docente di curatrice all’oro dell’Università di Londra e partecipante alla nostra rete futura .
Venerdì 19 / Sabato 20 / Martedì 23 Maggio, ore 6-9: Laboratorio a tre parti
Durante tre sessioni, i partecipanti intraprenderanno una serie di esercizi che si espanderanno sulle proposte generate nel progetto Our Future Network per sviluppare ulteriori proposte per nuove pratiche politiche femministe. Questi workshop si concluderanno in occasione di un evento pubblico sabato 27 maggio, dove i partecipanti adotteranno le loro proposte collettive.
I laboratori si adattano a coloro che hanno interesse a pratiche politiche collettive e / o femminismo, ma non è necessario partecipare a una conoscenza approfondita della storia o della teoria femminista. I partecipanti devono poter contribuire a tutti e tre i workshop e l’evento finale, nonché alcune discussioni e corrispondenze con l’artista nelle prime due settimane di maggio.
Per partecipare, si prega di trasmettere espressioni di interesse a Eva Rowson, Coordinatore Programmatico entro Domenica 30 Aprile 17 (vedi dettagli sotto).
Lunedì 22 maggio, ore 6-9: sessione aperta
Un workshop unico per coloro che desiderano apprendere di più il progetto. I partecipanti esploreranno alcune delle pratiche politiche narrate nell’installazione del film attraverso esercizi basati sulla discussione e esperimenti collettivi.
Per partecipare alla sessione aperta, si prega di inviare espressioni di interesse a Eva Rowson, coordinatore del programma entro Domenica 14 maggio ore 17.00 (vedi dettagli sotto).
Sabato 27 maggio, ore 2-6: Salone pubblico
Un salone pubblico dove saranno presentate le proposizioni di nuove pratiche femministe durante i workshop presso The Showroom. Queste proposizioni partiranno dalle pratiche storiche esplorate nella serie Become Two , estese e adattate dai collaboratori del workshop in base alle loro esigenze e contesti.
Partecipazione workshop: espressioni di interesse
Per partecipare al workshop e all’evento finale: inoltrare espressioni di interesse a Eva Rowson, Coordinatore Programma eva@theshowroom.org , domenica 30 aprile alle 17.00.
Per favore includere:
• Conferma di impegnarsi in tutte le date e disponibilità per intraprendere discussioni preparatorie e corrispondenza con l’artista nelle prime due settimane di maggio.
• Breve biografia (100 parole)
• breve dichiarazione di motivazione per la partecipazione (150 parole)
Per partecipare all’officina aperta: inoltrare espressioni di interesse a Eva Rowson, Coordinatore Programma eva@theshowroom.org , domenica 14 maggio ore 17.00.
Includere una breve motivazione di partecipazione (150 parole)
Alex Martinis Roe per diventare due è co-commissionato da ar / ge kunst (Bolzano); Casco – Ufficio per l’Arte, Design e Teoria, (Utrecht); Se non posso ballare, non voglio essere parte della tua rivoluzione (Amsterdam) e The Showroom (Londra). I corsi di accompagnamento e le prestazioni sono co-commissionati dalla Fondazione Keir. Il progetto è stato realizzato con il sostegno del Graduiertenschule der Universität der Künste Berlin e del governo australiano attraverso il Consiglio australiano per le arti e il suo finanziamento e consiglio di arti.
Il progetto sarà presentato da Badischer Kunstverein (Karlsruhe) dal 8 settembre al 26 novembre 2017.
Design in collaborazione con Fotini Lazaridou-Hatzigoga. Serie Poster in collaborazione con Chiara Figone. Diventare due è stato prodotto con il sostegno del curatore Susan Gibb.
Una pubblicazione per diventare due , pubblicata da Archive Books, sarà pubblicata durante la mostra.
Grazie a Ismail Ali: Project ALCHEMY, Mercedes Vilardell, Paddington Development Trust, Chiesa di San Paolo e Centro Comunale, Chisenhale Gallery, Gasworks, Galleria Lisson e Matt’s Gallery per il supporto espositivo presso The Showroom.
Credo d’immagine: Alex Martinis Roe, la nostra rete futura , film ancora della proposizione Produttivi rifiuti , sviluppato in collaborazione con Helena Reckitt, 2016.
- Artista
Alex Martinis Roe b. 1982 (Melbourne, Australia) è un artista con sede a Berlino. I suoi progetti attuali si concentrano sulle genealogie femministe e cercano di promuovere relazioni specifiche e produttive tra le diverse generazioni come un modo per partecipare alla costruzione delle storie femministe e dei futures.
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Una nuova installazione cinematografica dell’artista berlinese Alex Martinis Roe che deriva dal suo impegno continuo con le comunità femministe internazionali e le loro pratiche politiche.
da exibart.com
Sono andata per la prima volta a Istanbul nel 1970. Vivevo a Padova. Sergio Bettini, il grande storico dell’arte medievale, organizza un viaggio di studio esteso ai laureandi. “Vedo” l’influenza di Costantinopoli/Bisanzio/Istanbul sulla cultura dell’Occidente, su Venezia e San Marco. Un’impareggiabile “lezione dal vivo” e un viaggio di formazione che ancora ricordo.
Quando ho letto Istanbul di Orhan Pamuk, ho capito che la lezione di Bettini mi aveva così colpito, perché mi aveva ricongiunto alla città dove ero nata, così come fa Pamuk con la sua Istanbul, combinando le tracce dei suoi ricordi familiari e quelli dei tanti che hanno raccontato e studiato questa città simbolo.
Grazia Toderi mi aveva trasportato a Istanbul tra i vapori dell’aereo che si alza in cielo in uno dei suoi primi video Terra, 1997. Ora Toderi e Pamuk creano insieme “Words and Stars”, ovvero il loro incontro nel “Cielo sopra Istanbul”.
Sotto traccia c’è Il museo dell’innocenza, e il desiderio di Pamuk di arricchirlo con l’infinito che ha visto nel video di Grazia, Orbite Rosse (2009), alla Biennale di Venezia. Una storia eccezionale che poteva succedere solo a Istanbul: la città simbolo dello “Stato nascente” dell’Occidente.
A Bisanzio, infatti, durante la dinastia Comnena (XI-XII secolo) è avvenuta la copiatura dei codici greci che hanno salvato la tragedia, la letteratura, la filosofia della culla della civiltà dell’Occidente. Anche questa è una memoria dei miei studi universitari. Mi era sembrato straordinario che un programma di ricerca scientifica, ante litteram, fosse stato scelto per rappresentare il potere di una dinastia e la supremazia di una città.
Anche Roma antica aveva avuto un occhio di riguardo per le statue greche, ma ero sorpresa dall’attenzione politica per il pensiero scritto.
Istanbul è per me una lunga scia che, dalla Basilica dei Dodici Apostoli, da Santa Sofia, dalla Cisterna Bim-Bir-Derek (le mille colonne), dal Bosforo, arriva a Venezia dove sono nata. Forse, l’emozione che ho provato nelle varie volte che sono andata alla Biennale di Istanbul, dipende da questo intreccio tra il mio luogo d’origine e l’inizio dei miei studi artistici, tra i quali ricordo la bellissima lirica bizantina sulle luci di Santa Sofia. La luce di Istanbul, accesa dal riflesso del cielo sull’acqua, concorre in modo decisivo alla percezione materiale, urbana.
Grazia è maestra nell’inserire stelle vere e immaginarie nelle sue “luci pulsanti”, come spesso le chiama, che tutti riconosciamo, ma che non sempre sappiamo inserire nell’osservazione quotidiana. E oggi dal “cielo sopra Istanbul” compie un nuovo passaggio. Le luci che si addensano in un magma fisico – motivo firma di molti suoi video, in particolare Rosso Babele (2006) – qui si diradano, lasciano intravedere la moschea di Solimano, la sinuosa struttura tra il mare e il Bosforo, le colline che fanno da sfondo, qualche ammasso della sua stratificata architettura. In questa galassia brillano, si eclissano, ricompaiono le stelle del cielo e quelle di Grazia. La notte s’illumina di “Words and Stars”, cadenzata dalla grafia delle parole di Pamuk.
L’opera è stata presentata per la prima volta, durante Artissima 2016, a Palazzo Madama e al Planetario di Torino dove, allungati sulle poltrone, abbiamo visto il primo video in bianco e nero. Sopra di noi il cielo e una città intera. Come anomali astronauti, abbiamo assistito al suo respiro di notte, al suo dilatarsi e condensarsi in un percorso senza soluzione di continuità, con il quale Grazia ritrae lo spazio urbano e l’invisibile presenza dei suoi abitanti. In tutti i suoi video, le città non sono vuote: anche se non si vede chi le abita, si sente la temperatura della vita.
Ora, al Mart di Rovereto (fino al 2 Luglio, catalogo Electa), Gianfranco Maraniello, ha raccolto l’intero lavoro, “Words and Stars”, composto di tre installazioni: Monologo, Dialogo, Conversazione.
C’è un risucchio dentro la rotazione del mondo, messa a fuoco su una porzione umana specifica: Istanbul. L’evocazione del globo è intuibile. Si passa dal bianco e nero del Monologo, una proiezione in un unico schermo; al blu-turchese del Dialogo, una doppia proiezione; al rosso della Conversazione, cinque proiezioni su cinque schermi che si dispongono circolarmente nella stanza. Una trilogia potente e intima.
Dire che è un viaggio cosmico è quasi tautologico, la diversità delle riprese e dei colori evidenzia, piuttosto, un viaggio attraverso i linguaggi classici della composizione artistica.
Abbino il bianco e nero all’origine della fotografia e alla scrittura, il blu al cielo, il turchese all’acqua, il rosso alle lampade ai vapori di sodio, che da tempo Grazia usa nella sua “tavolozza”. Il senso pittorico è definito dai colori e dalla riconoscibilità più esplicita di alcune zone della città.
Le parole di Pamuk, che richiamano gli amanti de Il Museo dell’Innocenza, sono il timbro del loro reciproco progetto, ma non creano quella vibrazione che normalmente accade nella lettura. Scivolano sulla galassia di Toderi e, purtroppo, non trovano il punto di pulsazione con le luci, i colori, la densità di questa Istanbul vista da Grazia e voluta da ambedue: non ricongiungono il mio vecchio viaggio di formazione. Peccato.
da arengario.net
Negli spazi dell’associazione Apriti cielo, in un cortile della vecchia Milano, Libera Mazzoleni ha presentato venerdì pomeriggio, dopo essersi esibita nella performance “L’ombra della differenza”, il suo libro illustrato “Lilith & la nonna”.
Apriti cielo è una realtà propositiva di dieci donne, animate da una grande voglia di fare, che sfocia in una serie di attività condivise con chiunque desideri avvicinarsi a questo progetto. Dall’arte figurativa ai laboratori teatrali, a quelli di scrittura e di poesia, dai corsi di informazione e formazione, ai gruppi di discussione: diverse ed eterogenee sono le forme espressive e di interscambio culturale proposte dall’associazione, come le occasioni di confronto sulle tematiche che pongono al centro dell’attenzione l’universo femminile.
“L’uomo è misura di tutte le cose”. La voce di Riccardo Longoni declama la celebre tesi di Protagora, filosofo itinerante dell’antica Grecia, che sosteneva l’importanza della soggettività nella percezione della realtà. Ha inizio così, con questa interpretazione, la performance che con gesti solenni e intrisi di significati rappresenta la dimensione corale del movimento femminista.
“L’uomo è misura di tutte le cose”. La massima viene declamata nuovamente con enfasi crescente, divenendo protagonista assoluta dello spazio e rivelando così il significato assunto attraverso i secoli: benché infatti in età antica il termine uomo indicasse l’intero genere umano, per troppo tempo nella nostra società ha sotteso solamente gli individui maschili.
Mentre risuona la massima del filosofo, la figura di Libera Mazzoleni si staglia contro il quadrato non completamente inscritto nel cerchio, che l’artista aveva poco prima tracciato con vernice nera su un telo bianco. E’ una dinamica citazione dell’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, quella inscenata davanti ad un pubblico di quasi sole donne, ma che qui rimanda alla sopraffazione avvenuta per secoli ai danni dell’universo femminile, e l’equilibro cui si allude, con il gioco geometrico assume una valenza del tutto negativa. L’uomo, inteso come soggetto maschile, è stato ed è tuttora al centro e a capo della nostra società di stampo patriarcale, oggi dominata dalla potenza tecnologica distruttrice e da quella logica numerica che è la finanza.
La performance, così carica di pathos, coinvolge poi il pubblico femminile, che dà voce ai versi più toccanti della poesia “Credo di una donna”, composta nel 1996 da Robin Morgan, femminista statunitense, impegnata fin da giovane a favore dei diritti delle donne e delle classi più deboli.
Ma le donne raggiungono nell’opera di Libera Mazzoleni, come nella società, una dimensione collettiva, che viene abilmente rappresentata con la raffigurazione, ad opera dell’artista, delle loro ombre generate sul telo bianco.
I movimenti femministi appartengono ormai al passato e al mito, e chi vi ha aderito constata oggi con amarezza che i risultati raggiunti si discostano, purtroppo, da quelli sperati. E’ in questa fase storica contemporanea che viene ambientato il libro scritto dall’artista e presentato venerdì al termine della performance. “Lilith & la nonna”, precisa l’autrice, è un lavoro iniziato nel lontano 2008, poi lasciato riposare, come a volte accade in campo artistico, quindi ripreso e infine concluso. E’ un libro incentrato sul movimento femminista letto dagli occhi di una ragazzina, Lilith, che, molto curiosa e vivace, mentre è in vacanza con la nonna, trova in un vecchio baule manifesti e fotografie relativi a quel periodo. E’ questo l’inizio di una percorso di conoscenza e di impegno sociale per la piccola, di un momento di speranza per la nonna e di un’occasione di riflessione, per tutti, sulla condizione femminile nella storia e ai giorni nostri.
Come illustrano le parole introduttive di Graziella Longoni, “Prende avvio così il racconto che richiama alla memoria la straordinaria esperienza corale di molte donne determinate a denunciare la violenza del patriarcato e ad affermare una specifica soggettività femminile, portatrice di una differenza ontologica e culturale da declinare non più come subalternità, ma come valore e diritto alla libera autodeterminazione di sé”.
Lilith, affascinata e incuriosita, interroga la nonna e le sue amiche sulla complessa tematica e, quando viene invitata a ritirarsi nei suoi spazi per svolgere i consueti compiti, si chiude con il cane Moka nella biblioteca della nonna a studiare la storia dei movimenti emancipativi femminili. Il coinvolgimento nella lettura è così grande che quando la bimba si addormenta sogna di compiere un viaggio nella storia delle violenze subite dalla donna attraverso i secoli: in campo politico-religioso con le inquisizioni, in ambito culturale con l’attribuzione della colpa nella cacciata dal Paradiso terrestre e ai giorni nostri con la violenza perpetrata sul corpo femminile, sia nell’imposizione del burqa orientale, sia nella morbosa esibizione occidentale.
Il sogno appena concluso rappresenta per la fanciulla il culmine di un iter formativo molto importante: dopo le letture nella biblioteca della nonna e le visioni oniriche le è finalmente chiaro tutto ciò che prima non poteva capire e adesso Lilith può impegnarsi attivamente per i diritti delle donne. Appena sveglia, infatti, la ragazzina torna dalla nonna e dalle sue amiche, reggendo tra le mani un cartello con quello slogan così emblematico e per lei in precedenza del tutto incomprensibile: “Io sono mia”.
La rivoluzione femminista non termina oggi, perché solo apparentemente le donne hanno raggiunto quell’emancipazione per cui intere generazioni hanno lottato. La strada è ancora lunga, ma la speranza è nelle figure come Lilith, che al termine del suo sogno e del suo percorso di crescita, testimonia alla nonna e alle sue amiche la sua determinazione nel proseguire autonomamente il cammino tracciato da loro.
Libera Mazzoleni è un’artista eclettica, formatasi ai tempi dei movimenti studenteschi. Non ha partecipato attivamente a quelli femministi, ma sull’argomento si è a lungo documentata facendo proprie le istanze del movimento. Ha sviluppato nel tempo verso questi temi una grande sensibilità, che è estremamente visibile in tutta la sua carriera compositiva e risulta fondamentale nel suo percepirsi come donna nella dimensione dell’arte. Libera Mazzoleni si esprime inizialmente attraverso la scultura e in un secondo momento si dedica alla performance, ma nella raffigurazione non si è mai cimentata.
In “Lilith & la nonna” invece a narrare sono proprio le figure, che acquisiscono maggiore definizione man mano che il lavoro progredisce in questa esperienza che per l’artista rappresenta un vero e proprio percorso di apprendimento. E dietro la raffigurazione, dichiara Libera Mazzoleni, si nasconde sempre un cammino compiuto dall’autore che, come sosteneva Hannah Arendt, non è mai visibile. Il processo è percepibile in altre forme espressive, risulta chiaro nella danza oppure nel canto, ma nell’arte figurativa, invece, ciò che appare è solo il risultato finale.
30 marzo – 25 giugno 2017
Palazzo Reale, Piazza Duomo, 14 – MilanoMILANO – Arriva a Palazzo Reale di Milano la mostra Charlotte Salomon Vita? o Teatro?, a cura di Bruno Pedretti, dedicata alla giovane ebrea berlinese Charlotte Salomon. Prima di morire ad Auschwitz, Charlotte affida il racconto di tutta la sua vita a centinaia di tempere, raccolte sotto il titolo Vita? o Teatro?
Dagli anni Sessanta le tempere di Charlotte Salomon sono state esposte in forma antologica in alcuni importanti musei ma sino ad oggi mai in Italia: al Centre Pompidou e al Museo Ebraico di Parigi, alla Whitechapel Art Gallery e alla Royal Academy di Londra, al Museo Ebraico di Berlino e in varie altre città tedesche, a Bruxelles, Tel Aviv, Chicago, New York, San Francisco, Tokyo…
Nelle Sale al piano terra di Palazzo Reale, l’esposizione presenta circa 270 tempere, insieme a decine di fotografie storiche che illustrano la vita di Charlotte e gli avvenimenti del suo contesto, in parallelo alle scene rappresentate nel suo poema autobiografico e ad un filmato che introduce il visitatore nel mondo dei suoi affetti.
La figura di Charlotte Salomon è anche protagonista del romanzo scritto del curatore della mostra milanese, Bruno Pedretti: Charlotte. La morte e la fanciulla (prima ed. Giuntina, Firenze 1998; ed. francese Robert Laffont, Parigi 2006; nuova ed. Skira, Milano 2015).
La mostra è promossa e prodotta dal Comune di Milano | Cultura, Palazzo Reale e Civita Mostre, in collaborazione con il Jewish Historical Museum di Amsterdam.
L’inferno della Shoah restituisce un sorprendente poema allo stesso tempo pittorico, teatrale, narrativo e musicale. Charlotte Salomon è una giovane ebrea berlinese che va incontro ad un tragico destino. Prima di morire ad Auschwitz, Charlotte affida il racconto di tutta la sua vita a centinaia di tempere, raccolte sotto il titolo Vita? o Teatro?
Miracolosamente sopravvissuto alle persecuzioni e alla guerra, questo lascito artistico si rivelerà un autentico canto del destino, che vede proiettata la biografia di Charlotte sullo scenario più tragico del Novecento.
Dagli anni Sessanta le tempere di Charlotte Salomon sono state esposte in forma antologica in alcuni importanti musei ma sino ad oggi mai in Italia: al Centre Pompidou e al Museo Ebraico di Parigi, alla Whitechapel Art Gallery e alla Royal Academy di Londra, al Museo Ebraico di Berlino e in varie altre città tedesche, a Bruxelles, Tel Aviv, Chicago, New York, San Francisco, Tokyo.
La mostra, a cura di Bruno Pedretti, è promossa e prodotta dal Comune di Milano | Cultura, Palazzo Reale e Civita Mostre, in collaborazione con il Jewish Historical Museum di Amsterdam. Nelle sale al piano terra di Palazzo Reale, l’esposizione presenta circa 270 tempere, insieme a decine di fotografie storiche che illustrano la vita di Charlotte e gli avvenimenti da lei vissuti, in parallelo alle scene rappresentate nel suo poema autobiografico e ad un filmato che introduce il visitatore nel mondo dei suoi affetti.
Sull’opera di Charlotte esistono ormai numerosi libri, filmati e naturalmente cataloghi che ne hanno accompagnato le esposizioni, tra cui anche alcune edizioni integrali delle tempere, a cui si sono recentemente aggiunti altri tributi a questa figura eccezionale, di genere sia letterario, sia operistico, sia filmico.
La figura di Charlotte Salomon è anche la protagonista del romanzo del curatore della mostra milanese, Bruno Pedretti: Charlotte. La morte e la fanciulla (prima ed. Giuntina, Firenze 1998; ed. francese Robert Laffont, Parigi 2006; nuova ed. Skira, Milano 2015).
Informazioni su Charlotte Salomon e la sua opera sono reperibili nel sito del Jewish Historical Museum – Museo Storico Ebraico di Amsterdam.
270 tempere, insieme a decine di fotografie storiche che illustrano la vita della giovane ebrea berlinese che prima di morire ad Auschwitz affidò il racconto della sua vita alla pittura, raccogliendo le sue opere sotto il titolo Vita? o Teatro?
La vita e l’opera di Charlotte Salomo
Figlia di Albert e Franziska Salomon, Charlotte nasce a Berlino il 16 aprile 1917.
Medico universitario il padre, musicista amatoriale la madre e celebrata cantante d’opera la matrigna Paula Lindberg, la formazione di Charlotte imbocca dopo il liceo la strada artistica. Frequenta, infatti, dal 1935 al 1938, unica allieva ebrea ammessa, l’Accademia di Belle Arti di Berlino. Nel 1939 lascia la Germania per rifugiarsi dai nonni materni a Villefranche-sur-Mer, vicino Nizza. Qui, nel 1940, a seguito del suicidio della nonna, scopre che anche la madre e la giovane zia di cui aveva preso il nome erano morte suicide.
La terribile rivelazione, insieme alla drammaticità degli eventi che gravavano sulla sua sorte di perseguitata e profuga, la spinge a concepire e realizzare la sua grande opera autobiografica, Leben? oder Theater? (Vita o Teatro?). Si tratta di un lungo racconto pittorico integrato da dialoghi teatrali, intersezioni letterarie e indicazioni musicali che si compone di ben 1325 documenti tra tempere, veline, annotazioni, varianti pittoriche e altre prove, con una scelta di quasi 800 tempere selezionate dall’autrice quali immagini del racconto definitivo. Ultimato da pochi mesi l’immenso lavoro, a fine settembre 1943 Charlotte viene arrestata dalla Gestapo insieme al marito Alexander Nagler e condotta ad Auschwitz. Il 10 ottobre, incinta di alcuni mesi, Charlotte giunge nel campo di sterminio, dove con ogni probabilità viene uccisa il giorno stesso.
La sua opera è sopravvissuta. Consegnata prima dell’arresto al medico di Villefranche-sur-Mer, pervenne in America alla dedicataria Ottilie Moore, che dopo la guerra la donò al padre di Charlotte, fortunosamente sopravvissuto alla guerra e allo sterminio degli ebrei con la fuga in Olanda. Vita? o Teatro? venne affidata dapprima al Rijksmuseum di Amsterdam, sino a quando nel 1971 l’opera passò al nuovo Jewish Historical Museum della stessa città, dove è tuttora conservata a cura della Fondazione Charlotte Salomon.
Segnaliamo anche il testo di Katia Ricci “Charlotte Salomon. I colori della vita” (Palomar, 2006), che dell’opera di Charlotte Salomon ha dato un’ avvincente lettura nel segno della differenza?