di Carla Pecis


Si apre il prossimo 11 maggio la 58a Biennale d’Arte di Venezia, uno degli appuntamenti artistici e culturali più importanti del mondo. Gli organizzatori sottolineano l’ulteriore incremento di presenze alla rassegna di quest’anno di artiste da tutto il mondo, a cui i diversi Paesi hanno affidato i propri padiglioni. Paesi e continenti diversi, in cui diversissime sono le condizioni di vita e i progetti delle donne. Queste artiste ne sono certamente una rappresentanza e un’eccellenza, per molte realtà anche una speranza per il futuro.

Renate Bertlmann – Austria. L’artista viennese è nota per il suo impegno femminista, molte delle sue opere indagano il ruolodella donna nelle società contemporanee.

Eva Rothschild – Irlanda. Da Dublino ha promesso di portare a Venezia sculture e installazioni con forti connotazioni politiche.Al femminile anche l’altra figura presente nella organizzazione del padiglione irlandese, MaryCremin.

Cathy Wilkes – Gran Bretagna. Nata a Belfast, vive a Glasgow ed è la terza donna a cui viene affidato il padiglione (2015-2017-2019). “È nota per le sue installazioni che ricreano ambientazioni domestiche intime e al tempostesso strazianti anche grazie all’uso di manichini.”

Laure Prouvost – Francia. Nata a Lille, l’artista quarantenne è stata scelta dalla Francia per il suo alto profilo internazionale, lasua è una voce già molto conosciuta nel mondo, utilizza innovative tecniche che nella loro diversitàpropongono argomenti intimi e universali.

Scozia – Charlotte Prodger. Nella sua pratica artistica utilizza video, suono, scrittura e scultura. A Venezia presenta un videobasato sull’esplorazione della vita e dei paesaggi dell’ambiente rurale da cui proviene, “dovepaesaggio e bellezza sono intrinsecamente legati, sono eccitata dai fluidi confini dell’identità,specialmente i confini percepiti di genere e geografia”.

Hong Kong – Shirley Tse. Presenta installazioni comprensive di scultura, fotografia video e testi. Ha già esposto in California,a Cambridge e al Museo d’Arte Moderna di Minsk. È la prima volta che Hong Kong affida ad unaartista la sua rappresentanza alla Biennale di Venezia.

Georgia – Anna K.E. È nata a Tiblisi e lavora tra Germania e Stati Uniti. Al centro dei suoi lavori pone la storia delfemminismo, del modernismo e dell’evoluzione tecnologica. Il padiglione della Georgia sarà curatoda Margor Norton, curatrice del New York Museum.

Taiwan – Shu Lea Cheang. Il progetto presentato si intitola “3 x 3 x 6” e si riferisce al nuovo modello architettonico delle prigioniindustriali con le loro singole celle di 9 metri monitorate da 6 telecamere. È una denuncia contro isistemi di controllo all’interno delle carceri, che sia allarga alla denuncia dei sistemi di sorveglianzadiffusa nelle società contemporanee. Una testimonianza angosciante, per esplorare le possibilistrategie di resistenza, per una ricerca della dignità contro le forme di repressione e controllo. Datrent’anni l’artista “ha trattato il tema del disfacimento delle rappresentazioni di genere, dellasessualità e della razza”.

Danimarca – Larissa Sansour. L’artista e cineasta di origine palestinese è stata scelta a rappresentare la Danimarca, suo paesed’adozione, perché le è riconosciuta “la capacità di affrontare questioni rilevanti non solo per laDanimarca ma per il mondo intero. Analizza le attuali condizioni politiche e gli aspetti universali dellacondizione umana associati all’identità e al senso di appartenenza”.

Emirati Arabi Uniti – Nujoom Alghanem. È stata affidata alla cineasta Nujoom Alghanem, originaria di Dubai, la rappresentanza degli Emiratialla Biennale 2019, “per le sue proposte letterarie innovative e le audaci realizzazionicinematografiche.” Aveva già esposto nel 2017 in una collettiva con altri quattro artisti dell’area. Haprodotto documentari e cortometraggi d’arte, per i quali è stata premiata, e come poetessa hascritto otto raccolte: “le forme e i soggetti della mia poetica sono modellati dalla mia esperienzapersonale nel contesto di una società in trasformazione, come donna ho trovato interessanteconcentrarmi su storie femminili della nostra società e del mondo arabo meritevoli di attenzione”.

Turchia – Inci Eviner. Inci Eviner rappresenta la Turchia all’interno di un padiglione corale che ospita diversi stili, con lacollaborazione di diverse pratiche artistiche. La sua installazione si intitola “We Elsewhere” (Altrove)e con vari elementi compositivi (suono, danza, fotografia) riflette sui temi delle migrazioni, sui luoghie i ricordi.

Pakistan Naiza Khan. È la prima partecipazione del Pakistan alla Biennale di Venezia. Il paese sarà rappresentato Naiza Khan, che vive tra Londra e Karachie che dedica la sua attenzione all’evoluzione della vita pubblica in alcune zone del Paese, inparticolare della città di Manora, a sud di Karachi. Ha dichiarato la sua volontà di favorire con il suolavoro “un dibattito più largo che colleghi Venezia alle penisole persiane-indiane-arabe attraversole storie degli imperi e del commercio marittimo”.

Portogallo – Leonor Antunes. L’artista ha ricevuto grandi riconoscimenti internazionali (la recente mostra Hangar Bicocca aMilano, nel 2018). Usa materiali tradizionali (corde, legni, sugheri, pelli) che lavora con tecnichetradizionali e con le sue sculture “reinterpreta la storia dell’arte”. A Venezia riprenderà la storiaculturale della città, dei suoi architetti, designer e mecenati.

Italia – Chiara Fumai e Liliana Moro. L’Italia dedica il suo padiglione a sue due importanti artiste.In ricordo di Chiara Fumai, scomparsa nel 2017 – l’artista romana ha messo al centro della sua ricercail ruolo della donna “analizzando in maniera anarco-femminista il sistema dell’arte” e ha utilizzatotecniche e performance diverse. Nel 2013 in un video di grande impatto aveva ripreso la critica (unavera e propria requisitoria) contro un sistema dell’arte “ancora tremendamente fallocratico”. Pocoprima di morire ha vinto il Premio New York. Liliana Moro è molto nota all’estero, diplomata a Brera, con altri ha fondato Lo Spazio di Via LazzaroPalani a Milano, riferimento artistico a livello internazionale. “Ha fatto della messa in scena dellarealtà, che può essere al tempo stesso crudele e poetica, la sua cifra stilistica”.


Appuntamento alla Biennale d’Arte di Venezia – 11 maggio/27 novembre 2019


(Mediterranea, Udi Catania, 8 aprile 2019)

di Elisa Scapicchio


Non era un architetto, eppure Maria Lai, nel 1981, riuscì a ricucire il tessuto sociale del suo paese con un’operazione che a distanza di quasi quarant’anni viene ancora ricordata come episodio ante litteram di arte relazionale. L’opera si intitolava Legarsi alla montagna, e a differenza delle performance e operazioni sul territorio degli anni Sessanta e Settanta (che lavoravano sull’effimero coinvolgendo spazi inconsueti per l’arte restando sempre opere personali dell’artista) qui, ad essere protagonista assoluto, fu l’ntero paese di Ulassai, piccolo centro nel cuore della Sardegna. Un’operazione che la stessa Maria Lai definì come «una scommessa tra me e il mio paese» e che, scavando tra i ricordi di infanzia e della gente, trovò risposta in una storia, una fiaba nota ai bambini da infinite generazioni, soggetta, come vuole la tradizione orale, a innumerevoli variazioni, ma dalla morale sempre intatta.

La leggenda narrava di una bambina mandata sulla montagna a portare del pane ai pastori. Giunta a destinazione, la piccola li trovò tutti rifugiati in una grotta per proteggersi dal temporale in arrivo. Ad un tratto però, vide passare un nastro celeste portato dal vento. La bambina, per lo stupore, corse fuori dal rifugio, riuscendo così a salvarsi dalla frana che sarebbe giunta di lì a poco. Maria Lai ritrovò in questa storia d’infanzia alcune analogie con la sua vita. Così come la bambina si era salvata dal crollo della grotta grazie al passaggio di quel nastro azzurro, allo stesso modo la comunità di Ulassai si sarebbe salvata dalla montagna ritrovando le proprie radici etniche e la propria memoria storica. Prendeva forma dal racconto l’idea dell’artista, «un’immagine disegnata con un nastro celeste su tutto il paese, che leghi le case tra loro segnando dei ritmi negli spazi delle strade, e le case alla montagna».

«Quando tutti si aspettano di vedermi all’opera, io invito ognuno a mettersi all’opera» raccontò. L’operazione durò 3 giorni, durante i quali il piccolo centro di Ulassai venne (col)legato – passando di casa in casa – da 26 chilometri di tela jeans, superando così inimicizie e attriti tra famiglie. Un intervento che riuscì a riunire quell’aggregato di edifici che mancava di coesione sociale, sottolineando come, in realtà, un paese sia un gruppo eterogeneo di persone che comunicano tra loro attraverso lo spazio e che riporta a un tema, oggi molto attuale anche in architettura, quale quello del rapporto tra spazio fisico, luogo e comunità. A seguito di una grande donazione di opere da parte di Maria Lai, nel 2006, grazie alla ristrutturazione dei locali dell’ex-stazione ferroviaria in disuso a valle del paese, ha preso vita il museo La Stazione dell’Arte, punto di arrivo dell’ambizioso progetto che l’artista e il paese di Ulassai hanno coltivato per oltre un trentennio, a partire dal magico evento di Legarsi alla montagna.

Dopo la mostra appena terminata a Sassari – Art in Public Space, il recente 33° posto della Stazione dell’Arte nel censimento dei Luoghi del Cuore del Fai e la dedica di una piazza nella città di Cagliari (inaugurata lo scorso 5 febbraio), di seguito elenchiamo le mostre – in corso e future – che celebreranno la grande artista e il suo pensiero così radicato alle origini, a cent’anni dalla sua nascita.

Maria Lai. Sguardo Opera Pensiero. Ulassai, Stazione dell’arte – fino al 19 marzo 2019 Prendendo il titolo dalla tesi dell’artista per il conferimento della laurea honoris causa nel 2004, il progetto espositivo, curato dal direttore Davide Mariani e pensato come un itinerario, intende indagare l’opera di Maria Lai svelando il processo creativo dietro la realizzazione dei suoi lavori.Tredici stazioni tematiche in cui viene dato ampio risalto alle strategie comunicative da lei sperimentate per avvicinare l’arte alla gente.Ad affiancare la mostra anche un ampio calendario di laboratori didattici per bambini, durante i quali, partendo dalle opere esposte, saranno previste diverse attività ludiche e creative incentrate sulla lettura dell’opera d’arte contemporanea.

Room – L’anno zero. Maria Lai. Firenze, Museo Novecento – fino al 28 marzo 2019

«Amo il presepe – diceva l’artista – come esperienza di qualcosa che, più ne indago l’inesprimibile, più trovo verità, più divento infantile e ingenua, e più rinasco».La mostra, al piano terra del Museo Novecento di Firenze, è interamente dedicata a uno dei temi più cari a Maria Lai: i presepi in terracotta, pietre, stoffa e legno. Manufatti poveri costruiti con sapienza antica, miniature che nascondono il desiderio di pace e fratellanza, piccole scenografie che riportano sulla superficie di un piatto i sogni e le utopie, il mondo e la storia. Ogni presepio è un’invenzione inedita che non si ripete mai, rinnovando ogni volta la matrice originale.

Maria Lai. Opera Sola. Cagliari, Galleria Comunale d’Arte – fino al 10 febbraio 2020

Quattro opere sole, in rotazione, che seguiranno il corso delle stagioni. Fino a maggio, la Galleria Comunale d’Arte di Cagliari ospiterà un capolavoro inedito di Maria Lai di fine anni Cinquanta. Seguirà poi, fino a settembre, l’esposizione del Telaio del 1965. Nei mesi di ottobre e novembre verrà esposta una Tela cucita del 1978 concludendo il ciclo, da dicembre, con la presentazione di una Geografia del 1988.La scelta di esporre un’opera alla volta nasce dalla volontà di comprendere, in uno spazio fisso e concluso, un percorso di conoscenza e di avvicinamento estatico ed estetico all’opera e all’arte, al fine di promuovere una nuova visione del museo. Un’iniziativa ispirata dal suo pensiero e dedicata alla sua arte e al gioco, lo stratagemma proposto da lei stessa perché «con parole chiare e regole semplici, come in un gioco di bimbi, possiamo comprendere e vivere l’arte». 

Maria Lai. Tenendo per mano il sole. ROMA, Museo MAXXI | 19 giugno 2019 – 12 gennaio 2020

Il Maxxi rende omaggio a Maria Lai con la mostra monografica Tenendo per mano il sole, intitolata come la sua prima fiaba cucita realizzata dall’artista nel 1983.Oltre 100 i lavori esposti, libri cuciti, sculture, opere pubbliche e i suoi celebri telai. Una sintesi della sua biografia complessa e affascinante, per sottolineare il suo essere pioniera nella ricerca dell’arte relazionale, coniugando sensibilità, tradizioni locali e codici globali. 


(Tottus in pari. Emigrati e residenti la voce delle due “Sardegne” n. 753, febbraio 2019)

di Katia Ricci

 

Nella sede dell’Associazione La Merlettaia di Foggia il 9 gennaio 2019 è stata inaugurata, a cura di Katia Ricci, la mostra-installazione dal titolo «Il mistero negato del corpo che non tace» di Clelia Mori, un’artista di Reggio Emilia, che ha illustrato il senso e la genesi della sua opera che risale al 2015. Iolanda Picciariello, un’operaia dello stabilimento Fiat di Melfi, ha raccontato la sua esperienza e Gemma Pacella, giovane dottoranda in Diritto del lavoro, ha parlato delle divise che le aziende impongono alle lavoratrici. Molte le domande, le curiosità e le osservazioni del pubblico che è intervenuto.
Nel 2015 Clelia Mori fu colpita da una notizia letta sui giornali a proposito della contestazione delle operaie Fiat di Melfi nei confronti delle tute bianche da lavoro che l’azienda aveva imposto alle operaie addette alla carrozzeria. 400 di loro firmarono una petizione, chiedendo di cambiare quel dress code che consideravano non adatto e non pratico a essere indossato dalle donne durante il ciclo mestruale, perché si macchiava facilmente di sangue, creando un profondo disagio. Si può bene immaginare gli sguardi e i risolini che quella vista poteva suscitare negli uomini, ma poi, come ha raccontato Iolanda, anche gli uomini hanno capito e appoggiato la protesta. La risposta dell’azienda, pur pratica da un certo punto di vista, fu ritenuta dalle operaie del tutto inadatta e che non coglieva appieno il senso della protesta: le tute bianche, uguali per uomini e donne, che dal punto di vista della Fiat rimandavano a un’idea di ordine, efficienza e pulizia, basata sulla parità di genere, mettevano invece in risalto che i corpi di donne e uomini sono differenti e che è necessario trattarli con cura e con uno sguardo diverso. In più quelle culotte offerte in dotazione alle operaie, insieme alla tuta, da indossare sotto i calzoni nei giorni del ciclo erano scomodissime, rigide e non lasciavano traspirare la pelle. Le operaie le considerarono un’imposizione umiliante e irrispettosa del loro corpo.
Letta la notizia, Clelia Mori ebbe l’idea di fare un intervento artistico sulle tute e ne chiese alcune alle operaie con cui riuscì a mettersi in contatto. Finalmente, dopo alcuni anni e relazioni epistolari, le arrivarono quattro tute che sono il fulcro del lavoro artistico che all’inizio s’intitolava “Ritratto di operaie” e in seguito “Il mistero negato del corpo che non tace”. L’artista ha ideato un intreccio indissolubile tra arte e politica, come è nel suo linguaggio e nella sua ricerca estetica di donna che da anni si è nutrita del “pensiero della differenza sessuale”: ha ricamato nei calzoni all’altezza del pube due cerchi concentrici con filo rosso, sotto due dei quali una macchia dello stesso rappresenta il sangue mestruale, segno irriducibile della differenza. Nella parte alta della tuta, invece, appaiono tre cerchi concentrici ricamati con il filo, dentro e intorno ai quali un ricamo con filo d’oro crea innumerevoli puntini e linee rette o curve che rappresentano le stelle e le reti di relazione che le donne continuamente riescono a tessere. Sul taschino della camicia, poi, sono inseriti specchietti che riflettono l’immagine di chi si avvicina per guardare.
Attraverso le macchie del sangue mestruale il corpo parla della propria differenza e, quindi l’artista gira in positivo, e al di fuori dei canoni tradizionali che fissa stereotipi, il legame antico e indissolubile tra corpo e femminilità. Infatti insieme con le tute Clelia espone una tela a olio intitolata “Salvator mundi” che riprende “L’Annunziata” di Antonello da Messina, ma trasforma in un gesto benedicente la mano di Maria che nell’artista rinascimentale è aperta nel momento in cui chiede all’Arcangelo Gabriele come farà a mettere al mondo il figlio di Dio, se non conosce uomo. Per Clelia è il “sì” della Vergine a salvare il mondo.
Un arazzo formato da un antico lenzuolo tessuto a mano su cui è ricamata una grandissima macchia del “sangue di vita” e una serie di disegni, infine, concludono l’installazione. Così li descrive Clelia Mori: «Sul totale dei disegni ci sono 3 o 4 fogli, dipinti con tempera oro per indicare la preziosità del mestruo». Ognuno degli altri 13 disegni (con macchie di china rossa e blu) è stato nominato “uno di tredici”, “due di tredici”, “tre di tredici” ecc. fino a “tredici di tredici”. È la rappresentazione del numero di volte in un anno in cui le donne di solito sono mestruate (il Sangue di Vita). «Ho ottenuto – dice Clelia – 13 dividendo 365 giorni per 28 (i giorni del ciclo lunare). Il disegno su di un foglio più piccolo ha una macchia d’oro all’interno di nove cerchi: è un simbolo dei 9 mesi della gravidanza… il 9 dice anche tanto altro… Ho unito il sangue mestruale con la vita che CREIAMO. Ho fatto tutto questo sul mestruo perché ho pensato che va dipanata la matassa neutra della parola “sangue” con cui identifichiamo qualsiasi sangue: quello di ferita, di malattia, di morte e mestruale. Credo che vada detto che quello mestruale è differente ed è di VITA.»
Clelia Mori esprime nella sua ricerca un atteggiamento comune a tante artiste che rifuggono i canoni della tradizione maschile, seguendo il proprio desiderio, per cui danno valore a tutto ciò che non era stato considerato arte per rifiutare il mito dell’artista genio e per creare un proprio spazio e linguaggio allo scopo di significarsi come donne e ripensare all’immagine di sé, da un punto di vista sessuato, femminile.
Clelia Mori ha colto attraverso l’arte il nesso indissolubile tra corpo, esperienza e linguaggio di cui le donne sono portatrici e che inevitabilmente in maniera più o meno consapevole portano in ogni ambito perché la differenza sessuale è iscritta nel corpo e oggi più che mai è visibile anche nel lavoro. Scrive, infatti, Giordana Masotto nell’articolo Il lavoro ha bisogno di femminismo, nell’ultimo “Sottosopra” Cambio di civiltà, punti di vista e di domanda (recentemente presentato a Foggia presso Parco-città), della Libreria delle donne di Milano, che le donne sono «ben ancorate in quel nesso corpo-parola che è la nostra forza. Questo nesso è peculiare del soggetto inedito che sono le donne portatrici di una complessità e di una contraddizione radicale […] Le donne sono portatrici di un tale scardinamento dell’idea, della qualità e del senso del lavoro che non possiamo pensare di affrontare discriminazioni e segregazioni senza cambiare il punto di vista sul quadro generale. Le donne al lavoro ci vanno intere… il di più che portano chiede di ripensare il lavoro per tutti […] Un insieme di denaro, tempo, senso, espressione di sé, relazioni».
Nella vicenda delle operaie di Melfi Clelia Mori ha colto che loro, come tante donne, non hanno mai lottato solo per rivendicare la parità di trattamento e di retribuzione, ma per avere condizioni affinché possano esprimersi come soggetto incarnato e dare voce ai desideri di un corpo femminile diverso dal corpo maschile, e che produce linguaggio e un immaginario differenti. Infatti all’essere donna non corrispondono solamente caratteristiche e cicli fisiologici diversi dagli uomini ma anche sensazioni ed emozioni corporee differenziate e, quindi, un pensiero e un linguaggio costituiti sulla base della consapevolezza della differenza. Come dice Chiara Zamboni: «È interessante che le donne diano molta importanza al corpo. Ora, il corpo è in gran parte inconscio, così che la nostra esperienza del corpo non può essere oggettivata. Il rapporto con il corpo e con il mondo di cui facciamo esperienza prende dunque una qualità altra nell’esperienza delle donne».

(L’Attacco, 10 gennaio 2019)

Francesca Pasini

A Milano, rispettivamente alla Triennale, all’Hangar Bicocca, alla Quarta Vetrina della Libreria delle donne, le artiste Haegue Yang (Seoul, 1971, vive a Berlino), Leonor Antunes (Lisbona, 1972, vive a Berlino), Paola Anziché (Milano 1975, vive a Torino), puntano gli occhi sul costruire e abitare delle donne.

Una coincidenza che mi fa pensare a Ida Farè. Al Politecnico di Milano dalla metà degli anni ’80 ha dato vita al Gruppo Vanda, per “osare pensare la città femmina”. Sono nate tesi di laurea, corsi accademici e un ricchissimo circuito di riflessione sui “modi di abitare la città” da parte delle pioniere e di quelle che studiavano per diventare architette.

Ha portato il suo pensiero nel dibattitto femminista: al circolo Cicip & Ciciap e alla Liberia delle donne di Milano. Qui nel 2013 ha inventato il ciclo di conferenze filosofiche, abbinate a un aperitivo, Cibo dell’anima, Cibo del corpo. Nel 2001 aveva, infatti, creato il Gruppo Estia (l’antica dea del focolare) col quale accompagnava presentazioni, discussioni, incontri, preparando una cena. Una pratica diretta del suo pensiero che situa la cultura materiale all’interno delle relazioni intellettuali, politiche, affettive in accordo e non in contrasto con la cura del quotidiano.

Il suo insegnamento e le sue ricerche sono un’opera d’arte che acquista colori e visioni nella relazione con parole, cibi, pensieri, persone. La collego alle opere di Antunes, Yang, Anziché, inaugurate a Milano un mese dopo la sua morte, avvenuta l’8 agosto scorso.

In un suo libro molto famoso, Mara e le altre, aveva raccolto le esperienze di alcune partecipanti alla lotta armata, intercettando la differenza femminile anche in un territorio così plasmato sull’universo maschile come la presa delle armi.

Voglio intitolare questo scritto, Ida e le altre, per dar conto della sua germinale ricerca sulle donne, l’architettura, l’arte, che come un battito d’ali di una farfalla, a distanza di tempi e luoghi, appare in artiste che non l’hanno incontrata, non conoscono i suoi testi, ma hanno in comune la relazione con le altre.

Leonor Antunes dedica la sua mostra a Franca Helg, fondatrice con il marito Franco del famoso Studio Albini, tant’è che intitola la mostra e alcune opere, Last Days in Galliate, in ricordo della casa costruita da Helg per i genitori, dove è vissuta negli ultimi anni della sua vita.

Antunes s’ispira ad architette, designers, artiste del secolo scorso, di cui elabora particolari di oggetti e progetti, traducendoli in sculture indipendenti che, attraverso la frammentarietà diventano simbolo del ricordo. Molte hanno come titolo il nome stesso della progettista. Franca, è un piccolo insieme di sculture sospese, estrapolate dalle curve della gamba di un tavolino e dai ganci di un appendiabiti, realizzati da Helg nel 1955 e 1959. Ingranditi perdono funzionalità ed entrano in un altro territorio, come avviene con le parole di un romanzo o di una poesia che, spesso, producono altri scritti. Clara è una serie di sculture di legno e corda suggerite dalle sedie che la designer cubana Clara Parset, realizzò negli anni ‘40/’50. All’ingresso, gli elementi modulari in ottone verniciato nero, oro, verde, ocra, bianco, Altered climbing form, 2017-18, sono ispirati Mary Martin, artista del Costruttivismo britannico. Altered knot, 2018, un intreccio sospeso in cuoio e corda, è dedicato ai disegni di Anni Albers della fine degli anni ’40. La scultura Discrepancies with villa Sundin, 2016 è un’inventiva sintesi dell’edificio costruito nel 1956 da Greta Magnussen Grossman, una delle personalità fondatrici dei principi del Modernismo.

Haegue Yang con una barriera di fili di cotone rossi (134,9 m3, 2000/18), tesi a 10 cm di distanza l’uno dall’altro e leggermente declinanti, blocca un angolo di una stanza della Triennale. Sulla parete, altrettante linee tracciate in gesso rosso (81m2, 2002/18) creano un effetto specchio. E’ immediato pensare agli stop che attraversano le diagonali della vita, creando l’illusione di non doverli affrontare. Così Haegue Yang introduce la fluidità imprescindibile delle case, e mi fa venire in mente le innumerevoli variazioni che Ida Farè ha colto spostando lo sguardo dalla staticità dell’architettura, anch’essa ritenuta imprescindibile, al sistema di competenze diverse che si agiscono nella casa. «Nella produzione di un bene ci sono competenze diverse, ma sono poste in un ordine prevedibile, nell’intelligenza domestica, invece, c’è sempre l’imprevisto che può capovolgere l’ordine dei fattori e richiede doti di invenzione e un equilibrio variabile. Mi riporta al bricolage del possibile che i biologi dicono sia seguito dalla natura, che agisce e cresce secondo gli elementi che si trova a disposizione». (Una città, n.53, ottobre ’96).

Con Cittadella (2011), Yang, “camminando sul filo del rasoio”, come dichiara nel titolo della mostra, Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, sposta lo sguardo dall’aspirazione durevole dell’architettura al “bricolage” e costruisce con tende veneziane, un imponente edificio trasparente, pieno di luci e di profumi, in cui si entra e si “abita”. Una straordinaria casa transitoria che normalmente abbiniamo alle civiltà archetipiche, nomadiche, come tende, capanne, tettoie, e anche al comportamento di costruzione quotidiana con mobili di famiglia, oggetti, vestiti, libri. Anche gli odori e i profumi richiamano alle competenze dell’abitare.

Mi viene in mente Anna Achmatova che di fronte a un’opera nuova, diceva: «ero lì, lì, per farlo anch’io». E allora perché non vedere nelle veneziane di Yang quell’architettura personale che ognuno crea con i materiali della propria esistenza? Yang è coreana, ma ha studiato a Francoforte e conosce la difficoltà di integrarsi altrove, l’ha trasferita in un testo (A study on How to make Myself Understood, 2000) mescolando varie lingue, che è risultato indecifrabile, un testimone di quelle spinose mediazioni per conoscere se stessa, che riappaiano nello specchio appeso alla parete dalla parte non specchiante (Mirror Series – Back, 2006). Un buio, un’assenza che non si può evitare e per la quale non ci sono mai case appropriate.

Paola Anziché crea delle sculture intrecciando lana grezza, juta, carta, hanno forma di gusci o di protuberanze organiche, sospese e trapassate dalla luce alludono all’abitare umano, al suo sviluppo verso il cielo, ma anche a quello animale, larvale che pende dagli alberi.(Materiali, 2018).

L’esplicito accenno al lavoro a maglia, alla tessitura, riporta alla “dote d’invenzione domestica”, di cui parla Ida Farè. Se nella cura l’invenzione è destinata a sparire nell’anonimato delle esigenze di vita, nell’arte indica una storia lunga di competenze femminili: dagli arazzi, agli erbari che hanno contribuito da un lato all’arricchimento della casa, dall’altro allo studio delle scienze naturali. Una competenza sprofondata per secoli nella cancellazione delle autrici effettive a favore dell’artista neutro/maschile. Non si tratta solo di un progressivo emergere delle donne nel campo dell’arte, ma di un’originale interazione tra materiali della vita e figure dell’arte.

Le immaginarie architetture di Paola Anziché indagano il bricolage della natura, per trarne spunto per autonome forme e mantenere in equilibrio le esperienze fatte nelle residenze in Azerbaigian, in Brasile e in altri paesi dove ha scoperto i materiali necessari alla sua “tavolozza” ed anche un passe-partout per entrare in contatto con l’amata maestra brasiliana Lygia Clark.

Anzichè ha studiato a Francoforte negli stessi anni di Yan e forse non è un caso che, pur con visioni molto diverse, tutte e due propongano inediti modi di abitare l’architettura.

Non è una deduzione a posteriori, ma un’intuizione che mi fa mettere insieme due eventi: la morte di Ida e la necessità di ricordarla al presente. Il presente, per me, è l’arte e l’innovazione che le artiste, tutte non solo quelle che cito, hanno impresso. Sono esperienze che creano figure per donne e uomini. Anche le case sono abitate da donne e uomini, anche la vita è fatta di donne e uomini. Fino a pochi decenni fa, però, si pensava al costruttore, all’artista, allo scrittore come un neutro maschile. Ora le donne, insegnano, creano, scrivono, costruiscono e tramandano così il loro sentire. In queste mostre si sente un forte un accento di differenza e la decisione di riannodare i fili con quelle che le hanno precedute.

Ida artista immateriale, ha portato fino in fondo l’idea di un’arte che si attua e si vanifica nella relazione: per questo la abbino alle opere di queste artiste.

Mi hanno fatto capire che il lavoro di Ida è una forma d’arte, che altre lo traducono in figura, altre in scrittura, altre lo vivono in presa diretta, anonima. Senza questa presa diretta potremmo capire l’arte? Spesso l’arte crea figure percettive fluide, perché? Per lasciare aperta la porta a chi guarda.

Forse può sembrare romantico dire che la vita è per tutti e per tutte un’opera d’arte, e non è neanche vero. Credo però, che tutti e tutte quelle che hanno scelto, e sceglieranno di indagare se stesse attraverso le relazioni affettive, culturali, politiche e i conflitti che ne derivano, creano opere cruciali per l’esistenza. A volte prendono la forma visibile dell’arte, a volte appartengono al bagaglio interno e la loro visibilità non è materiale, ma percettiva, si realizza solo nello scambio tra sé e l’altro/a. Senza osservatori, osservatrici, lettori e lettrici non ci sarebbe questa trasmissione che distingue l’opera di uomini e donne, dalla creatività naturale di piante e animali. Noi riconosciamo la nostra immagine attraverso le opere che compiamo, gli animali, le piante non sembra, almeno così si dice.

La vita di Ida dopo la morte del figlio è stata una quotidiana creazione dentro di sé, nascosta alla visione, (come lo specchio di Yang) ma espressa nel progetto di una cucina reale e simbolica, che teneva insieme attività culturale, politica e quotidianità. E la quotidianità è spesso invisibile. Lei non si mostrava, ma accompagnava le sue cene con bellissimi menù scritti a mano. L’arte ha la capacità di rendere visibile la quotidianità attraverso immagini e parole, Ida l’ha fatto con il nutrimento di tutte e tutti coloro che venivano in Libreria per parlare di libri, di politica, di arte. Un gesto molto radicale che dà valore allo scambio culturale anche quando succede nel privato o in chi non è addetto ai lavori. Il cibo, in chi lo cucina e chi lo mangia, produce piacere e conoscenza in quanto relazione essenziale alla vita. Valga per tutti Il pranzo di Babette di Karen Blixen.

All’inizio quando dico che volevo intitolare questo scritto Ida e le altre, pensavo al suo libro e a una coincidenza specifica, le tre mostre oggi presenti a Milano, ma le altre sono ovunque.

Come scrive Lia Cigarini (Sottosopra, settembre 2018). «Dopo mezzo secolo di lavoro politico sia pratico che teorico, il movimento Me Too è arrivato a rompere il contratto tra uomini per regolare il loro accesso sessuale alle donne. A me non pare un tempo così lungo, se si tiene conto che le donne disposte a parlare, superando fastidi anche gravi e paure interne, hanno dovuto acquisire credibilità e autorità per essere ascoltate. Nel caso del Me Too è stata vinta finalmente la battaglia della narrazione femminile su quella maschile, battaglia che può fare da spartiacque nella storia del femminismo».

Le altre, tutte, che le conosca personalmente o no, mi fanno leggere l’arte come un territorio dove intercettare relazioni con donne e uomini, e non con un artista neutro/maschile. Anche questo è stato un sopruso che, per secoli, ha impedito alle donne di scrivere, dipingere liberamente, ritenendolo un’irrilevante stranezza, destinata a sparire col tempo. E invece no. Le opere delle donne hanno resistito. Dal baule di Emily Dickinson a quelle di tante altre, continuano a ripresentarsi nell’arte, nella scienza, nella letteratura, nella filosofia. Perché, come scrive Rebecca Solnit (Gli uomini mi spiegano le cose – Ponte alle Grazie, 2018), «Esiste una controcritica che cerca di ampliare l’opera d’arte, creando legami, spalancando significati, aprendo possibilità. Una bella critica può liberare un’opera d’arte che così potrà essere vista nella sua interezza, restare viva, intrattenere un dialogo senza fine che continui a nutrire l’immaginazione».

Questo nutrimento l’ho avuto anche dall’opera d’arte immateriale di Ida Farè, che mi ha fatto immaginare imprevedibili modi di abitare, smarrirsi, riemergere giocando le competenze della cura insieme all’intuizione teorica.

Haegue Yang, Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, a cura di Bruna Roccasalva

Fondazione Furla e Triennale Milano, 7 settembre – 4 novembre 2018

Leonor Antunes, the last days in Galliate, a cura di Roberta Tenconi

Hangar Bicocca, Milano 14 settembre – 13 gennaio

Paola Anziché, Materiali, a cura di Quarta Vetrina

Libreria delle donne di Milano, 12 settembre – 5 ottobre 2018

Nel segno (astratto) della Regina. Carla Accardi, tra Brescia e Milano

Galleria Massimo Minini Inaugurazione sabato 22 settembre 2018

Via Apollonio 68 – 25128 Brescia

Galleria Francesca Minini Inaugurazione martedì 18 settembre 2018

Via Massimiano 25 – 20134 Milano

Due sedi, due mostre, una grande antologica. Massimo Minini, direttore e fondatore della Galleria omonima, nelle parole qui sopra, presenta il suo ultimo progetto in collaborazione con Francesca, sua figlia e (soprattutto) gallerista, da anni sulla cresta dell’onda per tutto quanto concerne il contemporaneo. Un double solo show tra Brescia, sede della storica galleria, e Milano, sede (zona Lambrate, segnaliamo l’opening collettivo di quasi tutte le gallerie del distretto martedì 18 dalle 18) della galleria di Francesca. Al centro: la ricerca di Carla Accardi (1924-2014). Un’indagine fra diverse tipologie di lavori: dalle tele alle opere su tavola, dai ‘sicofoil’ alle installazioni più complesse, dalle sculture agli oggetti che proseguono la sua ricerca segnica come le lampade da terra. 

L’obiettivo dell’iniziativa è raccontare l’artista partendo dalla sua persona, gentile ma non timida e capace di difendere le sue posizioni – come quella di lasciare Trapani per Roma, avendo compreso che nella capitale il suo lavoro avrebbe potuto svilupparsi meglio- sino ad arrivare alla sua pittura, simbolo di un’epoca, ponte di collegamento tra la sua generazione e le successive, punto di un’unione tra il primo dopoguerra e l’arte povera e concettuale, un mondo che ha accolto il suo lavoro con grande rispetto ed attenzione.

di Andrea Rossetti

 

Donne, uomini e società, ménage à trois che affrontiamo con una colonna portante della Libreria delle donne di Milano: Francesca Pasini.

Potremmo spendere parole su parole per tracciare l’identikit della Libreria delle donne di Milano, la cosa che ci pare migliore però è stralciare direttamente un brano – breve quanto indicativo – dalla presentazione che tutti potete leggere sul suo sito internet: «È un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia». Situata al civico 29 in via Pietro Calvi, La Libreria delle Donne è nata a metà dei ’70, a cavallo degli anni di piombo, in un’Italia incandescente che marciava sulla scia del Sessantotto, facendo lo slalom tra proteste studentesche, lotte politiche, sequestri, stragismo – con la non distante Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a fare da apripista – e attentati ad personam mirati a destabilizzare il potere statale. Questo decennio “esteso”, compreso tra la fine dei Sessanta ai primissimi Ottanta, ha concimato e potenziato la rapida affermazione movimenti icona come il Femminismo, la cui ideologia per la Libreria è stata una sorta di condicio sine qua non.

Oggi, dopo quaranta e passa anni dalla sua fondazione, alla Libreria delle donne si sono toccati tutti i registri del pensiero femminile, compreso quello legato alle arti visive grazie l’istituzione nel 2001 della “Quarta Vetrina”, ciclo di mostre/incontri che raccontano l’arte attraverso le donne e viceversa. Da tre anni a questa parte la Vetrina più contemporanea di Via Calvi è passata sotto la curatela di Francesca Pasini. Con lei ci siamo confrontati sul presente di una realtà dal passato così ingombrante.

La libreria è nata nel 1975, in un periodo di femminismo ai massimi livelli, con referendum che sono stati capisaldi del movimento ed una “lotta all’emancipazione” che latente s’infiltrava un po’ ovunque, persino nel panorama musicale dell’epoca. Alla sua base esistevano motivazioni dettate da un oggettivo disavanzo uomo/donna, ricordiamoci che fino al 1981 in Italia vigeva il delitto d’onore, così come il matrimonio riparatore in caso di violenza. Dopo quarantatre anni sono cambiate molte cose, qual è il suo ruolo oggi e come si è adattato alla società contemporanea, dato che si tratta di un ambiente dal background così ideologicamente radicato ed evocativo?

«Non sono tanto d’accordo, nel senso che il primo femminismo quello degli anni ’70, che adesso si chiama delle origini, ha fatto una battaglia frontale contro dei soprusi e delle dominazioni del patriarcato. Indipendentemente dal delitto d’onore, che era orribile, ma tanto adesso c’è lo stesso».

C’è lo stesso, ma all’epoca era “legalizzato”, era un tipo di omicidio per cui il codice penale prevedeva attenuanti specifiche.

«Però quella era solo una ciliegina sulla torta, è stata una grande ribellione delle donne in tutto il mondo. Diciamo che la cosa che sposta il punto di vista, oltre alle battaglie sociali, politiche eccetera, è stata l’idea dell’autocoscienza. Da lì nasce, e poi si moltiplica, quella che è stata una delle prime forme di espressione delle donne, che dicono faccio l’autocoscienza per capire chi sono come sono in relazione ad altre donne, ed anche per capire come reagire. Da lì sono nate tantissime e importantissime posizioni che avevano di fronte un patriarcato ancora molto forte. Quindi era una battaglia frontale che ha prodotto grandi innovazioni. Oggi possiamo dire che la libertà delle donne non ci sarebbe se non ci fosse stato il femminismo. Il passo successivo è individuare nella differenza uomo/donna ciò che dobbiamo affrontare. Quindi non nell’unità, non nella parità, questa è stata una delle battaglie che hanno portato avanti in tanti luoghi del femminismo, e con più costanza alla libreria delle Donne di Milano. La grande svolta è perciò l’autocoscienza, la conoscenza della differenza sessuale, cioè che tutti gli esseri sono sessuati, come aveva detto anche Irigaray in “Etica della differenza sessuale”. A partire da questo si deve riconoscere l’idea che ognuno di noi è portatore di una differenza. Il problema non è unificarla ma metterla in dialogo, e questo è ancora un grande percorso, anche se nel frattempo sono state fatte moltissime cose. La presenza delle donne a tutti i livelli è una cosa degli ultimi anni».

Quindi quello della Libreria è un percorso radicato, ma che continua, è ancora un work in progress.

«Si, e non solo nella Libreria delle Donne di Milano, ma nei femminismi di tutto il mondo. La forza della Libreria è stata inventare la Libreria, nata dai gruppi di autocoscienza che decidono di leggere opere di donne, fino alla fondazione per opera, tra i tanti, di Luisa Muraro, Lia Cigarini, Corrado Levi. Ed anche di un gruppo di artiste, tra cui Carla Accardi, Dadamaino, Valentina Berardinone e Tomaso Binga, che hanno regalato delle immagini per fare una cartella grafica e che è stata una delle fonti di sostentamento. Nasce quindi un legame tra l’arte visiva, che pure in Italia ha partecipato meno direttamente alla nascita ed allo sviluppo del femminismo. Questo nonostante Carla Lonzi, una delle fondatrici del femminismo in Italia, che però decide di interrompere il suo lavoro nell’arte per fare rivolta femminile, da cui nascono i suoi testi famosissimi. Diciamo che in Italia il rapporto diretto, culturale e politico, col movimento femminista per quanto riguarda l’arte visiva femminista è arrivato dopo, prima sono arrivate le scrittrici».

L’arte visiva appunto. E Corrado Levi. La Quarta Vetrina dedicata all’arte è nata nel 2001 su sua proposta, fatto piuttosto emblematico in un contesto smaccatamente al femminile. Non è un po’ come se la donna anche in questo caso fosse nata dalla costola di un “Adamo”?

«No. La libreria delle donne è stata sempre aperta agli uomini, lo è tutt’ora, e comunque Corrado Levi è una personalità che è stata sempre a fianco del femminismo, anche per la sua grande capacità di dichiarare il suo comportamento affettivo pubblicamente, quindi in questo prova anche delle relazioni con la Libreria, e che ha sempre mantenuto. E non è tanto per la sua omosessualità, ma per la particolarità di uomo che ha dato sempre molta attenzione alle differenze, alle diversità».

Quindi non per te fa differenza che all’origine della Vetrina ci sia stato un uomo?

«Anzi secondo me dimostra come ci si possa incontrare tra le reciproche differenze, Corrado ne è proprio un esempio».

Una vetrina mette in mostra, in questo caso arte contemporanea. E una regola base del marketing vuole che il prodotto al suo interno sia accattivante, per cercare di catturare l’attenzione di un pubblico sempre più ampio, altre ai soliti “aficionados”. Mi sposto quindi sul capitolo nuove generazioni: come lavori per far convergere sulla doppia questione artistico/femminile un pubblico più vasto, giovane e social? Ci pensi ad una sopravvivenza futura della Libreria e quindi della Vetrina?

«La sopravvivenza della Libreria non è assolutamente in dubbio. La cosa bella è che sì, metti una cosa in vetrina e quindi chiunque passa sulla strada la vede, però nel giorno dell’inaugurazione c’è un dialogo tra me l’artista e il pubblico. E mentre, come capita spesso in Italia, quando fai una conferenza e chiedi se ci sono delle domande non ce ne sono mai, lì invece c’è un dialogo fantastico. In più senti persone che si avvicinano all’arte partendo anche da conoscenze molto diverse, ci sono politiche come Lia Cigarini, filosofe e scienziate, letterate, scrittrici. Quindi c’è un pubblico che è allenato a questa discussione, perché per ogni cosa che si fa in Libreria c’è sempre questo dialogo, e questo naturalmente crea una partecipazione più attenta, più attiva. E poi perché per ti trovi esser lì un’ora, un’ora e mezza, a dialogare avendo di fronte un’opera e parli di quella; parli e fai domande sia all’artista che a me, e questa è una cosa molto interessante, anche perché sentire parlare un artista lì, dentro un grande circuito di domande, diventa molto intenso».

Ed effettivamente in questo contesto i giovani quindi partecipano, hanno una loro rappresentanza?

«Sì, in Libreria c’è sempre stato un turnover di generazioni».

Domanda da uomo: parlare di “femminile” in molti campi, incluso quello dell’arte contemporanea, non è una auto-ghettizzazione in termini?

«No, più che altro è sbagliato, perché non c’è una cosa femminile, ci sono delle donne che si esprimono in un modo piuttosto che in un altro, così come gli uomini. Non c’è un’arte maschile».

Ma la differenza tra l’arte contemporanea fatta da una donna e fatta da un uomo c’è? Esiste realmente?

«Penso che per forza ci sia soprattutto se tu decidi di ricordarti che hai di fronte quell’opera lì che è fatta da una donna. Potrebbe anche averla fatta un uomo, è che probabilmente dentro quella figura – e per figura intendo in senso lato – c’è qualcosa che rimanda a questa differenza. Penso sia bello anche perché questo ti spinge anche a guardare dentro lavoro di un uomo per capire la sua posizione, anche di vita. Mi piace pensare che Mario Merz nei suoi Igloo abbia la forza dell’Homo faber, che è parte della nostra cultura; Marisa Merz, pur dentro l’Arte Povera, quando fa a maglia le scarpette di Beatrice e le mette sulla spiaggia è evidente che ti rimanda ad una relazione materna. Una differenza è giusto che ci sia, ed è normale».

Quanto vale a tuo avviso il concetto settoriale di “comunità”, visto che la libreria di fondo è una comunità di donne, e quanto invece l’essere umano, nel caso particolare l’artista, dovrebbe svincolarsi ed essere svincolato dall’appartenere ad uno specifico genere e/o orientamento sessuale? 

«Ognuno in base alla facoltà di avere un rapporto con se stesso avrà anche un rapporto con l’altro o con l’altra. Credo che l’arte su questo dia tutta la libertà possibile, sapendo che ormai siamo in una condizione in cui è importante che anche un uomo racconti della sua coscienza maschile di uomo, e non solo di artista, superando la contraddizione primaria che è quella uomo/donna. Contraddizione che in realtà è una condizione, in cui magari ci occorreranno ancora secoli per cambiare radicalmente, però oggi come oggi vedo che c’è questa grande apertura, grande libertà, poi sta ad ognuno accoglierla. Intanto le mostre di artiste donne sono tantissime, hanno un successo equiparabile a quello degli uomini, quindi questa difficoltà sta scemando. Sta anche a noi vedere in questo delle cose normali, come è normale che una donna faccia il medico, piuttosto che l’artista o vada nello spazio».

Torno a parlare di uomini, che ovviamente non sono esclusi dagli incontri. Ma che in alcuni casi, dato il tenore dei temi dibattuti, paiono giocare un ruolo che va dall’outsider all’essere “pietra dello scandalo”, dovendosi muovere in una specie campo minato. Qual è il loro rapporto in generale con la Libreria e in particolare con l’attività della Vetrina?

«Naturalmente gli uomini che partecipano anche attivamente ai progetti della libreria sono già uomini che hanno la curiosità rispetto a capire come costruire, come entrare in un’idea di coscienza di sé, di trovare se stessi eccetera. È che magari sono molto incuriositi dal sentire che cosa dicono le donne con le quali discutono, quindi diciamo che è un luogo che viene scelto anche in base alle personalità che arrivano. Io vedo che ad esempio alle vetrine vengono tantissimi artisti uomini, collezionisti: il pubblico è più o meno quello che troviamo alle mostre. Sempre tenuto conto che svariate indagini sociologiche dicono che le donne hanno una partecipazione molto attiva a tutte le espressioni culturali; proporzionalmente ci sono più donne alle mostre o che leggono libri in assoluto, non solo di donne, come non è che le donne vanno solo alle mostre delle donne. Nella cultura le donne non sono più un’eccezione, ma questo non significa che siamo arrivati alla parità che molto spesso viene richiesta come la grande svolta; il problema non è la parità, ma che diritti vengano distribuiti in maniera equa tra uomini e donne. Questa è una grande battaglia che si sta facendo e che in parte è molto migliorata. Il problema è sempre quello di riconoscersi nella propria reciproca differenza, all’interno della quale le scelte affettive sono dei singoli e delle singole. Se no si rischia di dire che è tutto pacificato solo perché adesso siamo più liberali rispetto agli omosessuali, cosa che non era tempi di Oscar Wilde. Bisogna rispettare le scelte, che fortunatamente non sono più un marchio della società, e inevitabilmente riverberano punti di domanda anche in quelli che hanno fatto altre scelte. E da questo punto di vista la libreria è una comunità che aiuta a confrontarti, dove confronti il tuo pensiero».

Quindi gli uomini si sentono parte del gruppo. 

«Sì, perché c’è la curiosità di un confronto».

Secondo te la lotta tra sessi come c’era una volta esiste ancora, oppure è diventata solo qualcosa di pretestuoso?

«Secondo me si è modificata. C’è ancora ovviamente, e questo ce lo ricordano il numero esponenziale dei femminicidi. Diciamo che la libertà attuale raggiunta dalle donne, dove tutte lavorano, e anche all’interno della rottura della staticità dal rapporto familiare, cioè che ti sposi una volta e poi mai più come succedeva fino al ’74, fa sì che poi qualche donna dica di no. Ma gli uomini non sono ancora così diciamo profondamente allenati ad accettare un no da una donna. Credo che molte di queste reazioni esagerate provengano da questo, sono troppe, sono troppo frequenti, non sono l’eccezionalità che può succedere in una situazione di grave aggressività. Succedono quasi tutte dentro storie matrimoniali, dentro rapporti affettivi consolidati. In libreria quelli e quelle che vengono possono confrontarsi anche su questo, sul conflitto relazionale piuttosto che sul conflitto frontale, perché lì questo succede. Quindi da questo punto di vista c’è un confronto che vale per tutti, che può aiutare a entrare nel comportamento del singolo e della singola. Però per quanto riguarda il conflitto tra i sessi che dicevi tu mi sento di dire che si è modificato, e che c’è una resistenza fortissima legata alla libertà e all’autonomia delle donne, che non è ancora una base fondante della società. Perché ancora non si ragiona sul fatto che siamo che apparteniamo tutti alla stessa specie, ma che abbiamo connotazioni fisiche e psicologiche diverse. Se ci riconosciamo come differenza tra uomini e donne, invece che come contrapposizione, allora qualcosa cambierà, ma naturalmente non è un cambiamento che succede così rapidamente. Certo la libertà delle donne, il cambiamento sociale, il divorzio, l’aborto, sono state tutte cose che hanno minato profondamente il patriarcato, che è più debole oggi, non ha più la forza di tempo. Però i cambiamenti profondi avvengono nel profondo, quindi dobbiamo forse essere un po’ aperti a vedere che cosa succede, però sicuramente è molto cambiato».

Mi hai descritto un contesto molto libero ed aperto. Arrivo quindi con una stoccata: una Vetrina dedicata ad un uomo come la vedresti? 

«Penso che per adesso non sia così urgente. Si potrà fare, si farà, ma in questo momento diventa come attraente e simbolico vedere dalla strada l’opera di una donna.  Anche la bellissima opera di un uomo mi piacerebbe, però nell’ambito di questo confronto continuo tra culture e differenze è evidente che è più forte far vedere l’opera di una donna, nel senso che anche più comprensibile».

Quindi diciamo che in vetrina le donne funzionano di più, anche se un uomo non lo escludi a priori

«Non lo escludo, penso che anche per un uomo sarebbe una bellissima chance. Questa Vetrina non è uno spazio agibile solo dalle donne, è agibile dall’arte».

Beh, mettere un uomo in vetrina alla Libreria delle Donne sarebbe una bella provocazione, più che altro per far trasparire all’esterno il dialogo che esiste al suo interno

«Sì, ma l’uomo in vetrina è stato da migliaia di anni, adesso può aspettare un po’, soprattutto nell’arte».

Curioso, l’uomo sarà pure stato più sovraesposto, ma non era la donna quella che stava in vetrina, la classica “donna oggetto”? Alla fine anche in questo controsenso c’è un ennesimo gioco tra sessi

«Sì, certo, ma che in questo caso viene sfatato perché nelle vetrine della Libreria ci sono libri ed opere d’arte. Libri di donne ed opere d’arte di donne. Quindi quest’idea del mettere in vetrina, che era un aspetto un po’ “sessista” e usato come modo di dire, viene smitizzata con semplicità».

 

(www.exibart.com, 29 agosto 2018)

dal 20 settembre 2018 al 24 febbraio 2019

Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano

Museo del Novecento

Piazza del Duomo di Milano

 

Il Museo del Novecento di Milano e il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rove- reto, inaugurano nell’autunno del 2018 un importante progetto espositivo dedicato a Margherita Sarfatti. Scrit- trice, giornalista, critica d’arte e promotrice della cultura italiana, è stata una delle maggiori figure di spicco della storia del XX secolo. A Milano e Rovereto le due grandi mostre, autonome e complementari, sono accompagnate dalla produzione di un ricco catalogo edito da Electa. La mostra nella sede milanese del Museo del Novecento, promossa e prodotta con il Comune di Milano | Cultura e con Electa, è a cura di Anna Maria Montaldo e Danka Giacon con la collaborazione di Antonello Negri ed è allestita con la regia dello Studio Mario Bellini Architects. Il percorso espositivo ha un carattere immersivo: il visitatore viene invitato a seguire un racconto che parte dalle vicende private e pubbliche di Margherita, attraverso 90 opere circa dei protagonisti del movimento artistico Novecento Italiano, di cui la Sarfatti è l’anima critica. Dipinti e sculture di 40 artisti tra cui Boccioni, Borra, Bucci, de Chirico, Dudreville, Funi, Malerba, Sironi e Wildt vengono contestualizzati da filmati e fotografie, lettere, inviti ai vernissage, libri d’epoca, e anche abiti, vetri e arredi, con un approfondimento da più prospettive sulla Milano degli anni Dieci e Venti nel XX secolo. La mostra prodotta dal Mart di Rovereto è un progetto di Daniela Ferrari con il supporto di Ilaria Cimonetti e dei ricercatori dell’Archivio del ’900 del Mart, nel quale è conservato il prezioso Fondo Sarfatti. L’esposizione illustra l’ambizioso programma di espansione culturale di Margherita Sarfatti, con parti- colare attenzione alle mostre organizzate in Europa e nelle Americhe per promuovere lo stile italiano e l’idea di “moderna classicità”. Dagli esordi giovanili alla fondazione di Novecento Italiano, il percorso al Mart documenta l’attività artistica, politica e intellettuale di Sarfatti. Numerose opere provenienti da grandi musei internazionali e da importanti collezioni private dialogano con documenti e materiali d’archivio: circa 100 capolavori di 30 grandi maestri come Boccioni, Bucci, Casorati, Carrà, de Chirico, Dudreville, Funi, Marussig, Malerba, Morandi, Oppi, Medardo Rosso, Sironi, Severini, Wildt.

La donna che per vent’anni ha finanziato le artiste

Dal 1996 Susan Unterberg ha donato milioni di dollari rimanendo anonima: ora si è fatta avanti per parlare delle discriminazioni di genere nell’arte

Per oltre vent’anni, centinaia di artiste con più di 40 anni sono state sostenute economicamente da un progetto intitolato “Anonymous Was a Woman”: per tutta la durata del progetto non è mai stata nota l’identità della persona che lo aveva fondato e che stava dietro alle sovvenzioni. Fino a questo momento: si chiama Susan Unterberg, è a sua volta un’artista, ha 77 anni e vive a New York. In una recente intervista al New York Times, Unterberg ha spiegato di aver deciso di farsi avanti per dare maggiore forza alle questioni che hanno a che fare con la disuguaglianza di genere nel mondo dell’arte, sottolineando la necessità che le donne sostengano altre donne, e cercando di ispirare altri a fare come lei.

Il nome del progetto, “Anonymous Was a Woman”, è un riferimento al fatto che molte artiste fin dall’Ottocento abbiano scelto di non firmare il loro lavoro con il proprio nome (o abbiano scelto di usarne uno da uomo) per non essere penalizzate dal loro genere. Ci sono dei casi molto famosi: Anne Cécile Desclos (1907-1998), autrice, giornalista e traduttrice, usò per tutta la vita il nome Dominique Aury (che in francese può essere sia maschile che femminile), dopo averlo scelto negli anni Trenta; nel 1994 rivelò di essere anche la vera Pauline Réage, l’autrice del romanzo erotico Histoire d’O, che per anni era stato attribuito ad autori uomini. I romanzi di Jane Austen – autrice, tra gli altri, di Orgoglio e pregiudizio ed Emma – furono pubblicati in forma anonima dal 1811 fino al 1817, l’anno in cui morì. Usarono pseudonimi maschili anche le sorelle Brontë: nel 1847 Charlotte, Emily e Anne pubblicarono i loro primi romanzi (Jane Eyre, Cime tempestose e Agnes Grey, rispettivamente) con i nomi Currer, Ellis e Acton Bell, che conservavano le iniziali dei loro veri nomi. “Anonymous Was a Woman” è anche un riferimento a Virginia Woolf e al suo saggio più conosciuto, Una stanza tutta per sé, sulla subalternità delle donne e sulla difficoltà di essere delle scrittrici in un mondo in cui le cui convenzioni riducevano la donna al ruolo di madre, sorella o figlia.

“Anonymous Was a Woman” è stato avviato nel 1996, quando il National Endowment for the Arts (un’agenzia federale statunitense che offre supporto e fondi al mondo dell’arte) decise di interrompere il finanziamento ai singoli artisti. Susan Unterberg e sua sorella Jill Roberts decisero di utilizzare l’eredità del padre, filantropo e magnate del petrolio, per aiutare le artiste donne. Susan Unterberg è a sua volta un’artista: alcune delle sue opere fanno parte delle collezioni di musei molto importanti (il Metropolitan Museum of Art, il Museum of Modern Art e il Jewish Museum, per esempio). Ha raccontato che durante la sua carriera ha vissuto in prima persona gli ostacoli che incontrano le artiste, alle quali non viene dedicata la stessa attenzione nelle esposizioni e nelle collezioni dei musei, e che sono trattate in modo differente anche sul mercato.

Le statistiche citate dal National Museum of Women in the Arts dicono che le artiste guadagnano 81 centesimi per ogni dollaro guadagnano dai loro colleghi maschi, che il loro lavoro è rappresentato in percentuali bassissime (che vanno dal 3 al 5) nelle principali collezioni permanenti dei musei negli Stati Uniti e in Europa, e che solo il 27 per cento delle 590 mostre personali organizzate nei maggiori musei americani tra il 2007 e il 2013 erano dedicate ad artiste donne. «Le donne continuano a essere seriamente sottovalutate. Il loro lavoro non è preso sul serio, e gli uomini stanno ancora dettando le regole del gioco. Gli uomini al potere sostengono gli uomini al potere e vogliono vedere gli uomini al potere», ha spiegato Unterberg. Qualche giorno fa è stata annunciata con grande enfasi una nuova acquisizione della National Gallery di Londra, che ha comprato una tela di Artemisia Gentileschi, Autoritratto come Santa Caterina d’Alessandria: è stata la prima acquisizione di un’opera dipinta da una donna del museo negli ultimi 27 anni.

In 22 anni “Anonymous Was a Woman” ha finanziato economicamente 220 artiste con 5,5 milioni di dollari in totale, suddivisi in borse di studio da 25 mila dollari che vengono assegnate a chi ha più di 40 anni ed è nella fase intermedia della propria carriera. La selezione tiene conto dei lavori passati e dei progetti futuri, e viene fatta da un comitato composto da cinque donne, anonime anche loro.

Tra le vincitrici della borsa di studio ci sono state Louise Lawler, Tania Bruguera, Carolee Schneemann, Mickalene Thomas e, nel 2017, anche Amy Sherald, un’artista afroamericana che realizza opere impegnate politicamente e che è stata scelta per dipingere il ritratto ufficiale dell’ex First Lady Michelle Obama. «È arrivato giusto in tempo», ha detto Sherald: «Quando ho preso l’assegno, ero in un momento in cui non potevo nemmeno pagare l’affitto».

I vantaggi per le artiste non sono stati solo economici ma anche psicologici: “Anonymous Was a Woman” ha insomma rappresentato per le vincitrici un riconoscimento dei successi passati e ha dato a molte di loro un forte senso di fiducia nella loro capacità. Unterberg ha detto che questo è un grande momento per le donne che decidono di parlare della loro condizione, e che oggi sente di poter aiutare di più uscendo dall’anonimato. Pensa che parlare con la sua voce possa contribuire a vivacizzare il dibattito sul sessismo nell’arte, e stimolare altri filantropi a fare come lei. «Dato che ero un’artista di mezza età e ho sempre voluto sostenere le donne – sono una femminista – questo mi è sembrato il modo perfetto», ha detto.

Ci sono artiste che lavorano con le loro opere, in modo più o meno esplicito, proprio sulla differenza di genere nell’arte, ma dopo la diffusione dei movimenti femministi anche attraverso il #MeToo e Time’s Up la questione ha cominciato a essere discussa pubblicamente anche tra curatori e direttori dei musei. Helen Molesworth, curatrice del Museum of Contemporary Art di Los Angeles, ha detto di recente che «l’unico modo per favorire la diversità è contribuire a crearla» e che «se fossimo equi, molti meno uomini andrebbero in mostra». Ha anche inviato una lettera per dare inizio a una sorta di “Time’s Up for Museums” e la National Gallery di Londra è tra le istituzioni che l’hanno ricevuta.

Accompagna l’installazione una serie di 16 disegni dell’artista

Segue la cena della Cucina di Estia (la conferma è gradita)

Imbattersi in un corpus di opere mai viste è la scoperta “romantica”, che punteggia la storia dell’arte. A me è successo con Angela Passarello, poeta riconosciuta e stimata. Nella sua piccola casa di Milano ho visto sculture in ceramica, dipinti, disegni, originalissimi e di sofisticata qualità, finora segreti.

Angela Passarello ha sempre dipinto, scolpito, disegnato, ma ha dato precedenza alla parola. Tuttavia, come lei stessa dice: “Quando non riesco a scrivere, dipingo, e quando inizio resto lì, finché non finisco”. Sono quadri grandissimi in cui la narrazione evoca i suoi testi poetici, ma è autonoma, o meglio affine.

Per la Quarta Vetrina ha dipinto, fronte retro, un quadro di cinque metri che occupa tutta la parete coinvolgendo anche la vetrina successiva.

S’intitola Rupe Affine e narra la sua storia, l’amata Rupe Atenea, sopra Agrigento, dove è nata. Dove ha conosciuto il complesso rapporto con gli animali domestici, con il mare che si dilata al centro del quadro, collegando la rupe incrostata di animali a un lembo di architettura urbana, lontana.

I suoi animali sono compagni di pianeta che passano dalla strada, dalla stalla, dall’aria alla mitografia, alla fiaba. La sua grande passione per il terrestre si snoda nell’affinità aperta dei viventi. L’intensità della memoria arcaica si sovrappone all’intuizione quotidiana, alle figure, ai colori, ai libri esposti e ai suoi scritti poetici. Un equilibrio difficile, a cui, a volte, basta un segno, un colore.

Sabato 9 giugno ore 21,30
Chiesa San Francesco a NoliMarina Ballo Charmet Le ore blu – installazione

Marta dell’Angelo Collage Vivant – installazione con Francesca Pasini – dialogo // talk

DIALOGHI D’ARTE 2018,
3° festival d’arte contemporanea:
venerdì, sabato e domenica a NOLI

Venerdì 8 giugno, alle 12.00, apre la terza edizione del festival: tre giorni intensi di dialoghi, installazioni, performance, per interrogarsi sul rapporto tra arte e spettatore. Un’occasione imperdibile per apprezzare in modo diverso il piccolo borgo ligure di Noli, tra antiche torri, piccole piazze e il mare.

Guarda chi dialogherà con noi. Ecco il programma completo – clicca qui

Vi aspettiamo!

Marina Ballo Charmet in Le ore blu lavora sul passaggio dalla notte all’alba. Il buio iniziale è interrotto da minimi bagliori: è il riflesso delle onde che si accavallano. È l’enigma della luce che esiste anche quando è buio. Lo sciabordio della laguna si arricchisce di rumori, fino al canto dei gabbiani, che annunciano il sorgere del sole. L’acqua raggiunge “la luce blu”, cioè il punto di intersezione tra la notte e l’alba. È un colore transitorio che si vede solo in quel momento.

Marta Dell’Angelo in Collage Vivant sospende con un filo di nylon all’interno della Chiesa di San Francesco le sagome dipinte delle braccia di persone diverse. Il movimento dell’aria imprime loro continui spostamenti: si sfiorano, si abbracciano, si sovrappongono, diventano vivi in quanto non essendo separabili dallo sguardo di chi li osserva, entrano nella sincronicità tra gesto e mente, che ci provoca nel capire chi abbiamo davanti

di Francesca Maffioli

GRISELDA POLLOCK. Un’intervista con la storica e specialista di studi femministi postcoloniali

Nella misura in cui la storia dell’arte può essere definita un discorso egemonico, è necessario riflettere da una prospettiva femminista. Griselda Pollock, nata in Sudafrica nel 1949 (poi trasferitasi in Inghilterra), è una teorica e critica d’arte nonché specialista di studi femministi internazionali postcoloniali nelle arti visive, insegna Storia dell’arte e Studi culturali all’università di Leeds ed è autrice di numerosi testi non ancora tradotti in italiano: Old Mistresses, Women, Art and Ideology (1981), Differencing the Canon: Feminism and the Histories of Art (’99), After-effects/After-images: Trauma and aesthetic transformation in the Virtual Feminist Museum (2013) e il recente Charlotte Salomon and the Theatre of Memory (2018).

Per Pollock, il femminismo è già postulato come differenza, come qualcosa di estraneo ed esterno alla storia dell’arte, contraddicendo la sua inevitabile logica. L’abbiamo incontrata nel contesto del seminario interuniversitario organizzato da Nadia Setti nella sede del Cnrs di Parigi, in partenariato con Legs, Gradiva e Sil.

Come si situa la differenza sessuale nella pratica estetica?

Nel linguaggio comune, la differenza sessuale può significare la differenza tra i sessi. Poi c’è l’idea di una differenza sessuale come condizione psicologica o psico-linguistica, che deriva dalla formazione della soggettività e non dalla morfologia dei corpi. È associata alle teorie psicoanalitiche riguardo la formazione della soggettività (maschile e femminile). Poi c’è una terza posizione femminista in cui una differenza sessuale, cioè legata alla mascolinità e alla femminilità, è derivata anche dai modi in cui concepiamo l’immaginario corporeo.

Quest’ultima presuppone che il femminile non sia definito semplicemente come il negativo del maschile fallico. Le pratiche artistiche si riferiscono alla comprensione storica e culturale dell’arte e della sua ricezione: consentono di focalizzarsi su una dimensione che attiva l’estetica, cioè gli elementi subliminali e sub simbolici di ritmo, movimento, respiro, suono, colore, tatto, sensazione. Questa consapevolezza è resa possibile dagli sviluppi nell’arte del XX secolo che si sono concentrati non solo sugli aspetti formali, ma anche sulla materialità e i processi (gesto, colore o spazio).

Se tutta l’arte può essere affrontata attraverso la lente dell’attenzione modernista alla forma, alla materialità e al processo, è stata proprio l’opera d’arte modernista che ha lasciato in eredità questo livello di sensibilità a tutta l’arte successiva. L’analisi femminista attinge alla consapevolezza necessaria all’indagine di tracce delle differenze sessuali che non sappiamo come riconoscere. Imparare a «leggere» tale differenza richiede la sintonizzazione alla possibilità stessa che la soggettività e persino i nostri immaginari psicocorporei non siano ciò che ci è stato insegnato dalla cultura patriarcale e dal pensiero fallocentrico.

Nella storia dell’arte occidentale le donne sono state oggetto dello sguardo maschile, oppure hanno occupato la posizione di spettatrici. Come considera queste due prospettive?

La teoria dello «sguardo erotizzato» nasce dallo studio del cinema come apparato che colloca uno spettatore presunto in una posizione simile a quella del voyeur. Il cinema «mascolinizza» psicologicamente la «spettatorialità» cinematografica, a prescindere dal sesso o dalla sessualità della persona reale seduta in platea. Il campo visivo viene organizzato secondo certe fantasie di dominio, possesso o punizione, razzializzate e sessualizzate e connotate secondo il genere. Quando questa teoria cinematografica è stata presa in prestito dalla storia dell’arte, abbiamo imparato a esaminare i dipinti – e in particolare la prospettiva e l’organizzazione della composizione – per osservare come il campo visivo all’interno dell’immagine fosse organizzato e come proiettasse uno sguardo prevalente. L’arte visiva si presenta inevitabilmente per essere percepita, consumata o interpretata attraverso l’erotismo e gli elementi cognitivi del vedere. Non è sufficiente essere una donna per contrastare lo sguardo mascolinizzato. La resistenza è una posizione critica in relazione a un apparato potente, seducente e ideologicamente carico. L’«indocilità» postcoloniale femminista, queer e antirazzista coinvolge sia il lavoro su se stesse e se stessi – in quanto spettatori già trascinati dall’ideologia – ad accettare queste relazioni di potere come normali, sia quello sul processo di creazione di immagini e la proiezione dei punti di osservazione. Lavorare consapevolmente può sovvertire il dominio automatico dello sguardo mascolinizzato e sollecitare altri modi di interagire visivamente con il mondo.

In «Differencing the Canon: Feminism and the Writing of Art’s Histories», lei considerava fondamentale un aspetto poco considerato dalla critica, cioè l’asse privato-famigliare. Quanto è importante la biografia e l’attenzione alle soggettività femminili?

Dividere il pubblico e il privato rappresenta una grande strategia patriarcale. La separazione di queste due sfere è una caratteristica della prima modernità, che ha inventato lo spazio pubblico nella lotta contro quello privato del monarca e la sua corte. Tale divisione è stata intensificata dalla borghesia in modo che la cesura diventasse politica, sociale e culturale tra uomini e donne. È in questo contesto che incontriamo un discrimine curioso: le vite, gli amori e gli stati d’animo sono chiamati cultura. Tutti gli studi d’arte, dal Vasari in poi, hanno iniziato a interessarsi alla psicologia e alla biografia dell’artista. Il discrimine non è quindi tra pubblico e privato, ma tra i diversi valori attribuiti alla soggettività degli uomini come artisti e alla soggettività ed esperienza delle donne.

Gli storici dell’arte hanno difficoltà a mettere insieme i due termini – artista e donna. Così trattano il mondo interiore di un’autrice non come una soggettività artistica ma come la condizione dell’essere una donna. Nel mio lavoro, mi rifiuto di essere guidata verso l’altro estremo, che è quello di non considerare l’esperienza vissuta. Cerco di affrontare il soggetto partendo da un profondo coinvolgimento con il significato culturale delle teorie psicoanalitiche della soggettività.

I nostri corpi mentali sono plasmati in modi materiali dalle relazioni di classe tanto quanto dal politico e dalle relazioni culturali e sociali di genere e razza, abilità e disabilità, posizione geopolitica. L’esperienza vissuta non deve essere esiliata dai nostri studi di creazione artistica o dalle nostre letture di immagini ma deve essere teorizzata e usata in modo critico in congiunzione con una rigorosa comprensione storica e un’analisi semiotica altrettanto rigorosa della produzione di significati.

Lei parla della possibilità di una trasformazione estetica del trauma inespresso e incancellabile. Può spiegarci come un trauma storico si rapporta alla memoria culturale?

Bisogna innanzitutto chiedersi come sia possibile usare il termine trauma su scala sia individuale sia collettiva. La psicoanalisi ci aiuta a intendere il trauma individuale come il ferimento della psiche quando un evento travolge le nostre difese coscienti e ferisce letteralmente la psiche a causa di uno shock. I gruppi non hanno una psiche di gruppo, e neppure le nazioni. Eppure parliamo di traumi culturali o storici. Per capire bisognerebbe considerare che il problema del trauma individuale è che non è rappresentato. Non sappiamo cosa sia successo; sopportiamo i suoi effetti. Il trauma usato in relazione a società o culture può essere compreso solo metaforicamente. Storicamente possono verificarsi eventi eccezionali per i quali non abbiamo termini esistenti con cui offrire una narrazione dell’accaduto. Mi sono chiesta: gli artisti viaggiano lontano o verso il trauma? Il ruolo del loro lavoro – affrontare la nostra condizione post-traumatica – contribuisce all’incontro estetico come una «stazione di trasporto del trauma». L’espressione è dell’artista Bracha L. Ettinger. L’arte può essere l’occasione di un incontro, tra l’artista e il passato e presente traumatico, e tra l’opera e lo spettatore. Il lavoro di trasformazione deve essere fatto da ognuno di noi. Non può essere lasciato a rituali e memoriali.

(il manifesto, 6 giugno 2018)

di Dario Borso

Sociologicamente parlando, Yvonne De Rosa è uno dei tanti cervelli in fuga dall’Italia: napoletana classe 1975, appena laureatasi cum laude in Scienze politiche (tesi in Storia delle Istituzioni sulle procedure del Tribunale della Santa Inquisizione) emigrò a Londra.

Da sempre appassionata di fotografia, il suo viaggio di sola andata era a scopo: iscriversi a un corso triennale post-laurea del Central Saint Martins College of Art & Design, prestigiosa scuola pubblica del Regno Unito.

Da qui in poi la sua storia è personale: nel 2004 fonda con altri 23 postgraduate del SMC il gruppo 24, finalizzato a un progetto tuttora in corso: documentare per 24 anni il capodanno assegnando a ciascun membro un’ora delle 24 ed esporre annualmente in luoghi pubblici (Soho Square il marzo scorso, http://www.24photography.org/).

Il primo lavoro importante di De Rosa è del 2006, per la Cynthia Corbett Gallery: Contacts, provini a contatto in bianco e nero sui contatti umani (prove di contatto, dunque). Virgilio in gonnella, la fotografa ci accompagna in diversi gironi purgatoriali di storie-sequenza, lasciando a noi di dare un senso al coacervo di posture del corpo, di espressioni facciali, di oggetti inanimati, di post-it ecc. entro cui passa una comunicazione muta, un contatto arduo ma cercato dai soggetti ritratti.

Per Contacts De Rosa ottiene l’International Women Photographers Award, e l’anno dopo pubblica il suo primo libro Crazy God, Damiani ed. (premio speciale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e primo premio al Lucie International Photography Awards).

Da universitaria aveva fatto tre anni di volontariato presso un ospedale psichiatrico, e in uno dei suoi rientri a Napoli lo trovò dismesso: forzando l’entrata, si mise a fotografare. La sua ricognizione riguarda dunque unicamente gli oggetti abbandonati e i graffiti sui muri (uno recita appunto “dio pazzo”, da cui il titolo), testimonianze di sofferenza che nel degrado circostante assumono un’aura recondita, quasi divinatoria, empaticamente colta dalle foto a colori.

Se vogliamo, l’esatto opposto di Lu Nan, il cui Inferno in bianco e nero sui manicomi cinesi (lo si vedrà il 6 giugno a http://www.frigoriferimilanesi.it/it/archivio/eve/335-cineserie/) sottolinea la presenza violenta del regime carcerario, del suo dominio sui corpi. Piuttosto, c’è in Crazy God un’eco del mediometraggio L’osservatorio nucleare del sig. Nanof, girato da Studio Azzurro nel 1985 nel dismesso ospedale psichiatrico di Volterra; ma soprattutto forte è la consonanza con Adilia Pintilie, la regista di Touch me not (film sulle dinamiche psicologiche del contatto fisico vincitore dell’ultimo Orso d’oro berlinese) che proprio nel 2007 girò Don’t get me wrong https://www.youtube.com/watch?v=DgVnSwdrw9g&t=793s all’interno di un manicomio romeno.

Crazy God contiene la breve “storia vera” di un recluso nel manicomio in questione scritta da Sarah Emily Miano, la quale aveva esordito da poco in USA con Encyclopaedia of Snow, fictionale diario anonimo che tratta di neve ai più vari livelli, tutti convergenti infine su una storia d’amore infelice di cui il diario stesso è l’ultimo episodio in forma d lettera senza risposta.

L’opera prima della Miano era dedicata a W. G. Sebald, e l’artista inglese Sophie Arkette recensendo Crazy God su Studio International ha fatto un acuto rimando a Gli emigrati, dove Sebald tratteggia un vecchio psichiatra che vede polverizzarsi poco a poco il suo ex-manicomio costruito in legno. La luce naturale di De Rosa ricorda appunto quel pulviscolo, ma il suo sguardo è differente, va dalla non-vita dei reperti alla nuda vita dei loro proprietari, contrariamente allo sguardo di Sebald che coincide con quello pentito dello psichiatra.

La tonalità dell’approccio di De Rosa assona piuttosto con il Čechov de La corsia numero 6, e coincide addirittura con quella di un altro espatriato, Luigi Meneghello, che mezzo secolo prima aveva abbandonato Malo per Reading sul Tamigi. Il recupero dei frammenti linguistici (v. ad es. Maredé, maredé. Sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina), il tatto amorevole con cui Meneghello l’ha condotto, è universalmente noto. Ma qui mi riferisco a un testo quasi inedito siccome orale, dov’egli ritrova la sua stessa passione rabdomantica di redentore del morto in un fratello, il ceramista Alessio Tasca che da una fossa di cocci ha saputo recuperare addirittura un mondo: Rivarotta https://www.youtube.com/watch?v=HExvRSbCw1A.

Nella pagina introduttiva a Crazy God, Laura Noble (su cui v. https://en.wikipedia.org/wiki/Laura_Noble) sottolinea la presenza nei manicomi di orfani, poveri e ragazze-madri, che non avevano problemi di salute mentale prima di venire rinchiusi. È un’indicazione che per De Rosa, la quale nel frattempo ha collezionato un master in fotogiornalismo alla London College of Communication, si trasforma in un nuovo progetto. Secondo le sue parole: “Quando Mark Cook, il fondatore di Hope and Homes for Children, mi ha fatto incontrare le persone con cui lavorava, sono rimasta molto colpita. Il loro indirizzo etico – supportare le famiglie in gravi difficoltà evitando ai bambini di finire abbandonati in istituti e chiudere istituti permettendo ai bambini di crescere in famiglie – è qualcosa che condivido con tutto il cuore. Io stessa credo nell’importanza della famiglia unita nel costruire una vita sana e felice”.

Da qui nasce il secondo libro di De Rosa, Hidden Identities. Unfinished, Damiani ed. 2013 (qualcosa qui http://www.bbc.com/news/in-pictures-23239363), sugli orfani in Romania e in Bosnia-Erzegovina, paesi dove più volte già era stata. Come scrive nell’introduzione: “Benché si possa dire che la povertà significa privare qualcuno della possibilità di sviluppare la propria identità, in realtà non ho visto questo. Ogni volta che puntavo la mia vecchia Rolleiflex verso i miei soggetti, mi si rivelava una grande dimostrazione di coraggio e di carattere. Indipendentemente dal paese da cui veniamo, siamo tutti connessi da uno stretto legame in quanto razza umana, e dovremmo preoccuparci della qualità e delle condizioni di vita che non sono equamente distribuite sul nostro pianeta”.

E le fa eco Cook: “Ringrazio sinceramente De Rosa per l’enorme quantità di tempo, pensiero e amore che ha messo in questo libro, e per la sua decisione di donare l’intero ricavo dalle vendite a HHC. Spero che le persone saranno così toccate dal potente messaggio che invia, da sentirsi anche loro in dovere di fare tutto il possibile per aiutare questi bambini”.

La mission della ong HHC è “trasformare gli orfani da ‘identità nascoste’ a persone riconosciute”. È il movimento che ormai conosciamo: dall’oblio al ricordo, dal passato al futuro, dalla nuda vita alla vita. Un movimento di resistenza e di speranza quindi, come tale unfinished. Perciò De Rosa torna in patria, nella Terra dei fuochi, per realizzare un progetto annunciato a Parigi nel 2015 alla mostra collettiva Climat Smart Evolution nell’ambito della Cop21 e presentato l’anno dopo alla Commissione per i diritti umani del Parlamento europeo. Il nome del progetto è Waste Side Story, crasi di Waste Land, la terra desolata di Eliot, e il musical West Side Story, storia di un riscatto in extremis.

Aspettando gli esiti, chi vuole può attivarsi intanto con Hotel House http://www.intertwine.it/it/incipit/collaborate/xNB7sNUq/h-h-this-is-not-the-truth, ulteriore progetto della tenace fotografa che, affiancata dallo scrittore Athos Zontini, ha appena chiamato in rete a un esercizio di scrittura collettiva, riproponendo l’intreccio tra fotografia e narrazione da cui era partita con Contacts.

(www.libreriadelledonne.it, 10 maggio 2018)

di Nadja Sayej, The Guardian, Regno Unito

Tutti sapevano ma nessuno parlava. Ora la campagna contro gli abusi sessuali investe artisti, collezionisti e mecenati

Quando l’artista statunitense Betty Tompkins frequentava l’ultimo anno di università a Syracuse, nel 1966, uno dei suoi professori di pittura le chiese cosa avrebbe fatto dopo gli studi. “Mi trasferirò a New York e diventerò un’artista”, gli rispose Tompkins, che oggi ha 72 anni. Il professore l’avvertì: “L’unico modo in cui potrai cavartela a New York sarà da sdraiata”.

Tompkins aveva dimenticato questo commento sessista finché, di recente, le accuse di molestie sessuali nel mondo dell’arte hanno cominciato a moltiplicarsi. “Spero che gli uomini che per abitudine hanno approfittato della loro posizione di potere siano preoccupati”, dice. “Spero che stiano ripensando al loro ruolo nel mondo dell’arte. Ma non è detto che lo stiano facendo”.

Da Weinstein a Condé Nast

Le molestie sessuali nel mondo dell’arte non sono una novità, ma sicuramente il caso Weinstein ha dato nuova visibilità al problema. Il collezionista d’arte statunitense Steve Wynn si è dimesso dalla carica di amministratore delegato della sua catena di casinò dopo che il 7 febbraio sono emerse delle accuse di molestie sessuali a suo carico. Un altro collezionista, il canadese François Odermatt, è stato accusato di stupro da una donna e di molestie sessuali da altre undici. La polizia ha indagato sulla denuncia per stupro, che Odermatt ha respinto, ma non ha formulato alcun capo di accusa. Il gallerista e collezionista britannico Anthony d’Ofay è stato accusato di molestie e comportamento inappropriato da tre donne e a dicembre si è dimesso dalla carica di curatore del progetto Artist rooms. Il mercante d’arte di Los Angeles Aaron Bondarof, coproprietario della Moran Bondarof gallery, si è dimesso da poco dopo essere stato accusato di abusi da tre donne.

Non si tratta solo di collezionisti e curatori, ma anche di artisti come Chuck Close, accusato da varie donne di aver fatto avance e commenti inappropriati durante gli incontri di lavoro. In seguito alle accuse, la National gallery of art di Washington ha cancellato una sua mostra. I fotografi Mario Testino e Bruce Weber, accusati di molestie da alcuni modelli, sono stati scaricati dalle riviste di moda pubblicate dalla casa editrice Condé Nast, che in seguito ha diffuso un nuovo codice di condotta per modelle e fotografi.

Alla fine di ottobre del 2017, Amanda Schmitt – una delle donne scelte da Time come persone dell’anno per aver denunciato le molestie sessuali – aveva accusato uno degli editori della rivista Artforum, Knight Landesman. Subito dopo il gruppo di artiste e lavoratrici del mondo dell’arte che sta dietro la campagna We are not surprised (Wans, “non siamo sorprese”) aveva pubblicato una lettera sul Guardian: “Non siamo sorprese quando i curatori offrono mostre in cambio di favori sessuali. Non siamo sorprese quando i galleristi romanticizzano, minimizzano o nascondono il comportamento inappropriato degli artisti che rappresentano. Non siamo sorprese quando un incontro con un collezionista o un potenziale mecenate prende una piega sessuale. Non siamo sorprese quando scontiamo il fatto di non aver ceduto. L’abuso di potere non ci sorprende”. Il gruppo, le cui fondatrici

sono anonime, ha fatto firmare la lettera a migliaia di artiste, tra cui Barbara Kruger e Cindy Sherman. In seguito alle accuse, Knight Landesman si è dimesso dal consiglio direttivo della rivista. Artforum, attraverso il suo sito, ha preso le distanze da Landesman, che rimane comunque uno dei proprietari. Ma l’atteggiamento della rivista nei confronti di Amanda Schmitt è rimasto ambiguo. Così Wans ha pubblicato una seconda lettera che invitava a boicottare la rivista: “Certi contenuti ci sembrano poco

più che una patina di retorica femminista e antirazzista, se gli editori e gli avvocati di Artforum continuano a fare di tutto per cancellare le esperienze di misoginia, molestie e abusi di potere subite da Amanda Schmitt e da tante altre. Siamo stufe delle belle parole e della politica vuota”.

Al di là delle lettere e delle dichiarazioni, per fare dei veri progressi qualcosa deve cambiare. Alexandra Schwartz, una curatrice che insegna alla Columbia university, è stata tra le prime firmatarie della lettera pubblicata sul Guardian. “La lettera invoca il rispetto professionale delle donne nel mondo dell’arte”, ha detto. “Bisognerebbe mettere a punto delle procedure e dei protocolli per casi del genere, anche in altri settori. Le grandi istituzioni, come l’Association of art museum directors o la American alliance of museums, potrebbero tracciare delle linee guida”. Così le lavoratrici nel campo delle arti sarebbero protette. “Quando avevo vent’anni nel mondo dell’arte si dava per scontato che avresti subito delle molestie”, dice Schwartz. “Ora si può rivendicare il diritto a non essere molestate”.

Non fermarsi

Secondo l’artista femminista Judith Bernstein la lettera del Wans è stata un passo necessario. “Sono solidale con tutte le persone e con tutte le istanze portate avanti da questa lettera dal respiro così ampio”, ha detto Bernstein. “Nei miei cinquant’anni di attività ho subìto discriminazioni, soprattutto

per le mie opere dal significato più esplicitamente sessuale e politico. Da Obama a Trump c’è stata una recessione, ma questa tempesta deve mantenere la stessa intensità”. La solidarietà suscitata dalla lettera dev’essere sfruttata, quindi, per quella che Natasha Le Tanneur, fondatrice dell’impresa ArtPaie che offre strumenti finanziari per il mercato dell’arte, definisce una “crescita condivisa”, fondamentale per “ridefinire comportamenti che non possono più essere tollerati”.

Coralina Rodriguez Meyer, un’artista che vive a New York, ribadisce la necessità di mettere in campo nuove procedure. “Un modo per lasciarsi alle spalle le prevaricazioni e rendere il mondo dell’arte un posto migliore è sentirsi più a proprio agio con la complessità e la diversità”, dice Rodriguez Meyer. Secondo lei questa battaglia deve riguardare ogni tipo di discriminazione. “Il pensiero intersezionale, non binario, e l’impegno politico aiuteranno visitatori, curatori, critici, collezionisti, istituzioni e opinione pubblica a riflettere sulla propria posizione nella società, che dovrà essere più solidale e democratica”. Anche la struttura dirigenziale nelle istituzioni artistiche deve cambiare. “I direttori delle istituzioni dovrebbero assumere personale più eterogeneo e i curatori delle principali istituzioni

dovrebbero andare a scovare artisti che lavorano al di fuori del sistema della Ivy League, cioè fuori dalle élite culturali istituzionali, o anche solo meno attivi sui social network”, spiega.

Anche Betty Tompkins, che può vantare un profilo artistico internazionale, riconosce che è il momento di cambiare: “Una delle cose più positive scaturite dal movimento #MeToo è la cornice e il vocabolario che ha offerto a iniziative straordinarie e che secondo me in passato non c’erano”, ha

detto. “Ora molte donne sono sulla stessa lunghezza d’onda. Già solo questo è un grande passo avanti”.

(Internazionale, 13 aprile 2018)

TERESA MARGOLLES

28 Marzo 2018 –

Padiglione d’Arte Contemporanea

Via Palestro, 14, 20121 Milano MI

Violenza, disuguaglianze, crimine organizzato. Il PAC presenta la personale dell’artista messicana Teresa Margolles, che con il suo stile minimalista ma di forte impatto testimonia le complessità della società contemporanea.

a cura di Diego Sileo

 

Il PAC di Milano presenta la personale di Teresa Margolles (Culiacán,1963), artista messicana che vive e lavora tra Città del Messico e Madrid. Con una particolare attitudine al crudo realismo, le sue opere testimoniano le complessità della società contemporanea, sgretolata da un’allarmante violenza che sta lacerando il mondo e soprattutto il Messico. Vincitrice del Prince Claus Award 2012, Teresa Margolles ha rappresentato il Messico nella 53° Biennale di Venezia nel 2009 e le sue opere sono state esposte in numerosi musei, istituzioni e fondazioni internazionali.

Con uno stile minimalista, ma di forte impatto e quasi prepotente sul piano concettuale, le 14 installazioni di Margolles in mostra al PAC esplorano gli scomodi temi della morte, dell’ingiustizia sociale, dell’odio di genere, della marginalità e della corruzione generando una tensione costante tra orrore e bellezza.

 

Promossa dal Comune di Milano – Cultura e prodotta dal PAC con Silvana Editoriale, la mostra si inserisce nel calendario dell’Art Week, la settimana milanese dedicata all’arte contemporanea, in occasione della quale l’artista presenta una performance tributo a Karla, prostituta transessuale assassinata a Ciudad Juárez (Messico) nel 2016. Un gesto forte, che lascerà una ferita aperta sui muri del PAC e vedrà protagonista Sonja Victoria Vera Bohórquez, una donna transgender che si prostituisce a Zurigo.

 

La mostra si inserisce nella prima delle quattro linee di ricerca del PAC, quella che durante le settimane in cui Milano diventa vetrina internazionale con miart e Salone del Mobile e vede protagonisti i grandi nomi del panorama artistico internazionale: Teresa Margolles (2018) e Anna Maria Maiolino (2019).

 

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una mostra Comune di Milano – Cultura, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Silvana Editoriale

sponsor PAC TOD’S

con il contributo di Alcantara e Cairo Editore

con il supporto di Vulcano

Studi e note su Carol Rama nel centenario della nascita

 MUSEI REALI TORINO Palazzo Chiablese

18/04/2018
14:30 – 18:00

 

L’evento sarà ospitato nel Salone degli Svizzeri di Palazzo Chiablese, ingresso gratuito fino a esaurimento posti

Coordina gli interventi Maria Cristina Mundici del Comitato scientifico Archivio Carol Rama

Il 2018 segna il centenario della nascita di Carol Rama. L’Archivio Carol Rama, per celebrarla, promuove un incontro, a cura del suo Comitato scientifico, nel corso del quale verranno presentati studi inediti sulla pittrice a opera di quattro storici dell’arte e di un artista.

L’incontro è organizzato con l’aiuto di Fondazione Sardi per l’Arte – che sostiene la pubblicazione del catalogo ragionato delle opere di Carol Rama, in preparazione – e dei Musei Reali la cui collezione si è da poco arricchita di un’opera dell’artista, visibile all’interno della mostra allestita in Galleria Sabauda Confronti 4/ Carol Rama e Carlo Mollino. Due acquisizioni per la Galleria Sabauda e immagini di Bepi Ghiotti.

Spesso la produzione dell’artista è stata messa in ombra a favore del personaggio o è stata letta come una emanazione più o meno diretta della sua biografia.

L’intento di questo incontro è quello di spostare nettamente l’attenzione sulla complessità e qualità della sua pittura, sviluppatasi in oltre settant’anni di attività, sul suo essere pittrice, sia nelle affinità con esperienze artistiche coeve sia nel differenziarsi da esse.

Le sue peculiarità di formazione e di vita hanno spesso condotto a leggerne le opere come monadi isolate dall’ambiente che ha concorso a produrle. L’intento dell’Archivio Carol Rama, ora, è quello di favorire studi e riflessioni che rileggano quella lunga esperienza d’arte con strumenti storico critici, riagganciandola ai vari contesti culturali via via attraversati. Senza trascurare l’importanza della sua produzione cosiddetta minore così come la sua fortuna critica.

Nel pomeriggio del 18 aprile, dalle 14,30 alle 18, ci sarà quindi la possibilità di ascoltare nuove voci e ricerche sull’artista e la sua attività, con l’intento di promuovere sempre più aggiornate e documentate riflessioni e interpretazioni della sua arte.

 

1918 – 2018: studi e note su Carol Rama nel centenario della nascita

Ore 15 – Saluti

Enrica Pagella, Direttore Musei Reali Torino

Guido Montanari, Vicesindaco della Città di Torino

Pinuccia Sardi, Presidente Fondazione Sardi per l’Arte

Michele Carpano, Presidente Archivio Carol Rama

 

Ore 15,30 – Interventi

Claudio Zambianchi

Carol Rama. Un mondo di oggetti

La Sapienza, Università di Roma

Claudio Zambianchi è nato a Roma nel 1958. Si è laureato in Lettere all’Università “La Sapienza” di Roma (1984). Ha conseguito un Master in storia dell’arte alla Southern Methodist University di Dallas, Texas (1989), e un Dottorato di ricerca in Storia dell’arte alla “Sapienza” (1992). Ha scritto di arte e critica d’arte del XIX e XX secolo. Ha insegnato nelle Accademie di Belle Arti di Torino e Milano. Dal 1998 insegna Storia dell’arte contemporanea alla “Sapienza” di Roma.

 

Davide Colombo

Carol Rama e l’astrattismo: eccezione o continuità?

Università degli Studi di Parma

Davide Colombo è Ricercatore di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi di Parma.

Borsista della Terra Foundation for American Art (2014), ha recentemente curato la mostra Eugenio Carmi. Appunti del nostro tempo. Opere storiche (1957-1963) (Museo del Novecento, Milano, 2015-16) e ha co-curato con C. Stephens la mostra Henry Moore (Terme di Diocleziano, Roma, 2015-16) e con B. Cinelli la mostra Manzù. Dialoghi sulla spiritualità, con Lucio Fontana (Castel Sant’Angelo, Roma e Museo Manzù, Ardea, 2016-17). La sua ultima monografia è Lucio Fontana e Leonardo da Vinci. Un confronto possibile (Scalpendi Editore, Milano 2017).

 

Francesco Barocco

Schegge

Artista

Francesco Barocco è nato a Susa (TO) nel 1972; vive e lavora a Torino.

Principali mostre personali: Museo d’Arte della Città, Ravenna (2008), Laura Bartlett Gallery, Londra (2010), Fondazione Ermanno Casoli, Fabriano (2010), Norma Mangione Gallery, Torino (2011 e 2014), Nicolas Krupp, Basilea (2017).

Principali mostre collettive: Museo d’arte della Svizzera Italiana, Lugano (2006), Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino (2009), Magasin, Grenoble (2010), Sprengel Museum, Hannover (2011), Kunstaele, Berlino (2012), Ludwig Forum, Aachen (2015), Biennale di Venezia, Padiglione Italia (2015).

 

Raffaella Roddolo

Studi a memoria: disegni per ricordare, bozzetti per inventare

Comitato scientifico Archivio Carol Rama

Laureatasi in storia dell’arte contemporanea con Maria Mimita Lamberti si occupa per anni di editoria d’arte come editor, iconografa e giornalista. Da settembre 2014 lavora per l’Archivio Carol Rama all’archiviazione delle opere e al catalogo ragionato dell’artista.

 

Elena Volpato

Con grazia feroce. Alcune osservazioni a margine della nuova stagione di fortuna critica dell’artista

GAM Torino, Comitato scientifico Archivio Carol Rama

Elena Volpato è conservatore e curatore presso la GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino dove ha dato vita nel 1999 alla prima collezione pubblica di video d’artista in Italia. Dal 2009 è conservatore responsabile delle collezioni del contemporaneo del museo. Ha curato numerose mostre d’arte contemporanea e rassegne di video d’artista in Italia e all’estero. Ha collaborato con Saturno, supplemento culturale del Fatto Quotidiano nel 2011 e 2012. Nel 2014 e 2015 è stata membro del comitato scientifico della Fondazione Giulio e Anna Paolini seguendone le pubblicazioni e i progetti scientifici.

È curatore delle esposizioni di FLAT – Fiera del Libro d’Arte di Torino.

 

Moderatore

Maria Cristina Mundici

Comitato scientifico Archivio Carol Rama

Capo curatore al Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli dal 1985 al 1992, poi curatore indipendente. Ha curato mostre quali la personale di Carol Rama allo Stedelijk Museum di Amsterdam, 1998, volumi come Gian Enzo Sperone. Torino Roma New York. 35 anni di mostre tra Europa e America, Hopefulmonster, Torino 2000 (con A. Minola, M. T. Roberto, F. Poli) e Carol Rama. Il magazzino dell’anima, Skira, Milano 2014 (con Bepi Ghiotti), progetti come l’installazione di opere d’arte contemporanea sul percorso del Passante ferroviario di Torino. Ha collaborato al Progetto arte moderna e contemporanea di Fondazione CRT dal 2000 al 2010. Socio fondatore dell’Archivio Carol Rama, ne è Direttore scientifico.

Foto Bruna Biamino

 


Dal 08 Marzo 2018 al 03 Giugno 2018

Maria Lai. Il filo e l’infinito

Firenze Palazzo Pitti

Curatori: Elena Pontiggia

Enti promotori:

Sito ufficiale: http://https://www.uffizi.it/

 

Comunicato Stampa:
“Appo intenso sonu’ e telarzu, e sa bidda no parìat più morta …” (Ho sentito un batter di telaio, e il villaggio non mi sembrava più morto) , ha scritto Salvatore Cambosu, scrittore sardo e prima insegnante poi grande amico di Maria Lai. Anzi, lui dettava e lei scriveva.

L’opera di Maria Lai (Ulassai, 27 settembre 1919 – Cardedu, 16 aprile 2013) si impone nel panorama artistico internazionale e lo dimostra la sua presenza, l’anno scorso, sia alla Biennale di Venezia, sia a Documenta di Kassel.

La mostra, curata da Elena Pontiggia e corredata di un ampio catalogo edito da Sillabe, celebra la sua ricerca che si è svolta per più di un settantennio, con un costante rinnovarsi del linguaggio che la porta dal realismo lirico degli anni Quaranta alle scelte informali dei tardi anni Cinquanta e dai lavori polimaterici dei primi anni Sessanta alle successive opere concettuali.
Va compreso in tutta la sua profondità il significato della sua azione collettiva Legarsi alla montagna, che si vede nei video con cui idealmente si apre questa mostra: coivolgendo completamente paesaggio e persone, Maria Lai realizza qualcosa di magico a Ulassai, il paese tra i monti dell’Ogliastra dove era nata, a cui la stringevano vincoli di affetto, ma anche l’esperienza tragica della morte del fratello, ucciso a trentadue anni in un tentativo di sequestro.

Legarsi alla montagna
è la prima opera relazionale compiuta in Italia e si ispira a un’antica leggenda che tutti a Ulassai conoscevano: la storia di una bambina che, durante un furioso temporale, esce dalla grotta dove si era rifugiata, attratta da un bellissimo nastro che vola nel cielo e, con quel gesto a prima vista azzardato, si salva da una frana devastante. L’insegnamento della leggenda è semplice: la bellezza e l’arte, apparentemente così inutili, ci salvano la vita.
Il primo filo da considerare in questa mostra è dunque quel nastro ormai distrutto (strisce di tela lunghe in tutto ventisei chilometri) con cui Maria Lai entra nella scena dell’arte contemporanea internazionale.

“Al centro della questa rassegna – spiega Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi – sta il mezzo più tipico del suo lavoro cioè quel filo che “lega e collega” in maniera senz’altro viva e che infatti spesso rimane libero e non ancora cucito: tra i vari riferimenti mitologici non può che ricordare Penelope che tesse durante il giorno e nella notte scioglie i fili”.

Il telaio, lo strumento millenario della tessitura, compare già in un suo disegno degli anni Quaranta e figure di tessitrici si incontrano nelle sue carte successive. Nel 1967 realizza Oggetto-paesaggio, esposto qui nella prima sala della mostra: un telaio disfatto, ingombro di fili spezzati e senza ordine, che occupa lo spazio come un totem. Una scultura/installazione che dialoga con l’arte concettuale, in particolare con il Nouveau Réalisme di Arman e Spoerri, e più ancora con le “armi” di Pascali, dell’anno precedente. Già qui il rapporto doppio col passato e con la contemporaneità è caratteristico della ricerca di Maria Lai e porta ogni suo lavoro a essere al tempo stesso aperto ai linguaggi dell’oggi e legato alle proprie radici e alla propria storia.

Dai Telainascono le Tele cucite, che da un lato continuano a evocare il mondo arcaico dell’arte tessile della Sardegna, dall’altro si inseriscono in quella ricerca espressiva che lavora non sulla tela, ma con la tela dialogando quindi con i polimaterici di Prampolini, i Sacchi di Burri, le Tele fasciate di Scarpitta, i tessuti irrigiditi dal caolino di Piero Manzoni, le tele di Castellani e Bonalumi o in quelle svuotate di Dadamaino.
Lai trasforma l’oggetto quotidiano, nato per essere utile o almeno decorativo, in un oggetto poetico che non serve a nulla, ma è più importante di ogni funzionalità perché insegna a pensare e a capire.

Il passo successive sono le Scritture dalle quali nascono, sempre alla fine degli anni Settanta , secondo un percorso strettamente consequenziale, i Libri che spesso si compongono in fiabe visive: tra le prime, Tenendo per mano l’ombra, del 1987, incentrato sulla capacità di accettare il negativo che è in noi tutti.

Per la seconda volta gli spazi delle Gallerie degli Uffizi ospitano Maria Lai: nel 2004 l’artista aveva allestito al Giardino di Boboli l’Invito a tavola, un grande desco apparecchiato con pane e libri in terracotta, che proprio adesso è in mostra a New York. Non mancano riferimenti a Firenze nell’opera dell’artista sarda: dalle mappe immaginarie di Leonardo da Vinci copiate a Firenze, fino all’opera Il mare ha bisogno di fichi, realizzata nel 1986 in occasione del ventesimo anniversario dell’alluvione del 4 novembre 1966.

Questo dovrebbe fare l’arte: farci sentire più uniti” amava dire Maria.

dal 13 aprile al 3 maggio 2018

Senza telaio, senza cornice.

associazione Apriti Cielo!  via Spallanzani 16- 20129 Milano

La mostra resta aperta sino al 3 maggio con i seguenti orari:

mercoledì, venerdì, sabato dalle 18,20 alle 20,00 oppure su appuntamento

telefonando al 349868253

Senza telaio, senza cornice!

La gioia, diceva Simone Weil, non è altro che il sentimento della realtà. Accade spesso ascoltando Pina Nuzzo in pubblico, in una riunione politica, di politica delle donne o in colloquio più o meno privato, di provare gioia. E questo accade non perché Pina sia una persona accogliente, bonaria e indulgente; è esattamente il contrario: rigorosa, spiazzante, dura a volte. Ma reale. La stessa cosa accade anche dopo aver visto i suoi quadri che, a un primo sguardo, diresti inquietanti, ma che dopo avverti con gioia, perché rappresentano, ossia rendono presente, il suo sentimento della realtà. E avverti, ripensandoci, che è anche il tuo senso del reale, e che puoi condividerlo: e questo dà gioia. Non accade solo a me che, come si dice, conosco Pina da una vita. Le sue parole, come il suo dipingere, come il suo vestire persino, aderiscono al reale; non hanno paura di essere controcorrente o contro ciò che viene sbandierato come più innovativo o più alla moda e spesso chiamato rivoluzionario o più impegnato, ma è solo copia, serialità senza pensiero di sé. Per Pina, invece, si tratta di saper trovare la misura tra novità e autenticità. E l’unità di misura, il suo metro personale è se stessa e la sua storia. Per lei la giusta misura da usare, mostrare e rappresentare è il suo habitus: l’aspetto del suo corpo che, ovviamente, non è solo materia, ma è pensiero, sapere, storia e intelligente capacità di giudizio, che si esprimono nella pienezza della realtà che lei è, e alla quale sa aderire senza finzioni. Ha imparato a partire, infatti, dalla misura di sé per poter avere misura della realtà senza maschere e senza simulazioni. Questa sua adesione al reale, dopo un primo spaesamento, provoca gioia; è la gioia di riconoscere un sentimento di confidenza con la realtà: quello che i filosofi hanno chiamato incontro con l’essere, che le mistiche avevano chiamato incontro con dio, e che il femminismo radicale ha chiamato autocoscienza. L’incontro con l’essere, con la coscienza di sé, è unione di immanenza e trascendenza, di processi oggettivi e oggettivanti e, contemporaneamente, però, è anche incontro con qualcosa che trascende, che è oltre la nostra capacità di ridurre tutta la realtà a cose e a merci e a mercato.

E’ un incontro che dà gioia, perché ci riconcilia con la realtà; in questo caso semplicemente rendendocela presente, rappresentandocela e rendendo presente anche la realtà che è dietro le cose e gli oggetti che noi siamo, sempre pronti a consumare e gettare via ciò che abbiamo riconosciuto o acquistato con sempre maggiore rapidità e inconsapevolezza. I quadri di Pina Nuzzo, invece, non sono oggetti di un’estetica da consumo.

Sono quadri che restano.

Sempre senza cornici, ossia volutamente senza contorni e bordi, dicono del suo non volere aggiungere limiti e margini voluti, previsti e prefabbricati da altri.

Senza cornice: rappresentazione anche questa del proprio libero sentire, della libertà di Pina di essere se stessa. Senza cornici, volutamente, perché Pina vuole narrare di un reale che va oltre, sconfina ogni nostra capacità di ripetizione o di rappresentazione.

Sempre più grandi. Ora i suoi quadri sono anche senza telai e intelaiature, perché l’artista cerca di dire con voce propria ciò che ancora non è stato intelaiato in un ordine simbolico, in quello che ci dice e ci determina precostituendoci ad essere in un modo già determinato. Ma non c’è nulla di presuntuosamente egoico in questo suo desiderio di rappresentazione del proprio sentire. Al contrario, si tratta di un severo addestramento che ha saputo cogliere il meglio di quella intensa scuola di formazione politica che per lei è stato il femminismo.

Nel 2006, a Lecce, nella sua relazione tenuta alla Scuola Estiva della Differenza diceva: “Mi era – mi è – necessaria la politica delle donne perché è lo spazio simbolico in cui riesco a pensarmi e a rappresentarmi”.

Ma tale politica non è stato oggetto da riprodurre o narrare. E’ stato percorso, lunga strada e addestramento lento per capire ed esprimere un iter, per osare un fare e un comprendere autentico. Il femminismo è stato occasione per poter andare a ritroso attraversando le generazioni e giungere ai confini di quell’ordine simbolico patriarcale che ha intriso tutto di sé, facendo perdere a molte donne anche le tracce di un capire ed esprimere la potenza e l’autenticità del proprio reale sentire.

Stupore, è una grande pittura su tela di 3 metri per 2, dove il sentimento di meraviglia con cui la filosofia da Platone e Aristotele in poi ha celebrato il proprio inizio, ridiventa stupore ed è rappresentato con corpo di donna. Il principio del sapere, inteso come avvio e come fondamento, per Pina Nuzzo è il rosso del ventre gravido, è quel rosso che torna insistente nei suoi quadri come deposito e scorta di colore a cui attingere sempre. E’ il rosso della terra salentina, il rosso del sangue delle sue donne che hanno partorito con dolore sempre nuove generazioni esposte ad antiche sofferenze, è il rosso della fatica che stanca e arrossa gli occhi persino, è il rosso che tinge le guance per soprusi ingoiati interi e violenze subite senza parole.

Perché la violenza è muta, ma ha il colore del sangue. Stupore ha la testa della nottola di Minerva che, come nei Lineamenti della Filosofia del diritto di Hegel, “spicca il suo volo sul far della sera”: metafora di un sapere che prende il volo quando una civiltà è ormai al declino. Ma la testa di civetta di Stupore, non è solo citazione di altre immagini dotte o di filosofiche letture, è principio che narra un’origine e una terra e, come non è risposta e corrispondenza alla moda, non è nemmeno rapace animale. E’ piuttosto richiamo di sapienza, icona di antica dea protettrice delle donne che abitano una terra dove sino a qualche anno fa ancora si parlava il greco classico. Minerva, protettrice di Galatina, salvò le sue cittadine dal morso della taranta, rendendole per secoli immuni; le salvò non solo dal morso, ma anche dalla ripetizione di quel morso come forma di ri-morso, ossia come morso ripetuto che ri-tornava ad aggredire quelle donne che osavano dire di sé e agire di conseguenza nella libertà di una nuova narrazione di sé. Il morso e il suo ritorno, il rimorso, condannò le donne delle terre del sud, ma non quelle di Galatina, all’azione insignificante e alla introiezione della colpa nell’attesa di una liberazione che tornava puntuale allo spuntar dell’estate e alla sua festa di fine giugno. Il quadro di Pina rompe con secoli di tradizioni narrate in identico modo e libera verso una nuova nascita non ancora compiuta, non ancora sottoposta a identità e appartenenze, eppure già pienamente vissuta nella carne.

Allo stesso modo Prima e Dopo , altra tela di 3 metri per 2, restituisce il sentimento della realtà alla terra, la stessa terra venata di strisce di sangue e di luce di amniotiche acque, ma soprattutto luogo accogliente di germogli di erba, fili di identità tutti uguali eppure tutti differenti, che fanno da contorno eccentrico al profilo mandorlato che raccoglie l’occhio assoluto, che potrebbe essere l’occhio di dio o la rappresentazione della sessualità femminile, ma che è, questa volta sì, anche citazione dotta di un ricordo d’infanzia, il ricordo dorato delle cornici mandorlate che racchiudono l’immagine della madre di dio, negli affreschi quattrocenteschi della Chiesa di Santa Caterina di Alessandria in Galatina, la città dove Pina ha vissuto la sua infanzia.

Ma il sentimento della realtà che Pina Nuzzo porta con sé e che riporta a noi va anche oltre la rappresentazione, perché sa anche restituire dignità e vita e esistenza ad antichi saperi, a fili che, intrecciati da mani sapienti, diventavano rosoni fragili e pregiati, capaci sempre di proteggere anche i legni più duri come quelli di antiche mobilie e che, ora, grazie alla sua arte, mettono le ali per volare oltre. Mostrano la luce che ancora passa tra i fili annodati, come passano i ricordi di trame preziose e di femminili saperi ricamati ad ago, ma senza ostentazione della propria ricchezza, perché sempre pronti a sfilarsi e a distruggersi a causa di un solo filo tirato via. Come la vita, che è sempre appesa a un filo e pronta a sfilarsi via con un niente di forza.

Un’arte quella di Pina Nuzzo che più che costruire affreschi di un linguaggio già detto, sa riflettere su una dimensione intima e quotidiana, per restituirle realtà, esistenza e dignità, ancorandosi ad antichi saperi e trovando pennellate di colore, che però è soprattutto materia, magari semplice carta bianca che nelle sue mani diventa sempre capace di sprigionare luce, diventare colore per poi tornare ad attendere di essere letta e scritta con altre mani di altre generazioni di donne per sempre nuove scoperte interiori.

 

La fotografia come supporto per immaginarsi: l’autoritratto delle donne negli anni Settanta

Femminismo, identità, esplorazione del sé. Questi sono i temi centrali che si intrecciano nelle opere di molte artiste italiane attive negli Anni Settanta. Raffaella Perna ci racconta il loro utilizzo di un genere particolare: quello dell’autoritratto fotografico

Per le donne il fare è una dimensione problematica: realizzare o no un progetto, un’idea, vuol dire passare radicalmente dal silenzio alla parola, e infiniti sono i motivi di autocensura, di castrazione […]. Se parlo di immagine/oggetto in quanto foto di donna, allora il nesso è con la rappresentazione mentale di me stessa, la rappresentazione dell’altra, il problema in generale di come si rapportano le donne alla loro immagine. Chi dà loro un’immagine? Storicamente lo sguardo maschile”(1). Così scriveva Paola Mattioli nel 1978 nel volume collettivo Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, pubblicato in collaborazione con le compagne del cosiddetto Gruppo del mercoledì per l’editore Gabriele Mazzotta: dalle parole di Mattioli emerge con chiarezza la consapevolezza, condivisa da molte altre fotografe e artiste della sua generazione, dell’urgenza di sperimentare nuove forme di rappresentazione del femminile, al di fuori dei canoni maschili dominanti.
Grazie all’impulso del pensiero femminista, negli anni Settanta diverse autrici in Italia scelgono l’autoritratto fotografico come terreno elettivo, da un lato, per demistificare le immagini stereotipate proposte dall’informazione e dai mass-media, dall’altro, per riconquistare il potere di rappresentarsi in qualità di soggetti attivi. “Fotografare sé stessi”, come ha sottolineato Susan Butler, “è inevitabilmente un’impresa schizoide” (2), durante la quale si fa esperienza dello scarto tra la percezione interna del sé e il sé esterno percepito dagli altri. Lo strumento fotografico riproduce lo sguardo altrui che si posa su di noi, con un inevitabile effetto di controllo: eppure, quando ci si pone simultaneamente davanti e dietro l’obiettivo, il meccanismo della visione s’inverte e la fotografia diviene un mezzo di autoproiezione, attraverso il quale scegliere attivamente come rappresentarsi agli occhi dell’altro. Per la donna, tradizionalmente oggetto dello sguardo e della rappresentazione altrui, l’autoritratto fotografico costituisce dunque una pratica privilegiata per sperimentare la propria soggettività.

LA MACCHINA FOTOGRAFICA COME STRUMENTO DI IMMAGINAZIONE

La stessa Mattioli, in una sequenza di sei immagini pubblicata nel libro citato poc’anzi, si ritrae nell’atto di fotografare, mentre il suo volto è coperto dall’apparecchio fotografico. Benché il richiamo alla Verifica n. 2 L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander di Ugo Mulas (con cui Mattioli si è formata) sia evidente, la sequenza è frutto di un processo diverso: partendo dal suo ritratto, Mattioli realizza infatti una sagoma fotografica, che appende al soffitto con un filo sottile, come un mobile di Calder, facendola oscillare vorticosamente nello spazio; in un secondo momento, la fotografa realizza una sequenza di scatti in cui riprende la sagoma in movimento, al fine di rappresentare, sulla scorta della lettura di Merleau-Ponty, la dimensione mutevole della percezione e il carattere soggettivo, quindi non neutrale, dello sguardo. Mattioli esplora la propria immagine, colta nel momento stesso in cui fotografa, nella convinzione che “la memoria meccanica della fotografia, molto spesso occasione per non vivere e per non vedere, può diventare in mano alle donne supporto per vedere e per immaginarsi” (3)
Allo stesso desiderio di “immaginarsi” si lega l’esigenza espressa da molte autrici attive in questi anni di rileggere il passato delle donne attraverso un processo di recupero di storie marginali o rimosse, nelle quali potersi rispecchiare. Nell’identificarsi con l’altra, la fotografia è uno strumento essenziale, che consente di convocare il passato e di porlo in relazione dialettica con il presente e di avviare uno scavo nella memoria, alla ricerca delle proprie origini. Si fonda sulla giustapposizione di immagini appartenenti a storie e tempi diversi, ad esempio, la serie Le streghe realizzata intorno alla metà del decennio da Libera Mazzoleni, dove l’artista interviene su alcune antiche incisioni dedicate alla caccia alle streghe, tratte in gran parte dal Compendium Maleficarum di Francesco Maria Guazzo, inserendovi il suo ritratto fotografico. Nell’immedesimarsi con le streghe Mazzoleni riconosce le sue radici nella storia delle migliaia di donne torturate e uccise tra il XV e il XVII secolo nell’occidente cristiano, in una persecuzione mirata a controllarne la vita, la sessualità, il corpo e il sapere, funzionale a confinarle al lavoro domestico non pagato, subordinandole all’uomo e alla famiglia (4); una storia, quella della streghe, che proprio negli anni Settanta è oggetto di un’intensa riscoperta da parte del femminismo. “Ricordo le ore passate nella biblioteca Sormani”, racconta l’artista, “leggendo e sfogliando testi diversi dove la riproduzione di litografie del Cinquecento intrecciava la mia emozione […]. Libera di immaginare, acquisivo allora la consapevolezza che anch’io stavo attraversando e vivendo quella demonizzazione del femminile insieme a chi è stata inghiottita dalla violenza di una storia che cancellava esistenze non assimilabili” (5).

ALLA RICERCA DELLA PROPRIA IDENTITÁ

Per Mazzoleni, come per Mattioli, l’autoritratto fotografico diventa quindi una pratica volta a riconquistare la facoltà e il piacere della narrazione: attraverso uno sguardo che si pone contemporaneamente al di qua e al di là dell’obiettivo, la donna smette di essere l’oggetto della visione altrui e si riappropria del corpo, della sessualità e della sua rappresentazione simbolica, per sconfessare le immagini convenzionali del femminile ed esprimersi con un linguaggio più autentico.
Da questa prospettiva va letta, ad esempio, la serie Scritture viventi di Tomaso Binga, nome d’arte di Bianca Pucciarelli, realizzata nel 1976 con il supporto tecnico dell’amica e fotografa Verita Monselles, dove l’artista si fa ritrarre mentre assume con il proprio corpo nudo la forma delle lettere alfabetiche. Le Scritture viventi possono essere interpretate come il tentativo di porre in luce l’ambiguità del processo di costruzione della femminilità: il corpo in carne e ossa della donna è ritratto nel momento in cui si adegua a forme linguistiche codificate, che ne plasmano l’identità. Questo nuovo alfabeto corporeo è concepito per riscattare l’occultamento della fisicità e l’apparente neutralità del linguaggio, in cui la donna non si riconosce, attraverso una rivalutazione dell’imperfetto, dell’errore, del fuori posto. “Non vogliamo più sentirci entità astratte”, scrive all’epoca Binga, “ma persone fisicamente, socialmente, politicamente umane” (6).

Nel processo di riscoperta della propria immagine e della propria identità, le donne trovano quindi nell’autoritratto fotografico un terreno ideale, che dà loro modo di contrastare la secolare difficoltà femminile di esprimersi liberamente. A partire da questa consapevolezza, negli anni Settanta, molte fotografe e artiste italiane scelgono l’autoritratto non soltanto per raccontare la loro esperienza individuale, ma anche, lo si è visto, per fare emergere una storia, quella della donna, fatta di silenzi forzati, non detti, parole trattenute e ideali di bellezza a cui non può e non vuole conformarsi, secondo una concezione che lega a filo doppio il vissuto personale a quello collettivo.

– Raffaella Perna

Raffaella Perna
Raffaella Perna è dottore di ricerca in Storia dell’arte. Nel 2015 è assegnista di ricerca presso l’Università di Roma La Sapienza e dal 2016 è professore a contratto di Storia dell’arte contemporanea all’Università di Macerata. I suoi studi si sono concentrati sui rapporti tra arte e fotografia in Italia, la pittura a Roma negli anni Sessanta e Settanta, i legami tra la fotografia e il femminismo. È autrice dei libri: Piero Manzoni e Roma (Electa, 2017); Pablo Echaurren
Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani (Postmedia Books, 2016); Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta (Postmedia Books, 2013); Wilhelm von Gloeden. Travestimenti, ritratti, tableaux vivants (Postmedia Books, 2013); In forma di fotografia. Ricerche artistiche in Italia tra il 1960 e il 1970 (DeriveApprodi, 2009). È inoltre curatrice dei volumi: Ketty La Rocca. Nuovi studi (con F. Gallo, 2015); Etica e fotografia. Potere, ideologia e violenza dell’immagine fotografica (con I. Schiaffini, 2015); Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte (con I. Bussoni, 2014) e Le polaroid di Moro (con S. Bianchi, 2012). Ha curato mostre in spazi pubblici e privati, tra cui: L’altro sguardo. Fotografe italiane 1965-2015 (Triennale di Milano), Grandi fotografi a 33 giri e Synchronicity. Record Covers by Artists (Auditorium Parco della Musica di Roma). Suoi articoli sono usciti su “alfabeta2”, “Flash Art”, “doppiozero”.
PER VISUALIZZARE CON LE FOTO
http://www.artribune.com/gliscattidelledonne/2018/02/autoritratto-fotografico-delle-donne-negli-anni-settanta/

Eva Kot’átková

The Dream Machine is Asleep

dal 15 febbraio al 22 luglio 2018

Pirelli Hangar Bicocca – Milano

A cura di Roberta Tenconi

La mostra personale di Eva Kot’átková (Praga, 1982) “The Dream Machine is Asleep”, è un progetto inedito e immersivo dove opere esistenti sono affiancate a nuove produzioni, tra installazioni, sculture, oggetti fuori scala, collage e momenti performativi. Partendo dalla visione del corpo umano come una macchina, un grande organismo il cui funzionamento necessita di revisioni, rigenerazione e riposo, e dall’idea del sonno come momento in cui attraverso i sogni si creano nuove visioni e mondi paralleli, la mostra esplora le nostre proiezioni e i pensieri più intimi, le ansie e il disorientamento del vivere contemporaneo.
Al centro di “The Dream Machine is Asleep” è l’omonima installazione, un gigantesco letto alla cui base è presente quello che l’artista definisce un ufficio per la creazione di sogni. Con questo lavoro Eva Kot’átková prosegue la sua ricerca sui sistemi che regolano la nostra vita, contrapponendo loro immagini provenienti dall’universo infantile per supplire alla mancanza o alla perdita di immaginazione.
Per accedere allo spazio espositivo i visitatori sono invitati ad attraversare l’opera Stomach of the World (2017), un’allegoria del mondo, descritto come un organismo caotico che alterna processi di assimilazione famelica, a momenti di stasi, di empatia o di scontro tra i suoi abitanti, a fasi di controllo, digestione, espulsione e riciclo delle “scorie” prodotte, ovvero le fobie e gli stati d’ansia. L’opera, composta da un video presentato all’interno di un’installazione percorribile dai visitatori e che assume la forma del disegno stilizzato di uno stomaco, si avvale di protagonisti e immagini presi dal mondo dell’infanzia e della mitologia.

di Francesca Pasini

Loredana Longo spara contro letti nuziali, tavole imbandite, salotti; incendia carte da parati; marchia a fuoco tappeti e velluti di seta. Perché? Forse è una metafora della Sicilia violenta, lei è nata a Catania. Però, una sua foto di una stanza con toilette in frantumi  mi aveva fatto venire in mente la disperazione di una donna in una qualunque casa borghese di cattivo gusto.

Allora non la conoscevo ed ero stata prudente: ” è la mia reazione, Lei magari vuole indicare altro”. Oggi penso che Loredana compia un attacco al cuore del sentimento d’ordine non rispettato, o meglio, troppo rispettato.
Qualche mese fa, descrivendo l’opera Tutto è come sembra, per la Vetrina della Libreria delle donne di Milano, mi dice: “Io non sono libera, io mi sento libera”. Ho un flash: la violenza alla quale dà figura è il contrappasso per riconoscere la differenza tra essere e sentirsi libera.
Riconosco nelle sue carte da parati bruciate, tagliate, una metafora dell’ustionante contatto con l’ordine, le regole, e la loro messa in discussione per uscire da quell’eccesso di rispetto che mi aveva fatto immaginare una donna disperata davanti allo specchio, mentre si trucca.
Resto comunque sorpresa dalla sintesi precisa dei resti delle sue distruzioni, dove non si sente il rimbombo dello sparo, non c’è la devastazione incongruente tipica delle armi. Questa “pulizia” è il piede di porco con cui Loredana forza l’immagine per alludere all’essenza della violenza reale e non mitica. Se tutto fosse più polveroso e casuale, sarebbe facile riconoscere la paura e l’inadeguatezza davanti a una pistola puntata contro di te, invece l’ordine con cui conglomera i resti in sculture e installazioni, mi fa provare una cosa, forse più terribile: la seduzione della violenza.
E una seduzione visiva, non ha che fare con un’ipotetica giustificazione. L’ho percepita chiaramente alla sua mostra “Piedediporco” a Milano alla galleria Francesco Pantaleone (fino al 3 febbraio). Vedo che il tabù rispetto al “fascino della morte da arma da fuoco” va oltre i film contemporanei su aggressioni di ogni tipo e si incista nel fondo della retina. Accettiamo quelle immagini perché sono “attutite” dalla finzione degli effetti speciali. Loredana va all’osso della seduzione, non ci sono effetti speciali, ma forme precise, belle, preziose, pulite, non c’è il rifugio dell’orrore fittizio rispetto all’essenza reale e metaforica della violenza.
Nelle figure depurate dal gesto aggressivo, non c’è catarsi, né risposte. C’è un tremendo aspetto seduttivo. È tremendo perché non si può equivocare: quelle figure sono plasmate con la terra cruda della ceramica, ma il colpo finale proviene da un’esplosione.
Due mattoni di ceramica d’oro, cotti al terzo fuoco, trapassati e contorti da un piede di porco si  insinuano agli inizi di un muro di mattoni da edilizia rossicci. In un cassone in mezzo a quelli industriali frantumati ce ne sono alcuni, deformati da lei e realizzati in biscotto di ceramica, sono contorti come corpi durante uno sforzo. Anche qui la tentazione legittima di abbinarli ai soprusi e ai crimini dell’industria edilizia, in Sicilia e nel mondo, è forte. Poco lontano, però, il mattone d’oro trafitto dal piede di porco si presenta con la maestà della scultura (Piedediporco, 2017). L’inganno seduttivo non è un commento a lato, è la materia stessa della visione.
Se penso alle Piramidi d’Egitto non riesco a non pensare a quanti schiavi-operai saranno morti, anche oggi gli incidenti sui ponteggi sono notizie quasi quotidiane.
Il mattone d’oro di Loredana mi sembra il simbolo della grandiosa impresa che contraddistingue l’abitare rispetto alle tane e ai nidi dei compagni di pianeta animali. Glorifica la nostra costruzione, è bellissimo, ma… Ma, colpito al cuore dal piede di porco, mostra in simultanea la seduzione dell’oro e l’effrazione. L’impossibilità di separare l’una dall’altra è, ovviamente, il nodo cruciale della violenza. Non è un concetto, è una figura che sta lì, non descrive, non racconta, si fa guardare. Ho visto la forza esplosiva/distruttiva della seduzione.
L’arte visiva fa questo, perché porta a sé.
In mostra ci sono anche, infilzati su delle picche, dodici calchi del suo pugno in ceramica dolce, fatti esplodere prima della cottura (Fist, 2017). Allude alla violenza individuale, emotiva, quella che non si riesce a trattenere e che in genere ci si ritorce contro? Può darsi. Voglio pensarci.

Francesca Pasini
Mostra visitata il 22 novembre 2017

Dal 22 novembre 2017 al 3 febbraio 2018
Loredana Longo, Piedediporco
Galleria Francesco Pantaleone
Via San Rocco 11, Milano
Orari: da martedì a sabato dalle 15.30 alle 19.30
Info: www.fpac.it, info@fpac.it

(exibart.com, 17 gennaio 2018)