di Mariacarla Molè
FOTOGRAFIA. «Soggetto nomade», catalogo della mostra omonima ora edito da Nero. Con gli scatti di Paola Agosti, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano e Marialba Russo
Il luogo cieco di un antico sogno di simmetria recitava il titolo della prima parte di Speculum di Luce Irigaray, un classico del pensiero femminista della differenza. Il progetto di questo testo del ’74 era quello di colmare i vuoti della mancata esperienza dell’alterità, quella dell’identità femminile, trattata dalla tradizione psicoanalitica e filosofica occidentale, come copia manchevole del maschile, priva di una sua rappresentazione e quindi di immagini.
Probabilmente, modificare la lettura della tradizione occidentale non è possibile, ma dare un volto a quella cecità si. Potrebbe essere uno dei tanti ritratti dalle fotografie di Paola Agosti, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano e Marialba Russo, scattate tra il 1965 e il 1985, e raccolte nel progetto editoriale di Nero Soggetto Nomade (pp. 160, euro 25), catalogo della mostra omonima, curata da Cristiana Perrella e Elena Magini lo scorso inverno per il Centro Pecci di Prato.
Il titolo prende in prestito un concetto chiave del pensiero di Rosi Braidotti, che porta avanti il progetto di deflagrazione dei fondamenti maschili della soggettività classica, e propone una prospettiva post-identitaria, in cui i soggetti siano sempre il risultato di un processo incessante di negoziazioni e aggiustamenti. Il corpo dei testi, affidato alla stessa Braidotti e alle due curatrici, offre una cornice concettuale molto solida, a una sequenza di immagini molto diverse tra loro, nelle intenzioni e negli esiti.
Nella selezione di fotografie, che raccontano due decenni di lotte femministe, rivendicazioni e conquiste civili, il ripensamento dell’identità femminile corre parallela alla costruzione di un punto di vista femminile, da parte di fotografe che si trovano in una posizione pioneristica nella loro professione, che contava soltanto uomini. La differenza di genere è palpabile nei loro scatti, ora incantati ed empatici, ora complici e intimi, ma sempre il risultato di un’interrogazione reciproca e di un legame di fiducia.
Negli sguardi puntati alla macchina fotografica vediamo proiettati quelli delle fotografe, che nel catturare femministe, malate psichiatriche, bambine, transessuali, dive, scrittrici, e travestiti scoprono la specificità del loro sguardo differente.
L’opera di sabotaggio di ogni ostacolo all’affermazione di sé è assolutamente collettiva nelle fotografie di Paola Agosti, che ha documentato il movimento femminista italiano, e romano nello specifico, la nascita dei consultori, la fondazione di redazioni femministe, e le alleanze di corpi stretti in girotondi e in una gestualità condivisa.
Più intima è la dimensione di sperimentazione del sistema di codici femminile nelle fotografie di Marialba Russo, nei suoi ritratti di uomini travestiti da donne durante i festeggiamenti del carnevale, in alcune cittadine campane. La parentesi del rovesciamento carnevalesco permette a un parterre eteronormato di giocare con le rappresentazioni femminili, e di sbizzarrirsi nell’eccesso goffo dei costumi, dei nei sapientemente collocati, e dei makeup scenici.
La dimensione pubblica diventa, nelle fotografie di Letizia Battaglia, spazio in cui situare soggetti di una fierezza spietata. In una Palermo lacerata dalla seconda guerra di mafia, le donne, le bambine, guardate con occhi complici, sono portatici di una vitalità selvaggia in uno scenario disperato e mortifero.
La stessa consapevolezza, di condividere con le donne ritratte un destino marginalizzato, si trova nelle fotografie dei travestiti di Lisetta Carmi, dove la logica del binarismo di genere risulta satura e impraticabile, e sfugge a ogni tentativo di normalizzazione.
Inquadrate in dinamiche di consumo e in un’ottica maschile, sono le donne fotografate da Elisabetta Russo, attrici, scrittrici e dive dello spettacolo che, nelle pose studiate e sempre riflettenti un ruolo all’interno della società, non riescono a non ammiccare a un desiderio maschile, e finiscono per restare intrappolate in rapporti di potere patriarcali.
La simmetria evocata in apertura non può quindi che essere dispari, lo sguardo ai soggetti nomadi disassato, il modello identitario sfasato. E la fotografia riesce a essere il luogo in cui il divenire di identità mobili possa trovare il modo di dare un volto a soggettività eccezionali.
(ilmanifesto.it, 24 luglio 2020)
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea annuncia le 3 vincitrici della call Taci. Anzi, parla:
Allison Grimaldi-Donahue, con A Self-portrait, 2020, 1’51’’
Laura Heyman, con The Photographer’s Wife, 2020, 2’05’’
Léna Lewis-King, conL’autoritratto, 2020, 1’33’’
Lanciata durante il periodo di lockdown, in soli 24 giorni la call ha raccolto 198 video, provenienti da28 paesi in tutto il mondo, per oltre 7 ore di materiale. Taci. Anzi, parla è stato un invito a ripensare e a riflettere sulla propria voce e sulla propria immagine in un momento storico particolarmente significativo. Il racconto di sé è tornato ad essere un mezzo di comunicazione centrale con il mondo, proponendosi ancora, in maniera straordinariamente attuale, come un gesto e una pratica radicale di autodeterminazione.
Il 12 giugno le vincitrici sono state premiate da Cristiana Collu, Direttrice della Galleria Nazionale, con una cerimonia in videoconferenza. All’evento hanno partecipato oltre alle artiste vincitrici, Luisella Mazza, Head of Global Programs & Operations di Google Arts&Culture, e le curatrici della mostra Io dico io – I say Lara Conte, Cecilia Canziani e Paola Ugolini.
La giuria, composta da Laura Busetta, Giulia Crispiani e Valentina Tanni, ha selezionato i video vincitori seguendo, tra gli altri, un criterio che tenesse conto delle possibili assonanze e delle nuove letture del pensiero lonziano e ha motivato così le sue scelte:
«A Self-portrait di Allison Grimaldi-Donahue è un viaggio attraverso le immagini di un archivio personale, interrogate da una voce fuori campo, emessa da un corpo che non vediamo mai. Le immagini dell’infanzia e della giovinezza, insieme ai dettagli delle fotografie che ritraggono la famiglia e le persone care sono gli unici interlocutori di un soggetto in stato di isolamento. Nella fissità di quegli sguardi, il soggetto trova sia l’estraneità che la reciprocità, mentre l’autoritratto diventa una conversazione interiore capace di illuminare l’oscillazione tra passato e presente, toccando alcune delle tensioni più profonde che si nascondono in ogni atto di autoriflessione».
«Nel video The Photographer’s Wife di Laura Heyman, il soggetto è doppio, in quanto è allo stesso tempo la persona che ritrae e che viene ritratta. Mentre come ritrattista dà le istruzioni, come soggetto ritratto potrebbe scegliere di non seguirle o di reagire con un certo ritardo. Questo rapporto asincrono preannuncia che nessun soggetto è privo di interdipendenza con gli altri, e un autoritratto si costruisce sempre all’interno di questa relazionalità (colei che guarda e colei che è guardata). Inoltre, nella sua semplicità – inquadrando un delicatissimo tableau vivant verde-rosa – la scelta formale di Heyman innesca un’esperienza sinestetica».
«Il video L’autoritratto di Léna Lewis-King è incentrato sul rapporto tra la nostra percezione del mondo e i media che utilizziamo per documentarlo ed esplorarlo. Il tema dell’identità contemporanea, frammentata e autoriflessiva, viene esplorato attraverso l’uso di diversi strumenti e tecniche (video, fotografia e software), evocando con successo la natura caleidoscopica del nostro attuale paesaggio mediale e il suo effetto sulla nostra personalità».
I tre video vincitori della call diventeranno parte integrante di Io dico io – I say I, la grande mostra collettiva di oltre 40 artiste prevista per marzo 2021, ed entreranno nel progetto di digitalizzazione dell’Archivio Lonzi sviluppato con la collaborazione di Google Arts&Culture.
Per la Direttrice della Galleria Nazionale Cristiana Collu «Con il linguaggio cinematico del videoselfie le vincitrici non solo hanno dato voce e hanno rappresentato quello che noi siamo, quello che è il nostro tempo, ma hanno presentato, inaugurato e sotteso un desiderio, una consapevolezza e una determinazione: segnare un cammino con lievi passi da gigante.»
Durante la videoconferenza, le artiste hanno approfondito la concezione di autoritratto che ha ispirato la realizzazione dei video.
Allison Grimaldi-Donahue racconta: «Vivo in Italia da dieci anni e molte delle persone che amo sono abbastanza lontane, con una pandemia globale che ha reso impossibile vederle. Questa impossibilità le collega a molte altre persone nella mia vita che sono irraggiungibili per altre ragioni. Parte del diventare adulti, almeno per me, è stato un viaggio verso la comprensione della perdita. Mi terrorizza guardare gli album di famiglia e rendermi conto che la maggior parte delle persone lì dentro sono morte; ma sono anche incline a esplorare il significato e il perché di questo mio sentire, e a pensare più a fondo a chi erano queste persone. Man mano che invecchio, assomiglio sempre più a mia madre, un rapido sguardo allo specchio la riporta in vita. Questo video fa parte della mia indagine in corso sulla creazione del sé, il sé intertestuale, innestato, rifatto, plastico».
Per Laura Heyman, l’autoritratto si sdoppia, riflettendo il rapporto tra soggetto ritratto e quello che ritrae. «Quali sono le lezioni che la storia dell’arte insegna alle donne, in particolare quelle che riguardano la musa femminile? È possibile interiorizzare queste lezioni e, in caso affermativo, che effetto ha sulla propria produzione? Un personaggio femminile mantiene una serie di pose, mentre guarda con intimità la macchina da presa. Una voce fuori campo è impartisce istruzioni ma è anche familiare, dando una sensazione di intimità. Lo spettatore ha la sensazione di vedere qualcosa di privato, forse l’artista che collabora con la sua amante. Il lavoro della modella/soggetto è sempre performativo: deve essere in grado di ritrarre un sé vero e idealizzato. In questo caso il problema è un po’ più complicato. Sia come artista che come modella devo trasmettere non solo questa soggettività multipla, ma anche riflettere allo spettatore un fotografo/marito immaginario. Il video scompone la performance che si svolge su entrambi i lati della macchina fotografica, esaminando il modo in cui il potere può passare dall’artista al modello, e chiedendo se i risultati di questo scambio siano una rappresentazione più dell’uno o dell’altro».
Léna Lewis-King sposta l’attenzione sulla stratificazione dell’identità, messa anche in rapporto con la complessità delle immagini digitali: «Il titolo del video presentato per la call Taci, Anzi Parla si ispira direttamente all’opera di Carla Lonzi Autoritratto e si concentra sull’idea della “Rivolta Femminile”. Pensando alla natura del sé, mi sono resa conto che ci sono molti strati contrastanti e armonici che rendono difficile una semplice definizione o comprensione. Attraverso l’uso della voce fuori campo e di filmati d’archivio personali, il mio video cerca di spacchettare questa complessità stratificata e di arrivare al cuore di ciò che il sé può essere, in modo onesto e vulnerabile».
A conclusione della cerimonia, le curatrici di Io dico io – I say I, Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini, hanno messo in luce i punti di contatto dell’open call con il progetto di mostra: «Io dico Io – I say I nasce dalla necessità di prendere la parola e parlare in prima persona, per affermare la propria soggettività, componendo una sola moltitudine, una molteplicità di io che risuona di consonanze e dissonanze. La mostra traccia un percorso non lineare, una narrazione che sedimenta storie, sguardi, immaginari: oggi, con Taci. Anzi, parla, si arricchisce di altre voci e prospettive, che ne ampliano ulteriormente le visioni».
L’evento di premiazione è stato coordinato da Anna Gorchakovskaya, Francesca Palmieri e Alessia Tobia. Per maggiori info sulla call Taci. Anzi, parla: https://lagallerianazionale.com/2020/04/16/taci-anzi-parla/
Video vincitori:
(Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, 12 giugno 2020)
di Katia Ricci
Nell’Esposizione Universale di Parigi del 1855 per la prima volta si poteva ammirare una mostra speciale intitolata Fotografia. Parigi era la capitale del XIX secolo, come la chiamava Walter Benjamin, in cui si muoveva liberamente il flâneur, il gentiluomo borghese alla ricerca di piaceri e godimenti che la Ville Lumière con i suoi spazi sociali offriva alla borghesia e da cui gli uomini tenevano lontano le proprie donne perché considerati sconvenienti.
Il lungo tempo trascorso, ma soprattutto le numerose lotte delle donne hanno reso Parigi una città ben diversa da quella rappresentata nei quadri impressionisti. È in questa Parigi che la fotografa Teresa d’Agnessa gira con la sua macchina fotografica per fissare brani dell’interminabile storia che le donne stanno riscrivendo per colmare vuoti di vite e di senso che gli uomini non hanno voluto o saputo raccontare. Il risultato è nella mostra fotografica attualmente in esposizione alla Merlettaia in via Arpi 79/A a Foggia. Doveva essere inaugurata l’8 marzo ma la chiusura forzata di questo periodo l’aveva impedito e rimandata a tempi più sicuri.
Teresa d’Agnessa, fotografa per passione da sempre, ha cominciato a esporre nel 2008 prima a Foggia presso Fotocine club, alla Merlettaia e a Parco Città, poi in varie città e anche a Parigi presso gallerie d’arte contemporanee, tra cui Espace Christiane Peugeot.
La mostra si compone di tre sezioni: la manifestazione del 6/10/2018 contro la violenza fatta alle donne, immagini della street art parigina, e foto che ritraggono la toponomastica di strade e piazze intitolate alle donne dalla Municipalità o dalle donne stesse del collettivo Osez le Féminisme che in una notte hanno ribattezzato le strade dell’Ile de la Cité con nomi di donne celebri, Toni Morrison, l’artista Niki de Saint-Phalle o la navigatrice Florence Arthaud.
L’azione dimostrativa serviva a lanciare una campagna per spingere il comune di Parigi a dedicare più vie a personaggi femminili, infatti solo il 2,6% delle strade parigine ha nomi di donna.
Altre fotografie ritraggono targhe con il nome di donne vittime di femminicidio poste sotto la targa che reca il nome di un uomo a cui è intitolata la strada o la piazza, azione fatta in occasione della manifestazione contro la violenza alle donne.
La locandina della mostra riporta la fotografia del murale di Gregos artista francese autore di una forma particolare di street art tridimensionale che unisce pittura e scultura. Dissemina per Parigi suoi volti in gesso colorato spesso irriverenti per la lingua che mostra. In Rue des Hospitalières Saint-Gervais nel cuore del Marais, nel 2014 per celebrare l’8 marzo ha creato il volto di una donna con tante facce maschili e sotto la scritta in francese “siamo cresciuti tutti nel corpo di una donna”.
“La street art – dice Gregos in un’intervista – è molto influente in Francia, soprattutto nelle grandi città, e molto a Parigi, capitale francese della street art e forse una delle maggiori al mondo. Dovunque vai vedi tag, graffiti, sticker, poster, stencil, collage. Tag e graffiti sono ancora considerati vandalismo, anche se sono in mostra nelle gallerie e valgono migliaia di euro.”
Molte fotografie di Teresa d’Agnessa riguardano questa forma d’arte ormai diffusa in tutto il mondo e praticata da molte artiste. Una delle più note in Francia è Miss Tic, parigina di origine tunisina, che per le strade di Montmartre, tra i cui vicoli è cresciuta, fin dal 1985 disegna sui muri donne dall’atteggiamento sensuale accompagnate da versi spesso ironici e taglienti, in un intreccio di arte visiva e poesia.
Questi disegni disseminati in città sono il più delle volte effimeri, destinati a deteriorarsi e a scomparire. Ma oggi, dopo che hanno interessato i collezionisti, gallerie, musei e istituzioni dedicano loro mostre e battage pubblicitario, il che ha però ridotto in molti casi la carica polemica che originariamente contenevano.
Le fotografie in mostra sono un modo creativo, ironico, graffiante per denunciare la violenza sulle donne e spingere gli uomini a riflettere sul fatto che ormai nessuno può chiamarsi fuori e non contribuire a risolvere questo vulnus alla civiltà e alla dignità maschile. Senza ricorrere ad artifici retorici e a inquadrature particolarmente ricercate, sacrificando così la sua ricerca estetica, la fotografa sceglie di raccontare le battaglie delle donne dando rilievo giustamente a contenuti molto importanti, tali non solo per le donne, ma per la possibilità di rifondare un nuovo patto tra donne e uomini.
La mostra presso la Merlettaia di Foggia, via Arpi 79, si può visitare da giovedì 4 a mercoledì 10 giugno 2020 nei seguenti orari: mattina ore 10.30, pomeriggio ore 19.00 (tranne il sabato pom.). Domenica chiuso. In seguito su appuntamento. Per prenotare, scrivere a t.dagnessa@gmail.com o telefonare al 366 812 96 24.
(www.libreriadelledonne.it, 6 giugno 2020)
di Riccardo Conti
La gallerista ripercorre un quarto di secolo di mostre sempre intense e nate dal dialogo con gli artisti e la loro volontà di sperimentare temi e modalità
Venticinque anni fa inaugurava a Milano la Galleria Raffaella Cortese nel primo spazio di via Farneti diventando ben presto uno dei punti di riferimento che più hanno segnato la mappa del contemporaneo in città. In questo lungo periodo lo spazio, che nel frattempo si è espanso in tre diversi civici nella tranquilla via Stradella, ha visto sfilare alcuni dei nomi più importanti dell’arte del presente: autrici fondamentali di linguaggi quali performance e video, accanto ad artisti che sono cresciuti con la storia stessa della galleria. 25 anni di mostre sempre intense e nate dal dialogo con gli artisti e la loro volontà di sperimentare temi e modalità espressive che restituiscono la dimensione di un progetto complessivo sofisticato e persino raro per uno spazio privato.
Abbiamo conversato con Raffella Cortese, fondatrice della galleria che porta il suo nome, figura preziosa e sensibile nel panorama del mercato dell’arte contemporanea con la quale ripercorriamo alcuni momenti della sua carriera; dalla stringente attualità alla sua visione poetica del femminismo e dell’impegno culturale e politico nel lavoro degli artisti che rappresenta.
Partiamo da un tema inevitabile: poco prima del lockdown hai inaugurato la mostra dell’artista israeliana Yael Bartana che ora ha riaperto e che proseguirà fino al 13 di giugno: perché dobbiamo vederla?
Patriarchy is History è una mostra potente, ben costruita, che merita di essere vista ed è stata infatti estesa. Yael Bartana è una figura emblematica, la cui ricerca racchiude tanti valori e diverse tematiche legate alla storia della galleria. È un’artista impegnata politicamente con una visione anche utopistica – penso alla trilogia con cui ha rappresentato la Polonia alla Biennale di Venezia del 2011, in cui immagina una possibilità concreta per un rinascimento ebraico in Polonia. Penso inoltre alla scritta al neon, assoluta protagonista nello spazio in via Stradella 4, dove l’intensa luce blu si fa ambientale e dichiara che la storia dell’umanità è scritta al maschile. Di lei amo ricordare un altro neon, What if Women Ruled the World?, quasi una provocazione che mi preme cogliere e rilanciare, dal momento che ho sempre lavorato in prevalenza con artiste donne e mi piace interrogarmi su questa possibilità.
Yael Bartana, Patriarchy is History, 2020. Installation view at Galleria Raffaella Cortese, Milan. Photo t-space studio
Cos’ha rappresentato per la galleria l’interruzione dei mesi scorsi, come avete riconfigurato il lavoro durante questi mesi?
Il lockdown ha rappresentato per noi una modalità diversa di lavoro, da remoto, piuttosto che un’interruzione. È stato specialmente dedicato alla comunicazione e all’intensificazione dell’offerta digitale. Abbiamo inaugurato la Viewing Room, un’espansione dei nostri spazi, con una rassegna video. Personalmente, ho lavorato molto anche di memoria, ricostruendo e ricordando le esperienze che hanno contraddistinto questi 25 anni di attività. Mi sono riavvicinata alla letteratura, da sempre una mia passione, e all’arte antica, realizzando come siano state e siano tuttora delle vere e proprie fonti d’ispirazione anche nella scelta degli artisti.
A quali riflessioni ti ha portata questa lunga esperienza?
Prima di tutto, sentivo un grande desiderio di tornare in galleria, luogo che sono abituata a vivere intensamente. Amo condividerne gli spazi con i miei collaboratori, gli artisti, i collezionisti e trovo fondamentale il contatto diretto con le opere, che mi è ampiamente permesso anche grazie al nostro magazzino adiacente allo spazio espositivo. Allo stesso tempo, con l’intensificata esperienza virtuale degli ultimi mesi, ho realizzato come il nostro lavoro sarà sempre più legato al digitale. Sperimentando strumenti come la Viewing Room di Frieze, ho riconosciuto alcune potenzialità e riscontrato i primi risultati. Non sono paragonabili a quelli di una fiera reale, ma sono comunque segnali positivi, indici di una trasformazione in atto che ci vede ricettivi. Con alcuni colleghi italiani, stiamo infatti elaborando dei progetti corali online. Penso che, come ha affermato Paolo Verri, nel futuro prossimo il mondo umanistico dovrà viaggiare in parallelo al mondo della scienza e della tecnologia.
E da un punto di vista più personale invece?
Le meditazioni, al di là dei confini professionali, hanno toccato la sfera personale e, soprattutto, sollecitato la mia coscienza politica. Ho visto un mondo politico disorientato, e non parlo solo dell’Italia e dell’Europa. Mi sono interrogata a lungo sul potere, sui suoi limiti e pericoli. Cito a questo proposito le parole di Carlo Galli, che parla di un’“azione politica decidente che separa i sani dai malati” e di questa “obbedienza nuova” che viene richiesta ai cittadini, a spese della libertà dell’individuo: “Sempre nuovi perimetri spaziali vengono imposti: l’abitazione, il comune di residenza, i duecento metri dalla residenza, il metro e mezzo dalle altre persone; e poi i limiti regionali, e poi i confini nazionali.”.
Ora che finalmente possiamo tornare a visitare gallerie e musei dopo Yael Bartana avete in programma una collettiva assai particolare, ce la racconti?
Il prossimo progetto è apparentemente molto semplice – una sola opera sonora per ciascuno dei tre spazi espositivi – e nasce da una conversazione avuta con Marcello Maloberti. Durante la quarantena, sono state frequenti le chiamate con gli artisti, in cui ho ritrovato uno stato d’animo condiviso: la stanchezza d’immagini. I nostri siti, così come i social, hanno riversato una quantità di immagini senza precedenti. Ne è emerso il desiderio di sacrificare la vista a favore dell’ascolto. Ci siamo inventati una mostra, letteralmente, a tre voci, che coinvolge Maloberti, Miroslaw Balka e Simone Forti. Il primo invita il pubblico a immaginare un affresco di Lorenzo Lotto attraverso la sua descrizione orale, il secondo genera le parole pronunciate da Drupi, Sereno è, la terza presenta una registrazione originale da una sua sperimentazione del ‘68. Gli spazi della galleria saranno lasciati, per la prima volta, completamente vuoti, e sarà l’ennesima conferma della mia propensione verso i media time-based.
Veniamo a questo importante traguardo di venticinque anni della tua Galleria: nel 1995 iniziasti con una mostra di Franco Vimercati che vorrai celebrare nuovamente a settembre. Perché apristi il tuo primo spazio? Cosa ti spinse a dedicare il tuo tempo all’arte?
A settembre vorremmo proporre la mostra di Franco Vimercati, un artista che continua ad affascinarmi moltissimo, ossessivo e discreto, fra i primi a utilizzare concettualmente il mezzo fotografico in Italia, dagli anni Settanta. La curatela della mostra sarà affidata a Marco Scotini, che presenterà alcune serie piuttosto rare di opere degli anni Settanta: le tele bianche, i listelli di legno, le piastrelle, tutti oggetti famigliari che Vimercati ha minuziosamente e ripetitivamente analizzato attraverso l’obiettivo. La fotografia è un altro fil rouge che accomuna quasi tutti i miei artisti e che ho privilegiato fin dai primi anni Novanta. In quel momento storico il dibattito sul riconoscimento della fotografia come opera d’arte, anche da un punto di vista commerciale, era in pieno fermento ed è stato bello prenderne parte. Ho aperto il mio spazio e dedicato la mia vita all’arte, senza cui mi sentirei profondamente sola.
Molto prima che diventasse una sorta di trend la tua galleria ha proposto al pubblico alcune delle figure femminili fondamentali delle ultime tre generazioni: da Joan Jonas a Martha Rosler, da Kiki Smith a Roni Horn e italiane come Monica Bonvicini e Luisa Lambri solo per citarne alcune: che cosa hai imparato da questo scambio intenso con espressioni così radicali del mondo femminile?
La propensione verso l’arte femminile non ha mai avuto i connotati di una moda passeggera per me, ha sempre significato un grandissimo impegno oltre che un enorme piacere. La sensibilità femminile mi attrae in modo istintivo, mi cattura la sua profonda introspezione che si traduce in espressioni artistiche connotate spesso da un forte senso trasgressivo e perturbante. Martha Rosler e Monica Bonvicini sono due artiste molto coinvolte nelle questioni post-femminista, due instancabili battagliere; Joan Jonas si dedica con una sensibilità smisurata all’urgenza climatica; Kiki Smith ha analizzato il corpo della donna avvicinandolo sempre di più, negli anni, alla dimensione naturale e animale; Simone Forti continua a fare video mettendo in luce la sua malattia come parte si sé e del suo percorso: ciascuna di loro – sono 22 – arricchisce il programma della galleria in modo diverso, ma tutte hanno una straordinaria capacità di sperimentare, di rinnovarsi costantemente e con grande coraggio, e sono per me fonte d’ispirazione. Quando mi incontro con una personalità delicata come Luisa Lambri, è come affacciarsi da una nuova finestra sul mondo e scoprirne l’architettura, scomposta in dettagli, frammenti di luce, angoli, e chiaroscuri.
La stima e il rispetto e ciò che accomuna artisti, critici e collezionisti nei tuoi confronti e del lavoro che hai portato avanti in questi anni e la tua galleria si è guadagnata rapidamente lo status di punto cardinale tra gli spazi artistici milanesi: come hai bilanciato lo spirito di ricerca con le imprescindibili esigenze commerciali che una galleria deve soddisfare?
Ho sempre fatto ricerca perché fa parte del mio spirito e della mia idea di lavoro, non ho mai seguito le mode, ho sempre cercato di creare bisogni e desideri, e non nego che sia difficile bilanciare l’attività commerciale con delle scelte artistiche piuttosto difficili da un punto di vista del mercato. Oggi la galleria rappresenta ben 30 artisti di generazioni e nazionalità diverse, ne emerge un’eterogeneità che corrisponde a una grande libertà. Faccio le scelte che voglio, che sento importanti, che mi interessano e davvero stimolano la mia sensibilità. In questo mi sento molto libera.
Milano ha un rapporto con il contemporaneo che deve moltissimo alle gallerie e agli spazi privati anche per la scarsa offerta degli spazi istituzionali; tale assenza che effetti ha avuto sul lavoro di gallerista? Come hai visto cambiare la scena dell’arte contemporanea a Milano in questo quarto di secolo?
La scena dell’arte contemporanea a Milano è cambiata moltissimo in questi 25 anni. Nei primi anni Duemila ero Vicepresidente dell’ANGAMC, ci incontravamo spesso con l’Amministrazione Comunale per discutere di queste carenze e per sollecitare l’attuazione di un Museo – che ancora oggi non è avvenuta. Si sono però moltiplicati gli spazi, sia pubblici sia privati, dedicati al contemporaneo: penso per esempio alla Fondazione Prada che esisteva già nel 1993 e oggi ha espanso le sue sedi, all’Hangar Bicocca che è nata nel 2004 e alla Fondazione Carriero che ha aperto nel 2015. Certamente a Milano non sono mai mancate le ottime gallerie, ieri come oggi; ricordo sempre con stima Carla Pellegrini ed Emi Fontana. Prima del lockdown era una città davvero brillante e interessante, dove il turismo era attratto non solo dalla moda, dal design e dalla gastronomia, ma anche dall’arte, e si animava moltissimo in concomitanza con Miart e il suo ricco programma di eventi collaterali. Ora è un fondamentale dovere di tutti noi, “operatori culturali”, quello di riattivare la città, restituirle il fascino che aveva. La sua ricchezza da un punto di vista architettonico gioca un ruolo fondamentale in questo senso, anche grazie ai recenti interventi nella zona di Porta Garibaldi e poi di CityLife, che offre un programma di arte pubblica, e alle prossime riqualificazioni degli scali di Porta Romana e Farini.
La storia di ogni galleria è la storia di incontri e dialogo con i collezionisti, qual è il profilo dei tuoi clienti e com’è stata l’evoluzione del collezionismo in questi anni?
Ho sempre privilegiato gli appassionati d’arte e quindi non ho mai molti rapporti con i “buyers”, proprio perché il mio lavoro si rivolge a persone che vogliono collezionare l’arte perché la amano profondamente. Ho conosciuto un collezionismo allo stesso tempo colto e animato dall’emozione, dall’istinto e da una grande sincerità: la collezione diventa così specchio delle proprie ossessioni e sensibilità. Credo di aver dato importanza all’aspetto umano, trasformando le intese in relazioni solide e durature, in vere e proprie amicizie. I collezionisti mi hanno anche aiutato tantissimo, sostenendo le mie scelte. Sono stati il più grande supporto alla mia attività e con me hanno vissuto viaggi e avventure, condiviso e coltivato passioni comuni.
Le generazioni cambiano e oggi sono anche molto aperta ai più giovani e nuovi collezionisti, in cui continuo a ricercare quell’interesse nei confronti dell’arte che secondo me è fondamentale. L’arte può senz’altro rivelarsi un ottimo investimento, non voglio essere una purista e dire che l’arte è solo cultura, ma bisogna crederci e godere di quelle che sono le sue prerogative.
Da studente e poi da critico ho dei ricordi estremamente vividi legati alle mostre e agli artisti che hai proposto: il primo è senz’altro quello della performance di Marcello Maloberti intitolata All’incirca alla Caviglia del 2002: penso sia un’opera estremamente poetica e in qualche modo abbia definito non solo il vostro rapporto ma anche qualcosa di profondamente legato all’arte italiana degli ultimi trent’anni…
Marcello è un artista con cui lavoro dagli inizi e ho un rapporto estremamente intenso, le nostre divergenze d’opinione generano talvolta belle idee. Lui è stato una presenza costante e significativa anche quando ho cambiato e ampliato gli spazi, interpretandoli per primo con i suoi progetti spesso site-specific e sempre legati all’azione. Quella famosa performance, è vero, è stata profondamente poetica ma anche molto fisica e sensuale. Marcello ha invitato degli “extracomunitari”, come erano tristemente chiamati in quel periodo, in galleria. Vestiti eleganti, stavano letteralmente e metaforicamente in una posizione superiore, in piedi su degli sgabelli, con in mano delle rose rosse di un profumo inebriante che si mescolava all’odore della pelle. Marcello, un’artista che si è sempre dedicato all’analisi della scena locale, ha abbracciato in quel periodo un fenomeno nazionale, quello dell’immigrazione, che è poi diventata una tematica ampliamente affrontata nella scena artistica contemporanea.
Nella programmazione della galleria oltre che alla performance hai dato molto spazio al linguaggio del video, anche in questo senso non una scelta immediatamente commerciale ma coraggiosa e rispettosa della necessità di molti artisti di esprimersi attraverso quel medium. Ricordo ad esempio un incontro con l’artista inglese Maria Marshall alla quale dedicasti nel 2005 una mostra perfetta, di soli video.
Feci una mostra di Maria Marshall presentando il suo video di esordio When I grow up I want to be a cooker, uscito nel 1999, che ebbe una grande attenzione internazionale. Spesso gli unici protagonisti dei suoi video erano i figli, ritratti in una condizione di abbandono. Ma ogni situazione era solo un’illusione, generata dall’abile, perfetta, manipolazione digitale delle immagini.
Milano è una che città dove molto spesso le espressioni dell’arte contemporanea si sono fuse con quelle della moda. Come vedi questo scambio?
Trovo che l’incontro fra le arti visive e la moda sia spesso fecondo. Abbiamo realizzato mostre in collaborazione con Krizia, Herno e Aspesi, contaminazioni utili che hanno creato una bella trasversalità. Apprezzo molto anche le riviste di moda che dedicano sempre più spazio all’arte perché le loro penne offrono un punto di vista diverso, stimolante.
C’è un’artista con cui non hai ancora lavorato e che ti piacerebbe mettere in mostra prima o poi?
Si c’è. È un pittore, è nel mio cuore, chissà.
(www.libreriadelledonne.it, 04/06/2020)
https://www.vogue.it/news/article/raffaella-cortese-galleria-25-anni-intervista
Rispecchiamento, indagine critica, testimonianza. FOTOGRAFIA E FEMMINISMO NELL’ITALIA DEGLI ANNI ’70 Convegno a cura di Cristina Casero
Il convegno è stato riprogrammato come evento ONLINE su Zoom.
Di seguito giorni e orari degli appuntamenti:
- Mercoledì 3 giugno, ore 18
- Mercoledì 10 giugno, ore 18
- Mercoledì 17 giugno, ore 18
Il programma completo è disponibile nel sito ufficiale!
LOCANDINA ORIGINALE:
Sabato 7 marzo 2020, ore 10 – 18.30 Villa Ghirlanda, Cinisello Balsamo (MI) Nel programma di Milano MuseoCity (6-8 marzo 2020)
Il Museo di Fotografia Contemporanea raccoglie l’invito di MuseoCity, che dedica l’edizione 2020 al contributo delle donne nell’arte e nella società contemporanea, e promuove una giornata di studio sabato 7 marzo 2020 dal titolo “ Ri spe cchiamento, indagine critica, testimonianza. Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni ’70 “ nella cornice della storica Villa Ghirlanda a Cinisello Balsamo, Milano.
Il convegno, a cura di Cristina Casero, docente di storia della fotografia e di arte contemporanea, e introdotto da Giovanna Calvenzi, Presidente del Museo, vuole essere l’occasione per una riflessione condivisa sul ruolo centrale giocato nell’Italia degli anni Settanta dalla fotografia quando, in mano alle donne, essa diventa uno strumento privilegiato di r ispecchiamento, indagi ne critica, testimonianza . È intorno alla metà di quel decennio, che in Europa e negli Stati Uniti si diffondono le posizioni del nuovo femminismo, il femminismo della differenza. Questo rivoluzionario pensiero, incentrato sulla necessità di ridefinire l’identità della donna a prescindere da millenni di cultura maschile, ha forti ripercussioni sulle ricerche di molte fotografe e artiste, che spesso usano la fotografia in quanto mezzo ideale sia per condurre una riflessione identitaria, sia per indagare e testimoniare la condizione della donna, restituendone un racconto inedito, poiché nato dallo sguardo femminile.
Grazie al contributo di studiose che da tempo hanno indagato il rapporto tra fotografia e femminismo (Linda Bertelli, Lara Conte, Elena Di Raddo, Laura Iamurri, Lucia Miodini, Federica Muzzarelli, Raffaella Perna), saranno approfondite le ricerche di alcune fotografe italiane, a partire da quelle presenti nelle collezioni del Museo, alla luce del loro contributo ad una nuova riflessione sulla donna. Chiuderà gli interventi un dibattito moderato da Cristina Casero e Giovanna Calvenzi con alcune delle protagoniste di quella vivace stagione, in dialogo con il pubblico.
Durante la giornata sarà inoltre presentata al Museo una installazione multimediale realizzata dagli studenti della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano a partire dalle opere di fotografe conservate al Museo. Troverà spazio per un’anticipazione anche la mostra esito del progetto culturale C art e de Visite , di Arianna Arcara e a cura di Roberta Pagani, che per due mesi e mezzo ha offerto nel quartiere Crocetta a Cinisello Balsamo un servizio gratuito di ripresa e stampa di ritratti e fototessere.
di Serena Carbone
Intervista. Un incontro con Maria Rosa Sossai e Paola Gaggiotti, fondatrici del collettivo editoriale «fuoriregistro», che esplora in maniera multidisciplinare il mondo dell’educazione

Fuoriregistro – quaderno di pedagogia e arte contemporanea è un collettivo editoriale che esplora in maniera multidisciplinare il mondo dell’educazione; muovendosi tra teoria e prassi, ha attivato una serie di progetti che attraversano le comunità contemporanee. È un’iniziativa editoriale che si autoproduce, in collaborazione con Studio Boîte di Milano e l’editor Federica Cimatti. I contributi provengono da coloro che credono nella rivista e nella possibilità di operare cambiamenti. «Nel 2018 per il Festival Unlearnig Barcelona – spiega una delle sue ideatrici Maria Rosa Sossai – avevo invitato diversi artisti (tra cui Paola Gaggiotti, anche lei una delle fondatrici) e collettivi che hanno presentato dei processi di disapprendimento della didattica tradizionale: una messa in discussione dei metodi convenzionali di insegnamento e valutazione.
Cosa
si può raccontare del progetto?
Maria
Rosa Sossai: Durante quel festival è nata l’idea di continuare la
collaborazione con un progetto editoriale che, in verità, prosegue
una ricerca iniziata da tempo. Quando ero insegnante al Liceo
artistico, durante le mie ore di lezione, ho invitato alcuni artisti:
sono convinta che la storia dell’arte vada vissuta insieme; poi nel
2012 è nato il collettivo Alagroup e nel 2017 ho pubblicato il libro
Vivere insieme l’arte come azione educativa, dove affrontavo in
chiave storica le diverse sperimentazioni in ambito educativo,
dedicando poi una seconda parte agli esercizi d’artista –
nell’idea che essere artisti non significhi solo essere
professionisti dell’arte all’interno del sistema. La rivista
fuoriregistro continua il lavoro iniziato nel libro, ma ora condiviso
con una redazione numerosa.
Arte
ed educazione, un binomio importante che fatica a essere recepito
dalle scuole, tanto che la storia dell’arte è ormai la cenerentola
delle discipline. Che soluzione proponete per superare
l’impasse?
Paola
Gaggiotti:
fuoriregistro
è la nostra soluzione. La realtà in cui ci muoviamo è abbastanza
drammatica, l’arte infatti si è progressivamente impoverita e non
esiste quasi più nelle scuole, e dove c’è, resiste grazie
all’entusiasmo dei singoli. Parlo ovviamente di una visione
contemporanea in cui l’arte è anche uno strumento di relazione.
Quando entra dentro la vita, ha la capacità di creare un linguaggio
diverso, promuovendo un approccio più democratico che potrebbe
creare una cittadinanza attiva che, a sua volta, potrebbe mettere in
crisi un sistema mercantile logoro.
M.R.S. Aggiungo che oggi gli
unici che fanno educazione all’arte sono i dipartimenti di
didattica dei musei, ma al loro interno, dove vige una struttura
verticistica, l’aspetto didattico è secondario rispetto a quello
curatoriale, non c’è un’osmosi reale tra le varie attività e di
questa distanza le istituzioni museali devono assumersi la
responsabilità.
Voi
praticate «attivismo artistico»: cosa intendete con questa
espressione?
P.G.:
Attivismo artistico è stare dentro il sistema dell’arte in modo
attivo ma critico. Ed è anche uscire da quello stesso sistema per
andare in luoghi diversi, come ospedali, carceri o comunità. Quando
mi hanno chiamata in un ospedale perché serviva un linguaggio
diverso da quello scientifico e psicologico per relazionarsi ad
adolescenti ammalati di cancro, ho sperimentato diverse criticità:
nel momento in cui l’arte entra in questi luoghi non può essere
asservita né essere un riempitivo o un passatempo. L’arte
contemporanea è la messa in crisi dei processi convenzionali e a
questo il mondo delle scienze non è preparato, perché coglie solo
l’aspetto dell’intrattenimento.
Il
primo numero della rivista si pone all’insegna dello sguardo di
genere ed è dedicato a Carla Lonzi, si intitola infatti
«Feminisssmmm Vai Pure», chiaro riferimento al libro «Vai Pure»
che racchiude il dialogo tra la critica femminista e il compagno
Pietro Consagra. Come mai questa scelta?
M.R.S.
Quando Donata Lazzarini, docente e artista, mi ha chiamata per tenere
un laboratorio presso l’Accademia di belle arti di Brera, aveva già
deciso di leggere con le studentesse questo testo, il cammino era
tracciato e ci è sembrato il tema giusto con il quale iniziare. Le
questioni che riguardano la relazione di coppia sono estremamente
attuali, se pensiamo ai femminicidi e ai modi spesso conflittuali di
vivere la coppia. Anche le studentesse hanno detto fin da subito che
sentivano il testo molto vicino al loro vissuto: le performance che
hanno realizzato ci hanno colpito per la loro maturità espressiva.
Il che dimostra che le parole della Lonzi risuonano ancora attuali.
La stessa azione pedagogica, d’altra parte, si basa non tanto sui
contenuti ma sulla relazione che si crea tra docente e discente.
È
già in programma il secondo numero della rivista: quali saranno gli
argomenti affrontati?
M.R.S.
Del bene comune e anche questa volta si partirà da progetti in pieno
svolgimento. Sto curando al Museo civico di Castelbuono una mostra
dal titolo L’asta del 1920, per celebrare il centenario
dell’acquisto del castello da parte di tutta la comunità dei
castelbuonesi. In questo numero il focus è sulle comunità che
praticano il bene comune, tema ancora più attuale in questo momento
di forzato isolamento.
P.G. Io sto lavorando con una comunità
di ragazzi di Sestri Levante per realizzare un’opera ad utilizzo
dei cittadini stessi. Avendo già uno spazio, si pensava a come
arredarlo per metterlo a disposizione della comunità prendendo degli
oggetti da un magazzino di riuso. Ci siamo dovuti fermare e non è
detto che, quando riprenderemo, non ripenseremo tutto di nuovo.
(il manifesto, 18 aprile 2020)
Nota. “Feminisssmmm Vai pure” è stato presentato alla Libreria delle donne di Milano il 22 febbraio 2020. Vai alla registrazione video.
dal 24 gennaio al 6 febbraio 2020
Inaugurazione della mostra venerd’ì 24 febbraio alle ore 18,30
“Sgurdo sulla natura di una giovane savonese del primo 900” acquerelli di Francesca (Fanny) Martinengo, presso l’associazione Apriti Cielo! Via Spallanzani 16, Milano Porta Venezia cell. 3498682453
di Marirì Martinengo
“Flavia, mia figlia, un giorno, osservando i dipinti e i disegni di zia Fanny, mi ha detto: “Sono belli; Mamma, perché, invece di custodirli gelosamente in un armadio, non li fai vedere? Zia Fanny era la mia madrina di battesimo, mi amò in modo particolare, istituendo con me un vincolo preferenziale, tale da rendermi l’erede di affetti e di tradizioni materne. Nel mio libro Lavoce del silenzio (Genova, ECIG, 2005) e in altri scritti successivi, LaSignora del Monte (Neos Edizioni, Torino, 2011) ho descritto la sua influenza, dettata da tenerezza non scevra di autorità, sulle mie scelte di vita. Tra le nostre generazioni si è verificato un notevole divario, ma zia Fanny, comunque, ha costituito per me un modello di capacità relazionale e di impegno nel sociale – diventato per me politico. Pur dotata d’ inclinazione e di talento per le arti figurative, non fruì né di un’educazione né di un’istruzione idonee a coltivarli e a svilupparli; la sua passione per il disegno e la pittura si espressero in solitudine, senza incoraggiamenti né riconoscimenti. I fiori e i frutti, soprattutto ripresi dal vero, furono i soggetti privilegiati, ma non trascurò la figura, il ritratto, i paesaggi. Insieme alle due sorelle, unite da forti legami di affetto e di solidarietà, visse una vita agiata e decorosa, alternando i soggiorni nel confortevole alloggio savonese a villeggiature in campagna, a Monforte d’Alba, nelle Langhe, in una affascinante dimora, situata nel centro del borgo medievale, vicino al castello. Coltivò moltissime relazioni, sia in città sia in campagna, rivolgendosi a donne, bambine, bambini e famiglie, con affabilità e sincera partecipazione, senza operare distinzioni di classe: fra le sue frequentazioni figuravano la marchesa Scarampi del Cairo e le contadine del Sot. Fin dall’infanzia inserita nell’ambiente culturale cattolico e borghese, nella seconda parte della vita rese attive e operanti queste connotazioni, e, abbandonando matite, pennelli, tavolozza ecolori, si dedicò ad attività socio-religiose di donne per le donne, in particolare all’Associazione “La protezione della giovane”, volta a tutelare le ragazze provenienti in città dalle campagne e a favorirne l’inserimento in impieghi dignitosi anche se modesti. Con questa mostra, dove sono esposti alcuni suoi studi artistici, per la maggior parte non firmati né datati, intendo rendere omaggio, seppur tardivo, alla sua gentile e amorosa attenzione per la bellezza e la grazia della natura; dare alla sua passione per l’arte il riconoscimento che le è dovuto, al suo affetto per me un grazie infinito.
Francesca (Fanny) Martinengo nacque a Savona, il 31 maggio 1893, era figlia terzogenita di Maria Massone e di Alessandro Martinengo, era una delle sorelle del padre di Marirì Martinengo che ha voluto ricordarla con questa mostra. Morì a Savona, nel maggio 1983
La mostra allestita con la collaborazione di Giuliana Borgonovo resta aperta sino al 6 febbraio 2020 e si può visitare il martedì, venerdì e sabato dalle 18,30 alle 20,00 oppure su appuntamento telefonando al 3498682453
di Silvia Conta
A Brescia la prima mostra in Italia dell’artista e attivista curda Zehra Doğan, con circa 60 opere degli oltre due anni di detenzione nelle carceri turche
LA MOSTRA E’ STATA PROROGATA SINO AL 1 MARZO 2020
Al Museo di Santa Giulia di Brescia la personale che porta per la prima volta in Italia il lavoro dell’artista, giornalista e attivista curda Zehra Doğan (1989, Diyarbakir, Turchia): “Avremo anche giorni migliori – Zehra Doğan. Opere dalle carceri turche”, a cura di Elettra Stamboulis.
La mostra, voluta dal Comune di Brescia e dalla Fondazione Bresci Musei, diretta da Stefano Karadjov, si colloca nell’ambito della terza edizione del Festival della Pace si Brescia (dal 15 al 30 novembre 2019). In questo contesto negli spazi della mostra sabato 23 novembre, alle 16.00, si terrà un incontro aperto al pubblico con Zehra Doğan, che sarà dedicato alla memoria di Hevrin Khalaf.
«Il percorso espositivo, concepito da Elettra Stamboulis, riunisce circa 60 opere inedite, tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista, che interessano tutto il periodo della detenzione dell’artista nelle carceri di Mardin, Diyarbakir e Tarso, dove Zehra è stata rinchiusa per 2 anni, nove mesi e 22 giorni con l’accusa di propaganda terrorista per aver postato su Twitter un acquarello tratto da una fotografia scattata da un soldato turco», si legge nel comunicato stampa.
“Avremo anche giorni migliori” «costituisce la prima mostra di impianto critico curatoriale dedicata all’opera della fondatrice dell’agenzia giornalistica femminista curda “Jinha”», anche protagonista di una performance organizzata lo scorso maggio presso la Tate Modern di Londra, città in cui Zehra Doğan ha scelto provvisoriamente di vivere il proprio esilio, ha spiegato l’organizzazione.
dal 28 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020
Chiavenna (Sondrio), Ex Convento delle Agostiniane, Piazza S. Pietro
esposizione di EMILIA PERSENICO, a cura di Gabriella Anedi,
organizzata dalla Pro-loco di Chiavenna nell’antico refettorio delle Agostiniane.
Le opere presenti sviluppano il tema della casa, del corpo, dell’abito. I materiali suggeriscono la fragilità delle nostre costruzioni, ma ne conservano la bellezza con il montaggio di vecchi ricami, di merletti
delicati usati come stampi per modellazioni suggestive.
Ric-amare la casa: attività di filo e cucito che si traduce in un modo molto personale e originale per ricomporre i legami spezzati, nel silenzio e nella pazienza di un lavoro dove la pratica artistica, le téchne, decanta il dolore e si trasforma in domanda di senso, richiesta di ascolto, sguardo commosso, poesia.
«Parlo di cose cucite, aggiustate
e fragili. Oggetti che raccontano storie, che hanno un vissuto, che necessitano di cure e attenzione.»
21 DICEMBRE 2019/SABATO ORE 18.00
Casa della Memoria, via Federico Confalonieri, 14 Milano, Porta Garibaldi
Inaugurazione della mostra fotografica di Paola Mattioli
a cura di Maria Fratelli
Intervengono la curatrice e Cristina Casero.
La mostra EMERGEnza LIBERTA’, 12 foto dall’archivio di Paola Mattioli resterà aperta dal 22 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020
ORARI
dal lunedì al venerdì: dalle 9.00 al termine della programmazione (ore 20.30 circa)
sabato, domenica e festivi: dalle 10.00 al termine della programmazione
martedì 24 dicembre: dalle 9.00 alle 12.30
martedì 31 dicembre: dalle 9.00 alle 12.30
Milano // dal 18 ottobre al 31 dicembre 2019
Marina Abramović. Estasi
Pinacoteca Ambrosiana, Sala Sottofedericiana
Piazza Pio XII, 2
di Desirée Maida
La celebre performer, che di recente ha inaugurato una grande retrospettiva nella città natale di Belgrado, presenta a Milano il ciclo di video che documenta la performance realizzata nel 2009 in un ex convento nelle Asturie. Ispirandosi a Santa Teresa d’Avila
“Quando mi sono trovata nella cucina del convento, è come se avessi visto un miracolo davanti a me: mi sono accorta che era un lavoro che stava già nella mia testa”. Con queste parole Marina Abramović (Belgrado, 1946) ha descritto le impressioni e le sensazioni avute durante la sua prima visita negli ambienti della cucina (ormai dismessi) dell’ex convento di suore clarisse nella città spagnola di Gijón, nelle Asturie. Invitata nel 2009 da Mateo Feijóo, allora direttore del Teatro de la Laboral di Gijón, l’artista serba elabora per quei luoghi suggestivi una performance in tre atti e altrettanti video, dal titolo The Kitchen. Il prossimo 18 ottobre, nella Sala Sottofedericiana della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, verrà presentato al pubblico il ciclo completo di The Kitchen. Homage to Saint Therese nella mostra Marina Abramović. Estasi, a cura di Casa Tesori.
THE KITCHEN DI MARINA ABRAMOVIĆ E L’EX CONVENTO DI GIJÓN
Per realizzare i tre video, Marina Abramović ha tratto ispirazione dai Diari di Santa Teresa d’Avila, tra le figure più importanti del cattolicesimo. Nella performance di Abramović la cucina ha un ruolo centrale, proprio come fu fondamentale della vita di Santa Teresa: nei Diari infatti viene narrato come la santa spagnola avesse visioni ed estasi mistiche proprio in cucina, mentre era impegnata nella preparazione dei piatti. I tre video, quindi, rappresentano le tappe del percorso che l’artista compie per giungere, proprio come la santa, all’estasi: Vanitas, Carrying the Milk, Levitation. Anche la storia del luogo della performance, ovvero le cucine dell’ex convento di suore clarisse di Gijón, ha ispirato il lavoro dell’artista: costruito tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, il complesso monastico era stato concepito come parte di un progetto più complesso, ovvero la creazione di una città autosufficiente che ospitasse i figli dei minatori del posto rimasti orfani dopo un grave incidente avvenuto in un giacimento del bacino del fiume Caudal. Il monastero ha quindi formato professionalmente, ospitato e dato un pasto a tanti ragazzi, fino all’abbandono della struttura avvenuta negli anni Ottanta. Nei decenni successivi il complesso è stato riqualificato, diventando nel 2007 sede della Laboral Ciudad de la Cultura e ospitando nel 2009 la performance di Marina Abramović.
LA MOSTRA “MARINA ABRAMOVIĆ. ESTASI” A MILANO
“Era un’idea che come Casa Testori cullavamo da tempo: poter proporre nel loro insieme i tre video della serie ‘The Kitchen’, che Marina Abramović aveva realizzato come omaggio a Santa Teresa d’Avila”, spiega sul proprio sito l’associazione culturale Casa Testori, che cura il progetto della mostra (prodotta da Vanitasclub, gestore della Cripta di San Sepolcro, in collaborazione con la Veneranda Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana). “La condizione era però quella di trovare il contesto giusto, che restituisse la magia e l’energia di queste opere. L’occasione si è offerta grazie alla possibilità di poter installare il percorso in uno spazio di grande fascino e magnetismo, nel cuore di Milano: una grande sala dell’Ambrosiana contigua alla Cripta di San Sepolcro. È una situazione che dimostra quale potenzialità possa riservare il dialogo tra un’opera contemporanea e un contesto storico: i video infatti mettono in luce una profondità e un rigore che li apparenta alle grandi opere del passato conservate nella soprastante Pinacoteca Ambrosiana. La Cripta invece dimostra di essere un luogo del passato capace di parlare all’uomo contemporaneo. L’energia spirituale che Marina Abramović libera nei tre video, ambientati nelle grandi e suggestive cucine di un ex convento spagnolo, trova così una naturale continuità nelle sensazioni che trasmette l’‘immersione’ nella Cripta, riportata a splendore da un recentissimo restauro”.
Monica Bonvicini torna a Milano con una personale diffusa nei tre spazi della Galleria Raffaella Cortese.
Sino al 9 novembre 2019 Galleria Raffaella Cortese Via Alessandro Stradella 7-1-4, 20129 Milan
di Francesca Pasini
Monica Bonvicini insinua l’amore non corrisposto in alcune casette unifamiliari della provincia lombarda; nella prateria, dove galoppa il cowboy della pubblicità di Marlboro; nella luce bruciante della rabbia.
Con una critica che corrode, ma anche propone, racconta nei tre spazi della galleria un amore che – come canta Gianna Nannini – “è una camera a gas, è un palazzo che brucia in città…”.
Una carta da parati, che riproduce facciate e dintorni di casette colorate, avvolge le pareti; una moquette rosa, spessa, copre il pavimento. Si entra in una stanza e ci si trova in una “reale” periferia urbana. Spaesamento. Il leitmotiv goldoniano, “che la piasa, che la tasa, che la staga in casa”, vira in una fulminante traduzione: può uscire di casa solo se le strade sono di moquette. Cioè, mai.
Uno sberleffo che evidenzia il salto di civiltà intercettato dal Me Too: le donne hanno preso parola e finalmente sono state credute. Con processo analogo, nell’amore non corrisposto Bonvicini indica il dolore e la rabbia, ma anche la libertà di progettare i propri edifici simbolici e reali. Alle facciate di queste deliziose casette, infatti, sovrappone le loro piante, sulle quali disegna il corpo sessuato delle donne che virtualmente le abitano. In esplicita polemica rispetto alla supremazia maschile, il disegno dell’uomo vitruviano è sovrapposto a una pianta, a sua volta contenuta nel profilo erotico di una donna nuda. In un’altra, si sovrappongono rilievi architettonici e una scena erotica tra due donne e un uomo.
È il momento che l’architettura patriarcale accetti la costruzione delle donne e non solo la loro mitica trasfigurazione. I corpi disegnati sulle planimetrie, inserendo nella progettazione la differenza sessuale, creano nuovi modelli abitativi destinati all’incontro erotico e alle sue fantasie e non solo al separato regno della donna.
Il cowboy, che occhieggia dalla vetrata della stanza sull’altro lato della strada, sembra placido: l’argento della stampa bianco e nero su seta, lo liquefa un po’. Non si sente il rumore degli zoccoli, la prateria sulla quale galoppa è in ombra. Non significa che pace è fatta, ma che la voce delle donne è distinguibile da una diversa prospettiva. In questa stessa stanza, su uno scolapiatti gigante scolano dei peni in vetro rosa, soffiato. Allude alla specularità tra neutralità dell’arte e amore non corrisposto, il fuori scala del riferimento duchampiano accentua, invece, la distorsione prodotta in tutti i campi dall’occultamento delle donne nel genere neutro maschile. L’amore non può che essere non corrisposto. Come scrive Diane Williams, ripresa da Bonvicini, “è sempre in circolo in modo che tu possa afferrarlo, e ammalartene, e restare a casa con esso, oppure esci e ti occupi delle tue faccende, facendo star male chiunque abbia a che fare con te, anche se tutto ciò che questa persona ha fatto è stato spingere lo stesso tuo carrello al supermercato, in modo che anche lei possa andare a casa, e fare un incidente, come sporgersi per mettere il detersivo nella lavastoviglie, infilzarsi l’occhio con la punta di un coltello da pane che è ad asciugare sullo scolapiatti”.
Quando si scende nel basement, cioè nello spazio originario della galleria, il rosa della moquette e dei peni di vetro evidenzia il contrappasso del colore abbinato al femminile. La luce accecante di tubi al neon, sospesi e aggrovigliati da fili elettrici, ci sbatte in faccia la rabbia personale che entra in collisione con quella degli uragani. Sulla parete i alternano i disegni di tre case distrutte e una intatta. La domanda immediata è: fino a quando l’orizzonte domestico può essere una protezione rispetto al pericolo? Si può davvero censurare la libertà erotica, intellettuale, progettuale delle donne? È senza rischi? No, a volte, la rabbia distrugge tanto quanto un uragano, come avvertono due disegni a lato delle case: Anger is one short of danger; Strong women know the taste of their own anger. Le donne, però, conoscendo il sapore della propria rabbia, sanno che il conflitto non si risolve nell’eliminazione dell’altro.
di Donatella Franchi
La grande novità della Biennale d’arte di quest’anno May you live in interesting times è la presenza di molte artiste, che per la prima volta nella storia delle grandi rassegne internazionali, superano il numero degli artisti.[1]
Per la mia generazione, che ha lottato perché il pensiero e l’energia creativa delle donne trovassero spazio e ascolto in un mondo dominato dal pensiero e le pratiche, e dallo sguardo maschile, dove le grandi mostre e i musei accoglievano quasi solo opere di uomini, questa è senz’altro una novità di cui gioire e su cui riflettere. Non tanto perché le donne siano state finalmente ammesse in gran numero nel Sancta Sanctorum di questa importante rassegna internazionale, ma perché il loro pensiero e la loro visione sono necessarie per comprendere il presente.
Ricordo la Biennale del 2005, quattordici anni fa, dunque. Era curata da Rosa Martínez e María de Corral. La ricordo bene perché per la prima volta ho incontrato in quella sede delle artiste, che facevano arte assumendo la loro esperienza femminile come punto di forza, rivelando così una capacità di invenzione simbolica sovvertitrice e trasformatrice: Barbara Kruger e Jenny Holzer con il loro lavoro sul linguaggio, la giovane Regina José Galindo, con le sue intensissime performance di body art, Louise Bourgeois che, pur non identificandosi con il femminismo, era stata fortemente valorizzata dal movimento delle donne, e poi Ghada Amer, Mona Hatoum, Emily Jacir, Kimsooja.
All’entrata delle corderie dell’Arsenale campeggiava uno dei famosi grandi manifesti delle Guerrilla Girls, le artiste attiviste americane che, proclamandosi “coscienza del mondo dell’arte” dagli anni ottanta denunciavano l’assenza delle donne nelle grandi collezioni e musei d’arte. Intervenivano con azioni tipo flash mob nascoste da una maschera da gorilla, giocando sull’assonanza nella pronuncia inglese, delle parole “guerrilla” e “gorilla”. Il manifesto mostrava la grande odalisca del pittore neoclassico Ingres, distesa voluttuosamente di schiena, con il volto nascosto dalla maschera da gorilla, sotto la scritta che campeggiava a lettere cubitali: “Do women have to be naked to get into the Met. Museum?” “Le donne devono essere nude per entrare al Metropolitan Museum di New York?” Il primo lavoro a darci il benvenuto all’interno dell’Arsenale era “La sposa”, dell’artista portoghese Joana Vasconcelos, un’opera dalla sovversività irridente, un grandissimo lampadario bianco e luccicante, composto da migliaia di assorbenti interni, che a prima vista sembravano piccole candele.
La presenza delle artiste in quella Biennale era dirompente, ricchissima di invenzione, di poesia, e ironia. La loro arte faceva pensare, era azione trasformatrice.
Questa del 2019 è una Biennale che si ricorda invece con una prevalenza di toni cupi, o in bianco e nero. É una rappresentazione del dolore del mondo: squilibri economici, disastri ambientali, migrazioni forzate, perdita, danni provocati dal colonialismo, violenza, guerre, popolazioni dall’esistenza infragilita, come gli Inuit.
È un mondo in crisi in cui le donne parlano coraggiosamente, partendo dalla propria esperienza, dalle differenze dei corpi che siamo, dall’ascolto e messa a fuoco di voci e corpi che storicamente erano stati tacitati e violentati dal potere.
È un mondo che richiede posizioni radicali, come quella di Chiara Fumai (1978-2017), a cui viene dedicata una retrospettiva al padiglione Italia dell’Arsenale[2]. La prima video performance che ho visto di Chiara Fumai era su Valerie Solanas e la sua critica estrema al potere dell’artista maschio nel suo testo SCUM. Questa artista, morta due anni fa, a soli 39 anni, è una femminista che si identifica con figure di donne radicali, come Carla Lonzi, Rosa Luxemburg, perfino Ulrike Meinhof, e altre meno conosciute, di cui evoca le voci in performance di grande intensità.
L’artista cilena Voluspa Jarpa, nella sua grandiosa opera di riflessione sul colonialismo, dove coinvolge 120 persone, in maggioranza donne, spiega in parte, in una intervista, le motivazioni della presenza di tante artiste a questa Biennale: “Sono capaci di mettersi al posto dell’altro, hanno una relazione non puramente intellettuale e di potere, ma anche affettiva”. Dice anche che in Cile, si sta vivendo “un momento interessante, femminista, che viene dalle giovani studentesse, che vogliono formare un altro tipo di società”.
Le artiste e gli artisti di questa Biennale ci comunicano che la pratica artistica non è tanto una manifestazione di eccezionali abilità artigianali, è soprattutto stimolare pensiero, è tramite di esperienze, è mettere a fuoco delle parti di realtà per poter riflettere insieme, per renderci più consapevoli e responsabili di quello che sta avvenendo intorno a noi. Il mondo è una responsabilità da prendere, bisogna averne cura.
L’artista svizzero Christoph Büchel (Basilea 1966) ha chiesto di portare dal porto di Augusta, in Sicilia, all’Arsenale di Venezia, sulla sponda vicino all’acqua, il relitto del peschereccio libico che affondando al largo di Lampedusa nel 2015, ha trascinato con sé più di 700 persone, chiuse nelle stive e nella sala macchine. La marina militare italiana ha recuperato il peschereccio per identificare i corpi e avvisare le famiglie. Il relitto, che l’artista ha chiamato Barca nostra, squarciato e consumato dal mare, ci crea un contraccolpo: lì si è consumato un genocidio, non si può dimenticare.[3] Mi è venuta in mente l’emozione che mi ha suscitato la visione del relitto dell’aereo di Ustica, a Bologna, e la discrezione e delicatezza con cui Christian Boltansky gli ha creato intorno un’installazione che con grande affetto rievoca le persone che sono morte in quel disastro, un atto di guerra in tempi di pace. Una delle differenze tra Barca nostra e l’operazione di Boltansky è che qui, all’Arsenale, si può passare davanti al relitto impreparati, senza rendersi conto di che cosa rappresenta.
Teresa Margolles (Città del Messico 1963), ci esorta a tenere vive le coscienze e a non dimenticare i femminicidi nel mondo con Muro Ciudad Juárez (2010), presente ai Giardini. Ha fatto trasportare a Venezia il muro di cemento da questa città di confine, crivellato di colpi di pallottole e sormontato da filo spinato. L’artista mette a fuoco le tracce della violenza dei narcotrafficanti, che continua a perpetrarsi soprattutto nei confronti delle donne.
La Búsqueda (La ricerca, 2014) è un’altra opera di Teresa Margolles all’Arsenale. L’artista ha registrato il rumore del treno che, attraversando Ciudad Juárez, fa vibrare i vetri recuperati in quella città, e che lei ha ricoperto di manifesti e ritagli di giornale con i volti di giovani donne scomparse.
Sono opere reperti che vogliono creare scatti di coscienza, di consapevolezza.
Shilpa Gupta (Mumbai India, 1976) riflette sul concetto di confine e sul potere. For, in your tongue, I cannot fit (Perché non posso adattarmi alla tua lingua) è un’installazione sonora di grande potenza. All’inizio sembra di trovarsi di fronte ad una moltitudine di leggii che sorreggono dei fogli bianchi con delle parole stampate. In realtà sono fogli con poesie trafitte da barre di ferro e sormontate da cento microfoni da cui escono voci che leggono i versi di 100 poeti incarcerati e censurati per le loro posizioni politiche. Sono poesie, in arabo, azero, hindi, inglese e russo dal VII secolo ad oggi.
Ai Giardini si trova un’altra sua opera, di grande impatto, Untitled, sulla sicurezza, il confine, l’isolamento: un cancello meccanico residenziale che sbatte con aggressività contro un muro, distruggendolo lentamente.
Rula Halawani (Palestina, 1964) è una fotografa che vive a Gerusalemme. Lavora sulla perdita. Espone una serie di grandi fotografie in bianco e nero, For my father, alla ricerca delle tracce della Palestina perduta della sua infanzia.
Molte opere di artiste si concentrano sul modo di vivere il proprio corpo e sullo sguardo.
Una presenza molto forte ai Giardini e all’Arsenale è quella di Zanele Muholi (1972, Durban, Sud Africa), nera, lesbica, si occupa di tematiche queer, è una delle fondatrici del Forum for empowerment of women. Vuole essere definita un’“attivista visiva”. Somnyama Ngonyama, Hail the dark lioness (Salutate la leonessa scura, 2012 in corso) è una serie di 365 autoritratti che immortalano un anno di vita di una donna lesbica, nera, in Sudafrica. Volti di donna che ci guardano negli occhi con fierezza e aria di sfida.
È molto interessante paragonare questi autoritratti ai ritratti di donne africane travestite da borghesi europee della fotografa Felicia Abban (1943), nel padiglione del Ghana. Questa artista che negli anni ’60-70 lavora sui travestimenti, mi ha fatto venire in mente il lavoro sui travestimenti e i ruoli femminili di Marcella Campagnano, che, fino alla fine di maggio di quest’anno, era presente nella bellissima mostra Il soggetto imprevisto,1978 Arte e femminismo in Italia.[4]
Mari Katayama (Giappone 1987), colpita da una grave malattia genetica, ha le gambe e una mano gravemente mutilate, lavora con la stoffa realizzando sculture morbide che riproducono il suo corpo, come protesi fantasiose.
Voluspa Jarpa (Cile 1971), con Altered views (Sguardi mutati) crea un’opera complessa, multimediale, che comprende anche un’opera musicale Opera de Emancipación, dove propone forme di decolonizzazione culturale con una revisione della storia europea. In 15 anni di lavoro ricerca negli archivi di agenzie di intelligence (ha studiato anche la guerra fredda, Gladio, l’attentato a Bologna, il rapimento di Aldo Moro). Capovolge il punto di vista con cui è stata scritta la storia del colonialismo. Non indaga soltanto l’egemonia coloniale europea, ma mette in discussione l’adattamento al pensiero dominante delle colonie, che così dimenticano le loro origini culturali. Studia il pensiero eurocentrico attraverso le relazioni uomo-donna, di classe e di razza. È un lavoro molto impegnativo anche per il coinvolgimento che richiede a chi visita questo padiglione all’Arsenale.
Anche la polacca Marysia Lewandowska (1955), che vive a Londra, ha lavorato sugli archivi, quelli della Biennale di Venezia e del Victoria and Albert Museum di Londra: It’s about time (Era ora). Dà valore alle voci inascoltate delle donne che hanno collaborato alla fondazione della Biennale d’arte di Venezia alla fine dell’800. Riconosce l’importanza di Felicita Bevilacqua La Masa (1822-1899) e la sua posizione critica riguardo la creazione della mostra internazionale nel 1895. “Se comprendiamo la funzione degli archivi come siti di contestazione, dobbiamo accettare la sfida che rappresentano per la versione riconosciuta della nostra storia condivisa”, lei dice. Leggendo gli archivi della biennale non trova le voci delle donne. Vuole ricrearle e immagina una conversazione tra di loro chiedendo la collaborazione di femministe italiane.
Christine e Margaret Wertheim (1958, gemelle australiane, vivono a Los Angeles). Espongono esempi di un lavoro collettivo grandioso, a cui partecipano oltre10.000 persone. We are all corals now mette a fuoco la lenta distruzione delle barriere coralline che stanno morendo per l’innalzamento della temperatura dell’acqua e per i rifiuti di plastica. Sono creazioni all’uncinetto. Il lavoro all’uncinetto, che le artiste hanno imparato dalla madre, viene valorizzato come un lavoro artistico molto complesso, capace di riprodurre l’intelligenza della matematica non euclidea, quella dei frattali. È anche una meditazione sul tempo e gli ecosistemi. Le ore interminabili di lavoro richieste rimandano ai secoli di lenta crescita dei coralli. È una meditazione sull’arte, la scienza e la collettività, nell’epoca del riscaldamento globale. L’umanità deve stabilire connessioni con il mondo che abita, perché tutto è interconnesso e in relazione.
Questa biennale mette in scena il dolore, l’ansietà, l’impotenza, la perdita, ma anche il desiderio di vita e di cambiamento.
C’è molta fotografia, e anche per questo la metafora del “mettere a fuoco” mi appare il tema dominante di tutta la rassegna.
Il ruolo dell’arte è mettere a fuoco quello che l’abitudine cela. L’abitudine può diventare indifferenza. L’arte ci risveglia dal bisogno di dimenticare, di lasciarsi andare. Questa che incontriamo alla Biennale del 2019 è un’arte fortemente politicizzata, completamente immersa nel presente, nelle difficoltà del mondo in cui viviamo.
Un’amica che visitava con me la Biennale mi ha detto: “Io voglio che l’arte sia diversa dalla vita”. Questa non è un’arte che fa sognare, che offre rifugio in un mondo fantastico. Passando da un’installazione all’altra, da un padiglione all’altro, sembra di non avere tregua.
Ma nella sua tragicità penso che sia un’arte a servizio della vita.
Un importante controcanto alla Biennale d’arte è la mostra Letizia Battaglia, Fotografia come scelta di vita, a cura di Francesca Alfano Miglietti, alla Casa dei tre Oci, alla Giudecca, un’esperienza molto intensa, indimenticabile, una di quelle mostre che permettono un vero incontro.[5]
Letizia Battaglia oggi ha 84 anni, ed è una grande fotografa e una grande donna. Nei due film intervista presenti alla mostra, si dichiara femminista[6], pensa che le donne abbiano una poetica diversa. “La fotografia è una parte di me, ma non è la parte assoluta, anche se mi prende tantissimo tempo.” Mettere la vita al primo posto e non fare dell’arte un assoluto. Io credo che qui stia la vera differenza nel modo di vivere l’arte di una donna e di un uomo.
Come diverse artiste del passato e del presente, Letizia Battaglia smitizza la figura dell’artista: “Fin da bambina sognavo di diventare scrittrice, per cui il giornalismo era una cosa naturale. Però, quando portavo da free-lance un’idea, un articolo, mi dicevano sempre “e le fotografie”? Allora una mia amica mi regalò una macchinetta e iniziai a fotografare. Ma già allora era un mezzo che non conoscevo, anzi non lo conosco neanche oggi! Ho sempre fotografato quasi per miracolo. Non ho mai capito le tecniche, però sapevo quelle quattro cose che mi sono servite.”
“…I risultati non dipendono dall’attrezzatura, ma da testa, cuore e cervello… consiglio di fotografare tutto da molto vicino, a distanza di un cazzotto o di una carezza.”
“La fotografia è stata la mia salvezza. Ero una donna inquieta e attraverso la macchina fotografica ho potuto trovare un equilibrio”.
“Di Palermo, oggi, mi sento un po’ madre… provo a prendermene cura sapendo che non è affatto facile”. “Prima di fotografare la città, c’era la passione per la città, il rammarico, la rabbia per tutto quello che stava avvenendo. Per cui la mia macchina fotografica era come un altro cuore, un’altra testa, non era un mezzo per vendere fotografie, per diventare famosa, era il mio cuore che parlava.
…questi esseri ci macchiavano, ci corrompevano… Oggi c’è una mafia più grande e forte… che è dentro le istituzioni, tutte le istituzioni.”
“Io invento la mia speranza”, lei dice. Penso che queste parole possano esprimere anche il senso della pratica artistica, e prima di tutto un rapporto creativo con la vita, l’unico modo per darle un senso. Letizia Battaglia ha fotografato il dolore e la morte lavorando come reporter per il giornale L’ora di Palermo. Per poter accettare il dolore ha messo a fuoco la bellezza, questo le ha permesso di non arrendersi, “di inventarsi la speranza”.
La speranza di cui parla si esprime soprattutto negli sguardi e negli atteggiamenti delle bambine, nella bellezza delle donne. “Amo fotografare le donne… E cerco gli occhi profondi e sognanti delle bambine: mi ricordano me stessa a dieci anni, quando mi resi conto, di colpo, che il mondo non era poi così bello.” “Non mi veniva di fotografare gli uomini, i politici, mi venivano male, sfuocati… Avevo bisogno di fotografare le donne, perché fotografavo me stessa.” “…cercavo di raccontare non solo le défaillance, ma anche le cose belle. Perché io ho pure raccontato belle facce, belle bambine, belle situazioni più che altro al femminile.”
Il suo scenario è la città, Palermo, con le sue tragedie, i numerosissimi delitti di Mafia degli anni ’70, ’80, ’90, le manifestazioni, le piazze, le feste, le bambine e i bambini. La bellezza dei loro sguardi e dei loro volti redime dal dolore, ci restituisce un’umanità ricca di pietas, piena di dignità. “…Dovevo far capire che fotografavo perché li rispettavo” dice dei parenti delle vittime…” “Ho puntato l’obbiettivo con rispetto e solidarietà, mai con cinismo, cosciente in ogni modo di avere il dovere di documentare”. “Sentivo di dover vivere opponendomi all’orrore. Non so se sarei capace di fotografare una guerra, perché per me è indispensabile l’amore. Certo, avrei un amore umano per il dolore che vedrei. Ma ho adorato Palermo…”
“Credo che dentro una foto ci siano pure i baci che hai dato e che ti hanno dato. Quando si fotografa c’è la vita che hai vissuto, tutto è dentro una foto quando è ben riuscita.”
(Versione
integrale del testo pubblicato in forma ridotta sulla rivista online di Diotima
Per amore del mondo, 2019)
[1] Il curatore americano Ralph Rugoff, sostiene che le artiste hanno sempre avuto qualcosa da dire, ma che gli uomini riescono a conquistare molte più mostre personali, e che c’è ancora tanta strada da fare. (Intervista di Arianna di Genova, Alias, il manifesto, 1 maggio 2019)
[2] Nell’installazione Né altra Né questa. La sfida al labirinto, a cura di Milovan Ferronato, si trovano anche i lavori di Liliana Moro e Enrico David. Il curatore possedeva le bozze di un inedito di Chiara Fumai, di cui era amico.
[3] L’esposizione del relitto ha suscitato molte critiche da parte della Lega. Il candidato a Bruxelles di Salvini ha dichiarato che non avrebbe messo piede alla Biennale, perché troppo politica. Ci sono state critiche e perplessità anche di altro tipo, meno becero. Il dibattito è aperto.
[4] A cura di Raffaella Perna e Marco Scotini. Questa mostra segna una tappa importante e significativa nella storia dell’arte visiva, perché per la prima volta vengono raccolte opere di artiste italiane, che hanno partecipato al movimento delle donne, e che non erano presenti nelle rassegne internazionali.
[5] Peccato che termini il 18 agosto, molto prima della Biennale che si chiude il 24 novembre.
[6] Nel 1991 è fondatrice della rivista bimestrale “Mezzocielo”, realizzato da sole donne. Dal 2017 dirige il Centro internazionale di fotografia presso i Cantieri culturali della Zisa di Palermo.
di Silvia Bordini
È scomparsa lo scorso 19 luglio a Roma Ida Gerosa, artista pioniera della sperimentazione con i computer in Italia e non solo. Aveva ottant’anni.
Ida Gerosa ha cominciato a lavorare su arte e computer agli inizi degli anni Ottanta, partendo dalla grafica e dalla pittura, e non si è mai fermata. Ha scoperto, sperimentato e donato con le sue opere un universo di sensazioni visive (e sonore) realizzate attraverso i dispositivi informatici. Luci e colori immateriali, forme in metamorfosi, profondità, addensamenti e trasparenze in un continuum versatile e affascinante che negli anni è diventato sempre più coinvolgente e più espanso; si è dilatato nello spazio come nel tempo e soprattutto in una dimensione percettiva densa di intuizioni che Ida Gerosa sapeva modulare e modificare all’infinito.
Il pensiero di Ida Gerosa
«Comincio a pensare che l’arte con il computer sia veramente una straordinaria avventura del pensiero e dell’espressione», aveva scritto nel lontano 1984, «credo che il computer possa permettere un nuovo ‘umanesimo’, perché ha bisogno di nuovi filosofi, di nuove fantasiose strategie di ricerca che ci portano alla scoperta di nuovi mondi, dove forse sarà impossibile distinguere l’immaginario da reale, la forma riflessa dal suo oggetto». Su queste convinzioni e su queste utopie (su cui oggi molte e inquiete riflessioni si potrebbero condurre) Ida Gerosa ha costruito il suo personalissimo dialogo con l’arte, la passione, la macchina, le emozioni, i linguaggi. Artista indipendente e tenace, non ha mai cercato sponsor e gallerie ma si è circondata di amici e compagni di strada, ha guadagnato lentamente una fama che è al di fuori dal sistema dell’arte e ben addentro alle molteplici varianti dei processi creativi.
(Artribune.com, 24 luglio 2019)
Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Particolarmente attenta ai temi della didattica dell’arte, cerca nelle forme culturali possibili vie di accesso alla comprensione del mondo e della nostra umanità. Artribune presenta il suo progetto “L’arte è un delfino”, un ciclo di video-interviste per riflettere sull’arte e la cultura del nostro tempo. Questo appuntamento vede protagonista la storica dell’arte Lea Vergine.
Quando avevo sedici anni sognavo di parlare con Borges.
Leggevo L’Aleph, nel tragitto in autobus da casa a scuola, e
avevo un solo desiderio: parlare con Borges (quando penso alla
tenerezza, al fondamento della compassione, penso ancora oggi a La casa di Asterione:
l’innocenza e il disarmo nella solitudine dell’anomalia e l’equivoco
che ne consegue). Il mio desiderio incontrò un ormeggio. Nel
sorprendermi il libro tra le mani – la lettura proseguiva sul muretto di
fronte all’entrata – la mia professoressa di filosofia mi disse che era
andata in Argentina a trovarlo, Borges. E aggiunse: “leggilo pure, ma non lo capirai adesso. Più avanti.”
Non capire un libro è come leggere un libro vuoto, pensai, è un
esercizio di immaginazione. O forse no, è come scriverlo. Ma il dato, su
cui avrei esercitato il metodo induttivo, fu: è andata a trovare Borges.
Si poteva fare. Io, certo, non avrei più potuto farlo ma, in generale,
si poteva cercare e incontrare qualcuno per il solo desiderio di
parlargli.
Ripenso a questo fatto tutte le volte che mi risolvo nel prendere il
telefono e chiamare qualcuno per un’intervista. E mi è servito anche
stavolta, più di ogni altra volta.
La telefonata con Lea Vergine è durata circa venti minuti. Mi ha sottoposta a una specie di esame e, solo alla fine, ha detto “va bene, venga a casa mia il tale giorno”. L’entusiasmo mi ha spinto a sbilanciarmi: –… perché sa, anch’io sono un po’ di Napoli.
– Lo so, lo sento. E quanti anni ha?
– Quaranta
– E che cosa ha fatto fino a ora?
– Tutto quanto era necessario a sostenere questa conversazione
L’ALTRA METÀ DELL’AVANGUARDIA
“Quando arriva, dopo molti mesi di rinvii, il momento in cui non si può più differire la stesura di un’introduzione che è cimento e certame, si fumano quaranta ‘serraglio’ al giorno, ci si chiude in casa sperando di ammalarsi, si pasteggia ad ansiolitici, si legge Gian Battista Vico, si raccolgono gli sparsi appunti, le larve, le scalette, messe giù con la speranza che – tanto – poi – al momento – basterà – cucirli – insieme – perché – ormai – tutto – è – nella – testa, si mendica l’attenzione di qualche figura amica e le si legge il risultato di tutto questo.”
È l’incipit de L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940, Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Mazzotta editore, 1980. La metà suicidata, dirà Lea.
Un libro fondamentale per la storia dell’arte contemporanea, come tutti i
libri di Lea Vergine, spesso nati dalla ricerca sul campo che si
risolveva in mostre memorabili.
Sono più o meno nello stesso stato adesso, mentre scrivo. A parte le
‘serraglio’ (non fumo più da quando cominciai a cantare) e gli
ansiolitici (che sostituisco con meditazioni trascendentali e
giardinaggio), per il resto, uguale (e la figura amica è quasi sempre
Milù, la mia gatta siamese).
Procedo per azzardi e frammenti. Cerco segni e suggerimenti ovunque. Cerco giustificazioni:
La prima frase è sempre la più difficile (Wisława Szymborska).
M’inabisso. Più vorrei dire l’importanza di qualcosa, più mi inabisso.
Potrei scrivere qui le domande che non ho fatto. Per esempio:
“Nel testo L’altra metà dell’avanguardia (quella delle artiste donne) c’è una frase definitiva: C’era una volta una principessa che stava leggendo un libro quando il boia la toccò sulla spalla per farle capire che era arrivata l’ora e lei, alzandosi, mise un tagliacarte tra le pagine per non perdere il segno e chiuse il libro. (Anonima). L’ha scritta lei?”
Ma non c’è mai tempo di chiedere tutto. E non si deve mai chiedere
tutto. E poi c’è differenza tra chiedere e domandare. Si chiede per
avere, si domanda per sapere. L’ho sentito dire proprio a lei, a Lea
Vergine, in un’altra intervista, mentre preparavo la mia. E ho dunque
avuto cura, poi, di non chiedere ma domandare.
Un piccolissimo insetto verde, una specie di minuscolo grillo, cammina
sulla pagine del libro aperto accanto alla tastiera e percorre la frase:
L’arte è una questione di forma. Se ascoltiamo un canto gregoriano o
ambrosiano o un notturno di Chopin, siamo coscienti del fatto che siano
tutte musiche splendide, diverse tra loro, ma ugualmente intense.
Perché la loro forma è perfetta, al di là del tempo e dello spazio. Lo
stesso vale per l’arte.
L’insetto verde è di gran lunga più abile di me nel trovare spunti da dove cominciare.
L’ARTE NON È FACCENDA DI PERSONE PERBENE
È il titolo del bel libro, aperto accanto, edito da Rizzoli nel 2016, in cui Lea Vergine, in conversazione con Chiara Gatti,
racconta la sua storia personale, dall’infanzia napoletana, divisa tra
due famiglie, alla vita adulta e alla scelta del mestiere di critico (un
mestiere anticonformista pure oggi, figurarsi allora, negli anni ’70, e
per una donna), fino all’incontro con Enzo Mari e al suo approdo a Milano.
Su Enzo Mari pronuncerà una sola frase. E anche quando vorrei parlarne
io, durante la conversazione, con un’abilissima mossa mi gira la domanda
e mi ritrovo ancora sotto esame, del tutto impreparata, a dover cercare
le parole per dire quanto fondamentale sia stato per me suo marito. Ma
torniamo subito a Lea.
Chi sono le persone perbene? Sono coloro che hanno il senso comune, soprattutto il buonsenso. Che si chiedono poche cose e sempre quelle, dice Lea. Mentre, invece, l’arte
dilania. Mette allo scoperto tutti i traumi, consci e inconsci,
ravviverà tutto il dolore di sé. Ma il dolore non è sempre una cosa
nefasta, è anche una cosa che apre il cervello e fa capire, aggiunge.
Si torna sempre lì, alla questione centrale che è la dignità unita alla
tenerezza del non accontentarsi di una comprensione sommaria.
Perché, da qualunque punto lo si guardi, l’umano domanda solo tenerezza.
Proprio oggi che tutto, attorno, dice: non siamo stati degni, non ce lo
siamo meritato tutto questo. E proprio quando sembra stia tornando il
demone dell’odio a possederci.
L’umano domanda solo tenerezza, perché tutto è nel paradosso d’essere
allo stesso tempo tenace e fragile. E lo sguardo che odia è il più
fragile di tutti.
Questa lezione me la impartì Napoli a suo tempo, dalla sua ferocia
declinata nel canto, dal suo dolore senza mai un lamento, nel suo pianto
nascosto.
Non si può avere un rapporto semplice con Napoli. Ci si deve contraddire
di frequente, per esempio, per essere coerenti ed è necessario portare a
spasso uno sguardo molteplice, non singolare, una pluralità che
annienta le spinte contrarie. È per questo che ci si sente in una
sospensione magica, camminando, in una danza inspiegabile che, vista da
fuori, fa tremare i polsi per audacia sconsiderata.
Lea è nata a Napoli e di Napoli pure parleremo a lungo.
Il tentativo di speronare certezze, quelle della gente perbene, percorrerà la trama sottile delle sue parole, sebbene “L’arte non insegna niente sulla vita, esattamente come la vita non ci insegna niente sull’arte” come recita la frase di Morton Feldman, tratta da Pensieri Verticali, in esergo al libro.
DELL’INUTILITÀ DELL’ARTE
Ma che cos’è e a cosa serve l’arte, che uso possiamo farne, infine?
I termini devono essere sempre riscritti. Ed è un privilegio, tra gli
umani, riscriverli tutte le volte e spalancare l’orizzonte e la volta
celeste e le profondità d’abisso. Finché possiamo trattare
l’intrattabile, il mistero è salvo. E finché il mistero è salvo, è salva
la speranza, che qualcuno dirà illusione, qualcun altro sogno.
Metterci di nuovo, con furia sistematica, di fronte a questo essere qui,
dubitando di tutto il senso – ma elegantemente stretti in uno scialle
accanto al fuoco della coscienza, bevendo a piccoli sorsi un vino antico
di millenni, attardandosi ogni tanto a meditare sulle pagine di un
libro vuoto (ecco, di nuovo).
L’esercizio totale dell’arte è forse questo. Ti offre il privilegio di
non capire un libro che pure non puoi smettere di leggere. Un libro
indecifrabile o un libro vuoto, e tu continui a leggere.
Essere assolutamente centrati nel continuo differimento.
Andare all’appuntamento con il solo grande amore e fingere che non sia
questione di vita o di morte. Prendersi il lusso di non dire la sola
cosa che conta, distogliere lo sguardo dai soli occhi amati che si
dovrebbero, invece, guardare fissamente. Centrare il bersaglio mirando
altrove, sapendo bene che se vi fosse, solo per un attimo, l’intenzione
di far centro, il tiro non andrebbe a segno. È questo, forse, l’arte?
Lea Vergine ci dice che è il superfluo. Perché quello che ci serve per essere un po’ felici, o meno infelici, è il superfluo. Quanto questo superfluo possa essere vitale lo lascia intendere attraverso tutto il resto e il resto non sono parole.
È disperatamente inutile, dunque?
L’arte è sempre organizzata attorno al vuoto della cosa impossibile e reale, cito Žižek che cita Lacan.
Quello che per Rilke è l’ultimo velo che copre l’orrore: “la maggior
parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che
mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte,
misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce,
perdura”.
Ma noi vogliamo, se possiamo, violare lo spazio di indicibilità, tutte le volte che parliamo o scriviamo d’arte.
Con quanta disperazione si affina un canto? Quanta energia vitale c’è
nel colpo di scalpello, nella linea plurale di una frase poetica. E, a
pensarci, a cosa serve il canto, l’artificio di forma, il ricamo, il
passaggio virtuoso sulle corde del violino? E a cosa serve dipingere un
volto (penso al volto dell’Annunciata di Antonello, o agli occhi
socchiusi della Madonna del Parto di Piero della Francesca). A cosa
serve tutto questo? È un messaggio per gli umani o per gli alieni? È un
messaggio per un demone o per dio? È un messaggio per le mosche, per i
lombrichi, per i pesci? Non è un messaggio? È un segnale di fumo senza
fumo. È attardarsi in quello spazio sospeso delle cose senza significato
(ma che possono sperare in un senso), nel quale dobbiamo restare più a
lungo possibile – per sopravvivere – e da questo spazio dare adito a
ipotesi.
E Lea è così. Potresti stare lì per ore a guardarla fare l’orlo, di
pregiata fattura, al vuoto che la vita spalanca. E l’arte non è che
un’ombra. C’è sempre anche l’ombra da qualche parte, muta.
Che l’arte, poi, come sistema gravitazionale, possa essere anche un
regolatore sotterraneo dell’incedere politico (ed etico) è solo
un’ipotesi, ma non è cosa che possa dirsi senza rischio. Parlare di
etica politica del fare artistico, del rapporto dell’azione con il
desiderio che la abita e del giudizio che ne consegue, aprirebbe spazi
troppo vasti.
Ma si potrebbe, per cominciare, ripartire dalla rilettura di un testo fondante di Lea Vergine: Attraverso l’Arte. Pratica politica. Pagare il ’68, Arcana, 1976, per ribadire che nulla può essere trattato fuori dall’ecosistema sociale e politico.
E poi, ancora fondamentale rilettura (per tutti, non solo per chi si occupa di arte), Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira, 2000. C’è dentro un mondo incastonato nell’infinito-breve-spazio tra anima e corpo.
Ecco, non lo so. Forse finora ho scritto al vento, senza fare centro. Ma
non si elabora facilmente tutto questo. Volevo farvi incontrare questa
splendida donna ed eccola qui: tenera, implacabile, sublime. Dopotutto,
sono quelle che si manifestano le cose più importanti. Ed eccone
un’ultima, dal nostro incontro, per dirvi la grazia:
– “Lea, possiamo cominciare, dovrei solo attaccare questa spina a una presa.”
– “Ah, non lo chieda a me, non ne capisco niente. Quando mi parlano di spine, io penso alle rose
di Giannina Mura da Il Manifesto del 6 giugno 2019
MOSTRE. L’esposizione delle sue opere nei due luoghi simbolo della sua vita parigina: la Villa a lei titolata e la Maba. Osannata durante la sua esistenza, tanto in Francia che in Russia, sin dai suoi quadri cubisti del 1909. Non solo pittrice, fu anche scultrice, scenografa, costumista, creatrice di marionette e di mobili.
Riconosciuta dai critici del suo tempo come una delle figure più
originali del cubismo, l’artista russa Maria Vassilieff (1884-1957) si
stabilisce definitivamente a Parigi dal 1908, nel cuore della babele
artistica di Montparnasse. Nel suo studio al 21 avenue du Maine crea
anche un’accademia e una mensa autogestita, che diventeranno presto il
quartier generale dell’avanguardia.
Qui, dal 2016, si trova il centro d’arte Villa Vassilieff che le rende
oggi omaggio con Une journée avec Marie Vassilieff: una mostra nei due
luoghi d’inizio e fine della sua vita francese: la Villa Vassilieff e la
Maba della Fondation des Artistes, gerente della casa di riposo degli
artisti di Nogent-sur-Marne, dove l’autrice trascorrerà i suoi ultimi
anni.
RIVENDICANDO un punto di vista femminista, la
rassegna mette in dialogo la sua opera con quella di undici artisti
contemporanei, per dimostrare che la sua poetica «è sempre viva e che
non c’è separazione tra artisti di oggi e quelli di ieri, come lei»,
spiega Mélanie Bouteloup, direttrice di Villa Vassilieff.
Tutte le opere allestite nel percorso appartengono al collezionista
Claude Bernès che ha riunito in quarant’anni una collezione di
riferimento mondiale, essenziale per rivalutare la produzione di questa
protagonista carismatica degli anni d’oro di Montparnasse (1910-1930),
citata dagli storici più per l’amicizia con gli artisti e intellettuali
della sua epoca che per la sua opera. Un’opera osannata durante la sua
vita, tanto in Francia che in Russia, sin dai suoi singolari quadri
cubisti del 1909.
NON SOLO PITTRICE, Marie Vassilieff è anche autrice,
scultrice, scenografa, costumista, creatrice di pupazzi, marionette,
mobili, e altri lavori «stravaganti». Come molte sue connazionali, da
Natalia Gontcharova a Sonia Delaunay, Alexandra Exter, Liubov Popova, o
Varvara Stepanova, già negli anni dieci, fa saltare le frontiere tra
belle arti e arti applicate, rivoluzionando discipline e materie per
un’inedita fusione tra arte e vita. «Contro la severa banalità della
scultura moderna e classica», Vassilieff usa, ad esempio, materiali
poveri (cartapesta, tessuti, fili di lana, fili di ferro, scarpe…)
inventando un nuovo genere di oggetto d’arte moderna: i pupazzi-ritratto
che, ricchi di forza espressiva, fanno furore anche a Berlino, New York
e Londra. Dalle fotografie, oggetti e disegni esposti alla Maba, salta
agli occhi una creatività ferace, pervasa d’ironia e piena di grazia.
Alla Villa Vassilieff, sorprende l’enigmatico dipinto intitolato
Auto-portrait avec sa poupée-portrait, in cui la pittrice rappresenta se
stessa e il suo pupazzo-ritratto con le mani alzate dell’Orante. Soave
trasposizione dell’artista in Madonna del Segno che genera, con il
frutto della sua arte la propria benedizione. O la propria preghiera?
Certo è che, con la sua adesione al movimento dei riformatori cristiani,
negli anni ’20, Vassilieff mixa arte moderna, dell’icona e quella
primitiva in una sintesi risolutamente personale: «la mia pittura
religiosa dà l’immagine dell’arte cristiana della nostra epoca. Ho
creato la mia religione per esprimere lo stato della mia anima, sgozzata
nelle catacombe dei cafés di Montparnasse, dove ci perseguitano i veri
Satana (i mercanti delle nature morte)» indica Vassilieff nelle sue
memorie. Tra le opere create in questa fase, in mostra alla Maba i
disegni per le scenografie e i costumi dello spettacolo Le Bal de la
misère noire, bollato e vietato come scandaloso nel 1927 e mai
rappresentato in un teatro pubblico.
DIECI ANNI PRIMA, Vassilieff sfiora già lo scandalo col «Banchetto Braque» che organizza nella sua mensa il 14 gennaio 1917 in onore del pittore reduce dal fronte. Nel disegno visibile alla Villa Vassilieff, l’artista ritrae Picasso, Braque, Léger, Max Jacob, Beatrice Hastings, Alfredo Pina, tra gli altri, seduti a tavola, lei in piedi col coltello sospeso sull’arrosto in mano a Matisse, mentre fa irruzione Modigliani, da lei non invitato per scongiurare la lite col suo rivale in amore, lo scultore Pina, che alla sua vista gli punta subito contro la pistola. L’energico intervento di Vassilieff con l’aiuto di altri commensali evita il dramma. Questo banchetto leggendario è il canto del cigno della sua mensa divenuta, durante la Grande Guerra, il principale rifugio della Montparnasse artistica e intellettuale. L’aveva aperta nel suo studio a fine 1914 per alleviare la disperazione degli artisti («niente lavoro, niente soldi, teatri chiusi: una vita miserabile», sottolinea nelle sue memorie) e la chiude alla nascita dell’unico figlio, Pierre, nel 1917.
MA NON CESSA la sua attività artistica, anzi ne
espande ancor più il dominio avanguardistico: dalla direzione
dell’atelier dei costumi dei Balletti Svedesi di Rolf De Maré alla
collaborazione con diverse compagnie come autrice, scenografa,
costumista e marionettista (tra cui il Teatro della Pantomima Futurista
di Maria Ricotti e Enrico Prampolini) passando per la realizzazione dei
«mobili marionette» per la grande mostra sulle arti decorative del 1925.
Con audace fedeltà a se stessa, Vassilieff mette al mondo un’arte
«piena di gioia e di creazione» che rifiuta di «imitare gli altri tanto
in spirito che in materiali», come lei stessa afferma. E sino alla fine
della sua vita, continua a sperimentare nuove forme e materie.
Emblematici i modelli e le maschere della Boutique fantasque, i costumi
in rhodoïd dello spettacolo Voyelles, per il Teatro Art e Action di
Louise e Édouard Autant-Lara, mostrati all’Exposition Internationale des
Arts et Techniques dans la Vie moderne del 1937. O ancora, alla fine
degli anni ’40, i suoi esperimenti con la ceramica, dai servizi da
tavola alle sculture tra misticismo ed erotismo.
PERCHÉ L’ARTE di questa grande creatrice multidisciplinare è scomparsa dalla storia? Per Mélanie Bouteloup parte della spiegazione è nella metodologia adottata dagli storici: «In una storia dell’arte focalizzata sugli uomini, che include le donne solo se classificabili in categorie definite, lei non rientrava in nessuna di esse». Il collezionista Claude Bernès indica un’altra ipotesi: «Marie Vassilieff considerava i mercanti d’arte come degli avvoltoi che vivevano alle spalle degli artisti. Malgrado tutti i più grandi artisti del suo tempo avessero a disposizione i migliori mercanti, per lei erano dei Satana. Non ne voleva nessuno. Ha dovuto combattere da sola per difendere la sua arte. E senza una clientela che le assicurasse una notorietà postuma, ha finito per essere occultata dalla storia».
Ma forse non per molto ancora. Come per altre artiste del suo tempo, via via riportate alla luce dalle nuove generazioni di autrici, studiose, e direttrici di istituzioni artistiche, la riscoperta di Marie Vassilieff, promossa da questa mostra, sembra sulla buona strada. Mélanie Bouteloup conferma l’interesse crescente: «Tre anni fa abbiamo dato il suo nome al nostro centro d’arte per renderle omaggio. E tra gli artisti in residenza abbiamo riscontrato da subito un grande interesse per lei, riaffermato dall’entusiasmo di quelli invitati a dialogare con lei per questa rassegna». https://ilmanifesto.it/marie-vassilieff-negli-anni-doro-di-montparnasse
/?fbclid=IwAR3gqVnUJsY0cH3TGodAdyoDYXAb672ax3vB4SpzTGkmw8nj7I-QEAVghHA
di Cettina Tiralosi
Cambiare musica, voltare pagina, cambiare registro, atteggiamento, tipo d’approccio, sguardo, modo di comportarsi e così via: si può fare e io ci provo.
L’agire artistico è materia vivente, modifica e si modifica attraverso lo sguardo, i pensieri e le azioni, nella consapevolezza di chi propone e di chi osserva.
I luoghi hanno sempre un proprio fascino e una propria attrazione, e chi organizza si presta a rimettere in gioco, in società, la loro storia ancora viva che così si rinnova.
È il caso della ex-pescheria della città di Giarre (Catania) e della curatrice di Musical Fragments, Benedetta Spagnuolo, il cui intervento espositivo aggiorna la storia di un luogo vissuto dalle donne e dagli uomini che lì abitarono e che lì vi abitano ancora.
https://artistiitaliani.wixsite.com/artistiitaliani/musical-fragments
Per la mia disposizione ad ascoltare il mio proprio “sentire viscerale” nel senso che intende la filosofa María Zambrano, ho creduto bene, come ogni volta che mi capita, di prendere parte alla realizzazione di un evento che in circostanze simili a questo, potesse mettere in mostra il valore storico-artistico non indifferente dei luoghi, attraverso l’esposizione delle mie opere foto-grafiche digitali.
Cambiare musica, cambiare ballo, passo di danza, per seguire attraverso un ritmo differente, il proprio sentire e lo sguardo che lo cambia, mentre cambia tutto intorno, è l’espressione della passione e del desiderio politico di libertà femminile delle donne che si affermano mentre vengono allestiti ed esposti pubblicamente i loro elaborati e alla quale anche gli uomini tra i più o meno sensibili, siamo tutte e tutti posti in atto a riconoscere e a dare seguito.
Quando è il momento di cambiare musica, lo è immancabilmente per tutte e tutti, e soprattutto fra chi fa musica, certamente sa cosa intendo in termini di coscienza e conoscenza. Preparare questo evento perciò mi ha dato il la, il verso e la direzione un po’ più in là, lontana da quella parte ristagnante della vita quotidiana che spesso arresta il fluire davanti al nulla pietrificante, il più in là verso quella parte dalla quale l’orizzonte si apre dopo una fitta coltre di nuvole minacciose di piogge torrenziali.
Un po’ più in là, laddove vi trovo armonia, al di là del caos, dove vi trovo speranza di almeno una soluzione e dove, senza disperazione, ritrovo pazienza e fiducia di non riperderle mai più.
La scrittura come la pittura, in particolare, attraverso gli strumenti digitali di oggi come la foto/grafia ovvero la grafia della luce vivente supera l’irremovibile delle cose attorno a sé, andando oltre i no delimitanti per i sì possibili.
La storia della città di Giarre porta nella sua origine le tracce delle condizioni di prosperità che fu della comunità laboriosa che la costituì, tale da divenire nel tempo uno dei mercati all’ingrosso più grandi della riviera ionica siciliana; essa nasceva dal progetto di riqualificazione territoriale e di espansione demografica per volontà di un vescovo conte di Catania, Nicola Maria Caracciolo (1513-1569) proponendo a coltura le terre abbandonate per migliorarle attraverso le concessioni in enfiteusi.
Oggi riviviamo lo spopolamento e lo sradicamento dovuto al conseguenziale abbandono lento e costante che dura oramai da troppo tempo, dei luoghi di lavoro, di studio e di vita perché non più ancorati all’essere vivente che cambia, dai quali perciò si fugge mentre ci sfugge in verità il nodo irrisolto della questione.
Giovani donne e uomini vanno via, mentre i percorsi di scrittura aumentano un po’ dovunque, forse per afferrare le fioche tracce di un “poi” che ha bisogno del “quando” che si rivela in un insufficiente “adesso”.
[…]
(cettinatiralosiblognotes, 25 maggio 2019)
di Gianluigi Colin
Parigi, primo marzo, sfilata di Dior: tutto è pronto, ma nel silenzio dell’attesa, una minuta signora di 88 anni, inaspettatamente, sale in passerella. Accompagnata da due modelle (che indossano una t-shirt con la scritta Sisterhood is Global, citazione del libro della scrittrice e attivista Robin Morgan), recita una poesia. Gli invitati si guardano negli occhi, interrogandosi su chi sia quella donna con la faccia da bambina. Eppure, tutti sono avvolti proprio dalla sua Scrittura vivente (un’opera del 1976) qui rivisitata in un Alfabeto poetico monumentale molto contemporaneo: tanti corpi di donna, nudi e a grandezza naturale, come lettere dell’alfabeto, appunto. Quell’artista è Tomaso Binga, nome che nasconde l’identità di Bianca Pucciarelli, autrice di grande valore, pittrice e poetessa. Anche per questo Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, l’ha voluta come protagonista della sfilata, come se quella donna, costretta a mimetizzarsi da uomo per farsi strada nel mondo dell’arte, rappresentasse il simbolo più alto per celebrare una ribellione femminista (e insieme affermazione della femminilità). Una scelta non scontata. E coraggiosa.
Ora, questi due alfabeti sono visibili in una importante ed emozionante mostra negli spazi dei Frigoriferi Milanesi. E anche qui la figura di Tomaso Binga diventa simbolo di una generazione di donne artiste che hanno combattuto e tuttora lottano per un riconoscimento della propria identità. Il titolo della mostra è elegantemente provocatorio e intrigante, come l’intera esposizione: Il soggetto imprevisto. 1978. Arte e femminismo in Italia, a cura di Raffaella Perna e Marco Scotini. Quasi a indicare che la storia dell’arte degli anni Settanta in Italia si è sviluppata attraverso una narrazione ricca di dimenticanze, assenze e censure. E che proprio questa mostra sembra voler riscattare.
Con rigore e impegno militante i curatori si muovono con l’intento di mettere in luce i rapporti tra arti visive e i movimenti femministi in Italia. La mostra è l’evoluzione, molto arricchita con voci dimenticate, dell’esposizione Altra misura del 2016, curata dalla stessa Raffaella Perna alla galleria Frittelli di Firenze e ora realizzata con la collaborazione del Mart di Trento e Rovereto (che ha concesso molti materiali della propria collezione) e, non a caso, realizzata con il contributo di Dior.
Con oltre 350 opere per 105 artiste italiane e internazionali, con sole due intrusioni maschili (Alberto Grifi e Giulio Paolini) la mostra si snoda attraverso libri, manifesti, dipinti, sculture, installazioni, filmati, molti dei quali inediti o rimasti finora negli archivi come un intenso e complesso viaggio dentro l’anima, le urgenze e le parole d’ordine dell’impegno femminista degli anni Settanta, in un contesto di crescente consapevolezza e contrasto politico. Erano gli anni in cui veniva approvata la legge sull’aborto, Nilde Jotti diventava la prima donna presidente della Camera, la studentessa Giorgiana Masi veniva uccisa durante una manifestazione; erano i giorni in cui si leggeva Dalla parte delle bambine e in piazza si scandiva «L’utero è mio e lo gestisco io».
Per una coincidenza felice con la Biennale (dove le artiste sono in maggioranza) aprono in Italia e nel mondo molte mostre di donne o dedicate a donne: lotte civili, sguardi originali sulla società, interpretazioni mai convenzionali. Eccole. A partire da una rassegna milanese sul femminismo Raffaella Perna e Marco Scotini hanno messo in luce (per la prima volta in modo così completo) una parte nascosta della ricerca sperimentale degli anni Settanta: quella del corpo e del suo linguaggio, mostrando le istanze e il ruolo importante nell’arte italiana delle donne che operavano nel dialogo attivo con il movimento femminista. Una centralità sostanzialmente rimossa, forse volutamente negata.
La mostra si apre con un passaggio simbolico: la proiezione del film-documentario Anna, un’opera del 1972 di Alberto Grifi in cui si narra di una ragazza che vive a Roma nel disagio, nel malessere esistenziale, tra droga e tentativi di suicidio nel nome di una rivolta perenne. Un documento crudo, realizzato con strumenti rudimentali: fu portato anche alla Biennale di Venezia e divenne presto un film di culto. Subito dopo i curatori presentano il ritratto di un personaggio chiave: Carla Lonzi. È sua la frase che suggerisce il titolo alla mostra: «Riconosciamo in noi stesse la capacità di fare di questo attimo una modificazione totale della vita. Chi non è nella dialettica servo-padrone diventa cosciente e introduce nel mondo il Soggetto Imprevisto». Carla Lonzi (1931-1982) era una scrittrice e critica d’arte molto stimata. Teorica dell’autocoscienza, ha fondato nei primi anni Settanta Rivolta Femminile, una casa editrice con titoli (tutti presenti in una teca) che non lasciano dubbi sui contenuti e sulle teorie di quegli anni: La donna clitoridea e la donna vaginale; Taci, anzi parla. Diario di una femminista.
Carla Lonzi era un’intellettuale, colta, autorevole. Prima della fase femminista aveva scritto Autoritratto, una sequenza di interviste a una decina di artisti, da Fontana a Kounellis, sino a quasi tutti gli esponenti dell’Arte Povera, montate come un dialogo ininterrotto. Lonzi era poi diventata una radicale dura e pura. Non lasciava spazio a concessioni, tantomeno nell’arte. Giudicava il sistema autoritario e sessista. Da questo suo radicalismo, l’amica e compagna di lotta Carla Accardi (l’unica presente in Autoritratto e qui simbolicamente vicina con una serie di opere su materiali plastici) rompe la lunga amicizia. Una linea di demarcazione culturale, politica, umana. Mettere come incipit della mostra i piccoli libri verdi di Rivolta Femminile, e il registratore con cui Carla Lonzi realizzava le interviste agli artisti, assume dunque il valore di una dichiarazione sul suo ruolo determinante di ideologa e critica.
La costruzione di Il soggetto imprevisto si snoda attraverso aree tematiche con artiste guida: la scrittura gestuale di Ketty La Rocca con le fotografie del 1971 di mani su cui sono create delle scritture (un ripetuto «you») che rappresenta un’anticipazione di quello che farà molti anni dopo Shirin Neshat. Una sezione è dedicata a Mirella Bentivoglio: fu lei, da artista, poetessa e curatrice, a organizzare nel 1978 una storica mostra alla Biennale di Venezia, invitando decine di artiste sul tema Materializzazione del linguaggio. Qui ne troviamo almeno 60, e non a caso l’immagine simbolo della mostra, un manifesto d’amore, è proprio della Bentivoglio: una bocca socchiusa con sovrapposte, in forma di poesia visiva, le lettere «ti AM O». Qui troviamo le scritture pentagrammate di Betty Danon o le lettere di Amelia Etlinger, o ancora i preziosi libri di Maria Lai, ora finalmente riscoperta. E c’è chi, come Milli Gandini, rivendica il salario per il lavoro domestico creando nel proprio privato un’azione artistica militante: prende le pentole con le quali abitualmente cucina e le chiude con filo spinato colorato. Il titolo dell’opera? La mamma è uscita.
Ironia, provocazione, ribellione, gioia, dolore, desiderio, paura, eros: tutto si condensa nelle opere in mostra: attraverso le parole illeggibili di Irma Blank, come rappresentazione di una identità negata, o con i collage irriverenti di Lucia Marcucci, i video di Gina Pane e Marina Abramovic, o l’esibizione del parto di Lisetta Carmi. Ma anche con i corpi nudi di Paola Mattioli o gli enigmatici «presagi» di Carol Rama. Sono anche esposti i malinconici autoritratti di Francesca Woodman e le foto di Paola Agosti che ritraggono il «triangolo ribelle» (le mani unite a forma di sesso femminile). O ancora, i tanti autoritratti di Marcella Campagnano, per un racconto sull’invenzione dei modelli femminili: moglie, infermiera, mamma, manager, casalinga, puttana… Corpi ostentati, corpi negati, corpi desiderosi d’amore, corpi vogliosi di sesso, corpi imprigionati nella mente, corpi pudici e corpi pornografici…
Certo, benché in quest’ultima Biennale di Venezia siano state invitate più artiste donne che maschi, il cammino per la parità (nell’arte e nella vita) appare ancora lungo. Tra l’altro, balza all’occhio che il nome del curatore, sfidando l’alfabeto, nel catalogo è prima di quello della curatrice. Così, resta impressa una delle immagini che chiudono la mostra. È quella di Valie Export: ritrae l’artista durante una performance, pantaloni in pelle tagliati al pube, il sesso esposto, il mitra in mano. Tu donna, «matrice del paradiso», seduci, accogli, perdoni e continui la tua battaglia, «diventi grande come la terra – ha scritto Alda Merini – e innalzi il tuo canto d’amore».
(Corriere della Sera, 12 maggio 2019)
di Lorenza Pignatti
Milano. Presso FM Centro per l’Arte Contemporanea la rassegna dedicata al «Soggetto Imprevisto», a cura di Raffaella Perna e Marco Scotini L’esplorazione del linguaggio verbale e del corpo femminile, inteso come processo di decostruzione degli stereotipi di genere: è questo il fil rouge che lega le opere raccolte ne Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia, l’esposizione milanese presso FM Centro per l’Arte Contemporanea che presenta per la prima volta insieme oltre cento artiste italiane e internazionali attive negli anni Settanta, difficilmente citate nelle narrazioni storico/artistiche ufficiali. Una scena eterogenea come documentano le opere raccolte, in cui i legami tra arte e femminismo creano un discusso e contrastato progetto comune che orienta un nuovo percorso linguistico e iconografico. Molteplici sono i segni e i codici espressivi enunciati dalle artiste che ognuna in modo diverso affronta il rapporto con la militanza e l’attivismo politico, per determinare un nuovo Soggetto imprevisto, come scrisse Carla Lonzi nel libro Sputiamo su Hegel, un soggetto indomito che rifiuta il linguaggio e le prescrizioni del dicibile imposti dalla cultura e dall’iconografia maschile. Curata da Raffaella Perna e Marco Scotini, la mostra indaga l’eterogeneità dei discorsi che hanno spinto molte artiste e collettivi femministi a ripensare il ruolo della donna nella società, come testimonia l’ampia selezione di materiali provenienti dagli archivi della Cooperativa di via Beato Angelico, primo spazio artistico interamente gestito da donne, fondato a Roma nel 1976, di Rivolta femminile, uno dei gruppi più radicali, in cui militavano Carla Lonzi e Carla Accardi, del Gruppo Femminista Immagine di Varese, e del Gruppo XX di Napoli, per ricordarne solo alcuni. «Non è tempo per le donne, di dichiarazioni: hanno troppo da fare e poi dovrebbero usare un linguaggio che non è il loro, dentro un linguaggio che è a loro estraneo quanto ostile», scriveva Ketty La Rocca nel 1974, che pur non militando in modo attivo nel femminismo ne condivideva le istanze e le riflessioni, confrontandosi con curatrici e critiche come Lucy Lippard e Anne Marie Sauzeau. L’affermazione di La Rocca indicava la volontà di rifondare il linguaggio su basi nuove per demistificare le riflessioni stereotipate del femminile e uscire dal monologo del linguaggio patriarcale, come asseriva Carla Lonzi nel Manifesto di Rivolta Femminile, di cui sono esposti in mostra testi e documenti d’archivio. Come suggerisce il titolo della rassegna (visitabile fino al 26 maggio), il 1978 è un anno significativo per le rivendicazioni sociali viene approvata la legge 194 che permette l’interruzione volontaria della gravidanza, una vittoria epocale per il movimento femminista, dopo quelle ottenute con il referendum per il divorzio e la riforma del diritto di famiglia – e per la scena artistica italiana che registra e risponde ai cambiamenti in atto. Materializzazione del linguaggio è la collettiva curata da Mirella Bentivoglio, nell’ambito della Biennale di Venezia, che raccoglie le opere di ottanta autrici che operavano con la poesia verbo-visiva. Dai libri cuciti di Maria Lai alle scritture pentagrammatiche di Betty Danon, ai Dattilocodici di Tomaso Binga (pseudonimo scelto da Biana Pucciarelli per sottolineare la carenza di visibilità e le difficoltà per le artiste di poter essere parte del mondo culturale), ai linguaggi astratti di Mira Schendel e Irma Blank, l’intera mostra è stata ricreata a FM Centro per l’Arte Contemporanea per far riemergere la vitalità della scena italiana che dialogava apertamente con quella internazionale. A Belgrado fu invece organizzato il seminario femminista Comrade Woman: Women’s Question – A New Approach?, e in Polonia l’artista Natalia LL curava la prima esposizione femminista intitolata Wroclaw First International Women’s Art Exhibition. Sempre nel 1978 la Biennale di Venezia dedicava una antologica a Ketty La Rocca, a pochi anni dalla sua prematura scomparsa, mentre ai Magazzini del Sale erano presentati manifesti, riviste e libri fotografici del gruppo femminista «Immagine» di Varese e del gruppo «Donne/Immagine/Creatività» di Napoli. Romana Loda curava per la sua galleria di Brescia, l’ultimacollettiva di sole artiste, che chiuse un percorso di ricerca in cui le autrici italiane venivano proposte insieme alle più significative interpreti del panorama europeo, quali Marina Abramovic, Hanne Darboven, Gina Pane, Valie Export, Rebecca Horn, Natalia LL e molte altre. Come afferma Scotini, la rassegna altro non è che «un’indagine archeologica del più ampio dibattito contemporaneo sul concetto di genere, che cerca di recuperare una genealogia fondamentale nell’ordine dei sistemi sociali, che vedono ora una pluralità costitutiva di identità sessuali».
(il manifesto, 20 aprile 2019)
da Exibart
40 artiste in mostra alla Fabbrica del Vapore e una serie di incontri culturali e a sfondo politico, per raccontare una nuova storia dell’arte. Ma “Vetrine di Libertà – La Libreria delle donne di Milano, ieri, oggi”, in esposizione alla Fabbrica del Vapore fino al 6 giugno, parla anche di uno spazio di incontro, riflessione e immaginazione, ora in via Pietro Calvi e prima in via della Dogana, che con il tempo è diventato un punto di riferimento, aperto al contemporaneo. E infatti, lunedì, 15 aprile, si discuterà di un movimento epocale, quello del Me Too, con Lia Cigarini, Marisa Guarneri e Luisa Muraro, insieme alle artiste Elisabetta Di Maggio, Loredana Longo, Stefania Galegati, Marina Ballo Charmet. Ci dice di più Francesca Pasini, curatrice della mostra, insieme a Chitra Piloni, e animatrice della Libreria.
Verrebbe da dire che “l’arte delle donne” stia vivendo un periodo di riscatto non indifferente. Che cosa rappresenta, secondo te? Un fenomeno passeggero? Una moda? La giusta ricompensa al fatto che – nonostante si parli tanto di quote rosa, di uguaglianza e di stesse possibilità – le donne (prendiamo per esempio il mercato dell’arte, nella fattispecie delle aste) stanno ancora al di sotto dei colleghi uomini?
«Nel riscatto c’è l’idea di superiorità, invece la presenza tumultuosa delle artiste dall’inizio degli anni 90 del secolo scorso, ha invertito la rotta. Il genere neutro maschile “gli uomini, i mortali”, come dalla filosofia presocratica è stata definita la specie, non funziona più o almeno scricchiola. Artista non è un aggettivo e finalmente possiamo dire che l’arte è fatta da uomini o donne. Ci tengo a sottolineare “o”, perché è una dizione semplice per nominare la differenza tra i due. Certo il termine “umano” è nel linguaggio, per cui io sono “critico” d’arte, “curatore”, nonostante Luce Irigaray, dal 1981, in “Etica della differenza sessuale”, suggerisca di declinare sempre maschile e femminile. Nell’arte visiva le donne sono apparse più tardi. Forse era più difficile impedire a una donna di scrivere: Jane Austen, alzando un lembo della tovaglia del tavolo da pranzo, ha scritto romanzi straordinari e innovativi, e Virginia Woolf con “Una stanza tutta per sé” ha dichiarato l’urgenza di uno spazio di proprietà delle donne. Nell’arte visiva le donne sono state eccezioni eccellenti, anche se spesso lasciate a margine. Oggi non sono un fenomeno passeggero perché indicano qualcosa che va oltre le discipline: l’arte visiva fin dalla preistoria è una figura simbolica delle civiltà. Dire donne artiste e uomini artisti è un cambio di civiltà? Credo di sì. Se non si rincorre più l’Uno nella specie, nella religione, nell’arte, e miglioriamo la società femminile anche gli uomini possono vedersi inclusi in un universo di due e ci sarà meno bisogno di riscatto reciproco. Sapere che c’è dell’altro rispetto all’Uno è una cosa preziosa per donne e uomini. In questo senso le quote rosa non intaccano la sopraffazione maschile quando c’è, qualche piccola compensazione le offrono ma, come dici tu, se entra in campo il denaro, la parità va farsi benedire, e per assurdo proprio perché le artiste non sono più eccezioni si sentono la coscienza a posto. Spesso mi sento dire, che senso ha fare delle mostre di donne, ora ci sono e non c’è più problema. Se fanno un prezzo più basso alle aste, non c’entra».
Scrivi: “Ieri e oggi la politica, l’arte, la filosofia, la letteratura continuano a essere al centro dell’attività della Libreria delle donne”. Come viene percepita, secondo te, questa istituzione dalle nuove generazioni (non solo di donne)?
«La grande presenza di donne artiste ha promosso il desiderio di studiare le opere e la partecipazione al femminismo di molte protagoniste degli anni ’60-’70. È iniziato circa dieci anni fa ed ora è quasi una ricetta. Sono però molto contenta di questo e tento di capire se e come il recupero del femminismo nell’arte influisce nell’interpretazione di oggi. Quello che vedo alla Libreria delle donne è un progressivo aumento d’interesse delle generazioni più giovani. Chiedono i libri di Carla Lonzi, i cataloghi delle artiste degli anni ’70. Studiano. Fanno tesi. Durante il progetto “Quarta Vetrina” mi ha colpito la ricchezza e la libertà di lettura dell’opera che era esposta. L’opening consiste, infatti, in un dialogo tra me l’artista e il pubblico, di varie età e provenienze, che si arricchisce di volta in volta, tutti e tutte fanno domande, raccontano le loro impressioni, una specie di “opera d’arte orale, collettiva”, molto speciale. Io mi auguro sempre che in un’opera ci siano non solo tante interpretazioni, ma anche tante intuizioni legate all’esperienza di chi la guarda. E in quegli incontri ho spesso avuto conferma della mia idea che l’opera è un “soggetto vivente” che si modifica attraverso i pensieri di chi la osserva. La Libreria delle donne di Milano, è un luogo molto allenato al dialogo, dove, oggi che nessuno più interviene nelle conferenze, si può sperimentare una lettura dell’arte insieme all’artista e ai tanti e tante alle quali è indirizzata. Ogni artista, donna o uomo, credo si auguri che le sue figure siano viste da quante più persone possibili».
Lunedì 15 si parlerà di Me too con alcune protagoniste fondamentali per la storia delle libreria, Lia Cigarini e Luisa Muraro. Qual è stata questa “svolta epocale” che si legge nel titolo dell’incontro? Il fatto di aver trovato il coraggio di denunciare?
«Certamente il coraggio di denunciare, ma soprattutto le donne hanno acquisito autorità, sono state credute, la loro narrazione ha vinto su quella maschile. Come scrive Lia Cigarini nel “Sottosopra” (settembre 2018): “Me Too è stato una valanga che si è andata ingrossando fino ad arrivare a colpire personaggi e schemi della politica classica maschile. Faccio l’esempio del candidato repubblicano al governo dello Stato dell’Alabama, sconfitto dal voto delle donne. Dopo, o meglio, attraverso cinquant’anni di lavoro politico del movimento delle donne, sia pratico che teorico, il movimento Me Too è arrivato a rompere il contratto tra uomini per regolare il loro accesso sessuale alle donne. Infatti, in conseguenza delle denunce, molti uomini hanno cominciato a non volere più la sottile complicità con i propri simili e non li hanno più scusati.” Una svolta epocale, registrata anche dal sistema mediatico, che pur essendo ancora dominato dagli uomini, questa volta non li ha scusati e ha creduto alle donne. Mi viene in mente in mente il muro di Berlino, un crollo inaspettato, per quale però hanno lottato per 28 anni uomini e donne, anche solo sopportandolo».
Come proseguirà la “Quarta Vetrina” (utilizzata sempre singolarmente da un’artista) dopo questa grande esperienza collettiva alla Fabbrica del Vapore?
«Non voglio rinunciare al dialogo con tutti e tutte quelle che partecipano, anzi vorrei incrementarlo: ad esempio potremmo porre noi delle domande al pubblico – l’artista e io – scambiarci le parti, far tesoro delle discussioni e della costante presenza di una delle più importanti filosofe italiane, Luisa Muraro. E perché no? qualche volta uscire dalla vetrina e mettere un segno sulle pareti di questa “stanza tutta per noi”, alla quale sono invitati anche gli uomini. Aspetto di vedere cosa succede durante la mostra che tiene insieme immagini, parole, libri e letture. Il programma degli incontri è pubblicato nel bellissimo catalogo (Nottetempo) proprio per evidenziare che sono parte integrante della mostra, e non conferenze a lato. Abbiamo video registrato tutti gli incontri durante gli opening, e con Egle Prati, Cristina Rossi, Chiara Mori, Alessandra Quaglia stiamo studiando un archivio consultabile, per ora in mostra c’è un monitor con l’editing di una prima parte. Chissà se, tra vent’anni, a qualche giovane studiosa o studioso verrà voglia di approfondire, come succede oggi con le pubblicazioni storiche della Libreria delle donne di Milano. Intanto sto studiando con Paola Di Bello un reportage della mostra con le sue allieve e allievi di Brera e, se andrà a buon fine, magari lo mettiamo in Quarta Vetrina».
(http://www.exibart.com/notizia.asp, 14 aprile 2019)