dal 28 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020
Chiavenna (Sondrio), Ex Convento delle Agostiniane, Piazza S. Pietro

esposizione di EMILIA PERSENICO, a cura di Gabriella Anedi,
organizzata dalla Pro-loco di Chiavenna nell’antico refettorio delle Agostiniane.

Le opere presenti sviluppano il tema della casa, del corpo, dell’abito. I materiali suggeriscono la fragilità delle nostre costruzioni, ma ne conservano la bellezza con il montaggio di vecchi ricami, di merletti
delicati usati come stampi per modellazioni suggestive.

Ric-amare la casa: attività di filo e cucito che si traduce in un modo molto personale e originale per ricomporre i legami spezzati, nel silenzio e nella pazienza di un lavoro dove la pratica artistica, le téchne, decanta il dolore e si trasforma in domanda di senso, richiesta di ascolto, sguardo commosso, poesia.

«Parlo di cose cucite, aggiustate
e fragili. Oggetti che raccontano storie, che hanno un vissuto, che necessitano di cure e attenzione.»

21 DICEMBRE 2019/SABATO ORE 18.00
Casa della Memoria, via Federico Confalonieri, 14 Milano, Porta Garibaldi
Inaugurazione della mostra fotografica di Paola Mattioli
a cura di Maria Fratelli

Intervengono la curatrice e Cristina Casero.

La mostra EMERGEnza LIBERTA’, 12 foto dall’archivio di Paola Mattioli resterà aperta dal 22 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020

ORARI
dal lunedì al venerdì: dalle 9.00 al termine della programmazione (ore 20.30 circa)
sabato, domenica e festivi: dalle 10.00 al termine della programmazione
martedì 24 dicembre: dalle 9.00 alle 12.30
martedì 31 dicembre: dalle 9.00 alle 12.30

Milano // dal 18 ottobre al 31 dicembre 2019
Marina Abramović. Estasi
Pinacoteca Ambrosiana, Sala Sottofedericiana
Piazza Pio XII, 2

di Desirée Maida

La celebre performer, che di recente ha inaugurato una grande retrospettiva nella città natale di Belgrado, presenta a Milano il ciclo di video che documenta la performance realizzata nel 2009 in un ex convento nelle Asturie. Ispirandosi a Santa Teresa d’Avila

“Quando mi sono trovata nella cucina del convento, è come se avessi visto un miracolo davanti a me: mi sono accorta che era un lavoro che stava già nella mia testa”. Con queste parole Marina Abramović (Belgrado, 1946) ha descritto le impressioni e le sensazioni avute durante la sua prima visita negli ambienti della cucina (ormai dismessi) dell’ex convento di suore clarisse nella città spagnola di Gijón, nelle Asturie. Invitata nel 2009 da Mateo Feijóo, allora direttore del Teatro de la Laboral di Gijón, l’artista serba elabora per quei luoghi suggestivi una performance in tre atti e altrettanti video, dal titolo The Kitchen. Il prossimo 18 ottobre, nella Sala Sottofedericiana della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, verrà presentato al pubblico il ciclo completo di The Kitchen. Homage to Saint Therese nella mostra Marina Abramović. Estasi, a cura di Casa Tesori.

THE KITCHEN DI MARINA ABRAMOVIĆ E L’EX CONVENTO DI GIJÓN

Per realizzare i tre video, Marina Abramović ha tratto ispirazione dai Diari di Santa Teresa d’Avila, tra le figure più importanti del cattolicesimo. Nella performance di Abramović la cucina ha un ruolo centrale, proprio come fu fondamentale della vita di Santa Teresa: nei Diari infatti viene narrato come la santa spagnola avesse visioni ed estasi mistiche proprio in cucina, mentre era impegnata nella preparazione dei piatti. I tre video, quindi, rappresentano le tappe del percorso che l’artista compie per giungere, proprio come la santa, all’estasi: Vanitas, Carrying the Milk, Levitation. Anche la storia del luogo della performance, ovvero le cucine dell’ex convento di suore clarisse di Gijón, ha ispirato il lavoro dell’artista: costruito tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, il complesso monastico era stato concepito come parte di un progetto più complesso, ovvero la creazione di una città autosufficiente che ospitasse i figli dei minatori del posto rimasti orfani dopo un grave incidente avvenuto in un giacimento del bacino del fiume Caudal. Il monastero ha quindi formato professionalmente, ospitato e dato un pasto a tanti ragazzi, fino all’abbandono della struttura avvenuta negli anni Ottanta. Nei decenni successivi il complesso è stato riqualificato, diventando nel 2007 sede della Laboral Ciudad de la Cultura e ospitando nel 2009 la performance di Marina Abramović.

LA MOSTRA “MARINA ABRAMOVIĆ. ESTASI” A MILANO

“Era un’idea che come Casa Testori cullavamo da tempo: poter proporre nel loro insieme i tre video della serie ‘The Kitchen’, che Marina Abramović aveva realizzato come omaggio a Santa Teresa d’Avila”, spiega sul proprio sito l’associazione culturale Casa Testori, che cura il progetto della mostra (prodotta da Vanitasclub, gestore della Cripta di San Sepolcro, in collaborazione con la Veneranda Biblioteca e Pinacoteca Ambrosiana). “La condizione era però quella di trovare il contesto giusto, che restituisse la magia e l’energia di queste opere. L’occasione si è offerta grazie alla possibilità di poter installare il percorso in uno spazio di grande fascino e magnetismo, nel cuore di Milano: una grande sala dell’Ambrosiana contigua alla Cripta di San Sepolcro. È una situazione che dimostra quale potenzialità possa riservare il dialogo tra un’opera contemporanea e un contesto storico: i video infatti mettono in luce una profondità e un rigore che li apparenta alle grandi opere del passato conservate nella soprastante Pinacoteca Ambrosiana. La Cripta invece dimostra di essere un luogo del passato capace di parlare all’uomo contemporaneo. L’energia spirituale che Marina Abramović libera nei tre video, ambientati nelle grandi e suggestive cucine di un ex convento spagnolo, trova così una naturale continuità nelle sensazioni che trasmette l’‘immersione’ nella Cripta, riportata a splendore da un recentissimo restauro”.

Monica Bonvicini torna a Milano con una personale diffusa nei tre spazi della Galleria Raffaella Cortese.

Sino al 9 novembre 2019 Galleria Raffaella Cortese Via Alessandro Stradella 7-1-4, 20129 Milan

di Francesca Pasini

Monica Bonvicini insinua l’amore non corrisposto in alcune casette unifamiliari della provincia lombarda; nella prateria, dove galoppa il cowboy della pubblicità di Marlboro; nella luce bruciante della rabbia.

Con una critica che corrode, ma anche propone, racconta nei tre spazi della galleria un amore che – come canta Gianna Nannini – “è una camera a gas, è un palazzo che brucia in città…”.

Una carta da parati, che riproduce facciate e dintorni di casette colorate, avvolge le pareti; una moquette rosa, spessa, copre il pavimento. Si entra in una stanza e ci si trova in una “reale” periferia urbana. Spaesamento. Il leitmotiv goldoniano, “che la piasa, che la tasa, che la staga in casa”, vira in una fulminante traduzione: può uscire di casa solo se le strade sono di moquette. Cioè, mai.

Uno sberleffo che evidenzia il salto di civiltà intercettato dal Me Too: le donne hanno preso parola e finalmente sono state credute. Con processo analogo, nell’amore non corrisposto Bonvicini indica il dolore e la rabbia, ma anche la libertà di progettare i propri edifici simbolici e reali. Alle facciate di queste deliziose casette, infatti, sovrappone le loro piante, sulle quali disegna il corpo sessuato delle donne che virtualmente le abitano. In esplicita polemica rispetto alla supremazia maschile, il disegno dell’uomo vitruviano è sovrapposto a una pianta, a sua volta contenuta nel profilo erotico di una donna nuda. In un’altra, si sovrappongono rilievi architettonici e una scena erotica tra due donne e un uomo.

È il momento che l’architettura patriarcale accetti la costruzione delle donne e non solo la loro mitica trasfigurazione. I corpi disegnati sulle planimetrie, inserendo nella progettazione la differenza sessuale, creano nuovi modelli abitativi destinati all’incontro erotico e alle sue fantasie e non solo al separato regno della donna.

Il cowboy, che occhieggia dalla vetrata della stanza sull’altro lato della strada, sembra placido: l’argento della stampa bianco e nero su seta, lo liquefa un po’. Non si sente il rumore degli zoccoli, la prateria sulla quale galoppa è in ombra. Non significa che pace è fatta, ma che la voce delle donne è distinguibile da una diversa prospettiva. In questa stessa stanza, su uno scolapiatti gigante scolano dei peni in vetro rosa, soffiato. Allude alla specularità tra neutralità dell’arte e amore non corrisposto, il fuori scala del riferimento duchampiano accentua, invece, la distorsione prodotta in tutti i campi dall’occultamento delle donne nel genere neutro maschile. L’amore non può che essere non corrisposto. Come scrive Diane Williams, ripresa da Bonvicini, “è sempre in circolo in modo che tu possa afferrarlo, e ammalartene, e restare a casa con esso, oppure esci e ti occupi delle tue faccende, facendo star male chiunque abbia a che fare con te, anche se tutto ciò che questa persona ha fatto è stato spingere lo stesso tuo carrello al supermercato, in modo che anche lei possa andare a casa, e fare un incidente, come sporgersi per mettere il detersivo nella lavastoviglie, infilzarsi l’occhio con la punta di un coltello da pane che è ad asciugare sullo scolapiatti”.

Quando si scende nel basement, cioè nello spazio originario della galleria, il rosa della moquette e dei peni di vetro evidenzia il contrappasso del colore abbinato al femminile. La luce accecante di tubi al neon, sospesi e aggrovigliati da fili elettrici, ci sbatte in faccia la rabbia personale che entra in collisione con quella degli uragani. Sulla parete i alternano i disegni di tre case distrutte e una intatta. La domanda immediata è: fino a quando l’orizzonte domestico può essere una protezione rispetto al pericolo? Si può davvero censurare la libertà erotica, intellettuale, progettuale delle donne? È senza rischi? No, a volte, la rabbia distrugge tanto quanto un uragano, come avvertono due disegni a lato delle case: Anger is one short of danger; Strong women know the taste of their own anger. Le donne, però, conoscendo il sapore della propria rabbia, sanno che il conflitto non si risolve nell’eliminazione dell’altro.

di Donatella Franchi


La grande novità della Biennale d’arte di quest’anno May you live in interesting times è la presenza di molte artiste, che per la prima volta nella storia delle grandi rassegne internazionali, superano il numero degli artisti.[1]

Per la mia generazione, che ha lottato perché il pensiero e l’energia creativa delle donne trovassero spazio e ascolto in un mondo dominato dal pensiero e le pratiche, e dallo sguardo maschile, dove le grandi mostre e i musei accoglievano quasi solo opere di uomini, questa è senz’altro una novità di cui gioire e su cui riflettere. Non tanto perché le donne siano state finalmente ammesse in gran numero nel Sancta Sanctorum di questa importante rassegna internazionale, ma perché il loro pensiero e la loro visione sono necessarie per comprendere il presente.

Ricordo la Biennale del 2005, quattordici anni fa, dunque. Era curata da Rosa Martínez e María de Corral. La ricordo bene perché per la prima volta ho incontrato in quella sede delle artiste, che facevano arte assumendo la loro esperienza femminile come punto di forza, rivelando così una capacità di invenzione simbolica sovvertitrice e trasformatrice: Barbara Kruger e Jenny Holzer con il loro lavoro sul linguaggio, la giovane Regina José Galindo, con le sue intensissime performance di body art, Louise Bourgeois che, pur non identificandosi con il femminismo, era stata fortemente valorizzata dal movimento delle donne, e poi Ghada Amer, Mona Hatoum, Emily Jacir, Kimsooja.

All’entrata delle corderie dell’Arsenale campeggiava uno dei famosi grandi manifesti delle Guerrilla Girls, le artiste attiviste americane che, proclamandosi “coscienza del mondo dell’arte” dagli anni ottanta denunciavano l’assenza delle donne nelle grandi collezioni e musei d’arte. Intervenivano con azioni tipo flash mob nascoste da una maschera da gorilla, giocando sull’assonanza nella pronuncia inglese, delle parole “guerrilla” e “gorilla”. Il manifesto mostrava la grande odalisca del pittore neoclassico Ingres, distesa voluttuosamente di schiena, con il volto nascosto dalla maschera da gorilla, sotto la scritta che campeggiava a lettere cubitali: “Do women have to be naked to get into the Met. Museum?” “Le donne devono essere nude per entrare al Metropolitan Museum di New York?” Il primo lavoro a darci il benvenuto all’interno dell’Arsenale era “La sposa”, dell’artista portoghese Joana Vasconcelos, un’opera dalla sovversività irridente, un grandissimo lampadario bianco e luccicante, composto da migliaia di assorbenti interni, che a prima vista sembravano piccole candele.

La presenza delle artiste in quella Biennale era dirompente, ricchissima di invenzione, di poesia, e ironia. La loro arte faceva pensare, era azione trasformatrice.

Questa del 2019 è una Biennale che si ricorda invece con una prevalenza di toni cupi, o in bianco e nero. É una rappresentazione del dolore del mondo: squilibri economici, disastri ambientali, migrazioni forzate, perdita, danni provocati dal colonialismo, violenza, guerre, popolazioni dall’esistenza infragilita, come gli Inuit.

È un mondo in crisi in cui le donne parlano coraggiosamente, partendo dalla propria esperienza, dalle differenze dei corpi che siamo, dall’ascolto e messa a fuoco di voci e corpi che storicamente erano stati tacitati e violentati dal potere.

È un mondo che richiede posizioni radicali, come quella di Chiara Fumai (1978-2017), a cui viene dedicata una retrospettiva al padiglione Italia dell’Arsenale[2]. La prima video performance che ho visto di Chiara Fumai era su Valerie Solanas e la sua critica estrema al potere dell’artista maschio nel suo testo SCUM. Questa artista, morta due anni fa, a soli 39 anni, è una femminista che si identifica con figure di donne radicali, come Carla Lonzi, Rosa Luxemburg, perfino Ulrike Meinhof, e altre meno conosciute, di cui evoca le voci in performance di grande intensità.

L’artista cilena Voluspa Jarpa, nella sua grandiosa opera di riflessione sul colonialismo, dove coinvolge 120 persone, in maggioranza donne, spiega in parte, in una intervista, le motivazioni della presenza di tante artiste a questa Biennale: “Sono capaci di mettersi al posto dell’altro, hanno una relazione non puramente intellettuale e di potere, ma anche affettiva”. Dice anche che in Cile, si sta vivendo “un momento interessante, femminista, che viene dalle giovani studentesse, che vogliono formare un altro tipo di società”.

Le artiste e gli artisti di questa Biennale ci comunicano che la pratica artistica non è tanto una manifestazione di eccezionali abilità artigianali, è soprattutto stimolare pensiero, è tramite di esperienze, è mettere a fuoco delle parti di realtà per poter riflettere insieme, per renderci più consapevoli e responsabili di quello che sta avvenendo intorno a noi. Il mondo è una responsabilità da prendere, bisogna averne cura.

L’artista svizzero Christoph Büchel (Basilea 1966) ha chiesto di portare dal porto di Augusta, in Sicilia, all’Arsenale di Venezia, sulla sponda vicino all’acqua, il relitto del peschereccio libico che affondando al largo di Lampedusa nel 2015, ha trascinato con sé più di 700 persone, chiuse nelle stive e nella sala macchine. La marina militare italiana ha recuperato il peschereccio per identificare i corpi e avvisare le famiglie. Il relitto, che l’artista ha chiamato Barca nostra, squarciato e consumato dal mare, ci crea un contraccolpo: lì si è consumato un genocidio, non si può dimenticare.[3] Mi è venuta in mente l’emozione che mi ha suscitato la visione del relitto dell’aereo di Ustica, a Bologna, e la discrezione e delicatezza con cui Christian Boltansky gli ha creato intorno un’installazione che con grande affetto rievoca le persone che sono morte in quel disastro, un atto di guerra in tempi di pace. Una delle differenze tra Barca nostra e l’operazione di Boltansky è che qui, all’Arsenale, si può passare davanti al relitto impreparati, senza rendersi conto di che cosa rappresenta.

Teresa Margolles (Città del Messico 1963), ci esorta a tenere vive le coscienze e a non dimenticare i femminicidi nel mondo con Muro Ciudad Juárez (2010), presente ai Giardini. Ha fatto trasportare a Venezia il muro di cemento da questa città di confine, crivellato di colpi di pallottole e sormontato da filo spinato. L’artista mette a fuoco le tracce della violenza dei narcotrafficanti, che continua a perpetrarsi soprattutto nei confronti delle donne.

La Búsqueda (La ricerca, 2014) è un’altra opera di Teresa Margolles all’Arsenale. L’artista ha registrato il rumore del treno che, attraversando Ciudad Juárez, fa vibrare i vetri recuperati in quella città, e che lei ha ricoperto di manifesti e ritagli di giornale con i volti di giovani donne scomparse.

Sono opere reperti che vogliono creare scatti di coscienza, di consapevolezza.

Shilpa Gupta (Mumbai India, 1976) riflette sul concetto di confine e sul potere. For, in your tongue, I cannot fit (Perché non posso adattarmi alla tua lingua) è un’installazione sonora di grande potenza. All’inizio sembra di trovarsi di fronte ad una moltitudine di leggii che sorreggono dei fogli bianchi con delle parole stampate. In realtà sono fogli con poesie trafitte da barre di ferro e sormontate da cento microfoni da cui escono voci che leggono i versi di 100 poeti incarcerati e censurati per le loro posizioni politiche. Sono poesie, in arabo, azero, hindi, inglese e russo dal VII secolo ad oggi.

Ai Giardini si trova un’altra sua opera, di grande impatto, Untitled, sulla sicurezza, il confine, l’isolamento: un cancello meccanico residenziale che sbatte con aggressività contro un muro, distruggendolo lentamente.

Rula Halawani (Palestina, 1964) è una fotografa che vive a Gerusalemme. Lavora sulla perdita. Espone una serie di grandi fotografie in bianco e nero, For my father, alla ricerca delle tracce della Palestina perduta della sua infanzia.

Molte opere di artiste si concentrano sul modo di vivere il proprio corpo e sullo sguardo.

Una presenza molto forte ai Giardini e all’Arsenale è quella di Zanele Muholi (1972, Durban, Sud Africa), nera, lesbica, si occupa di tematiche queer, è una delle fondatrici del Forum for empowerment of women. Vuole essere definita un’“attivista visiva”. Somnyama Ngonyama, Hail the dark lioness (Salutate la leonessa scura, 2012 in corso) è una serie di 365 autoritratti che immortalano un anno di vita di una donna lesbica, nera, in Sudafrica. Volti di donna che ci guardano negli occhi con fierezza e aria di sfida.

È molto interessante paragonare questi autoritratti ai ritratti di donne africane travestite da borghesi europee della fotografa Felicia Abban (1943), nel padiglione del Ghana. Questa artista che negli anni ’60-70 lavora sui travestimenti, mi ha fatto venire in mente il lavoro sui travestimenti e i ruoli femminili di Marcella Campagnano, che, fino alla fine di maggio di quest’anno, era presente nella bellissima mostra Il soggetto imprevisto,1978 Arte e femminismo in Italia.[4]

Mari Katayama (Giappone 1987), colpita da una grave malattia genetica, ha le gambe e una mano gravemente mutilate, lavora con la stoffa realizzando sculture morbide che riproducono il suo corpo, come protesi fantasiose.

Voluspa Jarpa (Cile 1971), con Altered views (Sguardi mutati) crea un’opera complessa, multimediale, che comprende anche un’opera musicale Opera de Emancipación, dove propone forme di decolonizzazione culturale con una revisione della storia europea. In 15 anni di lavoro ricerca negli archivi di agenzie di intelligence (ha studiato anche la guerra fredda, Gladio, l’attentato a Bologna, il rapimento di Aldo Moro). Capovolge il punto di vista con cui è stata scritta la storia del colonialismo. Non indaga soltanto l’egemonia coloniale europea, ma mette in discussione l’adattamento al pensiero dominante delle colonie, che così dimenticano le loro origini culturali. Studia il pensiero eurocentrico attraverso le relazioni uomo-donna, di classe e di razza. È un lavoro molto impegnativo anche per il coinvolgimento che richiede a chi visita questo padiglione all’Arsenale.

Anche la polacca Marysia Lewandowska (1955), che vive a Londra, ha lavorato sugli archivi, quelli della Biennale di Venezia e del Victoria and Albert Museum di Londra: It’s about time (Era ora). Dà valore alle voci inascoltate delle donne che hanno collaborato alla fondazione della Biennale d’arte di Venezia alla fine dell’800. Riconosce l’importanza di Felicita Bevilacqua La Masa (1822-1899) e la sua posizione critica riguardo la creazione della mostra internazionale nel 1895. “Se comprendiamo la funzione degli archivi come siti di contestazione, dobbiamo accettare la sfida che rappresentano per la versione riconosciuta della nostra storia condivisa”, lei dice. Leggendo gli archivi della biennale non trova le voci delle donne. Vuole ricrearle e immagina una conversazione tra di loro chiedendo la collaborazione di femministe italiane.

Christine e Margaret Wertheim (1958, gemelle australiane, vivono a Los Angeles). Espongono esempi di un lavoro collettivo grandioso, a cui partecipano oltre10.000 persone. We are all corals now mette a fuoco la lenta distruzione delle barriere coralline che stanno morendo per l’innalzamento della temperatura dell’acqua e per i rifiuti di plastica. Sono creazioni all’uncinetto. Il lavoro all’uncinetto, che le artiste hanno imparato dalla madre, viene valorizzato come un lavoro artistico molto complesso, capace di riprodurre l’intelligenza della matematica non euclidea, quella dei frattali. È anche una meditazione sul tempo e gli ecosistemi. Le ore interminabili di lavoro richieste rimandano ai secoli di lenta crescita dei coralli. È una meditazione sull’arte, la scienza e la collettività, nell’epoca del riscaldamento globale. L’umanità deve stabilire connessioni con il mondo che abita, perché tutto è interconnesso e in relazione.

Questa biennale mette in scena il dolore, l’ansietà, l’impotenza, la perdita, ma anche il desiderio di vita e di cambiamento.

C’è molta fotografia, e anche per questo la metafora del “mettere a fuoco” mi appare il tema dominante di tutta la rassegna.

Il ruolo dell’arte è mettere a fuoco quello che l’abitudine cela. L’abitudine può diventare indifferenza. L’arte ci risveglia dal bisogno di dimenticare, di lasciarsi andare. Questa che incontriamo alla Biennale del 2019 è un’arte fortemente politicizzata, completamente immersa nel presente, nelle difficoltà del mondo in cui viviamo.

Un’amica che visitava con me la Biennale mi ha detto: “Io voglio che l’arte sia diversa dalla vita”. Questa non è un’arte che fa sognare, che offre rifugio in un mondo fantastico. Passando da un’installazione all’altra, da un padiglione all’altro, sembra di non avere tregua.

Ma nella sua tragicità penso che sia un’arte a servizio della vita.

Un importante controcanto alla Biennale d’arte è la mostra Letizia Battaglia, Fotografia come scelta di vita, a cura di Francesca Alfano Miglietti, alla Casa dei tre Oci, alla Giudecca, un’esperienza molto intensa, indimenticabile, una di quelle mostre che permettono un vero incontro.[5]

Letizia Battaglia oggi ha 84 anni, ed è una grande fotografa e una grande donna. Nei due film intervista presenti alla mostra, si dichiara femminista[6], pensa che le donne abbiano una poetica diversa. “La fotografia è una parte di me, ma non è la parte assoluta, anche se mi prende tantissimo tempo.” Mettere la vita al primo posto e non fare dell’arte un assoluto. Io credo che qui stia la vera differenza nel modo di vivere l’arte di una donna e di un uomo.

Come diverse artiste del passato e del presente, Letizia Battaglia smitizza la figura dell’artista: “Fin da bambina sognavo di diventare scrittrice, per cui il giornalismo era una cosa naturale. Però, quando portavo da free-lance un’idea, un articolo, mi dicevano sempre “e le fotografie”? Allora una mia amica mi regalò una macchinetta e iniziai a fotografare. Ma già allora era un mezzo che non conoscevo, anzi non lo conosco neanche oggi! Ho sempre fotografato quasi per miracolo. Non ho mai capito le tecniche, però sapevo quelle quattro cose che mi sono servite.”

“…I risultati non dipendono dall’attrezzatura, ma da testa, cuore e cervello… consiglio di fotografare tutto da molto vicino, a distanza di un cazzotto o di una carezza.”

“La fotografia è stata la mia salvezza. Ero una donna inquieta e attraverso la macchina fotografica ho potuto trovare un equilibrio”.

“Di Palermo, oggi, mi sento un po’ madre… provo a prendermene cura sapendo che non è affatto facile”. “Prima di fotografare la città, c’era la passione per la città, il rammarico, la rabbia per tutto quello che stava avvenendo. Per cui la mia macchina fotografica era come un altro cuore, un’altra testa, non era un mezzo per vendere fotografie, per diventare famosa, era il mio cuore che parlava.

…questi esseri ci macchiavano, ci corrompevano… Oggi c’è una mafia più grande e forte… che è dentro le istituzioni, tutte le istituzioni.”

“Io invento la mia speranza”, lei dice. Penso che queste parole possano esprimere anche il senso della pratica artistica, e prima di tutto un rapporto creativo con la vita, l’unico modo per darle un senso. Letizia Battaglia ha fotografato il dolore e la morte lavorando come reporter per il giornale L’ora di Palermo. Per poter accettare il dolore ha messo a fuoco la bellezza, questo le ha permesso di non arrendersi, “di inventarsi la speranza”.

La speranza di cui parla si esprime soprattutto negli sguardi e negli atteggiamenti delle bambine, nella bellezza delle donne. “Amo fotografare le donne… E cerco gli occhi profondi e sognanti delle bambine: mi ricordano me stessa a dieci anni, quando mi resi conto, di colpo, che il mondo non era poi così bello.” “Non mi veniva di fotografare gli uomini, i politici, mi venivano male, sfuocati… Avevo bisogno di fotografare le donne, perché fotografavo me stessa.” “…cercavo di raccontare non solo le défaillance, ma anche le cose belle. Perché io ho pure raccontato belle facce, belle bambine, belle situazioni più che altro al femminile.”

Il suo scenario è la città, Palermo, con le sue tragedie, i numerosissimi delitti di Mafia degli anni ’70, ’80, ’90, le manifestazioni, le piazze, le feste, le bambine e i bambini. La bellezza dei loro sguardi e dei loro volti redime dal dolore, ci restituisce un’umanità ricca di pietas, piena di dignità. “…Dovevo far capire che fotografavo perché li rispettavo” dice dei parenti delle vittime…” “Ho puntato l’obbiettivo con rispetto e solidarietà, mai con cinismo, cosciente in ogni modo di avere il dovere di documentare”. “Sentivo di dover vivere opponendomi all’orrore. Non so se sarei capace di fotografare una guerra, perché per me è indispensabile l’amore. Certo, avrei un amore umano per il dolore che vedrei. Ma ho adorato Palermo…”

“Credo che dentro una foto ci siano pure i baci che hai dato e che ti hanno dato. Quando si fotografa c’è la vita che hai vissuto, tutto è dentro una foto quando è ben riuscita.”


(Versione integrale del testo pubblicato in forma ridotta sulla rivista online di Diotima Per amore del mondo, 2019)



[1] Il curatore americano Ralph Rugoff, sostiene che le artiste hanno sempre avuto qualcosa da dire, ma che gli uomini riescono a conquistare molte più mostre personali, e che c’è ancora tanta strada da fare. (Intervista di Arianna di Genova, Alias, il manifesto, 1 maggio 2019)

[2] Nell’installazione Né altra Né questa. La sfida al labirinto, a cura di Milovan Ferronato, si trovano anche i lavori di Liliana Moro e Enrico David. Il curatore possedeva le bozze di un inedito di Chiara Fumai, di cui era amico.

[3] L’esposizione del relitto ha suscitato molte critiche da parte della Lega. Il candidato a Bruxelles di Salvini ha dichiarato che non avrebbe messo piede alla Biennale, perché troppo politica. Ci sono state critiche e perplessità anche di altro tipo, meno becero. Il dibattito è aperto.

[4] A cura di Raffaella Perna e Marco Scotini. Questa mostra segna una tappa importante e significativa nella storia dell’arte visiva, perché per la prima volta vengono raccolte opere di artiste italiane, che hanno partecipato al movimento delle donne, e che non erano presenti nelle rassegne internazionali.

[5] Peccato che termini il 18 agosto, molto prima della Biennale che si chiude il 24 novembre.

[6] Nel 1991 è fondatrice della rivista bimestrale “Mezzocielo”, realizzato da sole donne. Dal 2017 dirige il Centro internazionale di fotografia presso i Cantieri culturali della Zisa di Palermo.

di Silvia Bordini


È scomparsa lo scorso 19 luglio a Roma Ida Gerosa, artista pioniera della sperimentazione con i computer in Italia e non solo. Aveva ottant’anni.


Ida Gerosa ha cominciato a lavorare su arte e computer agli inizi degli anni Ottanta, partendo dalla grafica e dalla pittura, e non si è mai fermata. Ha scoperto, sperimentato e donato con le sue opere un universo di sensazioni visive (e sonore) realizzate attraverso i dispositivi informatici. Luci e colori immateriali, forme in metamorfosi, profondità, addensamenti e trasparenze in un continuum versatile e affascinante che negli anni è diventato sempre più coinvolgente e più espanso; si è dilatato nello spazio come nel tempo e soprattutto in una dimensione percettiva densa di intuizioni che Ida Gerosa sapeva modulare e modificare all’infinito.

Il pensiero di Ida Gerosa

«Comincio a pensare che l’arte con il computer sia veramente una straordinaria avventura del pensiero e dell’espressione», aveva scritto nel lontano 1984, «credo che il computer possa permettere un nuovo ‘umanesimo’, perché ha bisogno di nuovi filosofi, di nuove fantasiose strategie di ricerca che ci portano alla scoperta di nuovi mondi, dove forse sarà impossibile distinguere l’immaginario da reale, la forma riflessa dal suo oggetto». Su queste convinzioni e su queste utopie (su cui oggi molte e inquiete riflessioni si potrebbero condurre) Ida Gerosa ha costruito il suo personalissimo dialogo con l’arte, la passione, la macchina, le emozioni, i linguaggi. Artista indipendente e tenace, non ha mai cercato sponsor e gallerie ma si è circondata di amici e compagni di strada, ha guadagnato lentamente una fama che è al di fuori dal sistema dell’arte e ben addentro alle molteplici varianti dei processi creativi.


(Artribune.com, 24 luglio 2019)

Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Particolarmente attenta ai temi della didattica dell’arte, cerca nelle forme culturali possibili vie di accesso alla comprensione del mondo e della nostra umanità. Artribune presenta il suo progetto “L’arte è un delfino”, un ciclo di video-interviste per riflettere sull’arte e la cultura del nostro tempo. Questo appuntamento vede protagonista la storica dell’arte Lea Vergine.

Quando avevo sedici anni sognavo di parlare con Borges.
Leggevo L’Aleph, nel tragitto in autobus da casa a scuola, e avevo un solo desiderio: parlare con Borges (quando penso alla tenerezza, al fondamento della compassione, penso ancora oggi a La casa di Asterione: l’innocenza e il disarmo nella solitudine dell’anomalia e l’equivoco che ne consegue). Il mio desiderio incontrò un ormeggio. Nel sorprendermi il libro tra le mani – la lettura proseguiva sul muretto di fronte all’entrata – la mia professoressa di filosofia mi disse che era andata in Argentina a trovarlo, Borges. E aggiunse: “leggilo pure, ma non lo capirai adesso. Più avanti.”
Non capire un libro è come leggere un libro vuoto, pensai, è un esercizio di immaginazione. O forse no, è come scriverlo. Ma il dato, su cui avrei esercitato il metodo induttivo, fu: è andata a trovare Borges. Si poteva fare. Io, certo, non avrei più potuto farlo ma, in generale, si poteva cercare e incontrare qualcuno per il solo desiderio di parlargli.
Ripenso a questo fatto tutte le volte che mi risolvo nel prendere il telefono e chiamare qualcuno per un’intervista. E mi è servito anche stavolta, più di ogni altra volta.
La telefonata con Lea Vergine è durata circa venti minuti. Mi ha sottoposta a una specie di esame e, solo alla fine, ha detto “va bene, venga a casa mia il tale giorno”. L’entusiasmo mi ha spinto a sbilanciarmi: –… perché sa, anch’io sono un po’ di Napoli.

Lo so, lo sento. E quanti anni ha?
Quaranta
E che cosa ha fatto fino a ora?
Tutto quanto era necessario a sostenere questa conversazione

L’ALTRA METÀ DELL’AVANGUARDIA

Quando arriva, dopo molti mesi di rinvii, il momento in cui non si può più differire la stesura di un’introduzione che è cimento e certame, si fumano quaranta ‘serraglio’ al giorno, ci si chiude in casa sperando di ammalarsi, si pasteggia ad ansiolitici, si legge Gian Battista Vico, si raccolgono gli sparsi appunti, le larve, le scalette, messe giù con la speranza che – tanto – poi – al momento – basterà – cucirli – insieme – perché – ormai – tutto – è – nella – testa, si mendica l’attenzione di qualche figura amica e le si legge il risultato di tutto questo.

È l’incipit de L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940, Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, Mazzotta editore, 1980. La metà suicidata, dirà Lea.
Un libro fondamentale per la storia dell’arte contemporanea, come tutti i libri di Lea Vergine, spesso nati dalla ricerca sul campo che si risolveva in mostre memorabili.
Sono più o meno nello stesso stato adesso, mentre scrivo. A parte le ‘serraglio’ (non fumo più da quando cominciai a cantare) e gli ansiolitici (che sostituisco con meditazioni trascendentali e giardinaggio), per il resto, uguale (e la figura amica è quasi sempre Milù, la mia gatta siamese).
Procedo per azzardi e frammenti. Cerco segni e suggerimenti ovunque. Cerco giustificazioni:
La prima frase è sempre la più difficile (Wisława Szymborska). M’inabisso. Più vorrei dire l’importanza di qualcosa, più mi inabisso.
Potrei scrivere qui le domande che non ho fatto. Per esempio:

Nel testo L’altra metà dell’avanguardia (quella delle artiste donne) c’è una frase definitiva: C’era una volta una principessa che stava leggendo un libro quando il boia la toccò sulla spalla per farle capire che era arrivata l’ora e lei, alzandosi, mise un tagliacarte tra le pagine per non perdere il segno e chiuse il libro. (Anonima). L’ha scritta lei?

Ma non c’è mai tempo di chiedere tutto. E non si deve mai chiedere tutto. E poi c’è differenza tra chiedere e domandare. Si chiede per avere, si domanda per sapere. L’ho sentito dire proprio a lei, a Lea Vergine, in un’altra intervista, mentre preparavo la mia. E ho dunque avuto cura, poi, di non chiedere ma domandare.
Un piccolissimo insetto verde, una specie di minuscolo grillo, cammina sulla pagine del libro aperto accanto alla tastiera e percorre la frase: L’arte è una questione di forma. Se ascoltiamo un canto gregoriano o ambrosiano o un notturno di Chopin, siamo coscienti del fatto che siano tutte musiche splendide, diverse tra loro, ma ugualmente intense. Perché la loro forma è perfetta, al di là del tempo e dello spazio. Lo stesso vale per l’arte.
L’insetto verde è di gran lunga più abile di me nel trovare spunti da dove cominciare.

L’ARTE NON È FACCENDA DI PERSONE PERBENE

È il titolo del bel libro, aperto accanto, edito da Rizzoli nel 2016, in cui Lea Vergine, in conversazione con Chiara Gatti, racconta la sua storia personale, dall’infanzia napoletana, divisa tra due famiglie, alla vita adulta e alla scelta del mestiere di critico (un mestiere anticonformista pure oggi, figurarsi allora, negli anni ’70, e per una donna), fino all’incontro con Enzo Mari e al suo approdo a Milano.
Su Enzo Mari pronuncerà una sola frase. E anche quando vorrei parlarne io, durante la conversazione, con un’abilissima mossa mi gira la domanda e mi ritrovo ancora sotto esame, del tutto impreparata, a dover cercare le parole per dire quanto fondamentale sia stato per me suo marito. Ma torniamo subito a Lea.
Chi sono le persone perbene? Sono coloro che hanno il senso comune, soprattutto il buonsenso. Che si chiedono poche cose e sempre quelle, dice Lea. Mentre, invece, l’arte dilania. Mette allo scoperto tutti i traumi, consci e inconsci, ravviverà tutto il dolore di sé. Ma il dolore non è sempre una cosa nefasta, è anche una cosa che apre il cervello e fa capire, aggiunge.
Si torna sempre lì, alla questione centrale che è la dignità unita alla tenerezza del non accontentarsi di una comprensione sommaria.
Perché, da qualunque punto lo si guardi, l’umano domanda solo tenerezza.
Proprio oggi che tutto, attorno, dice: non siamo stati degni, non ce lo siamo meritato tutto questo. E proprio quando sembra stia tornando il demone dell’odio a possederci.
L’umano domanda solo tenerezza, perché tutto è nel paradosso d’essere allo stesso tempo tenace e fragile. E lo sguardo che odia è il più fragile di tutti.
Questa lezione me la impartì Napoli a suo tempo, dalla sua ferocia declinata nel canto, dal suo dolore senza mai un lamento, nel suo pianto nascosto.
Non si può avere un rapporto semplice con Napoli. Ci si deve contraddire di frequente, per esempio, per essere coerenti ed è necessario portare a spasso uno sguardo molteplice, non singolare, una pluralità che annienta le spinte contrarie. È per questo che ci si sente in una sospensione magica, camminando, in una danza inspiegabile che, vista da fuori, fa tremare i polsi per audacia sconsiderata.
Lea è nata a Napoli e di Napoli pure parleremo a lungo.
Il tentativo di speronare certezze, quelle della gente perbene, percorrerà la trama sottile delle sue parole, sebbene “L’arte non insegna niente sulla vita, esattamente come la vita non ci insegna niente sull’arte” come recita la frase di Morton Feldman, tratta da Pensieri Verticali, in esergo al libro.

DELL’INUTILITÀ DELL’ARTE

Ma che cos’è e a cosa serve l’arte, che uso possiamo farne, infine?
I termini devono essere sempre riscritti. Ed è un privilegio, tra gli umani, riscriverli tutte le volte e spalancare l’orizzonte e la volta celeste e le profondità d’abisso. Finché possiamo trattare l’intrattabile, il mistero è salvo. E finché il mistero è salvo, è salva la speranza, che qualcuno dirà illusione, qualcun altro sogno.
Metterci di nuovo, con furia sistematica, di fronte a questo essere qui, dubitando di tutto il senso – ma elegantemente stretti in uno scialle accanto al fuoco della coscienza, bevendo a piccoli sorsi un vino antico di millenni, attardandosi ogni tanto a meditare sulle pagine di un libro vuoto (ecco, di nuovo).
L’esercizio totale dell’arte è forse questo. Ti offre il privilegio di non capire un libro che pure non puoi smettere di leggere. Un libro indecifrabile o un libro vuoto, e tu continui a leggere.
Essere assolutamente centrati nel continuo differimento.
Andare all’appuntamento con il solo grande amore e fingere che non sia questione di vita o di morte. Prendersi il lusso di non dire la sola cosa che conta, distogliere lo sguardo dai soli occhi amati che si dovrebbero, invece, guardare fissamente. Centrare il bersaglio mirando altrove, sapendo bene che se vi fosse, solo per un attimo, l’intenzione di far centro, il tiro non andrebbe a segno. È questo, forse, l’arte?
Lea Vergine ci dice che è il superfluo. Perché quello che ci serve per essere un po’ felici, o meno infelici, è il superfluo. Quanto questo superfluo possa essere vitale lo lascia intendere attraverso tutto il resto e il resto non sono parole.
È disperatamente inutile, dunque?
L’arte è sempre organizzata attorno al vuoto della cosa impossibile e reale, cito Žižek che cita Lacan.
Quello che per Rilke è l’ultimo velo che copre l’orrore: “la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutto sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura”.
Ma noi vogliamo, se possiamo, violare lo spazio di indicibilità, tutte le volte che parliamo o scriviamo d’arte.
Con quanta disperazione si affina un canto? Quanta energia vitale c’è nel colpo di scalpello, nella linea plurale di una frase poetica. E, a pensarci, a cosa serve il canto, l’artificio di forma, il ricamo, il passaggio virtuoso sulle corde del violino? E a cosa serve dipingere un volto (penso al volto dell’Annunciata di Antonello, o agli occhi socchiusi della Madonna del Parto di Piero della Francesca). A cosa serve tutto questo? È un messaggio per gli umani o per gli alieni? È un messaggio per un demone o per dio? È un messaggio per le mosche, per i lombrichi, per i pesci? Non è un messaggio? È un segnale di fumo senza fumo. È attardarsi in quello spazio sospeso delle cose senza significato (ma che possono sperare in un senso), nel quale dobbiamo restare più a lungo possibile – per sopravvivere – e da questo spazio dare adito a ipotesi.
E Lea è così. Potresti stare lì per ore a guardarla fare l’orlo, di pregiata fattura, al vuoto che la vita spalanca. E l’arte non è che un’ombra. C’è sempre anche l’ombra da qualche parte, muta.
Che l’arte, poi, come sistema gravitazionale, possa essere anche un regolatore sotterraneo dell’incedere politico (ed etico) è solo un’ipotesi, ma non è cosa che possa dirsi senza rischio. Parlare di etica politica del fare artistico, del rapporto dell’azione con il desiderio che la abita e del giudizio che ne consegue, aprirebbe spazi troppo vasti.
Ma si potrebbe, per cominciare, ripartire dalla rilettura di un testo fondante di Lea Vergine: Attraverso l’Arte. Pratica politica. Pagare il ’68, Arcana, 1976, per ribadire che nulla può essere trattato fuori dall’ecosistema sociale e politico.
E poi, ancora fondamentale rilettura (per tutti, non solo per chi si occupa di arte), Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira, 2000. C’è dentro un mondo incastonato nell’infinito-breve-spazio tra anima e corpo.
Ecco, non lo so. Forse finora ho scritto al vento, senza fare centro. Ma non si elabora facilmente tutto questo. Volevo farvi incontrare questa splendida donna ed eccola qui: tenera, implacabile, sublime. Dopotutto, sono quelle che si manifestano le cose più importanti. Ed eccone un’ultima, dal nostro incontro, per dirvi la grazia:

– “Lea, possiamo cominciare, dovrei solo attaccare questa spina a una presa.”
– “Ah, non lo chieda a me, non ne capisco niente. Quando mi parlano di spine, io penso alle rose

di Giannina Mura da Il Manifesto del 6 giugno 2019

MOSTRE. L’esposizione delle sue opere nei due luoghi simbolo della sua vita parigina: la Villa a lei titolata e la Maba. Osannata durante la sua esistenza, tanto in Francia che in Russia, sin dai suoi quadri cubisti del 1909. Non solo pittrice, fu anche scultrice, scenografa, costumista, creatrice di marionette e di mobili.

Riconosciuta dai critici del suo tempo come una delle figure più originali del cubismo, l’artista russa Maria Vassilieff (1884-1957) si stabilisce definitivamente a Parigi dal 1908, nel cuore della babele artistica di Montparnasse. Nel suo studio al 21 avenue du Maine crea anche un’accademia e una mensa autogestita, che diventeranno presto il quartier generale dell’avanguardia.
Qui, dal 2016, si trova il centro d’arte Villa Vassilieff che le rende oggi omaggio con Une journée avec Marie Vassilieff: una mostra nei due luoghi d’inizio e fine della sua vita francese: la Villa Vassilieff e la Maba della Fondation des Artistes, gerente della casa di riposo degli artisti di Nogent-sur-Marne, dove l’autrice trascorrerà i suoi ultimi anni.

RIVENDICANDO un punto di vista femminista, la rassegna mette in dialogo la sua opera con quella di undici artisti contemporanei, per dimostrare che la sua poetica «è sempre viva e che non c’è separazione tra artisti di oggi e quelli di ieri, come lei», spiega Mélanie Bouteloup, direttrice di Villa Vassilieff.
Tutte le opere allestite nel percorso appartengono al collezionista Claude Bernès che ha riunito in quarant’anni una collezione di riferimento mondiale, essenziale per rivalutare la produzione di questa protagonista carismatica degli anni d’oro di Montparnasse (1910-1930), citata dagli storici più per l’amicizia con gli artisti e intellettuali della sua epoca che per la sua opera. Un’opera osannata durante la sua vita, tanto in Francia che in Russia, sin dai suoi singolari quadri cubisti del 1909.

NON SOLO PITTRICE, Marie Vassilieff è anche autrice, scultrice, scenografa, costumista, creatrice di pupazzi, marionette, mobili, e altri lavori «stravaganti». Come molte sue connazionali, da Natalia Gontcharova a Sonia Delaunay, Alexandra Exter, Liubov Popova, o Varvara Stepanova, già negli anni dieci, fa saltare le frontiere tra belle arti e arti applicate, rivoluzionando discipline e materie per un’inedita fusione tra arte e vita. «Contro la severa banalità della scultura moderna e classica», Vassilieff usa, ad esempio, materiali poveri (cartapesta, tessuti, fili di lana, fili di ferro, scarpe…) inventando un nuovo genere di oggetto d’arte moderna: i pupazzi-ritratto che, ricchi di forza espressiva, fanno furore anche a Berlino, New York e Londra. Dalle fotografie, oggetti e disegni esposti alla Maba, salta agli occhi una creatività ferace, pervasa d’ironia e piena di grazia.
Alla Villa Vassilieff, sorprende l’enigmatico dipinto intitolato Auto-portrait avec sa poupée-portrait, in cui la pittrice rappresenta se stessa e il suo pupazzo-ritratto con le mani alzate dell’Orante. Soave trasposizione dell’artista in Madonna del Segno che genera, con il frutto della sua arte la propria benedizione. O la propria preghiera? Certo è che, con la sua adesione al movimento dei riformatori cristiani, negli anni ’20, Vassilieff mixa arte moderna, dell’icona e quella primitiva in una sintesi risolutamente personale: «la mia pittura religiosa dà l’immagine dell’arte cristiana della nostra epoca. Ho creato la mia religione per esprimere lo stato della mia anima, sgozzata nelle catacombe dei cafés di Montparnasse, dove ci perseguitano i veri Satana (i mercanti delle nature morte)» indica Vassilieff nelle sue memorie. Tra le opere create in questa fase, in mostra alla Maba i disegni per le scenografie e i costumi dello spettacolo Le Bal de la misère noire, bollato e vietato come scandaloso nel 1927 e mai rappresentato in un teatro pubblico.

DIECI ANNI PRIMA, Vassilieff sfiora già lo scandalo col «Banchetto Braque» che organizza nella sua mensa il 14 gennaio 1917 in onore del pittore reduce dal fronte. Nel disegno visibile alla Villa Vassilieff, l’artista ritrae Picasso, Braque, Léger, Max Jacob, Beatrice Hastings, Alfredo Pina, tra gli altri, seduti a tavola, lei in piedi col coltello sospeso sull’arrosto in mano a Matisse, mentre fa irruzione Modigliani, da lei non invitato per scongiurare la lite col suo rivale in amore, lo scultore Pina, che alla sua vista gli punta subito contro la pistola. L’energico intervento di Vassilieff con l’aiuto di altri commensali evita il dramma. Questo banchetto leggendario è il canto del cigno della sua mensa divenuta, durante la Grande Guerra, il principale rifugio della Montparnasse artistica e intellettuale. L’aveva aperta nel suo studio a fine 1914 per alleviare la disperazione degli artisti («niente lavoro, niente soldi, teatri chiusi: una vita miserabile», sottolinea nelle sue memorie) e la chiude alla nascita dell’unico figlio, Pierre, nel 1917.

MA NON CESSA la sua attività artistica, anzi ne espande ancor più il dominio avanguardistico: dalla direzione dell’atelier dei costumi dei Balletti Svedesi di Rolf De Maré alla collaborazione con diverse compagnie come autrice, scenografa, costumista e marionettista (tra cui il Teatro della Pantomima Futurista di Maria Ricotti e Enrico Prampolini) passando per la realizzazione dei «mobili marionette» per la grande mostra sulle arti decorative del 1925. Con audace fedeltà a se stessa, Vassilieff mette al mondo un’arte «piena di gioia e di creazione» che rifiuta di «imitare gli altri tanto in spirito che in materiali», come lei stessa afferma. E sino alla fine della sua vita, continua a sperimentare nuove forme e materie.
Emblematici i modelli e le maschere della Boutique fantasque, i costumi in rhodoïd dello spettacolo Voyelles, per il Teatro Art e Action di Louise e Édouard Autant-Lara, mostrati all’Exposition Internationale des Arts et Techniques dans la Vie moderne del 1937. O ancora, alla fine degli anni ’40, i suoi esperimenti con la ceramica, dai servizi da tavola alle sculture tra misticismo ed erotismo.

PERCHÉ L’ARTE di questa grande creatrice multidisciplinare è scomparsa dalla storia? Per Mélanie Bouteloup parte della spiegazione è nella metodologia adottata dagli storici: «In una storia dell’arte focalizzata sugli uomini, che include le donne solo se classificabili in categorie definite, lei non rientrava in nessuna di esse». Il collezionista Claude Bernès indica un’altra ipotesi: «Marie Vassilieff considerava i mercanti d’arte come degli avvoltoi che vivevano alle spalle degli artisti. Malgrado tutti i più grandi artisti del suo tempo avessero a disposizione i migliori mercanti, per lei erano dei Satana. Non ne voleva nessuno. Ha dovuto combattere da sola per difendere la sua arte. E senza una clientela che le assicurasse una notorietà postuma, ha finito per essere occultata dalla storia».
Ma forse non per molto ancora. Come per altre artiste del suo tempo, via via riportate alla luce dalle nuove generazioni di autrici, studiose, e direttrici di istituzioni artistiche, la riscoperta di Marie Vassilieff, promossa da questa mostra, sembra sulla buona strada. Mélanie Bouteloup conferma l’interesse crescente: «Tre anni fa abbiamo dato il suo nome al nostro centro d’arte per renderle omaggio. E tra gli artisti in residenza abbiamo riscontrato da subito un grande interesse per lei, riaffermato dall’entusiasmo di quelli invitati a dialogare con lei per questa rassegna». https://ilmanifesto.it/marie-vassilieff-negli-anni-doro-di-montparnasse

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di Cettina Tiralosi


Cambiare musica, voltare pagina, cambiare registro, atteggiamento, tipo d’approccio, sguardo, modo di comportarsi e così via: si può fare e io ci provo.

L’agire artistico è materia vivente, modifica e si modifica attraverso lo sguardo, i pensieri e le azioni, nella consapevolezza di chi propone e di chi osserva.

I luoghi hanno sempre un proprio fascino e una propria attrazione, e chi organizza si presta a rimettere in gioco, in società, la loro storia ancora viva che così si rinnova.

È il caso della ex-pescheria della città di Giarre (Catania) e della curatrice di Musical Fragments, Benedetta Spagnuolo, il cui intervento espositivo aggiorna la storia di un luogo vissuto dalle donne e dagli uomini che lì abitarono e che lì vi abitano ancora.

https://artistiitaliani.wixsite.com/artistiitaliani/musical-fragments

Per la mia disposizione ad ascoltare il mio proprio “sentire viscerale” nel senso che intende la filosofa María Zambrano, ho creduto bene, come ogni volta che mi capita, di prendere parte alla realizzazione di un evento che in circostanze simili a questo, potesse mettere in mostra il valore storico-artistico non indifferente dei luoghi, attraverso l’esposizione delle mie opere foto-grafiche digitali.

Cambiare musica, cambiare ballo, passo di danza, per seguire attraverso un ritmo differente, il proprio sentire e lo sguardo che lo cambia, mentre cambia tutto intorno, è l’espressione della passione e del desiderio politico di libertà femminile delle donne che si affermano mentre vengono allestiti ed esposti pubblicamente i loro elaborati e alla quale anche gli uomini tra i più o meno sensibili, siamo tutte e tutti posti in atto a riconoscere e a dare seguito.

Quando è il momento di cambiare musica, lo è immancabilmente per tutte e tutti, e soprattutto fra chi fa musica, certamente sa cosa intendo in termini di coscienza e conoscenza. Preparare questo evento perciò mi ha dato il la, il verso e la direzione un po’ più in là, lontana da quella parte ristagnante della vita quotidiana che spesso arresta il fluire davanti al nulla pietrificante, il più in là verso quella parte dalla quale l’orizzonte si apre dopo una fitta coltre di nuvole minacciose di piogge torrenziali.

Un po’ più in là, laddove vi trovo armonia, al di là del caos, dove vi trovo speranza di almeno una soluzione e dove, senza disperazione, ritrovo pazienza e fiducia di non riperderle mai più.

La scrittura come la pittura, in particolare, attraverso gli strumenti digitali di oggi come la foto/grafia ovvero la grafia della luce vivente supera l’irremovibile delle cose attorno a sé, andando oltre i no delimitanti per i sì possibili.

La storia della città di Giarre porta nella sua origine le tracce delle condizioni di prosperità che fu della comunità laboriosa che la costituì, tale da divenire nel tempo uno dei mercati all’ingrosso più grandi della riviera ionica siciliana; essa nasceva dal progetto di riqualificazione territoriale e di espansione demografica per volontà di un vescovo conte di Catania, Nicola Maria Caracciolo (1513-1569) proponendo a coltura le terre abbandonate per migliorarle attraverso le concessioni in enfiteusi.

Oggi riviviamo lo spopolamento e lo sradicamento dovuto al conseguenziale abbandono lento e costante che dura oramai da troppo tempo, dei luoghi di lavoro, di studio e di vita perché non più ancorati all’essere vivente che cambia, dai quali perciò si fugge mentre ci sfugge in verità il nodo irrisolto della questione.

Giovani donne e uomini vanno via, mentre i percorsi di scrittura aumentano un po’ dovunque, forse per afferrare le fioche tracce di un “poi” che ha bisogno del “quando” che si rivela in un insufficiente “adesso”.


[…]


(cettinatiralosiblognotes, 25 maggio 2019)

di Gianluigi Colin


Parigi, primo marzo, sfilata di Dior: tutto è pronto, ma nel silenzio dell’attesa, una minuta signora di 88 anni, inaspettatamente, sale in passerella. Accompagnata da due modelle (che indossano una t-shirt con la scritta Sisterhood is Global, citazione del libro della scrittrice e attivista Robin Morgan), recita una poesia. Gli invitati si guardano negli occhi, interrogandosi su chi sia quella donna con la faccia da bambina. Eppure, tutti sono avvolti proprio dalla sua Scrittura vivente (un’opera del 1976) qui rivisitata in un Alfabeto poetico monumentale molto contemporaneo: tanti corpi di donna, nudi e a grandezza naturale, come lettere dell’alfabeto, appunto. Quell’artista è Tomaso Binga, nome che nasconde l’identità di Bianca Pucciarelli, autrice di grande valore, pittrice e poetessa. Anche per questo Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior, l’ha voluta come protagonista della sfilata, come se quella donna, costretta a mimetizzarsi da uomo per farsi strada nel mondo dell’arte, rappresentasse il simbolo più alto per celebrare una ribellione femminista (e insieme affermazione della femminilità). Una scelta non scontata. E coraggiosa.

Ora, questi due alfabeti sono visibili in una importante ed emozionante mostra negli spazi dei Frigoriferi Milanesi. E anche qui la figura di Tomaso Binga diventa simbolo di una generazione di donne artiste che hanno combattuto e tuttora lottano per un riconoscimento della propria identità. Il titolo della mostra è elegantemente provocatorio e intrigante, come l’intera esposizione: Il soggetto imprevisto. 1978. Arte e femminismo in Italia, a cura di Raffaella Perna e Marco Scotini. Quasi a indicare che la storia dell’arte degli anni Settanta in Italia si è sviluppata attraverso una narrazione ricca di dimenticanze, assenze e censure. E che proprio questa mostra sembra voler riscattare.

Con rigore e impegno militante i curatori si muovono con l’intento di mettere in luce i rapporti tra arti visive e i movimenti femministi in Italia. La mostra è l’evoluzione, molto arricchita con voci dimenticate, dell’esposizione Altra misura del 2016, curata dalla stessa Raffaella Perna alla galleria Frittelli di Firenze e ora realizzata con la collaborazione del Mart di Trento e Rovereto (che ha concesso molti materiali della propria collezione) e, non a caso, realizzata con il contributo di Dior.

Con oltre 350 opere per 105 artiste italiane e internazionali, con sole due intrusioni maschili (Alberto Grifi e Giulio Paolini) la mostra si snoda attraverso libri, manifesti, dipinti, sculture, installazioni, filmati, molti dei quali inediti o rimasti finora negli archivi come un intenso e complesso viaggio dentro l’anima, le urgenze e le parole d’ordine dell’impegno femminista degli anni Settanta, in un contesto di crescente consapevolezza e contrasto politico. Erano gli anni in cui veniva approvata la legge sull’aborto, Nilde Jotti diventava la prima donna presidente della Camera, la studentessa Giorgiana Masi veniva uccisa durante una manifestazione; erano i giorni in cui si leggeva Dalla parte delle bambine e in piazza si scandiva «L’utero è mio e lo gestisco io».

Per una coincidenza felice con la Biennale (dove le artiste sono in maggioranza) aprono in Italia e nel mondo molte mostre di donne o dedicate a donne: lotte civili, sguardi originali sulla società, interpretazioni mai convenzionali. Eccole. A partire da una rassegna milanese sul femminismo Raffaella Perna e Marco Scotini hanno messo in luce (per la prima volta in modo così completo) una parte nascosta della ricerca sperimentale degli anni Settanta: quella del corpo e del suo linguaggio, mostrando le istanze e il ruolo importante nell’arte italiana delle donne che operavano nel dialogo attivo con il movimento femminista. Una centralità sostanzialmente rimossa, forse volutamente negata.

La mostra si apre con un passaggio simbolico: la proiezione del film-documentario Anna, un’opera del 1972 di Alberto Grifi in cui si narra di una ragazza che vive a Roma nel disagio, nel malessere esistenziale, tra droga e tentativi di suicidio nel nome di una rivolta perenne. Un documento crudo, realizzato con strumenti rudimentali: fu portato anche alla Biennale di Venezia e divenne presto un film di culto. Subito dopo i curatori presentano il ritratto di un personaggio chiave: Carla Lonzi. È sua la frase che suggerisce il titolo alla mostra: «Riconosciamo in noi stesse la capacità di fare di questo attimo una modificazione totale della vita. Chi non è nella dialettica servo-padrone diventa cosciente e introduce nel mondo il Soggetto Imprevisto». Carla Lonzi (1931-1982) era una scrittrice e critica d’arte molto stimata. Teorica dell’autocoscienza, ha fondato nei primi anni Settanta Rivolta Femminile, una casa editrice con titoli (tutti presenti in una teca) che non lasciano dubbi sui contenuti e sulle teorie di quegli anni: La donna clitoridea e la donna vaginale; Taci, anzi parla. Diario di una femminista.

Carla Lonzi era un’intellettuale, colta, autorevole. Prima della fase femminista aveva scritto Autoritratto, una sequenza di interviste a una decina di artisti, da Fontana a Kounellis, sino a quasi tutti gli esponenti dell’Arte Povera, montate come un dialogo ininterrotto. Lonzi era poi diventata una radicale dura e pura. Non lasciava spazio a concessioni, tantomeno nell’arte. Giudicava il sistema autoritario e sessista. Da questo suo radicalismo, l’amica e compagna di lotta Carla Accardi (l’unica presente in Autoritratto e qui simbolicamente vicina con una serie di opere su materiali plastici) rompe la lunga amicizia. Una linea di demarcazione culturale, politica, umana. Mettere come incipit della mostra i piccoli libri verdi di Rivolta Femminile, e il registratore con cui Carla Lonzi realizzava le interviste agli artisti, assume dunque il valore di una dichiarazione sul suo ruolo determinante di ideologa e critica.

La costruzione di Il soggetto imprevisto si snoda attraverso aree tematiche con artiste guida: la scrittura gestuale di Ketty La Rocca con le fotografie del 1971 di mani su cui sono create delle scritture (un ripetuto «you») che rappresenta un’anticipazione di quello che farà molti anni dopo Shirin Neshat. Una sezione è dedicata a Mirella Bentivoglio: fu lei, da artista, poetessa e curatrice, a organizzare nel 1978 una storica mostra alla Biennale di Venezia, invitando decine di artiste sul tema Materializzazione del linguaggio. Qui ne troviamo almeno 60, e non a caso l’immagine simbolo della mostra, un manifesto d’amore, è proprio della Bentivoglio: una bocca socchiusa con sovrapposte, in forma di poesia visiva, le lettere «ti AM O». Qui troviamo le scritture pentagrammate di Betty Danon o le lettere di Amelia Etlinger, o ancora i preziosi libri di Maria Lai, ora finalmente riscoperta. E c’è chi, come Milli Gandini, rivendica il salario per il lavoro domestico creando nel proprio privato un’azione artistica militante: prende le pentole con le quali abitualmente cucina e le chiude con filo spinato colorato. Il titolo dell’opera? La mamma è uscita.

Ironia, provocazione, ribellione, gioia, dolore, desiderio, paura, eros: tutto si condensa nelle opere in mostra: attraverso le parole illeggibili di Irma Blank, come rappresentazione di una identità negata, o con i collage irriverenti di Lucia Marcucci, i video di Gina Pane e Marina Abramovic, o l’esibizione del parto di Lisetta Carmi. Ma anche con i corpi nudi di Paola Mattioli o gli enigmatici «presagi» di Carol Rama. Sono anche esposti i malinconici autoritratti di Francesca Woodman e le foto di Paola Agosti che ritraggono il «triangolo ribelle» (le mani unite a forma di sesso femminile). O ancora, i tanti autoritratti di Marcella Campagnano, per un racconto sull’invenzione dei modelli femminili: moglie, infermiera, mamma, manager, casalinga, puttana… Corpi ostentati, corpi negati, corpi desiderosi d’amore, corpi vogliosi di sesso, corpi imprigionati nella mente, corpi pudici e corpi pornografici…

Certo, benché in quest’ultima Biennale di Venezia siano state invitate più artiste donne che maschi, il cammino per la parità (nell’arte e nella vita) appare ancora lungo. Tra l’altro, balza all’occhio che il nome del curatore, sfidando l’alfabeto, nel catalogo è prima di quello della curatrice. Così, resta impressa una delle immagini che chiudono la mostra. È quella di Valie Export: ritrae l’artista durante una performance, pantaloni in pelle tagliati al pube, il sesso esposto, il mitra in mano. Tu donna, «matrice del paradiso», seduci, accogli, perdoni e continui la tua battaglia, «diventi grande come la terra – ha scritto Alda Merini – e innalzi il tuo canto d’amore».


(Corriere della Sera, 12 maggio 2019)

di Lorenza Pignatti


Milano. Presso FM Centro per l’Arte Contemporanea la rassegna dedicata al «Soggetto Imprevisto», a cura di Raffaella Perna e Marco Scotini L’esplorazione del linguaggio verbale e del corpo femminile, inteso come processo di decostruzione degli stereotipi di genere: è questo il fil rouge che lega le opere raccolte ne Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e Femminismo in Italia, l’esposizione milanese presso FM Centro per l’Arte Contemporanea che presenta per la prima volta insieme oltre cento artiste italiane e internazionali attive negli anni Settanta, difficilmente citate nelle narrazioni storico/artistiche ufficiali. Una scena eterogenea come documentano le opere raccolte, in cui i legami tra arte e femminismo creano un discusso e contrastato progetto comune che orienta un nuovo percorso linguistico e iconografico. Molteplici sono i segni e i codici espressivi enunciati dalle artiste che ognuna in modo diverso affronta il rapporto con la militanza e l’attivismo politico, per determinare un nuovo Soggetto imprevisto, come scrisse Carla Lonzi nel libro Sputiamo su Hegel, un soggetto indomito che rifiuta il linguaggio e le prescrizioni del dicibile imposti dalla cultura e dall’iconografia maschile. Curata da Raffaella Perna e Marco Scotini, la mostra indaga l’eterogeneità dei discorsi che hanno spinto molte artiste e collettivi femministi a ripensare il ruolo della donna nella società, come testimonia l’ampia selezione di materiali provenienti dagli archivi della Cooperativa di via Beato Angelico, primo spazio artistico interamente gestito da donne, fondato a Roma nel 1976, di Rivolta femminile, uno dei gruppi più radicali, in cui militavano Carla Lonzi e Carla Accardi, del Gruppo Femminista Immagine di Varese, e del Gruppo XX di Napoli, per ricordarne solo alcuni. «Non è tempo per le donne, di dichiarazioni: hanno troppo da fare e poi dovrebbero usare un linguaggio che non è il loro, dentro un linguaggio che è a loro estraneo quanto ostile», scriveva Ketty La Rocca nel 1974, che pur non militando in modo attivo nel femminismo ne condivideva le istanze e le riflessioni, confrontandosi con curatrici e critiche come Lucy Lippard e Anne Marie Sauzeau. L’affermazione di La Rocca indicava la volontà di rifondare il linguaggio su basi nuove per demistificare le riflessioni stereotipate del femminile e uscire dal monologo del linguaggio patriarcale, come asseriva Carla Lonzi nel Manifesto di Rivolta Femminile, di cui sono esposti in mostra testi e documenti d’archivio. Come suggerisce il titolo della rassegna (visitabile fino al 26 maggio), il 1978 è un anno significativo per le rivendicazioni sociali viene approvata la legge 194 che permette l’interruzione volontaria della gravidanza, una vittoria epocale per il movimento femminista, dopo quelle ottenute con il referendum per il divorzio e la riforma del diritto di famiglia – e per la scena artistica italiana che registra e risponde ai cambiamenti in atto. Materializzazione del linguaggio è la collettiva curata da Mirella Bentivoglio, nell’ambito della Biennale di Venezia, che raccoglie le opere di ottanta autrici che operavano con la poesia verbo-visiva. Dai libri cuciti di Maria Lai alle scritture pentagrammatiche di Betty Danon, ai Dattilocodici di Tomaso Binga (pseudonimo scelto da Biana Pucciarelli per sottolineare la carenza di visibilità e le difficoltà per le artiste di poter essere parte del mondo culturale), ai linguaggi astratti di Mira Schendel e Irma Blank, l’intera mostra è stata ricreata a FM Centro per l’Arte Contemporanea per far riemergere la vitalità della scena italiana che dialogava apertamente con quella internazionale. A Belgrado fu invece organizzato il seminario femminista Comrade Woman: Women’s Question – A New Approach?, e in Polonia l’artista Natalia LL curava la prima esposizione femminista intitolata Wroclaw First International Women’s Art Exhibition. Sempre nel 1978 la Biennale di Venezia dedicava una antologica a Ketty La Rocca, a pochi anni dalla sua prematura scomparsa, mentre ai Magazzini del Sale erano presentati manifesti, riviste e libri fotografici del gruppo femminista «Immagine» di Varese e del gruppo «Donne/Immagine/Creatività» di Napoli. Romana Loda curava per la sua galleria di Brescia, l’ultimacollettiva di sole artiste, che chiuse un percorso di ricerca in cui le autrici italiane venivano proposte insieme alle più significative interpreti del panorama europeo, quali Marina Abramovic, Hanne Darboven, Gina Pane, Valie Export, Rebecca Horn, Natalia LL e molte altre. Come afferma Scotini, la rassegna altro non è che «un’indagine archeologica del più ampio dibattito contemporaneo sul concetto di genere, che cerca di recuperare una genealogia fondamentale nell’ordine dei sistemi sociali, che vedono ora una pluralità costitutiva di identità sessuali».


(il manifesto, 20 aprile 2019)

da Exibart

40 artiste in mostra alla Fabbrica del Vapore e una serie di incontri culturali e a sfondo politico, per raccontare una nuova storia dell’arte. Ma “Vetrine di Libertà – La Libreria delle donne di Milano, ieri, oggi”, in esposizione alla Fabbrica del Vapore fino al 6 giugno, parla anche di uno spazio di incontro, riflessione e immaginazione, ora in via Pietro Calvi e prima in via della Dogana, che con il tempo è diventato un punto di riferimento, aperto al contemporaneo. E infatti, lunedì, 15 aprile, si discuterà di un movimento epocale, quello del Me Too, con Lia Cigarini, Marisa Guarneri e Luisa Muraro, insieme alle artiste Elisabetta Di Maggio, Loredana Longo, Stefania Galegati, Marina Ballo Charmet. Ci dice di più Francesca Pasini, curatrice della mostra, insieme a Chitra Piloni, e animatrice della Libreria.

Verrebbe da dire che “l’arte delle donne” stia vivendo un periodo di riscatto non indifferente. Che cosa rappresenta, secondo te? Un fenomeno passeggero? Una moda? La giusta ricompensa al fatto che – nonostante si parli tanto di quote rosa, di uguaglianza e di stesse possibilità – le donne (prendiamo per esempio il mercato dell’arte, nella fattispecie delle aste) stanno ancora al di sotto dei colleghi uomini?

«Nel riscatto c’è l’idea di superiorità, invece la presenza tumultuosa delle artiste dall’inizio degli anni 90 del secolo scorso, ha invertito la rotta. Il genere neutro maschile “gli uomini, i mortali”, come dalla filosofia presocratica è stata definita la specie, non funziona più o almeno scricchiola. Artista non è un aggettivo e finalmente possiamo dire che l’arte è fatta da uomini o donne. Ci tengo a sottolineare “o”, perché è una dizione semplice per nominare la differenza tra i due. Certo il termine “umano” è nel linguaggio, per cui io sono “critico” d’arte, “curatore”, nonostante Luce Irigaray, dal 1981, in “Etica della differenza sessuale”, suggerisca di declinare sempre maschile e femminile. Nell’arte visiva le donne sono apparse più tardi. Forse era più difficile impedire a una donna di scrivere: Jane Austen, alzando un lembo della tovaglia del tavolo da pranzo, ha scritto romanzi straordinari e innovativi, e Virginia Woolf con “Una stanza tutta per sé” ha dichiarato l’urgenza di uno spazio di proprietà delle donne. Nell’arte visiva le donne sono state eccezioni eccellenti, anche se spesso lasciate a margine. Oggi non sono un fenomeno passeggero perché indicano qualcosa che va oltre le discipline: l’arte visiva fin dalla preistoria è una figura simbolica delle civiltà. Dire donne artiste e uomini artisti è un cambio di civiltà? Credo di sì. Se non si rincorre più l’Uno nella specie, nella religione, nell’arte, e miglioriamo la società femminile anche gli uomini possono vedersi inclusi in un universo di due e ci sarà meno bisogno di riscatto reciproco. Sapere che c’è dell’altro rispetto all’Uno è una cosa preziosa per donne e uomini. In questo senso le quote rosa non intaccano la sopraffazione maschile quando c’è, qualche piccola compensazione le offrono ma, come dici tu, se entra in campo il denaro, la parità va farsi benedire, e per assurdo proprio perché le artiste non sono più eccezioni si sentono la coscienza a posto. Spesso mi sento dire, che senso ha fare delle mostre di donne, ora ci sono e non c’è più problema. Se fanno un prezzo più basso alle aste, non c’entra».

Scrivi: “Ieri e oggi la politica, l’arte, la filosofia, la letteratura continuano a essere al centro dell’attività della Libreria delle donne”. Come viene percepita, secondo te, questa istituzione dalle nuove generazioni (non solo di donne)?

«La grande presenza di donne artiste ha promosso il desiderio di studiare le opere e la partecipazione al femminismo di molte protagoniste degli anni ’60-’70. È iniziato circa dieci anni fa ed ora è quasi una ricetta. Sono però molto contenta di questo e tento di capire se e come il recupero del femminismo nell’arte influisce nell’interpretazione di oggi. Quello che vedo alla Libreria delle donne è un progressivo aumento d’interesse delle generazioni più giovani. Chiedono i libri di Carla Lonzi, i cataloghi delle artiste degli anni ’70. Studiano. Fanno tesi. Durante il progetto “Quarta Vetrina” mi ha colpito la ricchezza e la libertà di lettura dell’opera che era esposta. L’opening consiste, infatti, in un dialogo tra me l’artista e il pubblico, di varie età e provenienze, che si arricchisce di volta in volta, tutti e tutte fanno domande, raccontano le loro impressioni, una specie di “opera d’arte orale, collettiva”, molto speciale. Io mi auguro sempre che in un’opera ci siano non solo tante interpretazioni, ma anche tante intuizioni legate all’esperienza di chi la guarda. E in quegli incontri ho spesso avuto conferma della mia idea che l’opera è un “soggetto vivente” che si modifica attraverso i pensieri di chi la osserva. La Libreria delle donne di Milano, è un luogo molto allenato al dialogo, dove, oggi che nessuno più interviene nelle conferenze, si può sperimentare una lettura dell’arte insieme all’artista e ai tanti e tante alle quali è indirizzata. Ogni artista, donna o uomo, credo si auguri che le sue figure siano viste da quante più persone possibili».

Lunedì 15 si parlerà di Me too con alcune protagoniste fondamentali per la storia delle libreria, Lia Cigarini e Luisa Muraro. Qual è stata questa “svolta epocale” che si legge nel titolo dell’incontro? Il fatto di aver trovato il coraggio di denunciare?

«Certamente il coraggio di denunciare, ma soprattutto le donne hanno acquisito autorità, sono state credute, la loro narrazione ha vinto su quella maschile. Come scrive Lia Cigarini nel “Sottosopra” (settembre 2018): “Me Too è stato una valanga che si è andata ingrossando fino ad arrivare a colpire personaggi e schemi della politica classica maschile. Faccio l’esempio del candidato repubblicano al governo dello Stato dell’Alabama, sconfitto dal voto delle donne. Dopo, o meglio, attraverso cinquant’anni di lavoro politico del movimento delle donne, sia pratico che teorico, il movimento Me Too è arrivato a rompere il contratto tra uomini per regolare il loro accesso sessuale alle donne. Infatti, in conseguenza delle denunce, molti uomini hanno cominciato a non volere più la sottile complicità con i propri simili e non li hanno più scusati.” Una svolta epocale, registrata anche dal sistema mediatico, che pur essendo ancora dominato dagli uomini, questa volta non li ha scusati e ha creduto alle donne. Mi viene in mente in mente il muro di Berlino, un crollo inaspettato, per quale però hanno lottato per 28 anni uomini e donne, anche solo sopportandolo».

Come proseguirà la “Quarta Vetrina” (utilizzata sempre singolarmente da un’artista) dopo questa grande esperienza collettiva alla Fabbrica del Vapore?

«Non voglio rinunciare al dialogo con tutti e tutte quelle che partecipano, anzi vorrei incrementarlo: ad esempio potremmo porre noi delle domande al pubblico – l’artista e io – scambiarci le parti, far tesoro delle discussioni e della costante presenza di una delle più importanti filosofe italiane, Luisa Muraro. E perché no? qualche volta uscire dalla vetrina e mettere un segno sulle pareti di questa “stanza tutta per noi”, alla quale sono invitati anche gli uomini. Aspetto di vedere cosa succede durante la mostra che tiene insieme immagini, parole, libri e letture. Il programma degli incontri è pubblicato nel bellissimo catalogo (Nottetempo) proprio per evidenziare che sono parte integrante della mostra, e non conferenze a lato. Abbiamo video registrato tutti gli incontri durante gli opening, e con Egle Prati, Cristina Rossi, Chiara Mori, Alessandra Quaglia stiamo studiando un archivio consultabile, per ora in mostra c’è un monitor con l’editing di una prima parte. Chissà se, tra vent’anni, a qualche giovane studiosa o studioso verrà voglia di approfondire, come succede oggi con le pubblicazioni storiche della Libreria delle donne di Milano. Intanto sto studiando con Paola Di Bello un reportage della mostra con le sue allieve e allievi di Brera e, se andrà a buon fine, magari lo mettiamo in Quarta Vetrina».


(http://www.exibart.com/notizia.asp, 14 aprile 2019)

di Carla Pecis


Si apre il prossimo 11 maggio la 58a Biennale d’Arte di Venezia, uno degli appuntamenti artistici e culturali più importanti del mondo. Gli organizzatori sottolineano l’ulteriore incremento di presenze alla rassegna di quest’anno di artiste da tutto il mondo, a cui i diversi Paesi hanno affidato i propri padiglioni. Paesi e continenti diversi, in cui diversissime sono le condizioni di vita e i progetti delle donne. Queste artiste ne sono certamente una rappresentanza e un’eccellenza, per molte realtà anche una speranza per il futuro.

Renate Bertlmann – Austria. L’artista viennese è nota per il suo impegno femminista, molte delle sue opere indagano il ruolodella donna nelle società contemporanee.

Eva Rothschild – Irlanda. Da Dublino ha promesso di portare a Venezia sculture e installazioni con forti connotazioni politiche.Al femminile anche l’altra figura presente nella organizzazione del padiglione irlandese, MaryCremin.

Cathy Wilkes – Gran Bretagna. Nata a Belfast, vive a Glasgow ed è la terza donna a cui viene affidato il padiglione (2015-2017-2019). “È nota per le sue installazioni che ricreano ambientazioni domestiche intime e al tempostesso strazianti anche grazie all’uso di manichini.”

Laure Prouvost – Francia. Nata a Lille, l’artista quarantenne è stata scelta dalla Francia per il suo alto profilo internazionale, lasua è una voce già molto conosciuta nel mondo, utilizza innovative tecniche che nella loro diversitàpropongono argomenti intimi e universali.

Scozia – Charlotte Prodger. Nella sua pratica artistica utilizza video, suono, scrittura e scultura. A Venezia presenta un videobasato sull’esplorazione della vita e dei paesaggi dell’ambiente rurale da cui proviene, “dovepaesaggio e bellezza sono intrinsecamente legati, sono eccitata dai fluidi confini dell’identità,specialmente i confini percepiti di genere e geografia”.

Hong Kong – Shirley Tse. Presenta installazioni comprensive di scultura, fotografia video e testi. Ha già esposto in California,a Cambridge e al Museo d’Arte Moderna di Minsk. È la prima volta che Hong Kong affida ad unaartista la sua rappresentanza alla Biennale di Venezia.

Georgia – Anna K.E. È nata a Tiblisi e lavora tra Germania e Stati Uniti. Al centro dei suoi lavori pone la storia delfemminismo, del modernismo e dell’evoluzione tecnologica. Il padiglione della Georgia sarà curatoda Margor Norton, curatrice del New York Museum.

Taiwan – Shu Lea Cheang. Il progetto presentato si intitola “3 x 3 x 6” e si riferisce al nuovo modello architettonico delle prigioniindustriali con le loro singole celle di 9 metri monitorate da 6 telecamere. È una denuncia contro isistemi di controllo all’interno delle carceri, che sia allarga alla denuncia dei sistemi di sorveglianzadiffusa nelle società contemporanee. Una testimonianza angosciante, per esplorare le possibilistrategie di resistenza, per una ricerca della dignità contro le forme di repressione e controllo. Datrent’anni l’artista “ha trattato il tema del disfacimento delle rappresentazioni di genere, dellasessualità e della razza”.

Danimarca – Larissa Sansour. L’artista e cineasta di origine palestinese è stata scelta a rappresentare la Danimarca, suo paesed’adozione, perché le è riconosciuta “la capacità di affrontare questioni rilevanti non solo per laDanimarca ma per il mondo intero. Analizza le attuali condizioni politiche e gli aspetti universali dellacondizione umana associati all’identità e al senso di appartenenza”.

Emirati Arabi Uniti – Nujoom Alghanem. È stata affidata alla cineasta Nujoom Alghanem, originaria di Dubai, la rappresentanza degli Emiratialla Biennale 2019, “per le sue proposte letterarie innovative e le audaci realizzazionicinematografiche.” Aveva già esposto nel 2017 in una collettiva con altri quattro artisti dell’area. Haprodotto documentari e cortometraggi d’arte, per i quali è stata premiata, e come poetessa hascritto otto raccolte: “le forme e i soggetti della mia poetica sono modellati dalla mia esperienzapersonale nel contesto di una società in trasformazione, come donna ho trovato interessanteconcentrarmi su storie femminili della nostra società e del mondo arabo meritevoli di attenzione”.

Turchia – Inci Eviner. Inci Eviner rappresenta la Turchia all’interno di un padiglione corale che ospita diversi stili, con lacollaborazione di diverse pratiche artistiche. La sua installazione si intitola “We Elsewhere” (Altrove)e con vari elementi compositivi (suono, danza, fotografia) riflette sui temi delle migrazioni, sui luoghie i ricordi.

Pakistan Naiza Khan. È la prima partecipazione del Pakistan alla Biennale di Venezia. Il paese sarà rappresentato Naiza Khan, che vive tra Londra e Karachie che dedica la sua attenzione all’evoluzione della vita pubblica in alcune zone del Paese, inparticolare della città di Manora, a sud di Karachi. Ha dichiarato la sua volontà di favorire con il suolavoro “un dibattito più largo che colleghi Venezia alle penisole persiane-indiane-arabe attraversole storie degli imperi e del commercio marittimo”.

Portogallo – Leonor Antunes. L’artista ha ricevuto grandi riconoscimenti internazionali (la recente mostra Hangar Bicocca aMilano, nel 2018). Usa materiali tradizionali (corde, legni, sugheri, pelli) che lavora con tecnichetradizionali e con le sue sculture “reinterpreta la storia dell’arte”. A Venezia riprenderà la storiaculturale della città, dei suoi architetti, designer e mecenati.

Italia – Chiara Fumai e Liliana Moro. L’Italia dedica il suo padiglione a sue due importanti artiste.In ricordo di Chiara Fumai, scomparsa nel 2017 – l’artista romana ha messo al centro della sua ricercail ruolo della donna “analizzando in maniera anarco-femminista il sistema dell’arte” e ha utilizzatotecniche e performance diverse. Nel 2013 in un video di grande impatto aveva ripreso la critica (unavera e propria requisitoria) contro un sistema dell’arte “ancora tremendamente fallocratico”. Pocoprima di morire ha vinto il Premio New York. Liliana Moro è molto nota all’estero, diplomata a Brera, con altri ha fondato Lo Spazio di Via LazzaroPalani a Milano, riferimento artistico a livello internazionale. “Ha fatto della messa in scena dellarealtà, che può essere al tempo stesso crudele e poetica, la sua cifra stilistica”.


Appuntamento alla Biennale d’Arte di Venezia – 11 maggio/27 novembre 2019


(Mediterranea, Udi Catania, 8 aprile 2019)

di Elisa Scapicchio


Non era un architetto, eppure Maria Lai, nel 1981, riuscì a ricucire il tessuto sociale del suo paese con un’operazione che a distanza di quasi quarant’anni viene ancora ricordata come episodio ante litteram di arte relazionale. L’opera si intitolava Legarsi alla montagna, e a differenza delle performance e operazioni sul territorio degli anni Sessanta e Settanta (che lavoravano sull’effimero coinvolgendo spazi inconsueti per l’arte restando sempre opere personali dell’artista) qui, ad essere protagonista assoluto, fu l’ntero paese di Ulassai, piccolo centro nel cuore della Sardegna. Un’operazione che la stessa Maria Lai definì come «una scommessa tra me e il mio paese» e che, scavando tra i ricordi di infanzia e della gente, trovò risposta in una storia, una fiaba nota ai bambini da infinite generazioni, soggetta, come vuole la tradizione orale, a innumerevoli variazioni, ma dalla morale sempre intatta.

La leggenda narrava di una bambina mandata sulla montagna a portare del pane ai pastori. Giunta a destinazione, la piccola li trovò tutti rifugiati in una grotta per proteggersi dal temporale in arrivo. Ad un tratto però, vide passare un nastro celeste portato dal vento. La bambina, per lo stupore, corse fuori dal rifugio, riuscendo così a salvarsi dalla frana che sarebbe giunta di lì a poco. Maria Lai ritrovò in questa storia d’infanzia alcune analogie con la sua vita. Così come la bambina si era salvata dal crollo della grotta grazie al passaggio di quel nastro azzurro, allo stesso modo la comunità di Ulassai si sarebbe salvata dalla montagna ritrovando le proprie radici etniche e la propria memoria storica. Prendeva forma dal racconto l’idea dell’artista, «un’immagine disegnata con un nastro celeste su tutto il paese, che leghi le case tra loro segnando dei ritmi negli spazi delle strade, e le case alla montagna».

«Quando tutti si aspettano di vedermi all’opera, io invito ognuno a mettersi all’opera» raccontò. L’operazione durò 3 giorni, durante i quali il piccolo centro di Ulassai venne (col)legato – passando di casa in casa – da 26 chilometri di tela jeans, superando così inimicizie e attriti tra famiglie. Un intervento che riuscì a riunire quell’aggregato di edifici che mancava di coesione sociale, sottolineando come, in realtà, un paese sia un gruppo eterogeneo di persone che comunicano tra loro attraverso lo spazio e che riporta a un tema, oggi molto attuale anche in architettura, quale quello del rapporto tra spazio fisico, luogo e comunità. A seguito di una grande donazione di opere da parte di Maria Lai, nel 2006, grazie alla ristrutturazione dei locali dell’ex-stazione ferroviaria in disuso a valle del paese, ha preso vita il museo La Stazione dell’Arte, punto di arrivo dell’ambizioso progetto che l’artista e il paese di Ulassai hanno coltivato per oltre un trentennio, a partire dal magico evento di Legarsi alla montagna.

Dopo la mostra appena terminata a Sassari – Art in Public Space, il recente 33° posto della Stazione dell’Arte nel censimento dei Luoghi del Cuore del Fai e la dedica di una piazza nella città di Cagliari (inaugurata lo scorso 5 febbraio), di seguito elenchiamo le mostre – in corso e future – che celebreranno la grande artista e il suo pensiero così radicato alle origini, a cent’anni dalla sua nascita.

Maria Lai. Sguardo Opera Pensiero. Ulassai, Stazione dell’arte – fino al 19 marzo 2019 Prendendo il titolo dalla tesi dell’artista per il conferimento della laurea honoris causa nel 2004, il progetto espositivo, curato dal direttore Davide Mariani e pensato come un itinerario, intende indagare l’opera di Maria Lai svelando il processo creativo dietro la realizzazione dei suoi lavori.Tredici stazioni tematiche in cui viene dato ampio risalto alle strategie comunicative da lei sperimentate per avvicinare l’arte alla gente.Ad affiancare la mostra anche un ampio calendario di laboratori didattici per bambini, durante i quali, partendo dalle opere esposte, saranno previste diverse attività ludiche e creative incentrate sulla lettura dell’opera d’arte contemporanea.

Room – L’anno zero. Maria Lai. Firenze, Museo Novecento – fino al 28 marzo 2019

«Amo il presepe – diceva l’artista – come esperienza di qualcosa che, più ne indago l’inesprimibile, più trovo verità, più divento infantile e ingenua, e più rinasco».La mostra, al piano terra del Museo Novecento di Firenze, è interamente dedicata a uno dei temi più cari a Maria Lai: i presepi in terracotta, pietre, stoffa e legno. Manufatti poveri costruiti con sapienza antica, miniature che nascondono il desiderio di pace e fratellanza, piccole scenografie che riportano sulla superficie di un piatto i sogni e le utopie, il mondo e la storia. Ogni presepio è un’invenzione inedita che non si ripete mai, rinnovando ogni volta la matrice originale.

Maria Lai. Opera Sola. Cagliari, Galleria Comunale d’Arte – fino al 10 febbraio 2020

Quattro opere sole, in rotazione, che seguiranno il corso delle stagioni. Fino a maggio, la Galleria Comunale d’Arte di Cagliari ospiterà un capolavoro inedito di Maria Lai di fine anni Cinquanta. Seguirà poi, fino a settembre, l’esposizione del Telaio del 1965. Nei mesi di ottobre e novembre verrà esposta una Tela cucita del 1978 concludendo il ciclo, da dicembre, con la presentazione di una Geografia del 1988.La scelta di esporre un’opera alla volta nasce dalla volontà di comprendere, in uno spazio fisso e concluso, un percorso di conoscenza e di avvicinamento estatico ed estetico all’opera e all’arte, al fine di promuovere una nuova visione del museo. Un’iniziativa ispirata dal suo pensiero e dedicata alla sua arte e al gioco, lo stratagemma proposto da lei stessa perché «con parole chiare e regole semplici, come in un gioco di bimbi, possiamo comprendere e vivere l’arte». 

Maria Lai. Tenendo per mano il sole. ROMA, Museo MAXXI | 19 giugno 2019 – 12 gennaio 2020

Il Maxxi rende omaggio a Maria Lai con la mostra monografica Tenendo per mano il sole, intitolata come la sua prima fiaba cucita realizzata dall’artista nel 1983.Oltre 100 i lavori esposti, libri cuciti, sculture, opere pubbliche e i suoi celebri telai. Una sintesi della sua biografia complessa e affascinante, per sottolineare il suo essere pioniera nella ricerca dell’arte relazionale, coniugando sensibilità, tradizioni locali e codici globali. 


(Tottus in pari. Emigrati e residenti la voce delle due “Sardegne” n. 753, febbraio 2019)

di Katia Ricci

 

Nella sede dell’Associazione La Merlettaia di Foggia il 9 gennaio 2019 è stata inaugurata, a cura di Katia Ricci, la mostra-installazione dal titolo «Il mistero negato del corpo che non tace» di Clelia Mori, un’artista di Reggio Emilia, che ha illustrato il senso e la genesi della sua opera che risale al 2015. Iolanda Picciariello, un’operaia dello stabilimento Fiat di Melfi, ha raccontato la sua esperienza e Gemma Pacella, giovane dottoranda in Diritto del lavoro, ha parlato delle divise che le aziende impongono alle lavoratrici. Molte le domande, le curiosità e le osservazioni del pubblico che è intervenuto.
Nel 2015 Clelia Mori fu colpita da una notizia letta sui giornali a proposito della contestazione delle operaie Fiat di Melfi nei confronti delle tute bianche da lavoro che l’azienda aveva imposto alle operaie addette alla carrozzeria. 400 di loro firmarono una petizione, chiedendo di cambiare quel dress code che consideravano non adatto e non pratico a essere indossato dalle donne durante il ciclo mestruale, perché si macchiava facilmente di sangue, creando un profondo disagio. Si può bene immaginare gli sguardi e i risolini che quella vista poteva suscitare negli uomini, ma poi, come ha raccontato Iolanda, anche gli uomini hanno capito e appoggiato la protesta. La risposta dell’azienda, pur pratica da un certo punto di vista, fu ritenuta dalle operaie del tutto inadatta e che non coglieva appieno il senso della protesta: le tute bianche, uguali per uomini e donne, che dal punto di vista della Fiat rimandavano a un’idea di ordine, efficienza e pulizia, basata sulla parità di genere, mettevano invece in risalto che i corpi di donne e uomini sono differenti e che è necessario trattarli con cura e con uno sguardo diverso. In più quelle culotte offerte in dotazione alle operaie, insieme alla tuta, da indossare sotto i calzoni nei giorni del ciclo erano scomodissime, rigide e non lasciavano traspirare la pelle. Le operaie le considerarono un’imposizione umiliante e irrispettosa del loro corpo.
Letta la notizia, Clelia Mori ebbe l’idea di fare un intervento artistico sulle tute e ne chiese alcune alle operaie con cui riuscì a mettersi in contatto. Finalmente, dopo alcuni anni e relazioni epistolari, le arrivarono quattro tute che sono il fulcro del lavoro artistico che all’inizio s’intitolava “Ritratto di operaie” e in seguito “Il mistero negato del corpo che non tace”. L’artista ha ideato un intreccio indissolubile tra arte e politica, come è nel suo linguaggio e nella sua ricerca estetica di donna che da anni si è nutrita del “pensiero della differenza sessuale”: ha ricamato nei calzoni all’altezza del pube due cerchi concentrici con filo rosso, sotto due dei quali una macchia dello stesso rappresenta il sangue mestruale, segno irriducibile della differenza. Nella parte alta della tuta, invece, appaiono tre cerchi concentrici ricamati con il filo, dentro e intorno ai quali un ricamo con filo d’oro crea innumerevoli puntini e linee rette o curve che rappresentano le stelle e le reti di relazione che le donne continuamente riescono a tessere. Sul taschino della camicia, poi, sono inseriti specchietti che riflettono l’immagine di chi si avvicina per guardare.
Attraverso le macchie del sangue mestruale il corpo parla della propria differenza e, quindi l’artista gira in positivo, e al di fuori dei canoni tradizionali che fissa stereotipi, il legame antico e indissolubile tra corpo e femminilità. Infatti insieme con le tute Clelia espone una tela a olio intitolata “Salvator mundi” che riprende “L’Annunziata” di Antonello da Messina, ma trasforma in un gesto benedicente la mano di Maria che nell’artista rinascimentale è aperta nel momento in cui chiede all’Arcangelo Gabriele come farà a mettere al mondo il figlio di Dio, se non conosce uomo. Per Clelia è il “sì” della Vergine a salvare il mondo.
Un arazzo formato da un antico lenzuolo tessuto a mano su cui è ricamata una grandissima macchia del “sangue di vita” e una serie di disegni, infine, concludono l’installazione. Così li descrive Clelia Mori: «Sul totale dei disegni ci sono 3 o 4 fogli, dipinti con tempera oro per indicare la preziosità del mestruo». Ognuno degli altri 13 disegni (con macchie di china rossa e blu) è stato nominato “uno di tredici”, “due di tredici”, “tre di tredici” ecc. fino a “tredici di tredici”. È la rappresentazione del numero di volte in un anno in cui le donne di solito sono mestruate (il Sangue di Vita). «Ho ottenuto – dice Clelia – 13 dividendo 365 giorni per 28 (i giorni del ciclo lunare). Il disegno su di un foglio più piccolo ha una macchia d’oro all’interno di nove cerchi: è un simbolo dei 9 mesi della gravidanza… il 9 dice anche tanto altro… Ho unito il sangue mestruale con la vita che CREIAMO. Ho fatto tutto questo sul mestruo perché ho pensato che va dipanata la matassa neutra della parola “sangue” con cui identifichiamo qualsiasi sangue: quello di ferita, di malattia, di morte e mestruale. Credo che vada detto che quello mestruale è differente ed è di VITA.»
Clelia Mori esprime nella sua ricerca un atteggiamento comune a tante artiste che rifuggono i canoni della tradizione maschile, seguendo il proprio desiderio, per cui danno valore a tutto ciò che non era stato considerato arte per rifiutare il mito dell’artista genio e per creare un proprio spazio e linguaggio allo scopo di significarsi come donne e ripensare all’immagine di sé, da un punto di vista sessuato, femminile.
Clelia Mori ha colto attraverso l’arte il nesso indissolubile tra corpo, esperienza e linguaggio di cui le donne sono portatrici e che inevitabilmente in maniera più o meno consapevole portano in ogni ambito perché la differenza sessuale è iscritta nel corpo e oggi più che mai è visibile anche nel lavoro. Scrive, infatti, Giordana Masotto nell’articolo Il lavoro ha bisogno di femminismo, nell’ultimo “Sottosopra” Cambio di civiltà, punti di vista e di domanda (recentemente presentato a Foggia presso Parco-città), della Libreria delle donne di Milano, che le donne sono «ben ancorate in quel nesso corpo-parola che è la nostra forza. Questo nesso è peculiare del soggetto inedito che sono le donne portatrici di una complessità e di una contraddizione radicale […] Le donne sono portatrici di un tale scardinamento dell’idea, della qualità e del senso del lavoro che non possiamo pensare di affrontare discriminazioni e segregazioni senza cambiare il punto di vista sul quadro generale. Le donne al lavoro ci vanno intere… il di più che portano chiede di ripensare il lavoro per tutti […] Un insieme di denaro, tempo, senso, espressione di sé, relazioni».
Nella vicenda delle operaie di Melfi Clelia Mori ha colto che loro, come tante donne, non hanno mai lottato solo per rivendicare la parità di trattamento e di retribuzione, ma per avere condizioni affinché possano esprimersi come soggetto incarnato e dare voce ai desideri di un corpo femminile diverso dal corpo maschile, e che produce linguaggio e un immaginario differenti. Infatti all’essere donna non corrispondono solamente caratteristiche e cicli fisiologici diversi dagli uomini ma anche sensazioni ed emozioni corporee differenziate e, quindi, un pensiero e un linguaggio costituiti sulla base della consapevolezza della differenza. Come dice Chiara Zamboni: «È interessante che le donne diano molta importanza al corpo. Ora, il corpo è in gran parte inconscio, così che la nostra esperienza del corpo non può essere oggettivata. Il rapporto con il corpo e con il mondo di cui facciamo esperienza prende dunque una qualità altra nell’esperienza delle donne».

(L’Attacco, 10 gennaio 2019)

Francesca Pasini

A Milano, rispettivamente alla Triennale, all’Hangar Bicocca, alla Quarta Vetrina della Libreria delle donne, le artiste Haegue Yang (Seoul, 1971, vive a Berlino), Leonor Antunes (Lisbona, 1972, vive a Berlino), Paola Anziché (Milano 1975, vive a Torino), puntano gli occhi sul costruire e abitare delle donne.

Una coincidenza che mi fa pensare a Ida Farè. Al Politecnico di Milano dalla metà degli anni ’80 ha dato vita al Gruppo Vanda, per “osare pensare la città femmina”. Sono nate tesi di laurea, corsi accademici e un ricchissimo circuito di riflessione sui “modi di abitare la città” da parte delle pioniere e di quelle che studiavano per diventare architette.

Ha portato il suo pensiero nel dibattitto femminista: al circolo Cicip & Ciciap e alla Liberia delle donne di Milano. Qui nel 2013 ha inventato il ciclo di conferenze filosofiche, abbinate a un aperitivo, Cibo dell’anima, Cibo del corpo. Nel 2001 aveva, infatti, creato il Gruppo Estia (l’antica dea del focolare) col quale accompagnava presentazioni, discussioni, incontri, preparando una cena. Una pratica diretta del suo pensiero che situa la cultura materiale all’interno delle relazioni intellettuali, politiche, affettive in accordo e non in contrasto con la cura del quotidiano.

Il suo insegnamento e le sue ricerche sono un’opera d’arte che acquista colori e visioni nella relazione con parole, cibi, pensieri, persone. La collego alle opere di Antunes, Yang, Anziché, inaugurate a Milano un mese dopo la sua morte, avvenuta l’8 agosto scorso.

In un suo libro molto famoso, Mara e le altre, aveva raccolto le esperienze di alcune partecipanti alla lotta armata, intercettando la differenza femminile anche in un territorio così plasmato sull’universo maschile come la presa delle armi.

Voglio intitolare questo scritto, Ida e le altre, per dar conto della sua germinale ricerca sulle donne, l’architettura, l’arte, che come un battito d’ali di una farfalla, a distanza di tempi e luoghi, appare in artiste che non l’hanno incontrata, non conoscono i suoi testi, ma hanno in comune la relazione con le altre.

Leonor Antunes dedica la sua mostra a Franca Helg, fondatrice con il marito Franco del famoso Studio Albini, tant’è che intitola la mostra e alcune opere, Last Days in Galliate, in ricordo della casa costruita da Helg per i genitori, dove è vissuta negli ultimi anni della sua vita.

Antunes s’ispira ad architette, designers, artiste del secolo scorso, di cui elabora particolari di oggetti e progetti, traducendoli in sculture indipendenti che, attraverso la frammentarietà diventano simbolo del ricordo. Molte hanno come titolo il nome stesso della progettista. Franca, è un piccolo insieme di sculture sospese, estrapolate dalle curve della gamba di un tavolino e dai ganci di un appendiabiti, realizzati da Helg nel 1955 e 1959. Ingranditi perdono funzionalità ed entrano in un altro territorio, come avviene con le parole di un romanzo o di una poesia che, spesso, producono altri scritti. Clara è una serie di sculture di legno e corda suggerite dalle sedie che la designer cubana Clara Parset, realizzò negli anni ‘40/’50. All’ingresso, gli elementi modulari in ottone verniciato nero, oro, verde, ocra, bianco, Altered climbing form, 2017-18, sono ispirati Mary Martin, artista del Costruttivismo britannico. Altered knot, 2018, un intreccio sospeso in cuoio e corda, è dedicato ai disegni di Anni Albers della fine degli anni ’40. La scultura Discrepancies with villa Sundin, 2016 è un’inventiva sintesi dell’edificio costruito nel 1956 da Greta Magnussen Grossman, una delle personalità fondatrici dei principi del Modernismo.

Haegue Yang con una barriera di fili di cotone rossi (134,9 m3, 2000/18), tesi a 10 cm di distanza l’uno dall’altro e leggermente declinanti, blocca un angolo di una stanza della Triennale. Sulla parete, altrettante linee tracciate in gesso rosso (81m2, 2002/18) creano un effetto specchio. E’ immediato pensare agli stop che attraversano le diagonali della vita, creando l’illusione di non doverli affrontare. Così Haegue Yang introduce la fluidità imprescindibile delle case, e mi fa venire in mente le innumerevoli variazioni che Ida Farè ha colto spostando lo sguardo dalla staticità dell’architettura, anch’essa ritenuta imprescindibile, al sistema di competenze diverse che si agiscono nella casa. «Nella produzione di un bene ci sono competenze diverse, ma sono poste in un ordine prevedibile, nell’intelligenza domestica, invece, c’è sempre l’imprevisto che può capovolgere l’ordine dei fattori e richiede doti di invenzione e un equilibrio variabile. Mi riporta al bricolage del possibile che i biologi dicono sia seguito dalla natura, che agisce e cresce secondo gli elementi che si trova a disposizione». (Una città, n.53, ottobre ’96).

Con Cittadella (2011), Yang, “camminando sul filo del rasoio”, come dichiara nel titolo della mostra, Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, sposta lo sguardo dall’aspirazione durevole dell’architettura al “bricolage” e costruisce con tende veneziane, un imponente edificio trasparente, pieno di luci e di profumi, in cui si entra e si “abita”. Una straordinaria casa transitoria che normalmente abbiniamo alle civiltà archetipiche, nomadiche, come tende, capanne, tettoie, e anche al comportamento di costruzione quotidiana con mobili di famiglia, oggetti, vestiti, libri. Anche gli odori e i profumi richiamano alle competenze dell’abitare.

Mi viene in mente Anna Achmatova che di fronte a un’opera nuova, diceva: «ero lì, lì, per farlo anch’io». E allora perché non vedere nelle veneziane di Yang quell’architettura personale che ognuno crea con i materiali della propria esistenza? Yang è coreana, ma ha studiato a Francoforte e conosce la difficoltà di integrarsi altrove, l’ha trasferita in un testo (A study on How to make Myself Understood, 2000) mescolando varie lingue, che è risultato indecifrabile, un testimone di quelle spinose mediazioni per conoscere se stessa, che riappaiano nello specchio appeso alla parete dalla parte non specchiante (Mirror Series – Back, 2006). Un buio, un’assenza che non si può evitare e per la quale non ci sono mai case appropriate.

Paola Anziché crea delle sculture intrecciando lana grezza, juta, carta, hanno forma di gusci o di protuberanze organiche, sospese e trapassate dalla luce alludono all’abitare umano, al suo sviluppo verso il cielo, ma anche a quello animale, larvale che pende dagli alberi.(Materiali, 2018).

L’esplicito accenno al lavoro a maglia, alla tessitura, riporta alla “dote d’invenzione domestica”, di cui parla Ida Farè. Se nella cura l’invenzione è destinata a sparire nell’anonimato delle esigenze di vita, nell’arte indica una storia lunga di competenze femminili: dagli arazzi, agli erbari che hanno contribuito da un lato all’arricchimento della casa, dall’altro allo studio delle scienze naturali. Una competenza sprofondata per secoli nella cancellazione delle autrici effettive a favore dell’artista neutro/maschile. Non si tratta solo di un progressivo emergere delle donne nel campo dell’arte, ma di un’originale interazione tra materiali della vita e figure dell’arte.

Le immaginarie architetture di Paola Anziché indagano il bricolage della natura, per trarne spunto per autonome forme e mantenere in equilibrio le esperienze fatte nelle residenze in Azerbaigian, in Brasile e in altri paesi dove ha scoperto i materiali necessari alla sua “tavolozza” ed anche un passe-partout per entrare in contatto con l’amata maestra brasiliana Lygia Clark.

Anzichè ha studiato a Francoforte negli stessi anni di Yan e forse non è un caso che, pur con visioni molto diverse, tutte e due propongano inediti modi di abitare l’architettura.

Non è una deduzione a posteriori, ma un’intuizione che mi fa mettere insieme due eventi: la morte di Ida e la necessità di ricordarla al presente. Il presente, per me, è l’arte e l’innovazione che le artiste, tutte non solo quelle che cito, hanno impresso. Sono esperienze che creano figure per donne e uomini. Anche le case sono abitate da donne e uomini, anche la vita è fatta di donne e uomini. Fino a pochi decenni fa, però, si pensava al costruttore, all’artista, allo scrittore come un neutro maschile. Ora le donne, insegnano, creano, scrivono, costruiscono e tramandano così il loro sentire. In queste mostre si sente un forte un accento di differenza e la decisione di riannodare i fili con quelle che le hanno precedute.

Ida artista immateriale, ha portato fino in fondo l’idea di un’arte che si attua e si vanifica nella relazione: per questo la abbino alle opere di queste artiste.

Mi hanno fatto capire che il lavoro di Ida è una forma d’arte, che altre lo traducono in figura, altre in scrittura, altre lo vivono in presa diretta, anonima. Senza questa presa diretta potremmo capire l’arte? Spesso l’arte crea figure percettive fluide, perché? Per lasciare aperta la porta a chi guarda.

Forse può sembrare romantico dire che la vita è per tutti e per tutte un’opera d’arte, e non è neanche vero. Credo però, che tutti e tutte quelle che hanno scelto, e sceglieranno di indagare se stesse attraverso le relazioni affettive, culturali, politiche e i conflitti che ne derivano, creano opere cruciali per l’esistenza. A volte prendono la forma visibile dell’arte, a volte appartengono al bagaglio interno e la loro visibilità non è materiale, ma percettiva, si realizza solo nello scambio tra sé e l’altro/a. Senza osservatori, osservatrici, lettori e lettrici non ci sarebbe questa trasmissione che distingue l’opera di uomini e donne, dalla creatività naturale di piante e animali. Noi riconosciamo la nostra immagine attraverso le opere che compiamo, gli animali, le piante non sembra, almeno così si dice.

La vita di Ida dopo la morte del figlio è stata una quotidiana creazione dentro di sé, nascosta alla visione, (come lo specchio di Yang) ma espressa nel progetto di una cucina reale e simbolica, che teneva insieme attività culturale, politica e quotidianità. E la quotidianità è spesso invisibile. Lei non si mostrava, ma accompagnava le sue cene con bellissimi menù scritti a mano. L’arte ha la capacità di rendere visibile la quotidianità attraverso immagini e parole, Ida l’ha fatto con il nutrimento di tutte e tutti coloro che venivano in Libreria per parlare di libri, di politica, di arte. Un gesto molto radicale che dà valore allo scambio culturale anche quando succede nel privato o in chi non è addetto ai lavori. Il cibo, in chi lo cucina e chi lo mangia, produce piacere e conoscenza in quanto relazione essenziale alla vita. Valga per tutti Il pranzo di Babette di Karen Blixen.

All’inizio quando dico che volevo intitolare questo scritto Ida e le altre, pensavo al suo libro e a una coincidenza specifica, le tre mostre oggi presenti a Milano, ma le altre sono ovunque.

Come scrive Lia Cigarini (Sottosopra, settembre 2018). «Dopo mezzo secolo di lavoro politico sia pratico che teorico, il movimento Me Too è arrivato a rompere il contratto tra uomini per regolare il loro accesso sessuale alle donne. A me non pare un tempo così lungo, se si tiene conto che le donne disposte a parlare, superando fastidi anche gravi e paure interne, hanno dovuto acquisire credibilità e autorità per essere ascoltate. Nel caso del Me Too è stata vinta finalmente la battaglia della narrazione femminile su quella maschile, battaglia che può fare da spartiacque nella storia del femminismo».

Le altre, tutte, che le conosca personalmente o no, mi fanno leggere l’arte come un territorio dove intercettare relazioni con donne e uomini, e non con un artista neutro/maschile. Anche questo è stato un sopruso che, per secoli, ha impedito alle donne di scrivere, dipingere liberamente, ritenendolo un’irrilevante stranezza, destinata a sparire col tempo. E invece no. Le opere delle donne hanno resistito. Dal baule di Emily Dickinson a quelle di tante altre, continuano a ripresentarsi nell’arte, nella scienza, nella letteratura, nella filosofia. Perché, come scrive Rebecca Solnit (Gli uomini mi spiegano le cose – Ponte alle Grazie, 2018), «Esiste una controcritica che cerca di ampliare l’opera d’arte, creando legami, spalancando significati, aprendo possibilità. Una bella critica può liberare un’opera d’arte che così potrà essere vista nella sua interezza, restare viva, intrattenere un dialogo senza fine che continui a nutrire l’immaginazione».

Questo nutrimento l’ho avuto anche dall’opera d’arte immateriale di Ida Farè, che mi ha fatto immaginare imprevedibili modi di abitare, smarrirsi, riemergere giocando le competenze della cura insieme all’intuizione teorica.

Haegue Yang, Tightrope Walking and Its Wordless Shadow, a cura di Bruna Roccasalva

Fondazione Furla e Triennale Milano, 7 settembre – 4 novembre 2018

Leonor Antunes, the last days in Galliate, a cura di Roberta Tenconi

Hangar Bicocca, Milano 14 settembre – 13 gennaio

Paola Anziché, Materiali, a cura di Quarta Vetrina

Libreria delle donne di Milano, 12 settembre – 5 ottobre 2018

Nel segno (astratto) della Regina. Carla Accardi, tra Brescia e Milano

Galleria Massimo Minini Inaugurazione sabato 22 settembre 2018

Via Apollonio 68 – 25128 Brescia

Galleria Francesca Minini Inaugurazione martedì 18 settembre 2018

Via Massimiano 25 – 20134 Milano

Due sedi, due mostre, una grande antologica. Massimo Minini, direttore e fondatore della Galleria omonima, nelle parole qui sopra, presenta il suo ultimo progetto in collaborazione con Francesca, sua figlia e (soprattutto) gallerista, da anni sulla cresta dell’onda per tutto quanto concerne il contemporaneo. Un double solo show tra Brescia, sede della storica galleria, e Milano, sede (zona Lambrate, segnaliamo l’opening collettivo di quasi tutte le gallerie del distretto martedì 18 dalle 18) della galleria di Francesca. Al centro: la ricerca di Carla Accardi (1924-2014). Un’indagine fra diverse tipologie di lavori: dalle tele alle opere su tavola, dai ‘sicofoil’ alle installazioni più complesse, dalle sculture agli oggetti che proseguono la sua ricerca segnica come le lampade da terra. 

L’obiettivo dell’iniziativa è raccontare l’artista partendo dalla sua persona, gentile ma non timida e capace di difendere le sue posizioni – come quella di lasciare Trapani per Roma, avendo compreso che nella capitale il suo lavoro avrebbe potuto svilupparsi meglio- sino ad arrivare alla sua pittura, simbolo di un’epoca, ponte di collegamento tra la sua generazione e le successive, punto di un’unione tra il primo dopoguerra e l’arte povera e concettuale, un mondo che ha accolto il suo lavoro con grande rispetto ed attenzione.

di Andrea Rossetti

 

Donne, uomini e società, ménage à trois che affrontiamo con una colonna portante della Libreria delle donne di Milano: Francesca Pasini.

Potremmo spendere parole su parole per tracciare l’identikit della Libreria delle donne di Milano, la cosa che ci pare migliore però è stralciare direttamente un brano – breve quanto indicativo – dalla presentazione che tutti potete leggere sul suo sito internet: «È un’impresa femminista che non rivendica la parità, ma, al contrario, dice che la differenza delle donne c’è e noi la teniamo in gran conto, la coltiviamo con la pratica di relazione e con l’attenzione alla poesia, alla letteratura, alla filosofia». Situata al civico 29 in via Pietro Calvi, La Libreria delle Donne è nata a metà dei ’70, a cavallo degli anni di piombo, in un’Italia incandescente che marciava sulla scia del Sessantotto, facendo lo slalom tra proteste studentesche, lotte politiche, sequestri, stragismo – con la non distante Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a fare da apripista – e attentati ad personam mirati a destabilizzare il potere statale. Questo decennio “esteso”, compreso tra la fine dei Sessanta ai primissimi Ottanta, ha concimato e potenziato la rapida affermazione movimenti icona come il Femminismo, la cui ideologia per la Libreria è stata una sorta di condicio sine qua non.

Oggi, dopo quaranta e passa anni dalla sua fondazione, alla Libreria delle donne si sono toccati tutti i registri del pensiero femminile, compreso quello legato alle arti visive grazie l’istituzione nel 2001 della “Quarta Vetrina”, ciclo di mostre/incontri che raccontano l’arte attraverso le donne e viceversa. Da tre anni a questa parte la Vetrina più contemporanea di Via Calvi è passata sotto la curatela di Francesca Pasini. Con lei ci siamo confrontati sul presente di una realtà dal passato così ingombrante.

La libreria è nata nel 1975, in un periodo di femminismo ai massimi livelli, con referendum che sono stati capisaldi del movimento ed una “lotta all’emancipazione” che latente s’infiltrava un po’ ovunque, persino nel panorama musicale dell’epoca. Alla sua base esistevano motivazioni dettate da un oggettivo disavanzo uomo/donna, ricordiamoci che fino al 1981 in Italia vigeva il delitto d’onore, così come il matrimonio riparatore in caso di violenza. Dopo quarantatre anni sono cambiate molte cose, qual è il suo ruolo oggi e come si è adattato alla società contemporanea, dato che si tratta di un ambiente dal background così ideologicamente radicato ed evocativo?

«Non sono tanto d’accordo, nel senso che il primo femminismo quello degli anni ’70, che adesso si chiama delle origini, ha fatto una battaglia frontale contro dei soprusi e delle dominazioni del patriarcato. Indipendentemente dal delitto d’onore, che era orribile, ma tanto adesso c’è lo stesso».

C’è lo stesso, ma all’epoca era “legalizzato”, era un tipo di omicidio per cui il codice penale prevedeva attenuanti specifiche.

«Però quella era solo una ciliegina sulla torta, è stata una grande ribellione delle donne in tutto il mondo. Diciamo che la cosa che sposta il punto di vista, oltre alle battaglie sociali, politiche eccetera, è stata l’idea dell’autocoscienza. Da lì nasce, e poi si moltiplica, quella che è stata una delle prime forme di espressione delle donne, che dicono faccio l’autocoscienza per capire chi sono come sono in relazione ad altre donne, ed anche per capire come reagire. Da lì sono nate tantissime e importantissime posizioni che avevano di fronte un patriarcato ancora molto forte. Quindi era una battaglia frontale che ha prodotto grandi innovazioni. Oggi possiamo dire che la libertà delle donne non ci sarebbe se non ci fosse stato il femminismo. Il passo successivo è individuare nella differenza uomo/donna ciò che dobbiamo affrontare. Quindi non nell’unità, non nella parità, questa è stata una delle battaglie che hanno portato avanti in tanti luoghi del femminismo, e con più costanza alla libreria delle Donne di Milano. La grande svolta è perciò l’autocoscienza, la conoscenza della differenza sessuale, cioè che tutti gli esseri sono sessuati, come aveva detto anche Irigaray in “Etica della differenza sessuale”. A partire da questo si deve riconoscere l’idea che ognuno di noi è portatore di una differenza. Il problema non è unificarla ma metterla in dialogo, e questo è ancora un grande percorso, anche se nel frattempo sono state fatte moltissime cose. La presenza delle donne a tutti i livelli è una cosa degli ultimi anni».

Quindi quello della Libreria è un percorso radicato, ma che continua, è ancora un work in progress.

«Si, e non solo nella Libreria delle Donne di Milano, ma nei femminismi di tutto il mondo. La forza della Libreria è stata inventare la Libreria, nata dai gruppi di autocoscienza che decidono di leggere opere di donne, fino alla fondazione per opera, tra i tanti, di Luisa Muraro, Lia Cigarini, Corrado Levi. Ed anche di un gruppo di artiste, tra cui Carla Accardi, Dadamaino, Valentina Berardinone e Tomaso Binga, che hanno regalato delle immagini per fare una cartella grafica e che è stata una delle fonti di sostentamento. Nasce quindi un legame tra l’arte visiva, che pure in Italia ha partecipato meno direttamente alla nascita ed allo sviluppo del femminismo. Questo nonostante Carla Lonzi, una delle fondatrici del femminismo in Italia, che però decide di interrompere il suo lavoro nell’arte per fare rivolta femminile, da cui nascono i suoi testi famosissimi. Diciamo che in Italia il rapporto diretto, culturale e politico, col movimento femminista per quanto riguarda l’arte visiva femminista è arrivato dopo, prima sono arrivate le scrittrici».

L’arte visiva appunto. E Corrado Levi. La Quarta Vetrina dedicata all’arte è nata nel 2001 su sua proposta, fatto piuttosto emblematico in un contesto smaccatamente al femminile. Non è un po’ come se la donna anche in questo caso fosse nata dalla costola di un “Adamo”?

«No. La libreria delle donne è stata sempre aperta agli uomini, lo è tutt’ora, e comunque Corrado Levi è una personalità che è stata sempre a fianco del femminismo, anche per la sua grande capacità di dichiarare il suo comportamento affettivo pubblicamente, quindi in questo prova anche delle relazioni con la Libreria, e che ha sempre mantenuto. E non è tanto per la sua omosessualità, ma per la particolarità di uomo che ha dato sempre molta attenzione alle differenze, alle diversità».

Quindi non per te fa differenza che all’origine della Vetrina ci sia stato un uomo?

«Anzi secondo me dimostra come ci si possa incontrare tra le reciproche differenze, Corrado ne è proprio un esempio».

Una vetrina mette in mostra, in questo caso arte contemporanea. E una regola base del marketing vuole che il prodotto al suo interno sia accattivante, per cercare di catturare l’attenzione di un pubblico sempre più ampio, altre ai soliti “aficionados”. Mi sposto quindi sul capitolo nuove generazioni: come lavori per far convergere sulla doppia questione artistico/femminile un pubblico più vasto, giovane e social? Ci pensi ad una sopravvivenza futura della Libreria e quindi della Vetrina?

«La sopravvivenza della Libreria non è assolutamente in dubbio. La cosa bella è che sì, metti una cosa in vetrina e quindi chiunque passa sulla strada la vede, però nel giorno dell’inaugurazione c’è un dialogo tra me l’artista e il pubblico. E mentre, come capita spesso in Italia, quando fai una conferenza e chiedi se ci sono delle domande non ce ne sono mai, lì invece c’è un dialogo fantastico. In più senti persone che si avvicinano all’arte partendo anche da conoscenze molto diverse, ci sono politiche come Lia Cigarini, filosofe e scienziate, letterate, scrittrici. Quindi c’è un pubblico che è allenato a questa discussione, perché per ogni cosa che si fa in Libreria c’è sempre questo dialogo, e questo naturalmente crea una partecipazione più attenta, più attiva. E poi perché per ti trovi esser lì un’ora, un’ora e mezza, a dialogare avendo di fronte un’opera e parli di quella; parli e fai domande sia all’artista che a me, e questa è una cosa molto interessante, anche perché sentire parlare un artista lì, dentro un grande circuito di domande, diventa molto intenso».

Ed effettivamente in questo contesto i giovani quindi partecipano, hanno una loro rappresentanza?

«Sì, in Libreria c’è sempre stato un turnover di generazioni».

Domanda da uomo: parlare di “femminile” in molti campi, incluso quello dell’arte contemporanea, non è una auto-ghettizzazione in termini?

«No, più che altro è sbagliato, perché non c’è una cosa femminile, ci sono delle donne che si esprimono in un modo piuttosto che in un altro, così come gli uomini. Non c’è un’arte maschile».

Ma la differenza tra l’arte contemporanea fatta da una donna e fatta da un uomo c’è? Esiste realmente?

«Penso che per forza ci sia soprattutto se tu decidi di ricordarti che hai di fronte quell’opera lì che è fatta da una donna. Potrebbe anche averla fatta un uomo, è che probabilmente dentro quella figura – e per figura intendo in senso lato – c’è qualcosa che rimanda a questa differenza. Penso sia bello anche perché questo ti spinge anche a guardare dentro lavoro di un uomo per capire la sua posizione, anche di vita. Mi piace pensare che Mario Merz nei suoi Igloo abbia la forza dell’Homo faber, che è parte della nostra cultura; Marisa Merz, pur dentro l’Arte Povera, quando fa a maglia le scarpette di Beatrice e le mette sulla spiaggia è evidente che ti rimanda ad una relazione materna. Una differenza è giusto che ci sia, ed è normale».

Quanto vale a tuo avviso il concetto settoriale di “comunità”, visto che la libreria di fondo è una comunità di donne, e quanto invece l’essere umano, nel caso particolare l’artista, dovrebbe svincolarsi ed essere svincolato dall’appartenere ad uno specifico genere e/o orientamento sessuale? 

«Ognuno in base alla facoltà di avere un rapporto con se stesso avrà anche un rapporto con l’altro o con l’altra. Credo che l’arte su questo dia tutta la libertà possibile, sapendo che ormai siamo in una condizione in cui è importante che anche un uomo racconti della sua coscienza maschile di uomo, e non solo di artista, superando la contraddizione primaria che è quella uomo/donna. Contraddizione che in realtà è una condizione, in cui magari ci occorreranno ancora secoli per cambiare radicalmente, però oggi come oggi vedo che c’è questa grande apertura, grande libertà, poi sta ad ognuno accoglierla. Intanto le mostre di artiste donne sono tantissime, hanno un successo equiparabile a quello degli uomini, quindi questa difficoltà sta scemando. Sta anche a noi vedere in questo delle cose normali, come è normale che una donna faccia il medico, piuttosto che l’artista o vada nello spazio».

Torno a parlare di uomini, che ovviamente non sono esclusi dagli incontri. Ma che in alcuni casi, dato il tenore dei temi dibattuti, paiono giocare un ruolo che va dall’outsider all’essere “pietra dello scandalo”, dovendosi muovere in una specie campo minato. Qual è il loro rapporto in generale con la Libreria e in particolare con l’attività della Vetrina?

«Naturalmente gli uomini che partecipano anche attivamente ai progetti della libreria sono già uomini che hanno la curiosità rispetto a capire come costruire, come entrare in un’idea di coscienza di sé, di trovare se stessi eccetera. È che magari sono molto incuriositi dal sentire che cosa dicono le donne con le quali discutono, quindi diciamo che è un luogo che viene scelto anche in base alle personalità che arrivano. Io vedo che ad esempio alle vetrine vengono tantissimi artisti uomini, collezionisti: il pubblico è più o meno quello che troviamo alle mostre. Sempre tenuto conto che svariate indagini sociologiche dicono che le donne hanno una partecipazione molto attiva a tutte le espressioni culturali; proporzionalmente ci sono più donne alle mostre o che leggono libri in assoluto, non solo di donne, come non è che le donne vanno solo alle mostre delle donne. Nella cultura le donne non sono più un’eccezione, ma questo non significa che siamo arrivati alla parità che molto spesso viene richiesta come la grande svolta; il problema non è la parità, ma che diritti vengano distribuiti in maniera equa tra uomini e donne. Questa è una grande battaglia che si sta facendo e che in parte è molto migliorata. Il problema è sempre quello di riconoscersi nella propria reciproca differenza, all’interno della quale le scelte affettive sono dei singoli e delle singole. Se no si rischia di dire che è tutto pacificato solo perché adesso siamo più liberali rispetto agli omosessuali, cosa che non era tempi di Oscar Wilde. Bisogna rispettare le scelte, che fortunatamente non sono più un marchio della società, e inevitabilmente riverberano punti di domanda anche in quelli che hanno fatto altre scelte. E da questo punto di vista la libreria è una comunità che aiuta a confrontarti, dove confronti il tuo pensiero».

Quindi gli uomini si sentono parte del gruppo. 

«Sì, perché c’è la curiosità di un confronto».

Secondo te la lotta tra sessi come c’era una volta esiste ancora, oppure è diventata solo qualcosa di pretestuoso?

«Secondo me si è modificata. C’è ancora ovviamente, e questo ce lo ricordano il numero esponenziale dei femminicidi. Diciamo che la libertà attuale raggiunta dalle donne, dove tutte lavorano, e anche all’interno della rottura della staticità dal rapporto familiare, cioè che ti sposi una volta e poi mai più come succedeva fino al ’74, fa sì che poi qualche donna dica di no. Ma gli uomini non sono ancora così diciamo profondamente allenati ad accettare un no da una donna. Credo che molte di queste reazioni esagerate provengano da questo, sono troppe, sono troppo frequenti, non sono l’eccezionalità che può succedere in una situazione di grave aggressività. Succedono quasi tutte dentro storie matrimoniali, dentro rapporti affettivi consolidati. In libreria quelli e quelle che vengono possono confrontarsi anche su questo, sul conflitto relazionale piuttosto che sul conflitto frontale, perché lì questo succede. Quindi da questo punto di vista c’è un confronto che vale per tutti, che può aiutare a entrare nel comportamento del singolo e della singola. Però per quanto riguarda il conflitto tra i sessi che dicevi tu mi sento di dire che si è modificato, e che c’è una resistenza fortissima legata alla libertà e all’autonomia delle donne, che non è ancora una base fondante della società. Perché ancora non si ragiona sul fatto che siamo che apparteniamo tutti alla stessa specie, ma che abbiamo connotazioni fisiche e psicologiche diverse. Se ci riconosciamo come differenza tra uomini e donne, invece che come contrapposizione, allora qualcosa cambierà, ma naturalmente non è un cambiamento che succede così rapidamente. Certo la libertà delle donne, il cambiamento sociale, il divorzio, l’aborto, sono state tutte cose che hanno minato profondamente il patriarcato, che è più debole oggi, non ha più la forza di tempo. Però i cambiamenti profondi avvengono nel profondo, quindi dobbiamo forse essere un po’ aperti a vedere che cosa succede, però sicuramente è molto cambiato».

Mi hai descritto un contesto molto libero ed aperto. Arrivo quindi con una stoccata: una Vetrina dedicata ad un uomo come la vedresti? 

«Penso che per adesso non sia così urgente. Si potrà fare, si farà, ma in questo momento diventa come attraente e simbolico vedere dalla strada l’opera di una donna.  Anche la bellissima opera di un uomo mi piacerebbe, però nell’ambito di questo confronto continuo tra culture e differenze è evidente che è più forte far vedere l’opera di una donna, nel senso che anche più comprensibile».

Quindi diciamo che in vetrina le donne funzionano di più, anche se un uomo non lo escludi a priori

«Non lo escludo, penso che anche per un uomo sarebbe una bellissima chance. Questa Vetrina non è uno spazio agibile solo dalle donne, è agibile dall’arte».

Beh, mettere un uomo in vetrina alla Libreria delle Donne sarebbe una bella provocazione, più che altro per far trasparire all’esterno il dialogo che esiste al suo interno

«Sì, ma l’uomo in vetrina è stato da migliaia di anni, adesso può aspettare un po’, soprattutto nell’arte».

Curioso, l’uomo sarà pure stato più sovraesposto, ma non era la donna quella che stava in vetrina, la classica “donna oggetto”? Alla fine anche in questo controsenso c’è un ennesimo gioco tra sessi

«Sì, certo, ma che in questo caso viene sfatato perché nelle vetrine della Libreria ci sono libri ed opere d’arte. Libri di donne ed opere d’arte di donne. Quindi quest’idea del mettere in vetrina, che era un aspetto un po’ “sessista” e usato come modo di dire, viene smitizzata con semplicità».

 

(www.exibart.com, 29 agosto 2018)

dal 20 settembre 2018 al 24 febbraio 2019

Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano

Museo del Novecento

Piazza del Duomo di Milano

 

Il Museo del Novecento di Milano e il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rove- reto, inaugurano nell’autunno del 2018 un importante progetto espositivo dedicato a Margherita Sarfatti. Scrit- trice, giornalista, critica d’arte e promotrice della cultura italiana, è stata una delle maggiori figure di spicco della storia del XX secolo. A Milano e Rovereto le due grandi mostre, autonome e complementari, sono accompagnate dalla produzione di un ricco catalogo edito da Electa. La mostra nella sede milanese del Museo del Novecento, promossa e prodotta con il Comune di Milano | Cultura e con Electa, è a cura di Anna Maria Montaldo e Danka Giacon con la collaborazione di Antonello Negri ed è allestita con la regia dello Studio Mario Bellini Architects. Il percorso espositivo ha un carattere immersivo: il visitatore viene invitato a seguire un racconto che parte dalle vicende private e pubbliche di Margherita, attraverso 90 opere circa dei protagonisti del movimento artistico Novecento Italiano, di cui la Sarfatti è l’anima critica. Dipinti e sculture di 40 artisti tra cui Boccioni, Borra, Bucci, de Chirico, Dudreville, Funi, Malerba, Sironi e Wildt vengono contestualizzati da filmati e fotografie, lettere, inviti ai vernissage, libri d’epoca, e anche abiti, vetri e arredi, con un approfondimento da più prospettive sulla Milano degli anni Dieci e Venti nel XX secolo. La mostra prodotta dal Mart di Rovereto è un progetto di Daniela Ferrari con il supporto di Ilaria Cimonetti e dei ricercatori dell’Archivio del ’900 del Mart, nel quale è conservato il prezioso Fondo Sarfatti. L’esposizione illustra l’ambizioso programma di espansione culturale di Margherita Sarfatti, con parti- colare attenzione alle mostre organizzate in Europa e nelle Americhe per promuovere lo stile italiano e l’idea di “moderna classicità”. Dagli esordi giovanili alla fondazione di Novecento Italiano, il percorso al Mart documenta l’attività artistica, politica e intellettuale di Sarfatti. Numerose opere provenienti da grandi musei internazionali e da importanti collezioni private dialogano con documenti e materiali d’archivio: circa 100 capolavori di 30 grandi maestri come Boccioni, Bucci, Casorati, Carrà, de Chirico, Dudreville, Funi, Marussig, Malerba, Morandi, Oppi, Medardo Rosso, Sironi, Severini, Wildt.

La donna che per vent’anni ha finanziato le artiste

Dal 1996 Susan Unterberg ha donato milioni di dollari rimanendo anonima: ora si è fatta avanti per parlare delle discriminazioni di genere nell’arte

Per oltre vent’anni, centinaia di artiste con più di 40 anni sono state sostenute economicamente da un progetto intitolato “Anonymous Was a Woman”: per tutta la durata del progetto non è mai stata nota l’identità della persona che lo aveva fondato e che stava dietro alle sovvenzioni. Fino a questo momento: si chiama Susan Unterberg, è a sua volta un’artista, ha 77 anni e vive a New York. In una recente intervista al New York Times, Unterberg ha spiegato di aver deciso di farsi avanti per dare maggiore forza alle questioni che hanno a che fare con la disuguaglianza di genere nel mondo dell’arte, sottolineando la necessità che le donne sostengano altre donne, e cercando di ispirare altri a fare come lei.

Il nome del progetto, “Anonymous Was a Woman”, è un riferimento al fatto che molte artiste fin dall’Ottocento abbiano scelto di non firmare il loro lavoro con il proprio nome (o abbiano scelto di usarne uno da uomo) per non essere penalizzate dal loro genere. Ci sono dei casi molto famosi: Anne Cécile Desclos (1907-1998), autrice, giornalista e traduttrice, usò per tutta la vita il nome Dominique Aury (che in francese può essere sia maschile che femminile), dopo averlo scelto negli anni Trenta; nel 1994 rivelò di essere anche la vera Pauline Réage, l’autrice del romanzo erotico Histoire d’O, che per anni era stato attribuito ad autori uomini. I romanzi di Jane Austen – autrice, tra gli altri, di Orgoglio e pregiudizio ed Emma – furono pubblicati in forma anonima dal 1811 fino al 1817, l’anno in cui morì. Usarono pseudonimi maschili anche le sorelle Brontë: nel 1847 Charlotte, Emily e Anne pubblicarono i loro primi romanzi (Jane Eyre, Cime tempestose e Agnes Grey, rispettivamente) con i nomi Currer, Ellis e Acton Bell, che conservavano le iniziali dei loro veri nomi. “Anonymous Was a Woman” è anche un riferimento a Virginia Woolf e al suo saggio più conosciuto, Una stanza tutta per sé, sulla subalternità delle donne e sulla difficoltà di essere delle scrittrici in un mondo in cui le cui convenzioni riducevano la donna al ruolo di madre, sorella o figlia.

“Anonymous Was a Woman” è stato avviato nel 1996, quando il National Endowment for the Arts (un’agenzia federale statunitense che offre supporto e fondi al mondo dell’arte) decise di interrompere il finanziamento ai singoli artisti. Susan Unterberg e sua sorella Jill Roberts decisero di utilizzare l’eredità del padre, filantropo e magnate del petrolio, per aiutare le artiste donne. Susan Unterberg è a sua volta un’artista: alcune delle sue opere fanno parte delle collezioni di musei molto importanti (il Metropolitan Museum of Art, il Museum of Modern Art e il Jewish Museum, per esempio). Ha raccontato che durante la sua carriera ha vissuto in prima persona gli ostacoli che incontrano le artiste, alle quali non viene dedicata la stessa attenzione nelle esposizioni e nelle collezioni dei musei, e che sono trattate in modo differente anche sul mercato.

Le statistiche citate dal National Museum of Women in the Arts dicono che le artiste guadagnano 81 centesimi per ogni dollaro guadagnano dai loro colleghi maschi, che il loro lavoro è rappresentato in percentuali bassissime (che vanno dal 3 al 5) nelle principali collezioni permanenti dei musei negli Stati Uniti e in Europa, e che solo il 27 per cento delle 590 mostre personali organizzate nei maggiori musei americani tra il 2007 e il 2013 erano dedicate ad artiste donne. «Le donne continuano a essere seriamente sottovalutate. Il loro lavoro non è preso sul serio, e gli uomini stanno ancora dettando le regole del gioco. Gli uomini al potere sostengono gli uomini al potere e vogliono vedere gli uomini al potere», ha spiegato Unterberg. Qualche giorno fa è stata annunciata con grande enfasi una nuova acquisizione della National Gallery di Londra, che ha comprato una tela di Artemisia Gentileschi, Autoritratto come Santa Caterina d’Alessandria: è stata la prima acquisizione di un’opera dipinta da una donna del museo negli ultimi 27 anni.

In 22 anni “Anonymous Was a Woman” ha finanziato economicamente 220 artiste con 5,5 milioni di dollari in totale, suddivisi in borse di studio da 25 mila dollari che vengono assegnate a chi ha più di 40 anni ed è nella fase intermedia della propria carriera. La selezione tiene conto dei lavori passati e dei progetti futuri, e viene fatta da un comitato composto da cinque donne, anonime anche loro.

Tra le vincitrici della borsa di studio ci sono state Louise Lawler, Tania Bruguera, Carolee Schneemann, Mickalene Thomas e, nel 2017, anche Amy Sherald, un’artista afroamericana che realizza opere impegnate politicamente e che è stata scelta per dipingere il ritratto ufficiale dell’ex First Lady Michelle Obama. «È arrivato giusto in tempo», ha detto Sherald: «Quando ho preso l’assegno, ero in un momento in cui non potevo nemmeno pagare l’affitto».

I vantaggi per le artiste non sono stati solo economici ma anche psicologici: “Anonymous Was a Woman” ha insomma rappresentato per le vincitrici un riconoscimento dei successi passati e ha dato a molte di loro un forte senso di fiducia nella loro capacità. Unterberg ha detto che questo è un grande momento per le donne che decidono di parlare della loro condizione, e che oggi sente di poter aiutare di più uscendo dall’anonimato. Pensa che parlare con la sua voce possa contribuire a vivacizzare il dibattito sul sessismo nell’arte, e stimolare altri filantropi a fare come lei. «Dato che ero un’artista di mezza età e ho sempre voluto sostenere le donne – sono una femminista – questo mi è sembrato il modo perfetto», ha detto.

Ci sono artiste che lavorano con le loro opere, in modo più o meno esplicito, proprio sulla differenza di genere nell’arte, ma dopo la diffusione dei movimenti femministi anche attraverso il #MeToo e Time’s Up la questione ha cominciato a essere discussa pubblicamente anche tra curatori e direttori dei musei. Helen Molesworth, curatrice del Museum of Contemporary Art di Los Angeles, ha detto di recente che «l’unico modo per favorire la diversità è contribuire a crearla» e che «se fossimo equi, molti meno uomini andrebbero in mostra». Ha anche inviato una lettera per dare inizio a una sorta di “Time’s Up for Museums” e la National Gallery di Londra è tra le istituzioni che l’hanno ricevuta.