di Francesca Amé
Se non avete ancora messo piede alla Fondazione Ica di Milano, questa è la volta buona per rimediare. Siamo in zona ex scalo di Porta Romana, la torre d’oro di Fondazione Prada luccica poco distante: l’ingresso, al civico 26 di via Orobia, è industriale. Solo un piccolo stencil ci dice che, varcata la soglia di quello che appare come il passaggio di una delle tante fabbriche nei dintorni, dentro ci si trova ben altro. Arte contemporanea, nello specifico, ma anche editoria, ceramica, cinema, performance, musica, formazione: siamo in uno spazio privato, ma l’istituzione è no profit. L’idea di base: valorizzare tutte le forme d’arte senza mettere troppe etichette e aprirsi a ogni genere di pubblico. È diventato uno degli indirizzi da tenere d’occhio, e lo dimostra anche l’apertura (coraggiosa, in questi giorni di gennaio in cui Milano appare ancora deserta, praticamente quarantenata) di un tris di mostre personali, tutte aperte fino al prossimo 6 marzo.
Espongono la franco-libanese Christine Safa, la siciliana ma di casa a New York Maria Rapicavoli, la svizzero-americana Olympia Scarry.
C’entrano poco l’una con l’altra: sono tutte giovani, donne e con una biografia che abbraccia diverse latitudini, ma poi ciascuna presenta il suo percorso, la sua idea. Non è una mostra tripartita, sono proprio tre mostre diverse.
Si comincia a piano terra, con White Noise, il rumore bianco delle sculture di Olympia Scarry, anzi delle composizioni alchemiche disseminate sul pavimento e disegnate alle pareti in cui l’artista riflette sul senso del suono e del tempo.
Salite le scale si entra del magico mondo di Christine Safa, che ha solo ventisei anni e la saggezza di una donna matura: riccioli neri, poliglotta, una vita divisa tra la Francia (dove i genitori sono migrati) e l’amato Libano (dove torna, quando può, in estate) ci riconcilia con la pittura, dimostrando che non è affatto un genere superato. Nei suoi lavori troviamo la luce mediterranea, spesso creature addormentate o colte in attimi di sospensione, e dei colori, come l’arancio bruciato e il blu, che rimandano ai ricordi d’infanzia dell’artista. Nei ritratti senza volto così come nelle composizioni paesaggistiche Christine Safa cattura il Libano, il suo posto del cuore. Ama giocare con le linee, inventando volti e corpi che diventano montagne all’orizzonte. «Tutta la mia arte è sospesa tra due mondi, appartengo a entrambi», ci dice davanti alla sua “geografia di espressioni” che compongono C’era l’acqua, ed io da sola, il titolo della personale curata da Alberto Salvadori.
Rinfrancati da questa luce, attraversiamo il piazzale interno: nell’edificio di fronte bisogna prendersi 20 minuti buoni, spegnere il cellulare e osservare con calma la toccante video-installazione (su due diversi schermi) di Maria Rapicavoli, catanese che lavora in America. Qui si narra – ma al modo in cui fanno gli artisti: per visioni, per accostamenti audaci – la vera storia di Mena, giovane italiana costretta ai primi del Novecento a sposare l’uomo che aveva abusato di lei per poi emigrare con lui nei pressi di Boston, dove ha passato la vita tra il tentativo di rivendicare la propria identità e libertà e la difficoltà a emanciparsi. Una storia particolare che diventa subito universale: ai nostri occhi, specie oggi, risulta davvero perturbante.
(Vogue.it, 20 gennaio 2022)
di Redazione
Sono stati presentati gli otto progetti per la statua di Margherita Hack: uno di questi diventerà un monumento pubblico all’astrofisica. Le opere sono tutte realizzate da artiste. Ecco quali sono, cosa significano, le loro foto.
Si tiene dal 19 gennaio al 13 febbraio 2022, presso la Casa degli Artisti di Milano, la mostra Una scultura per Margherita Hack, la rassegna organizzata da Fondazione Deloitte, in collaborazione con Casa degli Artisti e con il supporto del Comune di Milano – Ufficio Arte negli Spazi Pubblici. L’obiettivo dell’iniziativa è quello di donare alla città di Milano la prima scultura su suolo pubblico dedicata a una storica figura femminile nonché massima espressione del mondo STEM, Margherita Hack (Firenze, 1922 – Trieste, 2013), astrofisica, accademica e brillante divulgatrice scientifica del ventesimo secolo. Il progetto di realizzazione è già partito e la scultura sarà inaugurata a giugno dell’anno prossimo in occasione del centenario della sua nascita.
Casa degli Artisti ha invitato una selezionata rosa di artiste italiane e internazionali a partecipare al concorso di idee per la realizzazione dell’opera. Le artiste che hanno aderito all’invito sono Chiara Camoni, Giulia Cenci, Zhanna Kadyrova, Paola Margherita, Marzia Migliora, Liliana Moro, Sissi e Silvia Vendramel. La conferenza stampa in cui verranno annunciati la menzione speciale, il progetto vincitore, lo spazio pubblico scelto per l’installazione dell’opera e le motivazioni della giuria, è prevista il 9 febbraio 2022 alle ore 11:00, sempre presso Casa degli Artisti (era inizialmente prevista per il 19 gennaio, ma è slittata). Vedrà la partecipazione di: Guido Borsani (Presidente di Fondazione Deloitte), Valentina Kastlunger (Presidente di Casa degli Artisti), Fabio Pompei (CEO di Deloitte) Italia, Tommaso Sacchi (Assessore alla Cultura del Comune di Milano), Vincenzo Trione (accademico, critico d’arte e Presidente di Giuria) e Anna Wolter (astrofisica ricercatrice all’INAF-Osservatorio Astronomico di Brera e membro della giuria). Sarà infine presente l’artista vincitrice. Sarà possibile seguire la conferenza anche da remoto sui canali social di Deloitte Italia e Casa degli Artisti.
La mostra presenta al pubblico i testi, i disegni, i rendering e le maquette che illustrano gli otto progetti proposti. Le artiste hanno risposto alla sfida di progettare, attraverso il proprio peculiare linguaggio, un’opera dedicata alla donna Margherita Hack e al suo operato, che sia chiaramente identificabile in quanto tale, e di proporre, al contempo, una riflessione sul concetto stesso di monumento e sulla sua forma tradizionale. L’attenzione alla ricerca scientifica della Hack ma anche alla sua vita personale, alla coerenza delle sue scelte professionali, civili e politiche, all’impegno dimostrato per la divulgazione della scienza, il rapporto con lo spazio pubblico e un ripensamento dell’atto del ricordare, sono elementi chiave che legano, seppure in modi diversi e con scelte anche distanti, i lavori presentati.
L’artista vincitrice sarà in residenza a Casa degli Artisti, che le fornirà il supporto necessario alla realizzazione dell’opera. La scultura verrà donata al Comune di Milano e Fondazione Deloitte si farà carico della manutenzione per gli anni a venire. La giuria di selezione, composta dal Presidente di giuria Vincenzo Trione (accademico e critico d’arte) e i giurati Guido Borsani (Presidente Fondazione Deloitte), Fabio Pompei (CEO Deloitte Italia), Alessandro Oldani (Conservatore dei Beni Culturali presso l’Ufficio Arte negli Spazi Pubblici del Comune di Milano), Benedetta Tobagi (giornalista e scrittrice), Diletta Huyskes (ricercatrice in gender & technology ethics), Sara Sesti (docente di Matematica e membro dell’Associazione “Donne e Scienza”), Anna Wolter (astrofisica ricercatrice all’INAF-Osservatorio Astronomico di Brera), Simona Cerrato (fisica e divulgatrice scientifica, collaboratrice di Margherita Hack), Alberto Salvadori (direttore di Fondazione ICA Milano, membro del Comitato scientifico di Casa degli Artisti), Giovanna Amadasi (Head of Public and Educational Programs Pirelli HangarBicocca), Chiara Costa (Responsabile programmazione Fondazione Prada), Milovan Farronato (critico e curatore indipendente), Alessandro Danovi (Accademico e direttore finanziario di Casa degli Artisti) si è riunita il 29 novembre scorso e, dopo un’intensa e approfondita discussione, ha scelto il progetto vincitore e deciso di conferire una menzione speciale a un secondo progetto. Ecco di seguito i progetti presentati.
Chiara Camoni
Affascinata dalle stelle binarie, uno degli ambiti di ricerca della Hack, Chiara Camoni ha immaginato un monumento che si sdoppia in due elementi separati ma simbiotici: una presenza fisica e materiale nella città, in cui saranno assemblati ferro, alluminio, ottone, argento, oro, rame, silicio attraverso la fusione di oggetti di uso quotidiano e un film che sappia interpretare la sua vita, la sua persona, l’approccio all’astrofisica. Siamo fatti di stelle, titolo dell’opera, riporta la materia alla sua origine e a quanto ripeteva la Hack. Tutti gli elementi presenti sulla Terra provengono dalla fusione nucleare e dalle esplosioni delle supernove. Le stelle creano quindi gli elementi della tavola periodica, inclusi quelli che costituiscono il corpo umano.

Giulia Cenci
È un’opera anti-monumentale quella suggerita da Giulia Cenci. Una scultura che non è la raffigurazione di un corpo, ma di una mente capace di comprendere il mondo che la circondava in modo umile e appassionato. In questa scultura il corpo perde le sue sembianze classiche ed è ridotto a pochissimi elementi. Parti di calchi di ossa umane ed animali sono fuse ed ibridate per costruire delle linee guida in tensione, sospese sul perimetro di un letto semplice. Su quest’asse è trattenuto e sospeso un volto dormiente. L’origine di questa forma proviene dal calco di un manichino per la rianimazione, alla cui fisionomia anonima sono stati sovrapposti manualmente i tratti fisionomici della Hack. Il corpo è costituito dall’incontro dei lasciti (o strutture interne) di varie specie animali o umane.

Zhanna Kadirova
La proposta di Zhanna Kadirova è una figura sagomata raffigurante la Hack con una torcia in mano che illumina un frammento di cielo stellato su un grande vetro blu. Quel frammento è il cielo della data e dell’ora di nascita della Hack, che potrà essere visibile o non visibile a seconda della posizione delle stelle. Un omaggio che si concentra sull’inizio della vita di una scienziata, astrofisica dal forte impegno civile e politico. Durante il giorno la luce del sole illumina le figure sul vetro e il cerchio proietta una bella ombra del cielo notturno sul terreno. Al calar della notte, la torcia che tiene in mano la scienziata e una striscia LED incorporata nel contorno dell’ellisse, illumineranno le costellazioni e le stelle impresse sul vetro.
Paola Margherita
Paola Margherita rappresenta Margherita Hack con due elementi separati. Una raffigurazione della Hack in età ancora giovanile, a figura intera, che si cimenta in un gesto atletico-giocoso a testa in giù, mentre si arrampica su un traliccio. Tale traliccio allude al piede di un radiotelescopio. Il secondo elemento è la modellazione della scia che lascia un meteoroide nell’aria mentre sta per sfiorare il suolo. I due distinti elementi scultorei sono distanti fra loro, ma sempre contemporaneamente presenti nel campo visivo degli osservatori.

Marzia Migliora
Marzia Migliora riprende la definizione della Hack di donna con gli occhi al cielo e i piedi piantati a terra, per immaginare un’opera dove le stelle possano toccare terra per diventare una pavimentazione da percorrere, in cui sostare, giocare e apprendere. Uno spazio sociale e di prossimità tra corpi umani e celesti. La pavimentazione riproduce una porzione di calotta celeste: la costellazione di Cefeo, che comprende 168 stelle e 1 nebula. Le coordinate e la collocazione delle stelle sono una riproduzione fedele delle loro posizioni visibili nel cielo notturno. L’installazione è realizzata in lastre di cemento, con inserti in marmo policromo e acciaio, arricchita da elementi testuali e multifunzionali, con cui le persone avranno la possibilità di interagire. Le 8 stelle che compongono la costellazione saranno superfici su cui potersi sedere e il pubblico potrà interagire con l’installazione posizionando la torcia dello smartphone sulla superficie di alcune delle sedute di marmo e così “accendere le stelle” posizionate sul pavimento, attraverso cavi di fibra ottica.

Liliana Moro
Liliana Moro si sofferma non solo sugli studi scientifici, ma soprattutto sulla vita personale della Hack: grande sportiva, amante degli animali, vegetariana, divulgatrice, impegnata nella vita politica e sociale. Donna che rappresenta un esempio di coerenza e di passione. La scultura, realizzata in bronzo, rappresenta Margherita Hack a mezzo busto e poggia su una base circolare non regolare che somiglia a un vortice, a una spirale, ma anche ad un’architettura atipica, che ricorda il movimento circolare di una ruota di bicicletta. Il movimento ascensionale è amplificato dalla posizione inclinata del busto e dalle braccia sollevate a formare un cannocchiale con le mani. Sulla base circolare come fossero un solo corpo, un cane e un gatto, il cane guarda noi mentre il gatto volge lo sguardo verso Margherita e il cielo.

Sissi
Sissi rappresenta la Hack come una metamorfosi: una persona nata dagli elementi di una galassia e impegnata a studiare le stelle che la formarono. Un interrotto flusso di vita che parte dalle stelle per tornarvi. Margherita Hack ci insegna che l’essere umano non è cosa altra rispetto all’universo ma ne è parte integrante: non guarda il cosmo dall’esterno ma dal suo interno. Il monumento di Margherita Hack è una scultura in bronzo che la vede raffigurata mentre, emergendo da una galassia, osserva le stelle. Alzando le braccia verso l’alto, simula un telescopio. La statua invita a riconoscerci simili, perchè raffigura una comune gestualità, che è quella di guardare le stelle senza alcun mezzo tecnico: un invito al sogno e all’immaginazione. Con il titolo Sguardo fisico svela la sua identità di astro-fisica giocando con due parole per lei caratterizzanti. Lo Sguardo è il senso capace di percepire gli stimoli luminosi mentre Fisico non solo richiama la radice della sua professione, ma anche la concretezza e solidità del suo atteggiamento intellettuale e filosofico.

Silvia Vendramel
Una scultura sensibile all’incidenza della luce, che possa offrire a chi la vive nello spazio pubblico un’esperienza corporea, fisica e visiva insieme, è la proposta di Silvia Vendramel. Una scultura che ricrei condizioni simili a quelle della ricerca scientifica in cui nulla è dato per scontato e solo attraverso una lenta, costante e visionaria osservazione è possibile attingere alla conoscenza. La giustapposizione di materiali e forme realizzate con vetro, bronzo, alluminio su cui la luce ha incidenza diversa a seconda del trascorrere del giorno. Incisioni e fori presenti sulla superficie in bronzo costituiscono una libera interpretazione di simboli ancestrali relativi alle costellazioni.


(www.finestresullarte.info, 19 gennaio 2022)
di Giulia Menzietti
«A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo, la strada percorsa dalle donne nel campo dell’architettura per raggiungere una giusta emancipazione e riconoscibilità in un universo di fatto maschile non solo è stata lunga, ma anche segnata da momenti storici e professionali diversi. Le prime progettiste lavorarono per far sentire la presenza di una voce femminile nel settore, dal secondo dopoguerra si sono sempre più potentemente imposte come leader. Non più voci isolate ma componenti significative della professione».
A Maristella Casciato, cui si deve la consulenza scientifica delle ricerche per la mostra apertasi al Maxxi Good News. Donne in architettura (fino al 24 aprile 2022), così come una delle voci della sezione «Narrazioni», non sono mai piaciuti gli elenchi («anche se a volte sono utili come matrice di un ordine») e tantomeno le classifiche. Storica dell’architettura, attualmente Senior curator, Head of architecture special collections al Getty Research Institute a Los Angeles. Docente universitaria, in Italia e all’estero, curatrice di mostre come Bauhaus Beginnings (2019) al Getty Research Institute e Gio Ponti. Amare l’architettura al Maxxi (2019), e autrice dei libri Casablanca Chandigarh. Reports on Modernization (con Tom Avermaete, 2013), The Metropolis in Latin America, 1830-1930 (con Idurre Alonso, 2021), Rethinking Global Modernism. Architectural Historiography and the Postcolonial (con Vikram Prakash e Daniel Coslett, 2021), Casciato ha condiviso con il manifesto alcune riflessioni sui temi affrontati nell’itinerario espositivo.
Tra le architette che hanno cercato di affermarsi nel campo della professione, quali sono le sue preferite?
Tutte le architette «ospitate» in questa mostra hanno, nel corso di un secolo e mezzo, reso possibile questa rivoluzione. Non saprei quindi indicare quali siano le mie preferite, anche se con alcune avverto una maggiore affinità. Non sono una progettista, il che mi fa sentire più vicina a quelle che hanno lavorato per creare occasioni fertili affinché la voce delle altre si potesse sentire; hanno curato esposizioni, prodotto manifesti, elaborato un pensiero teorico attraverso riviste e pubblicazioni, sono state docenti che hanno sempre difeso un percorso pedagogico in cui le più giovani avessero la libertà di parlare e, ancor più importante, fossero ascoltate. A loro mi sento più vicina.
La rassegna racconta la progressiva trasformazione dello status dell’architetto, che dalla figura del singolo maestro sembra migrare sempre più verso formule di studi a coppie, o collettivi etc… Pensa che questo processo abbia a che fare col fenomeno più globale della gender equality? O che risponda alla progressiva apertura, nel campo del progetto, verso altri territori d’indagine e alla necessità di lavorare in team con contributi multidisciplinari?
Non credo che la pratica professionale, di coppia o collettiva, sia figlia di un superamento del gender gap. Anzi, nel caso delle coppie di progettisti in cui sono presenti i due generi, la vera battaglia è stata quella che le donne hanno combattuto per difendere il loro privato rispetto all’aggressività del mondo del lavoro in generale. Spesso la biografia di coppia è stata più felice di quella per un uguale riconoscimento del valore di ciascuno da parte degli agenti esterni. Si veda la polemica protesta di Denise Scott Brown nei confronti della commissione del Pritzker Prize quando il premio fu assegnato al solo Robert Venturi. Concordo nel leggere la professione come un processo sempre più poliedrico, pluridisciplinare ma non solo, integrato nel ricercare la multietnicità, sfaccettato per quanto concerne le competenze, certamente sempre più competitive. Anche in conseguenza della pandemia, quella dell’architettura è, fra tutte le professioni, la più porosa, la più coraggiosa nell’accettare le diversità, la più visionaria… Infine, la più bella.
Alla luce della sua esperienza di storica, trova sia possibile identificare un’attitudine specifica delle donne verso l’architettura, un atteggiamento progettuale verso il disegno dello spazio che emerge nel lavoro delle progettiste più che in quello dei loro colleghi?
Le donne sono fra loro diverse, come lo sono gli uomini. Ed entrambi i sessi sono fra loro incomparabili. Dipende dalle condizioni (politiche/culturali) in cui si lavora, dal momento storico, dalla committenza, dal mercato, per citare solo alcune delle sovrastrutture con le quali ogni professionista si trova a operare; dagli interessi di ciascuna verso il progetto di architettura piuttosto che per il design, verso il paesaggio piuttosto che per la pianificazione urbana, verso la piccola scala artigianale piuttosto che per la macrostruttura, verso le infrastrutture piuttosto che per i sistemi tecnologici complessi. Le donne hanno dimostrato una grande duttilità nel muoversi attraverso questi universi spaziali, flessibilità e intuito, pazienza e coscienza del proprio essere femminile, autocritica e autoironia. È chiaro che la diversità di genere non è un’invenzione della contemporaneità. Ne siamo diventate più consapevoli e fiere.
Il campo dell’architettura, della professione e del cantiere sono sempre stati territori prevalentemente appartenenti al mondo maschile. Anche l’ambito teorico, legato alla ricerca e alla critica è stato quasi sempre rappresentato da autori maschili; addirittura è forse più facile farsi venire in mente nomi di note progettiste, piuttosto che di autrici, ricercatrici o storiche dell’architettura. Quali sono, secondo lei, le principali ragioni di questo fenomeno?
Sicuramente, una disparità di occasioni, sia nell’ambito professionale, che in quello accademico. Ma ciò che mi sembra importante sottolineare è che questa tendenza si sta ribaltando. I contributi delle donne al pensiero storico-critico in architettura sono molto aumentati nell’ultimo trentennio. Nella gran parte dei casi si tratta di un lavoro che è più capillare, che esamina i dettagli, che opera sui microcosmi senza pretendere di creare teorie globali. È una storia che si interroga, che introduce il dubbio come apparato investigativo, che si confronta anche con altre discipline, allargando il campo a contenuti nuovi e a un racconto pieno di sorprese.
(il manifesto, 2 gennaio 2022)
di Valeria Palumbo
Guardano in «macchina», le pittrici e le fotografe che si ritraggono. Perfino, come fa coraggiosamente Paula Modersohn Becker nel 1906, quando si ritraggono nude e non belle o anziane. Impietose, direbbe qualcuno che ritiene che le donne, come ci si ostina a credere per la Contessa di Castiglione, si facciano ritrarre o si ritraggano soltanto per offrirsi a uno sguardo compiaciuto. Non necessariamente maschile, ma altrui. Che l’unico scopo del loro «mettersi in posa» sia il farsi guardare e ammirare. Passive. Perfino nella seduzione. Ribalta quest’ottica una bella mostra aperta fino al 2 gennaio alla Fondazione Beyeler a Riehen, appena fuori Basilea in Svizzera. Si intitola Close up [da vicino, n.d.r.] e raccoglie le opere di nove artiste, in particolare i loro autoritratti, tra Ottocento e giorni nostri. Non a caso, nel recensire la mostra, il celeberrimo quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung o Nzz mette in apertura proprio l’autoritratto di Modersohn-Becker: un capolavoro di ironia. Superato solo dal sarcasmo di Frida Kahlo. Per inciso Paula Modersohn-Becker, esponente di punta del primo Espressionismo, in 31 anni di vita e 14 di attività, realizzò 750 dipinti e mille disegni. Morì per le complicazioni del parto, dopo aver dato alla luce la prima figlia, Mathilde. In un’illuminante lettera del 17 febbraio 1906 al poeta Rainer Maria Rilke, oggi ben più famoso di lei e piuttosto bizzarro (già celebre per il triangolo con Lou Andreas-Salomé, si innamorò di Paula al primo incontro, ma poiché lei si era appena fidanzata, sposò, brevemente, la sua migliore amica, la scultrice Clara Westhoff), Paula scrisse: «Io sono io, e spero di diventarlo sempre di più, Ich bin ich, und hoffe es immer mehr zu werden».
Problemi di identità
Non che gli artisti uomini non abbiano mai avuto problemi di identità. Anzi. Il punto è che alle donne, sempre, anche quando avevano idee chiarissime su chi fossero, qualcuno ha cercato di spiegarlo. Meglio, di imporlo. E guarda caso erano identità piccole piccole, ben calibrate sui desideri, le esigenze, le paure e, a volte, le perversioni dei maschi. Perfino sulle loro idealizzazioni: e in questo caso le identità, più che piccole, risultavano poco adatte a un essere umano, tra muse angelicate, madri-martiri, belles dames sans merci e mogli kamikaze. In questa costruzione di identità altrui, le arti visive hanno svolto un ruolo fondamentale (e continuano a svolgerlo, cinema in testa). Eppure, è proprio nella pittura e nella fotografia che le artiste hanno avvertito da subito che no: così non era. Loro non si vedevano, e non volevano essere viste, come gli altri le disegnavano. Hanno cominciato le pittrici del Rinascimento, Sofonisba Anguissola e Artemisia Gentileschi in testa. Una con l’autoritratto più fiero, sereno e severo di donna che il Cinquecento ricordi. L’altra con quella sua esuberanza quasi ingombrante (come Allegoria della pittura), che così bene sintetizza un secolo complicato come il Seicento. E hanno proseguito le altre: dalla francese Elisabeth Vigée Lebrun che si ritrae in mille modi, pittrice, madre autonoma ed erede di Rubens, alla britannica Elizabeth Siddal, che il marito, Dante Gabriele Rossetti, chiude nello stereotipo della vergine sognante, spaventata e anche stordita di droga. E che invece si auto-ritraeva triste e anche piuttosto arrabbiata.
Vittime dei pregiudizi
Nella mostra di Basilea, Close Up, il racconto comincia con le impressioniste. In particolare Berthe Morisot e Mary Cassatt, vittime entrambe non solo dei pregiudizi di un’epoca tanto pruriginosa e severa con le donne libere, quanto (ancora oggi) scandalosamente deliziata dagli eccessi maschili. Alle pittrici non era concesso riprendere modelli dal vero. Neanche un braccio nudo di maschio. Nemmeno mucche all’aperto, se è per questo: mica se ne potevano andare in giro da sole. Se poi, come Victorine de Meurent (celebre soprattutto come la “scandalosa” modella nuda di Edgar Degas), si prostituivano pur di continuare a dipingere, perché per loro non c’era mercato, affari loro. Neanche le accademie d’arte le volevano. E così Morisot, che pure viveva tra amici pittori tanto trasgressivi e all’avanguardia, scriveva sul suo Carnet, nel 1891: «Non credo che sia mai esistito un uomo che abbia trattato una donna da pari a pari, eppure è tutto quello che avrei voluto, perché so di valere, Je ne crois pas qu’il y ait jamais eu un homme traitant une femme d’égal à égal, et c’est tout ce que j’aurais demandé, car je sais que je les vaux».
Il dipinto di Marie Bashkirtseff
Non a caso la mostra alla Fondazione Beyeler termina con un magnifico dipinto dell’ucraina Marie Bashkirtseff (ma perché a scuola non abbiamo studiato neanche lei?), L’Académie Julian, del 1881, in cui un gruppo di sole pittrici ritrae un San Giovannino nudo che guarda perplesso verso la “macchina”. E ovviamente a nessuno può sfuggire l’ironia della scelta: San Giovanni è quello che ne disse tante contro la povera Erodiade che, grazie ai desideri espressi dalla figlia di lei, Salomé, dopo una celebre danza, si ritrovò senza testa. Osservatelo con attenzione quel quadro, se vi capita. Perché siamo talmente abituati a osservare scene in cui tutti gli artisti (magistrati, medici, scienziati, etc.) sono maschi vestiti e le donne, se ci sono, se ne stanno lì come agnellini sacrificali, o abbassando pudicamente lo sguardo oppure offrendosi esplicitamente, che vedere un luogo in cui contano solo le donne e l’unico uomo è l’agnellino di turno, ci crea ancora un certo disorientamento. Scriveva Marie nel suo Journal, il 1° maggio 1884: «Se non muoio giovane, spero di rimanere nella memoria come una grande artista; ma se muoio giovane, voglio far pubblicare il mio diario perché non può essere altro che interessante».
Sapere di valere
Ecco, qui la consapevolezza è piena: so chi sono. E so di valere. Magari ci rido su. È quello che fanno quasi tutte le artiste di Close Up, da Frida Kahlo, appunto, alla nostra contemporanea Cindy Sherman, con i suoi “finti” autoritratti che smontano gli stereotipi femminili. Non solo sanno di valere, ma sono appunto pronte a rovesciare lo sguardo. Non a farsi guardare. Ma a guardare e, in caso, a giudicare. A riscrivere la storia: Frida Kahlo ricostruisce il suo albero genealogico, con sua madre vestita di bianco ma con il suo feto già in pancia e il cordone ombelicale in vista, che porta dritto a lei. Non a un maschio. Ma a lei, Frida. Non credete che sia una banalità: nello scrivere il mio ultimo libro, sulla Contessa di Castiglione, avevo immaginato di inserire qualche albero genealogico seguendo le linee femminili per mostrare anche quanti figli naturali girassero nell’aristocrazia. Mi sono trovata davanti le solite linee di successione: nonno-padre-figlio. Fuori le donne e i “bastardi”.
La pittrice e il suo modello
La bravissima pittrice Lotte Laserstein (di nuovo: ho fatto le scuole sbagliate io? Perché non la ricordo mai citata), una “Neue Frau”, una donna emancipata, pure ebrea, che dovette rifugiarsi in Svezia per sfuggire al nazismo ma visse abbastanza per avere ragione (1898-1993), non solo si ritrasse con i capelli corti e modi “androgini”, come si continua a scrivere. Ma nel 1929-1930 intitolò un quadro: Ich und mein Modell, Io e il mio modello. Lei è la pittrice, più matura, ovviamente vestita e guarda, ancora una volta, davanti a sé. Lui è giovane, seminudo e la osserva con deferenza. Ruoli invertiti. Ci appaiono ancora irritanti? Pensate come apparissero due secoli fa, quando la Contessa di Castiglione si faceva fotografare i polpacci e i piedi nudi, gonfi. Si gridava alla follia: è pazza. Lo si dice ancora adesso. È pazza perché solo all’apparenza si sta facendo guardare. In realtà guarda. E giudica. E ironizza. E non ha paura. Lo ricordassero ogni tanto anche le ragazze che ammiccano dai selfie, saremmo a cavallo.
(27esimaora, 19 dicembre 2021)
di Samantha De Martin
Dal 5 novembre al 19 aprile alle Gallerie Corsini di Roma – La mostra si potrà visitare, a partire dal 5 novembre, da martedì a domenica, dalle 10 alle 18, con ultimo ingresso alle 17.
Roma – Un’“architettrice”, vestita con il tradizionale abito della domenica della “middle class romana” del Seicento, tra le mani un compasso e un foglio da disegno, volge il suo sguardo magnetico e assorto agli ospiti delle Gallerie Corsini, come sorpresa dal loro sopraggiungere.
A ritrarla, in un olio su tela in prestito da una collezione privata di Los Angeles, è un pittore attivo a Roma verso la metà del Seicento. La protagonista di questo ritratto, l’unico che abbiamo di lei, è molto probabilmente Plautilla Bricci, artista singolare, ricamatrice, pittrice di talento, esperta ideatrice di apparati effimeri, unico architetto donna dell’Europa preindustriale.
La mostra che le Gallerie Corsini le dedicano fino al 19 aprile più che un percorso espositivo è un’affascinante scoperta che fa luce su un unicum straordinario: un’artista versatile e complessa, autrice di opere pubbliche e pale d’altare, riuscita a ritagliarsi spazi di libertà tra le convenzioni di una società dominata da soli uomini.
Una rivoluzione silenziosa. Plautilla Bricci pittrice e architettrice, la prima mostra personale dedicata alla pittrice e architetta Plautilla Bricci, a cura di Yuri Primarosa, riunisce per la prima volta l’intera produzione grafica e pittorica dell’artista, costruendo un perfetto allestimento che segue l’evoluzione della donna, da “zitella” invisibile che lavora sotto mentite spoglie, a pittrice “libera”, capace di incantare Roma con i suoi edifici grandiosi.
“Quella che presentiamo oggi – spiega Primarosa – è una mostra di ricerca, destinata ad arricchirsi di nuovi studi e scoperte, un punto di partenza che, per la prima volta, fa conoscere al pubblico un’artista complessa, riunendo solo le opere che sappiamo con sicurezza essere state realizzate da lei”.
Portata di recente all’attenzione del grande pubblico da Melania Mazzucco, autrice del romanzo L’architettrice (Einaudi 2019), Plautilla inaugura anche la riapertura della Galleria Corsini.
“Dopo molti mesi di lavori – commenta Flaminia Gennari Santori, direttrice delle Gallerie Nazionali Barberini e Corsini – siamo felici di riaprire con un’assoluta novità. La Galleria è ora pronta ad accogliere i visitatori con una rete wi-fi, una guida digitale gratuita di supporto alla visita e servizi di accoglienza completamente rinnovati. La nuova illuminazione e gli interventi conservativi sulle decorazioni settecentesche assicurano poi una migliore fruibilità degli spazi”.
L’apoteosi di Plautilla Bricci si compie in mostra attraverso un percorso lineare, ben pensato e che presenta, all’inizio in maniera soffusa, una professionista ancora nascosta, che esploderà solo alla fine del percorso. Come quasi tutte le sue colleghe, anche Plautilla era figlia d’arte e nella bottega romana di suo padre Giovanni acquisì molto di più che i soli rudimenti nel disegno e nel colorire.
Oltre a dipingere insegne di botteghe, muri e tele nell’entourage del Cavalier d’Arpino, il padre era infatti anche un bravo musicista e compositore dilettante, attore e commediante, poligrafo e poeta. Da nuove ricerche si evince che fu proprio Giovanni a offrire alla figlia la prima rete di contatti e committenze, come nel caso della Madonna col Bambino di Santa Maria in Montesanto (1640 circa) – prima opera conosciuta della pittrice – che conserva sul retro la firma dell’artista giovinetta assieme a una relazione che ricorda un evento prodigioso: a ultimare l’opera sarebbe stata la Madonna stessa.
Questo esordio legato a un evento miracoloso garantì a questa artista alle prime armi, destinata a vivere in odore di santità, un posto d’onore nella produzione di immagini devozionali di martiri e sante vergini. Queste occasioni formative consentirono a Plautilla di entrare in contatto con l’abate Elpidio Benedetti, una figura chiave nella vita della pittrice e nel fervido dialogo politico e artistico tra Roma e Parigi, servitore, o se vogliamo “art advisor”, prima del cardinale Giulio Mazzarino e poi di Jean-Baptiste Colbert, nelle funzioni di agente di Luigi XIV.
Elpidio Benedetti fu quasi un alter ego per Mazzarino, sbrigando per lui ogni tipo di mansione, dall’invio di pregiate casse di vino italiano e guanti profumati all’acquisto di palazzi e carrozze. Fu probabilmente lo stesso Benedetti a mediare l’esecuzione dello straordinario ritratto, esposto per la prima volta in questa mostra, che Pietro da Cortona realizzò per celebrare l’ascesa alla porpora del “Cardinale di Francia”, avvenuta nel dicembre del 1641.
Il ritratto, mostrato al pubblico per la prima volta e in prestito da una collezione privata, con il movimento del fazzoletto che ricorda la spuma del mare, il volto del cardinale incorniciato da un ghigno di astuzia e cinismo, rappresenta l’apice della ritrattistica romana di età barocca, reso ancora più interessante dalla penetrante indagine psicologica.
All’inizio Plautilla vive quasi all’ombra di Elpidio Benedetti, al quale sarà unita, fin sul letto di morte, da una straordinaria, devota amicizia. E questo l’incipit del percorso espositivo lo mette bene in luce, affiancando, e quasi sovrapponendo, le opere di Plautilla e quelle del suo committente Benedetti. Tra queste, gli accurati studi grafici del monumento funebre di Giulio Mazzarino, che il cardinale avrebbe desiderato innalzare a Parigi per glorificare la sua memoria e i cui studi grafici formulati da Benedetti assieme a Plautilla furono inviati in Francia nel 1657. L’abate Elpidio aveva diversi motivi per potersi attribuire queste opere. Per realizzare il suo sogno scelse Plautilla, l’unica “invisibile signora” che avrebbe potuto disegnare, ideare e lavorare per lui senza pretendere, nella società maschilista del tempo, di essere riconosciuta.
Dal canto suo, grazie al decisivo sodalizio con Benedetti, la Bricci poté cimentarsi nell’esecuzione di importanti pale d’altare, nell’ideazione di apparati decorativi e nella progettazione di altre opere insigni, affermandosi anche come architetta. Questo evento fu talmente eccezionale da richiedere l’invenzione addirittura di un neologismo, quello di “architettrice”. Di questo titolo si trova traccia su un atto notarile relativo ai lavori della Villa Benedetta fuori Porta San Pancrazio, detta “il Vascello”, la sua opera più famosa, per suggellare, dopo diversi anni di attività sottotraccia, il riconoscimento ufficiale della donna in un settore artistico che la tradizione riservava ai soli uomini.
I lavori per il Vascello ebbero inizio tra il 1662 e il 1663. Purtroppo l’edificio andò distrutto nel 1849 durante l’assedio francese di Roma. Pur avendo preso parte a quel cantiere artisti del calibro di Bernini, Cortona e Grimaldi, fu proprio Plautilla a dirigerne le maestranze.
Tra i progetti dell’architettrice presentati in mostra è possibile ammirare quello, ambizioso, per la scalinata di Trinità dei Monti (1660), o ancora la vasta lunetta dipinta per i Canonici lateranensi (1669-1673) e altre due sue tele conservate a Poggio Mirteto, borgo che diede i natali al padre di Elpidio, Andrea Benedetti, ricamatore papale. Si tratta dello Stendardo della Compagnia della Misericordia raffigurante la nascita e, sul retro, il martirio del Battista (1675) – restaurato per l’occasione e visibile per la prima volta recto e verso – e la Madonna del Rosario (1683-1687). Chiude l’esposizione il quadro d’altare raffigurante San Luigi IX di Francia tra la Storia e la Fede dipinto da Plautilla per la cappella di San Luigi dei Francesi, interamente progettata dall’architettrice per l’abate Benedetti.
Il catalogo che accompagna l’esposizione, stampato da Officina Libraria, contiene i saggi di Yuri Primarosa, curatore della mostra, e di Melania Mazzucco, autrice de L’architettrice, oltre ai contributi di alcuni dei maggiori specialisti dell’artista e del suo contesto culturale, offrendo una nuova e aggiornata monografia sulla pittrice.
(Arte.it, 4 novembre 2021)
di Manuela De Leonardis
Una linea tracciata con il pennello intinto nella vernice bianca unisce i padiglioni 9A e 9B del Mattatoio di Roma, curata da Angel Moya Garcia la mostra personale Conosco un labirinto che è una linea retta (fino al 9 gennaio 2022) – il titolo è una citazione del racconto di Jorge Luis Borges Tlön, Uqbar, Orbis Tertius – realizzata in collaborazione con la Reale Accademia di Spagna a Roma, presenta le opere dell’artista spagnola Dora García (Valladolid, 1965, vive e lavora a Oslo) protagonista di numerose mostre d’arte internazionali, tra cui le Biennale di Venezia 2011, 2013 e 2015. Un labirinto visibile, ma anche misterioso, in cui la linea retta – l’ineluttabilità – mette in relazione il film Segunda Vez (2018) con Il labirinto della libertà femminile.
Le «performance delegate» si susseguono: in un cerchio una donna legge poesie di Amelia Rosselli, Anna Achmatova, Alejandra Pizarnik, Mariangela Gualtieri; la Sfinge si aggira ponendo enigmatici quesiti mentre nella lettura della partitura di Lacan l’oratore/ascoltatore si trasforma in lettore/danzatore. Un percorso di perlustrazione dell’inconscio che per il curatore è «un’incessante negoziazione tra colui che parla e colui che ascolta, tra autore e lettore, tra attore e pubblico», in cui viene sovvertito il limite tra la finzione della rappresentazione e la realtà dell’accadimento.
Fanno parte dell’opera «Il labirinto della libertà femminile» le parole «position voice mundo», qual è il loro significato?
L’intera scenografia è basata su un disegno di Gloria Anzaldúa, scrittrice femminista chicana e sulla citazione di queste sue tre parole. Nella mia interpretazione «posizione, voce e mondo» sono la chiave per mostrare la soggettività nell’esercizio dell’indirizzare al mondo la propria voce. Quando preparavo questo lavoro, pensando alla complessità del significato di libertà della donna ed emancipazione – proprio in quanto donna – ho riflettuto su come proprio queste parole di Anzaldúa provenissero da una posizione atipica. Lei stessa si è sempre trovata nel «luogo sbagliato» senza trovare una definizione specifica in cui sentirsi a proprio agio. Del resto penso che sia abbastanza comune la difficoltà di adeguarsi alla definizione di femminilità.
Alla tematica femminista si riferisce il disegno della mano con la moneta dorata proveniente dalla mitologica azteca.
Anche questo è un riferimento che proviene da Anzaldúa. In quanto chicana la cui discendenza indios è precedente a quella dei colonizzatori dell’America, nel libro Borderlands/La Frontera: The New Mestiza, lei si identifica con la divinità azteca Coyolxauhqui che fu uccisa dal fratello e il suo corpo tagliato a pezzi. In una città del Messico (Templo Mayor a Tenochtitlán, Ndr) è stata ritrovata la sua raffigurazione su una pietra dove venivano svolti riti sacrificali con il sangue. Quello che trovo interessante è l’idea di questo corpo femminile smembrato, dissociato dai canoni occidentali di tenerezza e maternità, messo in relazione con l’idea di ferocia e paura. Quindi la rottura dei canoni di sottomissione da parte di questa donna forte.
Nel rendere il pubblico protagonista dell’opera c’è anche una volontà di farlo partecipare al «disvelamento dell’illusione»?
Sì. C’è un riferimento a Bertolt Brecht che nella storia della performance teatrale ha distrutto gli elementi dell’illusione come forma liberatoria per lo spettatore. Non sono sicura che ciò emerga in questa specifica mostra, ma è stato un riferimento importante per me. Nel teatro borghese lo spettatore è invisibile, al contrario nella tradizione brechtiana è esso stesso parte dell’azione, anzi incoraggia la sua emancipazione nel portare l’esperienza teatrale in una dimensione reale trovando una via liberatoria. Non posso dire di identificarmi con questa visione, ma il tipo di performance che porto avanti negli anni non è mai un intrattenimento ma una durational performance, ovvero un sistema in cui lo spettatore è invitato a prendere parte, ma che va sempre avanti indipendentemente dalla sua presenza o assenza.
Transitorietà, controllo, tempo, ripetizione e precarietà sono elementi molto presenti nel suo lavoro…
Lo sono soprattutto in relazione alla performance La partitura Sinthomo, che si basa sul seminario Le Sinthome di Lacan sugli scritti di James Joyce in cui si parla di «attività precaria» collegata all’instabilità come di qualcosa che mantiene la soggettività sana. Tra le «attività precarie» c’è anche la pratica artistica. Ma anche per me che sono artista non è detto che funzioni ogni volta, è necessario che quest’attività venga praticata quasi in maniera frenetica.
Naturalmente, poi, la pratica artistica include anche la precarietà economica e penso che si riferisca anche alla narrativa, può toccare la poesia, la letteratura e anche ciò di cui sto parlando con te, ovvero quel tipo di costruzione narrativa di storie alla cui luce può essere letta anche questa mostra.
Jacques Lacan è citato anche nel film «Segunda Vez».
Il film parla dello psicoanalista argentino Oscar Masotta che ha avuto diverse vite: a vent’anni era critico letterario, a trenta critico d’arte contemporanea e a quaranta psicoanalista. Nel film queste diverse parti si possono vedere tutte insieme, anche se forse l’accento principale è sulla sua pratica artistica legata alla sua lettura psicoanalitica. Un altro aspetto importante del film è la lettura politica nell’analizzare il ruolo degli intellettuali in contesti di «urgenza politica», come lo sono anche i tempi in cui viviamo.
L’inconscio affiora in tutte le opere. È così?
Qualche giorno fa ho letto una citazione dello psicoanalista argentino Braunstein in cui l’inconscio è definito come ciò che permette all’essere umano comune di diventare poeta, mentre per Lacan è il luogo del linguaggio e per Freud quello degli impulsi. L’inconscio influenza costantemente il visibile e l’invisibile, ma penso soprattutto che sia alla base della pratica artistica. È l’archetipo. Nella poesia dove il linguaggio nasce dal profondo – in generale lo è nella pratica artistica – è anche il modo con cui l’artista parla alla gente.
La sua pratica artistica include la «performance delegata», come l’ha definita la storica dell’arte Claire Bishop.
Fin dai tempi in cui ero studente, in Olanda, pur essendo interessata al linguaggio della performance, ero consapevole di voler rimanere fuori dall’azione. All’epoca il modello principale era Marina Abramović. Ma io odio che la gente mi guardi e mi identifichi come l’artista, la persona eccezionale. Per me l’artista deve essere come tutti gli altri, semplicemente qualcuno che si occupi di arte. Della performance mi piace soprattutto il riscontro immediato, l’idea del qui e ora e di come ciò possa influenzare la realtà e modificare il quotidiano. Ero già interessata al teatro invisibile di Augusto Boal, ma solo nel 2007 ho sentito parlare per la prima volta di «performance delegate». È stato un passaggio molto naturale per me.
(il manifesto, 20 ottobre 2021)
di Anna Toscano
Il tempo restituisce cautamente spazio e forma, voce e luce alla figura e alle opere di Camille Claudel. Se penso alle vicende di questa artista, che visse sempre controvento a cavallo tra Ottocento e Novecento, mi viene in mente una clessidra in cui i granelli di sabbia determinano luci e ombre, anche sulla sua scultura. Dalla nascita, nel 1864, e per la durata di poco più della metà della sua vita la clessidra ha portato luce a una donna che diveniva una grande artista, con uno sforzo immane in un contesto socioculturale che la voleva altro e altrove, ma lei indefessa perseguì la sua passione di vita, la sua arte, i suoi amori, il suo modo di stare nel mondo. E il suo modo di stare nel mondo era contro ogni convenzione, sempre più non tollerato dalla madre e dal fratello, così chiacchierato e sul filo dello scandalo da costringerla a un lento e senza sosta ritiro dalla società per stare nel suo studio, sola, con i suoi gatti. Ma anche questa sua richiesta minima di vita, complice la famiglia che la ostacolava, era troppo alta, anche per lei stessa che iniziava un cammino nella sofferenza mentale. Così, alla morte del padre, nel 1913, che fino ad allora la aveva sostenuta, le sue fatiche e le sue insofferenze fecero sì che la madre facesse aprire per lei le porte del manicomio.
Qui iniziano a scendere i granelli dell’ultima parte della clessidra della vita di Camille, i granelli dell’ombra e del buio, e non sono pochi, quasi trent’anni di manicomio lenti e inesorabilmente reclusi. Non ci fu ascolto per i medici che in questi tre decenni consigliavano il reintegro in famiglia e la ripresa della sua arte, non ci fu ascolto per le innumerevoli lettere di Camille mai recapitate, per ordine della madre, e per le molte lettere a Camille mai ricevute, sempre per ordine della madre. Gli ultimi infiniti anni sono senza voce, muti nonostante le molte parole scritte, e sordi, sordi agli affetti: la madre pare mai si recò a trovarla; con cadenza annuale, per un certo periodo, il fratello. Fino al 1943, il 19 ottobre, un cui l’ultimo granello, così scuro da esser nero, della clessidra si depose sopra a tutti, aveva settantotto anni. Malnutrizione la causa del colpo apoplettico, scrissero i medici. Il buio pervase la grande voce artistica di Camille e la sua opera, nessuno della famiglia si presentò al funerale e nessuno reclamò il corpo che pare giaccia in una fossa comune. Ma la clessidra si è girata, riparte, la sua voce, la sua forza non possono non tornare alla luce: così dopo molti anni di silenzio, granelli scuri si sono succeduti nuovamente per decenni, ecco che tornano quelli chiari, la luce sulla potenza della donna Camille Claudel, donna e artista.
La sua vita in forma anche romanzata è iniziata ad apparire in film, opere teatrali e biografie, e finalmente lo studio della sua opera si è avviato sempre più approfonditamente. Un movimento che inizia in Francia, sua patria, e che man mano interessa molti altri paesi. Oltre all’opera, le sue sculture, inizia la ricerca delle sue parole: la raccolta della corrispondenza esce a Parigi, per Gallimard, nel 2003 a cura di Anne Rivière e Bruno Gaudichon, e in Italia per Abscondita nel 2005 con il titolo Corrispondenza nella traduzione di Monica Martignoni. Di questa opera ho scritto qui nel pezzo dal titolo Camille Claudel e August Rodin: parole come pietre. In quasi vent’anni dalla pubblicazione della corrispondenza la clessidra ha continuato inesorabilmente la sua metà di luce, granelli come tasselli nel ridare corpo e dignità a questa donna. Le pubblicazioni sono continuate ma anche la ricostruzione e riunione di alcune opere. Difatti nel 2017, dopo lunghi assestamenti, a Nogent-Sur-Seine nasce il Museo Camille Claudel. Cittadina a novanta chilometri da Parigi ospitò dal 1876 al 1879 la famiglia Claudel e in quella stessa abitazione ha sede parte del museo. Già a inizio Novecento la città aveva dedicato alla scultura uno spazio, il museo Dubois-Boucher, nel tempo riadattato, saccheggiato durante la guerra e infine chiuso.
Con l’annessione della casa in cui visse la famiglia Claudel e un’importante progettazione aggiuntiva nasce il nuovo spazio museale. Il complesso nell’insieme è di impatto, l’edifico appare un tutt’uno, il nuovo fuso nel vecchio e viceversa, che ricorda molto l’energia della nostra artista verso il futuro. Dalla stazione ferroviaria sono nemmeno quindici minuti a piedi nel centro di una cittadina che appare per lo più vuota, desolata, nel silenzio interrotto solo da alcune auto. Quindici sale portano alla conoscenza e all’approfondimento dell’opera di Claudel con un percorso che presenta la scultura ai tempi dell’artista attraverso sculture di altri autori e video: un interessante excursus sulla scultura negli spazi pubblici, l’opera di Paul Dubois, l’immagine della donna nell’arte in quei decenni, l’allegoria e il mito come moda di raffigurazione, i lavoratori, la scultura nella sfera privata e la raffigurazione del corpo in movimento. La sala numero dieci è lo spazio dedicato all’atelier di Auguste Rodin, luogo di apprendistato e di conoscenza per Camille e nella sala numero undici i fili del destino che incrociano qui, come in una continua reiterazione di epifanie, Camille e Alfred Boucher.
Le ultime quattro sale sono finalmente, è il caso di dirlo, dedicate a Camille: solo a lei. La sua opera di ritrattista, come autrice di La Valse e di L’âge mûr e il mondo che ruota attorno a Persée et la Gorgone. Le opere dell’artista non sono davvero molte, soprattutto se confrontate con quelle degli scultori che la precedono nelle prime undici sale, e anzitutto se si pensa alle opere di lei esposte al Museo Auguste Rodin nel cuore di Parigi. Tuttavia il fatto che in questo museo tutto il percorso sia concentrato sulla collocazione storica dell’opera di Claudel è rilevante. Certo, sarebbe stato importante un museo a Parigi che raccogliesse tutte le sue opere come un mausoleo che contenesse le sue spoglie, come avviene per Rodin, ma di fatto si va a tasselli. Anche le parole di Claudel giunte sino a noi sono aumentate: un fortuito rinvenimento ha permesso una edizione aggiornata del libro Corrispondenze: per Gallimard nel 2014 e poi per Abscondita nel 2020 è uscita una edizione ampliata delle lettere grazie al ritrovamento del carteggio con il critico d’arte belga Léon Gauchez, nella traduzione di Caterina Medici.
Gauchez e Claudel avevano sì un rapporto di lavoro molto professionale ma nelle lettere a lui, così come nella vita dell’artista, il personale fa capolino a ogni riga, coinvolgendo e spostando il mondo artistico nel privato e viceversa. Nonostante per la vita e per l’opera di Camille Claudel i tasselli pare stiano a disposizione del tempo e delle sue beffe, possiamo forse oggi considerare concluso il lavoro della clessidra e iniziare a vedere Camille per quello che è, un’artista atemporale. Noi, umani, non possiamo che cogliere, raccogliere, custodire, studiare e dare voce alla sua opera e alla sua vita, tutta la voce che sino a oggi non ha avuto, scavare quella coltre di silenzio che, per disparati e ignobili motivi, l’hanno lasciata muta. Risarcirla in parte di tutto lo splendore che le è stato sottratto.
(Doppiozero, 3 ottobre 2021)
di Giuseppina Massarelli
Avvicinarmi al culto della Dea ha significato per me stabilire un legame profondo con le antiche culture che la rappresentavano; non solo mi ha incuriosito, ma ha travolto la mia vita. Non voglio scrivere di Marija Gimbutas quanto piuttosto riflettere su come la conoscenza delle sue scoperte sia stata in grado di incidere un segno trasformativo dentro di me.
Marija Gimbutas, archeologa e linguista lituana, ha dedicato l’intera sua vita a mettere insieme testimonianze per far conoscere quella metà di storia taciuta e ha dovuto lottare per farla riconoscere al mondo intero, attraverso le testimonianze trovate andando sempre più indietro nel tempo e attraverso gli scavi sempre più giù nella terra.
Marija Gimbutas ha avuto il grande merito di far notare quanto sia importante ciò che «non è ritratto nell’arte Neolitica», ovvero la mancanza di immagini che idealizzano la potenza armata, il potere basato su crudeltà e violenza; non esistono nell’arte Neolitica immagini di nobili guerrieri o scene di battaglia, sono assenti sontuose sepolture di capitribù e ne ha dedotto che nella storia non ci sono sempre state guerre, intese come momenti di conquiste e sopraffazioni ma ci ha parlato di civiltà che erano in pace. A me piace dire che era un tempo in cui gli uomini e le donne vivevano in armonia con tutte le cose, loro stessi erano natura e le donne in quanto fertili erano riconosciute come superiori, fertili come la terra. Era una struttura sociale pacifica, matrilineare, egualitaria e anche la simbologia religiosa era strettamente connessa al femminile.
La domanda che mi sono fatta, quando sono entrata in contatto con la cultura della Dea grazie agli scritti di Gimbutas, è stata quanta di quella storia fosse rimasta dentro di me, e dentro noi tutte. Avevo sentito sin da subito che le mie cellule richiedevano giustizia. Nelle grotte e nell’umidità nasce la vita, così ci ha insegnato Marija Gimbutas. Per me non era una grotta ma una bottega, fucina d’ingegno e di ricerca; è lì che sono nata creativamente, plasmavo la terra umida e forgiavo oggetti inspirati alla cultura della Daunia, fino a quando i segni geometrici che incidevo sulla terracotta hanno cominciato a risuonare dentro di me, e si sono riempiti di significato quando li ho collegati alla cultura della Dea, comprendendo che i triangoli, le linee ondulate intervallate da foglie, i vortici o le semplici successioni di linee che avevo per anni decorato senza saperne il senso, prendevano corpo e significato, erano segni legati alla vita e alla trasformazione.
Il legame di quella cultura con la terra e le cose viventi era così forte e sacro da riprenderlo sui numerosi manufatti ritrovati, traducendosi in un vero e proprio linguaggio storico. Una scoperta a dir poco magica ha fatto sì che mi si aprisse un mondo e con esso avvenisse la mia trasformazione. Il motivo dominante nell’ideologia e nell’arte dell’antica Europa fa riferimento a un mutamento continuo, a un’energia vitale in costante movimento per la celebrazione della vita; tutto veniva significato su vasi o oggetti di vario ordine e forma, serpenti che strisciano, api e farfalle, spirali e vortici, energia che muove, si rigenera, le colonne della vita, una forma che si dissolve in un’altra, un inno continuo. La vita sulla terra è in continua trasformazione, in costante e ritmico cambiamento dalla creazione alla distruzione, dalla nascita alla morte e la Dea era il simbolo dell’unità di tutte le forme di vita esistenti in Natura in Europa. La simbologia della Dea dominò per tutto il Paleolitico e il Neolitico e nella fase seguente fu soppiantata da popolazioni di invasori arrivate con cavalli e armi. La Dea si ritirò allora nel profondo delle foreste o sulle vette delle montagne, lì sopravvisse fino ai giorni nostri poiché i cicli storici non si fermano mai; ora vediamo riemergere la Dea recandoci speranza per il futuro nel riportarci alle nostre antiche radici umane.
È grazie al lavoro di Marija Gimbutas che abbiamo delle chiavi di lettura di un passato che non ci è stato restituito ma che possiamo riscoprire.
Giuseppina Massarelli è tra le fondatrici del circolo culturale La Merlettaia a Foggia.
(https://vitaminevaganti.com/2021/09/25/marija-gimbutas-il-segno-trasformativo/, 25 settembre 2021)
di redazione Ohga!
Shamsia Hassani è la prima street artist e attivista donna a colorare gli edifici distrutti dai bombardamenti della sua città in Afghanistan. Per le strade di Kabul ha dipinto donne con gli occhi chiusi e senza bocca, ma che continuano, in una società patriarcale che non dà loro una voce, a rincorrere i propri sogni.
Shamsia Hassani, la prima street artist donna afgana, ha deciso di portare la sua arte per le strade di Kabul. Le sue protagoniste sono le donne dell’Afghanistan, ritratte tutte con gli occhi chiusi e senza bocca ma che continuano, in una società patriarcale che non dà loro una voce, a rincorrere i propri sogni.
Shamsia, figlia di rifugiati afgani, è nata in Iran trentatre anni fa e solo nel 2005 ha fatto ritorno nella sua terra. In Afghanistan ha frequentato l’università di belle arti di Kabul, dove adesso detiene la cattedra di scultura. Da sempre affascinata dalla pittura e dal disegno come mezzo di espressione, ha iniziato a sperimentare con i graffiti solo nel 2010. «Voglio usare un muro come tela perché solo così posso condividere il mio lavoro con le persone e introdurli all’arte» – commenta Shamsia in un’intervista per Vice – «perché la maggior parte di loro non ha la possibilità di andare in musei o gallerie».
Le donne di Shamsia vengono ritratte nei loro abiti tradizionali con gli occhi chiusi e senza bocca ma con degli strumenti musicali tra le mani, l’unico modo per poter far sentire ciò che provano. Attraverso loro, l’artista racconta ciò che accade in Afghanistan, spesso sotto gli occhi giudicanti di uomini che non approvano o non capiscono cosa stia facendo. Quasi come in un presagio, poco prima della conquista di Kabul da parte dei Talebani, Shamsia aveva dipinto una donna con un piano tra le braccia, il volto chino e un muro di uomini vestiti di nero dietro di sé. Con il ritorno dei Talebani nel paese, le donne potrebbero perdere quei pochi diritti acquisiti durante gli ultimi vent’anni, come studiare, lavorare o uscire senza dover essere accompagnate da un tutore maschio. Shamsia, in quanto artista, insegnante e donna, ha pensato di dover cancellare le sue tracce anche dai social ma le sue opere, condivise da migliaia di utenti in tutto il mondo, sono diventate virali. Così ha deciso con coraggio di continuare a postarle anche durante i giorni della caduta di Kabul.
Una donna in ginocchio, una intenta a suonare una chitarra e un’altra ancora su uno sfondo macchiato di sangue e poi, infine, una donna che stringe tra le mani la vista da una finestra. Forse è così che Shamsia vuole conservare il ricordo di casa sua che ha dovuto abbandonare per mettersi in salvo. «Carissimi, grazie per i messaggi e per aver pensato a me in questo momento» – scrive in uno dei suoi ultimi post su Instagram – «I vostri messaggi e commenti mostrano che l’umanità e la gentilezza sono ancora vive e non hanno confini. Grazie per il vostro supporto e la vostra preoccupazione, sono al sicuro».
Nascosta chissà dove, grazie ai social, Shamsia continua a raccontare le donne e quella società che le vuole sottomesse nella speranza che possa tornare presto a colorare le macerie della sua città dal vivo. «Voglio colorare i brutti ricordi della guerra e se coloro questi brutti ricordi, allora cancello la guerra dalla mente delle persone» – aveva commentato l’artista in un’intervista per Art Radar nel 2013 – «Forse posso rendere famoso l’Afghanistan per la sua arte, non per la sua guerra».
(Ohga!, www.ohga.it, 2 settembre 2021)
di Glenda Cinquegrana
Per la prima volta alla guida della prossima edizione dell’Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia c’è una donna italiana di profilo internazionale. Classe 1977, milanese, ma newyorchese d’adozione, Cecilia Alemani si è fatta notare con un curriculum di livello internazionale costruito non tanto sulle mostre museali, ma soprattutto su innovativi e poco convenzionali progetti di arte pubblica realizzati prima per la High Line di New York, poi per Frieze Projects di New York, infine Art Basel Cities. Un curriculum eccentrico, che le ha conferito già nel 2017 l’ingresso nella classifica Art Power 100 pubblicata dalla rivista Art Review, che enumera la lista dei più potenti dell’arte contemporanea.
Dal 2011 è curatrice di High Line Art, programma di arte pubblica legato alla High Line, il parco urbano costruito su una ferrovia sopraelevata a New York, che è divenuto il palcoscenico dei lavori site-specific commissionati ad artisti e artiste come El Anatsui, Phyllida Barlow, Carol Bove, Sheila Hicks, Rashid Johnson, Barbara Kruger, Zoe Leonard e Ed Ruscha. Questo progetto di lungo periodo ha creato la sua solida reputazione di curatrice impegnata a sviluppare il dibattito attorno a temi importanti come l’accessibilità dell’opera al pubblico e l’importanza dell’arte come strumento di creazione di consapevolezza per le comunità urbane.
A queste esperienze ha poi unito i brillanti progetti di arte pubblica realizzati per Art Basel – nel 2019 cura la performance di Alessandra Pirici nella piazza open-air della fiera – e la direzione artistica della prima edizione di Art Basel Cities, un complesso progetto di rilancio dell’ecosistema culturale urbano che sotto l’egida del marchio Art Basel ha trovato una primissima partnership di successo con la città di Buenos Aires. In quella occasione prepara una mostra a cielo aperto intitolata “Hopscotch (Il gioco del mondo)” ispirata alle formule combinatorie del capolavoro letterario di Cortázar, in cui presenta diciotto opere in stretto dialogo con i luoghi della città, collegando l’arte visiva, agli spazi urbani e le storie della metropoli in modi inaspettati.
Oltre alle collaborazioni con MoMA PS1 e Tate Modern di Londra, la sua reputazione è imprevedibilmente legata a progetti come No Soul For Sale, il festival di spazi indipendenti, organizzazioni non-profit e collettivi artistici che si è tenuto a X Initiative, spazio per alternativo in cui ha curato mostre di artisti come Keren Cytter, Hans Haacke, Christian Holstad. Il suo profilo combina understatement, brillantezza e sguardo laterale sull’arte. Per capire come si è calata nei nuovi panni di curatrice della cinquantanovesima Biennale l’abbiamo raggiunta in conference call a New York. La Alemani è sorridente, gentilissima; per una curatrice della sua preparazione ha un linguaggio di semplicità disarmante.
«Ricevere l’incarico di curare la più prestigiosa mostra internazionale d’arte contemporanea è una grande soddisfazione e al tempo stesso una grande responsabilità». Le sue parole sono un’allusione al fatto che il suo incarico è passato anche attraverso le forche caudine della pandemia, con il conseguente slittamento del progetto dal 2021 al 2022. La Alemani non è nuova a Venezia, essendo stata curatrice del Padiglione Italia nella Biennale nel 2017: la mostra “Il Mondo Magico”, con Adelita Husni-Bey, Giorgio Andreotta Calò e Roberto Cuoghi, è stata fra le più apprezzate degli ultimi anni. Più che continuità con quel lavoro, sottolinea la natura differente delle due mostre, l’una focalizzata sull’arte italiana, l’altra, specchio della complessa scena artistica internazionale. Il titolo della mostra “Il Latte dei Sogni”, ispirato alla pittrice surrealista Leonora Carrington, prende le mosse da una visione di re-incantesimo del mondo, onirica e femminile.
«La prospettiva femminile è certamente inerente al lavoro della Carrington da cui ho preso le mosse per costruire l’esposizione». Ma sul tema dello sguardo al femminile precisa che «il mio lavoro di curatrice si basa sul supporto agli artisti e alle artiste a prescindere da suddivisioni di genere o da possibili quote rosa». Prosegue spiegandoci i contenuti della mostra. «Oggi il mondo appare diviso tra ottimismo tecnologico, che promette il perfezionamento infinito del corpo umano attraverso la scienza, e lo spettro di una totale presa di controllo da parte delle macchine grazie all’automazione e all’intelligenza artificiale. Questa frattura è stata acuita ulteriormente dalla pandemia del Covid-19. Le ricerche di molti artisti oggi trovano delle risposte al presente celebrando la comunione con il non-umano, con l’animale, e con la terra; altri reagiscono alla dissoluzione di sistemi universali riscoprendo forme di conoscenza locali e nuove dimensioni identitarie». Gli artisti sono lo specchio delle inquietudini e le preoccupazioni del nostro tempo, che ci indicano chi e che cosa possiamo diventare.
(Forbes.it, 12 luglio 2021)
di Franca Fortunato
“Finirà anche la notte più buia e sorgerà il sole”, “ un desiderio di rigenerazione, di respiro, di risveglio”, “con le emergenze, la pandemia e l’isolamento ho sentito l’urgenza di raccogliermi in me stessa per concentrarmi e trovare le risorse per non farmi trascinare in una deriva di bruttura, insensatezza e odio”, “stretta di mano, carezza, bacio tutto scontato poco apprezzato eppure adesso tanto agognato l’abbraccio perduto di un anno passato col volto coperto da un filtro di veli solo uno sguardo smarrito supplica il ritorno al passato ad una vita di incontri per non restare distanti”, “la mia storia mi insegna che la creatività e la ricerca di bellezza sono salvifiche. La bellezza si espande nell’universo, arricchisce e rigenera”, “la natura non chiede permessi per nascere e fiorire”, “la vita non fa salti”, “torneremo a sorridere”, “salviamo il mondo”: sono queste alcune frasi che accompagnano le immagini della mostra di arte postale “Rigenerazione”, curata dalla critica d’arte Katia Ricci e allestita da Rosy Daniello della Merlettaia di Foggia in collaborazione con Le Città Vicine e inaugurata ieri nella sede dell’associazione, in diretta on line. Una mostra legata alla vita, ai sentimenti, ai pensieri, ai sogni, ai desideri, ai bisogni di “rinascenza” del dopo Covid, “di gioia di vivere, nonostante tutto e senza dimenticare il pericolo corso e i lutti”, di cambiamento, di trasformazione di sé e della realtà all’insegna del rispetto per la natura, accoglienza e cura reciproca, per non tornare alla “normalità” del prima ma per “fare sorgere un’aurora foriera di un nuovo e luminoso giorno per la civiltà”. È la natura, rigenerante e rigenerativa, bisognosa di attenzioni, di cure e guarigione, la protagonista della mostra, dove arte, musica e armonia si mescolano alla leggerezza del vivere. Sono cartoline per lo più di donne, spedite da ogni parte d’Italia, dove bellezza e creatività, simbolo di rigenerazione dell’anima, hanno il volto di donna. Donna che si tuffa nel mare e riemerge, donna con una grande rosa sul grembo, donna le cui lacrime riempiono gli oceani, donne che reggono il mondo con la cura e le relazioni umane, unica risorsa generativa di vita e di rinascita. Che cos’è l’arte postale? È una pratica artistica connessa alla vita che viaggia in una busta da città in città, da paese a paese, da continente a continente, tessendo relazioni interpersonali, scambi di pensieri, sentimenti, sensazioni, odori. Nata agli inizi degli anni Sessanta, da artisti desiderosi di fondere l’arte con la vita, ben presto si trasformò in una rete di artisti internazionali e si diffuse anche tra le donne diventando veicolo di consapevolezza della propria identità, del desiderio di significare sé stesse, di diffusione del femminismo. Nel 1975 un gruppo di donne inglesi cominciarono a spedirsi l’un l’altra piccoli lavori artistici attraverso le poste. “Noi cercavamo di unire aspetti apparentemente assai diversi- il privato, il domestico e il personale con il politico e sociale.” Si servivano di materiali poveri, vecchie scatole, abiti e cose riciclabili. L’arte postale è stata uno strumento di sensibilizzazione di lotta e di resistenza in tutti quei paesi dall’America latina a quelli dell’Est in cui vigevano regimi dittatoriali, fino alla sanguinosa guerra nei Balcani. Ha esplorato molte forme creative d’avanguardia: collage di oggetti di uso comune, immagini riciclate, francobolli veri o dipinti, poesie, musiche e immagini di musicisti come quello che nella mostra di Katia Ricci suona col violoncello un inno alla creatività. La bellezza ci salverà? Basta crederci.
(Il Quotidiano del Sud, 18 giugno 2021)
Redazione cultura
Mostre. Nella cornice del festival Brescia Photo, trentacinque sguardi per una statuaria femminile che cambi i connotati degli spazi pubblici
Il festival Brescia Photo si articola quest’anno intorno alla parola Patrimoni. Un argomento che, insieme alla conclusione dei lavori di restauro della Vittoria Alata, ha suggerito al gruppo di autrici dell’Associazione Donne Fotografe una riflessione sulla presenza – in realtà sulla reiterata assenza – della donna nella statuaria monumentale e negli spazi pubblici. Un vuoto che ha attraversato i secoli e «risuona» ancora oggi nelle nostre piazze e giardini. È nata così la mostra Scolpite, promossa dall’Associazione stessa e curata da Paola Riccardi (visitabile fino al 13 giugno a Palazzo Facchi), in cui trentacinque fotografe compongono un mosaico visivo, interpretando il tema con «virtuali memoriali» e seguendo liberamente l’impronta del loro linguaggio.
Così se Tiziana Aris rivisita la Vittoria alata sotto forma di Mater Universalis, dedicandola all’originaria Lucy, Patrizia Bonanzinga sceglie una statua acefala di Palazzo Ducale a Mantova, consegnandole il volto e il corpo di sua madre, ragazza 22enne nel 1946: la data non è casuale perché coincise con il voto femminile e, grazie a questo, con la nascita della Repubblica (l’omaggio è anche alla partigiana Bruna, Lidia Menapace). Antonella Monzoni con Il Sacrificio delle donne armene entra nel Memoriale del ricordo del Genocidio di Erevan, proponendo la scultura situata nel cortile che ritrae le vittime della deportazione.
E mentre Paola Mattioli s’interroga sulle presenze femminili «sacre» ed estreme a Milano, sempre apolidi, sospese tra il cielo e la terra, Melania Messina indaga l’infanzia trasformata in ex voto della Santuzza di Palermo (con un pensiero rivolto a Felicia Impastato). Antonella Gandini nel suo S/colpite riproduce un anonimo ritratto d’epoca, minacciato dall’inserimento di un coltello sulla scena (il riferimento è per Susy, accoltellata a Brescia nel 2020). Simona Filippini affida lo sguardo al corpo libero, che infrange i confini, della ballerina di danza classica e buto Andreana Notaro. E Anna Rosati ritrova una Biancaneve disneyana ma indipendente, principessa che invece di aspettare il tanto chiacchierato risveglio del principe, alza i tacchi ed esce di scena, andandosene per la sua strada.
(il manifesto, 28 maggio 2021)
di Lucia van der Post
C’è una storia molto nota sugli inizi della carriera della grande architetta francese Charlotte Perriand che fa capire perché così tante designer di talento siano state a lungo sottovalutate. A ventiquattro anni, Perriand fece domanda per andare a lavorare nello studio di Le Corbusier e fu rifiutata con queste parole: «Qui non ricamiamo cuscini». La storia racconta che, appena un mese dopo, gli arredi (in alluminio, acciaio cromato, vetro e pelle) che Perriand aveva creato per il suo appartamento-studio furono reinventati come angolo-bar in un’installazione al Salon d’Automne del 1927 a Parigi. Era un’estetica che incarnava la nuova “era delle macchine” e Le Corbusier ne rimase affascinato. Allora venne assunta e iniziò una collaborazione di dieci anni con il famoso architetto e il di lui cugino Pierre Jeanneret.
Nonostante il lavoro visionario che Perriand fece insieme a Le Corbusier − poi con il pittore francese Fernand Léger, negli anni Trenta, e con l’architetto Jean Prouvé nei Cinquanta − è solo di recente, qualche anno dopo la morte avvenuta nel 1999, che si è cominciato a capire l’importanza della sua figura e l’attualità del suo lavoro. Nel 2019, circa 476mila persone hanno visitato la grande retrospettiva a lei dedicata dalla Fondation Louis Vuitton con il sostegno di Cassina. Quest’anno, contestualmente alla 17esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, dal 22 maggio al 21 novembre, la Fondation Louis Vuitton esporrà, nel suo Espace di Venezia, il progetto Tritrianon (1937) di Perriand, un’abitazione basata su assemblaggi modulari, prodotta in serie e con un impatto minimo sull’ambiente, facendolo dialogare con Power Pack (1969), l’unità abitativa autosufficiente e trasportabile di Frank Gehry. La mostra Charlotte Perriand and I: converging designs by Frank Gehry and Charlotte Perriand vuole essere più di un excursus storico, piuttosto presentare soluzioni concrete per il mondo di oggi. A staffetta, dal 19 giugno, il Design Museum di Londra inaugurerà la personale Charlotte Perriand: The Modern Life. «Faremo vedere disegni e taccuini che illustrano il suo modo di lavorare», spiega il curatore Justin McGuirk. «Non stiamo parlando di un genio solitario, Perriand era prima di tutto una grande collaboratrice».
L’opera più significativa di Perriand, Les Arcs, il resort sciistico francese ideato da un collettivo di architetti da lei guidato, incarna questo spirito. Il progetto, che fu inaugurato nel 1968 e prese forma negli anni Settanta, mette in evidenza anche le sue capacità di interior designer e di paesaggista. Fu lei a proporre la serie di sinuose terrazze del resort che fendono come onde il pendio della montagna. L’architettura esprime e sintetizza una convinzione che la progettista nutrì per tutta la vita: il buon design fa vivere meglio e dovrebbe essere alla portata di tutti. «Les Arcs è la sintesi delle sue idee sulla vita e sul design», spiega ancora McGuirk. «È un resort che si rivolge a un turismo di massa, ma dotato di etica e di nobili principi; proponeva un certo stile di vita e offriva accesso allo sport e alla natura (per lei sempre molto importanti)».
Eppure, la carriera di Charlotte Perriand è stata a lungo oscurata dalla fama dei suoi colleghi uomini. Le Corbusier, in particolare, è stato spesso accreditato come creatore unico di progetti e pezzi di design frutto di una collaborazione. È stata Perriand, per esempio, a progettare le cucine modulari per le pionieristiche Unité d’Habitation de la Cité Radieuse di Le Corbusier a Marsiglia. Tre delle più importanti sedute ideate dallo studio Le Corbusier negli anni in cui Perriand ci lavorava – la Grand Confort, la Basculante e la Chaise Longue – sono state per anni attribuite solo a lui, ma fu lei a metterne a punto il design preciso.
Ora che Charlotte Perriand è riconosciuta a pieno titolo come una formidabile designer, il suo lavoro attira l’attenzione dei grandi collezionisti. Living with Charlotte Perriand, il recente libro curato dal mercante d’arte francese François Laffanour, per esempio, racconta le sue esperienze e quelle di altri collezionisti. Intanto, i pezzi originali di Perriand incassano somme importanti sul mercato internazionale. Di recente, il tavolo Eventail, un pezzo unico disegnato negli anni Settanta per il suo chalet, è stato valutato da settecentomila a un milione di euro da Sotheby’s, e un semplicissimo tavolo in legno è stato venduto, lo scorso novembre da Phillips, per 52.920 sterline. Un paradosso, forse, per chi voleva che il buon design fosse democratico. Oggi varie riedizioni sono prodotte da Cassina: dalla chaise longue Tokyo (1940), che ideò mentre viveva in Giappone, reinterpretando con il bambù la LC4 dello studio Le Corbusier, alla libreria modulare Nuage (1952/1956). I suoi arredi erano tutto ciò che il design francese di allora non riusciva a essere: leggeri, spesso realizzati con metodi industriali, colorati e, quando era il caso, modulari.
Laure Adler, autrice del volume Charlotte Perriand (Gallimard), dice che il lavoro della progettista aderiva ad alcuni valori fondamentali: «Ciò che ha creato è frutto di un istinto, di un talento artistico sostenuto da una ricerca tecnica di alta precisione. Forse è proprio questa combinazione di materiale e spirituale che chiamiamo grazia».
Ma Perriand non è l’unica ad avere ottenuto riconoscimenti tardivi. Women Design, il libro dell’ex gallerista Libby Sellers, è pieno di storie simili, e quella della grande Eileen Gray è una delle più illustri. Sellers racconta di come Le Corbusier fosse rimasto talmente scioccato nell’apprendere che la villa modernista E-1027 – capolavoro architettonico di Eileen Gray completato nel 1929 in Costa Azzurra – fosse stata progettata da una donna che non solo ne imbrattò (o dipinse, dipende dai punti di vista, ndr) le pareti, ma le costruì accanto il famoso Cabanon per tenerla d’occhio. Oggi, nel Regno Unito, Aram produce molti pezzi di Eileen Gray. Il suo proprietario, Zeev Aram racconta di aver visto alcuni suoi disegni nel 1973 in mostra alla Heinz Gallery di Londra e di esserne rimasto così colpito da voler rintracciare l’autore. Ha così incontrato la nipote di Eileen Gray, l’artista Prunella Clough, e concordato di rimettere in produzione diversi pezzi. Ora sono classici ricercatissimi: il tavolino E-1027 in vetro e tubolare d’acciaio e la poltrona Bibendum sono tra gli arredi più copiati al mondo.
Anche l’opera di una designer italiana, Gabriella Crespi (1922-2017), è stata oggetto di riscoperta e di rinascita. Di recente, Dimoregallery ha rieditato alcuni suoi tavoli e lampade creati tra il 1970 e il 1980. Crespi è stata una figura molto affascinante. Sposandosi, entrò a far parte dell’omonima famiglia di industriali, allora anche proprietaria del Corriere della Sera. Il suo stile ha un glamour molto sofisticato e le sue creazioni più famose sono i lucenti tavoli in bronzo e le lampade in acciaio e plexiglas che propone Nilufar. Crespi ha lavorato tanto con il bronzo e altri metalli e alcuni suoi tavoli Scultura, rivestiti in ottone, sono stati venduti da Phillips per 74.340 sterline.
L’artista contemporanea franco-svedese Ingrid Donat è conosciuta tra gli specialisti del settore, ma ancora poco nota ai più, anche perché lavora soprattutto per clienti privati per i quali crea interni straordinari progettati nel minimo dettaglio, dalle finiture delle pareti alle lampade. Oggi le sue creazioni vengono battute all’asta per cifre importanti (il suo cassettone Commode Galuchat è stato venduto da Phillips per 275.200 dollari). Molti sono pezzi unici, altri sono disponibili in edizioni limitate di otto esemplari e Carpenters Workshop Gallery, co-fondata da suo figlio Julien Lombrail, è l’unica a rappresentarla. Donat ha iniziato come scultrice e il suo Buffet Klimt Cinq Portes (2017), un piccolo armadio in bronzo ispirato a Gustav Klimt, illustra perfettamente la sua estetica che, influenzata da motivi tribali africani, combina forza e semplicità.
Un altro talento rappresentato da Carpenters Workshop Gallery è l’architetta, artista e designer americana Johanna Grawunder. È conosciuta soprattutto per le sue installazioni luminose, ma realizza anche tavoli e lavori su commissione. Ha perfezionato il suo talento collaborando con Ettore Sottsass per circa sedici anni e poi si è messa in proprio, partecipando nel 1995 al Salone del Mobile di Milano. «Ho usato la luce in un modo che non era mai stato proposto prima», dice. «Molto neon, molto plexiglas e fibra di vetro. Tutto provocatorio, un po’ sfrontato, non esattamente ciò che si definirebbe di buon gusto».
L’esperienza di Grawunder alle scuole superiori dice molto sul perché così tante donne abbiano dovuto aspettare a lungo un riconoscimento. Avrebbe voluto studiare disegno tecnico, una materia allora considerata adatta solo ai maschi. Riuscì a ottenere dal preside di poterla seguire a una condizione: che avrebbe imparato anche il cucito. Quella di Johanna Grawunder, però, è una storia positiva. Fa parte della schiera sempre più numerosa di donne che, incuranti di critiche e reazioni, creano qualcosa che richiede e ottiene attenzione, a prescindere dal genere.
(Il Sole 24 ore, 29 aprile 2021)
di Arianna Di Genova
Mostre. Alla Galleria nazionale d’arte moderna, la rassegna che si ispira a Carla Lonzi e ai suoi gesti di «rivolta», con centoventi opere e parte del suo archivio fotografico, per la prima volta fruibile
In un periodo di incertezze, costellato di onde anomale virali, malinconici nascondimenti dietro le tende delle proprie finestre, relazioni interrotte e spazi del mondo evaporati, alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma inaugura una mostra che invece rimanda a un «luogo aperto» e in continua costruzione: quello della presa di parola a partire da sé, in prima persona. Non un monologo interiore (che avrebbe il difetto della incomunicabilità e del sigillo psichico) ma la raccolta di sensazioni, immagini, dati, narrazioni, percorsi in soggettiva.
Una soggettiva che assume come prospettiva lo sguardo femminile, essendo le testimoni di questa disseminazione esperienziale tutte artiste, appartenenti a diverse generazioni. D’altronde, la pandemia è proprio alle donne che ha tolto la parola, il lavoro, la visibilità sociale, invertendo tragicamente la rotta di una trasformazione che si avviava verso la «cucitura» delle ferite della disparità di genere.
A fare da apripista a questo abecedario libero – che non prevede regole alfabetiche né rigide cronologie ma sposa l’andamento caotico e ordinato allo stesso tempo della creatività – è Carla Lonzi. È a lei che si riferisce, per assonanza elettiva, il bel titolo della mostra Io dico io, I say I, che si snoda dal salone centrale irradiandosi ovunque grazie alla cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini (visitabile fino al 23 maggio). Una rassegna che ha dovuto aspettare un anno slittando fino a oggi e che approfitta della «finestra gialla» del Lazio per comporre quella «molteplicità di rappresentazioni» che tessono i fili di una geografia conviviale con quasi centoventi opere e un coro polifonico di voci d’artista.
Per entrare nella «giostra dell’identità» dove il corpo non è mai un limite ma sempre uno sconfinamento, si varca la soglia delineata dall’architettura a mo’ di luminaria che si accende per le feste di Marinella Senatore (Remember the first time you saw your name, «ricorda la prima volta che hai visto il tuo nome») che aveva già ammaliato alla sfilata della maison Dior in Puglia.
A chiusura dell’itinerario carsico della mostra c’è – una volta affrontata la scala che regala altri spazi sospesi – l’archivio di Carla Lonzi: fotografie di quotidianità e arte che hanno composto un immaginario e che, per la prima volta, possono presentarsi al pubblico. Sono i meravigliosi tasselli di una storia che potrebbe anche far concepire una nuova museologia – il prezioso patrimonio è stato donato alla Galleria nazionale dal figlio Battista Lena e dal 2018 si sta procedendo all’inventario e all’indicizzazione che fino a ora prevede 99 voci bibliografiche.
Per terminare il puzzle di quella radicalità assunta come modello esistenziale, con un’attitudine più meditativa rispetto alla veloce visita di una esposizione, si possono consultare i materiali dell’archivio online su Google Arts & Culture, all’indirizzo g.co/womenup. Anche in quella «stanza tutta per sé» Lonzi comunque dialoga con le artiste contemporanee che attorniano le fotografie della sua collezione privata con i loro ultimi lavori (fra cui anche quello di Pippa Bacca, che fu violentata e uccisa in Turchia mentre viaggiava vestita innocentemente da sposa per la sua performance).
Passeggiando a ritroso nell’esposizione, come colonne portanti di «quel gesto generativo di rivolta» che caratterizzò l’essere al mondo di Lonzi, troviamo Origine di Carla Accardi (dedicato alle sue antenate) e il video «domestico» La conta di Marisa Merz (1967). Ma poi, dopo quelle attestazioni di conquista di spazi strappati a un dominio tutto maschile ancora nel decennio dei Sessanta (fra le «madri» ci sono anche Antonietta Raphaël Mafai, Carol Rama, Ketty La Rocca, Giosetta Fioroni, Elisa Montessori e Lisetta Carmi con le sue peregrinazioni intorno ai corpi nomadici), si dipanano altre «azioni» fondative. Per esempio, quella reiterata da Sabrina Mezzaqui per la trascrizione dei quaderni di Simone Weil, il parto di Silvia Giambrone (suggerito dal busto femminile rivestito con un body che accentua la connotazione sessuale con il «monte di Venere») o la scelta delle perle – ingigantite in Bruna Esposito e a cascata, a formare un corpetto, per Paola Pivi – come oggetto feticcio, dispositivo lunare e intrecciato alle profondità dell’inconscio. Qui contra nos recita invece lo specchio nobiliare in cui Marzia Migliora fa precipitare frammenti di storia recente (sarà lei oggi la protagonista della video-diretta per la rubrica Alt del manifesto, alle ore 18). E con un gioco di assenza e presenza, Gea Casolaro in El tiempo de alzar los ojos ricorda, infine, che quell’«io» assertivo, protagonista della rassegna, è in grado di far germinare in sé una moltitudine di soggetti.
(il manifesto, 9 marzo 2021)
di Grazia Rita Di Florio
L’anonimato è sempre stata una condizione necessaria per gli street artists, perché pitturare muri è considerata una pratica illegale, assimilata agli atti di vandalismo e il rischio di essere ricercati e sanzionati non è del tutto scongiurato (vedi la recente vicenda di Geco). Quando sono comparse le prime Superwomen nelle finestre cieche del centro storico di Firenze, è cominciata subito la caccia all’identità di Le Diesis. Ma di loro non sa quasi nulla.
All’inizio si pensava si trattasse di un singolo artista, non si era a conoscenza se fosse uomo o donna. Ora è noto che sono due amiche che operano in coppia e che sono fiorentine, una proviene dal mondo della comunicazione e l’altra dall’Accademia d’arte.
Per Le Diesis però l’anonimato è soprattutto un valore. «Non è importante chi siamo, quello che conta è il messaggio che vogliamo trasmettere con le nostre opere. Non siamo attrici o frontgirls di un band, siamo artiste e quello che esprimiamo è nell’opera. Restare nell’ombra è una forma di protezione della nostra privacy, ma anche un mezzo per dare risalto a quello che facciamo. Siamo circondati da smanie di protagonismo, lo vediamo ovunque, a noi non interessa mostrare chi siamo, per quello che realizziamo è irrilevante. Ci piace pensare che il nostro superpotere sia proprio l’invisibilità, perché ci rende molto più libere».
Voi però non dipingete muri ma utilizzate dei dipinti che poi attaccate nelle finestre cieche delle città. Siete illegali o di solito vi accordate con le amministrazioni locali?
Utilizziamo la tecnica del paste up. Prima realizziamo le nostre Superwomen in studio con acrilico su carta velina. In seguito le attacchiamo in alcune finestre o archi ciechi dei centri storici delle varie città in cui interveniamo. Abbiamo scelto di utilizzare le finestre cieche perché fanno da cornice naturale alle nostre opere, che possono anche interagire con chi le guarda come fossero persone affacciate, e strizzano l’occhio al passante con complicità. A parte l’anno scorso, in cui abbiamo realizzato con la Fondazione Il Cuore si scioglie, una campagna per promuovere la raccolta fondi dei progetti e delle iniziative di solidarietà, interveniamo sempre in spazi non legali, cercando di valorizzarli. La street art nasce illegale, l’arte urbana su commissione è un’altra cosa e ha origini ben più lontane, basti pensare ai murales realizzati già un secolo fa da Diego Rivera. Proprio in questi giorni siamo state segnalate a Firenze dove abbiamo attaccato alcune opere in occasione della mostra Superwomen. Che, ironia della sorte, non solo è patrocinata dal Comune di Firenze, ma è allestita al Mad (Murate Art District), uno degli spazi espositivi gestiti dall’amministrazione.
Secondo la nostra sensibilità, quando l’intervento di street art, seppur illegale è realizzato seguendo un criterio di estetica, l’irregolarità è una costruzione mentale. Per esempio, ci sono tantissimi cartelloni pubblicitari molto più invasivi, ma siccome sono in spazi legali sono consentiti.
Come vi siete conosciute e come siete arrivate alla street art? Incuriosisce che una persona che proviene dal mondo della comunicazione, evidentemente con doti per la pittura, sia approdata alla street art…
L’arte è sempre comunicazione! Quindi non c’è assolutamente niente di strano nel nostro progetto. La nostra forza sta esattamente nel congiungere questi due mondi, l’arte e la comunicazione, apparentemente distinti, per creare insieme qualcosa di unico. Quello ci accomuna è che siamo due amiche con una visione simile della vita e del cammino che stiamo percorrendo e con lo stesso impulso di voler trasmettere un messaggio importante attraverso la leggerezza, senza prendersi troppo sul serio. La street art è un mezzo di comunicazione con un’energia incredibile. Il fatto che si realizzi per strada è un motivo in più per veicolare messaggi positivi. Gli street artists hanno una grandissima responsabilità perché sono sotto gli occhi di tutti. Arrivare alla street art, quindi per noi è stata una conseguenza del nostro percorso interiore. L’idea delle Superwomen è nata quasi per gioco durante la visita di Arte Fiera a Bologna, a gennaio dello scorso anno. Avevamo ambedue voglia di creare qualcosa che ponesse al centro dell’attenzione le donne, e così un’idea ha tirato l’altra in modo del tutto naturale e istintivo. Abbiamo realizzato la prima incursione nella nostra Firenze, una delle città capofila della street art italiana, in occasione dell’8 marzo del 2019 attaccando 8 donne in altrettante finestre cieche del centro storico come un omaggio alle donne e come momento di riflessione per tutti. Sinceramente non ci aspettavamo il successo mediatico che abbiamo avuto. Questo ci ha incoraggiate a uscire con altrettante icone a Roma. Abbiamo disseminato di donne il Ghetto e Trastevere, e in seguito a Napoli, Bologna, Milano, Venezia, L’Aquila, Bari, Livorno.
Non praticate tagging, i vostri dipinti hanno due caratteristiche: una firma che è la S di Superwoman che può essere assimilata al tag ma pure allo stencil per l’uso della lettera e il gesto dell’occhiolino. La vostra idea è di contrapporre le Superwomen dotate di superpoteri al classico Superman. Vuole essere un messaggio femminista? Nel senso, voi vi ritenete femministe?
Partiamo dal fatto che l’umanità non è allenata a percepire le risorse che sono dentro ognuno di noi. Dovremmo tutti imparare ad amplificare le nostre capacità. Questo è un periodo di grandi cambiamenti, soprattutto per le donne che stanno sempre più prendendo coscienza delle loro possibilità. Quindi, se per femminismo intendiamo un percorso di risveglio della consapevolezza delle potenzialità femminili, allora sì, siamo femministe.
La domanda nasce dal fatto che i soggetti rappresentati sono quasi sempre figure femminili tra le più disparate, da Frida Kahlo a Margherita Hack, da Nefertiti a la Sora Lella, dalla Madonna a Vanessa Incontrada, Giovanna Botteri, Barbie e tantissime altre. Il messaggio che arriva è sicuramente positivo e incoraggiante: che ogni donna ha una sua potenzialità e una sua bellezza contro qualsiasi stereotipo e omologazione imposta dai modelli pubblicitari…
I criteri con cui scegliamo le donne da raffigurare sono i più disparati. Ci sono soggetti che ci ispirano particolare simpatia, come la Sora Lella, la Maga Magò, le ragazze niqab (che, in realtà, è il nostro autoritratto) e altri che rappresentano degli esempi. In ogni caso, l’opzione è sempre guidata dall’istinto e seguiamo questo flow che è accompagnato dal gioco e dal nostro divertimento. Senza nulla togliere al dato di fatto che ognuno di questi personaggi ha comunque dato tanto al mondo. Vuoi per impegno sociale, scientifico (Margherita Hack, Rita Levi Montalcini), artistico (Anna Magnani, Maria Callas, Alda Merini, Marina Abramovich, Frida).
Avete realizzato diverse mostre dal Museo Archeologico di Napoli all’ultima mostra a Firenze con un’esposizione al Semiottagono delle Murate, con due nuovi assi nella manica Freddie Mercury e Laura Pergolizzi, una Jimi Hendrix al femminile. Grazie a queste mostre ora siete conosciute un po’ dappertutto e avete raggiunto una certa legittimità culturale. È così?
L’arte è lo specchio dei suoi tempi. Negli anni ’70 l’intero tessuto sociale era permeato da uno spirito rivoluzionario che si contrapponeva ai tanti stereotipi dell’epoca. Oggi alcune motivazioni non hanno più ragione di essere, l’arte può prescindere da funzioni civili, divulgative, educative. Ormai la street art è completamente sdoganata all’interno della scena culturale italiana e internazionale, ma continua a conservare delle specificità grazie a un contatto più diretto, informale e quotidiano con lo spettatore. Con la maggiore libertà creativa e di espressione, riesce a spingersi laddove gli artisti più tradizionali sembrano avere il timore di avventurarsi. La rivoluzione di oggi è molto più sottile: prendere consapevolezza di se stessi. Per noi è importante attaccare opere per strada, ma anche esporre in un museo per far conoscere la street art proprio lì dove non te l’aspetti, cercando di creare un allestimento fresco che non snaturi il lavoro che fai in strada.
(Alias – il manifesto 30 gennaio 2021)
di Antonella Prota Giurleo
Il video della Libreria delle donne di Milano raccoglie lavori esposti alla Fabbrica del Vapore nell’ambito de “I talenti delle donne”
Recentemente, seguendo il suggerimento dell’amica critica e giornalista Cristina Rossi, ho avuto modo di guardare un video realizzato sull’esperienza artistica della Libreria delle donne di Milano. Nel video si documenta l’opera di artiste che hanno esposto nella Quarta vetrina della Libreria. Un lavoro di raccolta e di analisi che è stato poi presentato all’interno della mostra che, da aprile a giugno 2019, è stata esposta alla Fabbrica del Vapore di Milano e che è stata inserita all’interno dell’iniziativa “I talenti delle donne”, curata dall’assessore Del Corno.
Il catalogo, Vetrine di libertà, a cura di Francesca Pasini e di Chitra Cinzia Piloni, dà conto sia della mostra che della cartella di grafiche realizzata con opere di importanti artiste per sostenere la nascita della Libreria nel 1975.
Leonilde Carabba, allora tessera 3, ricorda i contatti e le relazioni con le artiste e con Perini, il serigrafo che si occupò della stampa in cambio di alcune cartelle. Nel catalogo, a segnare una storia che continua, sono riportate sia le immagini delle opere che il testo di presentazione di Lea Vergine.
In catalogo i testi di Lia Cigarini e di Luisa Muraro danno conto di una storia ormai quarantacinquennale mentre Francesca Pasini, che di questa storia fa parte, presenta ognuna delle artiste, una quarantina, che hanno dato forma e voce visiva a un’esperienza particolarmente interessante.
L’intero percorso espositivo è stato registrato da Egle Prati, Cristina Rossi, Chiara Mori e Alessandra Quaglia.
Scrive Francesca Pasini: «L’inaugurazione consiste in un incontro tra me, l’artista e il pubblico… Si scambiano domande, emozioni, idee… un’occasione preziosa e un passaggio critico importante».
Tenendo presente la necessità di restituzione del senso complessivo del progetto, e per ovvie ragioni di sintesi il montaggio, affidato a Gabriele Genchi, riporta stralci dell’inaugurazione di cinque artiste: Marta dell’Angelo, Sophie Ko, Elisa Sighicelli, Annie Ratti, Alessandra Caccia
La Quarta vetrina costituisce una modalità di presentazione di opere site specific fruibili sia all’esterno che all’interno ed è, come scrive la curatrice, «una finestra accesa che, nella notte, tiene compagnia, crea confidenza».
(Noi donne, 11 gennaio 2021)
Guarda il video https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/feminist-art-portraits-2020/
di Giannina Mura
Prima e unica pittrice italiana a vivere e lavorare in Russia da quasi trent’anni, Elide Cabassi coniuga le tradizioni artistiche dei due paesi in un’opera risolutamente libera e contemporanea. Non solo. Nel 2011, fonda nell’orfanotrofio La nostra casa di Mosca un laboratorio d’arte italiano dove risveglia la creatività di bambini affetti da disturbi psichici con una pedagogia centrata sulla bellezza. E che fa già storia. L’abbiamo raggiunta nella capitale russa in occasione della sua mostra Luoghi di confine al museo statale-Centro Culturale Integrazione A.N. Ostrovskij.
Nata nel 1963 in Val Trompia, cresciuta nel Piemonte contadino, formata artisticamente in Toscana, un lungo percorso l’ha portata fino a questa mostra. Quando ha capito che voleva esser pittrice?
Sin da piccola, ho avuto una fortissima attrazione per la bellezza della natura e dell’ambiente in cui crescevo. Ho sempre disegnato. Mia madre, sarta con grandissimo senso estetico e profonda cultura interiore, mi stimolava e mi spingeva a inviare i miei disegni a uno zio pittore. Ma la mia vocazione si è realmente manifestata all’Accademia di belle arti di Firenze, grazie all’incontro con uno degli ultimi maestri del novecento italiano, Goffredo Trovarelli. Ho capito allora che non potevo essere che pittrice. Dipingere è per me come un atto sacro. Coinvolge tutto il mio essere e anche il mio modo di vivere. La mia pittura ha bisogno di vita semplice, ascetica, severa, solitaria, fatta di poche cose. È una pittura sempre sul confine, dove s’incontrano gli opposti, terra, cielo, luce, tenebre, è come una vibrazione, che negli ultimi quadri riguarda soprattutto il confine tra la vita e la morte, e il nostro rapporto con l’invisibile. Ho dedicato la mostra alla mia famiglia. Sono molto legata alle mie radici italiane. Col mio trasferimento in Russia, l’unione tra le mie antiche e nuove radici ha portato la pittura verso immagini che sono come un abbraccio delle due culture.
Lei si è stabilita a Mosca nel 1992: cosa cercava?
Volevo ritrovare l’anima russa, la natura, il paesaggio e le grandi icone che avevo scoperto durante il mio anno a Mosca con una borsa di studio nel 1987/88. Mi aveva colpita l’aspetto mistico, profondo, ancora molto legato al valore simbolico della vita di questo popolo. C’è qui un modo viscerale di vivere l’arte, le persone se ne fanno letteralmente attraversare. Emblematica dell’anima russa, la poesia potentissima di Marina Cvetaeva, mi era allora indispensabile. Di lei mi affascinavano il coraggio, la libertà, e l’impeto, che corrispondeva al mio di quegli anni. Nel 1994 feci una mostra – Il paese dell’anima – proprio nella sua casa-museo, a Mosca. Opere dedicate a lei, nella dimora della sua infanzia.
Com’è cambiata la sua arte dopo il suo arrivo in Russia?
È diventata più calma. Ho ripreso i colori a olio, che avevo abbandonato per l’acrilico, e le diverse mostre che ho fatto nel Nord della Russia mi hanno introdotta al suo cromatismo. Il severo e laconico paesaggio russo mi ha anche aiutata a liberarmi, aprendomi a un movimento più lento ed essenziale. Le icone russe mi hanno riportata alla profondità delle forme, strutturate come sono in modo geometrico, per certi versi vicine all’arte astratta. In più, vi ho anche ritrovato il nostro Trecento e Quattrocento, e soprattutto quella vena bizantina persa da noi col Rinascimento. Una cultura immensa e profondissima, che le icone mi hanno fatto riscoprire, come se si chiudesse un cerchio…
Durante i bombardamenti americani dell’Iraq ha dipinto «Barriere» e quando i russi hanno bombardato la Cecenia ha realizzato «Rosso inverno», facendo della sua pittura una forma sublimata d’impegno politico. Lei stessa ha definito la sua arte come una «politica della bellezza». Cosa intende?
Se si considera che il degrado della bellezza ha sempre accompagnato quello della vita civile, la politica della bellezza consiste nel salvare quest’ultima dentro di sé e in tutto ciò che si fa, riuscendo così a recuperare un pezzo di mondo. Propongo la mia visione, e il pubblico la vive come un’oasi, nel senso di luce, trasparenza, silenzio. Rispondendo a una necessità umana molto forte, la bellezza ha un senso etico oltre che estetico. Corrisponde a un cammino interiore.
Ne «Il sacrificio di Ifigenia» la bellezza appare sospesa tra immolazione e resurrezione. Cosa l’ha portata a interessarsi a questa figura?
Ifigenia rappresenta la bellezza pura e vulnerabile al tempo stesso. Il suo corpo di bambina tutto bianco con quel cordoncino rosso, si può ferire in qualsiasi modo, ha le mani legate, è incapace di difendersi. In questo corpo immolato, c’è tutta l’umanità fragilizzata dal sacrificio della sua parte migliore. Ci sono i migranti che muoiono annegati, le donne violentate… La vulnerabilità umana mi tocca profondamente, è anche legata a un episodio della mia infanzia. Avevo cinque anni, mia madre, già ammalata e debolissima, urtata da un cane, cadde davanti a me. Ho sentito allora tutta la fragilità dell’esistenza e l’impotenza di non poterla aiutare a rialzarsi. Questa sensazione di esser minuscola davanti alle grandi sofferenze della vita continua ad accompagnarmi. La sento viva anche con i bambini dell’orfanotrofio. Davanti al loro destino tragico, faccio tutto il possibile, ma so che sono segnati per la vita.
Fondare un laboratorio d’arte in un orfanotrofio per bambini affetti da disagi psichici non è molto comune per un’artista né a Mosca né altrove. Come le è venuta l’idea?
Il mio scopo era di portare la bellezza dove ce ne fosse stato più bisogno. E, attraverso di essa, offrire ai bambini un metodo e gli strumenti per aiutarli a vederla e a crearla a loro volta. Dopo anni di ricerche, ho trovato l’orfanatrofio giusto: il direttore ha creduto nel mio progetto, concretizzato poi grazie al sostegno degli italiani di Mosca, all’associazione femminile Asi e a diverse imprese e privati che continuano a collaborare. Questo laboratorio è unico nella storia della Russia, anche perché aggrega italiani e russi per portare la gioia in un luogo di sofferenza. È uno spazio creato appositamente per il benessere, composto di materiali naturali, oggetti, musica, giochi, libri, tutto ruota intorno al perno della bellezza. I bambini vi s’immergono con grande piacere. Mi prendo del tempo per seguire ognuno di loro personalmente. Sono la maestra silenziosa che facilita la loro creatività, dando loro tutto quello di cui hanno bisogno. Così, si sentono ascoltati e liberi di esprimersi senza barriere. E se con certi bambini, troppo feriti o ammalati, il lavoro resta difficile, con molti altri i risultati sono incoraggianti.
Lo dimostra l’esposizione dei suoi allievi intitolata, appunto, «Dipingere la bellezza», che lei ha voluto in parallelo alla sua…
Sì, un bambino come Ruslan, per esempio, è stato letteralmente salvato dal manicomio dalla sua passione per l’arte. L’aver imparato a dipingere e disegnare ha stimolato la sua guarigione, tanto che da quattro anni non prende più medicine. Lo seguo sempre da molto vicino. E credo che sia valsa la pena di aver creato questo laboratorio anche solo per lui.
(il manifesto, 24 novembre 2020)
di Francesca Bonazzoli
È una fortuna che mostre e musei siano (per ora) rimasti aperti. Poter entrare a Palazzo Reale e visitare da oggi la nuova rassegna «Divine e Avanguardie» è un piacere che risolleva l’umore. Dentro le sale (sicure e controllate) l’atmosfera avvolgente delle luci basse, i colori accesi della pittura russa, le tante storie curiose raccontate attraverso didascalie ben scritte, offrono qualche ora di impagabile svago. La mostra è dedicata alle donne nell’arte russa dal XIV al XX secolo in un percorso di novanta opere dal museo di Stato russo di San Pietroburgo, scandito in otto capitoli. Il colore della moquette a pavimento distingue le due grandi sezioni: il grigio delle sale iniziali segnala che il tema femminile è l’oggetto delle opere esposte; il rosso della parte finale indica invece che tutti i lavori sono stati realizzati da artiste.
Si comincia con le icone dove Madonne (la Madre di Cristo è la protettrice della Russia) e sante rilucenti di oro inculcavano a chi le guardava l’idea della donna santa e madre, pura e sacra. E come l’immagine riflessa nello specchio, la sala successiva presenta una parata di zarine, figure quasi altrettanto divine che salgono al potere con una propria identità grazie alle riforme di Pietro il Grande: è dopo la sua morte nel 1725 che ha infatti inizio il periodo del regno al femminile. L’icona assoluta è Caterina la Grande di cui sono presenti due ritratti: quello ufficiale, nella massima esibizione del potere; e quello da anziana, con i capelli grigi che sfuggono dal cappello.
Il percorso porta poi alle contadine che condivisero con gli uomini fino al 1861 la condizione di servi della gleba, ma se possibile con una vita ancora più dura perché subordinate anche alle rigide norme patriarcali, illustrate in alcuni quadri della sezione dedicata alla famiglia. Per esempio «Presentazione della promessa sposa», di Grigorij Mjasoedov, ritrae il rito umiliante dell’osservazione scrupolosa della candidata sposa, nuda davanti ai futuri parenti. È solo con la Rivoluzione del 1917 che si arriva alla parità dei diritti e le donne lavoratrici, che ora faticano nei campi come in fabbrica, vengono trasformate in eroine patriottiche. Nel campo dell’arte, personalità come Natalija Goncharova, Olga Rozanova o Liubov’ Popova conquistano il ruolo di comprimarie nel fertile terreno delle Avanguardie che ispirano anche l’arte europea: alcuni di questi nomi sono proprio quelli riscoperti dalla critica Lea Vergine, da poco scomparsa, in occasione della storica mostra allestita nel 1980, sempre a Palazzo Reale.
Infine arriva il 1932, quando il Partito impone il linguaggio unico del Realismo socialista e le altre forme di creatività vengono represse. La mostra si conclude quindi con il modello (e il video della sua realizzazione in scala monumentale) della celeberrima scultura di Vera Mukhina «L’operaio e la kolkoziana» per il padiglione dell’URSS all’Expo del 1937 a Parigi, dove fronteggiava l’aquila del Reich.
(Corriere della Sera – Milano, 28 ottobre 2020)
di Gina X
Nella settimana 8-13 settembre 2020, in occasione dell’Art Week, la Casa degli Artisti di Milano, prende il nome di: Casa delle Artiste, degli artisti. Ad opera di Gina X (Anusc Castiglioni, Annalisa Cattani, Paola Gaggiotti, Stefania Galegati, Chiara Longo, Valeria Manzi, Concetta Modica, Francesca Pasini, Chiara Pergola, Ginevra Quadrio Curzio, Susanna Ravelli, Giulia Restifo, Gabi Scardi, Daniela Simoncini, Uliana Zanetti).
Gina X è un gruppo inclusivo di artiste, curatrici, critiche che s’interroga sull’urgenza del rapporto in presenza. Si è formato nel settembre 2019 dopo l’invito a passare due giorni, al centro di resistenza culturale in memoria Novella Guerra a Imola, semplicemente per parlare e dormici su una notte. Un paradossale riprendersi del tempo da perdere, strappandolo al dovere, all’efficientismo, al conveniente, alla logica, in cui viviamo e che non condividiamo.
Da quell’incontro – frutto di mesi di confronto tra le organizzatrici e ospiti Stefania Galegati e Annalisa Cattani, per individuare le partecipanti – si delineano stimoli e un nome GINA, che è quello della madre di Stefania, mentre Novella Guerra è della madre di Annalisa.
Data la bella, seppur breve, esperienza di condivisione, gli incontri sono continuati, ognuna con chi aveva vicina. Si voleva evitare la “compromissione” dei media e dell’online, ma il Covid 19 l’ha reso necessario.
Questa imprevista esperienza online si è comunque rivelata positiva, il desiderio di un rapporto in presenza non si è esaudito nel virtuale, ha, invece, indicato la sua attualità. Dall’iniziale confronto sulle priorità personali da mettere in gioco, in un secondo tempo la discussione si è focalizzata sul lavoro comune sul linguaggio, che si è deciso di rendere pubblico con un primo progetto alla Casa degli Artisti di Milano.
Su questo tema i dibattiti irrisolti, presenti e passati, sono tantissimi; oggi più di ieri preda di involuzioni e regressioni, sono la vera emergenza culturale.
Il primo intervento si è appuntato sul nome stesso del luogo destinato ad ospitarlo; che dopo essere stato Casa dei Pittori e in seguito Casa degli Artisti, si arricchisce e diventa, per una settimana, Casa delle Artiste, degli Artisti. Con questa ridefinizione Gina X dà un segno, felice e costruttivo, della propria presenza, inserendosi nello stesso tempo in modo propositivo nelle dinamiche cittadine; si esprime inoltre implicitamente sui cambiamenti avvenuti e su quelli ancora necessari rispetto alle tematiche di genere.
Un arazzo con la nuova denominazione, appositamente realizzato, segnalerà l’ingresso della “Casa delle Artiste, degli Artisti”, mentre nella navata del pianoterra sarà esposta l’opera Regalami una parola, che è il risultato della richiesta a oltre trecento donne e uomini di inviare una parola, per costruire un luogo, invece che con i mattoni, con le parole.
Ripensando ai cartigli che affiorano nei dipinti antichi, si sono realizzati 5 nastri di carta millimetrata lunghi oltre 10 m, sui quali sono state dipinte a mano, con un normografo, le parole ricevute. La carta millimetrata allude al progetto di un’architettura, ma per una coincidenza significativa ricorda alcuni disegni di Luciano Fabro, per decenni prestigioso abitante della Casa degli Artisti. Attorno alla mostra si svilupperanno altri interventi, prima di tutto l’attrice Elsa Bossi leggerà le parole trascritte in ordine di arrivo in modo da evocare il tempo di una relazione.
Nell’ambito del progetto Casa delle Artiste, degli Artisti Gina X ha anche invitato le artiste Laura Malacart e Concetta Modica a presentare una performancein cui troveranno espressione temi di forte risonanza attuale: alla radice delle azioni ci saranno, rispettivamente, il rapporto tra linguaggio e storia sociale, e l’inscindibilità tra sguardo e parola nella poesia e nell’arte.
Casa delle Artiste, degli Artisti comprende infine un laboratorio per bambine, bambini e adulte, condotto da Paola Gaggiotti e Anusc Castiglioni.
Il progetto risponde allo stimolo dato dal programma del Comune di Milano I talenti delle Donne.
Si svolge inoltre in sinergia con la riapertura di Casa degli Artisti e il rientro di artiste e artisti in residenza.
Dal 8 al 13 settembre, durante l’intera settimana sarà inoltre possibile organizzare studio visit con le artiste e gli artisti in residenza alla Casa, scrivendo una mail a coordinamento@casadegliartisti.org.
Gli artisti invitati sono Peter Welz, Gianni Caravaggio, Luca Pozzi, Luca Scarlini e Pietro Coletta, le artiste selezionate su open call sono Camilla Alberti e Eleonora Roaro, le artiste del progetto speciale “Archivio” sono: Chiara Francesca Longo e Rebecca Moccia.
Programma Casa delle Artiste, degli Artisti
del gruppo Gina X
8 settembre ore 17:00 – 22:00: opening e lettura a cura di Elsa Bossi
9 settembre ore 18-20: performance Concetta Modica Tessere sguardi
10 settembre ore 18-20: performance Laura Malacart Dancing the answers: citizenship, re-thinking histories, art practice as resistance
11 settembre ore 18-20: performance Concetta Modica Tessere sguardi
12 settembre ore 14:30 – 16:00 e 17:00 – 18:30: 2 laboratori per bambine, bambini e adulte condotti da Paola Gaggiotti
Anteprima stampa Casa delle Artiste, degli Artisti
Preview stampa: 8 settembre ore 12:00 – 13:00
(www.libreriadelledonne,it, 4 settembre 2020)
di Francesca Pasini
Quarta Vetrina è il programma d’arte contemporanea della Liberia delle donne di Milano, ideato da Corrado Levi, proseguito da Donatella Franchi e, dal 2015, da Francesca Pasini che ha raccolto 31 artiste, con le quali ha ideato per Libreria delle donne e Comune di Milano la mostra Vetrine di Libertà (Fabbrica del Vapore di Milano, 2019, catalogo Nottetempo).
I dialoghi durante gli opening sono stati videoregistrati e Cristina Rossi, con Chiara Mori e Alessandra Quaglia, ha realizzato un documentario che sarà presentato prossimamente.
La stagione 2020, inserita nel palinsesto I talenti delle Donne del Comune di Milano, doveva iniziare il 25 marzo con la Vetrina di Paola Gaggiotti, Le immagini che restano. Il Covid-19 l’ha bloccata. Che fare? La risposta in questo dialogo fra la curatrice e l’artista.
Abbiamo aspettato: quando è stato possibile uscire di casa, abbiamo scelto di usare il lato esterno della vetrina, così dal 25 giugno chi passa in via Pietro Calvi 29 vede l’opera. A settembre ci daremo appuntamento dentro, per vederla dall’altro lato e per parlarne insieme. Credo che sia stata proprio l’idea del dialogo a farti decidere di parlare di una cosa così difficile da dire. Dopo il primo incontro, mentre ti salutavo davanti all’edicola sotto casa, hai detto: “Voglio parlarti di una cosa che non ho detto a nessuno: da piccola ho subito violenza”. Mi sono zittita per qualche minuto. Poi sono riuscita a chiederti: dove? Quando? Mi hai detto poche cose, ci siamo salutate. Perché hai deciso di dire proprio a me quello che ti era successo?
Quando abbiamo iniziato a parlare di un mio intervento alla Quarta Vetrina mi hai suggerito di provare a osare. Mi sono così chiesta cosa non avevo ancora osato fino a quel momento. Interrompere un silenzio durato quarant’anni mi è sembrata l’azione più spregiudicata da compiere. Un gesto intimo e politico allo stesso tempo. Il fatto che a chiedermelo fossi tu, intellettuale e donna vicina alle donne, mi ha rassicurata sul non sentirmi sola nel farlo.
Ero rimasta colpita dal fatto che all’Istituto dei Tumori, dove lavoravi, l’arte è una Cura Palliativa, e mi ero detta: lo è sempre anche quando si sta bene. Mi piaceva la scommessa di toglierla dalla terapia e inserirla nella salute quotidiana di tutti e tutte. Ma ora, senza il dialogo, sei veramente “in vetrina” e le immagini restano di nuovo senza parole.
L’aver lavorato in un ospedale con pazienti oncologici adolescenti mi ha messo di fronte alla sfida di usare l’arte per esprimere “l’incidente” senza ricorrere a spiegazioni, ma con un gesto inventivo, un po’ poetico. Mi sono posta le stesse domande che rivolgevo a loro per aiutarli a pensare a progetti d’arte partecipata. Ho scelto di raccontare il mio incidente attraverso le immagini che mi sono rimaste in mente di quel giorno, sostanzialmente di quella strada. In un primo momento volevo ripercorrerla, fotografare gli scorci, poi l’ho guardata con Google street view e quella visione astratta e desolata si è adattata ai miei ricordi più della strada vera.
Mettere in vetrina alcune vedute, incorniciate e appese su una parete ricoperta di tappezzeria simile a quella della mia camera di bambina, mi ha fatto capire che interiormente mi ero “arredata” il trauma. La necessità di separare la visione esterna e interna della vetrina è diventata una chiave di lettura: da fuori il trauma si può solo intuire. Solo entrando lo posso raccontare.
Sembra una città, vuota, non ci sono persone, biciclette, carte per terra. Se so che sono le tracce di un trauma hanno un significato, ma se non lo so e le guardo da fuori, mi sembrano la solitudine anonima della provincia. La duplice visione tra dentro e fuori è però anche una visione dell’intimità tipica dell’arte. Perché vuoi raccontare la violenza in modo anonimo?
Sono sempre stata attratta da tutte quelle opere che suggeriscono e non svelano completamente. In quello spazio di incertezza lo spettatore può confondere e sovrapporre la sua storia con quella dell’autore. Faccio così in modo che il mio lavoro sia un collettore di emozioni dove tutti possono ritrovarsi. Se avessi esplicitato i fatti, la mia storia sarebbe diventata un caso o un esempio e io mi sarei ritrovata di nuovo ad essere la protagonista di qualcosa che non voglio rivivere, lasciando chi guarda al di fuori del dramma o, peggio ancora, dandogli la possibilità di avvicinarsi con compassione al lavoro.
A settembre, quando ci sarà il dialogo, i disegni ti aiuteranno riviverla senza sentirti sola?
Normalmente associo la solitudine alla quiete; i disegni saranno sicuramente un appiglio, è la mia personale iconografia della vulnerabilità. Guardarli mi fa sentire più fragile, ma, paradossalmente, io che disegno la mia fragilità sono più forte di chiunque necessiti dello strumento della sopraffazione per potersi affermare. E qui torniamo all’inizio del nostro incontro, quando tu, colpita da alcuni miei racconti sul tema dell’abuso, mi hai suggerito la Libreria come luogo dove per poterne parlare in sicurezza, con verità. A settembre, Francesca, lo faremo certamente.
(www.artribune.com, 28 luglio 2020)