di redazione Ohga!
Shamsia Hassani è la prima street artist e attivista donna a colorare gli edifici distrutti dai bombardamenti della sua città in Afghanistan. Per le strade di Kabul ha dipinto donne con gli occhi chiusi e senza bocca, ma che continuano, in una società patriarcale che non dà loro una voce, a rincorrere i propri sogni.
Shamsia Hassani, la prima street artist donna afgana, ha deciso di portare la sua arte per le strade di Kabul. Le sue protagoniste sono le donne dell’Afghanistan, ritratte tutte con gli occhi chiusi e senza bocca ma che continuano, in una società patriarcale che non dà loro una voce, a rincorrere i propri sogni.
Shamsia, figlia di rifugiati afgani, è nata in Iran trentatre anni fa e solo nel 2005 ha fatto ritorno nella sua terra. In Afghanistan ha frequentato l’università di belle arti di Kabul, dove adesso detiene la cattedra di scultura. Da sempre affascinata dalla pittura e dal disegno come mezzo di espressione, ha iniziato a sperimentare con i graffiti solo nel 2010. «Voglio usare un muro come tela perché solo così posso condividere il mio lavoro con le persone e introdurli all’arte» – commenta Shamsia in un’intervista per Vice – «perché la maggior parte di loro non ha la possibilità di andare in musei o gallerie».
Le donne di Shamsia vengono ritratte nei loro abiti tradizionali con gli occhi chiusi e senza bocca ma con degli strumenti musicali tra le mani, l’unico modo per poter far sentire ciò che provano. Attraverso loro, l’artista racconta ciò che accade in Afghanistan, spesso sotto gli occhi giudicanti di uomini che non approvano o non capiscono cosa stia facendo. Quasi come in un presagio, poco prima della conquista di Kabul da parte dei Talebani, Shamsia aveva dipinto una donna con un piano tra le braccia, il volto chino e un muro di uomini vestiti di nero dietro di sé. Con il ritorno dei Talebani nel paese, le donne potrebbero perdere quei pochi diritti acquisiti durante gli ultimi vent’anni, come studiare, lavorare o uscire senza dover essere accompagnate da un tutore maschio. Shamsia, in quanto artista, insegnante e donna, ha pensato di dover cancellare le sue tracce anche dai social ma le sue opere, condivise da migliaia di utenti in tutto il mondo, sono diventate virali. Così ha deciso con coraggio di continuare a postarle anche durante i giorni della caduta di Kabul.
Una donna in ginocchio, una intenta a suonare una chitarra e un’altra ancora su uno sfondo macchiato di sangue e poi, infine, una donna che stringe tra le mani la vista da una finestra. Forse è così che Shamsia vuole conservare il ricordo di casa sua che ha dovuto abbandonare per mettersi in salvo. «Carissimi, grazie per i messaggi e per aver pensato a me in questo momento» – scrive in uno dei suoi ultimi post su Instagram – «I vostri messaggi e commenti mostrano che l’umanità e la gentilezza sono ancora vive e non hanno confini. Grazie per il vostro supporto e la vostra preoccupazione, sono al sicuro».
Nascosta chissà dove, grazie ai social, Shamsia continua a raccontare le donne e quella società che le vuole sottomesse nella speranza che possa tornare presto a colorare le macerie della sua città dal vivo. «Voglio colorare i brutti ricordi della guerra e se coloro questi brutti ricordi, allora cancello la guerra dalla mente delle persone» – aveva commentato l’artista in un’intervista per Art Radar nel 2013 – «Forse posso rendere famoso l’Afghanistan per la sua arte, non per la sua guerra».
(Ohga!, www.ohga.it, 2 settembre 2021)
di Glenda Cinquegrana
Per la prima volta alla guida della prossima edizione dell’Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia c’è una donna italiana di profilo internazionale. Classe 1977, milanese, ma newyorchese d’adozione, Cecilia Alemani si è fatta notare con un curriculum di livello internazionale costruito non tanto sulle mostre museali, ma soprattutto su innovativi e poco convenzionali progetti di arte pubblica realizzati prima per la High Line di New York, poi per Frieze Projects di New York, infine Art Basel Cities. Un curriculum eccentrico, che le ha conferito già nel 2017 l’ingresso nella classifica Art Power 100 pubblicata dalla rivista Art Review, che enumera la lista dei più potenti dell’arte contemporanea.
Dal 2011 è curatrice di High Line Art, programma di arte pubblica legato alla High Line, il parco urbano costruito su una ferrovia sopraelevata a New York, che è divenuto il palcoscenico dei lavori site-specific commissionati ad artisti e artiste come El Anatsui, Phyllida Barlow, Carol Bove, Sheila Hicks, Rashid Johnson, Barbara Kruger, Zoe Leonard e Ed Ruscha. Questo progetto di lungo periodo ha creato la sua solida reputazione di curatrice impegnata a sviluppare il dibattito attorno a temi importanti come l’accessibilità dell’opera al pubblico e l’importanza dell’arte come strumento di creazione di consapevolezza per le comunità urbane.
A queste esperienze ha poi unito i brillanti progetti di arte pubblica realizzati per Art Basel – nel 2019 cura la performance di Alessandra Pirici nella piazza open-air della fiera – e la direzione artistica della prima edizione di Art Basel Cities, un complesso progetto di rilancio dell’ecosistema culturale urbano che sotto l’egida del marchio Art Basel ha trovato una primissima partnership di successo con la città di Buenos Aires. In quella occasione prepara una mostra a cielo aperto intitolata “Hopscotch (Il gioco del mondo)” ispirata alle formule combinatorie del capolavoro letterario di Cortázar, in cui presenta diciotto opere in stretto dialogo con i luoghi della città, collegando l’arte visiva, agli spazi urbani e le storie della metropoli in modi inaspettati.
Oltre alle collaborazioni con MoMA PS1 e Tate Modern di Londra, la sua reputazione è imprevedibilmente legata a progetti come No Soul For Sale, il festival di spazi indipendenti, organizzazioni non-profit e collettivi artistici che si è tenuto a X Initiative, spazio per alternativo in cui ha curato mostre di artisti come Keren Cytter, Hans Haacke, Christian Holstad. Il suo profilo combina understatement, brillantezza e sguardo laterale sull’arte. Per capire come si è calata nei nuovi panni di curatrice della cinquantanovesima Biennale l’abbiamo raggiunta in conference call a New York. La Alemani è sorridente, gentilissima; per una curatrice della sua preparazione ha un linguaggio di semplicità disarmante.
«Ricevere l’incarico di curare la più prestigiosa mostra internazionale d’arte contemporanea è una grande soddisfazione e al tempo stesso una grande responsabilità». Le sue parole sono un’allusione al fatto che il suo incarico è passato anche attraverso le forche caudine della pandemia, con il conseguente slittamento del progetto dal 2021 al 2022. La Alemani non è nuova a Venezia, essendo stata curatrice del Padiglione Italia nella Biennale nel 2017: la mostra “Il Mondo Magico”, con Adelita Husni-Bey, Giorgio Andreotta Calò e Roberto Cuoghi, è stata fra le più apprezzate degli ultimi anni. Più che continuità con quel lavoro, sottolinea la natura differente delle due mostre, l’una focalizzata sull’arte italiana, l’altra, specchio della complessa scena artistica internazionale. Il titolo della mostra “Il Latte dei Sogni”, ispirato alla pittrice surrealista Leonora Carrington, prende le mosse da una visione di re-incantesimo del mondo, onirica e femminile.
«La prospettiva femminile è certamente inerente al lavoro della Carrington da cui ho preso le mosse per costruire l’esposizione». Ma sul tema dello sguardo al femminile precisa che «il mio lavoro di curatrice si basa sul supporto agli artisti e alle artiste a prescindere da suddivisioni di genere o da possibili quote rosa». Prosegue spiegandoci i contenuti della mostra. «Oggi il mondo appare diviso tra ottimismo tecnologico, che promette il perfezionamento infinito del corpo umano attraverso la scienza, e lo spettro di una totale presa di controllo da parte delle macchine grazie all’automazione e all’intelligenza artificiale. Questa frattura è stata acuita ulteriormente dalla pandemia del Covid-19. Le ricerche di molti artisti oggi trovano delle risposte al presente celebrando la comunione con il non-umano, con l’animale, e con la terra; altri reagiscono alla dissoluzione di sistemi universali riscoprendo forme di conoscenza locali e nuove dimensioni identitarie». Gli artisti sono lo specchio delle inquietudini e le preoccupazioni del nostro tempo, che ci indicano chi e che cosa possiamo diventare.
(Forbes.it, 12 luglio 2021)
di Franca Fortunato
“Finirà anche la notte più buia e sorgerà il sole”, “ un desiderio di rigenerazione, di respiro, di risveglio”, “con le emergenze, la pandemia e l’isolamento ho sentito l’urgenza di raccogliermi in me stessa per concentrarmi e trovare le risorse per non farmi trascinare in una deriva di bruttura, insensatezza e odio”, “stretta di mano, carezza, bacio tutto scontato poco apprezzato eppure adesso tanto agognato l’abbraccio perduto di un anno passato col volto coperto da un filtro di veli solo uno sguardo smarrito supplica il ritorno al passato ad una vita di incontri per non restare distanti”, “la mia storia mi insegna che la creatività e la ricerca di bellezza sono salvifiche. La bellezza si espande nell’universo, arricchisce e rigenera”, “la natura non chiede permessi per nascere e fiorire”, “la vita non fa salti”, “torneremo a sorridere”, “salviamo il mondo”: sono queste alcune frasi che accompagnano le immagini della mostra di arte postale “Rigenerazione”, curata dalla critica d’arte Katia Ricci e allestita da Rosy Daniello della Merlettaia di Foggia in collaborazione con Le Città Vicine e inaugurata ieri nella sede dell’associazione, in diretta on line. Una mostra legata alla vita, ai sentimenti, ai pensieri, ai sogni, ai desideri, ai bisogni di “rinascenza” del dopo Covid, “di gioia di vivere, nonostante tutto e senza dimenticare il pericolo corso e i lutti”, di cambiamento, di trasformazione di sé e della realtà all’insegna del rispetto per la natura, accoglienza e cura reciproca, per non tornare alla “normalità” del prima ma per “fare sorgere un’aurora foriera di un nuovo e luminoso giorno per la civiltà”. È la natura, rigenerante e rigenerativa, bisognosa di attenzioni, di cure e guarigione, la protagonista della mostra, dove arte, musica e armonia si mescolano alla leggerezza del vivere. Sono cartoline per lo più di donne, spedite da ogni parte d’Italia, dove bellezza e creatività, simbolo di rigenerazione dell’anima, hanno il volto di donna. Donna che si tuffa nel mare e riemerge, donna con una grande rosa sul grembo, donna le cui lacrime riempiono gli oceani, donne che reggono il mondo con la cura e le relazioni umane, unica risorsa generativa di vita e di rinascita. Che cos’è l’arte postale? È una pratica artistica connessa alla vita che viaggia in una busta da città in città, da paese a paese, da continente a continente, tessendo relazioni interpersonali, scambi di pensieri, sentimenti, sensazioni, odori. Nata agli inizi degli anni Sessanta, da artisti desiderosi di fondere l’arte con la vita, ben presto si trasformò in una rete di artisti internazionali e si diffuse anche tra le donne diventando veicolo di consapevolezza della propria identità, del desiderio di significare sé stesse, di diffusione del femminismo. Nel 1975 un gruppo di donne inglesi cominciarono a spedirsi l’un l’altra piccoli lavori artistici attraverso le poste. “Noi cercavamo di unire aspetti apparentemente assai diversi- il privato, il domestico e il personale con il politico e sociale.” Si servivano di materiali poveri, vecchie scatole, abiti e cose riciclabili. L’arte postale è stata uno strumento di sensibilizzazione di lotta e di resistenza in tutti quei paesi dall’America latina a quelli dell’Est in cui vigevano regimi dittatoriali, fino alla sanguinosa guerra nei Balcani. Ha esplorato molte forme creative d’avanguardia: collage di oggetti di uso comune, immagini riciclate, francobolli veri o dipinti, poesie, musiche e immagini di musicisti come quello che nella mostra di Katia Ricci suona col violoncello un inno alla creatività. La bellezza ci salverà? Basta crederci.
(Il Quotidiano del Sud, 18 giugno 2021)
Redazione cultura
Mostre. Nella cornice del festival Brescia Photo, trentacinque sguardi per una statuaria femminile che cambi i connotati degli spazi pubblici
Il festival Brescia Photo si articola quest’anno intorno alla parola Patrimoni. Un argomento che, insieme alla conclusione dei lavori di restauro della Vittoria Alata, ha suggerito al gruppo di autrici dell’Associazione Donne Fotografe una riflessione sulla presenza – in realtà sulla reiterata assenza – della donna nella statuaria monumentale e negli spazi pubblici. Un vuoto che ha attraversato i secoli e «risuona» ancora oggi nelle nostre piazze e giardini. È nata così la mostra Scolpite, promossa dall’Associazione stessa e curata da Paola Riccardi (visitabile fino al 13 giugno a Palazzo Facchi), in cui trentacinque fotografe compongono un mosaico visivo, interpretando il tema con «virtuali memoriali» e seguendo liberamente l’impronta del loro linguaggio.
Così se Tiziana Aris rivisita la Vittoria alata sotto forma di Mater Universalis, dedicandola all’originaria Lucy, Patrizia Bonanzinga sceglie una statua acefala di Palazzo Ducale a Mantova, consegnandole il volto e il corpo di sua madre, ragazza 22enne nel 1946: la data non è casuale perché coincise con il voto femminile e, grazie a questo, con la nascita della Repubblica (l’omaggio è anche alla partigiana Bruna, Lidia Menapace). Antonella Monzoni con Il Sacrificio delle donne armene entra nel Memoriale del ricordo del Genocidio di Erevan, proponendo la scultura situata nel cortile che ritrae le vittime della deportazione.
E mentre Paola Mattioli s’interroga sulle presenze femminili «sacre» ed estreme a Milano, sempre apolidi, sospese tra il cielo e la terra, Melania Messina indaga l’infanzia trasformata in ex voto della Santuzza di Palermo (con un pensiero rivolto a Felicia Impastato). Antonella Gandini nel suo S/colpite riproduce un anonimo ritratto d’epoca, minacciato dall’inserimento di un coltello sulla scena (il riferimento è per Susy, accoltellata a Brescia nel 2020). Simona Filippini affida lo sguardo al corpo libero, che infrange i confini, della ballerina di danza classica e buto Andreana Notaro. E Anna Rosati ritrova una Biancaneve disneyana ma indipendente, principessa che invece di aspettare il tanto chiacchierato risveglio del principe, alza i tacchi ed esce di scena, andandosene per la sua strada.
(il manifesto, 28 maggio 2021)
di Lucia van der Post
C’è una storia molto nota sugli inizi della carriera della grande architetta francese Charlotte Perriand che fa capire perché così tante designer di talento siano state a lungo sottovalutate. A ventiquattro anni, Perriand fece domanda per andare a lavorare nello studio di Le Corbusier e fu rifiutata con queste parole: «Qui non ricamiamo cuscini». La storia racconta che, appena un mese dopo, gli arredi (in alluminio, acciaio cromato, vetro e pelle) che Perriand aveva creato per il suo appartamento-studio furono reinventati come angolo-bar in un’installazione al Salon d’Automne del 1927 a Parigi. Era un’estetica che incarnava la nuova “era delle macchine” e Le Corbusier ne rimase affascinato. Allora venne assunta e iniziò una collaborazione di dieci anni con il famoso architetto e il di lui cugino Pierre Jeanneret.
Nonostante il lavoro visionario che Perriand fece insieme a Le Corbusier − poi con il pittore francese Fernand Léger, negli anni Trenta, e con l’architetto Jean Prouvé nei Cinquanta − è solo di recente, qualche anno dopo la morte avvenuta nel 1999, che si è cominciato a capire l’importanza della sua figura e l’attualità del suo lavoro. Nel 2019, circa 476mila persone hanno visitato la grande retrospettiva a lei dedicata dalla Fondation Louis Vuitton con il sostegno di Cassina. Quest’anno, contestualmente alla 17esima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, dal 22 maggio al 21 novembre, la Fondation Louis Vuitton esporrà, nel suo Espace di Venezia, il progetto Tritrianon (1937) di Perriand, un’abitazione basata su assemblaggi modulari, prodotta in serie e con un impatto minimo sull’ambiente, facendolo dialogare con Power Pack (1969), l’unità abitativa autosufficiente e trasportabile di Frank Gehry. La mostra Charlotte Perriand and I: converging designs by Frank Gehry and Charlotte Perriand vuole essere più di un excursus storico, piuttosto presentare soluzioni concrete per il mondo di oggi. A staffetta, dal 19 giugno, il Design Museum di Londra inaugurerà la personale Charlotte Perriand: The Modern Life. «Faremo vedere disegni e taccuini che illustrano il suo modo di lavorare», spiega il curatore Justin McGuirk. «Non stiamo parlando di un genio solitario, Perriand era prima di tutto una grande collaboratrice».
L’opera più significativa di Perriand, Les Arcs, il resort sciistico francese ideato da un collettivo di architetti da lei guidato, incarna questo spirito. Il progetto, che fu inaugurato nel 1968 e prese forma negli anni Settanta, mette in evidenza anche le sue capacità di interior designer e di paesaggista. Fu lei a proporre la serie di sinuose terrazze del resort che fendono come onde il pendio della montagna. L’architettura esprime e sintetizza una convinzione che la progettista nutrì per tutta la vita: il buon design fa vivere meglio e dovrebbe essere alla portata di tutti. «Les Arcs è la sintesi delle sue idee sulla vita e sul design», spiega ancora McGuirk. «È un resort che si rivolge a un turismo di massa, ma dotato di etica e di nobili principi; proponeva un certo stile di vita e offriva accesso allo sport e alla natura (per lei sempre molto importanti)».
Eppure, la carriera di Charlotte Perriand è stata a lungo oscurata dalla fama dei suoi colleghi uomini. Le Corbusier, in particolare, è stato spesso accreditato come creatore unico di progetti e pezzi di design frutto di una collaborazione. È stata Perriand, per esempio, a progettare le cucine modulari per le pionieristiche Unité d’Habitation de la Cité Radieuse di Le Corbusier a Marsiglia. Tre delle più importanti sedute ideate dallo studio Le Corbusier negli anni in cui Perriand ci lavorava – la Grand Confort, la Basculante e la Chaise Longue – sono state per anni attribuite solo a lui, ma fu lei a metterne a punto il design preciso.
Ora che Charlotte Perriand è riconosciuta a pieno titolo come una formidabile designer, il suo lavoro attira l’attenzione dei grandi collezionisti. Living with Charlotte Perriand, il recente libro curato dal mercante d’arte francese François Laffanour, per esempio, racconta le sue esperienze e quelle di altri collezionisti. Intanto, i pezzi originali di Perriand incassano somme importanti sul mercato internazionale. Di recente, il tavolo Eventail, un pezzo unico disegnato negli anni Settanta per il suo chalet, è stato valutato da settecentomila a un milione di euro da Sotheby’s, e un semplicissimo tavolo in legno è stato venduto, lo scorso novembre da Phillips, per 52.920 sterline. Un paradosso, forse, per chi voleva che il buon design fosse democratico. Oggi varie riedizioni sono prodotte da Cassina: dalla chaise longue Tokyo (1940), che ideò mentre viveva in Giappone, reinterpretando con il bambù la LC4 dello studio Le Corbusier, alla libreria modulare Nuage (1952/1956). I suoi arredi erano tutto ciò che il design francese di allora non riusciva a essere: leggeri, spesso realizzati con metodi industriali, colorati e, quando era il caso, modulari.
Laure Adler, autrice del volume Charlotte Perriand (Gallimard), dice che il lavoro della progettista aderiva ad alcuni valori fondamentali: «Ciò che ha creato è frutto di un istinto, di un talento artistico sostenuto da una ricerca tecnica di alta precisione. Forse è proprio questa combinazione di materiale e spirituale che chiamiamo grazia».
Ma Perriand non è l’unica ad avere ottenuto riconoscimenti tardivi. Women Design, il libro dell’ex gallerista Libby Sellers, è pieno di storie simili, e quella della grande Eileen Gray è una delle più illustri. Sellers racconta di come Le Corbusier fosse rimasto talmente scioccato nell’apprendere che la villa modernista E-1027 – capolavoro architettonico di Eileen Gray completato nel 1929 in Costa Azzurra – fosse stata progettata da una donna che non solo ne imbrattò (o dipinse, dipende dai punti di vista, ndr) le pareti, ma le costruì accanto il famoso Cabanon per tenerla d’occhio. Oggi, nel Regno Unito, Aram produce molti pezzi di Eileen Gray. Il suo proprietario, Zeev Aram racconta di aver visto alcuni suoi disegni nel 1973 in mostra alla Heinz Gallery di Londra e di esserne rimasto così colpito da voler rintracciare l’autore. Ha così incontrato la nipote di Eileen Gray, l’artista Prunella Clough, e concordato di rimettere in produzione diversi pezzi. Ora sono classici ricercatissimi: il tavolino E-1027 in vetro e tubolare d’acciaio e la poltrona Bibendum sono tra gli arredi più copiati al mondo.
Anche l’opera di una designer italiana, Gabriella Crespi (1922-2017), è stata oggetto di riscoperta e di rinascita. Di recente, Dimoregallery ha rieditato alcuni suoi tavoli e lampade creati tra il 1970 e il 1980. Crespi è stata una figura molto affascinante. Sposandosi, entrò a far parte dell’omonima famiglia di industriali, allora anche proprietaria del Corriere della Sera. Il suo stile ha un glamour molto sofisticato e le sue creazioni più famose sono i lucenti tavoli in bronzo e le lampade in acciaio e plexiglas che propone Nilufar. Crespi ha lavorato tanto con il bronzo e altri metalli e alcuni suoi tavoli Scultura, rivestiti in ottone, sono stati venduti da Phillips per 74.340 sterline.
L’artista contemporanea franco-svedese Ingrid Donat è conosciuta tra gli specialisti del settore, ma ancora poco nota ai più, anche perché lavora soprattutto per clienti privati per i quali crea interni straordinari progettati nel minimo dettaglio, dalle finiture delle pareti alle lampade. Oggi le sue creazioni vengono battute all’asta per cifre importanti (il suo cassettone Commode Galuchat è stato venduto da Phillips per 275.200 dollari). Molti sono pezzi unici, altri sono disponibili in edizioni limitate di otto esemplari e Carpenters Workshop Gallery, co-fondata da suo figlio Julien Lombrail, è l’unica a rappresentarla. Donat ha iniziato come scultrice e il suo Buffet Klimt Cinq Portes (2017), un piccolo armadio in bronzo ispirato a Gustav Klimt, illustra perfettamente la sua estetica che, influenzata da motivi tribali africani, combina forza e semplicità.
Un altro talento rappresentato da Carpenters Workshop Gallery è l’architetta, artista e designer americana Johanna Grawunder. È conosciuta soprattutto per le sue installazioni luminose, ma realizza anche tavoli e lavori su commissione. Ha perfezionato il suo talento collaborando con Ettore Sottsass per circa sedici anni e poi si è messa in proprio, partecipando nel 1995 al Salone del Mobile di Milano. «Ho usato la luce in un modo che non era mai stato proposto prima», dice. «Molto neon, molto plexiglas e fibra di vetro. Tutto provocatorio, un po’ sfrontato, non esattamente ciò che si definirebbe di buon gusto».
L’esperienza di Grawunder alle scuole superiori dice molto sul perché così tante donne abbiano dovuto aspettare a lungo un riconoscimento. Avrebbe voluto studiare disegno tecnico, una materia allora considerata adatta solo ai maschi. Riuscì a ottenere dal preside di poterla seguire a una condizione: che avrebbe imparato anche il cucito. Quella di Johanna Grawunder, però, è una storia positiva. Fa parte della schiera sempre più numerosa di donne che, incuranti di critiche e reazioni, creano qualcosa che richiede e ottiene attenzione, a prescindere dal genere.
(Il Sole 24 ore, 29 aprile 2021)
di Arianna Di Genova
Mostre. Alla Galleria nazionale d’arte moderna, la rassegna che si ispira a Carla Lonzi e ai suoi gesti di «rivolta», con centoventi opere e parte del suo archivio fotografico, per la prima volta fruibile
In un periodo di incertezze, costellato di onde anomale virali, malinconici nascondimenti dietro le tende delle proprie finestre, relazioni interrotte e spazi del mondo evaporati, alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma inaugura una mostra che invece rimanda a un «luogo aperto» e in continua costruzione: quello della presa di parola a partire da sé, in prima persona. Non un monologo interiore (che avrebbe il difetto della incomunicabilità e del sigillo psichico) ma la raccolta di sensazioni, immagini, dati, narrazioni, percorsi in soggettiva.
Una soggettiva che assume come prospettiva lo sguardo femminile, essendo le testimoni di questa disseminazione esperienziale tutte artiste, appartenenti a diverse generazioni. D’altronde, la pandemia è proprio alle donne che ha tolto la parola, il lavoro, la visibilità sociale, invertendo tragicamente la rotta di una trasformazione che si avviava verso la «cucitura» delle ferite della disparità di genere.
A fare da apripista a questo abecedario libero – che non prevede regole alfabetiche né rigide cronologie ma sposa l’andamento caotico e ordinato allo stesso tempo della creatività – è Carla Lonzi. È a lei che si riferisce, per assonanza elettiva, il bel titolo della mostra Io dico io, I say I, che si snoda dal salone centrale irradiandosi ovunque grazie alla cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini (visitabile fino al 23 maggio). Una rassegna che ha dovuto aspettare un anno slittando fino a oggi e che approfitta della «finestra gialla» del Lazio per comporre quella «molteplicità di rappresentazioni» che tessono i fili di una geografia conviviale con quasi centoventi opere e un coro polifonico di voci d’artista.
Per entrare nella «giostra dell’identità» dove il corpo non è mai un limite ma sempre uno sconfinamento, si varca la soglia delineata dall’architettura a mo’ di luminaria che si accende per le feste di Marinella Senatore (Remember the first time you saw your name, «ricorda la prima volta che hai visto il tuo nome») che aveva già ammaliato alla sfilata della maison Dior in Puglia.
A chiusura dell’itinerario carsico della mostra c’è – una volta affrontata la scala che regala altri spazi sospesi – l’archivio di Carla Lonzi: fotografie di quotidianità e arte che hanno composto un immaginario e che, per la prima volta, possono presentarsi al pubblico. Sono i meravigliosi tasselli di una storia che potrebbe anche far concepire una nuova museologia – il prezioso patrimonio è stato donato alla Galleria nazionale dal figlio Battista Lena e dal 2018 si sta procedendo all’inventario e all’indicizzazione che fino a ora prevede 99 voci bibliografiche.
Per terminare il puzzle di quella radicalità assunta come modello esistenziale, con un’attitudine più meditativa rispetto alla veloce visita di una esposizione, si possono consultare i materiali dell’archivio online su Google Arts & Culture, all’indirizzo g.co/womenup. Anche in quella «stanza tutta per sé» Lonzi comunque dialoga con le artiste contemporanee che attorniano le fotografie della sua collezione privata con i loro ultimi lavori (fra cui anche quello di Pippa Bacca, che fu violentata e uccisa in Turchia mentre viaggiava vestita innocentemente da sposa per la sua performance).
Passeggiando a ritroso nell’esposizione, come colonne portanti di «quel gesto generativo di rivolta» che caratterizzò l’essere al mondo di Lonzi, troviamo Origine di Carla Accardi (dedicato alle sue antenate) e il video «domestico» La conta di Marisa Merz (1967). Ma poi, dopo quelle attestazioni di conquista di spazi strappati a un dominio tutto maschile ancora nel decennio dei Sessanta (fra le «madri» ci sono anche Antonietta Raphaël Mafai, Carol Rama, Ketty La Rocca, Giosetta Fioroni, Elisa Montessori e Lisetta Carmi con le sue peregrinazioni intorno ai corpi nomadici), si dipanano altre «azioni» fondative. Per esempio, quella reiterata da Sabrina Mezzaqui per la trascrizione dei quaderni di Simone Weil, il parto di Silvia Giambrone (suggerito dal busto femminile rivestito con un body che accentua la connotazione sessuale con il «monte di Venere») o la scelta delle perle – ingigantite in Bruna Esposito e a cascata, a formare un corpetto, per Paola Pivi – come oggetto feticcio, dispositivo lunare e intrecciato alle profondità dell’inconscio. Qui contra nos recita invece lo specchio nobiliare in cui Marzia Migliora fa precipitare frammenti di storia recente (sarà lei oggi la protagonista della video-diretta per la rubrica Alt del manifesto, alle ore 18). E con un gioco di assenza e presenza, Gea Casolaro in El tiempo de alzar los ojos ricorda, infine, che quell’«io» assertivo, protagonista della rassegna, è in grado di far germinare in sé una moltitudine di soggetti.
(il manifesto, 9 marzo 2021)
di Grazia Rita Di Florio
L’anonimato è sempre stata una condizione necessaria per gli street artists, perché pitturare muri è considerata una pratica illegale, assimilata agli atti di vandalismo e il rischio di essere ricercati e sanzionati non è del tutto scongiurato (vedi la recente vicenda di Geco). Quando sono comparse le prime Superwomen nelle finestre cieche del centro storico di Firenze, è cominciata subito la caccia all’identità di Le Diesis. Ma di loro non sa quasi nulla.
All’inizio si pensava si trattasse di un singolo artista, non si era a conoscenza se fosse uomo o donna. Ora è noto che sono due amiche che operano in coppia e che sono fiorentine, una proviene dal mondo della comunicazione e l’altra dall’Accademia d’arte.
Per Le Diesis però l’anonimato è soprattutto un valore. «Non è importante chi siamo, quello che conta è il messaggio che vogliamo trasmettere con le nostre opere. Non siamo attrici o frontgirls di un band, siamo artiste e quello che esprimiamo è nell’opera. Restare nell’ombra è una forma di protezione della nostra privacy, ma anche un mezzo per dare risalto a quello che facciamo. Siamo circondati da smanie di protagonismo, lo vediamo ovunque, a noi non interessa mostrare chi siamo, per quello che realizziamo è irrilevante. Ci piace pensare che il nostro superpotere sia proprio l’invisibilità, perché ci rende molto più libere».
Voi però non dipingete muri ma utilizzate dei dipinti che poi attaccate nelle finestre cieche delle città. Siete illegali o di solito vi accordate con le amministrazioni locali?
Utilizziamo la tecnica del paste up. Prima realizziamo le nostre Superwomen in studio con acrilico su carta velina. In seguito le attacchiamo in alcune finestre o archi ciechi dei centri storici delle varie città in cui interveniamo. Abbiamo scelto di utilizzare le finestre cieche perché fanno da cornice naturale alle nostre opere, che possono anche interagire con chi le guarda come fossero persone affacciate, e strizzano l’occhio al passante con complicità. A parte l’anno scorso, in cui abbiamo realizzato con la Fondazione Il Cuore si scioglie, una campagna per promuovere la raccolta fondi dei progetti e delle iniziative di solidarietà, interveniamo sempre in spazi non legali, cercando di valorizzarli. La street art nasce illegale, l’arte urbana su commissione è un’altra cosa e ha origini ben più lontane, basti pensare ai murales realizzati già un secolo fa da Diego Rivera. Proprio in questi giorni siamo state segnalate a Firenze dove abbiamo attaccato alcune opere in occasione della mostra Superwomen. Che, ironia della sorte, non solo è patrocinata dal Comune di Firenze, ma è allestita al Mad (Murate Art District), uno degli spazi espositivi gestiti dall’amministrazione.
Secondo la nostra sensibilità, quando l’intervento di street art, seppur illegale è realizzato seguendo un criterio di estetica, l’irregolarità è una costruzione mentale. Per esempio, ci sono tantissimi cartelloni pubblicitari molto più invasivi, ma siccome sono in spazi legali sono consentiti.
Come vi siete conosciute e come siete arrivate alla street art? Incuriosisce che una persona che proviene dal mondo della comunicazione, evidentemente con doti per la pittura, sia approdata alla street art…
L’arte è sempre comunicazione! Quindi non c’è assolutamente niente di strano nel nostro progetto. La nostra forza sta esattamente nel congiungere questi due mondi, l’arte e la comunicazione, apparentemente distinti, per creare insieme qualcosa di unico. Quello ci accomuna è che siamo due amiche con una visione simile della vita e del cammino che stiamo percorrendo e con lo stesso impulso di voler trasmettere un messaggio importante attraverso la leggerezza, senza prendersi troppo sul serio. La street art è un mezzo di comunicazione con un’energia incredibile. Il fatto che si realizzi per strada è un motivo in più per veicolare messaggi positivi. Gli street artists hanno una grandissima responsabilità perché sono sotto gli occhi di tutti. Arrivare alla street art, quindi per noi è stata una conseguenza del nostro percorso interiore. L’idea delle Superwomen è nata quasi per gioco durante la visita di Arte Fiera a Bologna, a gennaio dello scorso anno. Avevamo ambedue voglia di creare qualcosa che ponesse al centro dell’attenzione le donne, e così un’idea ha tirato l’altra in modo del tutto naturale e istintivo. Abbiamo realizzato la prima incursione nella nostra Firenze, una delle città capofila della street art italiana, in occasione dell’8 marzo del 2019 attaccando 8 donne in altrettante finestre cieche del centro storico come un omaggio alle donne e come momento di riflessione per tutti. Sinceramente non ci aspettavamo il successo mediatico che abbiamo avuto. Questo ci ha incoraggiate a uscire con altrettante icone a Roma. Abbiamo disseminato di donne il Ghetto e Trastevere, e in seguito a Napoli, Bologna, Milano, Venezia, L’Aquila, Bari, Livorno.
Non praticate tagging, i vostri dipinti hanno due caratteristiche: una firma che è la S di Superwoman che può essere assimilata al tag ma pure allo stencil per l’uso della lettera e il gesto dell’occhiolino. La vostra idea è di contrapporre le Superwomen dotate di superpoteri al classico Superman. Vuole essere un messaggio femminista? Nel senso, voi vi ritenete femministe?
Partiamo dal fatto che l’umanità non è allenata a percepire le risorse che sono dentro ognuno di noi. Dovremmo tutti imparare ad amplificare le nostre capacità. Questo è un periodo di grandi cambiamenti, soprattutto per le donne che stanno sempre più prendendo coscienza delle loro possibilità. Quindi, se per femminismo intendiamo un percorso di risveglio della consapevolezza delle potenzialità femminili, allora sì, siamo femministe.
La domanda nasce dal fatto che i soggetti rappresentati sono quasi sempre figure femminili tra le più disparate, da Frida Kahlo a Margherita Hack, da Nefertiti a la Sora Lella, dalla Madonna a Vanessa Incontrada, Giovanna Botteri, Barbie e tantissime altre. Il messaggio che arriva è sicuramente positivo e incoraggiante: che ogni donna ha una sua potenzialità e una sua bellezza contro qualsiasi stereotipo e omologazione imposta dai modelli pubblicitari…
I criteri con cui scegliamo le donne da raffigurare sono i più disparati. Ci sono soggetti che ci ispirano particolare simpatia, come la Sora Lella, la Maga Magò, le ragazze niqab (che, in realtà, è il nostro autoritratto) e altri che rappresentano degli esempi. In ogni caso, l’opzione è sempre guidata dall’istinto e seguiamo questo flow che è accompagnato dal gioco e dal nostro divertimento. Senza nulla togliere al dato di fatto che ognuno di questi personaggi ha comunque dato tanto al mondo. Vuoi per impegno sociale, scientifico (Margherita Hack, Rita Levi Montalcini), artistico (Anna Magnani, Maria Callas, Alda Merini, Marina Abramovich, Frida).
Avete realizzato diverse mostre dal Museo Archeologico di Napoli all’ultima mostra a Firenze con un’esposizione al Semiottagono delle Murate, con due nuovi assi nella manica Freddie Mercury e Laura Pergolizzi, una Jimi Hendrix al femminile. Grazie a queste mostre ora siete conosciute un po’ dappertutto e avete raggiunto una certa legittimità culturale. È così?
L’arte è lo specchio dei suoi tempi. Negli anni ’70 l’intero tessuto sociale era permeato da uno spirito rivoluzionario che si contrapponeva ai tanti stereotipi dell’epoca. Oggi alcune motivazioni non hanno più ragione di essere, l’arte può prescindere da funzioni civili, divulgative, educative. Ormai la street art è completamente sdoganata all’interno della scena culturale italiana e internazionale, ma continua a conservare delle specificità grazie a un contatto più diretto, informale e quotidiano con lo spettatore. Con la maggiore libertà creativa e di espressione, riesce a spingersi laddove gli artisti più tradizionali sembrano avere il timore di avventurarsi. La rivoluzione di oggi è molto più sottile: prendere consapevolezza di se stessi. Per noi è importante attaccare opere per strada, ma anche esporre in un museo per far conoscere la street art proprio lì dove non te l’aspetti, cercando di creare un allestimento fresco che non snaturi il lavoro che fai in strada.
(Alias – il manifesto 30 gennaio 2021)
di Antonella Prota Giurleo
Il video della Libreria delle donne di Milano raccoglie lavori esposti alla Fabbrica del Vapore nell’ambito de “I talenti delle donne”
Recentemente, seguendo il suggerimento dell’amica critica e giornalista Cristina Rossi, ho avuto modo di guardare un video realizzato sull’esperienza artistica della Libreria delle donne di Milano. Nel video si documenta l’opera di artiste che hanno esposto nella Quarta vetrina della Libreria. Un lavoro di raccolta e di analisi che è stato poi presentato all’interno della mostra che, da aprile a giugno 2019, è stata esposta alla Fabbrica del Vapore di Milano e che è stata inserita all’interno dell’iniziativa “I talenti delle donne”, curata dall’assessore Del Corno.
Il catalogo, Vetrine di libertà, a cura di Francesca Pasini e di Chitra Cinzia Piloni, dà conto sia della mostra che della cartella di grafiche realizzata con opere di importanti artiste per sostenere la nascita della Libreria nel 1975.
Leonilde Carabba, allora tessera 3, ricorda i contatti e le relazioni con le artiste e con Perini, il serigrafo che si occupò della stampa in cambio di alcune cartelle. Nel catalogo, a segnare una storia che continua, sono riportate sia le immagini delle opere che il testo di presentazione di Lea Vergine.
In catalogo i testi di Lia Cigarini e di Luisa Muraro danno conto di una storia ormai quarantacinquennale mentre Francesca Pasini, che di questa storia fa parte, presenta ognuna delle artiste, una quarantina, che hanno dato forma e voce visiva a un’esperienza particolarmente interessante.
L’intero percorso espositivo è stato registrato da Egle Prati, Cristina Rossi, Chiara Mori e Alessandra Quaglia.
Scrive Francesca Pasini: «L’inaugurazione consiste in un incontro tra me, l’artista e il pubblico… Si scambiano domande, emozioni, idee… un’occasione preziosa e un passaggio critico importante».
Tenendo presente la necessità di restituzione del senso complessivo del progetto, e per ovvie ragioni di sintesi il montaggio, affidato a Gabriele Genchi, riporta stralci dell’inaugurazione di cinque artiste: Marta dell’Angelo, Sophie Ko, Elisa Sighicelli, Annie Ratti, Alessandra Caccia
La Quarta vetrina costituisce una modalità di presentazione di opere site specific fruibili sia all’esterno che all’interno ed è, come scrive la curatrice, «una finestra accesa che, nella notte, tiene compagnia, crea confidenza».
(Noi donne, 11 gennaio 2021)
Guarda il video https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/feminist-art-portraits-2020/
di Giannina Mura
Prima e unica pittrice italiana a vivere e lavorare in Russia da quasi trent’anni, Elide Cabassi coniuga le tradizioni artistiche dei due paesi in un’opera risolutamente libera e contemporanea. Non solo. Nel 2011, fonda nell’orfanotrofio La nostra casa di Mosca un laboratorio d’arte italiano dove risveglia la creatività di bambini affetti da disturbi psichici con una pedagogia centrata sulla bellezza. E che fa già storia. L’abbiamo raggiunta nella capitale russa in occasione della sua mostra Luoghi di confine al museo statale-Centro Culturale Integrazione A.N. Ostrovskij.
Nata nel 1963 in Val Trompia, cresciuta nel Piemonte contadino, formata artisticamente in Toscana, un lungo percorso l’ha portata fino a questa mostra. Quando ha capito che voleva esser pittrice?
Sin da piccola, ho avuto una fortissima attrazione per la bellezza della natura e dell’ambiente in cui crescevo. Ho sempre disegnato. Mia madre, sarta con grandissimo senso estetico e profonda cultura interiore, mi stimolava e mi spingeva a inviare i miei disegni a uno zio pittore. Ma la mia vocazione si è realmente manifestata all’Accademia di belle arti di Firenze, grazie all’incontro con uno degli ultimi maestri del novecento italiano, Goffredo Trovarelli. Ho capito allora che non potevo essere che pittrice. Dipingere è per me come un atto sacro. Coinvolge tutto il mio essere e anche il mio modo di vivere. La mia pittura ha bisogno di vita semplice, ascetica, severa, solitaria, fatta di poche cose. È una pittura sempre sul confine, dove s’incontrano gli opposti, terra, cielo, luce, tenebre, è come una vibrazione, che negli ultimi quadri riguarda soprattutto il confine tra la vita e la morte, e il nostro rapporto con l’invisibile. Ho dedicato la mostra alla mia famiglia. Sono molto legata alle mie radici italiane. Col mio trasferimento in Russia, l’unione tra le mie antiche e nuove radici ha portato la pittura verso immagini che sono come un abbraccio delle due culture.
Lei si è stabilita a Mosca nel 1992: cosa cercava?
Volevo ritrovare l’anima russa, la natura, il paesaggio e le grandi icone che avevo scoperto durante il mio anno a Mosca con una borsa di studio nel 1987/88. Mi aveva colpita l’aspetto mistico, profondo, ancora molto legato al valore simbolico della vita di questo popolo. C’è qui un modo viscerale di vivere l’arte, le persone se ne fanno letteralmente attraversare. Emblematica dell’anima russa, la poesia potentissima di Marina Cvetaeva, mi era allora indispensabile. Di lei mi affascinavano il coraggio, la libertà, e l’impeto, che corrispondeva al mio di quegli anni. Nel 1994 feci una mostra – Il paese dell’anima – proprio nella sua casa-museo, a Mosca. Opere dedicate a lei, nella dimora della sua infanzia.
Com’è cambiata la sua arte dopo il suo arrivo in Russia?
È diventata più calma. Ho ripreso i colori a olio, che avevo abbandonato per l’acrilico, e le diverse mostre che ho fatto nel Nord della Russia mi hanno introdotta al suo cromatismo. Il severo e laconico paesaggio russo mi ha anche aiutata a liberarmi, aprendomi a un movimento più lento ed essenziale. Le icone russe mi hanno riportata alla profondità delle forme, strutturate come sono in modo geometrico, per certi versi vicine all’arte astratta. In più, vi ho anche ritrovato il nostro Trecento e Quattrocento, e soprattutto quella vena bizantina persa da noi col Rinascimento. Una cultura immensa e profondissima, che le icone mi hanno fatto riscoprire, come se si chiudesse un cerchio…
Durante i bombardamenti americani dell’Iraq ha dipinto «Barriere» e quando i russi hanno bombardato la Cecenia ha realizzato «Rosso inverno», facendo della sua pittura una forma sublimata d’impegno politico. Lei stessa ha definito la sua arte come una «politica della bellezza». Cosa intende?
Se si considera che il degrado della bellezza ha sempre accompagnato quello della vita civile, la politica della bellezza consiste nel salvare quest’ultima dentro di sé e in tutto ciò che si fa, riuscendo così a recuperare un pezzo di mondo. Propongo la mia visione, e il pubblico la vive come un’oasi, nel senso di luce, trasparenza, silenzio. Rispondendo a una necessità umana molto forte, la bellezza ha un senso etico oltre che estetico. Corrisponde a un cammino interiore.
Ne «Il sacrificio di Ifigenia» la bellezza appare sospesa tra immolazione e resurrezione. Cosa l’ha portata a interessarsi a questa figura?
Ifigenia rappresenta la bellezza pura e vulnerabile al tempo stesso. Il suo corpo di bambina tutto bianco con quel cordoncino rosso, si può ferire in qualsiasi modo, ha le mani legate, è incapace di difendersi. In questo corpo immolato, c’è tutta l’umanità fragilizzata dal sacrificio della sua parte migliore. Ci sono i migranti che muoiono annegati, le donne violentate… La vulnerabilità umana mi tocca profondamente, è anche legata a un episodio della mia infanzia. Avevo cinque anni, mia madre, già ammalata e debolissima, urtata da un cane, cadde davanti a me. Ho sentito allora tutta la fragilità dell’esistenza e l’impotenza di non poterla aiutare a rialzarsi. Questa sensazione di esser minuscola davanti alle grandi sofferenze della vita continua ad accompagnarmi. La sento viva anche con i bambini dell’orfanotrofio. Davanti al loro destino tragico, faccio tutto il possibile, ma so che sono segnati per la vita.
Fondare un laboratorio d’arte in un orfanotrofio per bambini affetti da disagi psichici non è molto comune per un’artista né a Mosca né altrove. Come le è venuta l’idea?
Il mio scopo era di portare la bellezza dove ce ne fosse stato più bisogno. E, attraverso di essa, offrire ai bambini un metodo e gli strumenti per aiutarli a vederla e a crearla a loro volta. Dopo anni di ricerche, ho trovato l’orfanatrofio giusto: il direttore ha creduto nel mio progetto, concretizzato poi grazie al sostegno degli italiani di Mosca, all’associazione femminile Asi e a diverse imprese e privati che continuano a collaborare. Questo laboratorio è unico nella storia della Russia, anche perché aggrega italiani e russi per portare la gioia in un luogo di sofferenza. È uno spazio creato appositamente per il benessere, composto di materiali naturali, oggetti, musica, giochi, libri, tutto ruota intorno al perno della bellezza. I bambini vi s’immergono con grande piacere. Mi prendo del tempo per seguire ognuno di loro personalmente. Sono la maestra silenziosa che facilita la loro creatività, dando loro tutto quello di cui hanno bisogno. Così, si sentono ascoltati e liberi di esprimersi senza barriere. E se con certi bambini, troppo feriti o ammalati, il lavoro resta difficile, con molti altri i risultati sono incoraggianti.
Lo dimostra l’esposizione dei suoi allievi intitolata, appunto, «Dipingere la bellezza», che lei ha voluto in parallelo alla sua…
Sì, un bambino come Ruslan, per esempio, è stato letteralmente salvato dal manicomio dalla sua passione per l’arte. L’aver imparato a dipingere e disegnare ha stimolato la sua guarigione, tanto che da quattro anni non prende più medicine. Lo seguo sempre da molto vicino. E credo che sia valsa la pena di aver creato questo laboratorio anche solo per lui.
(il manifesto, 24 novembre 2020)
di Francesca Bonazzoli
È una fortuna che mostre e musei siano (per ora) rimasti aperti. Poter entrare a Palazzo Reale e visitare da oggi la nuova rassegna «Divine e Avanguardie» è un piacere che risolleva l’umore. Dentro le sale (sicure e controllate) l’atmosfera avvolgente delle luci basse, i colori accesi della pittura russa, le tante storie curiose raccontate attraverso didascalie ben scritte, offrono qualche ora di impagabile svago. La mostra è dedicata alle donne nell’arte russa dal XIV al XX secolo in un percorso di novanta opere dal museo di Stato russo di San Pietroburgo, scandito in otto capitoli. Il colore della moquette a pavimento distingue le due grandi sezioni: il grigio delle sale iniziali segnala che il tema femminile è l’oggetto delle opere esposte; il rosso della parte finale indica invece che tutti i lavori sono stati realizzati da artiste.
Si comincia con le icone dove Madonne (la Madre di Cristo è la protettrice della Russia) e sante rilucenti di oro inculcavano a chi le guardava l’idea della donna santa e madre, pura e sacra. E come l’immagine riflessa nello specchio, la sala successiva presenta una parata di zarine, figure quasi altrettanto divine che salgono al potere con una propria identità grazie alle riforme di Pietro il Grande: è dopo la sua morte nel 1725 che ha infatti inizio il periodo del regno al femminile. L’icona assoluta è Caterina la Grande di cui sono presenti due ritratti: quello ufficiale, nella massima esibizione del potere; e quello da anziana, con i capelli grigi che sfuggono dal cappello.
Il percorso porta poi alle contadine che condivisero con gli uomini fino al 1861 la condizione di servi della gleba, ma se possibile con una vita ancora più dura perché subordinate anche alle rigide norme patriarcali, illustrate in alcuni quadri della sezione dedicata alla famiglia. Per esempio «Presentazione della promessa sposa», di Grigorij Mjasoedov, ritrae il rito umiliante dell’osservazione scrupolosa della candidata sposa, nuda davanti ai futuri parenti. È solo con la Rivoluzione del 1917 che si arriva alla parità dei diritti e le donne lavoratrici, che ora faticano nei campi come in fabbrica, vengono trasformate in eroine patriottiche. Nel campo dell’arte, personalità come Natalija Goncharova, Olga Rozanova o Liubov’ Popova conquistano il ruolo di comprimarie nel fertile terreno delle Avanguardie che ispirano anche l’arte europea: alcuni di questi nomi sono proprio quelli riscoperti dalla critica Lea Vergine, da poco scomparsa, in occasione della storica mostra allestita nel 1980, sempre a Palazzo Reale.
Infine arriva il 1932, quando il Partito impone il linguaggio unico del Realismo socialista e le altre forme di creatività vengono represse. La mostra si conclude quindi con il modello (e il video della sua realizzazione in scala monumentale) della celeberrima scultura di Vera Mukhina «L’operaio e la kolkoziana» per il padiglione dell’URSS all’Expo del 1937 a Parigi, dove fronteggiava l’aquila del Reich.
(Corriere della Sera – Milano, 28 ottobre 2020)
di Gina X
Nella settimana 8-13 settembre 2020, in occasione dell’Art Week, la Casa degli Artisti di Milano, prende il nome di: Casa delle Artiste, degli artisti. Ad opera di Gina X (Anusc Castiglioni, Annalisa Cattani, Paola Gaggiotti, Stefania Galegati, Chiara Longo, Valeria Manzi, Concetta Modica, Francesca Pasini, Chiara Pergola, Ginevra Quadrio Curzio, Susanna Ravelli, Giulia Restifo, Gabi Scardi, Daniela Simoncini, Uliana Zanetti).
Gina X è un gruppo inclusivo di artiste, curatrici, critiche che s’interroga sull’urgenza del rapporto in presenza. Si è formato nel settembre 2019 dopo l’invito a passare due giorni, al centro di resistenza culturale in memoria Novella Guerra a Imola, semplicemente per parlare e dormici su una notte. Un paradossale riprendersi del tempo da perdere, strappandolo al dovere, all’efficientismo, al conveniente, alla logica, in cui viviamo e che non condividiamo.
Da quell’incontro – frutto di mesi di confronto tra le organizzatrici e ospiti Stefania Galegati e Annalisa Cattani, per individuare le partecipanti – si delineano stimoli e un nome GINA, che è quello della madre di Stefania, mentre Novella Guerra è della madre di Annalisa.
Data la bella, seppur breve, esperienza di condivisione, gli incontri sono continuati, ognuna con chi aveva vicina. Si voleva evitare la “compromissione” dei media e dell’online, ma il Covid 19 l’ha reso necessario.
Questa imprevista esperienza online si è comunque rivelata positiva, il desiderio di un rapporto in presenza non si è esaudito nel virtuale, ha, invece, indicato la sua attualità. Dall’iniziale confronto sulle priorità personali da mettere in gioco, in un secondo tempo la discussione si è focalizzata sul lavoro comune sul linguaggio, che si è deciso di rendere pubblico con un primo progetto alla Casa degli Artisti di Milano.
Su questo tema i dibattiti irrisolti, presenti e passati, sono tantissimi; oggi più di ieri preda di involuzioni e regressioni, sono la vera emergenza culturale.
Il primo intervento si è appuntato sul nome stesso del luogo destinato ad ospitarlo; che dopo essere stato Casa dei Pittori e in seguito Casa degli Artisti, si arricchisce e diventa, per una settimana, Casa delle Artiste, degli Artisti. Con questa ridefinizione Gina X dà un segno, felice e costruttivo, della propria presenza, inserendosi nello stesso tempo in modo propositivo nelle dinamiche cittadine; si esprime inoltre implicitamente sui cambiamenti avvenuti e su quelli ancora necessari rispetto alle tematiche di genere.
Un arazzo con la nuova denominazione, appositamente realizzato, segnalerà l’ingresso della “Casa delle Artiste, degli Artisti”, mentre nella navata del pianoterra sarà esposta l’opera Regalami una parola, che è il risultato della richiesta a oltre trecento donne e uomini di inviare una parola, per costruire un luogo, invece che con i mattoni, con le parole.
Ripensando ai cartigli che affiorano nei dipinti antichi, si sono realizzati 5 nastri di carta millimetrata lunghi oltre 10 m, sui quali sono state dipinte a mano, con un normografo, le parole ricevute. La carta millimetrata allude al progetto di un’architettura, ma per una coincidenza significativa ricorda alcuni disegni di Luciano Fabro, per decenni prestigioso abitante della Casa degli Artisti. Attorno alla mostra si svilupperanno altri interventi, prima di tutto l’attrice Elsa Bossi leggerà le parole trascritte in ordine di arrivo in modo da evocare il tempo di una relazione.
Nell’ambito del progetto Casa delle Artiste, degli Artisti Gina X ha anche invitato le artiste Laura Malacart e Concetta Modica a presentare una performancein cui troveranno espressione temi di forte risonanza attuale: alla radice delle azioni ci saranno, rispettivamente, il rapporto tra linguaggio e storia sociale, e l’inscindibilità tra sguardo e parola nella poesia e nell’arte.
Casa delle Artiste, degli Artisti comprende infine un laboratorio per bambine, bambini e adulte, condotto da Paola Gaggiotti e Anusc Castiglioni.
Il progetto risponde allo stimolo dato dal programma del Comune di Milano I talenti delle Donne.
Si svolge inoltre in sinergia con la riapertura di Casa degli Artisti e il rientro di artiste e artisti in residenza.
Dal 8 al 13 settembre, durante l’intera settimana sarà inoltre possibile organizzare studio visit con le artiste e gli artisti in residenza alla Casa, scrivendo una mail a coordinamento@casadegliartisti.org.
Gli artisti invitati sono Peter Welz, Gianni Caravaggio, Luca Pozzi, Luca Scarlini e Pietro Coletta, le artiste selezionate su open call sono Camilla Alberti e Eleonora Roaro, le artiste del progetto speciale “Archivio” sono: Chiara Francesca Longo e Rebecca Moccia.
Programma Casa delle Artiste, degli Artisti
del gruppo Gina X
8 settembre ore 17:00 – 22:00: opening e lettura a cura di Elsa Bossi
9 settembre ore 18-20: performance Concetta Modica Tessere sguardi
10 settembre ore 18-20: performance Laura Malacart Dancing the answers: citizenship, re-thinking histories, art practice as resistance
11 settembre ore 18-20: performance Concetta Modica Tessere sguardi
12 settembre ore 14:30 – 16:00 e 17:00 – 18:30: 2 laboratori per bambine, bambini e adulte condotti da Paola Gaggiotti
Anteprima stampa Casa delle Artiste, degli Artisti
Preview stampa: 8 settembre ore 12:00 – 13:00
(www.libreriadelledonne,it, 4 settembre 2020)
di Francesca Pasini
Quarta Vetrina è il programma d’arte contemporanea della Liberia delle donne di Milano, ideato da Corrado Levi, proseguito da Donatella Franchi e, dal 2015, da Francesca Pasini che ha raccolto 31 artiste, con le quali ha ideato per Libreria delle donne e Comune di Milano la mostra Vetrine di Libertà (Fabbrica del Vapore di Milano, 2019, catalogo Nottetempo).
I dialoghi durante gli opening sono stati videoregistrati e Cristina Rossi, con Chiara Mori e Alessandra Quaglia, ha realizzato un documentario che sarà presentato prossimamente.
La stagione 2020, inserita nel palinsesto I talenti delle Donne del Comune di Milano, doveva iniziare il 25 marzo con la Vetrina di Paola Gaggiotti, Le immagini che restano. Il Covid-19 l’ha bloccata. Che fare? La risposta in questo dialogo fra la curatrice e l’artista.
Abbiamo aspettato: quando è stato possibile uscire di casa, abbiamo scelto di usare il lato esterno della vetrina, così dal 25 giugno chi passa in via Pietro Calvi 29 vede l’opera. A settembre ci daremo appuntamento dentro, per vederla dall’altro lato e per parlarne insieme. Credo che sia stata proprio l’idea del dialogo a farti decidere di parlare di una cosa così difficile da dire. Dopo il primo incontro, mentre ti salutavo davanti all’edicola sotto casa, hai detto: “Voglio parlarti di una cosa che non ho detto a nessuno: da piccola ho subito violenza”. Mi sono zittita per qualche minuto. Poi sono riuscita a chiederti: dove? Quando? Mi hai detto poche cose, ci siamo salutate. Perché hai deciso di dire proprio a me quello che ti era successo?
Quando abbiamo iniziato a parlare di un mio intervento alla Quarta Vetrina mi hai suggerito di provare a osare. Mi sono così chiesta cosa non avevo ancora osato fino a quel momento. Interrompere un silenzio durato quarant’anni mi è sembrata l’azione più spregiudicata da compiere. Un gesto intimo e politico allo stesso tempo. Il fatto che a chiedermelo fossi tu, intellettuale e donna vicina alle donne, mi ha rassicurata sul non sentirmi sola nel farlo.
Ero rimasta colpita dal fatto che all’Istituto dei Tumori, dove lavoravi, l’arte è una Cura Palliativa, e mi ero detta: lo è sempre anche quando si sta bene. Mi piaceva la scommessa di toglierla dalla terapia e inserirla nella salute quotidiana di tutti e tutte. Ma ora, senza il dialogo, sei veramente “in vetrina” e le immagini restano di nuovo senza parole.
L’aver lavorato in un ospedale con pazienti oncologici adolescenti mi ha messo di fronte alla sfida di usare l’arte per esprimere “l’incidente” senza ricorrere a spiegazioni, ma con un gesto inventivo, un po’ poetico. Mi sono posta le stesse domande che rivolgevo a loro per aiutarli a pensare a progetti d’arte partecipata. Ho scelto di raccontare il mio incidente attraverso le immagini che mi sono rimaste in mente di quel giorno, sostanzialmente di quella strada. In un primo momento volevo ripercorrerla, fotografare gli scorci, poi l’ho guardata con Google street view e quella visione astratta e desolata si è adattata ai miei ricordi più della strada vera.
Mettere in vetrina alcune vedute, incorniciate e appese su una parete ricoperta di tappezzeria simile a quella della mia camera di bambina, mi ha fatto capire che interiormente mi ero “arredata” il trauma. La necessità di separare la visione esterna e interna della vetrina è diventata una chiave di lettura: da fuori il trauma si può solo intuire. Solo entrando lo posso raccontare.
Sembra una città, vuota, non ci sono persone, biciclette, carte per terra. Se so che sono le tracce di un trauma hanno un significato, ma se non lo so e le guardo da fuori, mi sembrano la solitudine anonima della provincia. La duplice visione tra dentro e fuori è però anche una visione dell’intimità tipica dell’arte. Perché vuoi raccontare la violenza in modo anonimo?
Sono sempre stata attratta da tutte quelle opere che suggeriscono e non svelano completamente. In quello spazio di incertezza lo spettatore può confondere e sovrapporre la sua storia con quella dell’autore. Faccio così in modo che il mio lavoro sia un collettore di emozioni dove tutti possono ritrovarsi. Se avessi esplicitato i fatti, la mia storia sarebbe diventata un caso o un esempio e io mi sarei ritrovata di nuovo ad essere la protagonista di qualcosa che non voglio rivivere, lasciando chi guarda al di fuori del dramma o, peggio ancora, dandogli la possibilità di avvicinarsi con compassione al lavoro.
A settembre, quando ci sarà il dialogo, i disegni ti aiuteranno riviverla senza sentirti sola?
Normalmente associo la solitudine alla quiete; i disegni saranno sicuramente un appiglio, è la mia personale iconografia della vulnerabilità. Guardarli mi fa sentire più fragile, ma, paradossalmente, io che disegno la mia fragilità sono più forte di chiunque necessiti dello strumento della sopraffazione per potersi affermare. E qui torniamo all’inizio del nostro incontro, quando tu, colpita da alcuni miei racconti sul tema dell’abuso, mi hai suggerito la Libreria come luogo dove per poterne parlare in sicurezza, con verità. A settembre, Francesca, lo faremo certamente.
(www.artribune.com, 28 luglio 2020)
di Mariacarla Molè
FOTOGRAFIA. «Soggetto nomade», catalogo della mostra omonima ora edito da Nero. Con gli scatti di Paola Agosti, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano e Marialba Russo
Il luogo cieco di un antico sogno di simmetria recitava il titolo della prima parte di Speculum di Luce Irigaray, un classico del pensiero femminista della differenza. Il progetto di questo testo del ’74 era quello di colmare i vuoti della mancata esperienza dell’alterità, quella dell’identità femminile, trattata dalla tradizione psicoanalitica e filosofica occidentale, come copia manchevole del maschile, priva di una sua rappresentazione e quindi di immagini.
Probabilmente, modificare la lettura della tradizione occidentale non è possibile, ma dare un volto a quella cecità si. Potrebbe essere uno dei tanti ritratti dalle fotografie di Paola Agosti, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano e Marialba Russo, scattate tra il 1965 e il 1985, e raccolte nel progetto editoriale di Nero Soggetto Nomade (pp. 160, euro 25), catalogo della mostra omonima, curata da Cristiana Perrella e Elena Magini lo scorso inverno per il Centro Pecci di Prato.
Il titolo prende in prestito un concetto chiave del pensiero di Rosi Braidotti, che porta avanti il progetto di deflagrazione dei fondamenti maschili della soggettività classica, e propone una prospettiva post-identitaria, in cui i soggetti siano sempre il risultato di un processo incessante di negoziazioni e aggiustamenti. Il corpo dei testi, affidato alla stessa Braidotti e alle due curatrici, offre una cornice concettuale molto solida, a una sequenza di immagini molto diverse tra loro, nelle intenzioni e negli esiti.
Nella selezione di fotografie, che raccontano due decenni di lotte femministe, rivendicazioni e conquiste civili, il ripensamento dell’identità femminile corre parallela alla costruzione di un punto di vista femminile, da parte di fotografe che si trovano in una posizione pioneristica nella loro professione, che contava soltanto uomini. La differenza di genere è palpabile nei loro scatti, ora incantati ed empatici, ora complici e intimi, ma sempre il risultato di un’interrogazione reciproca e di un legame di fiducia.
Negli sguardi puntati alla macchina fotografica vediamo proiettati quelli delle fotografe, che nel catturare femministe, malate psichiatriche, bambine, transessuali, dive, scrittrici, e travestiti scoprono la specificità del loro sguardo differente.
L’opera di sabotaggio di ogni ostacolo all’affermazione di sé è assolutamente collettiva nelle fotografie di Paola Agosti, che ha documentato il movimento femminista italiano, e romano nello specifico, la nascita dei consultori, la fondazione di redazioni femministe, e le alleanze di corpi stretti in girotondi e in una gestualità condivisa.
Più intima è la dimensione di sperimentazione del sistema di codici femminile nelle fotografie di Marialba Russo, nei suoi ritratti di uomini travestiti da donne durante i festeggiamenti del carnevale, in alcune cittadine campane. La parentesi del rovesciamento carnevalesco permette a un parterre eteronormato di giocare con le rappresentazioni femminili, e di sbizzarrirsi nell’eccesso goffo dei costumi, dei nei sapientemente collocati, e dei makeup scenici.
La dimensione pubblica diventa, nelle fotografie di Letizia Battaglia, spazio in cui situare soggetti di una fierezza spietata. In una Palermo lacerata dalla seconda guerra di mafia, le donne, le bambine, guardate con occhi complici, sono portatici di una vitalità selvaggia in uno scenario disperato e mortifero.
La stessa consapevolezza, di condividere con le donne ritratte un destino marginalizzato, si trova nelle fotografie dei travestiti di Lisetta Carmi, dove la logica del binarismo di genere risulta satura e impraticabile, e sfugge a ogni tentativo di normalizzazione.
Inquadrate in dinamiche di consumo e in un’ottica maschile, sono le donne fotografate da Elisabetta Russo, attrici, scrittrici e dive dello spettacolo che, nelle pose studiate e sempre riflettenti un ruolo all’interno della società, non riescono a non ammiccare a un desiderio maschile, e finiscono per restare intrappolate in rapporti di potere patriarcali.
La simmetria evocata in apertura non può quindi che essere dispari, lo sguardo ai soggetti nomadi disassato, il modello identitario sfasato. E la fotografia riesce a essere il luogo in cui il divenire di identità mobili possa trovare il modo di dare un volto a soggettività eccezionali.
(ilmanifesto.it, 24 luglio 2020)
La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea annuncia le 3 vincitrici della call Taci. Anzi, parla:
Allison Grimaldi-Donahue, con A Self-portrait, 2020, 1’51’’
Laura Heyman, con The Photographer’s Wife, 2020, 2’05’’
Léna Lewis-King, conL’autoritratto, 2020, 1’33’’
Lanciata durante il periodo di lockdown, in soli 24 giorni la call ha raccolto 198 video, provenienti da28 paesi in tutto il mondo, per oltre 7 ore di materiale. Taci. Anzi, parla è stato un invito a ripensare e a riflettere sulla propria voce e sulla propria immagine in un momento storico particolarmente significativo. Il racconto di sé è tornato ad essere un mezzo di comunicazione centrale con il mondo, proponendosi ancora, in maniera straordinariamente attuale, come un gesto e una pratica radicale di autodeterminazione.
Il 12 giugno le vincitrici sono state premiate da Cristiana Collu, Direttrice della Galleria Nazionale, con una cerimonia in videoconferenza. All’evento hanno partecipato oltre alle artiste vincitrici, Luisella Mazza, Head of Global Programs & Operations di Google Arts&Culture, e le curatrici della mostra Io dico io – I say Lara Conte, Cecilia Canziani e Paola Ugolini.
La giuria, composta da Laura Busetta, Giulia Crispiani e Valentina Tanni, ha selezionato i video vincitori seguendo, tra gli altri, un criterio che tenesse conto delle possibili assonanze e delle nuove letture del pensiero lonziano e ha motivato così le sue scelte:
«A Self-portrait di Allison Grimaldi-Donahue è un viaggio attraverso le immagini di un archivio personale, interrogate da una voce fuori campo, emessa da un corpo che non vediamo mai. Le immagini dell’infanzia e della giovinezza, insieme ai dettagli delle fotografie che ritraggono la famiglia e le persone care sono gli unici interlocutori di un soggetto in stato di isolamento. Nella fissità di quegli sguardi, il soggetto trova sia l’estraneità che la reciprocità, mentre l’autoritratto diventa una conversazione interiore capace di illuminare l’oscillazione tra passato e presente, toccando alcune delle tensioni più profonde che si nascondono in ogni atto di autoriflessione».
«Nel video The Photographer’s Wife di Laura Heyman, il soggetto è doppio, in quanto è allo stesso tempo la persona che ritrae e che viene ritratta. Mentre come ritrattista dà le istruzioni, come soggetto ritratto potrebbe scegliere di non seguirle o di reagire con un certo ritardo. Questo rapporto asincrono preannuncia che nessun soggetto è privo di interdipendenza con gli altri, e un autoritratto si costruisce sempre all’interno di questa relazionalità (colei che guarda e colei che è guardata). Inoltre, nella sua semplicità – inquadrando un delicatissimo tableau vivant verde-rosa – la scelta formale di Heyman innesca un’esperienza sinestetica».
«Il video L’autoritratto di Léna Lewis-King è incentrato sul rapporto tra la nostra percezione del mondo e i media che utilizziamo per documentarlo ed esplorarlo. Il tema dell’identità contemporanea, frammentata e autoriflessiva, viene esplorato attraverso l’uso di diversi strumenti e tecniche (video, fotografia e software), evocando con successo la natura caleidoscopica del nostro attuale paesaggio mediale e il suo effetto sulla nostra personalità».
I tre video vincitori della call diventeranno parte integrante di Io dico io – I say I, la grande mostra collettiva di oltre 40 artiste prevista per marzo 2021, ed entreranno nel progetto di digitalizzazione dell’Archivio Lonzi sviluppato con la collaborazione di Google Arts&Culture.
Per la Direttrice della Galleria Nazionale Cristiana Collu «Con il linguaggio cinematico del videoselfie le vincitrici non solo hanno dato voce e hanno rappresentato quello che noi siamo, quello che è il nostro tempo, ma hanno presentato, inaugurato e sotteso un desiderio, una consapevolezza e una determinazione: segnare un cammino con lievi passi da gigante.»
Durante la videoconferenza, le artiste hanno approfondito la concezione di autoritratto che ha ispirato la realizzazione dei video.
Allison Grimaldi-Donahue racconta: «Vivo in Italia da dieci anni e molte delle persone che amo sono abbastanza lontane, con una pandemia globale che ha reso impossibile vederle. Questa impossibilità le collega a molte altre persone nella mia vita che sono irraggiungibili per altre ragioni. Parte del diventare adulti, almeno per me, è stato un viaggio verso la comprensione della perdita. Mi terrorizza guardare gli album di famiglia e rendermi conto che la maggior parte delle persone lì dentro sono morte; ma sono anche incline a esplorare il significato e il perché di questo mio sentire, e a pensare più a fondo a chi erano queste persone. Man mano che invecchio, assomiglio sempre più a mia madre, un rapido sguardo allo specchio la riporta in vita. Questo video fa parte della mia indagine in corso sulla creazione del sé, il sé intertestuale, innestato, rifatto, plastico».
Per Laura Heyman, l’autoritratto si sdoppia, riflettendo il rapporto tra soggetto ritratto e quello che ritrae. «Quali sono le lezioni che la storia dell’arte insegna alle donne, in particolare quelle che riguardano la musa femminile? È possibile interiorizzare queste lezioni e, in caso affermativo, che effetto ha sulla propria produzione? Un personaggio femminile mantiene una serie di pose, mentre guarda con intimità la macchina da presa. Una voce fuori campo è impartisce istruzioni ma è anche familiare, dando una sensazione di intimità. Lo spettatore ha la sensazione di vedere qualcosa di privato, forse l’artista che collabora con la sua amante. Il lavoro della modella/soggetto è sempre performativo: deve essere in grado di ritrarre un sé vero e idealizzato. In questo caso il problema è un po’ più complicato. Sia come artista che come modella devo trasmettere non solo questa soggettività multipla, ma anche riflettere allo spettatore un fotografo/marito immaginario. Il video scompone la performance che si svolge su entrambi i lati della macchina fotografica, esaminando il modo in cui il potere può passare dall’artista al modello, e chiedendo se i risultati di questo scambio siano una rappresentazione più dell’uno o dell’altro».
Léna Lewis-King sposta l’attenzione sulla stratificazione dell’identità, messa anche in rapporto con la complessità delle immagini digitali: «Il titolo del video presentato per la call Taci, Anzi Parla si ispira direttamente all’opera di Carla Lonzi Autoritratto e si concentra sull’idea della “Rivolta Femminile”. Pensando alla natura del sé, mi sono resa conto che ci sono molti strati contrastanti e armonici che rendono difficile una semplice definizione o comprensione. Attraverso l’uso della voce fuori campo e di filmati d’archivio personali, il mio video cerca di spacchettare questa complessità stratificata e di arrivare al cuore di ciò che il sé può essere, in modo onesto e vulnerabile».
A conclusione della cerimonia, le curatrici di Io dico io – I say I, Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini, hanno messo in luce i punti di contatto dell’open call con il progetto di mostra: «Io dico Io – I say I nasce dalla necessità di prendere la parola e parlare in prima persona, per affermare la propria soggettività, componendo una sola moltitudine, una molteplicità di io che risuona di consonanze e dissonanze. La mostra traccia un percorso non lineare, una narrazione che sedimenta storie, sguardi, immaginari: oggi, con Taci. Anzi, parla, si arricchisce di altre voci e prospettive, che ne ampliano ulteriormente le visioni».
L’evento di premiazione è stato coordinato da Anna Gorchakovskaya, Francesca Palmieri e Alessia Tobia. Per maggiori info sulla call Taci. Anzi, parla: https://lagallerianazionale.com/2020/04/16/taci-anzi-parla/
Video vincitori:
(Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, 12 giugno 2020)
di Katia Ricci
Nell’Esposizione Universale di Parigi del 1855 per la prima volta si poteva ammirare una mostra speciale intitolata Fotografia. Parigi era la capitale del XIX secolo, come la chiamava Walter Benjamin, in cui si muoveva liberamente il flâneur, il gentiluomo borghese alla ricerca di piaceri e godimenti che la Ville Lumière con i suoi spazi sociali offriva alla borghesia e da cui gli uomini tenevano lontano le proprie donne perché considerati sconvenienti.
Il lungo tempo trascorso, ma soprattutto le numerose lotte delle donne hanno reso Parigi una città ben diversa da quella rappresentata nei quadri impressionisti. È in questa Parigi che la fotografa Teresa d’Agnessa gira con la sua macchina fotografica per fissare brani dell’interminabile storia che le donne stanno riscrivendo per colmare vuoti di vite e di senso che gli uomini non hanno voluto o saputo raccontare. Il risultato è nella mostra fotografica attualmente in esposizione alla Merlettaia in via Arpi 79/A a Foggia. Doveva essere inaugurata l’8 marzo ma la chiusura forzata di questo periodo l’aveva impedito e rimandata a tempi più sicuri.
Teresa d’Agnessa, fotografa per passione da sempre, ha cominciato a esporre nel 2008 prima a Foggia presso Fotocine club, alla Merlettaia e a Parco Città, poi in varie città e anche a Parigi presso gallerie d’arte contemporanee, tra cui Espace Christiane Peugeot.
La mostra si compone di tre sezioni: la manifestazione del 6/10/2018 contro la violenza fatta alle donne, immagini della street art parigina, e foto che ritraggono la toponomastica di strade e piazze intitolate alle donne dalla Municipalità o dalle donne stesse del collettivo Osez le Féminisme che in una notte hanno ribattezzato le strade dell’Ile de la Cité con nomi di donne celebri, Toni Morrison, l’artista Niki de Saint-Phalle o la navigatrice Florence Arthaud.
L’azione dimostrativa serviva a lanciare una campagna per spingere il comune di Parigi a dedicare più vie a personaggi femminili, infatti solo il 2,6% delle strade parigine ha nomi di donna.
Altre fotografie ritraggono targhe con il nome di donne vittime di femminicidio poste sotto la targa che reca il nome di un uomo a cui è intitolata la strada o la piazza, azione fatta in occasione della manifestazione contro la violenza alle donne.
La locandina della mostra riporta la fotografia del murale di Gregos artista francese autore di una forma particolare di street art tridimensionale che unisce pittura e scultura. Dissemina per Parigi suoi volti in gesso colorato spesso irriverenti per la lingua che mostra. In Rue des Hospitalières Saint-Gervais nel cuore del Marais, nel 2014 per celebrare l’8 marzo ha creato il volto di una donna con tante facce maschili e sotto la scritta in francese “siamo cresciuti tutti nel corpo di una donna”.
“La street art – dice Gregos in un’intervista – è molto influente in Francia, soprattutto nelle grandi città, e molto a Parigi, capitale francese della street art e forse una delle maggiori al mondo. Dovunque vai vedi tag, graffiti, sticker, poster, stencil, collage. Tag e graffiti sono ancora considerati vandalismo, anche se sono in mostra nelle gallerie e valgono migliaia di euro.”
Molte fotografie di Teresa d’Agnessa riguardano questa forma d’arte ormai diffusa in tutto il mondo e praticata da molte artiste. Una delle più note in Francia è Miss Tic, parigina di origine tunisina, che per le strade di Montmartre, tra i cui vicoli è cresciuta, fin dal 1985 disegna sui muri donne dall’atteggiamento sensuale accompagnate da versi spesso ironici e taglienti, in un intreccio di arte visiva e poesia.
Questi disegni disseminati in città sono il più delle volte effimeri, destinati a deteriorarsi e a scomparire. Ma oggi, dopo che hanno interessato i collezionisti, gallerie, musei e istituzioni dedicano loro mostre e battage pubblicitario, il che ha però ridotto in molti casi la carica polemica che originariamente contenevano.
Le fotografie in mostra sono un modo creativo, ironico, graffiante per denunciare la violenza sulle donne e spingere gli uomini a riflettere sul fatto che ormai nessuno può chiamarsi fuori e non contribuire a risolvere questo vulnus alla civiltà e alla dignità maschile. Senza ricorrere ad artifici retorici e a inquadrature particolarmente ricercate, sacrificando così la sua ricerca estetica, la fotografa sceglie di raccontare le battaglie delle donne dando rilievo giustamente a contenuti molto importanti, tali non solo per le donne, ma per la possibilità di rifondare un nuovo patto tra donne e uomini.
La mostra presso la Merlettaia di Foggia, via Arpi 79, si può visitare da giovedì 4 a mercoledì 10 giugno 2020 nei seguenti orari: mattina ore 10.30, pomeriggio ore 19.00 (tranne il sabato pom.). Domenica chiuso. In seguito su appuntamento. Per prenotare, scrivere a t.dagnessa@gmail.com o telefonare al 366 812 96 24.
(www.libreriadelledonne.it, 6 giugno 2020)
di Riccardo Conti
La gallerista ripercorre un quarto di secolo di mostre sempre intense e nate dal dialogo con gli artisti e la loro volontà di sperimentare temi e modalità
Venticinque anni fa inaugurava a Milano la Galleria Raffaella Cortese nel primo spazio di via Farneti diventando ben presto uno dei punti di riferimento che più hanno segnato la mappa del contemporaneo in città. In questo lungo periodo lo spazio, che nel frattempo si è espanso in tre diversi civici nella tranquilla via Stradella, ha visto sfilare alcuni dei nomi più importanti dell’arte del presente: autrici fondamentali di linguaggi quali performance e video, accanto ad artisti che sono cresciuti con la storia stessa della galleria. 25 anni di mostre sempre intense e nate dal dialogo con gli artisti e la loro volontà di sperimentare temi e modalità espressive che restituiscono la dimensione di un progetto complessivo sofisticato e persino raro per uno spazio privato.
Abbiamo conversato con Raffella Cortese, fondatrice della galleria che porta il suo nome, figura preziosa e sensibile nel panorama del mercato dell’arte contemporanea con la quale ripercorriamo alcuni momenti della sua carriera; dalla stringente attualità alla sua visione poetica del femminismo e dell’impegno culturale e politico nel lavoro degli artisti che rappresenta.
Partiamo da un tema inevitabile: poco prima del lockdown hai inaugurato la mostra dell’artista israeliana Yael Bartana che ora ha riaperto e che proseguirà fino al 13 di giugno: perché dobbiamo vederla?
Patriarchy is History è una mostra potente, ben costruita, che merita di essere vista ed è stata infatti estesa. Yael Bartana è una figura emblematica, la cui ricerca racchiude tanti valori e diverse tematiche legate alla storia della galleria. È un’artista impegnata politicamente con una visione anche utopistica – penso alla trilogia con cui ha rappresentato la Polonia alla Biennale di Venezia del 2011, in cui immagina una possibilità concreta per un rinascimento ebraico in Polonia. Penso inoltre alla scritta al neon, assoluta protagonista nello spazio in via Stradella 4, dove l’intensa luce blu si fa ambientale e dichiara che la storia dell’umanità è scritta al maschile. Di lei amo ricordare un altro neon, What if Women Ruled the World?, quasi una provocazione che mi preme cogliere e rilanciare, dal momento che ho sempre lavorato in prevalenza con artiste donne e mi piace interrogarmi su questa possibilità.
Yael Bartana, Patriarchy is History, 2020. Installation view at Galleria Raffaella Cortese, Milan. Photo t-space studio
Cos’ha rappresentato per la galleria l’interruzione dei mesi scorsi, come avete riconfigurato il lavoro durante questi mesi?
Il lockdown ha rappresentato per noi una modalità diversa di lavoro, da remoto, piuttosto che un’interruzione. È stato specialmente dedicato alla comunicazione e all’intensificazione dell’offerta digitale. Abbiamo inaugurato la Viewing Room, un’espansione dei nostri spazi, con una rassegna video. Personalmente, ho lavorato molto anche di memoria, ricostruendo e ricordando le esperienze che hanno contraddistinto questi 25 anni di attività. Mi sono riavvicinata alla letteratura, da sempre una mia passione, e all’arte antica, realizzando come siano state e siano tuttora delle vere e proprie fonti d’ispirazione anche nella scelta degli artisti.
A quali riflessioni ti ha portata questa lunga esperienza?
Prima di tutto, sentivo un grande desiderio di tornare in galleria, luogo che sono abituata a vivere intensamente. Amo condividerne gli spazi con i miei collaboratori, gli artisti, i collezionisti e trovo fondamentale il contatto diretto con le opere, che mi è ampiamente permesso anche grazie al nostro magazzino adiacente allo spazio espositivo. Allo stesso tempo, con l’intensificata esperienza virtuale degli ultimi mesi, ho realizzato come il nostro lavoro sarà sempre più legato al digitale. Sperimentando strumenti come la Viewing Room di Frieze, ho riconosciuto alcune potenzialità e riscontrato i primi risultati. Non sono paragonabili a quelli di una fiera reale, ma sono comunque segnali positivi, indici di una trasformazione in atto che ci vede ricettivi. Con alcuni colleghi italiani, stiamo infatti elaborando dei progetti corali online. Penso che, come ha affermato Paolo Verri, nel futuro prossimo il mondo umanistico dovrà viaggiare in parallelo al mondo della scienza e della tecnologia.
E da un punto di vista più personale invece?
Le meditazioni, al di là dei confini professionali, hanno toccato la sfera personale e, soprattutto, sollecitato la mia coscienza politica. Ho visto un mondo politico disorientato, e non parlo solo dell’Italia e dell’Europa. Mi sono interrogata a lungo sul potere, sui suoi limiti e pericoli. Cito a questo proposito le parole di Carlo Galli, che parla di un’“azione politica decidente che separa i sani dai malati” e di questa “obbedienza nuova” che viene richiesta ai cittadini, a spese della libertà dell’individuo: “Sempre nuovi perimetri spaziali vengono imposti: l’abitazione, il comune di residenza, i duecento metri dalla residenza, il metro e mezzo dalle altre persone; e poi i limiti regionali, e poi i confini nazionali.”.
Ora che finalmente possiamo tornare a visitare gallerie e musei dopo Yael Bartana avete in programma una collettiva assai particolare, ce la racconti?
Il prossimo progetto è apparentemente molto semplice – una sola opera sonora per ciascuno dei tre spazi espositivi – e nasce da una conversazione avuta con Marcello Maloberti. Durante la quarantena, sono state frequenti le chiamate con gli artisti, in cui ho ritrovato uno stato d’animo condiviso: la stanchezza d’immagini. I nostri siti, così come i social, hanno riversato una quantità di immagini senza precedenti. Ne è emerso il desiderio di sacrificare la vista a favore dell’ascolto. Ci siamo inventati una mostra, letteralmente, a tre voci, che coinvolge Maloberti, Miroslaw Balka e Simone Forti. Il primo invita il pubblico a immaginare un affresco di Lorenzo Lotto attraverso la sua descrizione orale, il secondo genera le parole pronunciate da Drupi, Sereno è, la terza presenta una registrazione originale da una sua sperimentazione del ‘68. Gli spazi della galleria saranno lasciati, per la prima volta, completamente vuoti, e sarà l’ennesima conferma della mia propensione verso i media time-based.
Veniamo a questo importante traguardo di venticinque anni della tua Galleria: nel 1995 iniziasti con una mostra di Franco Vimercati che vorrai celebrare nuovamente a settembre. Perché apristi il tuo primo spazio? Cosa ti spinse a dedicare il tuo tempo all’arte?
A settembre vorremmo proporre la mostra di Franco Vimercati, un artista che continua ad affascinarmi moltissimo, ossessivo e discreto, fra i primi a utilizzare concettualmente il mezzo fotografico in Italia, dagli anni Settanta. La curatela della mostra sarà affidata a Marco Scotini, che presenterà alcune serie piuttosto rare di opere degli anni Settanta: le tele bianche, i listelli di legno, le piastrelle, tutti oggetti famigliari che Vimercati ha minuziosamente e ripetitivamente analizzato attraverso l’obiettivo. La fotografia è un altro fil rouge che accomuna quasi tutti i miei artisti e che ho privilegiato fin dai primi anni Novanta. In quel momento storico il dibattito sul riconoscimento della fotografia come opera d’arte, anche da un punto di vista commerciale, era in pieno fermento ed è stato bello prenderne parte. Ho aperto il mio spazio e dedicato la mia vita all’arte, senza cui mi sentirei profondamente sola.
Molto prima che diventasse una sorta di trend la tua galleria ha proposto al pubblico alcune delle figure femminili fondamentali delle ultime tre generazioni: da Joan Jonas a Martha Rosler, da Kiki Smith a Roni Horn e italiane come Monica Bonvicini e Luisa Lambri solo per citarne alcune: che cosa hai imparato da questo scambio intenso con espressioni così radicali del mondo femminile?
La propensione verso l’arte femminile non ha mai avuto i connotati di una moda passeggera per me, ha sempre significato un grandissimo impegno oltre che un enorme piacere. La sensibilità femminile mi attrae in modo istintivo, mi cattura la sua profonda introspezione che si traduce in espressioni artistiche connotate spesso da un forte senso trasgressivo e perturbante. Martha Rosler e Monica Bonvicini sono due artiste molto coinvolte nelle questioni post-femminista, due instancabili battagliere; Joan Jonas si dedica con una sensibilità smisurata all’urgenza climatica; Kiki Smith ha analizzato il corpo della donna avvicinandolo sempre di più, negli anni, alla dimensione naturale e animale; Simone Forti continua a fare video mettendo in luce la sua malattia come parte si sé e del suo percorso: ciascuna di loro – sono 22 – arricchisce il programma della galleria in modo diverso, ma tutte hanno una straordinaria capacità di sperimentare, di rinnovarsi costantemente e con grande coraggio, e sono per me fonte d’ispirazione. Quando mi incontro con una personalità delicata come Luisa Lambri, è come affacciarsi da una nuova finestra sul mondo e scoprirne l’architettura, scomposta in dettagli, frammenti di luce, angoli, e chiaroscuri.
La stima e il rispetto e ciò che accomuna artisti, critici e collezionisti nei tuoi confronti e del lavoro che hai portato avanti in questi anni e la tua galleria si è guadagnata rapidamente lo status di punto cardinale tra gli spazi artistici milanesi: come hai bilanciato lo spirito di ricerca con le imprescindibili esigenze commerciali che una galleria deve soddisfare?
Ho sempre fatto ricerca perché fa parte del mio spirito e della mia idea di lavoro, non ho mai seguito le mode, ho sempre cercato di creare bisogni e desideri, e non nego che sia difficile bilanciare l’attività commerciale con delle scelte artistiche piuttosto difficili da un punto di vista del mercato. Oggi la galleria rappresenta ben 30 artisti di generazioni e nazionalità diverse, ne emerge un’eterogeneità che corrisponde a una grande libertà. Faccio le scelte che voglio, che sento importanti, che mi interessano e davvero stimolano la mia sensibilità. In questo mi sento molto libera.
Milano ha un rapporto con il contemporaneo che deve moltissimo alle gallerie e agli spazi privati anche per la scarsa offerta degli spazi istituzionali; tale assenza che effetti ha avuto sul lavoro di gallerista? Come hai visto cambiare la scena dell’arte contemporanea a Milano in questo quarto di secolo?
La scena dell’arte contemporanea a Milano è cambiata moltissimo in questi 25 anni. Nei primi anni Duemila ero Vicepresidente dell’ANGAMC, ci incontravamo spesso con l’Amministrazione Comunale per discutere di queste carenze e per sollecitare l’attuazione di un Museo – che ancora oggi non è avvenuta. Si sono però moltiplicati gli spazi, sia pubblici sia privati, dedicati al contemporaneo: penso per esempio alla Fondazione Prada che esisteva già nel 1993 e oggi ha espanso le sue sedi, all’Hangar Bicocca che è nata nel 2004 e alla Fondazione Carriero che ha aperto nel 2015. Certamente a Milano non sono mai mancate le ottime gallerie, ieri come oggi; ricordo sempre con stima Carla Pellegrini ed Emi Fontana. Prima del lockdown era una città davvero brillante e interessante, dove il turismo era attratto non solo dalla moda, dal design e dalla gastronomia, ma anche dall’arte, e si animava moltissimo in concomitanza con Miart e il suo ricco programma di eventi collaterali. Ora è un fondamentale dovere di tutti noi, “operatori culturali”, quello di riattivare la città, restituirle il fascino che aveva. La sua ricchezza da un punto di vista architettonico gioca un ruolo fondamentale in questo senso, anche grazie ai recenti interventi nella zona di Porta Garibaldi e poi di CityLife, che offre un programma di arte pubblica, e alle prossime riqualificazioni degli scali di Porta Romana e Farini.
La storia di ogni galleria è la storia di incontri e dialogo con i collezionisti, qual è il profilo dei tuoi clienti e com’è stata l’evoluzione del collezionismo in questi anni?
Ho sempre privilegiato gli appassionati d’arte e quindi non ho mai molti rapporti con i “buyers”, proprio perché il mio lavoro si rivolge a persone che vogliono collezionare l’arte perché la amano profondamente. Ho conosciuto un collezionismo allo stesso tempo colto e animato dall’emozione, dall’istinto e da una grande sincerità: la collezione diventa così specchio delle proprie ossessioni e sensibilità. Credo di aver dato importanza all’aspetto umano, trasformando le intese in relazioni solide e durature, in vere e proprie amicizie. I collezionisti mi hanno anche aiutato tantissimo, sostenendo le mie scelte. Sono stati il più grande supporto alla mia attività e con me hanno vissuto viaggi e avventure, condiviso e coltivato passioni comuni.
Le generazioni cambiano e oggi sono anche molto aperta ai più giovani e nuovi collezionisti, in cui continuo a ricercare quell’interesse nei confronti dell’arte che secondo me è fondamentale. L’arte può senz’altro rivelarsi un ottimo investimento, non voglio essere una purista e dire che l’arte è solo cultura, ma bisogna crederci e godere di quelle che sono le sue prerogative.
Da studente e poi da critico ho dei ricordi estremamente vividi legati alle mostre e agli artisti che hai proposto: il primo è senz’altro quello della performance di Marcello Maloberti intitolata All’incirca alla Caviglia del 2002: penso sia un’opera estremamente poetica e in qualche modo abbia definito non solo il vostro rapporto ma anche qualcosa di profondamente legato all’arte italiana degli ultimi trent’anni…
Marcello è un artista con cui lavoro dagli inizi e ho un rapporto estremamente intenso, le nostre divergenze d’opinione generano talvolta belle idee. Lui è stato una presenza costante e significativa anche quando ho cambiato e ampliato gli spazi, interpretandoli per primo con i suoi progetti spesso site-specific e sempre legati all’azione. Quella famosa performance, è vero, è stata profondamente poetica ma anche molto fisica e sensuale. Marcello ha invitato degli “extracomunitari”, come erano tristemente chiamati in quel periodo, in galleria. Vestiti eleganti, stavano letteralmente e metaforicamente in una posizione superiore, in piedi su degli sgabelli, con in mano delle rose rosse di un profumo inebriante che si mescolava all’odore della pelle. Marcello, un’artista che si è sempre dedicato all’analisi della scena locale, ha abbracciato in quel periodo un fenomeno nazionale, quello dell’immigrazione, che è poi diventata una tematica ampliamente affrontata nella scena artistica contemporanea.
Nella programmazione della galleria oltre che alla performance hai dato molto spazio al linguaggio del video, anche in questo senso non una scelta immediatamente commerciale ma coraggiosa e rispettosa della necessità di molti artisti di esprimersi attraverso quel medium. Ricordo ad esempio un incontro con l’artista inglese Maria Marshall alla quale dedicasti nel 2005 una mostra perfetta, di soli video.
Feci una mostra di Maria Marshall presentando il suo video di esordio When I grow up I want to be a cooker, uscito nel 1999, che ebbe una grande attenzione internazionale. Spesso gli unici protagonisti dei suoi video erano i figli, ritratti in una condizione di abbandono. Ma ogni situazione era solo un’illusione, generata dall’abile, perfetta, manipolazione digitale delle immagini.
Milano è una che città dove molto spesso le espressioni dell’arte contemporanea si sono fuse con quelle della moda. Come vedi questo scambio?
Trovo che l’incontro fra le arti visive e la moda sia spesso fecondo. Abbiamo realizzato mostre in collaborazione con Krizia, Herno e Aspesi, contaminazioni utili che hanno creato una bella trasversalità. Apprezzo molto anche le riviste di moda che dedicano sempre più spazio all’arte perché le loro penne offrono un punto di vista diverso, stimolante.
C’è un’artista con cui non hai ancora lavorato e che ti piacerebbe mettere in mostra prima o poi?
Si c’è. È un pittore, è nel mio cuore, chissà.
(www.libreriadelledonne.it, 04/06/2020)
https://www.vogue.it/news/article/raffaella-cortese-galleria-25-anni-intervista
Rispecchiamento, indagine critica, testimonianza. FOTOGRAFIA E FEMMINISMO NELL’ITALIA DEGLI ANNI ’70 Convegno a cura di Cristina Casero
Il convegno è stato riprogrammato come evento ONLINE su Zoom.
Di seguito giorni e orari degli appuntamenti:
- Mercoledì 3 giugno, ore 18
- Mercoledì 10 giugno, ore 18
- Mercoledì 17 giugno, ore 18
Il programma completo è disponibile nel sito ufficiale!
LOCANDINA ORIGINALE:
Sabato 7 marzo 2020, ore 10 – 18.30 Villa Ghirlanda, Cinisello Balsamo (MI) Nel programma di Milano MuseoCity (6-8 marzo 2020)
Il Museo di Fotografia Contemporanea raccoglie l’invito di MuseoCity, che dedica l’edizione 2020 al contributo delle donne nell’arte e nella società contemporanea, e promuove una giornata di studio sabato 7 marzo 2020 dal titolo “ Ri spe cchiamento, indagine critica, testimonianza. Fotografia e femminismo nell’Italia degli anni ’70 “ nella cornice della storica Villa Ghirlanda a Cinisello Balsamo, Milano.
Il convegno, a cura di Cristina Casero, docente di storia della fotografia e di arte contemporanea, e introdotto da Giovanna Calvenzi, Presidente del Museo, vuole essere l’occasione per una riflessione condivisa sul ruolo centrale giocato nell’Italia degli anni Settanta dalla fotografia quando, in mano alle donne, essa diventa uno strumento privilegiato di r ispecchiamento, indagi ne critica, testimonianza . È intorno alla metà di quel decennio, che in Europa e negli Stati Uniti si diffondono le posizioni del nuovo femminismo, il femminismo della differenza. Questo rivoluzionario pensiero, incentrato sulla necessità di ridefinire l’identità della donna a prescindere da millenni di cultura maschile, ha forti ripercussioni sulle ricerche di molte fotografe e artiste, che spesso usano la fotografia in quanto mezzo ideale sia per condurre una riflessione identitaria, sia per indagare e testimoniare la condizione della donna, restituendone un racconto inedito, poiché nato dallo sguardo femminile.
Grazie al contributo di studiose che da tempo hanno indagato il rapporto tra fotografia e femminismo (Linda Bertelli, Lara Conte, Elena Di Raddo, Laura Iamurri, Lucia Miodini, Federica Muzzarelli, Raffaella Perna), saranno approfondite le ricerche di alcune fotografe italiane, a partire da quelle presenti nelle collezioni del Museo, alla luce del loro contributo ad una nuova riflessione sulla donna. Chiuderà gli interventi un dibattito moderato da Cristina Casero e Giovanna Calvenzi con alcune delle protagoniste di quella vivace stagione, in dialogo con il pubblico.
Durante la giornata sarà inoltre presentata al Museo una installazione multimediale realizzata dagli studenti della Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano a partire dalle opere di fotografe conservate al Museo. Troverà spazio per un’anticipazione anche la mostra esito del progetto culturale C art e de Visite , di Arianna Arcara e a cura di Roberta Pagani, che per due mesi e mezzo ha offerto nel quartiere Crocetta a Cinisello Balsamo un servizio gratuito di ripresa e stampa di ritratti e fototessere.
di Serena Carbone
Intervista. Un incontro con Maria Rosa Sossai e Paola Gaggiotti, fondatrici del collettivo editoriale «fuoriregistro», che esplora in maniera multidisciplinare il mondo dell’educazione

Fuoriregistro – quaderno di pedagogia e arte contemporanea è un collettivo editoriale che esplora in maniera multidisciplinare il mondo dell’educazione; muovendosi tra teoria e prassi, ha attivato una serie di progetti che attraversano le comunità contemporanee. È un’iniziativa editoriale che si autoproduce, in collaborazione con Studio Boîte di Milano e l’editor Federica Cimatti. I contributi provengono da coloro che credono nella rivista e nella possibilità di operare cambiamenti. «Nel 2018 per il Festival Unlearnig Barcelona – spiega una delle sue ideatrici Maria Rosa Sossai – avevo invitato diversi artisti (tra cui Paola Gaggiotti, anche lei una delle fondatrici) e collettivi che hanno presentato dei processi di disapprendimento della didattica tradizionale: una messa in discussione dei metodi convenzionali di insegnamento e valutazione.
Cosa
si può raccontare del progetto?
Maria
Rosa Sossai: Durante quel festival è nata l’idea di continuare la
collaborazione con un progetto editoriale che, in verità, prosegue
una ricerca iniziata da tempo. Quando ero insegnante al Liceo
artistico, durante le mie ore di lezione, ho invitato alcuni artisti:
sono convinta che la storia dell’arte vada vissuta insieme; poi nel
2012 è nato il collettivo Alagroup e nel 2017 ho pubblicato il libro
Vivere insieme l’arte come azione educativa, dove affrontavo in
chiave storica le diverse sperimentazioni in ambito educativo,
dedicando poi una seconda parte agli esercizi d’artista –
nell’idea che essere artisti non significhi solo essere
professionisti dell’arte all’interno del sistema. La rivista
fuoriregistro continua il lavoro iniziato nel libro, ma ora condiviso
con una redazione numerosa.
Arte
ed educazione, un binomio importante che fatica a essere recepito
dalle scuole, tanto che la storia dell’arte è ormai la cenerentola
delle discipline. Che soluzione proponete per superare
l’impasse?
Paola
Gaggiotti:
fuoriregistro
è la nostra soluzione. La realtà in cui ci muoviamo è abbastanza
drammatica, l’arte infatti si è progressivamente impoverita e non
esiste quasi più nelle scuole, e dove c’è, resiste grazie
all’entusiasmo dei singoli. Parlo ovviamente di una visione
contemporanea in cui l’arte è anche uno strumento di relazione.
Quando entra dentro la vita, ha la capacità di creare un linguaggio
diverso, promuovendo un approccio più democratico che potrebbe
creare una cittadinanza attiva che, a sua volta, potrebbe mettere in
crisi un sistema mercantile logoro.
M.R.S. Aggiungo che oggi gli
unici che fanno educazione all’arte sono i dipartimenti di
didattica dei musei, ma al loro interno, dove vige una struttura
verticistica, l’aspetto didattico è secondario rispetto a quello
curatoriale, non c’è un’osmosi reale tra le varie attività e di
questa distanza le istituzioni museali devono assumersi la
responsabilità.
Voi
praticate «attivismo artistico»: cosa intendete con questa
espressione?
P.G.:
Attivismo artistico è stare dentro il sistema dell’arte in modo
attivo ma critico. Ed è anche uscire da quello stesso sistema per
andare in luoghi diversi, come ospedali, carceri o comunità. Quando
mi hanno chiamata in un ospedale perché serviva un linguaggio
diverso da quello scientifico e psicologico per relazionarsi ad
adolescenti ammalati di cancro, ho sperimentato diverse criticità:
nel momento in cui l’arte entra in questi luoghi non può essere
asservita né essere un riempitivo o un passatempo. L’arte
contemporanea è la messa in crisi dei processi convenzionali e a
questo il mondo delle scienze non è preparato, perché coglie solo
l’aspetto dell’intrattenimento.
Il
primo numero della rivista si pone all’insegna dello sguardo di
genere ed è dedicato a Carla Lonzi, si intitola infatti
«Feminisssmmm Vai Pure», chiaro riferimento al libro «Vai Pure»
che racchiude il dialogo tra la critica femminista e il compagno
Pietro Consagra. Come mai questa scelta?
M.R.S.
Quando Donata Lazzarini, docente e artista, mi ha chiamata per tenere
un laboratorio presso l’Accademia di belle arti di Brera, aveva già
deciso di leggere con le studentesse questo testo, il cammino era
tracciato e ci è sembrato il tema giusto con il quale iniziare. Le
questioni che riguardano la relazione di coppia sono estremamente
attuali, se pensiamo ai femminicidi e ai modi spesso conflittuali di
vivere la coppia. Anche le studentesse hanno detto fin da subito che
sentivano il testo molto vicino al loro vissuto: le performance che
hanno realizzato ci hanno colpito per la loro maturità espressiva.
Il che dimostra che le parole della Lonzi risuonano ancora attuali.
La stessa azione pedagogica, d’altra parte, si basa non tanto sui
contenuti ma sulla relazione che si crea tra docente e discente.
È
già in programma il secondo numero della rivista: quali saranno gli
argomenti affrontati?
M.R.S.
Del bene comune e anche questa volta si partirà da progetti in pieno
svolgimento. Sto curando al Museo civico di Castelbuono una mostra
dal titolo L’asta del 1920, per celebrare il centenario
dell’acquisto del castello da parte di tutta la comunità dei
castelbuonesi. In questo numero il focus è sulle comunità che
praticano il bene comune, tema ancora più attuale in questo momento
di forzato isolamento.
P.G. Io sto lavorando con una comunità
di ragazzi di Sestri Levante per realizzare un’opera ad utilizzo
dei cittadini stessi. Avendo già uno spazio, si pensava a come
arredarlo per metterlo a disposizione della comunità prendendo degli
oggetti da un magazzino di riuso. Ci siamo dovuti fermare e non è
detto che, quando riprenderemo, non ripenseremo tutto di nuovo.
(il manifesto, 18 aprile 2020)
Nota. “Feminisssmmm Vai pure” è stato presentato alla Libreria delle donne di Milano il 22 febbraio 2020. Vai alla registrazione video.
dal 24 gennaio al 6 febbraio 2020
Inaugurazione della mostra venerd’ì 24 febbraio alle ore 18,30
“Sgurdo sulla natura di una giovane savonese del primo 900” acquerelli di Francesca (Fanny) Martinengo, presso l’associazione Apriti Cielo! Via Spallanzani 16, Milano Porta Venezia cell. 3498682453
di Marirì Martinengo
“Flavia, mia figlia, un giorno, osservando i dipinti e i disegni di zia Fanny, mi ha detto: “Sono belli; Mamma, perché, invece di custodirli gelosamente in un armadio, non li fai vedere? Zia Fanny era la mia madrina di battesimo, mi amò in modo particolare, istituendo con me un vincolo preferenziale, tale da rendermi l’erede di affetti e di tradizioni materne. Nel mio libro Lavoce del silenzio (Genova, ECIG, 2005) e in altri scritti successivi, LaSignora del Monte (Neos Edizioni, Torino, 2011) ho descritto la sua influenza, dettata da tenerezza non scevra di autorità, sulle mie scelte di vita. Tra le nostre generazioni si è verificato un notevole divario, ma zia Fanny, comunque, ha costituito per me un modello di capacità relazionale e di impegno nel sociale – diventato per me politico. Pur dotata d’ inclinazione e di talento per le arti figurative, non fruì né di un’educazione né di un’istruzione idonee a coltivarli e a svilupparli; la sua passione per il disegno e la pittura si espressero in solitudine, senza incoraggiamenti né riconoscimenti. I fiori e i frutti, soprattutto ripresi dal vero, furono i soggetti privilegiati, ma non trascurò la figura, il ritratto, i paesaggi. Insieme alle due sorelle, unite da forti legami di affetto e di solidarietà, visse una vita agiata e decorosa, alternando i soggiorni nel confortevole alloggio savonese a villeggiature in campagna, a Monforte d’Alba, nelle Langhe, in una affascinante dimora, situata nel centro del borgo medievale, vicino al castello. Coltivò moltissime relazioni, sia in città sia in campagna, rivolgendosi a donne, bambine, bambini e famiglie, con affabilità e sincera partecipazione, senza operare distinzioni di classe: fra le sue frequentazioni figuravano la marchesa Scarampi del Cairo e le contadine del Sot. Fin dall’infanzia inserita nell’ambiente culturale cattolico e borghese, nella seconda parte della vita rese attive e operanti queste connotazioni, e, abbandonando matite, pennelli, tavolozza ecolori, si dedicò ad attività socio-religiose di donne per le donne, in particolare all’Associazione “La protezione della giovane”, volta a tutelare le ragazze provenienti in città dalle campagne e a favorirne l’inserimento in impieghi dignitosi anche se modesti. Con questa mostra, dove sono esposti alcuni suoi studi artistici, per la maggior parte non firmati né datati, intendo rendere omaggio, seppur tardivo, alla sua gentile e amorosa attenzione per la bellezza e la grazia della natura; dare alla sua passione per l’arte il riconoscimento che le è dovuto, al suo affetto per me un grazie infinito.
Francesca (Fanny) Martinengo nacque a Savona, il 31 maggio 1893, era figlia terzogenita di Maria Massone e di Alessandro Martinengo, era una delle sorelle del padre di Marirì Martinengo che ha voluto ricordarla con questa mostra. Morì a Savona, nel maggio 1983
La mostra allestita con la collaborazione di Giuliana Borgonovo resta aperta sino al 6 febbraio 2020 e si può visitare il martedì, venerdì e sabato dalle 18,30 alle 20,00 oppure su appuntamento telefonando al 3498682453
di Silvia Conta
A Brescia la prima mostra in Italia dell’artista e attivista curda Zehra Doğan, con circa 60 opere degli oltre due anni di detenzione nelle carceri turche
LA MOSTRA E’ STATA PROROGATA SINO AL 1 MARZO 2020
Al Museo di Santa Giulia di Brescia la personale che porta per la prima volta in Italia il lavoro dell’artista, giornalista e attivista curda Zehra Doğan (1989, Diyarbakir, Turchia): “Avremo anche giorni migliori – Zehra Doğan. Opere dalle carceri turche”, a cura di Elettra Stamboulis.
La mostra, voluta dal Comune di Brescia e dalla Fondazione Bresci Musei, diretta da Stefano Karadjov, si colloca nell’ambito della terza edizione del Festival della Pace si Brescia (dal 15 al 30 novembre 2019). In questo contesto negli spazi della mostra sabato 23 novembre, alle 16.00, si terrà un incontro aperto al pubblico con Zehra Doğan, che sarà dedicato alla memoria di Hevrin Khalaf.
«Il percorso espositivo, concepito da Elettra Stamboulis, riunisce circa 60 opere inedite, tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista, che interessano tutto il periodo della detenzione dell’artista nelle carceri di Mardin, Diyarbakir e Tarso, dove Zehra è stata rinchiusa per 2 anni, nove mesi e 22 giorni con l’accusa di propaganda terrorista per aver postato su Twitter un acquarello tratto da una fotografia scattata da un soldato turco», si legge nel comunicato stampa.
“Avremo anche giorni migliori” «costituisce la prima mostra di impianto critico curatoriale dedicata all’opera della fondatrice dell’agenzia giornalistica femminista curda “Jinha”», anche protagonista di una performance organizzata lo scorso maggio presso la Tate Modern di Londra, città in cui Zehra Doğan ha scelto provvisoriamente di vivere il proprio esilio, ha spiegato l’organizzazione.