di Manuela De Leonardis


Per Daiara Tukano (São Paulo 1982, vive e lavora a Brasilia), artista e attivista indigena brasiliana, l’arte è lo strumento per riconnettersi con il suo popolo ma anche per riallacciare un legame con il padre Álvaro Fernandes Sampaio Tukano, uno dei più importanti leader politici del movimento in difesa dei diritti dei popoli indigeni. Nella sede romana della Richard Saltoun Gallery (fino al 22 dicembre) – prima personale in Europa – Daiara Tukano, erede spirituale di Feliciano Lana (1937-2020) tra i principali artisti indigeni brasiliani, presenta una nuova serie di opere su carta, visionaria esplorazione della mitologia e della spiritualità della comunità Tukano e del suo profondo legame con la natura.

Dopo il master in Diritti umani all’Università di Brasilia, cosa l’ha spinta a agire nel campo dell’arte?

Il mio rapporto con l’arte comincia dal nome che ho ricevuto dalla mia famiglia Daiara Hori Figueroa Sampaio Duhigó. «Hori» nella lingua Tukano indica ciò che è più vicino al significato di arte, l’espressione visiva della spiritualità ma anche colore, profumo, luce e «Duhigó» vuol dire primogenita. Mia madre mi ha chiamata anche «Daiara» che, in un’altra lingua, vuol dire «la mia piccola amica». Ho avuto il grande privilegio di nascere nella nazione indigena. Mio padre Álvaro Tukano è un leader storico del Movimento indigeno brasiliano che si è battuto per l’approvazione dei loro diritti, riconosciuti per la prima volta solo nel 1998. È stato perseguitato dalla dittatura militare e accusato di essere un ribelle. Fino al ’79, la popolazione indigena veniva considerata incapace di intendere e come i bambini era sotto la tutela legale dello stato. Non eravamo considerati cittadini. Non avevamo il diritto di avere un passaporto e per poter uscire dal paese bisognava avere l’autorizzazione dello stato. Eravamo gli ultimi della società ad avere accesso ai diritti civili. Questa è stata la lotta principale di mio padre come capo indigeno. São Paulo, dove sono nata, è un centro molto importante dal punto di vista politico e il movimento per i diritti civili delle popolazioni indigene è avvenuto soprattutto nelle sue università. Lì mia madre e mio padre si sono incontrati.

Durante l’infanzia ha studiato all’estero, quando ha cominciato ad avere rapporti diretti con il popolo Tukano?

Non ho avuto l’opportunità di nascere nel villaggio indigeno di Balaio nell’Alto Rio Negro, al confine tra Brasile, Colombia e Venezuela ma lì ho imparato a camminare e nuotare. La comunità indigena Tukano è tra le più grandi del paese e anche tra le meglio preservate, ma si trova veramente molto lontano. Ho trascorso l’infanzia in Colombia, paese di madre. Anche lei è attivista per i diritti delle popolazioni indigene, ricercatrice, antropologa ed è stata una delle principali organizzatrici del sistema sanitario pubblico per le popolazioni indigene. Quando si è trasferita a Parigi, per il suo master, ho potuto vivere lì frequentando la scuola pubblica francese. Ho studiato la storia, la storia dell’arte, la filosofia. Amo l’antichità greca e romana, egiziana, cinese, giapponese e in generale la mitologia, soprattutto quella indigena. A 15 anni, quando sono tornata in Brasile, mi sono riconnessa con mio padre. È stato duro venire a conoscenza di tutte quelle violenze subite dalla mia gente (sono perpetrate ancora oggi). Ho cominciato anche ad apprezzare la bellezza della complessità narrativa delle origini, della lingua. Mio padre proviene da una famiglia che custodisce la sapienza tradizionale. Nonostante la persecuzione, siamo una delle nazioni indigene che è ancora molto legata alle tradizioni, come quella medica conosciuta come «ayahuasca» di cui si parla nelle leggende della creazione. Nella nostra «biografia» c’è stato un momento di rottura con le tradizioni che coincide con l’arrivo della chiesa cattolica nella regione dell’Alto Rio Negro. La strategia dell’integrazione è stata prevalentemente condotta con un accordo tra lo stato del Brasile e la chiesa cattolica, attraverso la congregazione salesiana che e ha aperto i suoi collegi per educare gli studenti indigeni. Prima avevamo le nostre case comunitarie dove si viveva insieme e si celebravano i nostri riti: sono state distrutte per costruire chiese. I salesiani hanno condannato e demonizzato ogni tradizione. Nei loro collegi hanno fatto studiare i bambini indigeni a partire dai 4, 5 anni. Molti di loro, strappati alle famiglie di origine, sono morti. Era vietato parlare la lingua madre e sono stati obbligati a usare il portoghese. Mio padre è stato uno di quei bambini, vittima e testimone di ogni genere di tortura. Malgrado ciò, ha ereditato la tradizione da mio nonno e dal bisnonno. Da quando mio nonno è morto a 110 anni, all’inizio della pandemia di Covid-19, è mio padre a incarnare la figura del saggio. Quando finalmente ho capito veramente l’importanza di tutto ciò, ho cercato di fare qualcosa per il mio popolo attraverso il potere dell’arte. Dipingere per rivisitare la storia non è soltanto un modo per farla conoscere alle persone non indigene, m’interessa come attraverso le mie opere ci si possa ricollegare con il passato e la narrativa delle origini. È un’azione politica di resilienza e continuità culturale. Il modo di porre quest’arte in un modo diverso, non più demonizzata ma come cultura dal valore condivisibile, che può essere collocata in uno spazio di dignità e autonomia, permette di collaborare alla ricostruzione della memoria della cultura indigena.

La relazione con la natura che è così importante per gli indigeni lo è anche nel suo lavoro?

Per gli indigeni è tutto. Non abbiamo il dominio sulla natura, ne siamo parte. Tutta la nostra conoscenza proviene dalla natura, dal dialogo tra i diversi elementi. I Tukano – letteralmente «gente del tempo o della terra» – chiama «gente» (mahsã) qualsiasi cosa: «wai mahsã» la gente delle acque, i pesci; «yunku mahsã» la gente della foresta, i boschi; «nohkoa mahsã» la gente delle stelle; «owe mahsã» la gente dell’aria; «uhtà mahsã» la gente della pietra, le rocce… Sono tutte persone con le loro sapienze, la loro storia, i sentimenti e possono parlare con noi e noi con loro, instaurando un dialogo.

Quindi per voi non c’è gerarchia tra l’essere umano e la natura…

La gerarchia è una visione dei bianchi. La relazione che abbiamo con la natura è proprio all’opposto di quella occidentale ed è ciò che cerco di condividere attraverso il mio lavoro. Una stella nella mente limitata degli occidentali può essere bellissima e poetica, noi invece proviamo a immaginarla mentre si riflette e canta per tutto il tempo nella luminosità dell’universo. Le stelle possono raccontare storie antichissime perché vivono molto a lungo.


(il manifesto, 8 novembre 2023)

di Annalisa Camilli


Una macchinetta rossa, un paio di occhiali da sole, delle fotografie scolorite, una boccetta di profumo, uno specchio rotto, un anello, una bussola, un accendino, un biglietto scritto a penna e ripiegato con cura, una pagella, un telefono: sono alcuni degli oggetti appartenuti alle 368 persone morte nel naufragio del 3 ottobre 2013 e che hanno permesso ai familiari lontani di identificarli e di dare un nome ai corpi senza vita arrivati sulle spiagge di Lampedusa.

Gli oggetti sono sopravvissuti alle persone e ne raccontano la storia, tramandano la memoria che spesso si vorrebbe cancellare dei lunghi viaggi fatti per raggiungere l’Europa e delle famiglie che non possono archiviare quei lutti.

Nel decennale di quel naufragio, la mostra La memoria degli oggetti al Memoriale della shoah di Milano presenta le immagini di questi oggetti scattate dal fotografo Karim El Maktafi. L’esposizione è visitabile dal 26 settembre al 31 ottobre.

“La memoria degli oggetti nasce proprio dalle cose appartenute alle persone migranti morte quel tragico 3 ottobre, repertati allora dalla polizia come corpi di reato, prove da portare in tribunale che hanno consentito di identificare le persone decedute anche grazie alle rilevazioni del dna, di dare loro un nome e restituire dignità anche ai loro familiari”, raccontano gli organizzatori. “Alcuni familiari hanno dovuto aspettare anche fino a dodici mesi per il riconoscimento dei corpi e anche per vedere tutelati i loro diritti, come banalmente avere un certificato di morte”, continuano.

“La forza di quegli oggetti è che ci costringono a guardarci in tasca”, spiegano nei testi che accompagnano le immagini Valerio Cataldi e Imma Carpiniello di Carta di Roma e Associazione museo migrante. “A cercare quegli occhiali da sole, quell’orologio, quella boccetta di profumo ci costringono a riconoscere che la nostra vita è piena delle stesse cose. Che solo il caso ci ha consentito di non aver bisogno di afferrare quegli oggetti e lasciare per sempre il nostro mondo”.

“In un’epoca in cui l’indifferenza e la disinformazione possono rapidamente diluire l’impatto emotivo di una tragedia”, evidenzia nel suo scritto Giulia Tornari di Zona, “questa esposizione può servire come potente richiamo alla nostra responsabilità collettiva. E nel farlo, offre la possibilità di usare la memoria non solo come un atto di ricordo, ma come uno strumento per l’azione e il cambiamento”.


(Internazionale, 5 ottobre 2023)

di Valentina Parisi


A dispetto della loro più che ventennale relazione, Wisława Szymborska non volle mai andare a convivere con il suo compagno, lo scrittore Kornel Filipowicz, sostenendo che il ticchettio simultaneo di due macchine da scrivere in due stanze diverse del medesimo appartamento avrebbe creato un effetto ridicolo, oltre che insopportabile. Nulla valse a farle cambiare idea, nemmeno la consapevolezza che quell’odioso, nevrotico baccano sarebbe stato ogni tanto attenuato dal serico fruscio di un paio di forbici: dotata di un estro artistico non comune, la poetessa polacca era infatti una infaticabile creatrice di collage, ironici e talvolta spiazzanti, realizzati ad personam per i suoi amici.

Apparentemente ideate per sopperire alla penuria, negli anni Sessanta, di cartoline postali accettabili sotto il profilo estetico, quelle composizioni irriverenti costituivano in realtà un vero e proprio termometro delle simpatie personali dell’autrice: l’invio per posta dei collage era riservato esclusivamente ai conoscenti provvisti di senso dell’umorismo in grado di apprezzarne la stralunata logica; agli altri toccavano invece semplici biglietti prestampati. Tuttavia, i fortunati eletti non dovevano essere pochi, a giudicare da quanto scrive il segretario ingaggiato all’indomani del premio Nobel, Michał Ruszynek, che nel volume di memorie Nulla di ordinario, pubblicato da Adelphi nel 2019, ricorda come a novembre, nell’imminenza delle feste di fine anno, Szymborska si rifiutasse categoricamente di ricevere ospiti, perché doveva (così dichiarava) «fare l’artista». D’altronde, ammettere visitatori nel suo appartamento non sarebbe stato semplice: l’intero pavimento era ingombro di ritagli di vecchi giornali e riviste; Szymborska «ci passava sopra come una cicogna, li accoppiava, scoppiava a ridere e li incollava sui cartoncini».

A illuminare questo aspetto poco noto della creatività della poetessa, nata a Kòrnik nel 1923 e scomparsa a Cracovia nel 2012, provvede ora la mostra Wisława Szymborska – La gioia di scrivere (a cura di Sergio Maifredi e con la consulenza di Andrea Ceccherelli e Luigi Marinelli) visibile al Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce a Genova fino al 3 settembre. Un progetto ambizioso che, alternando tracce visive e memorabilia, archivalia a testimonianze inedite, si propone di esplorare le frange più collaterali dell’opera di Szymborska, ormai divulgata e tradotta pressoché nella sua interezza.

In questa ottica, particolarmente rilevanti appaiono i suoi divertissement letterari, ovvero anzitutto limericks improvvisati in viaggio (sull’esempio dell’amico di gioventù, il poeta Maciej Slomczynski) e, per l’appunto, i wyklejanki o «ritaglini» – così aveva soprannominato Szymborska i suoi collage. Sono inopinate, fatue estensioni della sua produzione poetica «seria», quegli episodici sconfinamenti nel regno del nonsense, dove la lingua prende imperiosamente il comando e «le rime trascinano l’autore verso l’abisso» (come ammetteva Szymborska con la consueta ironia).

Basati per lo più sulla giustapposizione di un’immagine spesso leziosa e modée attinta alla collezione di cartoline d’anteguerra della poetessa e di una didascalia fulminante, i collage esposti in mostra (ben 85, ora sparpagliati per le varie sale, ora occasionalmente riprodotti in gigantografie) sembrano dunque ricreare l’incontro casuale «di una macchina per cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio» tanto caro a Comte de Lautréamont e, in genere, alla poetica surrealista. Al contempo però il carattere «individuale» dei «ritaglini» suggerisce che questi momentanei accoppiamenti di realtà inconciliabili sulla superficie precaria del cartoncino nascondano allusioni comprensibili soltanto ai destinatari che, magari, riconoscevano nei collage ricevuti per posta una qualche incauta osservazione sfuggita loro in presenza della poetessa. Così queste composizioni appese in cornici invariabilmente identiche, quasi a mimare la loro appartenenza a una collezione ideale, possono essere anche lette come frammenti di dialoghi interrotti o schermaglie a distanza tra Szymborska e i protagonisti della vita intellettuale polacca – tra i corrispondenti più bersagliati da «ritaglini» figurano il critico Edward Balcerzan e il poeta Jarek Mikołajewski; e c’è, inoltre, un omaggio verbovisivo trasmesso dalla poetessa all’amato Woody Allen.

Altrove, il collage, mischiando alto e basso, sublime e dozzinale, condensa una immagine straniante, che verrà poi ripresa in un componimento poetico. È il caso del brutale gorilla che afferma «la scimmia è una canna pensante», in cui i curatori dell’esposizione hanno individuato un legame con la chiusa della poesia Disattenzione: «Il savoir-vivre cosmico, / benché taccia sul nostro conto, / tuttavia esige qualcosa da noi: / un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal / e una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote».

L’esposizione genovese procede infatti su due binari paralleli: da un lato cerca di dimostrare come questi divertissement apparentemente frivoli non siano in contraddizione con l’opera maggiore della poetessa; d’altra parte utilizza proprio questa ripetuta immersione della Szymborska «artista» nell’immaginario kitsch di rotocalchi e cartoline per spiegare (e assecondare) l’appropriazione che della sua figura, ancor prima che dei suoi testi, è stata fatta da varie voci dei media italiani. Un esito davvero imprevisto, considerando la propensione quasi speculativa di molte poesie di Szymborska, nonché la sua leggendaria ritrosia.

Fa parte dell’allestimento un florilegio di citazioni, riprodotto a parete, da Jovanotti, Roberto Vecchioni e Roberto Saviano, che hanno usato versi della poetessa cracoviana, ora trasformata in (improbabile) icona pop; d’altra parte, però, altre sale sembrano rivolgersi a un visitatore animato da robusti appetiti filologici, capace di apprezzare le varianti testuali di alcune celebri poesie, nonché di godere della lettura di alcuni inediti degli anni Sessanta (non proprio travolgenti, a dir la verità), emersi di recente dalle carte dell’ex marito di Szymborska Adam Wlodek.

Altrettanto raffinata è la ricostruzione degli «esordi» dell’autrice in Italia, prima all’interno dell’antologia di poesia polacca curata da Carlo Verdiani nel 1961 per l’editore Silva e poi, grazie a Vanni Scheiwiller, con la plaquette La fiera dei miracoli, uscita nel 1993 e accompagnata da delicati disegni a matita di Alina Kalczyńska, autrice anche di vari libri d’artista.

Di tutti gli elementi in mostra – dalla veste dattiloscritta degli inediti a quella tipografica dei volumi a stampa – a prevalere visivamente è senz’altro la grafica imprevedibile, coloratissima e strampalata dei collage, con sorridenti donnine che scavalcano d’un balzo la Torre di Pisa, la medesima torre trapiantata nel deserto, oppure i monoliti di Stonehenge tramutati in puzzle e accompagnati dall’imperativo: «Componili da te». D’altronde, a detta di Ruszynek, l’appartamento stesso di Szymborska a Cracovia sembrava progettato secondo i princìpi contrastivi che regolavano i suoi «ritaglini»: l’eleganza dei mobili era bruscamente contrastata da oggetti come un maialino rosa con la coda a manovella, e di fronte al quadro monumentale di Maria Jarema, pittrice di culto dell’avanguardia cracoviana, nonché prima moglie di Kornel Filipowicz, era appesa «una forchetta con i denti fantasiosamente intrecciati, trovata in un mercato delle pulci a Breslavia». Assai azzeccata appare dunque la scelta dei curatori di piazzare all’ingresso della mostra una macchina per scrivere Predom degli anni Ottanta – proprio quell’oggetto insieme amato e odiato che i collage dovevano momentaneamente zittire.


(Alias – Il manifesto, 16 luglio 2023)

di Katia Ricci


Dal 23 al 31 maggio presso la Galleria di arte moderna e contemporanea di Palazzo Dogana, in piazza X Settembre n. 22 a Foggia, sarà esposta la mostra di Mail Art Donna Vita Libertà, organizzata dalla Merlettaia di Foggia e dalla Rete delle Città Vicine, che da alcuni anni invitano artisti/e di ogni parte d’Italia a partecipare all’evento di Mail Art su un tema che riguarda l’attualità. La mostra, curata da Katia Ricci allestita da Rosy Daniello e Anna Fiore è itinerante tra le Città Vicine.


Con Arte Postale o mail art si intende lo scambio di manufatti di svariati materiali e tecniche, di piccole dimensioni come cartoline, biglietti e lettere, utilizzando il sistema postale. La nascita ufficiale della mail art si fa risalire al 1962, quando Ray Johnson dette vita alla New York Correspondance School istituzionalizzando lo scambio di opere tramite il mezzo postale, ben presto si diffuse in tutto il mondo e fu in seguito chiamata Mail Art. Gli antecedenti della mail art, però, possono essere rintracciati nei primi esperimenti dei Futuristi e dei Dadaisti.

Chiunque può partecipare all’evento ed entrare a far parte della comunità artistica. È un fenomeno artistico che può raggiungere facilmente un pubblico assai vasto in ogni parte del mondo, creando una stretta relazione tra mittente destinatario e oggetto spedito e permette una riflessione collettiva su un tema attuale. La caratteristica primaria della Mail Art, dunque, è quella di essere uno scambio di idee e creatività non commerciale.

È un’arte che si sottrae ai meccanismi e alle lusinghe del mercato artistico e del sistema dell’arte per salvaguardare la propria funzione originaria: usare un linguaggio creativo per comunicare con altri esseri umani o con le divinità. Associazioni come La Merlettaia di Foggia e la Rete delle Città Vicine, che hanno tra le proprie pratiche politiche la comunicazione e la relazione interpersonale, da anni si servono della mail art per affrontare in modo creativo una questione che è stata al centro dei loro interessi e delle loro attività.

Oggi che tutti siamo costantemente connessi con i mezzi digitali, l’arte postale potrebbe sembrare un mezzo superato. Invece, proprio per l’uso a volte invasivo del web, un messaggio su carta assume un grande valore emotivo, perché è qualcosa che esiste e si può toccare, e dà anche sensazioni fisiche. È pur vero che l’uso del web facilita la diffusione di tale pratica grazie alla posta elettronica che, abolendo le distanze spaziali e temporali, ha modificato e arricchito il concetto di Arte Postale. Molti, infatti, non ne disdegnano l’impiego a fini artistici. Secondo altri, invece, il ricorso alla posta elettronica procurerebbe una perdita di valore.

Donna Vita Libertà, in curdo Jinjiyanazadî, è il titolo della mail art del 2023, dedicata a Carla Bertola, organizzata dalla Merlettaia di Foggia insieme alla Rete delle Città Vicine. Tre parole che negli ultimi due anni sono risuonate in tantissime piazze europee e del mondo, gridate da donne e uomini, giovani e anziani, a partire da ogni angolo dell’Iran, dai quartieri ricchi di Teheran a quelli poveri delle più remote province e campagne. Ogni donna e uomo è consapevole di mettere a rischio la propria vita pur di abbattere l’insopportabile regime di quella Repubblica islamica che, perseguitando le donne, schiaccia la vita, la giustizia e la libertà di tutti. Per questo lo slogan è stato accolto, ripreso e passato di bocca in bocca come un canto che non accenna a spegnersi, ma che infiamma menti e cuoriLiberté, Égalite, Fraternité urlavano i francesi nel 1789, ma mentre quelle parole di fatto si rivolgevano solo agli uomini e per questo sono finite nel sangue e nell’orrore, Donna Vita Libertà apre a un mondo nuovo, in cui la pace non è una parola ormai consumata, ma il pilastro di una società improntata ai valori materni, modello di civiltà per donne e uomini, che, dice Paola Cavallari, «[…] metta al centro il corpo, le emozioni, i desideri, che si fondi su una riflessione senza pregiudizi per ridisegnare la vita quotidiana, che dia valore alle relazioni e ci porti a costruire legami, che ci insegni a gestire il conflitto […]» senza soprusi e violenze.

Il volto della rivolta iraniana è quello di Mahsa Amini, la giovane di origine curda uccisa dalla cosiddetta polizia morale, colpevole di aver lasciato scoperta una ciocca di capelli.

Il tema della mail art ha catalizzato l’interesse di molte artiste e artisti, ma anche di donne e uomini, non artisti, che hanno voluto cimentarsi in questo tipo di comunicazione creativa per esprimere la propria solidarietà e sostegno per la lotta delle donne iraniane e lo sdegno per il modo in cui un regime cieco e crudele cerca di soffocarla. Ha partecipato con una cartolina anche Maryam Aeenmehr, un’iraniana che vive in Italia.

Speranza, ammirazione per il coraggio e la lotta delle donne e degli uomini sono espresse nelle cartoline di Maryam Aeenmehr, Rossana Bucci, Stefania Piccirilli, Antida Tammaro, Rosanna Macrillò, Rossella Sferlazzo, Michela Di Conza, Rosaria Campanella, Anna Fiore, Sergia Sambo, Claudio Gavina, Roberta Iarussi, Luciana Talozzi, Carmen Fuiano, Viola Gesmundo, Mariangela Magnelli, Marina Penzo, Oronzo Liuzzi, Maria Paola Quattrone, Emilia Metta, Ornella Cicuto, Daniela Tzekova.

Denuncia, sdegno, dolore nelle opere di Maria Bonaduce, Isabella Branella, Monica Carbosiero, Laboratorio Selvaggiastro (che presenta anche una poesia, Dama d’argento, di Andrea Colonna), Rosalba Casmiro, Ruggero Maggi, Wanda Delli Carri, Maria Iofalo, Michela Cassa, Ino Conserva e Amalia Mancini, Gianni De Maso, Antonio Fortarezza, Enrico Straccini.

Riflessione sulla lingua nelle cartoline di Maurizio Sacchet.

Bruno Cassaglia e Rosy Daniello rappresentano dei puzzle per indicare che la libertà è un bene fragile e prezioso da ricostruire. Un tenero cuore, offerto come ex-voto per la libertà, nelle opere di Nando Granito con la nipote Francesca e di Nicola Liberatore. Un mondo a forma di cuore, ispirato da una mappa di inizio ’700, è la cartolina di Donatella Franchi. Soffioni, simbolo di libertà e speranza, nella cartolina di Donata Glori.

Certezza che la libertà si può costruire con le relazioni in primis tra donne e con un percorso di crescita e consapevolezza nelle cartoline di Cornelia Rosiello, Adele Longo, Clelia Mori, Cettina Tiralosi, Anna Di Salvo.


(l’Attacco di Foggia, 19 maggio 2023)

di Judith Butler


Che mondo creiamo mettendo a rischio le opere d’arte, e come può aiutarci l’arte a creare un mondo in grado di contrastare le enormi forze di distruzione? Credo che la soluzione a questo problema stia nel chiamare a raccolta le arti – sia dentro che fuori dai musei, sia di persona che online – per far fronte al negazionismo dilagante e cominciare a immaginare modi per salvare il pianeta. Concordo con la filosofa Anna Longo, che di recente ha scritto: «Nei tempi in cui viviamo […] l’arte sembra non solo impossibile ma anche frivola, impotente. È proprio in momenti simili che abbiamo più bisogno dell’arte, o piuttosto di diventare artisti: non creatori di nuove maschere per i valori che indurranno le masse a desiderare la propria schiavitù, ma agenti vivi, capaci di affermare la vita contro ciò che, col pretesto di renderla possibile, la mutila».

Di seguito una serie di punti. Primo, lo spettacolo pseudo-situazionista del danneggiamento di opere d’arte dipende dalla capacità dei musei di proteggere l’arte. Pertanto gli attivisti vedono, e promuovono, il museo come un luogo dove l’arte viene tutelata. La loro sarà anche una critica al mercato, ma almeno implicitamente è un plauso ai musei, e costituisce una – pur obsoleta – pratica estetica. Secondo, ci sono buone ragioni per criticare l’elitismo dei musei, perciò più il museo viene integrato nello spazio pubblico, meglio è. Anzi, rendere gratuito l’ingresso ai musei, portare la danza, i film, l’improvvisazione all’interno degli spazi museali, comprese le soglie inutilizzate, le fondamenta e i tetti, va sempre bene, a mio parere. Il museo, se è veramente aperto, può ampliare la sfera pubblica e persino evitarne il completo collasso nel digitale.

Terzo, è giusto sostenere che il mercato distorce il valore dell’arte, e che è quasi impossibile avere esperienza di un’opera al di fuori della cornice del mercato. La mercificazione influenza il nostro modo di vedere, sentire, avere esperienza delle opere d’arte e di installazioni e spettacoli in generale, e talvolta lo impedisce tout court. Resta ancora da capire se il valore di mercato esaurisca completamente il valore di un oggetto. E comunque, un conto è dire che il valore di mercato non esaurisce il valore di un oggetto in tutte le sue accezioni, un altro è concludere che il valore della vita è superiore a quello dell’arte. Saltare a una conclusione così affrettata significa dare per scontato che il valore dell’arte non abbia nulla a che vedere con il valore della vita: al contrario, tra arte e vita possono esserci connessioni profonde, e l’arte – di qualunque tipo, compresi i documentari e la sperimentazione digitale – può aiutarci a immaginare e a concepire una catastrofe climatica di cui, quando non la neghiamo del tutto, troviamo intollerabile il pensiero. Se l’arte è un modo per rendere pensabile l’intollerabile e l’impensabile, allora l’oggetto artistico – oggetto in senso winnicottiano – diventa un’occasione di contemplazione che ci induce a comprendere il legame reciproco tra mondo oggettuale e vita organica, un’interdipendenza simile a quella dei processi vitali nelle biosfere terrestri. Winnicott sosteneva che lo spazio, il tempo, l’oggetto affidabile e ricettivo consentono di sopportare e riflettere su passioni altrimenti intollerabili.

La maggior parte dei suoi esempi comincia con il desiderio di distruggere, un desiderio che risulta intollerabile anche perché, se rivolto alla madre o alla figura di accudimento, il bambino o giovane rischia di distruggere l’Altro da cui dipende la sua vita. Dovrà quindi imparare che il suo desiderio di distruggere in realtà non ha il potere di distruggere. Perdendo tale presunzione di onnipotenza, il bambino riconosce la capacità di sopravvivenza dell’Altro, la sua durevolezza. Naturalmente i gruppi di persone, specie se numerosi, sono diversi dai bambini, eppure non riusciamo a superare la dipendenza dalle vite altrui, né ad ammetterne la profondità. Se l’oggetto legittima la possibilità di provare sentimenti intollerabili – compreso l’odio assassino, il dolore irreparabile –, è perché consente la riorganizzazione del materiale psichico.

Nel caso della psicoanalisi, l’oggetto terapeutico – vale a dire il terapeuta – acconsente a farsi prendere a pugni dal paziente, fino a esserne «mutilato», per dirla con Christopher Bollas. Il consenso a diventare destinatario di rabbia e dolore, persino a essere temporaneamente «mutilato» dal paziente, rientra nel contratto psicoterapeutico. Il paziente riesce a sopportare i sentimenti senza paura che si trasformino in azioni, che provare rabbia o odio corrisponda a commettere un omicidio, o che il dolore logori le persone fino ad assimilarle, nella perdita, a chi hanno perduto. Facendo emergere tale distinzione, l’oggetto rende tollerabili i pensieri di distruzione, desiderio, dolore o invidia: se l’espressione di questi sentimenti è tale da poterla osservare e rifletterci, allora le si può sopravvivere e, idealmente, dare inizio al processo di elaborazione dell’intollerabile.

La catastrofe climatica rappresenta una nuova declinazione dell’intollerabile, ed è per questo che abbiamo bisogno dell’arte, ora più che mai. Stephanie LeMenager, docente di Letteratura e Studi ambientali, scrive del lutto preventivo tipico della cultura del petrolio che definisce la nostra modernità, l’angosciante previsione della perdita del mondo che conosciamo, un mondo che annienta il proprio futuro. In un modo o nell’altro, questo mondo è destinato a scomparire a causa del cambiamento climatico, e noi ne piangiamo la perdita, perché insieme al mondo perdiamo anche i ricordi lì incarnati e, per certi versi, tutte le nostre vite. L’industria petrolifera e i combustibili fossili coincidono ormai con il nostro senso del mondo e al contempo ne costituiscono la fonte di distruzione: vivere in un mondo simile, trarne beneficio rappresenta una distruzione che non riusciamo né a vedere né ad arrestare senza prima elaborarne il lutto – cosa che molti reputano impossibile, perché ormai le nostre vite sono diventate inimmaginabili senza il petrolio.

Secondo LeMenager e Catriona Sandilands, «la melanconia ambientale non è che un meccanismo di negoziazione della perdita e della responsabilità ambientale». Prevediamo la perdita del mondo che conosciamo, la distruzione della terra, ma non possiamo ancora elaborarne il lutto. Come sostiene Sandilands, «l’oggetto della perdita è “indegno di lutto” all’interno di una società incapace di riconoscere gli esseri non umani, gli ambienti naturali e i processi ambientali come oggetti degni di un lutto sincero». Non ci limitiamo a prevedere un lutto che subiremo in futuro, ammesso che vivremo abbastanza da assistere alla completa distruzione del clima e del pianeta: probabilmente non ci saremo già più, perciò viviamo con la prospettiva di quel giorno, o manciata di giorni, la svolta finale e irreversibile. Il vero problema è che continueremo a perdere il pianeta giorno dopo giorno, se non ci rassegniamo a dire addio alla nostra dipendenza dal petrolio.

È una perdita continua, perché siamo nel pieno della catastrofe climatica, costretti a ripensare il significato dell’elaborazione del lutto a fronte di una perdita ancora incompiuta, che, per definizione, non avrà testimoni del suo compimento. L’arte può dare una scossa solo se dimostra e documenta la normalizzazione della distruzione. La normalizzazione del consumo e della produzione di petrolio è un processo di distruzione, e come tale andrebbe presentata. Abbiamo bisogno di forme d’arte che lottino per la vita nel mezzo della distruzione, e al contempo smascherino gli stratagemmi attraverso i quali la rovina si spaccia per progresso o, peggio ancora, per normalità.

La teorica ambientale Heather Davis ha coniato la perfetta definizione di «archivio performativo di presente». «Una testimonianza», scrive Davis, «che documenta non la condizione delle cose perdute, ma il lutto preventivo e il sentimento perturbante di un mondo ormai scomparso». E, aggiungerei, la scomparsa del mondo si verifica proprio mentre cerchiamo di capire come elaborare il lutto quando la perdita è ancora in corso, come resistere alla perdita nel bel mezzo del lutto.


(il manifesto, 10 maggio 2023)

di Melania Mazzucco


Nel gennaio del 1971, sulla rivista Art News, la storica dell’arte Linda Nochlin pubblicò un saggio dal titolo polemico: Perché non ci sono state grandi artiste? Benché l’autrice fosse una femminista, la domanda non era retorica, e nemmeno ironica, a sbeffeggiare la misoginia dominante nel pensiero occidentale. In effetti, fino al XX secolo, non si incontrano pittrici del valore di Giotto, Raffaello, Dürer, Caravaggio, Vermeer o van Gogh. Nochlin dimostrava che la risposta non stava in qualche carenza biologica, intellettuale o di talento. Bensì nelle condizioni materiali in cui le donne vissero e operarono. Il pamphlet, cui fece seguito nel 1976 la mostra Women Artists 1550 – 1950, curata dall’autrice con Ann Sutherland, ha dato l’abbrivio al dibattito sulla disparità di genere in arte e alla rivisitazione dell’arte creata dalle donne: ha stimolato le ricerche che hanno permesso via via la riscoperta di innumerevoli artiste cadute nell’oblio. Le «ignorate, scomparse, rintanate, morte o disperse […], ormai ignare di se stesse», come ha scritto Giorgio Manganelli, in occasione della mostra curata da Lea Vergine nel 1980, L’altra metà dell’avanguardia, che disseppelliva dall’anonimato le protagoniste dei movimenti artistici del XX secolo – da Bice Lazzari a Popova, Marevna, Udal’kova e Carol Rama – anche loro, come le antenate dei secoli precedenti trascurate o relegate a ruoli ancillari.

Tuttavia la questione era nota da più di quattrocento anni. Nel 1568, compilando per la seconda edizione delle Vite quella di suor Plautilla Nelli, monaca domenicana a Firenze e pittrice sua contemporanea, Giorgio Vasari aveva già posto con estrema lucidità la questione. Ammirava le opere della concittadina, ma – da collega e intenditore – non poteva non sottolinearne i limiti. Plautilla «avrebbe fatto cose meravigliose» – scrive – «SE come fanno gli uomini, avesse avuto commodo di studiare et attendere al disegno e ritrarre cose vive e naturali». Sapeva dunque il Vasari che Nelli NON poteva studiare, né conoscere il mondo e la natura, che NON poteva aggiornarsi né muoversi fuori dalle mura del convento in cui era rinchiusa, che NON poteva ideare pittura dalla vita e dal vero, ma doveva utilizzare materiali di repertorio altrui. Quel SE è il presupposto che ha influenzato la visione – e la valutazione – delle opere delle artiste fino a poco tempo fa.

Esiste un affascinante filone della storiografia, detta controfattuale, o storia alternativa. Per illuminare la casualità degli eventi, e destrutturarne i nessi, essa individua, nella storia, dei turning point, o dei punti di divergenza, e pone una domanda molto semplice: WHAT IF? Cosa sarebbe accaduto se suor Plautilla Nelli – o dopo di lei Elisabetta Sirani, Antonella De Rosa, Plautilla Bricci, Giulia Lama, solo per citare alcune italiane – avessero potuto studiare nella bottega di un grande maestro e non del loro (talvolta modesto) padre, se avessero potuto viaggiare per istruzione come qualunque altro pittore, soggiornare in qualche corte, competere sul mercato, ideare vaste composizioni e non quadretti di devozione privata? Se le loro opere fossero state pubbliche, visibili a coloro che poi scrivono le storie della pittura per tramandarle, se le loro invenzioni fossero state imitate, riprese, replicate? Se oggi i loro quadri fossero esposti nei maggiori musei del mondo, visitati da milioni di spettatori, riprodotti su cartoline, manifesti, pubblicità fino a diventare parte del nostro patrimonio collettivo? Ma non è stato così. Provate a chiudere gli occhi e a ricordare a mente l’opera di una pittrice. È improbabile che la memoria ve la proponga come i Girasoli, la Ragazza con l’orecchino di perla, una Madonna con bambino di Bellini, un nudo di Modigliani… La storia alternativa cambia il passato e lo fa deragliare su un binario diverso solo per ipotesi: non agisce sul presente. Non è quella la strada.

Per poter creare un nuovo canone della storia dell’arte, la cui necessità è denunciata dalla simultanea apparizione di volumi pubblicati in vari paesi dell’occidente, eterogenei per forma e struttura ma sintonici nel fine (fra essi includo anche il mio recente Self portrait. Il museo del mondo delle donne), oggi non possiamo limitarci a riscoprire qualche dimenticata, ridotta a nome di un elenco o a nota a piè di pagina, e a dedicarle una personale. Come pure sempre più spesso accade (solo all’inizio di questo 2023 si contano fra l’altro le mostre di Alice Neel, Faith Ringgold, Berthe Morisot, le espressioniste astratte). Non è più questione di risarcimento, come forse è stato sul finire del Novecento, ma di prospettiva. Dobbiamo trasformare quel SE ipotetico di Vasari in NONOSTANTE. Dobbiamo includere l’avversativa nel nostro sguardo. Soltanto così le esitazioni, i limiti anatomici e culturali, le imitazioni delle opere delle pittrici diventeranno una nuova e altra bellezza.

Allora avremo davvero la possibilità di considerare tutte le artiste per ciò che effettivamente furono – non solo figlie o sorelle d’arte, epigone obbligate di maniere e iconografie altrui; non solo ispiratrici, muse e amanti di geni e maestri acclamati, ma compagne di strada e talvolta -penso alle astrattiste come Rozanova, alle surrealiste, a Meret Oppenheim – perfino precorritrici. Allora forse supereremo il rischio romantico che tuttora ci limita: di far prevalere la biografia tragica, infelice o ribelle dell’artista sulla sua opera. Di innamorarci della vittima della storia e non del lavoro della sua mente e del suo pennello. Quanto il culto di Artemisia o Frida Kahlo devono al processo per stupro o all’incidente in tram e agli amori selvaggi e quanto al modo in cui la prima interpretò le eroine forti e la seconda la sua doppia cultura india e bianca?

Giorgio Vasari però ci dice soprattutto un’altra cosa. Che un uomo del Cinqucento era perfettamente consapevole del vero punto della questione: le donne avrebbero potuto creare come gli uomini, se ne avessero avuto le possibilità. Ciò su cui dobbiamo interrogarci è dunque il fatto che queste possibilità continuarono a essere loro negate, ben oltre il XVI secolo. Impedito l’accesso alle botteghe, e poi alle accademie e alle scuole; ostacolata la formazione; offuscata l’opera dal pregiudizio, e poi dal paternalismo. Questa resistenza è stata secolare, e in alcune parti del mondo è ancora fortissima. Essa testimonia la paura degli uomini detentori del potere, del sapere e del controllo sociale di perdere l’uno e gli altri. Non è questione di estetica, ma di politica. Scrivere il nuovo canone è inverare finalmente il cambiamento.


(Robinson – La Stampa, 6 maggio 2023)

di Katia Ricci


La mostra di Clelia Mori, dedicata a Genoeffa Cocconi Cervi, ha come primo e immediato effetto quello di togliere questa donna dall’invisibilità a cui la narrazione della cultura patriarcale l’ha relegata; il secondo è quello di accendere una luce sulla relazione tra madre e figlio/a, sulla necessità di dare nuovo senso alla maternità. Senza di lei, senza il suo consenso dato per sette volte più tre (una figlia morta precocemente e due figlie), senza la madre di Genoeffa e la madre della madre nella lunga sequenza del continuum materno, non ci sarebbe stata la storia dei “sette fratelli Cervi”. E, dunque è da lei che bisogna cominciare, non dare per scontato il suo essere madre, considerandolo qualcosa di puramente fattuale. È questa l’operazione che Clelia Mori compie, conferendole una luce particolare, prima ancora di raccontare la vicenda di una donna, le sue azioni, le caratteristiche della sua persona, il contesto in cui ha vissuto e che ha contribuito a costruire. È Genoeffa una madre a cui sono stati uccisi contemporaneamente sette figli.

Inimmaginabile il dolore più grande che si possa provare moltiplicato per sette.

Nelle dieci carte di 1 metro x 1,50 su fondi colorati, tra cui l’oro per metterne in evidenza la preziosità, emerge il disegno a matita della donna a figura intera, un non-finito, tratta da una fotografia di Genoeffa seduta e circondata da tutta la sua numerosa famiglia, marito e figli, in parte seduti, in parte in piedi. Un’altra fotografia la ritrae a mezzobusto. In entrambe, le uniche pervenuteci, appare austera, frontale, immobile nel suo vestito nero, come era abitudine diffusa da Nord a Sud nel mondo contadino. Le carte hanno i segni di piegature come se l’artista le avesse trovate in un cassetto, quasi nascoste e le avesse dispiegate per dare finalmente a Genoeffa il posto che merita nella storia e darle il suo valore simbolico. Anche il non-finito contribuisce a conferire all’operazione il significato di ricerca del rimosso che ha colpito le donne, nel caso specifico Genoeffa, e farle esistere come soggetti sul palcoscenico della storia. Gli scarni documenti, le testimonianze del marito che le sopravvisse, tratteggiano la figura di una “resdora”, la reggitrice dell’azienda familiare, impegnata nel lavoro produttivo e riproduttivo, dedita non solo a fare e crescere figli, ma a occuparsi dell’economia e dell’organizzazione dell’impresa familiare, Tutto ruotava intorno a lei, centro e perno del suo mondo. Anche in un sistema patriarcale come il suo, Genoeffa viveva il suo essere donna e madre per affermare il senso di civiltà che metteva a disposizione della società umana. Per questo nel “resto del tempo” leggeva l’amata Bibbia e i classici della letteratura, insegnando ai figli, ai quali li leggeva insieme alle favole, la giustizia, la dignità, il valore di sé in rapporto agli altri e il prendersi cura del mondo. Tutte cose ritenute pericolose, anzi sovversive dell’ordine costituito in un periodo di totalitarismo, come è stato il fascismo.

La sua giornata era lunga e faticosa: infinite ed estenuanti operazioni la tenevano sveglia fino a notte, dalla cura dei figli, alla preparazione del cibo, all’allevamento del pollame, alla filatura e tessitura, alla confezione di abiti, come racconta il marito. 

Ma non è su questi aspetti, pur fondamentali per la vita di quella comunità che si sofferma l’artista, quanto proprio sul valore intrinseco di essere donna. Clelia la disegna frontale, ieratica con appena una leggera increspatura all’angolo della bocca, un sorriso appena accennato per esprimere quasi la soddisfazione di quello che è e ha fatto. Un’icona bizantina, una sovrana. Nei disegni di proposito Clelia non fa riferimento ai figli perché è a lei che vuole restituire tutto il suo valore. La maternità per una donna è una possibilità, una scelta, non è un destino a cui non è possibile sottrarsi. Nell’Annunciazione, l’ultima parola è di Maria. È un momento quello prima di pronunciare il suo sì in cui è sospesa la salvezza del mondo.

Genoeffa ha cercato di rendere migliore il suo mondo, ma il suo cuore ha ceduto di fronte all’insensatezza crudele e alla violenza dei fascisti che, dopo averle ucciso i figli, imprigionato il marito, avevano distrutto nuovamente la casa che con Alcide, una volta liberato, e tutti i nipoti era riuscita a ricostruire. Genoeffa non ha retto di fronte all’ingiustizia e ai soprusi, lei che si ribellava all’obbligo per le donne dei mezzadri di fare il bucato per il padrone, che protestava perché il padrone non riparava il tetto della sua camera, che si batteva perché fossero aboliti i confini dei campi in modo che ognuno potesse prendere dalla terra che coltivava quanto serviva al proprio sostentamento. Una figura di donna, quella che tratteggia Clelia, animata dallo stesso amore per la giustizia, la solidarietà e la libertà per il quale ancora oggi nel mondo si battono tante donne mettendo a rischio la propria vita.


(DeA – Donne e Altri, 23 aprile 2023)

di Riccardo Michelucci


La mostra di opere d’arte di Elena Osipova doveva rimanere aperta nel centro di San Pietroburgo fino al 24 febbraio, primo anniversario dell’attacco russo all’Ucraina. Così avrebbe voluto l’anziana artista che aveva deciso di esporre una trentina di manifesti contro guerra nei locali del partito di opposizione russo Jabloko. Uno di essi mostra il volto di una bambina, i capelli biondi e gli occhi grandi, con la scritta «mamma ho paura della guerra» in lingua russa e ucraina. In un altro spicca invece una gru bianca in cui si legge « La Russia è in lutto. Si pente. La Russia non è Putin». Alcuni giorni fa, durante l’inaugurazione, la settantasettenne Osipova ha spiegato a un piccolo pubblico di giovani che la mostra voleva essere un atto di protesta ma anche di pentimento per quanto sta facendo il Cremlino in nome del popolo russo. Qualcuno, osservando le pareti ricoperte di manifesti, le ha chiesto se aveva paura. «No – ha risposto lei – ormai sono vecchia e non ho più paura di niente. Perché mai mi viene impedito di dire o di fare qualcosa nel mio Paese, nella mia patria, se lo faccio in modo pacifico, senza armi? La Costituzione russa me lo permette ma è stata sospesa». Poi ha aggiunto che il suo sogno più grande sarebbe quello di assistere al pentimento di Putin e vedere finalmente adottato un trattato che vieti l’uso delle armi nucleari in tutto il mondo. L’inaugurazione è filata via senza problemi ma il giorno dopo sono arrivati gli agenti di polizia. Hanno fatto irruzione nel palazzo sostenendo che ci fosse un allarme bomba e, dopo aver transennato l’edificio allontanando tutte le persone presenti al suo interno, hanno messo al lavoro i cani anti-esplosivo. Non hanno trovato alcun ordigno, ma nel corso dell’ispezione hanno requisito una ventina di manifesti dell’anziana artista il cui contenuto configura, secondo loro, un’ipotesi di reato. Il solito reato: diffusione di informazioni «false» sull’operazione militare in Ucraina per screditare l’operato delle forze armate della Federazione russa. Se l’accusa sarà confermata Elena Osipova rischia di finire in carcere nonostante l’età avanzata e le sue precarie condizioni di salute. La mostra di manifesti di qualche giorno fa non era che l’ultima di una lunga serie di azioni di protesta inscenate da questa insegnante d’arte in pensione che col tempo si è guadagnata l’appellativo di «coscienza di San Pietroburgo». Le prime risalgono addirittura agli anni ’90, ai tempi delle guerre in Cecenia. Per aver manifestato pubblicamente il suo dissenso contro il Cremlino è stata arrestata in più occasioni, anche prima dell’invasione dell’Ucraina. In città la conoscono tutti e lei ormai conosce di persona molti agenti di polizia. Spesso quando la fermano chiudono un occhio e preferiscono riaccompagnarla a casa sua, invece che portarla in caserma. Gli anni che passano si fanno sentire e protestare per le strade diventa sempre più faticoso, perché le gambe e le braccia le dolgono e non riesce più a reggere i manifesti a lungo. Ma questa piccola donna dai capelli grigi non demorde e trova ancora la forza per continuare a esprimere il suo dissenso. Stessa sorte anche per Lija Achedžakova, una delle più celebri attrici in Russia: è stata epurata dallo storico teatro di Mosca Sovremmenik dove lavorava da quasi cinquant’anni: era critica nei confronti della guerra.


(Avvenire, 10 febbraio 2023)

di Ombretta De Biase


Un’ottima performance d’attrice/autrice: Le parole di Drina, monologo scritto e interpretato da Laura Laterza, regia di Claudio Orlandini e Cinzia Brogliato, andato in scena il 27 gennaio al Teatro Litta


Un’ottima performance d’attrice oltre che di autrice quella di Laura Laterza che la pone fra i nostri più validi talenti teatrali, anche se ancora poco noti. In uno spettacolo coinvolgente fin dalle prime battute: Io sono Drina e ho quindici anni, l’attrice/autrice propone un teatro di narrazione anomalo, cioè non ingessato entro i consueti canoni di una rappresentazione accorata ma distaccata, e li travalica inscenando, grazie all’Io-narrante, l’arco di vita di una quindicenne che ha subito una tragedia e che infine approda alla maturità di una donna ormai integrata nel Paese che la ospita.

La storia è quella vissuta e scritta da Drina Bavestrello, cilena d’origine, in cui lei stessa racconta ciò che ha vissuto a partire dai suoi quindici anni durante il colpo di stato in Cile nel 1973 di Pinochet, e poi continua con il suo approdo, insieme alla famiglia finalmente salva, in Italia, patria dei suoi avi.

Ed ecco che sul palco vediamo materializzarsi una ragazzina, il personaggio di Drina, che, attonita e terrorizzata, scopre di essere precipitata in una tragedia di orrori e terrori che colpirà man mano amici e parenti e che la sua mente immagina agìta da un orrendo scorpione sempre pronto a colpire, uno scorpione che, purtroppo, dopo la fuga  dal Cile, lei vedrà ri-materializzarsi anche in un’Italia degli anni feroci del terrorismo double-face nostrano. Ma Drina combatte, resiste alla durezza di una vita d’adolescente che, dal benessere in Cile, è precipitata nella miseria e in una società tutt’altro che accogliente. Ma tutto è bene quel che finisce bene, come si dice, perché grazie anche al suo bambino, Drina, ormai adulta, può far pace con il mondo a dispetto degli scorpioni che purtroppo lei  ha ben conosciuto e che ancora, lo sappiamo tutti, sono all’opera nel mondo di oggi. 

E dunque Laura Laterza grazie anche ad un sapiente e ben addestrato uso della tecnica del linguaggio del corpo, che per certi versi rimanda ad Emma Dante, propone uno spettacolo originale, dal ritmo impeccabile e quindi da non perdere. 


(www.libreriadelledonne.it, 9 febbraio 2023)

di Angela Strano


Il 25 novembre come giornata internazionale per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto agli abusi che le donne hanno subito nei millenni. Una serie di iniziative susseguitesi a Catania per fare in modo che questo non accada più o quantomeno si acquisisca una coscienza critica. Vi teniamo sempre con noi è il nome del flashmob svoltosi lo scorso venerdì pomeriggio in piazza Università.

Esso ha trovato organizzazione con la Ragnatela, rete di associazioni, gruppi, realtà varie contro la violenza sulle donne.

Composizione del flashmob

Vi teniamo sempre con noi prende il nome dalle sagome femminili collocate sul pavimento di piazza Università. Esse indicano tutte le donne vittime di femminicidio, in quanto si sono opposte al dominio maschile permeato di retaggi patriarcali. Tra queste figura Valentina Giunta, che viveva nel quartiere di San Cristoforo, uccisa la scorsa estate dal figlio, imbevuto dai condizionamenti familiari paterni.

A queste sagome si è accompagnato il tappeto rosso, con cartelloni sulle artiste che hanno rappresentato il tema della violenza sulle donne e la strenua opposizione a questo. Artemisia Gentileschi, Frida Kahlo, Elisabetta Sirani (pittrice italiana), Zehra Doğan (artista curda), Barbara Kruger e Sue Williams (artiste statunitensi) hanno caratterizzato la mostra allestita da Carmina Daniele e Concetta Rovere in cui emerge tutto il potenziale femminile. Quest’ultima ha pure esposto alcune sue creazioni, assieme a Cettina Tiralosi. Lungo il mandala della libertà hanno trovato spazio gli acquerelli di Monse Pla, il cui richiamo alla natura è strettamente correlato al femminile, con la Grande Madre. Nel corso dell’iniziativa c’è stata la lettura di alcuni brani tratti dal libro Ferite a morte di Serena Dandini, da parte di Carmina Daniele e Mati Venuti. Un’interpretazione scandita dalle note del contrabbasso di Enrico Sorbello, il quale ha suonato musiche di Bach nonché brani improvvisati.

Vi teniamo sempre con noi: le voci espressesi

Introduce il dibattito Anna Di Salvo, della Città Felice, ricordando Valentina Giunta e affermando che negli ultimi decenni la civiltà delle donne ha preso piede e occorre contribuire al suo consolidamento. Sussiste, infatti, una regressione delle conquiste femminili. A tal proposito, Nunzia Scandurra ha affermato che gli attacchi contro le donne sono sistematici. Occorre continuare a condividere gesti, simboli, luoghi, esperienze. I corpi incarnano l’essenza femminile, aspetto minacciato con la prevalenza del genere neutro. La libertà delle donne messa a dura prova da leggi che la reprimono.

Segue l’intervento di Oriana Cannavò, del centro antiviolenza Penelope, la quale ha auspicato un maggior interesse, in termini di atti concreti, da parte degli enti locali. Ella, inoltre, si è riferita alle attività svolte presso la Casa sociale delle donne. Hanno trovato esposizione, infatti, le creazioni del laboratorio di sartoria gestito da Emily e Amelia di Trizzi d’Amuri. Agata Palazzolo, segretaria del SUNIA di Catania, ribadisce la necessità dell’indipendenza economica e abitativa per le donne, specie le vittime di violenza. Occorrono quindi incentivi alle donne affinché riescano a trovare una casa indipendente. Tina Palella afferma che è fondamentale ascoltare i/le ragazzi/e che frequentano la scuola. Se tra questi/e sussiste chi vive in un contesto familiare difficile, si può risalire al nucleo della violenza.

L’unione contro la violenza sulle donne

Vi teniamo sempre con noi continua con le parole di Valeria Sicurella, del centro antiviolenza Thamaia, sostenendo che il femminicidio non consiste solo nell’uccisione finale. Esso concerne pure tutto ciò che logora e annichilisce una donna. I processi penali, infatti, costituiscono la punta dell’iceberg rispetto a un problema che resta sommerso. Thamaia ha sempre creato rete con le scuole, nonché lavorato con persone competenti e accolto circa 250 donne l’anno. Giusy Milazzo, di SUNIA Sicilia, espone le attività di questa realtà, rivolta ai quartieri popolari; luoghi in cui la voce delle donne spesso resta inascoltata. Pina La Villa, insegnante, afferma che, per prevenire la violenza contro le donne, occorre la sensibilizzazione nelle scuole. La comunicazione con gli/le alunni/e è fondamentale.

Gli interventi di Sesto Schembri e di Chiara Petrelli hanno una connotazione politica. Il primo afferma che il maschilismo è conseguenza di una società borghese; la seconda sostiene che in qualunque sistema economico la donna ha avuto più difficoltà nell’affermare la sua soggettività. In ultimo il discorso di Cettina Tiralosi, la quale evidenzia l’importanza della relazione tra donne, intesa come reciprocità. Questo porta a definire la matrilinearità e a disinnescare la cancellazione del femminile. Un incontro sentito e partecipato che porta a volgere verso altri spunti nel confronto tra donne, in cui emergono necessità importanti da mettere a fuoco, come il tema della violenza. Vi teniamo sempre con noi ha incarnato tutto questo.


(https://catania.italiani.it/vi-teniamo-sempre-con-noi-contro-la-violenza-sulle-donne/, 1° dicembre 2022)

di Sara De Simone


Più di cento anni fa, nell’autunno del 1904, i fratelli Stephen – Vanessa, Virginia, Thoby e Adrian – traslocano dal quartiere di Kensington a quello di Bloomsbury. Il loro padre, Sir Leslie Stephen, noto intellettuale vittoriano e celebrato direttore del monumentale Dictionary of National Biography, è morto nel febbraio dello stesso anno. Per i giovani Stephen è il momento di cambiare aria: via le pesanti tende di broccato, via i mobili laccati di nero e i velluti scuri che incupivano la grande casa paterna al numero 22 di Hyde Park Gate. Lunga vita alle pareti chiare, ai tessuti colorati e alle alte, luminose, finestre sull’ariosa e vivace Gordon Square. I parenti e gli amici di lunga data dei rispettabilissimi Leslie e Julia Stephen sono esterrefatti: quattro ragazzi di buona famiglia in un quartiere malfamato? Maschi e femmine che vivono insieme? Senza genitori, senza servitù, senza chaperon, senza nessuno che preservi la rispettabilità del loro nome e – per quanto riguarda le ragazze – dei loro corpi? È un’indecenza. Uno scandalo.

Eppure, è proprio in quella casa dello «scandalo» che, a partire dal 1905, comincia a riunirsi un piccolo gruppo di giovani amici: sono intellettuali, artisti, donne e uomini nel fiore degli anni, che non hanno nessun programma, ma molte idee. Desiderano ripensare il mondo che li circonda, e vogliono farlo insieme. Discutono fino a tarda notte di letteratura, s’interrogano sulla bellezza e sull’etica – perché per loro bellezza ed etica vanno insieme –, non hanno paura di amare in modo non convenzionale e, nel tempo, raccolgono attorno al proprio nucleo molti altri amici, giovani e meno giovani, che come loro desiderano dare forma a un’altra vita. Sono Virginia Woolf, Vanessa Bell, Lytton Strachey, Maynard Keynes, Clive Bell, Dora Carrington, Leonard Woolf, Duncan Grant, Roger Fry, e molti altri. Scrivono libri, dipingono quadri, aprono case editrici e atelier di design. Hanno stanze tutte per sé – ciascuno e ciascuna la propria – e le arredano con colori audaci e forme nuove. 
Costruiscono case che sono mondi, e in quei mondi continuano a incontrarsi nel tempo. Dal 26 ottobre, una mostra senza precedenti in Italia ripercorre le esistenze e le opere dei membri del Bloomsbury Group, e di tutte e tutti coloro che vi gravitarono attorno negli anni. La curatrice Nadia Fusini – traduttrice, critica letteraria e massima esperta di Virginia Woolf in Italia – ha scelto di mettere al centro della mostra proprio l’immagine della casa, come spazio in cui si «inventa la vita».

Tutto comincia con una casa, non è vero? 
Sì, una casa a Bloomsbury che ha il senso di una libertà conquistata, che non è più la casa del padre, la casa patriarcale, ma uno spazio fisico che corrisponde a uno spazio del pensiero. Virginia Woolf è molto chiara al riguardo: senza la materialità di un luogo tutto per sé non si può scrivere, non si può creare. 
Al numero 46 di Gordon Square le due sorelle, Vanessa e Virginia, hanno finalmente una stanza tutta per sé, ciascuna la propria. È partendo da questo spazio conquistato, che possono creare un luogo per incontrare i propri amici e condividere con loro un’esperienza comunitaria. Bloomsbury non è un club, e neppure un circolo, è un gruppo di persone che stanno insieme, in maniera vera e feconda, perché pensare assieme li appassiona.

Insieme all’immagine centrale della casa, c’è quella della stanza, che lei ha scelto di utilizzare come filo conduttore della mostra. 
Il Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps – luogo che Virginia avrebbe amato molto – ha messo a disposizione della mostra una sequenza di stanze. Mi piaceva l’idea che i visitatori le attraversassero come spazi fisici e simbolici: dalla stanza tutta per sé di Virginia, al salotto in cui s’incontravano i membri del gruppo, alla stanza della Hogarth Press, la casa editrice dei Woolf, che per anni ebbe sede in uno spazio domestico, la loro casa per l’appunto. La pressa con cui stampavano i libri era infatti sistemata sul tavolo della sala da pranzo: capolavori come Preludio di Katherine Mansfield e i Poems di T.S. Eliot furono stampati così, dentro casa, grazie al lavoro manuale di Virginia e Leonard.

C’erano poi gli Omega Workshops, il laboratorio di design d’interni aperto dal critico d’arte Roger Fry, a cui pure la mostra dedica spazio e attenzione. 
Bloomsbury non è solo un luogo di pensiero, ma anche uno spazio del fare. Queste donne e questi uomini sono degli entrepreneurs, nel senso più alto del termine. Sono intraprendenti, e vogliono realizzare delle imprese: una di queste è quella di trasformare il gesto artistico in un gesto che crea oggetti di uso comune. Vogliono creare cose belle per tutti: tazze, poltrone, tessuti, vasi. Chi ha detto che un piatto non può essere un’opera d’arte? E che un’opera d’arte non debba essere alla portata di tutti? Mi sembra giusto e democratico. E attenua la contraddizione tra estetica e mercato, trattandosi di oggetti unici, singolari, inventati uno per uno dalla mente di un artista.

A proposito di «inventare», lei ha scelto di inserire nel titolo della mostra una frase in inglese, che è quasi un motto: «Inventing Life». Ci dice di più? 
Lavorando negli anni su Virginia Woolf e Bloomsbury mi sono resa conto che la vera forza di questo gruppo è proprio questa: per loro il problema della forma, che per ogni artista è centrale, non è mai esclusivamente «formale». Inventare delle forme significa inventare delle nuove forme di vita. Virginia, Vanessa e gli altri, elaborano attraverso le loro opere anche un nuovo modo di stare al mondo, che sia all’altezza dei desideri e delle motivazioni profonde che ciascuno porta dentro di sé, nel proprio tempo. Nel loro tempo, queste giovani donne e uomini ebbero il coraggio di sfidare codici e canoni che non li rappresentavano, per inventare qualcosa di diverso, senza che questo qualcosa si trasformasse in una nuova ideologia, da contrapporre alla vecchia. Non c’era nulla di ideologico nel loro modo di affrontare la propria diversità: se amavano persone dello stesso sesso, o se non consideravano la fedeltà come la più alta forma di rispetto dovuta alla persona amata, non per questo sentivano il bisogno di trasformarlo in un credo. Lo vivevano e basta. E nel viverlo restavano nel campo della ricerca, del movimento, dell’invenzione.

Che significa anche saper restare nell’incertezza? 
Io la definirei una «disposizione creativa». Nella vita, come nell’arte. È un tratto di profonda verità che le artiste e gli artisti di Bloomsbury condividevano. Si possono inventare nuove forme – e nuove vite – solo se ci si espone allo shock della realtà, ovvero all’emozione di uno sguardo e di un ascolto del mondo che scuote, che trasforma continuamente.

E la felicità, in che stanza si trova? 
Nella stanza in cui si sta insieme. «Society is the happiness of life»: a Bloomsbury avevano compreso, e messo in pratica, questo verso di Shakespeare. Soltanto incontrandosi – mettendo esperienze e desideri in comune – si può essere felici. E, insieme, accogliere il rischio e l’avventura di inventare la vita.


SCHEDA. Una grande mostra a Palazzo Altemps


Per la prima volta in Italia, a Palazzo Altemps una mostra che celebra lo spirito che animò Bloomsbury: il luogo dove si sono sperimentate forme di vita e di pensiero nuove che cambiarono i principi vittoriani e il forte spirito patriarcale di cui era ancora intriso il XX secolo. Rimasti orfani nel 1904, Virginia Stephen, non ancora Woolf, e i fratelli Vanessa, Thoby e Adrian si trasferiscono dall’altolocato Kensington nel meno privilegiato quartiere di Bloomsbury. Ben presto un nutrito gruppo di giovani donne e uomini si incontra nella casa al 46 di Gordon Square per inventare una vita nuova e libera. «Virginia Woolf e Bloomsbury. Inventing Life» (dal 26 ottobre al 12 febbraio 2023) è un progetto del Museo nazionale romano e della casa editrice Electa (che èpubblica anche il catalogo), realizzato in collaborazione con la National Portrait Gallery di Londra. Ideata e curata da Nadia Fusini – profonda conoscitrice dell’autrice inglese della quale ha curato l’edizione in due volumi nei Meridiani – in collaborazione con Luca Scarlini – scrittore, drammaturgo, narratore, performance artist – l’esposizione racconta un’esperienza di 
amicizia intellettuale attraverso libri, parole, dipinti, fotografie e oggetti dei protagonisti di questa avventura dell’arte e del pensiero.


(il manifesto, 23 ottobre 2022)

di Elena Tebano


«Ho sempre pensato che si dovesse provocare, attaccare la religione e i generali. Finché non ho capito: niente è sconvolgente come la gioia», Niki de Saint Phalle (1930-2002)


Prima la mostra al Ps1 di New York, l’anno scorso, poi la grande scultura intitolata «Gwendolyn» voluta dalla direttrice artistica Cecilia Alemani alla Biennale di Venezia, adesso la personale con circa cento opere alla Kunsthaus Zürich. Il mondo sta riscoprendo Niki de Saint Phalle. L’Italia ha un motivo in più per farlo: il suo capolavoro, il Giardino dei Tarocchi, è a Capalbio.

Nata da una famiglia di aristocratici e banchieri francesi nel 1930, Niki de Saint Phalle ha passato i suoi primi tre anni di vita in Francia, nel castello dei nonni, a cui i genitori l’avevano lasciata ancora in fasce per trasferirsi negli Stati Uniti con il figlio maggiore. Ma è cresciuta a New York, dove, dopo essere stata notata da un agente a 17 anni, iniziò a posare per Life, Vogue Francia, Elle. Fu in quel periodo che la femminista americana Gloria Steinem, come ha raccontato alla curatrice della mostra newyorchese, la vide camminare per la Cinquantasettesima Strada «senza borsa e vestita da cowboy». Un’immagine folgorante: «È la prima donna libera che abbia mai visto nella vita reale. Voglio essere come lei» pensò Steinem. «I ruoli degli uomini sembrano dare loro molta più libertà e io ero decisa a far sì che la libertà fosse mia» avrebbe scritto anni dopo De Saint Phalle a un’amica.

I ruoli considerati da donna all’epoca non facevano per lei. E, anche dopo essersi sposata a 18 anni con lo scrittore altoborghese Harry Mathews e aver avuto una figlia, si rifiutò ostinatamente di sottomettersi ai doveri domestici. Poi a 22 anni finì in manicomio. Era in Francia, dove lei e il marito vivevano una vita bohémienne. De Saint Phalle aveva iniziato, per vendetta, una relazione con il marito dell’amante di Mathews, un uomo molto più grande di lei che le parlava continuamente di suicidio. «Iniziò a fantasticare di andare alla deriva su un galleggiante di gomma con una “grossa spilla da balia in mano”. Iniziò anche ad accumulare rasoi, coltelli e forbici sotto il materasso. Una notte, l’amante di Mathews venne a casa loro e De Saint Phalle la aggredì. Poi ingoiò un flacone di sonniferi, ma, ricorda, era in uno stato così maniacale che non ebbero alcun effetto. Poco dopo, Mathews scoprì l’arsenale di oggetti taglienti della Saint Phalle e la portò in una clinica psichiatrica di Nizza» racconta Ariel Levy sul New Yorker.

Fu sottoposta a dieci cicli di elettroshock e fu lì che, senza doversi più occupare dei bambini o del marito, iniziò a comporre collage con foglie e rami che trovava nel giardino del manicomio. Una settimana dopo essere stata dimessa, racconta ancora il New Yorker, ricevette una lettera dal padre. «Sono sicuro che ti ricordi di quando avevi undici anni e ho cercato di fare di te la mia amante» le scriveva. Nel libro Mon Secret Niki De Saint Phalle ha descritto l’episodio in un altro modo: «Mio padre, questo banchiere, questo aristocratico, mi mise il suo sesso in bocca» ha scritto, spiegando che la sua violenza «aveva spezzato la mia fiducia nel genere umano». Non era l’unico a essere violento, in famiglia. La madre picchiava sua sorella minore Elizabeth «con il lato pungente di una spazzola per capelli», costringeva il fratello Richard per ore a finire tutto quello che aveva nel piatto e una volta obbligò una governante a servire a Elizabeth il suo stesso vomito. Tutti e due sono morti suicidi.

Niki de Saint Phalle è sopravvissuta grazie all’arte. «Probabilmente sarei stata in prigione, o ancora in un ospedale psichiatrico, se l’arte non mi avesse aiutato a tirare fuori tutti i miei sentimenti profondamente aggressivi nei confronti dei miei genitori e della società» ha raccontato. «Avevo una grande rabbia dentro di me».

Agli inizi degli anni ’60 quella rabbia ha dato vita ai suoi «quadri da tiro». Performance art quando ancora la performance art non aveva nome. «Sparava con il fucile contro i suoi stessi dipinti davanti al pubblico. In precedenza aveva preparato le tele con oggetti e sacchetti di ogni tipo, che riempiva di vernice, uova o spaghetti e ricopriva di gesso. Quando questi assemblaggi venivano colpiti, il loro contenuto scorreva sulla tela e la colorava. La Saint-Phalle voleva far “sanguinare” i suoi quadri in questo modo e, naturalmente, si confrontava indirettamente con il dominio degli uomini che sostenevano che le donne non potevano produrre grande arte. Quanto senso dell’umorismo ci sia in questo gruppo di opere è dimostrato da un “quadro da tiro” poco appariscente dei primi anni Sessanta: una superficie di gesso rigonfia e in gran parte intatta è inserita in un’ampia cornice a ghirigori. “Vecchio maestro (non sparato)” è il titolo. Ovviamente, in questo caso l’artista si è astenuta dal colpo di grazia» spiega la Süddeutsche Zeitung.

Le opere per cui oggi è più nota sono le sue Nanas (un termine colloquiale per «ragazze» in francese) figure femminili gigantesche dalle forme rotondeggianti. «Una delle sue performance più spettacolari fu un’installazione che oggi è considerata una pietra miliare nella pratica artistica femminista: nel 1966, Saint Phalle, con il supporto di Jean Tinguely e Per Olof Ultvedt, creò un’enorme scultura colorata e calpestabile di una donna incinta al Moderna Museet di Stoccolma, in cui i visitatori potevano entrare attraverso un portale nella vulva. “Hon” – “Lei” era sdraiata supina sul pavimento, con le ginocchia sollevate e i talloni alzati. All’interno della gigantessa, l’artista aveva installato un bar per il latte e fatto proiettare un film di Greta Garbo. L’installazione, che era tempio, parco giochi e rifugio, riempiva talmente tanto spazio da dover essere distrutta dopo la fine della mostra» spiega ancora la Süddeutsche. La storica dell’arte e curatrice svizzera Cathérine Hug ha scritto che questa «Nana originale», è «ancora una delle cose più radicali» mai realizzate «in termini di nudità femminile» visto che «una vagina aperta, se destinata a scopi diversi dal rapporto sessuale o dal parto è una provocazione smisurata».

Il suo capolavoro è il Giardino dei Tarocchi di Capalbio. De Saint Phalle ha iniziato a concepirlo dopo aver visto il Park Güell di Antoni Gaudí a Barcellona, nel 1955, ed esserne rimasta folgorata. Voleva che fosse «una sorta di paese della gioia» dove «avere un nuovo tipo di vita, semplicemente libera». Lo ha costruito a Capalbio su suggerimento di Marella Agnelli, sua amica dai tempi in cui entrambe avevano lavorato come modelle. Marella le fece conoscere i suoi fratelli, Nicola e Carlo Caracciolo, che possedevano la tenuta perfetta: tra gli ulivi vicino al mare e sopra delle rovine etrusche. De Saint Phalle si presentò «tutta vestita con una vestaglia colorata, sormontata da uno dei suoi magnifici cappelli a tesa larga, con una maquette di creta fatta a mano del Giardino dei Tarocchi» ha ricordato Agnelli nel libro di memorie, Ho coltivato il mio giardino. «Alla fine del loro incontro, i fratelli Caracciolo le avevano regalato un pezzo consistente della loro proprietà» ricostruisce Ariel Levy. Su quel terreno, nel 1979, De Saint Phalle iniziò a costruire le 22 figure dei Tarocchi.

Non avrebbe smesso più fino alla morte, avvenuta nel 2002 per un enfisema polmonare causato dalle esalazioni dei materiali che usava per realizzare le sue opere. Levy racconta che la costruzione del Giardino, per cui De Saint Phalle ha ingaggiato manodopera locale e ha vissuto all’interno dell’Imperatrice-Sfinge, una delle figure più grandi, ha avuto un effetto trasformativo su tutti coloro che vi hanno partecipato. Sugli uomini, nei confronti dei quali l’artista aveva assunto un atteggiamento materno, cucinando e servendogli da mangiare sul cantiere, ogni giorno. «Questo gesto familiare nei confronti di tutti questi belli e giovanissimi machos italiani, che prima erano solo ragazzi di campagna, contadini» ha scritto De Saint Phalle all’ex marito Matthews, «mi ha aiutato ad assumere un potere psicologico. Era facile per loro prendere ordini da La Mama, lo hanno fatto per tutta la vita, purché rispettassi la sottilissima facciata della loro mascolinità». «Molte cose cambiarono, perché ora non si viveva più a Capalbio ma nel mondo. Avevi la mente rivolta al mondo» ha raccontato Marco Iacotonio, uno di quei ragazzi che avrebbe lavorato per oltre vent’anni al Giardino, e poi ne è diventato il custode.

Il lavoro con Niki de Saint Phalle ebbe un effetto liberatorio soprattutto sulle donne. «Queste donne, che provenivano da ambienti molto semplici, improvvisamente, solo lavorando per lei e facendo parte di questo progetto, hanno iniziato a camminare in modo diverso, indossando abiti diversi», ha detto Marella Caracciolo Chia ad Ariel Levy. «C’era una ragazza che è arrivata con la sua famiglia, perché aveva bisogno di un lavoro e tutti si aspettavano che si sarebbe sposata presto: ricordo di averla vista iniziare a indossare jeans e truccarsi e tagliarsi i capelli molto corti. Si vedeva una fioritura».

Il Giardino è rimasto incompiuto, ma è diventato comunque quel luogo magico di libertà che De Saint Phalle aveva immaginato. È pieno di immagini di serpenti, la trasfigurazione dell’aggressione sessuale subita dal padre. Ma, a differenza che nei «quadri da tiro», nel Giardino dei Tarocchi de Saint Phalle ha saputo trasformare la sua rabbia in figure incantate. A trovare la cosa più provocatoria e «sconvolgente» di tutto: la «gioia». Per sé stessa e per chiunque si perda tra i viottoli del suo Giardino.


(27esimaora.corriere.it, 17 settembre 2022)

di Carola Spadoni


La mostra No Master Territories, di cui a suo tempo avevamo dato notizia nella rubrica Altri luoghi, altri eventi, si è chiusa a Berlino il 28 agosto 2022. Anche se dopo la chiusura, riteniamo importante pubblicare questo interessante servizio e la preziosa intervista con le curatrici.

(La redazione del sito)


La Haus der Kulturen der Welt di Berlino ha ospitato fino al 28 agosto «No Master Territories», uno sfavillante giardino di immagini in movimento che proiettano infinite essenze di donne e del femminile. Guardando la mostra da qualsiasi angolo si ha la sensazione di essere in un caleidoscopio. Territori senza padrone. Un auspicio da estendere ovunque e per chiunque, preso in prestito dalla filmmaker e teorica vietnamita Trinh T. Min Ha. Sa di utopia delle pratiche e delle lucide follie di decenni in cui si disfaceva e rifaceva il mondo in collettività e nel segno internazionale della solidarietà. Come sottolinea Min Ha nel suo libro When the Moon Waxes Red, «Lei che sa di non poter parlare degli altri se non parla di sé stessa, lei che sa di non potersi occupare della Storia senza occuparsi della sua storia, sa anche che non può fare un gesto senza attivare quel movimento da e per la vita». L’altra inappropriata (the «Inappropriate Other») che rifiuta il pensiero binario, le dicotomie e attraversa le soglie di ciò che è concesso e non. Proprio come l’immagine principale della mostra, un fotogramma del film Untitled 77-A di Han Ok-he del 1977 in cui la filmmaker coreana taglia pezzi di pellicola con le forbici in un crescendo performativo nel quale delle immagini si accostano continuamente alle precedenti nel creare nuovi mondi. Ci son voluti due anni e mezzo di ricerca delle curatrici Erika Balsom e Hila Peleg insieme ad un team internazionale, degno di un film festival blockbuster, per scandagliare, raccogliere e selezionare, da mezzo mondo, film non fiction fatti da donne. L’importanza di questa mostra per la storia del femminismo e dei media è evidente tanto quanto per la storia del cinema indipendente; storicizza un periodo in cui i mezzi e le modalità distributive e di circolazione dei film si moltiplicarono oltre le sale e i cineclub inondando contro culture, soggiorni, cortili e centri di attivismo e militanza. Anni in cui i mezzi di produzione si alleggeriscono e le possibilità di filmare la quotidianità e le forme di opposizione e resistenza della miriade di movimenti diventano alla portata di molte. Sono anni in cui il personale diventa politico, in cui l’imprevisto, dai più conformisti, soggetto storico femminile irrompe ovunque, in fabbrica e quartiere, cucina e camera da letto. La potenza che sposta, a volte scardina, i padroni fuori dai territori per mettersi di nuovo al mondo, crea inedite alleanze e linguaggi, la resistenza e il rifiuto dello status quo travolge forme e contenuti. Sia la mostra che il catalogo sono concepiti nel rendere evidente l’importanza di questi lavori e di queste geneaologie per i nostri giorni. Le curatrici dichiarano di aver voluto delineare vari percorsi nella produzione delle immagini in movimento per mettere al centro una critica alla separazione in generi cinematografici della non fiction. Nella categoria non fiction troviamo inclusi il cinema sperimentale, quello educativo, il documentario, la videoarte, i cinegiornali, film prodotti per la televisione come il caso di Processo per stupro del 1979, presente in mostra.

La maggior parte delle filmmakers e artiste in mostra esercitavano altre attività e a volte erano meglio conosciute come editrici, giornaliste, insegnanti, antropologhe, coreografe. Le indicazioni sulle storie ed attività delle filmmakers si possono seguire nella documentazione sul retro delle postazioni di ogni film o video esibito. Attraverso le documentazioni capiamo come spesso i rapporti di lavoro, collaborazione e amicizia creavano reciproche influenze artistiche che generavano nuove produzioni ed alleanze nel segno della solidarietà. All’entrata della mostra il banner di Cauleen Smith Comfort the Afflicted del 2018 ne dichiara le intenzioni: «affliggere i privilegiati, confortare gli afflitti». Le curatrici sono esplicite nel rendere evidente il lavoro femminista sulla memoria e sulle geneaologie come nel caso della rinomata scrittrice Alice Walker che in seguito alla ricerca della tomba di Zora Neale Hurston in Florida, al tempo abbandonata e senza nome, pubblica un articolo nella leggendaria rivista Ms. nel 1975 che genera un rinnovato interesse per la scrittura della antropologa, filmmaker e scrittrice afroamericana. Neale Hurston a seguito di studi etnografici gira dei film del suo lavoro sul campo, field works, di cui un girato in 16 mm nel 1928 in Florida è in mostra. Pour mémoire girato al funerale di Simone de Beauvoir del 1987 da Delphine Seyrig, cineasta, attrice e anche una delle fondatrici del Centre Simone de Beauvoir, è un omaggio doppio a tutte le presenze accorse a salutare la grande scrittrice, attraverso loro la celebriamo e la ricordiamo.

Il cinegiornale Congrès international des femmes à Moscou, girato da Esfir Shub, che lavorava soprattutto come montatrice e che produsse nel 1946 per l’Incontro internazionale delle donne per la pace e contro il fascismo a Mosca, racconta la grande partecipazione delle delegate. Il congresso fu ospitato quell’anno a Mosca perché critico sull’invasione coloniale in Algeria, quindi ostacolato in Francia. Si riflette sulla rappresentazione del cinema stesso nei lavori di Sara Gómez e Barbara Hammer, vediamo gli effetti che i film hanno sul loro pubblico. Il primo, Mi aporte, girato dalla cineasta afrocubana per l’anniversario dei dieci anni della rivoluzione e completato nel 1972, su commissione della Federación de Mujeres Cubanas responsabile per l’avanzamento delle donne nel processo rivoluzionario, viene poi censurato e tolto dalla circolazione. Riemerso di recente e restaurato, mostra le discrepanze tra l’atteso cambiamento per i diritti delle donne e la realtà contingente, incluso un dibattito del pubblico in maggioranza femminile che ne discute la rappresentazione e rende espliciti i problemi di disuguaglianza. Nel film della Hammer, Audience del 1983, vediamo interviste al pubblico prima e dopo tre proiezioni della stessa regista. I contesti sono quelli del cinema lesbico militante femminista in cui si dibatte di desiderio tra donne, rappresentazione di sesso esplicito, e dell’idea di proiezioni solo per donne. Un altro itinerario della mostra è dato con l’esplicita critica ai media e alla rappresentazione dominante del femminile. Molti film e video, spesso con tagliente ironia e umorismo, spostano la tipica descrizione della donna da oggetto a soggetto che incarna visioni non conformiste. We aim to Please di Margot Nash e Robin Laurie del 1976 è un divertente assalto agli stereotipi femminili del trucco, della giusta posa, del canone commerciale di bellezza. Paper Tiger TV, uno storico gruppo di media busters newyorkesi, nel video del 1993 Sisterhood TM fa già il verso al femminismo neoliberal delle donne-in-carriera-a-qualsiasi-costo usando lo schema visivo della pubblicità. Prowling by Night in 16mm del 1990, è un’ilare animazione sulla prostituzione e le sue disavventure a Toronto; gli incontri con il poliziotto di quartiere che regolarmente esige prestazioni gratuite, gli appuntamenti dal ginecologo, la clientela regolare e quella del fine settimana. Il film è composto con disegni realizzati dalle prostitute stesse e l’audio dei loro discorsi. Uno dei temi principali, la legalizzazione della prostituzione. Nella documentazione sul retro della postazione la fanzine Stiletto riporta articoli sul film, accenni all’autrice il cui nome è Gwendolyn, al gruppo di ricerca femminista Studio D sostenuto da fondi del governo canadese, le date di proiezione in un circuito di cooperative sociali e centri di comunità sociale.

Lungo una parete sono in mostra la serie di foto di Sheba Chhachhi, Seven Lives and a Dream del 1980-81, in cui la fotografa ritrae momenti topici della vita quotidiana femminile a New Delhi ricreando insieme a delle attiviste femministe un ‘teatro di sé stesse’ come soggetto e presenza critica. I tanti percorsi continuano con il primo film di Tracy Moffat Nice Coloured Girls del 1987, con ritratti e autoritratti disseminati in tutta la mostra, Christiane Diop e Assia Djebar del 1985-87 di Sarah Maldoror, Soft Fiction di Chick Strand del 1979, Paola di Rony Daopoulo e Annabella Miscuglio, girati in Super 8 tra il 1973 e il ’76, Essere donne di Cecilia Mangini del 1965. Il femminismo italiano degli anni ’70 è presente e ben raccontato nel catalogo dall’affilata penna della storica dell’arte e femminista Giovanna Zapperi. In apertura del catalogo che funge non solo da compendio ma espande il progetto espositivo, un verso di Adrienne Rich ne restituisce la complessità, «We who are not the same. We who are many and do not want to be the same» (Noi che non siamo le stesse, noi che siamo molteplici e non vogliamo essere le stesse).

Intervista alle curatrici

Abbiamo chiesto a Erika Balsom e Hila Peleg, curatrici della mostra «No Master Territories», qualcosa di più sulla coralità dell’evento anche in rapporto alle politiche identitarie contemporanee.

«La mostra – ci dice Erika Balson – nasce dall’esigenza di rivedere la mancata storicizzazione di tante esperienze avvenute nell’ambito femminista delle immagini in movimento e di donne artiste e filmmaker che hanno operato fuori dai canoni precostituiti. Con gli occhi di oggi tornare alle generazioni delle madri e delle nonne per raccogliere le origini e segnare genealogie dei temi scottanti. Nasce anche dall’idea di un femminismo che rifiuta la dominazione in tutte le sue forme, che si occupa non solo di genere ma dei diritti dell’ambiente, della difesa delle risorse naturali, dei diritti sociali civili, delle oppressioni coloniali e dello sfruttamento delle risorse umane. L’idea era fin dall’inizio di realizzare la mostra con una metodologia che rispecchiasse queste intenzioni. Non c’è quindi una narrazione lineare e dominante che rispecchia il pensiero di noi curatrici ma vari percorsi che il pubblico può scegliere a seconda dei propri interessi specifici. C’è anche un programma di film da vedere nell’auditorium e una biblioteca in cui sono raccolti i libri da cui abbiamo scelto alcuni dei testi pubblicati in catalogo. Un’ispirazione per mantenere le coordinate di un’idea centrifuga della storia e della cronologia e tradurla in un pensiero espositivo è stato il testo di Lis Rhodes Whose History? (La Storia di chi?) del 1979. Un’altra chiave da cui abbiamo voluto prendere le distanze è l’idea dell’autore/autrice che abbia uno stile riconoscibile, che abbia prodotto un consistente numero di film per essere riconosciuta tale, e che lavori a tempo pieno come regista. Questo non è il caso per la maggior parte delle filmmakers e artiste incluse in questa mostra che spesso avevano altri lavori ed erano conosciute per altri ruoli professionali.

A questo proposito avete menzionato nella presentazione le filmmakers della Germania dell’Est che potevano lavorare anche nella non fiction con formati come il 35 mm, l’accessibilità ai mezzi e le loro condizioni di produzione erano spesso migliori che in molti paesi dell’occidente.

Erika Balsom: Nel mondo socialista la dichiarazione di uguaglianza tra i sessi era ufficiale, faceva parte dei programmi di partito e di stato, di conseguenza le esperienze femministe sono state molto diverse rispetto all’ovest. Abbiamo scelto film dalla Germania dell’est, dalla Polonia, da Cuba, una deliziosa animazione russa sulla giornata internazionale della donna, l’8 marzo. Questo è un ulteriore percorso all’interno della mostra.

Come considerate il supporto teorico ed espositivo del mondo accademico quando si occupa del femminismo intersezionale e di temi come la decolonizzazione e la restituzione pur mantenendo modalità a senso unico, non dialogiche e sostanzialmente gerarchiche?

Erika Balsom: Io vengo dall’accademia, quindi mi è molto familiare il tuo discorso. Molte di noi hanno sofferto nelle maglie iperproduttive dell’accademia di questi ultimi anni dove la pressione per una professionalità performativa è costante. Pubblicare con regolarità, congegnare corsi che siano di successo, che abbiano un alto numero di iscritti, presenza sui social media, fare costante promozione di se stesse, e competere per risorse sempre più scarse. Tutte dinamiche tipiche del mondo neoliberale. Di fatto nella mostra un filone centrale è quello della critica al femminismo neoliberale che sembra esserne diventata la forma dominante negli ultimi anni, in cui il successo individuale e l’affermazione professionale a tutti i costi sovrastano qualsiasi altra forma e possibilità di emergere. Un femminismo che si realizza per poche privilegiate alle spese della maggioranza. A ricordare che la solidarietà è qui protagonista e ha un peso diverso dalla sorellanza (sisterhood), abbiamo voluto ad accogliere il pubblico il banner di Cauleen Smith. Bisogna lavorare, lottare e creare le circostanze perché la solidarietà esista e renderla salda con il mutuo rispetto delle differenze, mentre la differenza con la sorellanza è che quest’ultima è di solito un concetto e un modo di porsi tra donne quasi in automatico, senza troppe questioni. Le collaborazioni che abbiamo messo in atto per la mostra vengono da queste esigenze così come l’accessibilità del nostro testo che volevamo fosse fruibile da tutte e tutti, non solo da addetti ai lavori o a studiose.

Hila Peleg: Abbiamo saputo oggi dalla responsabile del dipartimento d’educazione del museo che c’è un grande interesse a visitare la mostra da parte di studenti e insegnanti, le richieste arrivano non solo dalle università, anche da classi delle superiori e ne siamo molto contente. L’opuscolo gratuito ad esempio è ricco anche di testi e informazioni approfondite in un linguaggio accessibile a chiunque.

Un altro approccio importante che si evince dai lavori in mostra è la volontà di esporre lo sguardo sullo stigma della donna difficile, sulla filmmaker in opposizione, considerata tale da e in un sistema prettamente patriarcale e oppressivo che viene spesso reiterato anche da figure intellettuali interessanti e in contesti illuminati. Come esporre e rivoltare gli effetti di questo sguardo?

Erika Balsom: Sappiamo bene in tante cosa significa quello che hai appena descritto, non si può certo essere sempre gentili e disponibili in circostanze oppressive o di sfruttamento. Va sempre appurato e considerato da chi è giudicata difficile una donna, e in quali circostanze lavorative e produttive. Un esempio di come abbiamo introdotto questo tema è Processo per stupro, un lavoro fondamentale e quasi insostenibile che abbiamo fortemente voluto. Sì, mi ricordo di averne visto delle parti in tv da piccola e fu tanto importante quanto impressionante realizzare il livello di discriminazione istituzionale verso le donne.

Immagino.

Erika Balsom: Invece di arroccarci in un sentimento vittimista della donna difficile che compiange sé stessa, abbiamo scelto lavori che creano nuovi sguardi e nuovi mondi, in collettività e con ogni mezzo possibile. Video e film prodotti a volte contro ogni previsione.


(il manifesto, 16 luglio 2022)


La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, insieme al figlio di Carla Lonzi, Battista Lena (che ci ha generosamente dato in comodato il suo prezioso archivio) e alla responsabile dell’Archivio Carla Lonzi presso la Galleria Nazionale, Annarosa Buttarelli, ricorda i 40 anni dalla scomparsa di Carla Lonzi con le sue stesse parole:

Noi viviamo questo momento e questo momento è eccezionale.

Il futuro ci importa che sia imprevisto piuttosto che sia eccezionale.

La presenza dell’Archivio Carla Lonzi, dal 2018, ha ampliato le possibilità di un orientamento di impegno e di pensiero già intrapreso dalla Galleria Nazionale dal 2015 – sotto la direzione di Cristiana Collu – con numerose azioni messe in campo nel segno di una valorizzazione della presenza femminile nell’arte e nelle diverse pratiche culturali. Una grande indagine sul femminismo e sul suo significato nel nostro tempo è stata condotta nell’arco di 7 anni – ma sempre in fieri – attraverso mostre, progetti, festival, open call, eventi e acquisizioni.

I preziosi materiali dell’Archivio – dal 2020 completamente digitalizzati e consultabili – riconosciuti a livello internazionale per la loro importanza nel campo della storia dell’arte e degli studi di genere, hanno permesso alla Galleria Nazionale di condurre un lavoro per promuovere e trasmettere lo studio e la ricerca sul patrimonio di Carla Lonzi. Non solo, considerando i tanti progetti che questo Archivio non ha mai smesso di attivare, continua ad agire sul presente come fonte di ispirazione, generando nuova conoscenza e rivolgendosi con domande aperte alle generazioni future, nella conferma della sua piena vitalità.

Queste le tappe principali:

L’Archivio Carla Lonzi 
L’ordinamento e l’inventariazione dell’Archivio Carla Lonzi presso la Galleria Nazionale ha preso avvio nel gennaio 2018. È la prima volta che si tenta l’operazione complessa di raccogliere, ordinare, custodire, digitalizzare e mettere a disposizione l’eredità documentaria di Carla Lonzi.

Women Out of Joint 
All’inizio degli anni Settanta, Carla Lonzi ha definito il femminismo «la mia festa». Nel 2018 la Galleria Nazionale ha reso omaggio alla sua figura con un festival di tre giorni e un programma di incontri, laboratori, performance, proiezioni e letture che ha messo in relazione le esperienze di artiste, storiche, scrittrici, attiviste, ricercatrici e architette provenienti da una scena internazionale.

Le open call 
La open call Dopo Hegel su cosa sputiamo? (2018), direttamente ispirata al pensiero lonziano e focalizzata sulla produzione di un testo in qualunque lingua e di qualunque genere, è stata seguita da quella internazionale per la realizzazione di video-autoritratti dal titolo Taci. Anzi, parla (2020).

Io dico Io – I say I 
La centralità dello sguardo delle donne è il cardine della mostra Io dico Io – I say I, inaugurata a marzo 2021 a cura di Cecilia Canziani, Lara Conte e Paola Ugolini. Cinquanta artiste italiane di generazioni diverse che in differenti contesti storici e sociali hanno raccontato la propria avventura dell’autenticità̀. Una sezione della mostra è stata inoltre dedicata all’esposizione di materiali provenienti dall’Archivio Carla Lonzi.

Self-portrait (Autoritratto)  
Nel 2022 la Galleria Nazionale si è fatta promotrice della prima traduzione in inglese di Autoritratto (Self-portrait) di Carla Lonzi a cura di Allison Grimadi Donahue per Divided Publishing, presentata poi dal museo con un evento online.

Le donne e l’indagine sul femminismo sono sempre al centro delle attività della Galleria Nazionale. Tutte le tappe dal 2015 a oggi tra mostre, progetti, festival, eventi, call, digitalizzazioni e acquisizioni sono raccontate sul blog del museo nella pagina di Women Up.


(https://lagallerianazionale.com/, 2 agosto 2022)

di Elena Tebano


La scoperta di Vivian Maier è una delle vicende più straordinarie della recente storia della fotografia. Nel 2007 il contenuto di un deposito in cui l’allora sconosciuta Vivian Maier conservava parte delle sue stampe e dei suoi rullini andò all’asta, suddiviso in diversi lotti. Uno dei compratori, John Maloof, un giovane che aveva lasciato la scuola d’arte per problemi di soldi e si era dedicato a lavori diversi, tra cui l’agente immobiliare, capì presto il valore artistico delle fotografie di Maier. E si organizzò con un altro degli acquirenti, Jeffrey Goldstein, per raccogliere tutto il suo archivio – 143mila immagini, di cui Maier aveva stampato solo il 5% – e poi organizzare una mostra in collaborazione con il Chicago Cultural Center. Allestita nel 2011, fu subito un successo e proiettò Maier, bambinaia di professione e fotografa solo per passione, nell’olimpo della fotografia. Da allora le sue mostre hanno fatto il giro del mondo; l’ultima, dedicata agli scatti “italiani” di Maier si è conclusa alla fine di giugno a Torino (qui la recensione sul Manifesto). Maier era morta a ottantanove anni solo due anni prima, senza mai sapere di essere stata “scoperta”. I suoi primi curatori l’hanno rintracciata solo dopo la sua morte, grazie al necrologio pubblicato su internet: lei aveva vissuto sempre nel più totale riserbo.

Il suo successo postumo è dovuto in parti uguali alla bellezza delle sue foto e al mistero che la circonda. Perché una fotografa così talentuosa non solo non ne ha mai fatto un lavoro a tempo pieno, ma ha letteralmente lasciato la maggior parte dei suoi rullini chiusi in un deposito, spesso senza neanche svilupparli?

La risposta a queste domande si può ora trovare in Vita di Vivian Maier. La storia sconosciuta di una donna libera, l’imponente biografia della Maier appena edita in Italia da Utet. È nata anch’essa dalla curiosità nei confronti di questa donna misteriosa: la sua autrice, Ann Marks, non è una biografa di professione, né una studiosa di fotografia, ma un’ex dirigente d’azienda in pensione che si è appassionata alla storia di Maier dopo aver visto un documentario e ha deciso di indagare più in fondo. Il limite del libro sta forse qui, ma è comunque una straordinaria fonte di informazioni e una preziosa raccolta di oltre 400 foto, molte delle quali sconosciute, di Vivian Maier.

Marks ricostruisce la storia familiare di Maier, segnata da uomini inaffidabili e violenti e donne che – in tempi in cui le donne avevano pochissime possibilità – hanno dovuto cavarsela da sole, spesso lasciando indietro le loro figlie, che ne hanno pagato il prezzo. È successo alla nonna materna di Maier, Eugénie Jaussaud, originaria di Saint-Julien-en-Champsaur, un villaggio delle Alte Alpi francesi nella regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Figlia di contadini, rimase incinta a sedici anni del bracciante che lavorava nella fattoria dei genitori e che si rifiutò di sposarla. Sua figlia Marie, la madre di Vivian, nacque dunque nel 1897 fuori dal matrimonio e lei e Eugenie ne patirono lo stigma che ne derivava all’epoca. Quattro anni dopo, Eugenie partì da sola per l’America, dove nessuno sapeva della sua figlia illegittima, e iniziò a lavorare come cuoca per le famiglie ricche dell’East Coast. Marie fu tirata su dalla nonna e raggiunse sua madre, che praticamente non conosceva, solo quando aveva diciassette anni, nel 1914. Sembra una storia lontanissima, eppure è quello che succede ancora oggi ai figli e alle figlie di tante tate, colf e badanti ucraine, sudamericane o filippine che lavorano nelle case italiane.

Pochi anni dopo, nel 1919, Marie, cattolica, sposò il luterano Charles Maier, in un matrimonio traballante fin dall’inizio, se è vero che i testimoni furono la moglie del pastore che lo officiò e il custode della chiesa. L’anno dopo nacque il loro primo figlio, Carl, e poi, nonostante la coppia si lasciasse e riprendesse continuamente, Vivian, nel 1926. Charles era dipendente dall’alcol e dal gioco, la madre sofferente e incapace di tenersi un lavoro, e nel 1927 si lasciarono definitivamente. Carl fu messo in orfanotrofio, Vivian rimase con la madre che però la lasciava spesso sola o in qualche casa-famiglia, fino a quando dopo l’inizio della grande Depressione si trasferì a casa di Jeanne Bertrand, fotografa francese amica della nonna dall’inizio della sua immigrazione americana. Fu lei probabilmente ad avvicinare Vivian alla fotografia. Dopo un periodo in Francia con la madre, tra il 1932 e il 1939, Vivian tornò a New York e iniziò a lavorare a 17 anni in una fabbrica di bambole. Poi, dopo un altro breve viaggio in Francia per vendere un terreno ricevuto in eredità alla morte della nonna, iniziò a lavorare come bambinaia. Lo avrebbe fatto per tutta la vita.

La sua passione per la fotografia era iniziata in Francia, con la macchina fotografica di sua mamma, l’unica in tutto il villaggio. Vivian la coltivò per anni, soprattutto a New York, dove negli anni 50 frequentava fotografi e artisti, tra cui Jeanne Bertrand. Marks racconta che però non riuscì mai a farne un lavoro, forse perché donna, autodidatta ed estranea agli ambienti della fotografia professionale. Sicuramente anche la sua storia familiare ebbe un peso. Sua madre fin dal 1939 iniziò a mostrare gravi disturbi mentali e morì in solitudine. Il fratello Carl fece dentro e fuori dal riformatorio, da ragazzo, e poi dal carcere, da adulto. Ebbe problemi di dipendenza dall’alcol e dalla droga e alla fine gli fu diagnosticata una forma di schizofrenia. Morì in una struttura di ricovero dopo aver passato lunghi periodi in psichiatria.

Vivian dopo essersi trasferita a Chicago condusse una vita sempre più solitaria. Sviluppò un disturbo da accumulo, collezionando soprattutto libri e giornali, tanto da rendere praticamente inabitabile camera sua e da dover affittare i depositi che alla fine finirono all’asta. Il fatto che non abbia mai stampato né mostrato la maggior parte delle sue fotografie potrebbe avere a che fare con questa difficoltà di lasciare andare che affligge molti accumulatori. Ma all’epoca non esisteva né diagnosi né cura per il suo disturbo, che finì per causarle problemi anche con i suoi datori di lavoro. Marks è convinta che Maier possa aver subito anche violenze o abusi sessuali: provava «orrore» per gli uomini, non sopportava il contatto fisico, aveva «reazioni brusche che facevano pensare a improvvisi flashback traumatici», «raccomandava alle bambine di non sedersi in braccio agli uomini e descriveva loro tutti i reati violenti o a sfondo sessuale di cui un uomo si poteva macchiare». È impossibile da sapere con certezza, ma è tutt’altro che improbabile. In ogni caso i bambini che ha cresciuto facendo la tata la raccontano come una donna eccentrica ma capace d’amore.

In mezzo a tutte queste difficoltà, Vivian Maier ha saputo anche trovare e coltivare la sua immensa creatività. Tra i suoi soggetti preferiti ci sono i bambini, forse un modo per sanare attraverso l’arte la sua infanzia piena di abbandoni. E poi le donne della classe lavoratrice in mezzo alle quali ha vissuto. Ha nutrito da sola il suo talento superando gli ostacoli della povertà, di una mancanza di istruzione formale, dei pregiudizi di genere in un’epoca in cui per una donna anche muoversi da sola senza meta per la città era malvisto e pericoloso. Nonostante tutte le ferite che la vita può averle inferto ha saputo costruire bellezza. L’arte è questo. E lo è anche se nessuno la vede, come è successo a lungo con le sue fotografie.


(27esimaora.corriere.it, 9 luglio 2022)

di Mariella Pasinati


All’età di 87 anni è scomparsa lo scorso 8 giugno Paula Rego (Lisbona 1935 – Londra 2022) artista portoghese ma attiva fin dagli anni ’50 del Novecento in Gran Bretagna. 
Grande narratrice di storie visive che molto spesso interpretano e risignificano narrazioni letterarie e opere visive del passato, Rego ha fatto dell’esperienza femminile il punto di osservazione privilegiato da cui guardare il mondo e secondo cui dar valore alla realtà, un orientamento intrecciato a temi quali la violenza, il rapporto di subordinazione/dominio, l’esercizio del potere – sessuale e sociale – in particolare nel mondo dell’infanzia e della famiglia. Le sue storie, inquietanti e che lasciano spiazzate, espongono e svelano le difficoltà delle relazioni umane presentate come luogo di contrapposizioni e di conflitto. 
Per ricordarla oggi voglio citare solo la sua serie di disegni e acqueforti sull’aborto che inaugurava, nel 1999, un tema iconografico del tutto nuovo in una storia dell’arte sostanzialmente frutto dell’esperienza e dell’immaginario maschile (per una lettura più ampia del lavoro di Paula Rego rimando ad un mio saggio su Letterate Magazine https://www.societadelleletterate.it/2013/05/pasinati/).

La serie sull’aborto nacque da una costrizione: la necessità di prendere la parola dopo l’insuccesso del referendum indetto in Portogallo per cambiare una legge sull’aborto estremamente restrittiva. Ma quell’urgenza politica le consentì di nominare e dare esistenza simbolica a un’esperienza destinata altrimenti a rimanere muta, come la stessa artista ha lasciato intendere, omettendo, in questi lavori, i titoli. 
Il risultato sono opere forti, intense, dure che però non hanno nulla di crudo o di brutale, suggeriscono più che descrivere. In contesti estremamente semplificati, l’attenzione è tutta concentrata sulle figure: corpi massicci che assorbono e dominano lo spazio, donne che, sia pure nella sofferenza, sono l’unico soggetto dell’azione. L’intento non è tanto denunciare un problema sociale, piuttosto sottolineare il controllo femminile sulle proprie scelte, anche in una condizione estrema. Per questo Paula Rego rappresenta le figure secondo due pose diverse ma complementari: rannicchiate su se stesse oppure rivolte verso chi guarda ma, in entrambi i casi, la donna raffigurata ha sempre il pieno controllo sull’evento, sempre protagonista e mai vittima delle circostanze.

Quest’anno la Biennale di Venezia le ha dedicato uno spazio nel Padiglione centrale, un’ottima occasione per rivederne le opere, fino alla serie più recente Seven Deadly Sins del 2019. E fino al 18 giugno sempre a Venezia, alla Galleria Victoria Miro, si può ancora visitare la mostra Paula Rego: Secrets of Faith, centrata sulla sua particolare interpretazione femminista della figura della Vergine Maria.


(www.facebook.com, 13 giugno 2022)

di Katia Ricci


Ho visitato l’Esposizione ai Giardini e all’Arsenale con Donatella Franchi e un’artista messicana, Patricia Meza, sua allieva nel master Duoda. È stata per questo una visita ancora più interessante perché abbiamo potuto scambiarci opinioni. Ero piena di aspettative per quella che veniva indicata come la Biennale delle donne. Desiderosa di un giusto, anche se tardivo, riconoscimento alla creatività femminile e nello stesso tempo timorosa che fosse un tributo alla moda del momento che parla di post-umano, gender fluid, superamento del binarismo eccetera… Sicuramente in comune con tutte queste problematiche le opere di artiste e artisti mostravano un netto superamento dell’antropo(andro)centrismo. Ma andiamo con ordine, in primis i numeri: per la prima volta nei 127 anni della Biennale tra i duecento artiste e artisti provenienti da 58 nazioni, c’è una netta maggioranza di donne rispetto ai colleghi uomini, il che racconta di un protagonismo femminile che finalmente è emerso anche agli occhi della critica e del pubblico e di qui non si torna indietro. I numeri dicono pure qualcosa, anche se si dice comunemente che non è la quantità quella che conta. E allora entriamo nel merito della qualità e dei problemi affrontati. L’enorme elefante verde scuro, Elefant, che ci accoglie nel Padiglione centrale dei Giardini, realizzato in poliestere da Katharina Fritsch mi appare come una figura imponente e nello stesso tempo rassicurante, come la matriarca che è alla base dell’organizzazione familiare della specie. La scultura e il titolo della mostra, Il latte dei sogni, tratto dal libro di favole di Leonora Carrington, introducono in un mondo magico e nello stesso tempo reale e quotidiano, come se la vita stessa offrisse infinite possibilità di eventi meravigliosi e potesse essere plasmata e reinventata continuamente se si abbandonano schemi prefissati e luoghi comuni. In una sala sotterranea del Padiglione centrale, detta La culla della strega, esprimono un rapporto magico e stupefacente con l’universo le opere di artiste delle avanguardie storiche, tra cui Eileen Agar, Leonora Carrington, Claude Cahun, Leonor Fini, Carol Rama, Dorothea Tanning, Remedios Varo, Benedetta, Rosa Rosà, Meret Oppenheim, Valentine de Saint-Point. Il riferimento frequente all’inconscio, il superamento delle contrapposizioni proprie della cultura patriarcale, essere umano natura, corpo mente, femminile maschile, reale immaginario prefigurano la nascita della “donna nuova”, autonoma e indipendente dall’uomo. Breve il passo per il raggiungimento di una completa libertà. Un’opera di Varo mostra un’artista, un ibrido di donna e civetta, che nel suo fare artistico prende direttamente luce e colori dagli astri, da forze soprannaturali. La culla della strega si presenta, dunque, come un laboratorio alchemico di pensiero, consapevolezza, pratiche artistiche a cui faranno riferimento artiste e artisti negli anni a venire e fino ai nostri giorni. La sezione Corpo orbita con opere di artiste come Tomaso Binga, Mirella Bentivoglio, Djuna Barnes, Sister Gertrude Morgan, Minnie Evans, solo per citarne alcune, ricercano un proprio linguaggio nella Poesia visiva o utilizzando scritture automatiche che sono anche una pratica corporea per esprimere un linguaggio inconscio del tutto personale. Affascinanti l’installazione e le opere di Cecilia Vicuña, Leon d’oro alla carriera insieme a Katharina Fritsch. L’installazione, NAUfraga, dedicata alla laguna di Venezia, che occupa tutta la stanza con materiali di recupero, corde, reti, detriti raccolti a Venezia, denuncia lo sfruttamento della Terra che sta facendo naufragare lentamente Venezia. Il dipinto dedicato alla madre, Bendígame mamita, esalta il modo creativo e forte con cui la madre ha reagito al violento colpo di stato cileno: il suo sguardo attraversa il foro di una chitarra e non a caso è diventato uno dei simboli della Biennale per comunicare il superamento dell’odio e delle difficoltà. Metamorfosi dei corpi in lavori come quelli dell’artista rumena Andra Ursuƫa, che, usando calchi di parti del suo stesso corpo, evoca la fragilità e la precarietà della forma umana. Molte artiste e artisti affrontano il tema del rapporto con la Terra e la natura, sia nei video di alcuni che negli stupendi paesaggi ricamati da Britta Marakatt-Labba presente anche all’Arsenale. Uno dei riferimenti della curatrice è sicuramente Ursula K. Le Guin, secondo la quale la civiltà sarebbe nata non dall’invenzione delle armi, ma dai recipienti e oggetti utili alla vita quotidiana. E così in una sezione dell’Arsenale si ammirano oggetti di Sophie Taeuber-Arp, le leggerissime sculture in filo di ferro ispirate a una tecnica di intreccio di ceste di Ruth Asawa, i gusci fragili di Mária Bartuszová, i modelli in cartapesta degli organi sessuali femminili di Aletta Jacobs che nei Paesi Bassi già a fine Ottocento si batteva per l’abolizione della prostituzione. Ai genitali femminili sono evidentemente ispirate le conchiglie dipinte dalla francese Bridget Tichenor, stabilitasi poi in Messico. Complessa la scultura in ceramica di Tecla Tofano, nata a Napoli, ma vissuta in Venezuela, dove si è battuta per l’uguaglianza tra uomini e donne in una società fortemente maschilista. La sua ceramica affronta la questione della maternità in un modo problematico senza retorica.

Culture non occidentali e saperi indigeni sono al centro di molte opere. Il Padiglione americano coperto per l’occasione da paglia che lo trasforma in una capanna africana contiene sculture in bronzo di figure di donne nere di Simone Leigh, che apre la mostra all’Arsenale con un monumentale busto di bronzo di una donna nera, la cui gonna ricorda una casa di argilla. All’antica scultura indiana si ispira Mrinalini Mukherjee che con la fibra di canapa dà vita a monumentali sculture, in cui l’astrazione si fonde con elementi naturali per dar vita ad antiche divinità. Uno dei padiglioni più affascinanti, oltre a quello molto bello del Belgio sui bambini che giocano nelle strade del Messico, in Africa e in Cina, e che mi ha sorpreso maggiormente è quello della Polonia che presenta un grandioso progetto dell’artista rom Małgorzata Mirga-Tas, Re-enchanting the World, ispirato a Palazzo Schifanoia. L’epopea del popolo Rom raccontata in tra fasce copre tutte le pareti con la storia della migrazione, i segni zodiacali, e nella fascia bassa lavori e vita quotidiana in cui sono protagoniste le donne. Sono dodici pannelli di tessuti dai colori brillanti, una festa per gli occhi. Arazzi, ricami, opere realizzate con materiali vari anche di uso quotidiano sono numerosi in tutta l’esposizione in cui non mancano sorprese come le opere della cantante cilena Violeta Parra che realizza quadri e ricami che riprendono le sue canzoni e rappresentano in scene corali donne, uomini e animali ed eventi storici. Inevitabile la sezione dedicata al cyborg intitolata La seduzione del cyborg nella parte finale delle Corderie all’Arsenale, con opere di artiste che fin dall’inizio del Novecento hanno immaginato nuove mescolanze e combinazioni tra macchine, esseri umani e tecnologia. Tra queste artiste del Bauhaus come Marianne Brandt, le futuriste, Aleksandra Ėkster, Giannina Censi e Regina. Chiude una grande installazione di Barbara Kruger con slogan, poesie e frasi. Non è, dunque, solo la quantità che fa di questa Biennale la Biennale delle donne, ma anche e soprattutto la qualità: le novità, le pratiche artigianali e artistiche, un tempo appannaggio delle donne, i contenuti che riguardano la rappresentazione dei corpi, le relazioni con tutti gli esseri viventi, la fine dell’antropocentrismo e i legami con la Terra per un «re-incantesimo del mondo», come scrive Silvia Federici.


(www.libreriadelledonne.it, 6 giugno 2022)

di Danila Baldo


Inizia oggi una serie di quattro interviste ad artiste accomunate dal fatto di essere donne, di aver rappresentato l’essere donne nel mondo e di aver fatto conoscere, con la loro arte – produzioni, attività, mostre – il loro sguardo sulla realtà. Che cosa sia la realtà è la più sottile e complessa delle disquisizioni filosofiche: se è ciò che si vede o ciò che è velato, ciò che appare alla luce del sole o ciò che è nell’ombra, ciò che è al di qua o al di là dello specchio… in ogni caso l’artista si pone in un luogo altro che fa cogliere sprazzi di realtà non visibili immediatamente, colti nella mediazione delle sue emozioni, sentimenti e visioni. E aiuta tutte e tutti noi, ri-creandola, a comprendere e ri-conoscere la realtà in cui siamo immersi, come pesci nell’acqua.

Iniziamo con l’artista emiliana Clelia Mori.

Ci parli della tua ultima fatica, la mostra che a Matera città della Cultura 2019 è stata intitolata Il mistero (negato) del corpo che non tace e che ha avuto altre esposizioni, prima del lockdown che ha bloccato tutto: società, scuola, rappresentazioni artistiche?

Bella questa idea della realtà ri-creata dall’arte: racconta molto della visione artistica. Sì, ha proprio bloccato tutto il Covid, anche per me dopo Matera. Comunque dopo averla esposta in parte a Mestre con Le Vicine di casa e Alessandra De Perini che mi ha creduta per prima, a Brescia con la Cgil, a Reggio Emilia con la Fondazione Tricolore e a Foggia alla Merlettaia, quest’opera è approdata, con la partecipazione preziosa della critica Katia Ricci, a Matera alla Biblioteca Provinciale, a cura della fondazione Basilicata Futuro e della Cgil e col Patrocinio della Provincia, dove volevo assolutamente andasse, visto che riguardava le donne della Basilicata. Mi serviva portarla là per unirle idealmente a tutte le donne d’Europa e della terra.

Questa serie di più di 40 opere tra tute, carte e lenzuola, sul mistero del corpo femminile, è nata perché mi sono sentita negata come donna insieme alle operaie della Fca di Melfi quando ho letto, nel 2015, che non volevano più le tute bianche di ordinanza, uguali a quelle degli uomini, perché si macchiavano di sangue mestruale. Mi era sembrato assurdo che il nostro corpo fosse considerato uguale a quello degli uomini. È un’uguaglianza ottusa che continua ancora oggi in tutte le fabbriche di questa multinazionale. Non capivo come fosse possibile non vedere che al mondo ci siamo anche noi e che ogni donna e uomo nasce sempre da un corpo di donna. Un corpo misterioso e anarchico che Marchionne pensava di poter cancellare col bianco, ma che non tace mai e il bianco mitizzato lo ha tradito. Ho pensato che dovevo far uscire quelle tute dalla fabbrica, renderle un’opera d’arte ed esporle. Far vedere questa violenza simbolica. Ho cercato un’operaia che me le regalasse e dopo più di un anno, al cambio della mise, gentilissima, me le ha mandate.

Confidavo mi arrivassero sporche, ne avevamo parlato. È un periodo che in arte va di moda il sangue e volevo usarlo anch’io, avevo perfino un motivo molto serio che mi toglieva dall’idea dell’esibizione. Ma le quattro tute usate, il ritratto di chi ci aveva vissuto dentro, mi arrivarono pulite e stirate e non potevo macchiarle apposta fingendo.

E allora?

Eh, lentamente mi sono resa conto che dovevo lavorare sui simboli: ricamarle e dipingerle io. Non aveva senso insistere sul sangue reale se le operaie avevano rifiutato le tute proprio per proteggere la loro libertà di dire a chi, quando e come volevano il loro mistero. Una libertà che rivendicavano per tutte noi. Anche la mia amica operaia me l’aveva detto mandandomele pulite. Non dovevo proprio scioccare nessuno col sangue vero. Ormai era puerile. Era il nostro mistero negato che doveva stare al centro del mio lavoro. La sua voluta in-visibilità.

E sulla nostra in-visibilità ho lavorato.

Alle maglie ho delegato l’invisibilità con fili bianchi e oro che mi serviva per indicare la nostra preziosità corporea e ai calzoni la visibilità con cerchi di filo rosso e macchie rosse di acrilico. Ma quando le ho esposte a Mestre chi le vedeva non si stupiva come me.

E allora ho capito che dovevo affrontare il nostro mistero togliendolo dal tabù in cui è relegato. Ho cercato una forma, ma nessuna funzionava e finalmente è arrivata liberatoria l’unica vera: la macchia di sangue mestruale sui pannolini. E quella ho ricamato enorme, con materici fili rossi, bianchi e oro, a punto croce, una tecnica persino ironica nella sua xx cromosomica, per sbatterci contro al tabù su grandi lenzuola usate, filate e tessute da altre donne su cui avevano anche amato. Chiudendo un cerchio tra donne sulla nostra preziosità.

Ma ricamavi già nelle tue opere?

No. Ma una volta scartato il sangue vero, concettualmente superato, non potevo certo usare pennellate forti e sgocciolanti. Troppo maschili, vistose e false per parlare del nostro Sangue di vita che è differente da quello di morte, ferita o malattia e va detto. Perché noi siamo le Creatrici del tempo e dello spazio ogni volta che creiamo una vita. Un tempo che non è quello dell’orologio e della storia maschile, ma quello della vita vera che parla, ride, piange e ama. Uno dei miei lavori è proprio sulla capacità creatrice della nostra differenza sessuale: Creatrici del tempo. Concetto spaziale 2020. È basato sulla mia storia fertile che racconto con tredici pallini: uno per ogni mestruazione, per ogni anno dall’inizio fino alla fine, con la riga vuota della gravidanza. È il tempo dell’umanità che io ho creato e che creiamo tutte dandogli spazio in ogni parte del mondo. Tredici è il numero di mestruazioni che ogni donna in genere dovrebbe avere in un anno e lo si trova dividendo i giorni dell’anno per 28, lo stacco di tempo anche lunare tra una apparizione mestruale e l’altra.

Così mi è sembrata molto naturale e meditativa la levità del ricamare, senza fare una tovaglia da tè, rispetto alle pennellate energiche. In fondo erano le coordinate artistiche di sempre quelle che usavo: spazio, segno, materia, luce, cambiava solo la tecnica. Non ho il mito artistico della riconoscibilità personale della critica e del mercato. L’arte è un linguaggio, mi serve per parlare e per farlo da libera credo vadano anche ribaltate le richieste dei canoni, anche se rassicurano, se serve per ri-creare la realtà osservata da un’altra prospettiva. Per me è l’altro meraviglioso linguaggio che possiedo. So che questa lingua è da sempre arrivata prima della parola: la stimola e la contiene ed è quella che uso e amo da sempre. È il lavoro dell’arte.

Qual è stato il percorso scolastico e culturale che ti ha portata a esprimerti con le arti visive?

Sono Maestra d’Arte diplomata al Toschi di Parma. Una scuola che ho scelto contro la volontà della famiglia molto preoccupata del mio futuro che mi voleva al liceo. Devo però ringraziare i miei genitori che hanno creduto in me in tempi economici ancora difficili. Mi hanno regalato da contadini la libertà del mio desiderio e del mio piacere della vita. Amavo il segno fin dalle aste e i puntini dell’asilo. Costringere la mia mano a fare quello che voleva il mio cervello era una goduria espressiva estrema che non ho più abbandonato. Certo non è stato semplice insegnare, lavorare e dipingere, fare la casalinga e la madre, ma non potevo non parlare con questa lingua: era la mia più originale e profonda e l’ho sempre coltivata strappandola alle incombenze del quotidiano. Strapparla è stato creativo per il desiderio. Se non l’avessi usata non sarei più stata me stessa. Così, forte della mia conquistata e scolastica sapienza pittorica, ho passato il tempo a sublimare, a distruggere e ricostruire quello che avevo imparato a scuola tra ricerca di sintesi linguistiche, cromatiche e spaziali. Non è stato facile, molte sensazioni contrapposte mi agitavano ogni volta che lavoravo e cercavo di cambiare strada insieme all’idea di sbagliare, ma ad un certo punto ho cominciato a dare fiducia solo alle mie emozioni. A pescare nel loro farsi con l’obiettivo di dirle con tutta la libertà che mi potevo dare, guardando più il mio mondo sensoriale che a quello che mi dava l’esterno: il fuori mi deconcentrava. Lì sono diventata libera come artista.

Hai incontrato personalità artistiche che ti hanno particolarmente colpita o indirizzata, nel tuo percorso?

Non ho avuto tanto tempo per coltivare questi aspetti, lontani geograficamente da me, oltre a compagni e compagne di scuola. Abito in mezzo ai campi da sempre. Ma ho guardato molto artiste e artisti famosi che amavo, da quelli storici a quelli moderni. Pian piano li ho introiettati e digeriti grazie anche a una coscienza sempre più femminista che mi ha permesso critiche a convenzioni artistiche che mitizzavo. Un’altra idea di spazio nell’opera è la mia ultima liberatoria conquista: uno spazio della vita, non solo quello freddo, geometrico, acido di un taglio che ho adorato.

Ci fai qualche nome di artisti o artiste amate?

Nel mio Istituto d’arte, negli anni sessanta, le artiste non erano contemplate, nonostante avessi una insegnante di storia dell’arte. Lei seguiva i canoni classici che erano costituiti soprattutto dalla visione maschile e con quelli mi sono confrontata. Ho amato tutti i grandi nomi della storia dell’arte. Ogni nome era una scoperta di un mondo pittorico diverso e intenso per una ragazza che veniva dalla campagna: dai capolavori dell’arte greca e romana a quelli del medioevo che ritrovavo anche a Parma con l’Antelami, dove c’erano anche il Correggio e il Parmigianino, ai fiorentini e ai romani del Rinascimento e su fino all’impressionismo per fermarci a prima del futurismo. Il resto me lo sono fatta da sola. Ma lì ho imparato a confrontarmi con la pittura maschile senza sentirmi a disagio se poi non li condividevo più. Lì ho imparato un senso dell’armonia compositiva che ancora mi guida, anche se ho cambiato linguaggio espressivo, per cercare me stessa nel dire. E adesso so che sono una artista, donna, e che si vede nel mio lavoro. Credo ci sia un modo femminile di fare arte visiva nelle nostre opere e non solo se ricami. L’ho capito guardando i quadri di Joan Mitchell un giorno. Non so l’inglese e credevo di guardare i dipinti di un uomo. Ma quando sono arrivata davanti a certi suoi segni compositivi ho visto che avevano la stessa mia matrice informale e ho scoperto stupita che guardavo invece una donna artista. È un tema grande questo, tacitato troppo spesso con l’affermazione che l’arte, quando è arte, è sempre arte e non c’entra chi la fa. C’è una verità critica dentro questa affermazione che però a me non basta, perché sento che c’è anche altro. Sarebbe interessante se si provasse a guardare l’arte delle donne dal di fuori dei rassicuranti canoni storici che in qualche modo limitano studi più approfonditi, meno monotoni e omologanti. Siamo in un tempo in cui ci si può permettere qualche strutturale cambiamento mentale. Penso alla magica libertà di Maria Lai come artista donna nel suo filo azzurro che lega Ulassai alla montagna, che non trovo guardando altro, o alla leggerezza ironica delle foto di Tomaso Binga nuda e mai scontata nel suo Alfabetiere. O ai disegni scarni e urticanti di Carol Rama o a Marina Abramović mentre pulisce una montagna di ossa sanguinanti sulla prima guerra in Europa dopo la seconda guerra mondiale e sento che solo delle donne potevano arrivare lì.

Ritieni che la nostra società, con tutte le problematiche economiche, sociali e geopolitiche che si trova ad affrontare, dia il giusto spazio all’arte o alla cultura in generale? Abbiamo anche dovuto sentire, negli anni scorsi: «Con la cultura non si mangia». Pensi che sia ancora vero?

È un tasto dolente questo, soprattutto per le donne che vogliono fare arte. Difficile trovare spazi per artiste come me che non seguono sempre regole consolidate. Tomaso Binga (nome d’arte di Bianca Pucciarelli), una delle più brave e irriverenti artiste italiane viventi (ora ha ben novantun anni), mi ha detto da poco che lei ha cominciato a diventare famosa a ottant’anni e che avevo ancora molto tempo davanti… In fin dei conti io voglio parlare col segno e la luce del colore e il resto alla fine non mi riguarda. Preziosa è la libertà artistica che mi sono data con l’indipendenza economica e a quella libertà mi tengo ben stretta.

Quali sono state le tematiche che hai principalmente affrontato?

Sono sempre partita dal corpo: l’immagine che mi interessava di più, in particolare dal mio corpo di donna. Era quello che conoscevo meglio in un periodo in cui dipingere un modello era abbastanza superato. E dal mio sono arrivata al nostro, passando attraverso la ricerca di una sintesi del segno che fin dall’Istituto d’Arte mi attraeva. Andandomene pian piano dal corpo esteriore per ritrovarlo nella sua essenza più interiore, dopo essere passata dal trionfo del segno cromatico dell’informale di anni fa. Mi è servito per rendermi indipendente dalla forma reale. Ho persino fatto una serie di quaranta lavori su Le violon d’Ingres di Man Ray, una bellissima foto venduta da poco a un prezzo mai visto, irridendo la sua idea che il corpo di donna si possa suonare come un violino e poi appoggiare in un angolo nell’attesa del suo prossimo uso. L’ho fatto pensando all’Estasi di Teresa d’Avila del Bernini in Santa Maria della Vittoria a Roma e alla Kiki di Man Ray, chiedendomi chi tra le due donne abbia avuto di più da un amore. Sembra da come Man Ray ha architettato la foto di Kiki che lei vivesse nella sua ombra, ma nella sua biografia Kiki gli dedica circa una mezza pagina. Ho cercato anche di capire con questo lavoro se la forma corporea femminile avesse un modo femminile di essere vista, ma cambia solo l’interpretazione perché questa forma è già data per sempre a chi la guarda. Quello che non aveva capito Marchionne e chi pensa che si possa cambiare la definizione di donna per noi donne.

E i tuoi progetti in corso o futuri?

Il Mistero (negato) del corpo che non tace è un tema infinito. Ha così tante sfaccettature che sto ancora lavorandoci. È così vasto e complesso che ogni cosa che ci accade intorno lo riguarda e propone un altro punto di vista da cui osservarlo per cercare nuove soluzioni a quelle asfittiche dentro cui siamo come in una prigione. La rivoluzione della tenerezza è un altro punto di osservazione che ho rappresentato, da una recente splendida omelia sul grembo di Maria di Papa Francesco, dove afferma che «Gesù è cresciuto giorno dopo giorno nel suo grembo». Maria è stata sempre dipinta col bambino già nato in braccio e mai incinta, se togliamo la Madonna del parto di Piero della Francesca, e penso che col suo grembo si rivaluta finalmente quello di tutte. È un punto fermo sulle capacità del nostro corpo che prima non c’era. Ho realizzato quest’opera con uno zig zag enorme rosa: lo zig zag, un segno primordiale, per la rivoluzione, e il rosa femminile per la tenerezza, sempre a punto croce su di un grande lenzuolo.

Penso sia un passaggio dovuto al mio lavoro sul corpo delle donne. E oggi con questa terribile guerra in Ucraina parlare del mistero della madre e del nostro corpo – come matria in alternativa alla patria – mi sembra un liberatorio e auspicabile cambio di sguardo e lì sto lavorando nel mio nuovo lenzuolo appena iniziato. Poi esporrò una serie di 10 grandi carte disegnate su Genoeffa Cocconi Cervi, la madre dei Sette Fratelli Cervi uccisi nel ’43 dai fascisti. L’ottava vittima in quella famiglia, ancora in parte misconosciuta proprio perché una madre, morta poco dopo loro nel ’44, e sarà all’Istituto Cervi qui vicino in novembre. Genoeffa: una Maria laica.

Ringraziamo Clelia Mori per le interessantissime riflessioni e considerazioni, utili ad allargare anche i nostri orizzonti nella comprensione della realtà in cui viviamo.


(vitaminevaganti.com/Arti visive, Conversazioni, numero 168, 28 maggio 2022)

di Giuseppe Frangi


Nella storia di Corrado Levi, il caso gioca sempre un ruolo importante. Lo gioca con molta grazia e leggerezza. Nell’immediato dopoguerra, mentre era impegnato a recuperare gli anni perduti facendo l’università a tappe forzate, si era recato in visita a Ottone Rosai nel suo studio di Fiesole. Gli aveva comperato un piccolo quadro, dietro il quale Rosai aveva scritto una dedica: «A Corrado Levi con l’augurio di trovarlo pittore». Levi era iscritto ad Architettura, dove si sarebbe laureato con Carlo Mollino, ma evidentemente guardava alla sua vita come a un campo aperto e libero: del resto «Libero» era il cognome della madre che lui aveva adottato nel 1943-44 per scampare alle leggi razziali.

Levi è un «inclassificabile» in ogni senso. Lo testimoniano i biglietti da visita che con un tocco di ironia ha voluto squadernare in una doppia pagina alla fine di questo libro che colma una mancanza e finalmente ripercorre la sua storia creativa: Corrado Levi. Corpi (a cura di Beppe Finessi, con un testo di Luca Massimo Barbero, Electa, pp. 208, euro 32,00). Si dichiara architetto, e insieme «guanto giallo di savate», o boxe francese. Ma in un altro biglietto si definisce «fan di Boetti di Albini di Mollino di Klee di Schifano di Escher di Kraus di Zanichelli di Rama». Chi lo ha avuto come affascinante professore alla facoltà milanese di Architettura, si trovava davanti un maestro che non ha mai smesso di considerarsi allievo dei nomi di cui sopra, in particolare di Mollino, come più tardi di Franco Albini, «fratelli di nevrosi» per la comune ricerca della perfezione progettuale che li caratterizzava. Credeva nella virtù di «imparare l’uno dall’altro». «L’ho sempre fatto anche con gli allievi del Politecnico. Imparare guardandosi. Se non è un atto politico questo…», racconta nell’intervista a Maria Villa che correda il volume.

In una facoltà in ebollizione per le contestazioni studentesche, vara un progetto editoriale «Dalle cantine», con la sua costola «Dalle cantine frocie». Un numero speciale è dedicato a un artista-chiave per Corrado Levi, Pontormo, a cui lo lega una passione viscerale. Per Levi è un artista-chiave in ogni senso: addirittura assicura di aver ottenuto la cattedra al Politecnico dopo che Paolo Portoghesi lo aveva sorpreso, durante un’occupazione, a leggere in piedi il Diario del grande manierista. Un disegno di Pontormo, Il giocator sgambettante, è poi origine di una serie di lavori realizzati a inizi anni ottanta, «con occhi spalancati, mano attenta e cuore sognante», come sottolinea Finessi. Levi, dopo aver replicato su carta undici volte la figura pontormesca, ne ha coperto il sesso, spavaldamente ostentato, con pennellate di colori sempre diversi. Un tocco con cui sembra divertirsi a stare al gioco di «Madame Pontormo» (questo era il titolo del numero speciale della fanzine universitaria).

La politica entra sempre in gioco nel percorso di Levi. Ma entra attraverso pertugi imprevisti, mai con un andamento obbligante. La politica per lui è esperienza, e il corpo è il territorio immancabile di questa esperienza. Come scrive Finessi il corpo resta sempre «un territorio capace di rappresentare al meglio il suo pensiero, contenerlo, amplificarlo, permettendogli di mostrare la sua ricerca, tra ascolto, sperimentazione e humour». Quando sceglie di aderire al FUORI, lo fa anche «per attingere alle linfe colorate dei collettivi individuali, delle notti trascorse tra Artaud, Genet, l’illeggibile groviglio di Eliogabalo» (Massimo Barbero). Quando nel 2015 intercetta la ferita sociale dei migranti, decide di indossare uno sull’altro i vestiti abbandonati da chi era approdato sulla costa pugliese. Politica, anche in questo caso, è «lasciarsi attraversare dalle cose», prendersi addosso la realtà. La foto scattata per fissare quella performance, firmata da Finessi, rimanda in modo dolce ma perentorio ai corpi e alle vite assenti ma reali degli «arrivati».

Una decina di anni prima, avendo deciso di ristrutturare un vecchio riad a Marrakech per ricavarne un atelier, aveva lavorato al fianco dei muratori. Alla fine si era fatto dare le loro tute da lavoro, che ha poi montato in un assemblaggio circolare: praticamente ne è nato un rosone di impronta operaia. Il suo abito da cantiere è invece un’opera a parte, in forma di composizione danzante, come a comunicare la dimensione di un’inedita scioltezza. «Se non fossi così ingenuo nel manifestare le cose forse non avrei queste qualità», dice di se stesso, quasi per spiegare la semplicità ineffabile di tante sue soluzioni.

È una «levità», come la definisce Massimo Barbero, che caratterizza anche la sua esperienza pittorica, vera sorpresa di questo libro. Levi agisce in punta di pennello, con un segno che spesso è quasi stenografico. Si riconosce a monte il tocco del De Pisis più struggente e fuggitivo, o l’orizzonte errante di Licini. Levi si muove su quelle tracce ma è debitore a Mario Schifano, di cui da giovane è stato assistente, del raggiungimento di un’autocoscienza pittorica. Era accaduto a inizi anni ottanta, durante un’estate ad Ansedonia; un giorno Levi d’istinto aveva iniziato a lavorare su grandi tele distendendole nel prato. Vedendolo dall’alto Schifano aveva proclamato un «habemus pinctor» (sic), che per Levi è risuonato come un imprimatur importantissimo. Lui poi ricorda come Schifano lo richiamasse spesso all’idea della relatività: «L’ho interpretata come possibilità di non considerare l’opera un assoluto, ma come entità viva nello spazio e nel tempo, un furore».

Nelle pagine del libro scorrono le grandi tele di quegli anni; sembrano tutte pervase da fremiti fuggenti; la pittura avanza per accenni, per scosse leggere, dense di desiderio e di dolcezza. Lo sguardo di Levi, anche in pittura, è sempre uno sguardo amico, uno sguardo trepidante, soprattutto laddove l’intenzione è più scopertamente e teneramente erotica. È un «voler bene» al mondo che si esplicita nelle forme più inattese, con la capacità di abbracciare più pensieri. «Levi inizia tra le arti un percorso costruito attraverso acuti sincretismi», scrive Massimo Barbero. «L’arte, la visione, la società, il respirare quieto e profondo del rapace e del palombaro senza risparmiarsi campi di interesse ed escursioni».

Tra queste escursioni ce ne sono di fondamentali, come quella che lo ha portato a una relazione speciale con Carol Rama (documentata nelle meravigliose pagine ripubblicate in È andata così, Electa, 2009). Alla Biennale del 1993, su invito di Achille Bonito Oliva, Levi aveva allestito una sala personale a lei dedicata, stipando i lavori per nuclei omogenei ai quattro angoli; ogni angolo era allestito con criteri diversi, o affastellando le opere o disponendole ordinate. A vegliare la sala, appeso a un filo che scendeva dal soffitto, c’era un omaggio di Carol al suo curatore, Il chiodo di Corrado, un giubbino di pelle nera, imbottito sulla schiena di camere d’aria. Era un allestimento che restituiva tutta la pregnanza fisica di quelle opere-corpo, «buchi di me» come le aveva definite la stessa Carol Rama.

Di sorpresa in sorpresa il libro porta a riscoprire quell’intervento realizzato per «Rapido fine», una rassegna organizzata nel 1986 da un gruppo di artisti negli spazi della Zenith, fabbrica abbandonata a Ferrara. Levi si era fatto vivo portando un presepe e allestendolo con grande cura in un angolo dell’edificio. Il senso di quel gesto era semplicemente di donare un oggetto pieno di sentimento a quel luogo in rovina. C’è sempre una quota di stupore nelle azioni artistiche di Corrado Levi. Come scrive Barbero, l’arte per lui è ogni volta «un inciampo libero».


(il manifesto, 8 maggio 2022)

di Arianna Di Genova


Biennale Arte 59. La rassegna internazionale raccontata dalla curatrice ufficiale della mostra


Già nel 2017, quando era stata chiamata a curare il padiglione Italia, Cecilia Alemani si era incamminata in direzione della linea fantastica che aveva attraversato il ’900, in pittura come in letteratura. Coerente con quella intuizione intrisa di magie e allucinazioni, torna in Laguna dall’America in cui vive, questa volta per imbastire il grande puzzle della mostra ufficiale della Biennale. E lo affida a un buon 80% di presenza femminile (213 in tutto le e gli «ospiti») e alla scrematura onirica de Il latte dei sogni (23 aprile – 27 novembre), stesso titolo del quadernetto privato che raccoglieva le storie eccentriche, intessute di mutazioni e ibridazioni tra specie, inventate dalla inglese-messicana Leonora Carrington, scrittrice e artista convinta che ognuno di noi possedesse «un’anima animale, un proprio bestiario interiore».

La sua mostra è modulata nell’alternanza di presente e passato, con produzioni recenti e «capsule del tempo». Può spiegarci meglio? 
Ho immaginato una mostra che potesse unire temporalità e mondi differenti. Ovviamente, la rassegna ha guardato tanto al contemporaneo, a produzioni degli ultimi due anni, ma si è anche volta al passato, alla storia stessa della Biennale e dell’arte in generale, per intrecciare una costellazione di lavori – soprattutto del ’900 – che potessero dialogare con quelli contemporanei (nell’allestimento, le due «linee» sono parzialmente separate). Vorrei che le «capsule» offrissero allo spettatore delle lenti per leggere l’arte, compresa quella più vicina al nostro tempo. Surrealismo, Futurismo, Bauhaus mi permettevano di focalizzare l’attenzione sulla produzione di opere di artiste che hanno militato in quei movimenti ma che sono state dimenticate. Era un modo per ricucire quella storia e intersecarla con il contemporaneo. La storia non è qualcosa di fisso e archiviato, ma va ripescata e reinterpretata.

Possiamo rintracciare un filo conduttore per orientarsi nella esposizione tra Giardini, Corderie e Arsenale?  
Anche ingenuamente, mi piace dire che a una mostra ci vado perché voglio imparare, non solo sentirmi engaged. Le capsule storiche possono aiutare a capire che alcune tematiche – come la metamorfosi o il cyborg – non sono una mia invenzione. Naturalmente, la metamorfosi è un tema che nella storia dell’arte è presente da centinaia di anni, anche nel lavoro di artiste oggi poco conosciute. Operavano spesso accanto ai loro colleghi uomini portando avanti le loro ricerche. E, le loro produzioni sono diventate anche più contemporanee e attuali, soprattutto alla luce della pandemia.

La parola «sogno» rimanda a una sospensione temporale, a un fluttuare della coscienza… È una cancellazione di quel che stiamo vivendo?  
No, casomai la dimensione onirica è una metodologia utilizzata dagli artisti per processare proprio i traumi del presente. Non è una fuga, un voltare le spalle all’urgenza del momento. Mi sembra di poter dire che è uno strumento che gli artisti hanno usato nell’isolamento cui siamo stati costretti. La solitudine ha favorito il ricorso all’introspezione, all’inconscio per rielaborare quello che abbiamo vissuto negli ultimi due anni. Non solo il contenuto dei lavori è interessante, ma anche lo stile scelto per confrontarsi con quel trauma. C’è molta pittura, è una mostra fisica e materiale, rifugge dall’arte più concettuale e astratta. È un percorso che si deve attraversare col proprio corpo. Forse è il risultato di averla preparata tramite lo schermo e la mediazione del computer, con incontri e visite in studio online. È ciò che volevo vedere e non potevo durante la pandemia – la fisicità di un quadro o la presenza scultorea di un’installazione.

Oltre alla preponderante presenza di artiste c’è una attenzione alle culture indigene e alla loro lingua creativa. Una corrispondenza di intenti che risuona con alcuni padiglioni e che sembra indicare uno spostamento della Storia… 
Ovviamente, io parlo dal mio punto di vista che è quello di donna bianca, occidentale, privilegiata, però mi interessava portare a Venezia delle simbologie e visioni del mondo diverse dalla mia, che espandessero il concetto di storia. L’idea di fondo è: «Cosa stiamo narrando?». Chiamo tutto ciò «mito» in modo generico, quelle narrazioni parallele che non obbediscono ai canoni cui siamo abituati. Questo approccio è nato quando preparavo il mio padiglione Italia. Avevo ripreso gli studi di Ernesto De Martino, lui era affascinatissimo dalla cultura orale, quella non scritta dei tanti rituali del sud Italia. Volevo dare spazio a una formulazione diversa.

Ci sono alcune muse ispiratrici per disegnare un immaginario quadrilatero magico della rassegna? 
C’è Leonora Carrington, naturalmente e accanto a lei – nell’ipotetico quadrilatero – metterei Magdalene Odundo (nata a Nairobi nel 1950, in Kenya, vive e lavora in Inghilterra), che realizza bellissime ceramiche a forma di corpo come contenitore di vita. Poi, Barbara Kruger, per lo shock di scoprire quanto il suo lavoro con gli slogan femministi degli anni 80 sia ancora così rilevante – è da notare, forse, la nostra società non si sta evolvendo così tanto. E Belkis Ayon (L’Avana, 1967 -1999), artista cubana che racconta strane mitologie africane esportate ai Caraibi e le rivisita in chiave matriarcale e femminista. Un lavoro potente il suo.

Molte opere pongono in primo piano le altre specie… 
La considerazione di un mondo popolato da tante creature viventi rappresenta una parte fondamentale degli artisti presenti nel percorso della mostra. Si dà spazio al desiderio di immaginare un pianeta in cui il rapporto fra esseri umani e natura sia meno di sfruttamento, non gerarchico, più orizzontale e simbiotico. Questo è ciò che dice anche Rosi Braidotti e che sottolineano altre filosofe del postumano. Siamo arrivati a un punto di non ritorno. Il virus, una forza invisibile, ha capovolto il nostro modo di pensarci, abbattendo la nostra «superiorità» come specie.

Infine, una domanda extra: lei vive in America, cosa pensa della «cancel culture»? 
In Italia non si ha molta voglia di capire cosa sia. Non si tratta di censure. Certamente, l’America è una società estrema, senza mediazioni. Ma è un processo difficile: per comprendere quel che è accaduto nello spazio pubblico ai monumenti dobbiamo interrogarci su cosa sia successo nel ’700, nell’800, o semplicemente ottanta/cento anni fa. È un esercizio utile per mostrare che siamo una società viva. La storia deve poter cambiare. Non c’è niente di male a contestualizzare un oggetto nello spazio pubblico, soprattutto se è simbolico. Ma il problema è che al fondamento di tutto ciò, al tavolo delle decisioni si deve sedere chi si sente offeso dalla statua o monumento. Se continuiamo a parlarne fra noi non ha nessun senso.


(Alias – il manifesto, 16 aprile 2022)