21-22-23 maggio 2014

EMERGENZE CREATIVE 2014 / 7a edizione
Rassegna annuale d’arte contemporanea su tematiche ambientali
a cura di Silvia Cirelli

ARTE PUBBLICA nel centro di Ravenna: happening di Chiara Pergola
Happening artistico il 21-22-23 maggio (dalle 16 alle 19)
Piazza Garibaldi (ore 16 – 17) – Piazza XX Settembre (ore 17 – 18) – Piazza del Popolo (ore 18 – 19)
EMERGENZE CREATIVE 2014, la rassegna annuale d’arte contemporanea su tematiche
ambientali, torna nel centro storico di Ravenna e si riconferma come appuntamento fisso nella programmazione culturale della città.
Si rinnova l’interesse per il dialogo arte e ambiente, con una proposta di arte pubblica che nasce da un’attenta indagine del tessuto urbano ravennate e che invita i cittadini a partecipare attivamente all’intervento artistico, diventando da semplici fruitori a necessari protagonisti.
La rassegna è curata da Silvia Cirelli e si sviluppa come evento collaterale alla manifestazione Ravenna 2014. Fare i conti con l’ambiente, organizzata da Labelab.
Questa settima edizione è affidata all’artista bolognese Chiara Pergola, esponente di rilievo della scena contemporanea italiana. Da tempo attenta all’importanza della percezione comune e del valore condiviso dell’arte, Chiara Pergola concentra il suo lavoro sulle dinamiche del linguaggio e su quanto queste possano inserirsi in una lettura sociale e culturale di forte richiamo collettivo.
Il progetto presentato a Ravenna, dal titolo Quelchefarete, si pone in stretto dialogo con lo spazio in cui viene ospitato, trasformando alcuni luoghi del centro storico in tasselli testuali di un vero e proprio rebus, la cui misteriosa soluzione è una parola di 9 lettere, risultante dall’unione di due termini di 5 e 4 lettere. La risoluzione del gioco – un elemento di riflessione sul significato di “sviluppo ecologico” – sarà poi svelata tramite un QR code, presente sul materiale informativo, come anche nei siti di riferimento (il sito personale dell’artista, quello di Emergenze Creative e quello della manifestazione Ravenna 2014).
Lo spettatore, che avrà a disposizione una mappa con segnalati secondo un ordine preciso i tre punti del rebus (le Piazze centrali di Ravenna: Piazza Garibaldi, Piazza XX Settembre e infine
Piazza del Popolo), è dunque invitato a decifrare l’enigma recandosi nei luoghi del gioco. In
ciascuna Piazza dovrà cercare i due “complici” dell’artista (facilmente riconoscibili per un
abbigliamento a tema) i quali, senza parlare ma solo indicando gli indizi testuali, aiuteranno il partecipante a scoprire la soluzione dell’indovinello. La scelta dell’indicalità piuttosto che l’utilizzo della parola è in accordo con la tradizione linguistica enigmistica e soprattutto in linea con il significato delle arti visive.
Il titolo dell’intervento artistico, Quelchefarete, contiene una doppia chiave di lettura, da un lato può essere interpretato come “quel che fa rete” e cioè i comportamenti collettivi che creano equilibri di relazioni fra le persone ma anche con i luoghi; dall’altro può anche essere inteso come “quel che farete”, ovvero quello che i partecipanti dovranno fare durante l’happening, ma soprattutto ciò che è giusto fare in una prospettiva di cambiamento delle nostre condizioni ambientali.
Dall’impronta volutamente ludica, con questo intervento Emergenze Creative si riconferma come opportunità di confronto fra arte e ambiente, con un progetto di richiamo collettivo che ancora una volta evidenzia quanto l’arte contemporanea possa fungere da valido strumento di comunicazione e di sensibilizzazione.
In collaborazione con: Labelab.
Con il Patrocinio di: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Emilia-
Romagna, Provincia di Ravenna, Comune di Ravenna.
www.emergenzecreative.it | info@emergenzecreative.it | ufficio stampa: press@emergenzecreative.it / +39 347 4319207

dal 4 maggio al 1 giugno 2014

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Chiara Pergola, a cura di Renato Barilli.

domenica 4 maggio ore 16:00 – Inaugurazione dell’opera nel Parco di Sculture, P.zza Matteotti, Santa Sofia.
dal 4 maggio al 1 giugno 2014 – Mostra: Galleria Vero Stoppioni (viale Roma 5).

dal 30 aprile al 17 maggio 2014

“L’occhio della Grande Dea guarda, esamina, considera, attende ed infine VEDE”

Di Maria Mulas Silvia Pegoraro dice che” le sue immagini si abbattono come grandine sulla ragione, la alterano e ispessiscono il dubbio, il dubbio che verte sulla legittimità di ogni apparenza”. 

Delle fotografie di Maria Mulas si è detto e scritto moltissimo, mi limito a partecipare lo stupore rinnovato che sempre mi suscitano le sue immagini, siano i ritratti multiformi e accuratamente trasversali dove il dettaglio folgora per significato, immediatezza e profondità, siano architetture o particolari di esse, mosaici o panneggi, oppure citazioni di artisti e delle loro opere pittoriche: “L’Occhio di Iside” vuole essere omaggio a tale meravigliosa versatilità fotografica. Daniela Basadelli Delegà

Maria Mulas è una delle più illustri fotografe italiane. Attiva dalla metà degli anni Sessanta, ha esposto per la prima volta in una mostra personale alla Galleria Diaframma di Milano nel 1976. Nel 2009 ha vinto il Premio delle Arti – Premio della Cultura per la Fotografia con la motivazione seguente: “L’occhio fotografico di Maria Mulas ha trovato, nella dialettica del vissuto e nei ritratti assoluti, l’attimo di un racconto immortalato dove valore estetico e tecnica delle parti segnano il capitolo più alto della storia fotografica degli ultimi decenni”.Mib MIlano
Piazza Affari
Via Gaetano Negri, 10
20123 Milano
T. 02 89093854 – C. 340 2823830  info@mibmilano.it

La mostra è visibile dalle h:12 alle h:15 dalle h:18 alle h:24 dal  30 aprile  al 17 maggio

dal 12/4/2014 al 11/5/2014

La mostra personale di Oki Izumi è inserita nel progetto interculturale di MUSEUMfestival e accostata al percorso espositivo di opere della collezione orientale dei Musei Civici “Suggestioni d’Oriente”.

“Sappiamo di essere una goccia di un grande fiume ma nella storia aggiungiamo un dettaglio trasparente, gioioso e brillante”
Oki Izumi

Per comprendere appieno la poetica di Oki Izumi va conosciuto il processo rituale che si compie nella realizzazione dell’opera. Nella sua gestualità, nel suo fare c’è il ritmo stesso della storia, della vita, lo scandire di un tempo quotidiano che si stratifica. È un lavoro lento, faticoso, che richiede precisione, concentrazione, iterazione di movimenti e pause. Azione e defaticamento.

L’Artista si confronta da anni con il medesimo materiale, il vetro, precisamente il vetro industriale. Lo misura, lo taglia, lo pesa, in una ricerca che si fa numeri, calcolo: i millimetri dello spessore, i centimetri delle dimensioni, i chili del peso, il numero delle lastre, dei pezzi. “La passione”- per Oki Izumi- “è un’ossessione che può nascere solo da una visione megalomane”, ma non si tratta di una megalomania fine a se stessa, quanto dell’espressione dell’unicità del sé e della potenza delle piccole cose. La bellezza infatti è per lei nel dettaglio, nell’essenziale. Oki ricerca invero un’armonia compositiva, l’euritmia. La genesi della sua opera è una lastra, piccola o grande che sia, ad essa se ne aggiungono altre, spesso molte altre, in un’architettura di spazi concettuali. Le sue sculture non plasmano forme, ma creano luoghi, che nella loro apparente fissitudine, non sono immoti; sono memori dell’acqua quieta che ha in sé la fluidità.
Il vetro è un materiale difficile, indomabile, costituito da aspetti duali: è rigido, duro ma anche fragile, è leggero e pesante, freddo e caldo, vuoto e pieno, trasparente e riflettente, si fa attraversare dalla luce e la respinge, la filtra e la rimanda.
Il riverbero è un fenomeno luminoso quanto sonoro, l’iter creativo produce infatti segni, tagli, spostamenti che generano rumori, tanto che ogni creazione è costituita dal suono di un percorso tracciato.
Le sue sculture portano con sé un concetto lineare di tempo, la scia del passato, il presente e la tensione verso al futuro. Sono architetture memori di antiche costruzioni: stele, templi, archi, …quanto allusive a moderne ingegnerie protese al divenire.
La sua opera apre pertanto un fervido dialogo con il Museo di Santa Giulia, unico per quel filo che attraversa luoghi ed epoche, sede di memorie storiche stratificate nel corso dei secoli (edificato su un’area già occupata in età romana da importanti Domus, comprende la basilica longobarda di San Salvatore e la sua cripta, l’oratorio romanico di Santa Maria in Solario, il Coro delle Monache, la cinquecentesca chiesa di Santa Giulia e i chiostri). Passato, presente e futuro non è solo il titolo di una scultura di Oki Izumi, ma è un concetto che ci appartiene, è l’esistenza medesima nella quale il tempo è il flusso del nostro essere.
Nata a Tokyo, Oki Izumi si è laureata in letteratura giapponese antica all’Università Waseda di Tokyo, ha studiato pittura e scultura con Aiko Miyawaki, Taku Iwasaki e Yoshishige Saito. Ottenuta nel 1977 una borsa di studio per la scultura dal Governo Italiano si diploma nel 1981 all’Accademia di Belle Arti di Brera, nel corso di scultura.
Ha partecipato con sue opere e installazioni alla Biennale di Venezia nel 1985 (Progetto Venezia, Terza mostra internazionale di architettura) e nel 1986 (Arte e Biologia, XLII Biennale Internazionale di Arti Visive); alla Triennale di Milano nel 1983; al Museum of Modern Art of Hokkaido a Sapporo (Giappone) nel 1991; nel 1992 alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, nel 1998 con Paola Levi Montalcini e nel 2010 con Iko Itsuki Damiani all’Istituto Giapponese di Cultura a Roma.
Nel 2007 una mostra antologica al Museo civico di Lubiana (Slovenia).
Le sue opere si trovano anche nel Magazzino privato del Vaticano.

Inaugurazione 12 aprile ore 11

Museo di Santa Giulia
via dei Musei, 81/b – Brescia
Orario: 9.30-17.30, chiuso lunedi
Ingresso con il biglietto del Museo di Santa Giulia

sino al 3 maggio 2014

Black Kisses – Transience. Roscic con le sue sculture, installazioni, disegni e collages interroga le strategie di formazione dell’identita’ sia singola che collettiva. La pittura di Toma, esposta nella Project Room e’ caratterizzata da un’energia senza tempo.
Tanja Roscic appartiene ad una nuova generazione di artisti che, con uno scalpello guidato dall’intuizione, decostruiscono l’iconografia del presente, per analizzarla e al contempo creare un nuovo mondo di immagini. Con le sue sculture, installazioni, disegni e collages interroga le strategie di formazione dell’identità sia singola che collettiva. I suoi collages spesso mostrano maschere ricavate ritagliando volti e figure da riviste, che vengono poi stratificate, rielaborate, trasformate in nuove presenze auratiche e misteriose.

In questo contesto, le opere di Roscic mostrano un forte e ironico confronto fra il “soggetto” e lo spettatore. I suoi lavori evocano mondi mistici e surreali, che ruotano intorno ai temi del divenire, della metamorfosi e della transitorietà.

L’artista si rifà ad un’estetica carica di glamour, occultismo e cultura di protesta; al tempo stesso però le sue opere mantengono tutto il loro carattere enigmatico ed astratto.

L’interesse di Tanja Roscic è rivolto in special modo al simbolismo della figura umana, che si esprime nella rappresentazione di giovani donne, i cui ritratti vengono trasformati da sovrapposizioni, omissioni e frammentazioni. Queste immagini presenti nelle opere su carta, che possono essere composte da modelli ripresi dai media ed elementi astratti di colore, rivelano la loro qualità non solo nella loro tattilità, ma anche attraverso una introversa emozionalità. Lo stesso accade nelle sculture, che proseguono il gioco con maschere e figure simili a bambole ed interpretano il tema della rappresentazione attraverso la forma astratta del cappello come espansione della sfera fisica e mentale.

Le sue opere, che trasmettono forza ed al tempo stesso una sensibilità ed un’emotività introversa, spesso si rifanno a simboli alchemici, basandosi sul concetto di trasformazione da una materia in un’altra.

Nonostante il simbolismo, e la riflessione sui media consapevole ed ironica, le opere di Tanja Roscic rimangono riservate e delicate. Tanja Roscic rientra così in una generazione di giovani artisti capaci di riflettere su stati mentali e fisici con sottigliezza e attualità tanto nel gesto artistico quanto nell’uso dei materiali.

Negli ultimi anni l’artista ha avuto mostre personali presso il Neuer Kunstverein di Vienna, il Kunstraum München in Germania ed il Modern Institute di Zurigo; ha inoltre partecipato a numerose mostre collettive in Svizzera e in Germania. Nel 2009 ha vinto un residency a New York.

Project Room: SERGIU TOMA
Transience

Siamo felici di annunciare la prima mostra personale in Italia del giovane pittore rumeno Sergiu Toma di Cluj.

La pittura di Toma è caratterizzata da un’energia senza tempo proveniente dalla grande intensità e precisione dalle immagini che crea. Le scene apparentemente “casuali”, sembrano provenire da ricordi di sogni, nelle quali il punto di vista dello spettatore diventa parte integrante della pittura. L’artista raffigura degli interni in cui oggetti familiari trasmettono significati simbolici difficilmente afferrabili. Le stanze sono luoghi ombrosi e precari dove l’eredità delle tradizioni si decompone creando un set contemporaneo rarefatto.

ll punto di partenza di questa mostra è il dipinto “The light at the edge of realm”

che è stato realizzato due anni fa e raffigura una scena in una stanza ricreata in modo minuzioso. La scena rappresenta un ricordo della sua infanzia, ma inevitabilmente la memoria è imprecisa e piena di lacune. Data l’ossessione di Toma per i dettagli, la sua pittura diventa una ricostruzione, un racconto quotidiano legato più al presente che al passato. Questo lo ha portato a riflettere ed affrontare il tema della transitorietà.

Il piccolo quadro “Transience” è una copia di dimensione più piccola di “The light at the edge of realm”. Questa volta tutto appare sospeso e inafferrabile, alcune forme sono sfuocate; le figure potrebbero girarsi ed andare via, l’attimo passare. La scena sembra disperdersi come una memoria che sta svanendo.

Sergiu Toma è nato nel 1987 e vive a Cluj in Romania. Recentemente ha partecipato alla mostra “Romanina Scenes”, che ha avuto luogo alla Fondation Luis Vuitton pour la Création a Parigi nel 2013. Nel 2010 – 2012 ha vinto una residenza nell’Accademia Rumena a Roma.

Monica De Cardenas

Inaugurazione 28 marzo ore 19

Galleria Monica De Cardenas
via Francesco Vigano’ 4, Milano
Da martedì a sabato ore 15 – 19
Ingresso libero

dal 15/4 al 15/5/2014

Dipinti e incisioni. La ricerca pittorica di Mezzadra affonda nell’informale e procede verso l’astrazione lirica. In mostra olii di grandi dimensioni, incisioni, libri d’arte e video documenti.

a cura di Giorgio Prevosti

mostra promossa da Provincia di Milano/Assessorato alla Cultura
testi in mostra di Luca Nicoletti

La mostra presenta una selezione di dipinti e opere calcografiche dell’artista Elena Mezzadra, nata a Pavia nel 1926 ma vissuta da sempre a Milano.

Dopo un iniziale tirocinio in campo grafico Mezzadra inizia la propria carriera artistica alla fine degli Anni Sessanta, stringendo presto un lungo sodalizio con la Galleria delle Ore. Ha tenuto importanti mostre personali, fra cui al PAC (1992) e al Museo di Lissone (2004). Suoi dipinti sono conservati a Milano presso il Museo del Novecento, la Casa-Museo Boschi Di Stefano, il Museo della Permanente e presso la sede Circolo del Commercio. Altre opere sono al Museo Diotti di Casalmaggiore, al Museo civico Parisi Valle di Maccagno e alla Civica Galleria d’Arte di Lissone, mentre sue incisioni si conservano presso la Galleria Villa dei Cedri di Bellinzona, il Museo della grafica di Hannover e il gabinetto disegni e stampe Achille Bertarelli di Milano.

La ricerca di Elena Mezzadra affonda nell’informale, come messa in discussione dialettica della pittura di segno e materia, che lei dirige verso l’astrazione lirica, ricompattando quella gestualità mossa e aperta dentro strutture formali fatte di sovrapposizioni e stratificazioni di tono e di colore.

La produzione del primo periodo, ancora legata al paesaggio e alla figura, appartiene – a detta dell’autrice stessa – ad una “fase di formazione”, tesa soprattutto all’ acquisizione del “mestiere”. E’ con gli anni Settanta che, grazie all’ influsso esercitato su di lei dall’opera di artisti quali Afro e Scanavino, la Mezzadra matura completamente la sua scelta in favore dell’ astrattismo. Le grandi composizioni nascono da un gesto iniziale tracciato direttamente sulla tela, senza alcun disegno di preparazione: questo primo abbozzo, il cui tratto arancione resta visibile a volte in trasparenza, è poi velato e ricoperto da diversi strati di pittura fino ad ottenere il meditato equilibrio dell’opera finita. L’immagine conserva in questo modo, nonostante l’omogeneità delle tinte e l’accuratezza della pennellata, una particolare forza espressiva.

Mezzadra ha condotto un processo di purificazione formale, fra pittura e arte calcografica, in un progressivo approfondimento cromatico e strutturale. La sua non è una geometria “descrittiva”, esattamente misurabile, ma si accompagna a un’eco di natura. In questa selva di rette e di forme, di vibrazioni della trama pittorica per progressivi passaggi tonali, si assiste a repentine e taglienti accensioni cromatiche, a guizzi luminosi e dinamici che orientano il senso del racconto astratto. Le sue opere rappresentano uno stato transitorio, dinamico, non per la traccia di un segno lasciato d’impulso, ma proprio per un senso di movimento interno alla struttura compositiva, all’andamento delle linee rette e spezzate che si intrecciano sul piano: il “racconto” è dato dal movimento dell’occhio, che viene guidato sulla superficie della tela secondo direttrici ben precise. Un meccanismo “futurista” in senso lato, se si vuole, quanto a restituzione di un movimento per via di forme, con un temperamento deciso e poco incline a facili concessioni.

Le opere in mostra coprono un periodo di attività dal 1989 al 2013, sono quadri ad olio di grandi dimensioni, incisioni eseguite su lastre di zinco o rame a punta secca o passaggio all’acido, alcune in due o più lastre sovrapposte ed in particolare una di grande formato e “libri d’arte” con incisioni che dialogano con testi di Umberto Eco, Roberto Sanesi, Giuseppe Curonici, in mostra e sfogliati in un video.
In mostra viene presentato inoltre un video con un’intervista all’artista a cura di Angelo Ferranti e Gian Franco Poletto.

Uffici stampa:
Provincia di Milano/Cultura, tel.02 7740.6358/6359, p.merisio@provincia.milano.it, m.piccardi@provincia.milano.it
Addetto stampa Assessore, tel. 02/7740.6386 – f.provera@provincia.milano.it

 

 

Fotografia. La mostra «Generazioni», al museo Trastevere di Roma, fino al primo giugno. Un affresco sul plurale femminile

di Mirella Bentivoglio

Fino al primo giu­gno, il museo di Roma in Tra­ste­vere ospita la mostra ]Gene­ra­zioni di Paola Binante. Come vuole il sot­to­ti­tolo, Plu­ra­lità del fem­mi­nile, que­sta espo­si­zione (curata da Sil­via Bon­fili ed Elena Palo­scia) offre una let­tura retroat­tiva di un nucleo fami­liare, mediante le imma­gini foto­gra­fi­che di una serie di oggetti appar­te­nuti alla nonna, alla madre, alle zie dell’autrice (docente di Foto­gra­fia presso l’Università Isia di Urbino). Dun­que, una saga dome­stica che esce total­mente dagli schemi della ripresa foto­gra­fica di marca con­cet­tuale, in genere fon­dati sugli inganni della per­ce­zione visiva; e si pro­pone invece di «rac­con­tare» la rituale vicenda del fem­mi­nile lungo un arco di tre generazioni.

Vi sfi­lano imma­gini che hanno la pre­cisa sec­chezza di parole, affran­cate come sono dalla con­sueta aura roman­tica delle memo­rie pri­vate. Pro­ta­go­ni­sti sono gli oggetti del quo­ti­diano, pre­sen­tati uno per volta, con una con­ci­sione meta­fi­sica: gli attrezzi di cucina, gli uten­sili della tes­si­tura e del cucito; e i capi di vestia­rio, le fascine della legna per il fuoco, la fisar­mo­nica dello svago, le pil­lole medi­ci­nali, le let­tere con­ser­vate, le foto­gra­fie incor­ni­ciate dei pro­pri cari. A chiu­sura del per­corso, il volto dell’autrice; quasi una firma, un tra­guardo di con­qui­stata con­sa­pe­vo­lezza della pro­pria gene­tica «pluralità».

L’originalità di que­sta espo­si­zione non con­si­ste solo nell’affrontare la tema­tica del «genere» col mezzo foto­gra­fico; ma è pre­sente soprat­tutto nel modo in cui la semio­lo­gia del fem­mi­nile vi viene pro­po­sta. Gli oggetti vi appa­iono sem­pre cam­piti su un lembo di len­zuolo, o di altro bianco capo di bian­che­ria con ini­ziali rica­mate, che possa fun­gere da sfondo. Que­sto per can­cel­lare ogni appar­te­nenza degli oggetti a uno spa­zio fisico, ele­van­doli così a livello di sim­boli; al di fuori di ogni valenza di docu­mento mera­mente antro­po­lo­gico. E la ripresa di que­ste tele occupa tutto il riqua­dro del sup­porto, come per sug­ge­rire la pre­senza ance­strale della tes­si­lità nella memo­ria gene­tica della donna.

Notiamo inol­tre che pre­do­mi­nano in que­sta ras­se­gna le forme ovali, rigon­fie, per esem­pio quelle degli orci in ter­ra­cotta; e ciò porta a ricor­dare che nelle scrit­ture arcai­che la donna è sem­pre stata equi­pa­rata al «con­te­ni­tore»; sap­piamo per esem­pio che il gero­gli­fico egi­zio a lei rife­rito, è, sì, lo stesso segno che equi­vale indi­stin­ta­mente a «essere umano», ma sor­mon­tato da una pic­cola imma­gine, quasi un accento, che rap­pre­senta un vaso.

Non manca nella mostra una vasta instal­la­zione. Nella forma, essa sem­bra ricon­durre alla strut­tura del dna, la spi­rale gene­tica; ma, con­tem­po­ra­nea­mente, anche all’avvolgimento del corpo dell’infante nelle fasce, sia pure in maxi­mi­sura. Quasi a rive­lare che il gesto rituale della donna espe­ri­menta gli stessi interni segreti del suo corpo. E que­ste fasce di neo­nato, bian­che ma ben rico­no­sci­bili, sono anch’esse rac­conto, rita­gliate come qui appa­iono, in ret­tan­goli stac­cati che sem­brano allu­dere a una plu­ra­lità di pagine.

Insomma i rispec­chia­menti, le coin­ci­denze dei segni, creano in que­sta ras­se­gna in modo spon­ta­neo e forse in parte incon­scio, per virtù di intro­spe­zione, qual­cosa di equi­pa­ra­bile al gioco delle «rime» di una poe­sia in versi.

02 Aprile 2014 ore 18:30

LEA VERGINE La vita, forse l’arte

Per presentare l’ultimo libro di Lea Vergine, la Signora dell’arte contemporanea e della Body Art, nessun luogo poteva essere più adatto della mostra di Regina José Galindo, l’artista guatemalteca che fa del suo corpo un mezzo politico, uno strumento per non dimenticare. Una raccolta di oltre venticinque articoli, dal 2000 al 2013, recensioni di altrettante mostre, personali e collettive, di libri su artisti e fotografi d’arte: Salvador Dalí, Jannis Kounellis, Lucio Del Pezzo, Vanessa Beecroft, Trisha Brown, Jenny Holzer, Alighiero Boetti, Lee Miller e altri ancora. D’obbligo per chi la conosce, imperdibile per chi non ha mai assistito ad una sua conferenza. Perché le sue riflessioni folgoranti e intransigenti sfuggono il peso della retorica e coltivano l’arte della leggerezza. Lea Vergine non risparmia frecce acuminate contro direttori di musei e curatori di esposizioni, ma con l’arguzia tagliente che ne fa esercizi di stile, tutti da godere. E le belle citazioni che chiama a sostegno delle sue contrarietà non soffrono di arroganza: rientrano nel gioco della cultura come passione di vita. Lea Vergine è autrice di numerose pubblicazioni e mostre sui problemi dell’arte contemporanea, tra cui Il corpo come linguaggio (La Body-art e storie simili) (Prearo 1974); Attraverso l’Arte. Pratica Politica (Arcana 1976); L’altra metà dell’avanguardia, Milano, Palazzo Reale; Roma, Palazzo delle Esposizioni; Stoccolma, Kulturhuset (1980-1981) i cui cataloghi sono stati rieditati in volume da Il Saggiatore (2005) e Un altro tempo. Tra Decadentismo e Modern style, Rovereto, MART (2012-2013). INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTO POSTI

dal 24/3/2014 al 8/6/2014

Regina Jose’ Galindo

Padiglione d’Arte Contemporanea – PAC, Milano

Galindo trasforma il proprio corpo in strumento di rievocazione simbolica di eventi a cui e’ sottoposto il corpo collettivo. Le sue azioni, realizzate in un’ottica di coinvolgimento totale, sono radicali e drammatiche. La mostra “Estoy viva” e’ articolata in 5 sezioni interdipendenti: Politica, Donna, Violenza, Organico e Morte.

a cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola

Il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano apre la stagione espositiva del 2014 tornando a parlare del corpo, con una grande mostra personale e una nuova performance di Regina José Galindo, Leone d’Oro alla 51. Biennale di Venezia come migliore giovane artista.

In occasione dell’opening, il 24 marzo, l’artista guatemalteca realizzerà Exalatión (Estoy viva), una performance inedita pensata per il PAC e per Milano. Un’azione intensa e poetica, un gesto di sospensione e di scambio simbolico tra artista e pubblico, metafora del legame, sempre presente nel lavoro di Galindo, tra arte, vita e morte.

Promossa dal Comune di Milano Cultura in occasione di MiArt 2014, prodotta da PAC e Civita e curata da Diego Sileo ed Eugenio Viola, Estoy Viva è la prima – e più completa – antologica dell’artista mai realizzata.

L’ultimo decennio del secolo scorso ha registrato una rinnovata attenzione per le poetiche legate al corpo e all’azione, solo in apparente continuità con le esperienze legate a questi fenomeni nella loro fase ormai storicizzata. La performance torna oggi ad “oltraggiare” con nuova forza i territori dell’arte, attraverso una contaminazione spregiudicata di diversi linguaggi, che ha permesso inedite forme d’espressione radicate nel presente e svincolate dalla tradizione e dalle convenzioni. Il lavoro di Regina José Galindo, sin dalle origini, si ricollega a queste forme di resistenza attiva, caratterizzate da una nuova centralità del corpo.

“L’arte, quella vera, ha poco a che vedere con il glamour, le mode, le esigenze del mercato. Non è chic, non compiace e non si compiace. L’arte, quella vera, assorbe gli umori e le verità della realtà che la circonda e le restituisce filtrate dalla sensibilità dell’interprete, e a volte l’effetto di ritorno è quello di uno schiaffo, o di un urlo – ha dichiarato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno – Milano è quindi orgogliosa di ospitare la prima retrospettiva in Italia di Regina José Galindo, donna e artista sensibile e coraggiosa che ha già conquistato, grazie alla sua capacità di affrontare temi universali con un linguaggio altrettanto universale, pubblico e critica di molti diversi Paesi in tutto il mondo. Una programmazione che conferma il PAC quale sede naturale, e prestigiosa, per tutte le più significative esperienze di arte contemporanea internazionale”.

Regina José Galindo (Guatemala City, 1974) è tra le artiste più rappresentative del magmatico continente latinoamericano. La sua ricerca incarna la dimensione soppressa e rimossa della sofferenza, utilizzando il proprio corpo in chiave politica e polemica, alla stregua di uno strumento per riattivare i traumi del rimosso e non dimenticare le rovine della storia. Partendo dal microcosmo del suo paese, il Guatemala, attraversato da una situazione di perenne instabilità e violenza, l’artista restituisce opere scomode, spesso brutali, nelle quali il suo corpo minuto e all’apparenza fragile è esposto ad una serie di azioni pubbliche che usano lo spazio metaforico dell’arte per denunciare le implicazioni etiche legate alle ingiustizie sociali e culturali, le discriminazioni di razza e di sesso e più in generale tutti gli abusi derivanti dalle relazioni di potere che affliggono la società contemporanea.

Galindo esplora il proprio corpo, lo trasforma in strumento di rievocazione simbolica di eventi cui è sottoposto il corpo collettivo, il cosiddetto “corpo sociale”. Le sue azioni, realizzate in un’ottica di coinvolgimento totale, da un lato ribadiscono l’impegno dell’artista a materializzare attraverso la violenza e il dolore le criticità del presente, dall’altro esplicitano un senso di profonda impotenza, chiamando in causa simultaneamente i ruoli ancipiti di partecipante e spettatore.

Regina José Galindo indaga la paura, l’angoscia e le sue conseguenze, affrontandone in prima persona il rischio fisico e psicologico, spingendosi fino ai limiti dell’immaginabile. Le sue azioni radicali e drammatiche restituiscono situazioni sempre spiazzanti ed eticamente scomode, diventano strumento di denuncia teso a ridefinire, ancora una volta, i labili confini di arte e vita.

Estoy viva è articolata in cinque sezioni, intese non come monadi concettuali ma categorie permeabili ed interdipendenti tra loro: Politica, Donna, Violenza, Organico e Morte. Cinque macro emergenze tematiche, pensate per presentare un panorama aperto sull’esperienza artistico-esistenziale di Regina José Galindo ed evidenziarne i principali filoni di ricerca, assilli e motivi di continuità. Un percorso costruito attraverso cortocircuiti e slittamenti, dalle origini ad oggi, che affianca ad alcune delle sue azioni più emblematiche e conosciute, come ¿Quién puede borrar las huellas? (2003), Himenoplastia (2004), Mientras, ellos siguen libres (2007) e Caparazon (2010), opere più recenti e numerosi lavori inediti o mai esposti prima in Italia, come Marabunta e Joroba (2011), Descensión (2013) o la toccante La Verdad, (2013).

La ricerca dell’artista, incentrata su tematiche legate alla violenza, alla privazione dei diritti e alla libertà individuale, è talmente universale da interessare uomini e donne di tutto il mondo e incontrare storie di ogni continente e realtà. Per questo la mostra sosterrà attraverso una donazione l’attività di Amnesty International, l’Organizzazione non governativa indipendente e autofinanziata che dal 1961 difende i diritti umani ovunque siano violati. Tutti i visitatori del PAC potranno contribuire a sostenere le attività di Amnesty International in occasione della mostra: basterà scegliere il biglietto Donazione, disponibile nella formula intero (€ 9,00 anziché 8,00 con 1,00 di donazione), ridotto (€ 7,50 anziché 6,50) e ridotto speciale (€ 5,00 anziché 4,00).

Estoy Viva è realizzata con il sostegno di TOD’S, sponsor dell’attività espositiva annuale del PAC, e con il supporto di Vulcano.

Per avvicinare il pubblico al complesso e articolato lavoro dell’artista il PAC raddoppia le visite guidate gratuite. Tutte le domeniche alle ore 17.30 e tutti i giovedì alle 19.00 previo acquisto del biglietto della mostra.

In occasione della mostra verrà pubblicato un catalogo edito da Skira Editore, con testi inediti dei due curatori e di Emanuela Borzacchiello, latino-americanista ed esperta in gender studies.

Conferenza stampa Lunedì 24 marzo 2014 ore 11.00
Inaugurazione (su invito) lunedì 24 marzo 2014 ore 19.00

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea
via Palestro, 14 Milano
Orari:
lun 14.30-19.30, mar-dom 9.30-19.30, gio fino alle 22.30 (ultimo ingresso un’ora prima della chiusura)
Ingresso:
8 intero, 6,50 ridotto, 4 ridotto speciale scuole

Pubblicato in Letterate Magazine, Lm Home, Ritratti

Segni che giocano nello spazio

di Mariella Pasinati

Voleva essere “contemporanea della propria epoca e scoprire cosa significa”: è quanto Carla Accardi (1924-2014) scomparsa il 23 febbraio a Roma, aveva raccontato ad Hans Ulrich Obrist in un’intervista mostrando, così, il presupposto di un’arte che sfugge a ogni facile, univoco inquadramento e il segreto della presa che i suoi lavori hanno sempre esercitato anche sulle nuove generazioni di artiste/i nel corso del suo lungo e fortunato percorso umano ed estetico. Coerenza creativa e inclinazione a sperimentare nuovi approcci e inediti percorsi di ricerca hanno, infatti, caratterizzato i suoi lavori che, sempre nuovi e freschi, hanno mantenuto inalterata durante più di sessant’anni la pienezza e l’originalità di un linguaggio straordinariamente individuale e riconoscibile.

La ricerca dell’artista siciliana ha origine, come è noto, nel contesto della cultura astratto-informale del secondo dopoguerra, a partire dall’esperienza del gruppo Forma Uno1 destinata a concludersi in soli due anni e in seguito alla quale, dopo un periodo di ricerca, Accardi avrebbe iniziato a declinare il suo particolare linguaggio espressivo fondato sul segno cromatico.

È il 1953-4 e il taglio avviene con i quadri bianchi e neri in cui la caratteristica contrapposizione positivo/negativo è finalizzata alla resa della luce2: “cerco di rispecchiare l’energia primordiale e i contrasti violenti della vita stessa …. L’impulso vitale che è nel mondo”3. Si tratta dell’articolazione libera di segni che danno origine, in un primo momento, a complessi intrecci lineari e dinamici, per poi assumere una forma più “strutturata”4 (Integrazione, 1957).

E’ già evidente, fin da questi primi lavori l’asimmetria che caratterizza l’operare di Accardi rispetto ai confini dell’astrazione e dell’Informale, l’art autre in cui la include Michel Tapié5, ma nel quale l’artista non si riconosce pienamente -“mi sembrava molto facile e ripetitivo perché era diventato di moda, purtroppo6. Come non si riconosce nel gesto di Pollock, per quanto avverta anche lei la necessità di lavorare sulla tela distesa sul pavimento. La sua alterità, piuttosto, sembra orientata a porre l’arte nel vivo dello spazio e dell’esperienza, come dell’artista, così di chi guarda: “dirò subito che comincio con il porre lo spettatore davanti a una lettura instabile e precaria, egli … dovrà abbandonarsi senza reticenze ad una specie di stato ipnotico e sospeso …. in cui potrà sentire lo scorrere della vita stessa, in quel gioco visivo e ambiguo ed indefinito”7.

Alla fine degli anni ‘50 seguirà un ritorno al colore in una nuova definizione del rapporto segno-colore-luce capace di generare straordinari effetti ottico-percettivi ottenuti con l’accostamento di colori accesi e “abbaglianti” e con un’articolazione e ripetizione del segno quasi calligrafico che scorre lievemente sulla bidimensionalità della tela replicandosi e differenziandosi insieme, spesso a piccoli tratti che definiscono continue texture di superficie. Il ritorno al colore sarà sviluppato prima con l’uso sapiente di segni marcati in rosso e grigio, azzurro e viola, verde e arancio, accostati per timbri contrapposti e forte contrasto, al fine di accrescerne il grado di luminosità e ottenere l’effetto di luce; poi con il passaggio alla vernice fluorescente.

La ricerca sulla resa sempre maggiore della luce si radicalizza con il passaggio successivo che si compie a metà degli anni ’60 con l’esaltazione della trasparenza, la de-materializzazione, consentita dall’adozione di un nuovo supporto, il sicofoil, una plastica trasparente che sostituisce la tela. Analogamente al colore, anche il segno segue ora una trasformazione divenendo, come diceva la stessa Accardi, “anonimo”.

Liberata dall’opacità della tela, ecco allora che la pittura -il segno pittorico fluorescente- si svincola dal supporto per estendersi nella terza dimensione, prendendo possesso dell’ambiente e “conquistando” lo spazio. Nascono così i primi Rotoli, cilindri brillanti senza telaio disposti a pavimento cui seguiranno i telai e le sagome a parete, in cui il foglio trasparente è tracciato da segni ripetitivi che, negli anni ’70, arriveranno a scomparire del tutto lasciando solo la trasparenza naturale della plastica sul telaio in legno (Trasparente, 1977). È così che Accardi svela “i misteri che sono dietro l’arte”.

Ma è soprattutto Tenda (1965-6) che mostrerà le grandi sollecitazioni percettive di questa estensione ambientale della pittura che l’artista presenta come puro atto estetico, esito di un percorso che Accardi ha definito come un “liberarsi del sovrappiù”, ossia come spiegava Carla Lonzi, un “portare a una fase ulteriore di liberazione ottica i segni”8. Esempio precoce delle installazioni che avrebbero di lì a poco segnato sempre più il panorama dell’arte, l’opera è un ambiente “abitabile” di cui fare esperienza fisica; è composta da pannelli di sicofoil in fogli doppi dipinti con segni fluorescenti -rosa intenso in uno, verdi nell’altro- che si intersecano visivamente. La sua configurazione rimanda idealmente alle strutture abitative nomadiche, alle tende da campo turche -a detta della stessa Accardi- provvisorie e leggere, resistenti e trasformabili. L’artista dà forma, così, ad un ambiente che propone in termini dialettici il rapporto interno/esterno, trasparenza/opacità, determinando una forma “architettonica” dal respiro più vasto e politico per  i suoi confini mobili, per il suo contrapporsi alle strutture fisse e statiche dell’identico. Non a caso, La Tenda dialoga con le ricerche contemporanee e con i lavori di artiste che, sotto la spinta del femminismo, avrebbero segnato il decennio successivo. Da un lato, infatti, l’opera precede il primo Igloo (1968) di Mario Merz e le esperienze scultoree di altri artisti, in particolare dell’arte povera, che in quegli anni si confrontavano con l’idea di un’arte abitabile9. Dall’altro appare come il diretto antecedente di quei lavori centrati sul tema dell’esperienza nomadica, della domesticità, del rapporto spazio pubblico/spazio privato che avrebbero caratterizzato tanta parte della produzione delle artiste a partire dagli anni ’7010.

Negli anni successivi Carla Accardi avrebbe continuato a guardare allo spazio dell’esistenza quotidiana con Ambiente arancio (1968): una stanza invasa dal sole, uno spazio luminoso, fresco, allegro costruito intorno al Grande Ombrello del ’67, per poi riproporre il tema della tenda con Triplice Tenda (1969). Si tratta di tre strutture a base circolare una dentro l’altra, in cui i segni marcano gli strati di plastica e sembrano sovrapporsi e intrecciarsi nello spazio “abitabile” e percorribile dominato dal rosa. “L’avevo pensata rossa, pensa! Era allucinante e troppo sessuale. Ho dovuto ammettere che la volevo rosa ma avevo una sorta di pudore”11 rivelerà Accardi e, nel 1976, Anne Marie Boatti Sauzeau metterà a fuoco come l’artista avesse avuto, allora, “la visione dell’esperienza primordiale del desiderio femminile, il labirinto rosa e luminoso, la madre, l’amore anteriore alla castrazione e all’intervento rivale del padre, la realtà circolare anteriore alla metaforizzazione della donna.”

Temi che allora non era facile “accogliere”, non a caso Accardi noterà: “nel ‘69 alla mia mostra … mi hanno abbracciata ma non mi hanno registrata culturalmente”12 toccando il nucleo del rapporto arte-cultura patriarcale-femminismo, problema che l’artista sente ed ha già iniziato ad elaborare nel dialogo con Carla Lonzi cui la legava da anni una profonda amicizia e uno scambio intenso sui temi dell’arte e della critica (è Lonzi che scrive la presentazione del lavoro per la Biennale di Venezia del ’64), della fruizione estetica e del femminismo13.

E’ già iniziata, infatti, per Accardi la fase della pratica politica nel femminismo, ed è del 1970 il Manifesto di Rivolta femminile, scritto insieme a Carla Lonzi ed Elvira Banotti.

Il rapporto con Carla Lonzi si sarebbe, tuttavia, esaurito nel giro di alcuni anni per una diversa posizione nei confronti di quel mondo dell’arte e della cultura di cui entrambe riconoscevano il marchio maschile14 e che per Lonzi era divenuto inconciliabile con l’impegno femminista, tanto da portarla all’abbandono della sua attività di critica d’arte. Diversamente, Accardi non cedette all’idea di un segno ineliminabile impresso dal patriarcato sulla creatività femminile, nel convincimento che la posta in gioco non fosse tanto combattere contro attività che erano state esclusivo privilegio maschile, piuttosto imprimervi il segno dell’intelligenza femminile.

Gli anni dopo l’allontanamento, e siamo al 1975-76, sono segnati di nuovo dalla rinuncia del colore. Fra le opere meno note è Origine (1976) realizzata per la prima mostra della Cooperativa Beato Angelico, che Accardi contribuì a fondare quello stesso anno, a Roma, insieme ad altre artiste, poete e storiche dell’arte15 con l’intento di costruire un luogo dell’arte segnato dal femminile. In quella mostra, dedicata ad Artemisia Gentileschi, Accardi esponeva un lavoro in cui l’artista aveva attaccato fotografie della vita propria e della madre su lunghe strisce di sicofoil che pendevano morbide e libere dal muro dando, così, profondità spaziale alla parete. Un opera unica, che ricostruisce la propria genealogia materna, il luogo dell’origine, appunto.

Il ritorno al colore avviene qualche anno più tardi con l’opera-ambiente Dimenticare, mettersi in salvo (1978) in cui il colore ritorna ai bordi del quadro, sui telai degli otto grandi triangoli di sicofoil disposti a parete. E con gli anni ’80 ecco ancora una trasformazione linguistica con il ritorno alla tela grezza e di grande formato. Il segno si fa più largo, quasi vistoso, si espande a formare intrecci complessi su fondi contrastanti, si combina con equilibrio al colore steso per ampie campiture generando spazialità per sovrapposizione e trasparenza (Pieno giorno (Veduta),1987).

Da allora il suo lavoro vedrà progressivamente accrescere i riconoscimenti internazionali, arricchendosi ulteriormente in un percorso di ricerca che sempre si rinnova, continuamente riproponendo e differenziando segno, forma e materiale. Fino alle opere più recenti come i brillanti Coni in maiolica (2004) o l’ampia Superficie in ceramica del 2007, un’opera realizzata con Gianna Nannini in cui si combinano effetti sonori e visivi su una superficie di segni cromatici che questa volta lascia la parete per disporsi in orizzontale a formare un pavimento di piastrelle in gres dipinto su sfondo bianco con segni verde e blu cobalto, ultima versione, ancor più arricchita, della sintesi fra segno-colore-spazialità architettonica.Un lavoro, inoltre, che esplicita ulteriormente quell’invito ad entrare nell’opera, quell’invito alla relazione, che è obiettivo costante, oltre che grande insegnamento, di un’artista che ha dedicato  la sua vita all’arte, nella fiducia che questa non può cambiare il mondo ma può mutare la coscienza di uomini e donne che potrebbero cambiarlo”.

[1] Fondato nel 1947 insieme ad Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli, Turcato e Sanfilippo (che sposerà nel ‘49), costituì la prima espressione della giovane arte italiana del dopoguerra consapevole della crisi della figurazione e intenzionata ad  utilizzare “le forme della realtà oggettiva come mezzi per giungere a forme astratte oggettive”.

2 “Più che i colori io amo da sempre gli accostamenti e l’emanazione di luce che ne deriva. Anche il mio periodo bianco e nero era luce, contrasto, come nella salina di mia madre a Trapani, abbagliante” (dalla testimonianza di Carla Accardi contenuta in Anne Marie Boetti Sauzeau, “Lo specchio ardente”, in DATA n. 18, settembre-ottobre 1975, pag. 50)

3 Citato in Achille Bonito Oliva (a cura di), Accardi. Il campo del togliere, Milano, Mazzotta, 1986, p. 55

4 “.. lo strutturalismo era una scoperta attuale … Ho dato immagine alla visione strutturalista del mondo” (Vanni Bramanti, Carla Accardi, catalogo della mostra, Ravenna 12 Febbraio-27 Marzo 1983, Ravenna, Essegi, 1983, p. 84

5 teorico del tachisme, l’informale come pittura di segno, gesto, materia descritto in Un art autre, Tapié aveva scoperto nel 1952 il lavoro della Accardi ed iniziato con lei un rapporto che sarebbe stato essenziale per l’affermazione, anche internazione, dell’artista.

6 Hans Ulrich Obrist, “Andare a fondo”, in Flash Art, 245, 2004

7 Vanni Bramanti (a cura di), Carla Accardi, catalogo della mostra, Essegi, Ravenna, 1983, pp. 90-91

8 Carla Lonzi, Scritti sull’arte, Milano, et al/edizioni, 2012, p. 477

9 dal titolo di una mostra del ’69 della Galleria Sperone di Torino in cui artisti della neonata Arte Povera esponevano lavori connessi al tema dell’abitare (La Casa Ideale di Pier Paolo Calzolari; Camping di Emilio Prini, gli Habitat di Luciano Fabro, gli  Oggetti in meno di Michelangelo Pistoletto).

10 In tempi più recenti torna alla mente la Multi-Story House (2007) di Mary Kelly:  spazio domestico della presa di coscienza, questa casa-tipo si apre agli spettatori con le sue pareti trasparenti e illuminate su cui sono riportate, all’interno, riflessioni di donne che hanno vissuto l’esperienza del femminismo e, all’esterno, frasi di donne più giovani che quella esperienza non hanno fatto, non una evocazione nostalgica, piuttosto un’esplorazione sulla continuità nel presente di quelle pratiche politiche.

11 Anne Marie Boetti Sauzeau, “Lo specchio ardente”, in DATA n. 18, settembre-ottobre 1975, pag. 51

12 Anne Marie Boetti Sauzeau, “Carla Accardi”, in DATA n. 20, marzo-aprile 1976, pp. 72-74

13 ne resta documentazione in Autoritratto (1969), l’opera nella quale Lonzi demolisce i modi della critica d’arte tentando un nuovo discorso basato sulla soggettività e sullo scambio critica-artista.

14 “L’arte è sempre stata il reame dell’uomo. Noi, nello stesso momento in cui entriamo in questo campo .. il bisogno che abbiamo è di sfatare tutto il prestigio che lo circonda e lo ha reso inaccessibile … Perché la donna … dopo quel primo movimento che l’ha portata a comportarsi come gli uomini … si è fatta avanti dicendo: “eh, che ci avete raccontato per tanto tempo, ecco, noi ci entriamo, questa è una cosina semplice, guardatela anche voi che è così”(da Discorsi: Carla Lonzi e Carla Accardi, in marcatre nn. 23-25, 1966, ripubblicato in Carla Lonzi, Scritti sull’arte, Milano, et al/edizioni, 2012, p.477).

15 Nilde Carabba, Franca Chiabra, Regina Della Noce, Nedda Guidi, Eva Menzio, Teresa Montemaggiori, Stephanie Oursler, Suzanne Santoro e Silvia Truppi.

Maria Luisa Boccia, Ciao Carla ti darei un bacio

Inaugurazione sabatto 8 Marzo 2014

“FIGURIAMOCI, visioni oltre il mito”  Museo archeologico nazionale di Paestum l’8 e il 9 marzo dalle 10,30 alle 19,00

con Morena Luciani Russo, Pina Nuzzo Cristina  Lucchi Vuolo, Francesca Thiery.

https://www.facebook.com/pages/Progetto-Conflitto/525224780908540?ref=hl

IL RITORNO DELLE DEE DOPPIE Morena

 

Tra arte e femminismo

 

Katia Ricci

Il desiderio delle donne che fanno parte del gruppo Artemide di Paestum di organizzare una mostra dedicata ad Artemide, Hera, Afrodite e Atena, con quattro artiste, tante quante le dee, con l’esplicita consegna che fossero femministe, merita una riflessione su l’arte e la politica, o meglio su arte e femminismo. Le questioni sono naturalmente aperte: che cosa significa arte femminista? L’arte che esplora la differenza sessuale può essere definita femminista? E ancora dove si inscrive la differenza sessuale in arte? C’è una differenza femminile specifica in arte? Negli ultimi anni in realtà si sono moltiplicate ricerche e saggi su queste questioni anche in Italia, dove ricordiamo che nel 1970 dal sodalizio della critica d’arte femminista dello spessore di Carla Lonzi e di una grande artista come Carla Accardi è nata Rivolta femminile. Recenti pubblicazioni hanno sfatato l’idea che nel nostro paese ci sia stata una scarsa presenza femminile in arte e che sia mancato il rapporto tra arte e femminismo. Numerose, infatti, furono le artiste, molte delle quali militanti nel movimento femminista. L’arte contemporanea, poi, deve molto alle pratiche artistiche nate dal movimento femminista degli anni ’70, quando anche un uomo, storico dell’arte, Lawrence Alloway dichiarava nell’articolo Women’s Art in the 70s: “Il movimento femminista nell’arte può essere considerato un’avanguardia perché coloro che vi parteciparono erano uniti dal desiderio di cambiare le forme sociali esistenti nel mondo dell’arte”.

“Il movimento delle donne si è espresso fin dagli inizi – scrive Donatella Franchi in Matrice Pensiero delle donne e pratiche artistiche (Quaderni di Via Dogana, 2004)- come una pratica creativa che attraversa e mette insieme vari tipi di linguaggi, dalla scrittura al linguaggio visivo, dall’uso del corpo alla invenzione di nuovi spazi, in una sperimentazione collettiva a tutto campo”.

Ma in che cosa si riconosce la differenza sessuale in arte? E soprattutto esiste? Se esiste, come penso, non è certo nei contenuti né nelle forme né nei colori o nei materiali e tecniche usate, ma è in un atteggiamento per cui le artiste tendono a evitare di riproporre i canoni della tradizione maschile, seguendo il proprio desiderio che le ha portate, per esempio, a dar valore a tutto ciò che non era stato considerato arte per rifiutare il mito dell’artista genio e per creare un proprio spazio allo scopo di significarsi e ripensare all’immagine di sé, dell’essere donna da un punto di vista sessuato, femminile.

In questa mostra il riferimento alle dee è dunque una dichiarazione che le donne, le artiste cercano una misura propria, alta, che va oltre l’immaginario maschile con un percorso che le porta all’origine del principio femminile che regolava il mondo. In questo senso il territorio campano del Cilento offre una traccia preziosa, perché qui, come in altre parti del mondo il culto originario era dedicato alla dea madre e alle dee che da essa derivarono, prima che l’ordine patriarcale sostituisse al culto delle dee quello per gli dei. Anche il tempio detto di Poseidon a Paestum in realtà era un secondo tempio dedicato ad Era.

Nel 2007 la mostra Wack! Art and feminist Revolution sugli inizi del movimento artistico femminista, era presentato come il movimento che aveva avuto maggiore influenza dal dopoguerra. Insomma, a detta di storici e storiche dell’arte, si trattò di una vera e propria avanguardia, l’Avanguardia femminista, definizione che rimarca la radicalità di quel movimento. In questo senso è esplicita la mostra Donna: Avanguardia Femminista degli anni ’70 dalla Sammlung Verbund di Vienna, che segna una tappa importante nella ricerca storica sull’avanguardia femminista. Da allora la ricerca delle artiste riguardava da una parte lo svelamento della pretesa universalità e naturalità del maschile, dall’altra la riflessione su una nuova identità femminile libera di significarsi nelle forme e modi più vari, sul corpo e la sessualità. Da allora molte cose sono cambiate e anche nel campo dell’arte è emersa e si è affermata numerosa la presenza femminile, come in tutti i campi. Nel 2005, per esempio per la prima volta dalla creazione della Biennale di Venezia due donne sono state commissarie generali, le spagnole Maria de Corral e Rosa Martinez, che presentarono un nutrito gruppo di artiste e all’ingresso dell’Arsenale, la cui esposizione curata dalla Martinez era intitolata “Sempre un po’ più lontano” le Guerrilla Girls, collettivo di artiste femministe nato nel 1985 a New York, realizzarono cinque grandi pannelli su cui in modo ironico esponevano il loro discorso femminista sull’arte. In quella stessa mostra Joana Vasconcelos presentò un gigantesco lampadario, La novia, fatto di tampax incellofanato, che evocava il sangue mestruale, il rapporto con il corpo, la sessualità, la verginità, la riflessione su ciò che è puro e su ciò che non lo è, portando alla luce letteralmente ciò che si nasconde, che è tabù. Alle artiste, e gli esempi sono tanti, si deve riconoscere una maggiore capacità di esprimere la propria soggettività senza veli ed eccessive mediazioni. Insomma una libertà di parlare di sé, del corpo e della sessualità, come avviene in tanti altri ambiti dei saperi.

A questa tendenza si riallaccia Cristina Vuolo, aggiungendoci note ironiche che l’ urgenza del desiderio e della necessità di dirsi allora forse limitavano. Cristina racconta il suo percorso di donna, fotografa e femminista, che coincide anche con fasi diverse della politica delle donne. Nella rappresentazione di Artemide sullo sfondo c’è una città al buio, segno di un passato che ha oscurato le donne come soggetto storico e politico, relegandolo alla dimensione domestica. In primo piano a destra emerge in piena luce un ritratto di donna con un cigarillo nella mano sinistra, simbolo di emancipazione, a destra nel cartellone pubblicitario una donna è fotografata con le braccia tese nell’atto di tendere un arco, cosa che la connota come Artemide, la dea cacciatrice. Sullo stesso cartellone appare alla sua sinistra la scritta Sputiamo su Hegel, riferimento al libro di Carla Lonzi. I simboli, l’atteggiamento e il riferimento al noto saggio delineano una figura di donna combattente, come negli anni Settanta. Artemide si è sempre sottratta al volere degli uomini, punendo severamente Atteone, facendolo sbranare dai cani perché aveva profanato la sua sacralità.

La fotografia sulla dea Atena ha la stessa impostazione e struttura della precedente, con la differenza che sul cartellone è scritto il titolo del famoso saggio Non credere di avere dei diritti. Atena la dea della sapienza e dell’intelletto qui rappresenta il pensiero della differenza sessuale, che rimanda storicamente agli inizi degli anni ’80. Nella terza fotografia Hera è di spalle luminosa con le ali, è Cristina stessa in una fase del suo percorso spirituale. La dea che nella mitologia è protettrice del matrimonio e dei parti, qui, simbolo della fedeltà a sé, sottratta all’immaginario maschile degli dei dell’Olimpo, diventa simbolo dell’agio del rapporto con il proprio corpo. Gender Trouble di Judith Butler segna questo “momento rivoluzionario nel pensarsi nel corpo, nella rappresentazione di sé ed ecco la scelta dell’angelo”, come motiva Cristina. Infine le due foto dedicate ad Afrodite rappresentano l’amore per le donne e tra donne, che ironicamente e con giocosità si scambiano la mela o giacciono su un letto di mele. Anche qui un libro di riferimento Post-porn di Annie Sprikle

“L’aspetto più forte che il tema delle dee mi portava a pensare per il mio percorso femminista – scrive Cristina Vuolo- era la relazione: la relazione con le donne, la relazione con sé, la relazione con un’altra donna. Negli anni ‘70 una relazione più viscerale, negli anni ‘80 una relazione più intellettuale, negli anni ‘90 più intimista e spirituale con me, e negli anni 2000 una relazione più ironica, aperta e sessuale col mondo delle donne”.

Nel suo percorso artistico Pina Nuzzo ha progressivamente abbandonato la pittura ad olio e la figurazione per sperimentare tecniche e materiali più comuni come la carta riciclata, plexiglass e plastica. Nell’interpretazione di Artemide, di cui è raffigurato il torso, come per le altre dee, usa colori notturni, l’abito è grigio argenteo, azzurro lo sfondo su cui si staglia una luna piena. Dalla scollatura della veste appaiono le curve del seno,come era abitudine della dea di cacciare a seno nudo per essere libera nei movimenti.

Per Atena Pina Nuzzo si ispira alla rappresentazione classica di Atena Nike con le braccia che si immaginano alzate e le ali che circondano le spalle. Sul petto gli occhi della civetta, animale sacro alla dea.

Per delineare la figura di Hera, usa fotocopie del disegno dell’anfora da lei stessa decorata, che è stata il “testimone” della staffetta portata e consegnata di volta in volta da due donne in segno di relazione e solidarietà , un evento dell’UDI di cui Pina è stata responsabile a livello nazionale, contro la violenza sulle donne, che ha iniziato il suo percorso il 25.11.2009 da Niscemi dove è stata uccisa Lorena Cultaro e terminata un anno dopo a Brescia dove è stata uccisa Hiina Saleem.

“Quando ho “fatto” Hera non ho pensato a tutto questo, ma quelle fotocopie si sono trasformate nel corpo della dea evocando il corpo dell’anfora e l’amore delle donne che l’ha accompagnata per un intero anno”. Afrodite la dea femminile per eccellenza, dea dell’amore, è rappresentata con colori chiari e luminosi, delineata da linee morbide, il triangolo del pube in evidenza, e circondata da fiori e simboli del femminismo. L’increspatura dei fogli di plastica leggera che ricopre il corpo ricorda l’onda del mare da cui la dea nacque e da cui probabilmente deriva il nome, afros, in greco spuma.

Morena Luciani, artista e antropologa, studiosa delle antiche culture matrifocali, dello sciamanesimo femminile e del rapporto tra sciamanesimo e creazione artistica, nel suo inconfondibile stile grafico offre un’interpretazione molto originale delle dee. Morena va all’origine dei simboli e del significato delle figure divine. Nell’area egea il culto di Atena risale ad epoche più arcaiche di quella greca, anzi, secondo Maria Gimbutas, deriva dalla dea uccello neolitica. Per questo, infatti, è rappresentata con la testa di uccello. Nel III libro dell’Odissea Omero così ne parla: “ Detto così, se ne andò Atena occhio azzurro, / simile ad un’aquila;”. Inoltre in greco occhio azzurro significa occhio di civetta. Afrodite è la più femminilizzata, come si vede dall’acconciatura, che riprende quella delle raffigurazioni della dea dell’età ellenistica.

Hera è una dea doppia dalle due teste e dai due seni. La spirale è un simbolo della dea madre da cui deriva il culto di Hera, che è una figura sopravvissuta di antichi culti minoici. E’ doppia perché, come scrive Morena Luciani, “ sono state ritrovate statuine delle “Due Hera”, che secondo Vicki Noble la rappresentavano nella sua veste di Regina Amazzone a capo del lignaggio femminile delle donne che reclamavano giustizia durante l’assalto al patriarcato.” La dea doppia rappresenta l’idea della sovranità femminile in epoche pre – patriarcali, caratterizzate da principi e pratiche femminili, che permeavano di sé la struttura stessa della società. Simboli della dea madre, la spirale e i teschi che ornano la collana alludono all’intero ciclo vitale, dalla nascita alla morte. Una delle due dee ha le corna di vacca, uno degli epiteti di Hera. L’epiteto con cui Omero si riferisce ad Hera è boopis, in greco occhio di bue, per la regalità dello sguardo.

Infine Artemide è rappresentata con un serpente che le cinge il ventre e il sangue mestruale che gocciola e feconda la terra. Nelle epoche arcaiche Infatti al sangue mestruale venivano attribuite qualità magiche. Uno degli attributi della dea è la luna, il cui mese ha la stessa durata del ciclo mestruale e comprende una fase crescente e una calante, infatti in molte opere dedicate ad Artemide appare la mezza luna o la luna piena; è legata al tempo ciclico della dea madre, che presiede i ritmi della natura e della fecondazione e, quindi del risveglio della natura dopo il sonno invernale. Nelle società contadine ancora oggi i lavori nei campi, semina, raccolto e conservazione sono scanditi dalle fasi lunari. L’invito di Morena non è quello di rimpiangere il passato ma di ritrovare dentro di sé il divino femminile e di porsi con sovranità nel mondo, recuperando e ridando valore alla parte emotiva e intuitiva, bollata dalla cultura patriarcale come irrazionale.

“Giocando col nero in un angolo della giornata” è il titolo che Francesca Thiery ha dato alla serie delle quattro dee. Illustratrice e grafica, Francesca ne dà una versione del tutto moderna, togliendo ad esse qualsiasi connotato divino e giocando con masse grafiche di nero. Non ci sono attributi e simboli che possano ricondurre ad una visione nota e tradizionale: sono volti di donne mascherate, deformate, tutte con il capo coperto, con i lineamenti a volte delineati da brevi tratti bianchi sul fondo nero.

Ha rivisitato i miti adattandoli al suo lavoro di grafica, all’uso del nero di cui spesso si serve, e calandoli in una qualsiasi giornata di una donna.

“Ci può essere anche fatica e dolore nella giornata di una donna, – dice Francesca -ma sempre vi colgo uno spirito vitale, un temperamento di combattente. Ho scelto di non vestire le dee di simbologie tradizionali (lance, serpenti, cervi ecc) ma di lasciarle libere di giocare all’interno della gabbia quadrata e di usare il tratto grafico e l’atteggiamento del corpo per definire i caratteri e raccontare una storia.

I titoli raccontano il rapporto di queste donne ( o questa donna?) col nero: Era di Nero, Afrodite nel Nero, Artemide dal Nero, Atena sotto al Nero. Tutte in un angolo della giornata.
La storia che sto raccontando è quella di una donna che nei piccoli momenti di passaggio di una giornata si veste e si sveste di continuo di tutti gli archetipi e i caratteri che porta su di sé.”

La forma triangolare connota Atena, Afrodite è rappresentata in una forma ovale, a mandorla. Hera ha l’andamento più squadrato. Guarda dall’alto regale, come una madre giudicante. Atena porta una specie di elmo, la sua mano è nell’atto di afferrare la lancia, ma, in realtà gioca con i capelli, gli occhi ingranditi alludono al suo epiteto “occhi di civetta”.

 

(Introduzione al catalogo della mostra FIGURIAMOCI, visioni oltre il mito, inaugurata nella sala delle metope del Museo Archeologico Nazionale di Paestum sabato 8 marzo 2014, con Morena Luciani Russo, Pina Nuzzo Cristina Lucchi Vuolo, Francesca Thiery.)

sabato 22 marzo 2014
ore 17.00
 
Galleria d’Arte “La Colomba”
Via al Lido 9, Lugano
 
visita guidata alla mostra
Mariangela Rossi
L’essenzialità della forma una parabola artistica forte, eccentrica, solitaria
Mariangela Rossi
L’essenzialità della forma
con Piero del Giudice, curatore dell’esposizione e del catalogo
La Galleria d’Arte La Colomba propone una retrospettiva delle opere di Mariangela Rossi: ritratti e grotteschi, nature morte e incisioni illustrano la vasta opera dell’artista che nei ritratti “va alla ricerca di un ordine, di una ricomposizione e di una ricreazione della figura dopo averla smembrata”. I suoi soggetti sono “persone sotto silenzio, perché sono quelle meno ricordate”; sono quasi astratti avendo una componente surreale, sono figure bidimensionali, poiché elimina la prospettiva, la tridimensionalità. Pur richiamando la bidimensionalità giacomettiana, se ne distacca poiché ci troviamo di fronte a un’umanità che si svuota dell’essenzialità. Si tratta di una pittura di genere. “Vicenda di genere per tutta quella popolazione femminile che tra libri-messali, scialli contadini, mani nodose congiunte in grembo, viene messa in scena nel catalogo impietoso di Mariangela”. Piero del Giudice conclude con queste parole il testo introduttivo: “Artista libera e geniale, la sua vendetta di donna, il suo grido anche sociale, la sua convinzione che sia un ordine generale e sovrastorico a governare infine ogni esistenza, stanno alla base di figure dense, di fantasmi dell’esistenza, di grotteschi e di impenetrabili apparizioni”.
Si prega di confermare la propria presenza lasciando un messaggio nella nostra segreteria telefonica o scrivendoci una email entro giovedì 20 marzo, ore 15.00.

di Giancarlo Bocchi

Biografie eccentriche. L’ultima parte della sua vita è la più misteriosa. Alcuni documenti inediti sulla fotografa e agitatrice politica che attraversò Hollywood,  il Messico, Mosca.

Delle molte vite di Tina Modotti, ope­raia nelle filande, attrice a Hol­ly­wood, musa di arti­sti e foto­grafi come Diego Rivera ed Edward Weston, foto­grafa di fama inter­na­zio­nale, scrit­trice di pam­phlet, agi­ta­trice poli­tica, si sa molto. Ma c’è un’ultima vita, per molti aspetti ancora sco­no­sciuta e gra­vida di segreti, che è tut­tora avvolta nelle neb­bie della Storia.

Ebbe ini­zio nell’ottobre del 1930 in Unione Sovie­tica, quando la Modotti dopo l’espulsione per motivi poli­tici dal Mes­sico giunse a Mosca dopo un breve e infe­lice sog­giorno a Ber­lino. Anche se Tina masche­rava i suoi sen­ti­menti citando spesso una frase di Nie­tz­che — «Ciò che non mi uccide mi dà forza» — nell’animo era tur­bata e smar­rita. L’anno prima il suo com­pa­gno, il rivo­lu­zio­na­rio cubano Anto­nio Mella, era morto tra le sue brac­cia in una strada di Mexico City vit­tima di un agguato poli­tico dai con­torni rima­sti oscuri. Giunta a Mosca, l’affascinante foto­grafa dai capelli cor­vini e dagli occhi di car­bone, ele­gante, con le calze di seta e pro­fu­mata con costose essenze fran­cesi, sco­prì che il suo amico e accom­pa­gna­tore nel viag­gio sul piro­scafo Edam dal Mes­sico in Europa, l’agente sta­li­ni­sta Vit­to­rio Vidali, uomo dai mille volti, il 2 otto­bre si era spo­sato usando il nome di coper­tura di Jorge Con­tre­ras con Pau­lina Haf­kina, una gio­va­nis­sima russa, che aspet­tava un figlio da lui.

A Mosca Tina era alla ricerca di una nuova vita e di nuovi inte­ressi. Era cono­sciuta come un’artista della foto­gra­fia, ma non era d’accordo se «le parole arte e arti­stico ven­gono appli­cate al mio lavoro… Mi con­si­dero una foto­grafa e niente di più». Invece di foto­gra­fare la com­plessa realtà della prima nazione del comu­ni­smo, Tina ini­ziò a lavo­rare per il Mopr (Soc­corso rosso inter­na­zio­nale). In un docu­mento auto­grafo del 23 novem­bre 1930 dichiarò che Jorge Con­tre­ras (alias Vit­to­rio Vidali) gli aveva con­se­gnato i docu­menti dei Dipar­ti­menti latino-americano, ita­liano, por­to­ghese e spa­gnolo in ordine e aggior­nati. Insieme all’ambizioso e spie­tato, Tina scrisse anche diverse let­tere e risolse alcuni pro­blemi delle sezioni cana­desi, sta­tu­ni­tensi, irlan­desi del Soc­corso rosso.

A Mosca Tina però non riu­scì a foto­gra­fare. Per­ché non fu più capace di ritro­vare nelle imma­gini quella ori­gi­nale sin­tesi tra forma e ideo­lo­gia per quale era famosa? La luce sla­vata e tetra di Mosca, le dif­fi­coltà nel tro­vare i mate­riali foto­gra­fici per la sua Gran­flex e nell’ottenere i per­messi per gli scatti non sono motivi suf­fi­cienti a giu­sti­fi­care una crisi arti­stica così pro­fonda. «Vivo una vita com­ple­ta­mente nuova, tanto che mi sento diversa» scrisse a Edward Weston, il grande foto­grafo ame­ri­cano suo con­fi­dente che l’aveva avviata alla fotografia.

Fino a qual­che mese prima Tina aveva pen­sato che le imma­gini potes­sero pro­durre un cam­bia­mento del mondo. Da quando era par­tita dal Mes­sico con Vidali que­sto con­vin­ci­mento era stato rim­piaz­zato dall’idea dell’azione diretta, dell’agire come una vera rivo­lu­zio­na­ria. L’Ufficio spe­ciale della Ogpu (la poli­zia segreta sovie­tica ante­si­gnana dell’Nkvd) il 12 marzo 1931 rice­vette una richie­sta da Elena Stas­sova, pre­si­dente di Soc­corso Rosso, dove si chie­deva di auto­riz­zare Tina a pren­dere visione e occu­parsi di docu­menti segreti. La Quinta sezione spe­ciale dell’Ogpu rispose il 24 aprile 1931, auto­riz­zando la Modotti a svol­gere quel lavoro segreto.

Da tempo le sezioni segrete di Soc­corso rosso e del Comin­tern (la sezione super­se­greta deno­mi­nata Oss) agi­vano all’estero in stretta col­la­bo­ra­zione e in sup­porto con i Ser­vizi segreti sovie­tici, l’Ogpu (che diven­terà poi Nkvd) e il Gru dell’Armata Rossa. Anche se Tina era riu­scita a ven­dere l’ingombrante Gran­flex e a sosti­tuirla con una moder­nis­sima (e intro­va­bile in Urss) Leica mod. 1932 con espo­si­me­tro incor­po­rato; anche se poteva diven­tare la foto­grafa uffi­ciale di qual­che impor­tante isti­tu­zione dello Stato sovie­tico, rifiutò ripe­tu­ta­mente le offerte di scat­tare foto.

In quei mesi aveva anche chia­rito il rap­porto con Vidali. In pas­sato non si era pre­oc­cu­pata di avere avven­ture mul­ti­ple, ma giunta a Mosca pen­sava solo ai suoi doveri e alla sua inte­grità di rivo­lu­zio­na­ria. Per que­sto scrisse in una auto­bio­gra­fia per pre­sen­tarsi al Comin­tern: «Il nome di mio marito è Vit­to­rio Vidali (Jorge Con­trera). È di ori­gine ita­liana. È mem­bro del Par­tito Comu­ni­sta ed è da anni rivo­lu­zio­na­rio pro­fes­sio­ni­sta». La sua auto­bio­gra­fia è un docu­mento inte­res­sante. Tra­la­sciando il fatto che Vidali avesse spo­sato qual­che tempo prima una gio­vane russa, nel docu­mento com­paio signi­fi­ca­tive omis­sioni sul pas­sato lavoro di attrice nel cinema di Hol­ly­wood o sulla sua sto­ria d’amore con il rivo­lu­zio­na­rio Anto­nio Mella, amico di Andreu Nin, e in odore di tro­tski­smo. Ma que­sta incon­sueta auto­bio­gra­fia dat­ti­lo­scritta offre anche un inte­res­sante spac­cato psi­co­lo­gico di Tina. «Quando avevo nove anni mio padre emi­grò negli Stati Uniti in cerca di lavoro. Per lun­ghi inter­valli di molti mesi non rice­vemmo da lui nes­suna noti­zia né spedì soldi a casa per man­canza di lavoro. Ciò signi­fica che dove­vamo vivere pra­ti­ca­mente di carità. All’età di 13 anni comin­ciai a lavo­rare e da quel momento in poi mi sono sem­pre gua­da­gnata da vivere lavorando».

Nell’autobiografia del 1932 Tina si sen­tiva ancora una foto­grafa. «Con­si­dero la foto­gra­fia la mia pro­fes­sione per­ché è quella in cui ho lavo­rato più tempo e cono­sco tutte le fasi di que­sto lavoro». C’è però una nota con­clu­siva che fa pen­sare ad altre aspi­ra­zioni: «Cono­sco le seguenti lin­gue: ita­liano, spa­gnolo, inglese, nelle quali so scri­vere e leg­gere. Inol­tre cono­sco il tede­sco e il fran­cese, ma non cor­ret­ta­mente e senza saperle scrivere».

Vit­to­rio Vidali pen­sava da tempo che Tina fosse la per­sona ideale per il «lavoro segreto». Con il suo viso dolce e pulito, la sua ele­ganza natu­rale, la sua bella pre­senza poteva supe­rare ogni con­fine. E per un agente segreto la foto­gra­fia era sem­pre più un lusso. «Que­sta rivo­lu­zio­na­ria ita­liana, arti­sta straor­di­na­ria con la sua mac­china foto­gra­fica, andò in Urss per foto­gra­fare la gente e i monu­menti. Ma venne rapita dal ritmo incon­te­ni­bile del socia­li­smo in pieno fer<CW-5>mento e gettò la mac­china foto­gra­fica nel fiume di Mosca, pro­met­tendo di con­sa­crare la pro­pria vita al più umile lavoro del Par­tito comu­ni­sta» scrisse nel 1974 Pablo Neruda, amico della Modotti. In realtà Tina, prima di entrare defi­ni­ti­va­mente nella nuova vita delle ombre, degli spec­chi, dei misteri e dei segreti non gettò «la mac­china foto­gra­fica nel fiume di Mosca».

Il 13 giu­gno 1932 nella stanza che occu­pava nello squal­lido e pol­ve­roso Hotel Soyuz­naya, dopo aver siste­mato obiet­tivo ed espo­si­zione della sua Leica, la porse ad Angelo Masutti un ragazzo sedi­cenne che aiu­tava Vidali a Soc­corso Rosso dicen­do­gli: «Pren­dila… e fammi una foto». Il gio­vane scattò con la Leica una prima foto in con­tro­luce e un’altra con Tina semi­gi­rata verso la fine­stra. E poi una terza di Tina con Vidali dall’aria stra­na­mente pro­tet­tiva. Angelo Masutti fece per resti­tuirle la mac­china foto­gra­fica, ma Tina lo fermò dicen­do­gli: «Tie­nila». Era ormai con­vinta che «Il par­tito avesse sem­pre </CW>ragione». E come disse il regi­sta Ser­gej Eisen­stein, «aveva sacri­fi­cato l’arte per la politica».

Tina ini­ziò a svol­gere mis­sioni segrete in Spa­gna, Fran­cia, Ger­ma­nia, por­tando soldi, docu­menti, ordini, diret­tive. L’affascinante ed ele­gante signora «bela y her­mosa» arri­vata dal Mes­sico qual­che anno prima piena di forza, era diven­tata una donna silen­ziosa, tri­ste, spesso depressa. Allo scop­pio della Guerra civile spa­gnola i foto­grafi Robert Capa, David Sey­mour e Gerda Taro la inci­ta­rono a tor­nare a foto­gra­fare. Ma Tina pre­ferì il lavoro con le autoam­bu­lanze e negli ospe­dali con il nome di bat­ta­glia di «Vera Mar­tini» e suc­ces­si­va­mente con lo pseu­do­nimo di «Maria» tornò al lavoro segreto sem­pre più tri­ste e spenta.

Non si sa se par­te­cipò ai com­plotti, alle trap­pole che por­ta­rono alle ucci­sioni degli oppo­si­tori di Sta­lin, degli anar­chici e dei comu­ni­sti anti­sta­li­ni­sti di Andreu Nin del Poum, delle quali fu accu­sato più volte «il marito» Vit­to­rio Vidali. Al momento della scon­fitta delle forze repub­bli­cane di Spa­gna era una donna esau­sta, sof­fe­rente, scon­fitta. Era invec­chiata pre­co­ce­mente. Tornò in Mes­sico e visse ancora qual­che anno sem­pre più stanca, sem­pre più tri­ste, dila­niata dagli incubi del pas­sato. Morì all’alba del 6 gen­naio. Sola, su un taxi nelle vie di Mexico city, dopo una lite con Vidali. Era stata defi­ni­ti­va­mente fago­ci­tata dalle per­sone per le quali aveva abban­do­nato la sua arte.


di Lia Cigarini
da Via Dogana n. 82, settembre 2007


Interrogata dalla suocera, Claire Lalone, sul movimento delle donne, com’era, che cosa voleva, ecc., ad ogni domanda Grace Paley, grande scrittrice americana e femminista, rispose che sì, ci sarebbero state donne avvocate, che sì, le donne avrebbero lavorato con stipendi pari a quelli degli uomini e che si sarebbero finalmente liberate dagli uomini che le comandavano a bacchetta, che sì, la gente avrebbe amato le figlie femmine tanto quanto i figli maschi. Ma c’è dell’altro da dire, aggiunse, e cioè che “la maggior parte delle donne del movimento non voleva un pezzo della torta dell’uomo. Pensavano che quella era una torta piuttosto velenosa, tossica, piena di armi, gas velenosi e ogni tipo di ignobile porcheria, non ne volevano neanche una fetta di quella torta”. “È moltissimo”, commentò allora Claire Lalone.

Io dico che la richiesta dei 50/50 è una fetta anzi una fettina di torta avvelenata e vorrei spiegare il perché.

In tutte le proposte di parità e rappresentanza di sesso c’è un nucleo perverso che va disvelato, ed è che quelle politiche hanno come scopo l’occultamento della differenza femminile e soprattutto delle sue pratiche, pratiche che costituiscono un altrove e un altrimenti rispetto ai luoghi e alle forme della politica maschile. Si occulta regolarmente il fatto che le eventuali candidate dovranno, comunque, essere selezionate dai partiti e passare quindi attraverso le regole di carriera che essi impongono. E si sorvola, in questo caso, sul fatto che si tratta di mere candidature e non di una effettiva parità fra eletti.

A parte ciò, la prima cosa da chiarire è che la rappresentanza nel parlamento e in tutte le altre assemblee elettive non ha a che fare con il principio di uguaglianza tra i sessi già sancito dalla Costituzione, bensì strettamente con il potere. Si tratta di una richiesta di spartizione del potere tra i due sessi, potere che nella democrazia rappresentativa si esercita per lo più attraverso i partiti. E le carriere nei partiti, così in parlamento e nel governo, si giocano sul potere. Le candidate donne, per arrivare a sedersi sui seggi delle assemblee elettive e nei posti decisionali, debbono quindi accettare molte, potenti mediazioni: quelle del partito che le farà eleggere, quelle di un’inevitabile adesione e legittimazione del potere maschile che lì si esprime e tutte le mediazioni che richiede il fare leggi e regolamenti.

Un altro fatto incontestabile è che la gran maggioranza delle donne, finora, non si è mossa con forza, né dentro né fuori dai partiti, per l’obiettivo di una pari presenza femminile nei vari parlamenti nazionali, regionali, comunali, ecc. Cosa tutt’altro che trascurabile, perché, quando si tratta di spartizione del potere, si tratta di rapporti di forza, di pressione, di lotta, di determinazione per ottenerlo. In questi ultimi trent’anni, ripeto, quando si è riproposto da parte di alcune l’obiettivo della parità nella spartizione del potere, a me non sembra che ci sia stata una risposta di sentita adesione femminile. Ho visto invece l’impegno politico di donne per acquisire libertà nei rapporti con gli uomini, nel lavoro, ecc.; ho visto manifestazioni e continua vigilanza per difendere l’autodeterminazione delle donne nell’aborto. Ma non ho visto un’effettiva pressione per ottenere il riequilibrio della rappresentanza. Vent’anni fa, vigente il sistema proporzionale con ampia possibilità di preferenza, le donne comuniste avevano presentato molte candidate nelle loro liste: non si è notato un netto orientamento dell’elettorato femminile per dare la preferenza alle donne. Non solo dell’elettorato ma anche, mi riferisco al presente, delle elette. Quando, di recente, Rosy Bindi ha presentato la propria candidatura per le primarie che dovranno designare il segretario del Partito Democratico, la maggioranza delle dirigenti e parlamentari dei DS, tranne una, Franca Chiaromonte, si sono dichiarate per Veltroni, anzi, per il cosiddetto ticket Veltroni-Franceschini, cioè per due uomini. Eppure, tra di loro molte si erano già pronunciate in favore di una legge per la parità delle candidature. Un’insensatezza logica e politica. O forse, la finalmente sincera dichiarazione: il partito è la mia patria e le donne vadano pure a farsi benedire.

Perché mai, chiedo, la lotta delle donne insieme, dovrebbe mettersi al servizio dei partiti?

Dai fatti, indubbiamente, risulta un’ambiguità delle donne, che è da interrogare, non da censurare: votano, dunque non dicono di no alla cittadinanza, ma non dicono sì alla rappresentanza di sesso. Di ciò si lamentano alcune politiche e commentatrici, le quali interpretano questo comportamento come una sconfitta del femminismo. Neanche Chiara Saraceno ne viene a capo e crede di vedere come unico rimedio quello di non andare a votare, finendo però contraddittoriamente a parlare di quote (Corriere della Sera del 15.7.2007). Queste cancellano così in un solo colpo l’originalità (riconosciuta a livello internazionale) di una parte consistente del femminismo italiano, che è rimasta fedele alla pratica del partire da sé e delle relazioni, per la semplice, fondamentale ragione dei vantaggi ottenuti. L’esitazione delle donne a perseguire la parità, non viene interrogata così come non s’interroga né la crisi della democrazia rappresentativa né le proprie contraddizioni al riguardo.

In realtà le donne, come ogni elettore, sanno che le elezioni sono fatte per scegliere un partito o un altro, una coalizione o un’altra, ed è un puro corollario che all’interno di quella opzione, che è quella veramente significativa a livello di politica istituzionale, si vada poi a pescare una donna nella lista.

D’altra parte, sono molte le donne, e io mi metto tra loro, che non vogliono stare in tutte le istituzioni create a misura di uomini: parlamenti, eserciti, chiese, ecc. Alcune sì che lo vogliono, ma mentre quella che entra nell’esercito o nella chiesa vi entra chiaramente solo per se stessa, quella che entra nel parlamento, istituto della rappresentanza, e per giunta vi entra con l’idea di una possibile rappresentanza di sesso, copre la volontà di quelle che si tengono fuori, anzi, che vogliono sottolineare la loro assenza da lì.

Sia chiaro che non penso e non parlo contro quelle che al parlamento vanno apertamente per un proprio desiderio, con una competenza e un’ambizione da far valere. Io parlo contro la rappresentanza di sesso, ossia contro quelle che vorrebbero rappresentare anche i miei desideri e interessi.

Contro ogni discorso di rappresentanza di sesso c’è, infine, il pensiero sicuramente condiviso da molte, che il senso della differenza femminile esige che si ragioni con la forza della sua interna necessità e non con la forza della necessità del diritto e delle forme della politica maschile, nelle quali è da includersi la politica di parità. Quando parlo di necessità interna, mi riferisco sia al gesto iniziale del femminismo, quando alcune decisero di riunirsi in piccoli gruppi di autocoscienza di sole donne, sia al lavoro politico per farla essere, la differenza, senza pretendere di rappresentarla: una pratica politica che si può quindi definire, senza mezzi termini, antiparitaria.

La polis delle donne è un esteso movimento di luoghi, spazi e relazioni nazionali e internazionali, e ha una valenza politica secondo me maggiore del parlamento e di altre istituzioni consimili, se non altro perché non si basa sulla separazione tra pubblico e privato, politica e vita, ma, al contrario, è strettamente legata alle forme di vita. È in sostanza un insieme relazionale che vive nei rapporti effettivi che le persone hanno.

Questa concezione della polis non è circoscritta al solo movimento delle donne. Alain Touraine vede, nell’impegnarsi delle donne a tenere insieme privato e pubblico, una strada per uscire dalla crisi di civiltà che stiamo vivendo. Di recente sul manifesto del 28.6.2007, Marco Bascetta, parlando dei movimenti politici, afferma che essi “non sono domande, rivendicazioni, vertenze ma forze che tendono ad affermare degli stati di fatto”. E aggiunge “essi agiscono la democrazia contro la rappresentanza”. Io penso che si riferisca principalmente al movimento delle donne. Sergio Bologna, in un testo in corso di pubblicazione, afferma: “se il lavoro femminile oggi è il lavoro tout court, le azioni di autotutela, le strategie di libertà, i modi di convivere con la precarizzazione, insomma il modo per non restare schiacciati dall’organizzazione del mercato del lavoro è quello delle pratiche femminili, quello – e non altri- è il modo di coalizione con valenza generale, con cui gli uomini debbono confrontarsi”.

Perciò mi infurio quando vedo avanzare delle proposte di quote da assicurare alle donne nelle liste, perché così facendo, non si fa che restringerle politicamente ad una categoria, in un settore, mentre esse stanno guadagnando o possono guadagnare il centro della politica.

In una prospettiva più generale, notiamo che questa richiesta di spartizione paritaria del potere è posta in un momento storico nel quale la democrazia rappresentativa è morente, poiché la prima esigenza della globalizzazione capitalista è quella di poter decidere più rapidamente possibile, quindi, si tende a riconoscere più potere personale ai primi ministri, ai presidenti della repubblica, al governo, ecc. Domanda: questa deriva decisionista e liberistica va bene alle nostre sostenitrici delle pari presenze di donne e uomini in tutti i luoghi elettivi e decisionali? Sembra di sì. Esse arrivano a scrivere che l’obiettivo è quello della pari presenza, qualsiasi sia la legge elettorale. Esse, poi, plaudono indiscriminatamente ad Aznar come a Zapatero o Sarkozy i quali, con il potere personale che gli deriva dalle loro cariche e soprattutto dal liderismo imperante, hanno nominato governi a metà costituiti da donne. Dunque, si vuole una presenza numerica di donne nei parlamenti e nelle altre assemblee elettive, astraendo dal contesto politico istituzionale del paese. Non ci si pone neppure la domanda su che cosa hanno fatto per modificare l’ordine maschile di gestione del potere, le ministre di Aznar o di Zapatero

Inoltre, se si discute di democrazia paritaria, mi sembra, come minimo, che si dica quale idea di democrazia si ha in testa, quale legge elettorale sia tale da rafforzare la democrazia e quale no. Non sarei d’accordo, infatti, e come me molte altre, credo, con una riforma che, ad esempio, prevedesse sì un’ampia quota di presenza femminile nelle liste ma nel contempo assegnasse più potere decisionali al primo ministro o al presidente della repubblica.

La democrazia paritaria, per le sostenitrici del 50/50, sarebbe il completamento della democrazia così come pensata dagli uomini. E quella pensata dalle donne? Se ne parlerà poi, rispondono alcune. Questo è l’obiettivo, rispondono altre, la differenza è un arcaismo che ci tira indietro. Altre ancora pensano che quest’obbiettivo, così semplificato da essere quasi uno slogan, serva se non altro a smuovere le acque.

A me sembra, molte volte, di urtare contro un limite teorico e pratico senza scampo. Tuttavia ci sono già delle intuizioni felici. Trovo di primaria importanza dire che le soggettività eccedono le regole della rappresentanza e dei partiti. Alcune di noi lo hanno detto e scritto. Altre, penso a Marisa Forcina e a Bruna Peyrot (una torinese che vive in Brasile, ha scritto La democrazia al tempo di Lula e La cittadinanza interiore), hanno già iniziato a riflettere sulla democrazia a partire dal pensiero e dalla pratica della differenza. Il pensiero di Bruna Peyrot ruota attorno a un’idea centrale: non c’è cittadinanza democratica credibile senza quella che lei chiama cittadinanza interiore, ovvero non c’è diritto che venga dall’esterno senza una mobilitazione della soggettività, che viene dall’interno. Lei propone in sostanza un decalogo di consapevolezze: la prima consapevolezza, non a caso da lei proposta per la cittadinanza interiore, è quella della differenza sessuale, ovvero la capacità di ricostruire la relazione tra donne e uomini dopo il femminismo, perché questa relazione è stata messa in discussione alla radice e bisogna ripensarla; lei poi ne indica altre: il diritto all’autobiografia, e via dicendo. A me sembra che qualcosa si stia seriamente movendo nel senso da lei indicato e trovo che “cittadinanza interiore” sia un’espressione molto bella ed efficace. Marisa Forcina, a sua volta, dice esplicitamente che l’autocoscienza, cioè la forma politica delle donne, è una forma della cittadinanza, perché la cittadinanza è per prima cosa le relazioni che stabilisci.

So che la strada è lunga. Mi sembra, però, che qualche spunto felice per risignificare la democrazia tenendo ferma la barra della differenza, ora lo abbiamo.


Testi citati: GRACE PALEY,
L’importanza di non capire tutto, Einaudi, Torino 2007; ALAIN TOURAINE, Le monde des femmes, Fayard, Paris 2006; SERGIO BOLOGNA, Ceti medi senza futuro? Scritti sul lavoro e altro, Derive Approdi, in corso di stampa; PRUNA PEYROT, La cittadinanza interiore, Città Aperta Edizioni, Troina 2006; MARISA FORCINA, Donne: lavoro e cittadinanza, in “Critica marxista” n. 6, nov.-dic. 2006.

(Altri articoli sulla questione del 50e50 Via Dogana n. 82, settembre 2007)


a cura di Luisa Muraro

da Via Dogana n. 82, settembre 2007


Il 6 giugno 2000 la gazzetta ufficiale del Parlamento francese ha pubblicato una legge da poco approvata a larga maggioranza per la ripartizione a 50/50 tra donne e uomini, delle candidature nelle elezioni europee, nazionali e locali. Si concludeva così la lotta condotta in Francia negli anni novanta dal movimento per la parità, iniziato con un libro-manifesto intitolato Au pouvoir citoyennes! Liberté, égalité, parité! La legge del 6 giugno non rispondeva agli intenti delle “paritariste”, che volevano dalla legge la ripartizione rigorosamente paritaria degli eletti/elette, così da superare i problemi posti dalla differenza sessuale traducendola, con una deliberata astrazione, nella mera dualità anatomica. Nel 2005 Joan W. Scott, studiosa di spicco nel campo dei Gender studies, ha pubblicato un saggio, apparso negli Usa e in Francia, Parité. L’universel et la différence des sexes (tr. di Claude Rivière, ed. Albin Michel) che narra le idee e le vicende del movimento di cui sottolinea l’originalità, indaga la complessità e valuta i risultati, con intelligenza e precisione. Unica critica che mi sento di farle, è che nella sua ricostruzione ella sorvola sulla mancata distinzione fra assenza, da una parte,ed esclusione o discriminazione, dall’altra, mancanza riscontrabile in questo come negli altri movimenti per la parità, i quali tendono a interpretare ogni assenza di donne come l’effetto di una discriminazione, senza ulteriori indagini e quasi senza concepire l’idea che possa trattarsi invece una libera espressione di sé. I passi che riportiamo, tradotti dal francese, ringraziando l’autrice e l’editore, sono solo indicativi di un’investigazione che si estende per più di 250 pagine.

Il principio ispiratore (da pp. 92-97)

Contrariamente a quello che altre femministe avevano chiesto qualche anno prima, le “paritariste” non hanno domandato che si adotti una legge antidiscriminatoria (o antisessista), le leggi di questo tipo non essendo sufficienti ad assicurare l’uguaglianza e dando invece per scontato l’esistenza di categorie definite dalla biologia o dalla cultura. Seguendo in ciò un’argomentazione sviluppata da femministe della Comunità europea, le “paritariste” hanno ritenuto che le leggi antidiscriminatorie sono imperfette e che ristabiliscono le differenze che bisogna eliminare. Meglio proporre che il principio fondamentale del diritto all’uguaglianza venga enunciato e poi sia messo in pratica dalla legge. Lo scopo cercato non era l’uguaglianza tra donne e uomini, una formulazione che lascia che gli uomini siano il riferimento su cui misurare le donne. Bisogna che sia riconosciuta l’uguaglianza di donne e uomini, formula che consente di porre l’equivalenza degli essere umani a fondamento dell’organizzazione sociale. Lo scopo della parità era così di sopprimere le premesse misogine sulle quali si è costruito la Stato repubblicano. (…) Con il progetto paritario si poteva, finalmente, creare un posto per le donne nella sfera pubblica e democratizzare la politica senza fare riferimento a considerazioni extrapolitiche che per tanto tempo sono servite a giustificare la disuguaglianza. Insistendo sull’uguaglianza di donne e uomini, e riconoscendo che l’individuo è sessuato, le “paritariste” si sono applicate a “desessualizzare” l’aggregato d’individui che formano il corpo politico della nazione. Riconoscere la sessuazione degli individui astratti, allo scopo di sopprimere il sesso come criterio pertinente per esercitare la rappresentanza, solo in apparenza costituisce una contraddizione. È questa riconcettualizzazione che è servita da fondamento teorico alla rivendicazione avanzata dal movimento per la parità. “La nostra battaglia per la parità si situa in un’altra prospettiva, quella dell’uguaglianza dei sessi fondata non su una differenza glorificata, non su una differenza negata, ma su una differenza oltrepassata, riconosciuta per meglio essere estromessa là dove produce disuguaglianza” (Françoise Gaspard).

In questo ragionamento si richiede nulla meno dell’uguaglianza totale perché le donne accedano allo statuto d’individuo, e sfuggano ai limiti di un’identità categoriale. Rigettando le quote come insufficienti (in quanto non arrivano all’uguaglianza), fin dai primi scritti le “paritariste” hanno chiesto che si stabilisca, nella rappresentanza, una ripartizione di 50/50 dei posti da distribuire fra donne e uomini. Questo 50/50 non è una quota, ma rispecchia il fatto che, quali che siano per altri rispetti le loro qualità e attributi, gli individui appartengono sempre ad uno dei due sessi. (…)

L’uguaglianza dei sessi era il principio. Il mezzo per attuarlo doveva essere la legge perché essa soltanto poteva superare la resistenza degli uomini politici e dei partiti, così da ridefinire i termini operativi – simbolici e pratici – dello spazio politico. Ma prima che la legge facesse la sua opera, bisognava che fosse votata, il che voleva dire appellarsi agli eletti e all’opinione pubblica. L’appello lanciato in nome delle donne faceva di queste una categoria, allorché questo stesso appello mirava a spogliare il sesso delle sue caratteristiche sociali. Con la parità, le donne diventavano semplicemente degli individui di sesso femminile, e delle rappresentanti capaci d’incarnare la nazione in virtù della loro individualità. Le architette della parità non hanno pensato che le donne rappresentino soltanto le donne, così come non hanno fatto credere che le elette avrebbero agito tutte allo stesso modo. Anzi, hanno detto il contrario: che le donne erano capaci quanto gli uomini di rappresentare la nazione, e che, nell’espressione delle loro opinioni e giudizi, avrebbero offerto altrettanta varietà che gli uomini. “Non si tratta affatto di far rappresentare le donne dalle donne, ma che le donne abbiano tante possibilità di accesso al prendere in mano il destino comune, quante gli uomini; di permettere alle donne di pensare il divenire globale della società e non soltanto i problemi degli asili; di fare che la società si riconosca in esse come nei loro pari di sesso maschile” (Giselle Donnard).

Questa concezione della parità è un esempio di ciò che Étienne Balibar ha chiamato “l’universalità ideale” (…). Questo era esattamente quello che domandava il movimento per la parità: introdurre un vero universalismo nel sistema politico francese, non mettendosi d’accordo per ignorare le differenze sociali (come fa l’universalismo fittizio), ma facendo della dualità anatomica il primo principio dell’individualismo astratto.

La legge del 6 giugno, in pratica (da pp. 240-243)

Se lo scopo delle “paritariste” era di eliminare ogni considerazione di sesso nella scelta dei rappresentanti, la conseguenza prima della legge di parità fu invece di evidenziarne l’impronta. In tal senso, la legge agisce come qualsiasi legge antidiscriminatoria o provvedimento di azione positiva, e punta i riflettori sulla o sulle differenze che hanno precisamente condotto all’esclusione. Le campagne elettorali seguite all’approvazione della legge hanno mostrato tutta la difficoltà di rimediare alla discriminazione – non c’è assolutamente modo di sfuggire all’evocazione della differenza e di non riprodurre quindi i termini di ciò che si vorrebbe correggere. Le candidate sono donne o persone che si occupano di politica?

Le donne possono veramente essere politiche? Sono differenti o identiche agli uomini politici? Sono queste alcune domande che si sono poste implicitamente (e talvolta esplicitamente) nel corso delle campagne elettorali.

Le donne che si sono presentate come candidate sono state prese in un doppio circolo vizioso, descritto molto bene da Marion Paoletti, iscritta al Partito socialista e sconfitta nelle legislative del 2002. L’affermazione della sua identità di donna (e di madre) ha rappresentato un vantaggio per guadagnare voti nel quadro della legge di parità, ha detto, ma non per far riconoscere la serietà del suo impegno negli ambienti del partito. Diversamente dai suoi colleghi maschi, che non si sono sentiti minimamente obbligati ad affermare la propria maschilità, “le donne in campagna elettorale nel 2002, si vedono tacitamente e collettivamente ingiungere di essere donne”. Ma per lei quest’ingiunzione ha avuto effetti contradditori: “Se bisogna essere donna, c’è il rischio di non essere politica”. Il vecchio problema dell’impossibilità di fare astrazione dalla differenza dei sessi, continuava a porsi. Mentre faceva campagna, la sua femminilità era una carta da giocare. Le hanno molto consigliato di truccarsi e di curare un look femminile. “Il tuo corpo è un’arma” le ha detto una collega. Ma, all’interno del partito, lo stesso comportamento diventa un difetto. (…) L’accento messo sulla sua identità in quanto donna poteva condurre alla naturalizzazione di tale identità, lei ritiene, e confermare gli stereotipi sociali confinandola nella dipendenza da uomini più potenti. Nel migliore dei casi, sottolinea Marion Paletti, la figura della donna politica è “ambigua”. Ma proprio perciò – noto io per inciso – essa perturba, almeno potenzialmente, gli stereotipi da cui vorrebbe tenersi distante. (…)

Al livello in cui siamo nella valutazione degli effetti della legge di parità, è l’indebolirsi della connessione tra maschilità e politica che ci conviene guardare da vicino. Questa legge ha introdotto della confusione, e della costernazione, nel campo politico. Vediamo così manifestarsi, in un certo numero di uomini, delle reazioni difensive davanti all’arrivo senza precedenti di donne nel “loro” dominio, reazioni che vanno dal ripiegare negli stereotipi al ricorso agli insulti fino al dispiegamento della forza bruta del potere al fine d’indebolire la legge o di sabotarne l’applicazione. Sul versante opposto, si assiste a prese di posizione, da parte di alcuni eletti (sono rari, tuttavia esistono) che rispecchiano esattamente la desimbolizzazione voluta dalle “paritariste”. Il sindaco di Rennes, per esempio, ha sottolineato che donne e uomini condividono molto delle stesse difficoltà e degli stessi punti di vista. “Io, ci tengo molto a stare all’ascolto… La donna non deve avere un dominio riservato. È cittadina, deve interessarsi di tutto. Io sono contro la strumentalizzazione. Si fa politica in quanto cittadini, tutto qui”.

(Altri articoli sulla questione del 50e50 Via Dogana n. 82, settembre 2007)

da “La Repubblica” del 2

Lea Vergine: “Io, signora dell’arte, mi sento una derelitta in questo mondo dominato dal mercato”

La critica e curatrice si racconta insieme ad amori, pittori e colleghi

di ANTONIO GNOLI

Sembra di attraversare una nuvola di bianca tristezza. E invece sono le sue parole. Quelle di Lea Vergine. Un nome d’artista, pensavo. In realtà critica d’arte che ha scritto saggi acuti e importanti sul linguaggio del corpo e la Body art. E di lei avevo apprezzato, giusto un paio di anni fa, la bellissima mostra, curata al Mart di Rovereto, sul gruppo di Bloomsbury. Ha una voce piena di spigoli. Lea. Che sembra dica: stai abusando della mia pazienza. In realtà sono soprattutto le Esportazioni che fuma a eccitare una certa asprezza. Una certa rabbia che l’età non più giovane contiene con rassegnata saggezza. Contro chi? Le chiedo. Mi guarda incuriosita: “Contro me stessa innanzitutto. Conosco come pochi l’arte dell’autolesionismo”.

E allora torna quella sensazione di tristezza iniziale. Quelle parole che scendono come pioggia invisibile. Lea è stata una donna bella. Non che non lo sia ancora. Ma è infastidita dal ricordo di un’immagine remota. Dalla tara che ogni memoria deve fare su di sé. Dall’avvilimento che non siamo più ciò che un tempo fummo. Mi guarda perplessa dalla teatralità morale dello studio milanese dove sediamo. I libri, i cataloghi, le schede raccontano “la vita, forse l’arte”, come recita il titolo del suo nuovo libro appena edito da Archinto.
Quando ha avuto questa sensazione?
“Quale sensazione?”.

Di essere cambiata. Di non essere più quella di una volta.
“C’è stato un momento in cui ho pensato che i miei piccoli anni eroici non andassero più visti nella compostezza dell’indifferenza, come qualcosa che semplicemente non c’era più. Ma nel vuoto che avevano scavato. In quel momento ho provato la sensazione che la malinconia non fosse più un sentimento sterile, ma dannoso”.

Collocabile in quale tempo?
“In questi anni, così prossimi da sentirne il respiro e il disagio, anni in cui tutto è maledettamente cambiato”.

In peggio?
“È una china invisibile. Si scende senza far troppo rumore. Cosa c’è di più deprimente?”.

Ma è una depressione che ha origine dalla memoria o dal fisico?
“Direi da entrambi. Se penso alla mia nascita mi vedo senza una madre e consegnata ai nonni all’età di tre mesi”.

Cosa accadde?
“Venni concepita, fuori dal matrimonio, da una fanciulla totalmente estranea al mondo di mio padre. Una ragazza povera, bella e sventata. Nel 1938 non si davano nozze riparatrici. Mio padre, famiglia borghese, si presentò a mia nonna, una Ruffo di Calabria, e disse: “Mammà, ho una figlia””.

Suo padre cosa faceva?
“Era laureato in legge. Ma i sogni si legavano alla musica. Il nonno lo mise davanti alla scelta: abbandoni la musica ed entri in uno studio legale e noi ci occuperemo della piccola”.

E si occuparono di lei?
“Pienamente. Sono stata con loro per lungo tempo. A Napoli. Crescevo con le attenzioni che si dedicano a una signorina. Ero bella e agiata. Ma anche stupida”.

Stupida?
“Non nel senso dell’oca giuliva. Ma per le opportunità che ho mancato nella vita. Ho sempre fatto il contrario di ciò che sarebbe stato meglio per me. Non sono mai stata capace di scegliere il male minore”.

È considerata tra le eccellenze della critica d’arte. Perché si denigra?
“Quello che ho realizzato nel mondo dell’arte avrei potuto farlo con mille altri mestieri. Dov’è l’unicità? Aver scritto di artisti che pensano che il loro mondo sia il mondo? E che tutto inizia e finisce varcata la soglia del loro studio?”.

In fondo sono loro le primedonne. Perché sorprendersi o restarne delusi?
“Perché dietro il “genio” scopri spesso l’ometto, la mezza calzaumana. Ricordo la volta che andai a Parigi a trovare Jean Fautrier. Mi aspettavo di incontrare un maestro. Vidi quest’uomo sdraiato nel suo atelier circondato da un clan di fanciulle che lo accarezzavano. Restai allibita. Dai suoi sorrisetti, dalle sue frasi ambigue di vecchio Ganimede”.

Però un grande artista.
“Non ne dubito, almeno nel suo caso. Ma ciò che le racconto non è per puro pettegolezzo, ma perché sono convinta che uno dei risultati della modernità è il divorzio tra ciò che sei e ciò che appari”.

Le dà così fastidio?
“Non mi dà fastidio. Constato la presenza di più stili di vita e di maschere. Semmai quello che ho notato più spesso negli artisti è ciò che gli psichiatri chiamerebbero disturbo della personalità. Sono spesso legati al proprio Io in maniera patologica”.

A chi pensa?
“Una persona, che pur nella mediocrità del proprio talento, ha saputo sfruttare le numerose potenzialità del proprio Io è stato Salvador Dalì”.

Un artista scandaloso che fiutò il proprio tempo come un cane da caccia la sua preda.
“È vero, aveva fiuto. Ma non si tradusse mai in una grande opera. Fu un surrealista di terz’ordine; un mitomane in grado di autopromuoversi come pochi. I suoi quadri “metafisici” non hanno nulla della grandezza allucinatoria di De Chirico, le sue opere scandalose viste oggi sono solo rancidamente sentimentali o oleografiche”.

Eppure, è considerato un grande del Novecento.
“Ci sono ragioni diverse da quelle smaccatamente commerciali? Tutto in lui è stato kitsch e pop”.

Buñuel, per fare un solo esempio, vide in quest’uomo contraddittorio l’artista totale.
“Buñuel gli fu amico in gioventù. Ma non smise mai di considerarlo un esibizionista e, per le sue idee politiche, un cinico che si mise a disposizione del franchismo. La protervia del suo Io si tradusse in qualcosa di grottesco. Corteggiò Freud senza esito. Volle ingraziarsi Lacan, che era stato surrealista, senza riuscirci. Si è dovuto accontentare dell’omaggio di Armando Verdiglione”.

È molto dura e sarcastica verso gli altri.
“Forse perché lo sono verso me stessa. Bisogna saper ritrovare negli altri le proprie patologie”.

Da quali è affetta?
“Il mio psichiatra mi assicura che non sono psicotica, come certi artisti, ma solo una banale nevrotica”.Sembra quasi delusa.
“No, affatto. Ma l’arte, quella vera, si nutre di follie insondabili e di sofferenze e dolori profondissimi. Da dove crede sia nata la serie Otages, gli “Ostaggi”, che Fautrier dipinse tra il 1942 e il ’45, se non dallo sconvolgimento per le atrocità commesse dai nazisti?”.

L’arte ha solo l’aspetto tragico?
“È il lato che più di ogni altro mi ha coinvolto. L’arte di oggi, invece, è sempre meno una faccenda di persone per bene”.

In che senso?
“È un luogo dove non ci sono quasi più valori tragici, ma solo prezzi di mercato”.

Può immaginare un’arte senza il mercato?
“Sarebbe impensabile. In passato accadeva però che una nuova tendenza  –  pensi all’Impressionismo, alla Body art o all’Arte Povera  –  nascesse in contrasto con il mercato e solo in un secondo momento ne veniva riassorbita. Oggi il “mercato” è il feticcio per eccellenza. Ma la verità è che siamo in uno stagno dove sguazzano piccoli squali travestiti da papere”.

Chi decide?
“Non è più il mercante o il gallerista a determinare le cose. Sono i collezionisti a stabilire le quotazioni di un artista o chi deve dirigereil tal museo o il talaltro. In fondo non è neanche così insolito. Nel Cinquecento era la committenza di principi e cardinali a decidere il destino dell’arte. Allora non andò così male”.

E i critici?

“Annaspiamo. Ricorda qualcosa di memorabile, al di là delle contese da cortile? Siamo come quei battitori di tamburi disposti lungo una battuta di caccia per spaventare la tigre. Una volta, a Procida, incontrai Cesare Brandi, grande storico dell’arte, cultura poliedrica con tendenze omo. Fece una mossetta e poi con quel suo accento senese mi disse: “Fiorellino, mi spiace dirtelo, ma non hai più il fulgore di una volta”. Ecco, non abbiamo più il fulgore. Ci siamo spenti”.

Ha conosciuto anche Argan?
“Molto bene. Un giorno mi raccontò che aveva passato parte dell’adolescenza nel manicomio di Torino, dove sembra che il padre ricoprisse qualche incarico. Mi disse che spesso faceva giocare la piccola Carol Rama, che credo avesse ricoverata la vecchia madre. Pensi che allegria!”.

Cos’è per lei la felicità?
“Non saprei. Mi sono quasi sempre sentita alla stregua di un cane. C’è un dipinto di Botticelli nel quale si vede una ragazza con la testa china, le mani che nascondono la faccia, si intitolaLa derelitta. Ecco, mi sento così”.

Cosa pensa di dover espiare?
“Dicono che sono un po’ cattivella. La verità è che sono cresciuta nella paura di sbagliare e di non essere accettata”.

Che rapporto è stato quello con suo padre?
“Per me è stato come un fidanzato che vedevo poco. Credo che mi amasse molto e quando è morto, all’età di 46 anni, sono stata malissimo. Mi ha inferocito quella morte. Come se mi avessero rubato la cosa più preziosa. Per vent’anni non sono riuscita a parlarne. E per mettere tutto a tacere, poco dopo, mi sposai. Un matrimonio compensatorio durato nove anni. Non mi sarei aspettata che alla fine di quella lunga e noiosa stagione avrei ritrovato il grande amore”.

Nella persona di chi?
“Di Enzo Mari. Mi sarei volentieri trasferita a Roma, volevo vivere nella bellezza meteca e sguaiata di quella città. Per Enzo decisi di andare a Milano. Era il 1966. Stiamo insieme da 48 anni. E nei suoi riguardi ho sviluppato un’ossessione amorosa”.

Che tradurrebbe come?
“Una situazione in cui sai che non puoi fare a meno dell’altro, anche se tutto consiglierebbe che dovresti allontanartene. È questo che intendo. Una malattia, come tutte le ossessioni”.

Lei ha scritto ne La vita, forse l’arte:”È un pezzo che Milano è diventata un luogo a forte rischio di ridicolo”. Di cosa l’accusa?
“Quando vi arrivai mi parve una città bruttina ma gradevole. Piena di voglia di fare. Adesso è giuliva come un cimitero. Una città sciagurata “.

Una città in ogni caso importante per l’arte.
“Per la musica continua a esserlo. Ma per il resto? E poi quando mai è stata rilevante per l’arte? Importanti furono Torino e Roma. Non certo Milano, la cui riconoscibilità finì con Lucio Fontana. Che fu un uomo stupendo e generoso. Assolutamente raro in un mondo afflitto da egolatria”.


Che visione si è fatta del mondo in cui vive?
“La visione vorrebbe essere disincantata”.

Crede in Dio?
“Non credo dall’età di 14 anni. Però certe notti, mentre mi rivolto nel letto, metto la testa sotto il cuscino e dico: chiunque tu sia fammi morire nel sonno. Almeno questo concedimelo”.

In cambio di cosa?
“Del dolore, dello smarrimento, dell’ansia, del panico. Sono conciata malissimo. Chiedo solo un piccolo risarcimento. Del resto questi ultimi anni sono stati un vortice di sorprese e non tutte gradevoli”.

Cosa è accaduto?
“Con Enzo ci siamo fortemente impoveriti. Siamo un esempio antropologico di quella classe media, un tempo orgogliosa e florida, oggi messa a durissima prova. Inoltre sono stata operata al cuore. Un organo ricostruito, come dico io, con dei pezzi presi da una mucca. Ogni volta che passo davanti a una macelleria penso al sacrificio di quei poveri animali”.

È sempre così paradossale?
“Paradossale? Diciamo lievemente patetica”.

E un po’ snob. Non trova?
“Lo snobismo è morto da tempo. Va di moda il grottesco. Lo snobismo fu un’arte difficile, severa, sempre sul punto di cadere nell’affettazione. Una snob straordinaria fu Virginia Woolf”.

Come del resto lo fu tutto il circolo di Bloomsbury.
“Me ne sono occupata. E sono giunta alla conclusione che solo Virginia poteva aspirare a quella forma di “santità”. Gli altri  –  come Lytton Strachey, Vanessa Bell, Duncan Grant e lo stesso grande economista Keynes  –  furono piuttosto personaggi intelligentissimi, curiosi e forniti di quella promiscua libertà che li portava, tra loro, ad andare a letto con tutti. Si opponevano al regime vittoriano e furono uno degli ultimi esempi di una società letteraria autoreferenziale”.

E lei?
“Io cosa?”.

Si sente dentro un mondo chiuso o autoreferenziale?
“Molte immagini esterne mi rimandano

i miei stati d’animo. Ma cosa posso farci? Più invecchi e più ti isoli. I vecchi non credono più all’anagrafe. Ma c’è un momento della giornata in cui tornano giovani, quando avevano i loro sogni nelle tasche. Poi basta passare davanti a uno specchio o uscire da una doccia perché l’incantesimo si rompa”.

È il corpo che non mente?
“Ci parla. E non è arte. Non sono discorsi. È solo nuda vita”.

 

 

di Giovanna Zapperi,

Femminismi. In due libri, un’analisi sulla creatività femminile degli anni Settanta, sfatando il luogo comune che una prospettiva di genere, nelle arti visive, non sia mai esistita in Italia

Se le Guer­rilla Girls – col­let­tivo di arti­ste tra­ve­stite da gorilla – si aggi­ras­sero per le strade Roma in que­ste set­ti­mane avreb­bero sicu­ra­mente qual­cosa da ridire sulla mostra del Palazzo delle Espo­si­zioni sull’arte a Roma negli anni set­tanta, dove le arti­ste si con­tano sulle dita di una mano, e il ruolo del fem­mi­ni­smo è rele­gato a una nota a piè di pagina. Eppure Roma negli anni set­tanta è stato il cuore pul­sante di un movi­mento che ha avuto un impatto tal­mente pro­fondo e rami­fi­cato da coin­vol­gere gli aspetti più diversi della vita sociale e della cultura. L’arte non è di certo rima­sta illesa, come for­tu­na­ta­mente ci ricor­dano due pre­ziosi volumi pub­bli­cati recen­te­mente, tra i primi ten­ta­tivi di rileg­gere l’arte ita­liana degli anni set­tanta a par­tire da una pro­spet­tiva fem­mi­nile e fem­mi­ni­sta. La que­stione del genere appare sem­pre più chia­ra­mente come il grande rimosso della sto­ria dell’arte ita­liana del secondo dopo­guerra, dove le intense discus­sioni svi­lup­pa­tesi nel mondo anglo­sas­sone sul ses­si­smo della disci­plina hanno avuto scar­sis­sima eco. Tra mito e istituzione I libri di Raf­faella Perna (Arte fem­mi­ni­smo e foto­gra­fia in Ita­lia, Post­me­dia­books 2013, 112 pagine, 79 illu­stra­zioni, euro 16,90) e di Marta Sera­valli (Arte e fem­mi­ni­smo a Roma negli anni set­tanta, Biblink 2013, 250 pagine, 12 illu­stra­zioni, euro 26) affron­tano la com­ples­sità del nesso tra arte e fem­mi­ni­smo in Ita­lia por­tando alla luce una serie di sto­rie som­merse che chia­mano indi­ret­ta­mente in causa le nar­ra­zioni arti­sti­che «cano­ni­che» (leggi: maschi­li­ste) ancora for­te­mente in auge. Il primo dato che emerge con forza dalla let­tura di que­sti due libri è, infatti, la con­sta­ta­zione di un pro­cesso di rimo­zione attiva delle pre­senze fem­mi­nili nell’arte in Ita­lia. Sono almeno due i miti che risul­tano imme­dia­ta­mente sfa­tati da que­ste nuove ricer­che: quello della scarsa pre­senza fem­mi­nile e quello dell’incontro man­cato tra arte e fem­mi­ni­smo in Italia. Con­tra­ria­mente a quanto si può desu­mere dalla mag­gior parte delle espo­si­zioni e pub­bli­ca­zioni dedi­cate all’arte di que­gli anni, le autrici attive negli anni set­tanta erano nume­ro­sis­sime, e molte di loro erano anche diret­ta­mente coin­volte nel movi­mento fem­mi­ni­sta attra­verso col­let­tivi e ini­zia­tive che pone­vano con forza i temi del fal­lo­cen­tri­smo delle isti­tu­zioni arti­sti­che e della crea­ti­vità fem­mi­nile all’interno di una rifles­sione più ampia sui rap­porti tra i sessi. Emerge, in modo chiaro, come ogni ten­ta­tivo di costruire una nar­ra­zione omo­ge­nea del bino­mio «arte e fem­mi­ni­smo» sia desti­nato al fal­li­mento, vista la mol­te­pli­cità dei modi, diretti o indi­retti, in cui i temi fem­mi­ni­sti hanno agito nelle ela­bo­ra­zioni arti­sti­che di que­gli anni. Il secondo dato su cui vale la pena insi­stere — e che acco­muna i due volumi — è la con­sta­ta­zione della sor­pren­dente tem­pe­sti­vità delle espe­rienze ita­liane nel con­te­sto inter­na­zio­nale. Si tende troppo spesso a dimen­ti­care che l’emergere di una coscienza fem­mi­ni­sta nel mondo dell’arte è stata ovun­que un fatto mino­ri­ta­rio e mar­gi­na­liz­zato per­ché entrava in con­flitto con tutto quell’apparato mitico-istituzionale che met­teva al cen­tro la figura dell’artista maschile, la sua ori­gi­na­lità e viri­lità. Que­sto è vero per­sino per un paese come gli Stati Uniti, spesso evo­cato come ter­mine di para­gone, dove le espe­rienze arti­sti­che fem­mi­ni­ste acqui­sta­rono visi­bi­lità e rile­vanza ben mag­giori che in Europa. Nel breve volume dedi­cato all’uso fem­mi­ni­sta della foto­gra­fia, Raf­faella Perna riper­corre a grandi linee il lavoro di alcune arti­ste che si sono foca­liz­zate sui temi dello ste­reo­tipo, la costru­zione del fem­mi­nile tra imma­gine e lin­guag­gio, la rap­pre­sen­ta­zione del corpo e della ses­sua­lità della donna, la vio­lenza di genere. Come sot­to­li­nea l’autrice, la foto­gra­fia ha gio­cato un ruolo impor­tante nell’articolare que­sti temi sia per­ché sto­ri­ca­mente ha costi­tuito un’arena pri­vi­le­giata per la spe­ri­men­ta­zione iden­ti­ta­ria, sia per­ché l’uso di que­sto medium per­met­teva una più grande libertà rispetto ad altri sup­porti con una tra­di­zione più con­so­li­data alle spalle. Attra­verso la foto­gra­fia si dispiega quel tea­tro dell’identità che costi­tui­sce uno dei tratti distin­tivi delle spe­ri­men­ta­zioni di que­sti anni su scala inter­na­zio­nale: nei tableaux foto­gra­fici di Verita Mon­sel­les o nelle auto­rap­pre­sen­ta­zioni col­let­tive di Mar­cella Cam­pa­gnano si deli­nea una rifles­sione sui ruoli di genere che prende le mosse dall’analisi dei mec­ca­ni­smi della rei­fi­ca­zione dell’identità fem­mi­nile, messi in atto da pub­bli­cità e cul­tura di massa. Il rap­porto tra imma­gine e lin­guag­gio è, invece, uno dei temi che acco­mu­nano alcuni dei lavori di Cloti Ric­ciardi, Ketty La Rocca o Ste­pha­nie Our­sler. Come rileva Perna, la con­te­sta­zione del lin­guag­gio attra­verso il ricorso a gesti e imma­gini è un tema cen­trale per que­ste arti­ste che con­si­de­rano la parola scritta come uno stru­mento del domi­nio patriar­cale. È inte­res­sante que­sta cri­tica del lin­guag­gio soprat­tutto se letta in rife­ri­mento alla cen­tra­lità della parola scritta nella sto­ria del fem­mi­ni­smo ita­liano, spesso rac­con­tato come un movi­mento foca­liz­zato essen­zial­mente sulla parola, lasciando nell’ombra la sua dimen­sione visuale. La que­stione delle teo­riz­za­zioni fem­mi­ni­ste in ambito arti­stico è invece uno degli aspetti ana­liz­zati dal libro di Marta Sera­valli, che tenta una rico­stru­zione sto­rica dei rap­porti tra arte e fem­mi­ni­smo a Roma negli anni set­tanta, a par­tire da Carla Lonzi e dalla nascita di Rivolta fem­mi­nile nel 1970. Come è noto, la vicenda di Carla Lonzi, che abban­dona la cri­tica d’arte per il fem­mi­ni­smo, ci pone di fronte ad un’alternativa dra­stica: l’arte o il fem­mi­ni­smo. Il libro prende le mosse dalla con­sta­ta­zione che Rivolta fem­mi­nile nasce dall’iniziativa di una cri­tica d’arte e di un’artista, Carla Accardi, e prende in esame, attra­verso un’accurata docu­men­ta­zione, diverse moda­lità di iden­ti­fi­ca­zione fem­mi­ni­sta nel mondo dell’arte romano. Nei suoi primi anni di vita, furono nume­rose le autrici che tran­si­ta­rono per Rivolta (tra loro Suzanne San­toro, Ste­pha­nie Our­sler, Simona Wel­ler, Eli­sa­betta Gut, Elisa Mon­tes­sori…), fino all’esplodere di un con­flitto che cul­minò con la loro fuo­riu­scita e la nascita della coo­pe­ra­tiva del Beato Ange­lico nel 1976, una delle più signi­fi­ca­tive espe­rienze di col­let­tivi in ambito arti­stico. La «presenza/assenza» delle arti­ste nel fem­mi­ni­smo ita­liano si deli­nea come un aspetto dop­pia­mente rimosso, sia nella sto­ria dell’arte che in quella del fem­mi­ni­smo stesso. Quello che col­pi­sce in par­ti­co­lare nella let­tura del libro di Sera­valli è la resti­tu­zione di un arti­co­lato dibat­tito fem­mi­ni­sta sui temi dell’immagine e dell’arte, che si svi­luppa in par­ti­co­lare attra­verso le pagine di alcune rivi­ste fem­mi­ni­ste, e in misura minore, nei maga­zi­nes d’arte. Attra­verso la let­tura dei testi di arti­ste come Cloti Ric­ciardi e Simona Wel­ler, o di cri­ti­che come Lea Ver­gine e soprat­tutto Anne-Marie Suzeau Boetti, è pos­si­bile ritrac­ciare le pre­messe di una cri­tica fem­mi­ni­sta dell’arte che verrà poi accan­to­nata e dimen­ti­cata nel corso degli anni ottanta. In que­sto qua­dro, riman­gono però sullo sfondo gli scritti di Carla Lonzi che rap­pre­sen­tano forse la cri­tica più arti­co­lata al fal­lo­cen­tri­smo dell’arte, por­tata avanti in modo fram­men­ta­rio e discon­ti­nuo da una posi­zione esterna al mondo artistico. Con­flitti, non ghetti Que­sto aspetto pro­duce un forte impatto soprat­tutto alla luce del fatto che le tema­ti­che fem­mi­ni­ste, nella sto­ria dell’arte, sono con­si­de­rate in Ita­lia per­lo­più come merce d’importazione (anglo-sassone), come se non fosse mai esi­stita una rifles­sione «locale» su que­sti temi. Tut­ta­via – que­sto è forse uno dei limiti di entrambi i testi qui ana­liz­zati – le due autrici fati­cano ad arti­co­lare la vita­lità di quei primi ten­ta­tivi di cri­tica con l’attuale dibat­tito inter­na­zio­nale. Il risul­tato, o piut­to­sto il rischio in cui si imbat­tono, sia Sera­valli che Perna, è quello di rivol­gersi alle espe­rienze ana­liz­zate, senza met­tere dav­vero in discus­sione un qua­dro epi­ste­mo­lo­gico che quelle espe­rienze ave­vano con­te­stato in modo così radi­cale. Il fem­mi­ni­smo è, infatti, preso in esame come una fase sto­rica e molto meno come una chiave di let­tura del mondo e dei rap­porti sociali, e dun­que anche della sto­ria dell’arte e dei suoi metodi. Se è vero che negli anni set­tanta, per la prima volta nella sua sto­ria, il fem­mi­ni­smo ha incon­trato l’arte, que­sto non signi­fica che possa essere con­si­de­rato come un enne­simo «ismo» da aggiun­gere a una sto­ria già con­fe­zio­nata delle ten­denze arti­sti­che del Nove­cento. In que­sto senso, la neces­sità di ripor­tare alla luce il rimosso del nesso tra arte e fem­mi­ni­smo negli anni set­tanta — di cui si fanno carico que­sti volumi — rischia di tra­dursi in un dispo­si­tivo che rin­chiude il con­flitto tra i sessi in un momento sto­rico deli­mi­tato. Come ci inse­gnano le arti­ste e le cri­ti­che d’arte al cen­tro di que­sti libri, la pro­spet­tiva fem­mi­ni­sta ci obbliga a ricon­si­de­rare in una pro­spet­tiva di genere quell’insieme di pra­ti­che, isti­tu­zioni e sog­get­ti­vità che defi­ni­scono l’arte. Nelle nar­ra­zioni fem­mi­ni­ste dell’arte che si stanno affac­ciando nel dibat­tito ita­liano, il dif­fi­cile equi­li­bro tra sto­ri­ciz­za­zione e attua­liz­za­zione for­nirà senza dub­bio ulte­riore mate­ria di discussione.

di Katia Ricci

 

Charlotte Salomon 

“Charlotte Salomon (Berlino 1917 – Auschwitz 1943), giovane artista, ebrea, uccisa nelle camere a gas incinta di tre mesi, ebbe un’esistenza travagliata, ma emblematica per la resistenza che oppose alla barbarie dei tempi e al simbolico patriarcale. In esilio per sfuggire alla persecuzione razzista, riuscì a liberare la sua forza creatrice e a inventare un linguaggio artistico complesso. Il suo capolavoro, Vita? O Teatro? è un’autobiografia di circa 1320 immagini a guache, parole e commento musicale, in cui racconta la sua consapevolezza di donna: condanna il nazismo, senza lasciarsene intimamente schiacciare, individuandone la causa nell’autoritarismo, impersonato dalla figura del nonno, e confuta la concezione maschile dell’arte come dimensione elitaria per un’arte strettamente legata alla vita. Tenendo viva nel ricordo la relazione con la madre biologica, morta suicida, e, nella vita, con la seconda madre, con la sua opera lascia l’esempio di un percorso di libertà, per certi versi simile a quello di Etty Hillesum.”

L’interiorità, lo sguardo dentro

Femminile,plurale.

Rassegna in 3 atti a cura di Alessandra Redaelli.

http://www.biffiarte.it/home.php?evento=247

dal 17 gennaio al 9 febbraio 2014

“Dalla Russia… con colore”, personale di pittura di Olga Polichtchouk, pittrice originaria di San Pietroburgo e residente in Italia.

Con profonda sensibilità e spiccata ironia, Polichtchouk fa incontrare nelle sue tele il mondo degli adulti popolato di oggetti d’uso comune e quello di sogno dell’infanzia, trascorsa nella nativa Russia. L’artista trae ispirazione dalle tradizioni popolari e dalle fiabe della sua terra e le sovrappone a scene di vita quotidiana. Nei suoi quadri, le tradizionali “dacie” (le piccole case di legno per le vacanze usate dalla maggior parte delle famiglie russe) sono popolate da animali domestici, uccelli e pesci che “volano” sulla città, con una ricca varietà di stili e atmosfere ed un sapiente uso dei colori, ora caldi e avvolgenti, ora vivacissimi e contrastanti. In sovraimpressione inserisce scritte in russo che riportano filastrocche e storielle ironiche e poetiche inventate dall’artista.

“Una pittura leggera, piena di colore, divertente e divertita, sorretta da un gesto deciso ed efficace cui fa da contraltare una costruzione del quadro ricca e intricata, che non disdegna di trattare persino i luoghi più comuni (paesaggi e motivi floreali) sempre con spiccata originalità”. (Valentina Carrera).

Olga Polichtchouk nasce nel 1957 a San Pietroburgo, dove completa gli studi artistici e collabora già in giovane età con periodici e riviste come illustratrice. Dopo la laurea a pieni voti nel 1986 alla Facoltà di Arte Industriale, è ammessa come designer al programma spaziale sovietico. Nello steso periodo incomincia un’assidua attività espositiva: è di questi anni la partecipazione al Salone D’Autunno nel più importante spazio espositivo della città, “Il Manege”. Nel 1991 si stabilisce a Milano dove comincia ad esporre grazie all’aiuto di Lino Marzulli, uno dei protagonisti della stagione artistica a cavallo degli Anni Sessanta e Settanta e suo grande amico. Ha insegnato pittura all’Accademia del Tempo Libero presso l’Istituto Gonzaga di Milano, dedicandosi nel contempo alla decorazione di interni. Attualmente fa parte dalla Associazione Italiana Acquerellisti. Numerose le partecipazioni a mostre collettive e personali.

Inaugurazione: 16 gennaio, ore 18.30

La Casa delle culture del mondo
Via Giulio Natta 11, Milano
Orari: martedì-venerdì ore 10-18.30, sabato e domenica ore 14-20