— Fabio Francione, 3.1.2015
Intervista. Un percorso autonomo d’artista natA tra poesia, alchimia e scultura
Angelo Dioniso di Nanni Valentini, una delle ultime acquisizioni del Museo Diocesano di Milano, collocato così a mezzo piano dello scalone d’onore, sembra vestire i panni del custode silente ed ebbro che guida l’accesso alle Collezioni e alle mostre che si succedono nei locali superiori di uno dei Chiostri della Basilica di Sant’Eustorgio. Oggi “Chagalle la Bibbia”, nell’ultimo anno, prima “Terre” di Nanni Valentini e poi “Transiti e incontri” di Gabriella Benedini. Ciò, a conferma di una vocazione diagnostica e riflessiva, da parte del direttore del Museo Paolo Biscottini, in riferimento ad alcune tendenze, non sempre canonizzate, dell’arte contemporanea degli ultimi trent’anni del ‘900. Peraltro, legate sia ad un raffronto con i classici dell’arte del XX secolo sia ad un’idea espositiva che non disdegni di sfondare nei cosiddetti nostri “anni zero” e oltre. Proprio questo è il caso di Gabriella Benedini, ottantaduenne artista d’origine cremonese, che con “Transiti e incontri” ha suggerito un percorso espositivo che avvolge la sua produzione degli ultimi trent’anni ad un corrispettivo, antologico e biografico, impaginato nel catalogo della mostra. La conversazione che segue risale allo scorso mese di luglio.
Il suo è un racconto biografico per immagini. Da una parte le opere, dall’altra il lavoro, la fatica, l’officina dell’artista con tutto il suo reticolo di rapporti e relazioni. Critici, galleristi, committenze, musei, mostre. Questa mostra, “Transiti e incontri”, ne è la sua più manifesta dichiarazione?
Per l’appunto, il mio è un racconto per immagini del lavoro degli ultimi 30 anni. La mostra, infatti, parte dalla metà degli anni ottanta. Deliberatamente ho trascurato tutto quelle che precede quella data.
… che però si recupera nel notevole inserto biografico del catalogo, quasi un libro nel libro …
Sì, è giusto che dica che dalla fine degli anni settanta ho perseguito una ricerca che fosse completamente autonoma. L’informale era finito e per conto mio, lavoravo sulla poesia e in genere sulla letteratura. Ritengo di essere rinata artisticamente proprio negli anni ottanta. Forse anche isolandomi per trovare quelle domande che sembravano allora come oggi assillarmi. Allora ci fu il graduale passaggio alla scultura. Comunque, mi fu cruciale la visione degli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara. Rimasi abbagliata dai mesi dello Zodiaco. Poco tempo dopo la stessa esperienza la ebbi a Mantova, a Palazzo Te. Cominciai a studiare i fenomeni alchemici. Sembrava che quelle immagini così potenti cominciassero ad attrarre il mio lavoro. Non credo che sia stato un caso che qualche anno dopo fui chiamata a lavorare proprio in quelle stanze così intrise di arte, scienza, alchimia. Da lì sono nati i lavori degli ultimi decenni; i cicli i Teatri della ‘melanconia’, i Pendoli del tempo, i Goniometri, i Sestanti , le Costellazioni, e le arpe, le arche, le scritture antiche e i libri-tattili e oggetto. Ma, è altrettanto giusto che si conosca il mio precedente percorso artistico.
A tal proposito gli inizi sono stati difficili oppure è riuscita ad integrarsi immediatamente nell’ambiente artistico nazionale?
Ho frequentato la Brera di Aldo Carpi. Ho tentato di agire nell’ambiente artistico milanese. Erano i tempi, tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, del cosiddetto Realismo esistenziale. Bepi Romagnoni e Mario Raciti erano tra i miei amici. Ma, era un contesto chiuso e maschilista. Si trovavano tra di loro. Non si perdeva occasione per saltarmi addosso e lo dico con il senso del tempo che è passato, allora però ero una ragazza non da buttare. Non veniva preso in considerazione nessun altro aspetto. A me, però, interessava solo l’aspetto artistico.
Ha praticato un femminismo ante-litteram …
Preistoria. Però, a metà degli anni settanta con il collettivo Metamorfosi, eravamo quattro artiste tutte con una loro specifica traiettoria artistica che fu alla base poi dello scioglimento del gruppo, affrontai con acquisita consapevolezza tutte le tematiche e i contesti sociali”al femminile”.
Tornando agli inizi. Era quello un periodo di grande trasformazione. L’Italia poverissima, uscita a pezzi dal tragico epilogo del ventennio nero, s’apriva alla cultura europea. Si cominciavano a conoscere le nuove tendenze artistiche, anche d’Oltreoceano e a ripensare le ormai esangui avanguardie storiche, filosofiche con l’esistenzialismo, e ancora gli scrittori che avevano rivoltato da capo a piedi il romanzo ottocentesco …
Avevo trovato lavoro come illustratrice. Disegnavo da sempre. Anche in Italia, mentre studiavo, disegnavo per riviste destinate ai ragazzi. Era un paese che aveva bisogno di tutto. Se ti rendevi utile, lavoravi. Poi è finita la pacchia. Andai a Parigi. E poi mi sposai. Cominciai con mio marito Giorgio a viaggiare. Mi era molto d’aiuto. Fu lui a suggerirmi di sperimentare con la cinepresa super8 con i quali ho realizzato “Doprenoi” e “Diutop”.
Viaggi che, a leggere le mete e i gli anni, paiono leggendari: Marocco, Africa nera, Pakistan, Afghanistan.Luoghi frequentati nello stesso periodo da Burroughs, Chatwin e Boetti. Per fare qualche nome.
Furono viaggi avventurosissimi, anche rischiosi. In auto, in treno, in posti impervi. Nel ’71 trascorremmo due in Afghanistan. Non sapevo di Boetti. Allora si viveva e si dormiva. Eravamo spericolati. Andammo in Pakistan, attraverso la Siria, l’Iraq, il su dell’Iran. Tra il ’75 e il ’75 dal Marocco, sbarcati a Ceuta da Marsiglia, attraversammo in macchina il Sahara, il Senegal e in treno fino in Nigeria. Non avevo seguito un percorso accademico, né riconoscevo maestri. Era mio interesse conoscere posti nuovi e come le persone di quei paesi si esprimevano. Poi, filmavo tutto. Esploravo ciò che poi è diventato per me un discorso ecologico che trovò ragione concreta nel film “Diotup”, che utilizza la materialità di oggetti di plastica, umiliati e pronti ad essere modificati in una scultura d’aria, embrione gigante sottoposto a trasformazione.
Dove fu girato il film?
Fu girato, tra l’inverno del ’71 e la primavera dell’anno dopo, in condizioni fortunose a Rosignano Solvay, con il serpentone d’aria che si espande grazie al banale trucco di gonfiare il materiale di plastica con le emissioni del tubo di scappamento della mia auto.
Dunque, pare di capire che il suo è stato un percorso originale, quasi appartato, sebbene consapevole di appartenere ad un mondo dell’arte come dire all’italiana.
Sono andata sempre avanti, debbo dire che la mia solitudine artistica è stata centrale per la mia ricerca. Ho dovuto attendere molto prima di avere spazio nei musei. Ma in tutto questo tempo, ho fatto incontri con persone straordinarie.
Nota Biografica
Gabriella Benedini è nata a Cremona nel 1932. Frequenta a Parma l’Istituto d’Arte Paolo Toschi e trasferitasi a Milano si diploma all’Accademia di Brera. Lavora nell’editoria per ragazzi come illustratrice, sul finire degli anni cinquanta va a vivere a Parigi. Tornata a Milano espone con la Galleria Bergamini e frequenta i pittori del Realismo esistenziale. Tra la fine degli anni sessanta e la metà degli anni settanta alla ricerca di un proprio linguaggio artistico viaggia molto, in Africa e in Asia. Nel1972 sperimenta il cinema realizzando due film in super 8 Doprenoi e Diutop. Con Alessandra Bonelli, Lucia Pescador e Alessandra Sterlocchi costituisce il Gruppo Metamorfosi. Scioltosi il gruppo sposta la sua ricerca verso la scultura. Cicli come le Storie della terra-Mutazioni (1977–1980), i Teatri della ‘melanconia’ (1984), i Sestanti (1992), le Costellazioni (1993). E poi installazioni come Il teatro di Persefone (1985) e le Arpe (1991). Dell’Estate del 2014 è la mostra “Transiti e incontri” al Museo Diocesano di Milano.
di Pina Nuzzo

La presentazione a Milano, il 20 dicembre scorso, della biografia “Meret Oppenheim, afferrare la vita per la coda” di Martina Corgnati era un’occasione da cogliere al volo. Il libro era stato presentato una settimana prima al Maxxi di Roma, ma ho preferito fare un viaggio fino a Milano perché l’evento che si è tenuto presso la Libreria delle Donne era organizzato dall’Associazione “Apriti cielo” con cui sono entrata in contatto via Facebook. Circostanze che mi facevano immaginare un incontro ravvicinato con un’autrice che apprezzo, in un luogo politico significativo.Partendo dalla mia esperienza di pittrice avevo avuto modo di riflettere sulla donna come spettatrice dell’arte. Visitando mostre e musei mi ero fatta diverse domande su quello che guardavo e sul suo significato, ma per uscire dal mutismo in cui regolarmente sprofondavo ho dovuto superare tutte le informazioni e le nozioni di cui siamo tradizionalmente in possesso e che condizionano il nostro sguardo. Ho sempre trovato insopportabile la pretesa di assegnare alle opere un linguaggio asessuato che parlerebbe indifferentemente agli uomini e alle donne. Solo quando ho accettato di ascoltarmi davvero di fronte all’opera d’arte ho cominciato a pormi come una spettatrice sessuata. L’ho potuto fare grazie alla pratica politica del partire da sé. Così ho potuto leggere la grandezza di un artista, ma nel contempo capire di quali privilegi abbiano goduto gli uomini nella costruzione della storia dell’arte, primo fra tutti quello di porsi come soggetto nel mondo e di usare il mondo come oggetto di rappresentazione, di farlo legittimati da una genealogia.
Il saggio di Martina Corgnati “Artiste. Dall’impressionismo al nuovo millennio”(Mondadori 2004) ha rappresentato una conferma autorevole per il mio punto di vista. Non posso non citare un passaggio cruciale: “Le stesse “arti belle”, con i nudi e altre iconografie ricorrenti, da sempre saldamente in mano a uomini, hanno contribuito non poco ad alimentare l’ideologia e l’immagine della donna-oggetto, sessualmente disponibile, debole, nutritiva, vicina alla natura e passiva. Un’ideologia tanto forte, fino a pochi decenni fa, da condizionare non solo gli artisti, ma anche le loro rarissime colleghe e il loro pubblico, “misto” di fatto ma esclusivamente maschile nel giudizio. Alla fruitrice infatti, come all’artista, si offrivano due sole possibilità: identificarsi con lo sguardo maschile, rinunciando al proprio punto di vista, oppure con l’oggetto del desiderio, la modella, la musa, assumendo quindi una posizione in qualche misura masochista, svuotata di qualsiasi potere di formulare un’immagine autonoma.”
Dovevo andare a Milano.
“E’ circolata tanta energia oggi in Libreria e una gradevole impressione di vero ascolto e scambio di saperi” ha commentato “Apriti Cielo” su Facebook ad incontro concluso. Confermo, è stato uno di quei rari incontri in cui ci si parla per davvero. A cominciare dalle relatrici che si sono spese con generosità.
Ha aperto i lavori Zina Borgini di “Apriti Cielo” che ha voluto fortemente l’iniziativa per l’ammirazione nei confronti di Meret Oppenheim, icona di donna vissuta fuori dagli schemi, libera da ogni etichetta artistica, ideologica e di genere; per stima nei confronti di Martina Corgnati che aveva già lavorato sulla figura dell’artista e curato dopo la morte la prima retrospettiva italiana al Palazzo delle Stelline a Milano (1998/99). E ha voluto che la presentazione avvenisse presso la Libreria delle Donne, luogo con cui ha una relazione di lunga data.
Cristina Giudice, storica dell’arte e docente – come Martina Corgnati – dell’Accademia Albertina di Torino, introducendo ha ricordato che le artiste sono state spesso penalizzate dalla critica dell’arte del novecento; chi è riuscita a ritagliarsi uno spazio, ad essere riconosciuta, ha fatto scelte di cui poco sappiamo. Raccontate raramente. La ponderosa biografia di Martina Corgnati permette, invece, di conoscere meglio una figura complessa come Meret Oppenheim che, giovanissima, sapeva di volersi dedicare all’arte ed era già consapevole della ricaduta che l’essere donna avrebbe avuto sulla sua ricerca artistica. Decide di non avere figli. E quasi a suggellare un patto con sé stessa dipinge un quadro: l’angelo sterminatore.
E’ una donna che tiene alla propria libertà anche contro i suoi stessi sentimenti e non teme di andare controcorrente, contro le convenzioni sociali del suo tempo. Di questo e di tanto altro parla la biografia, un volume di cinquecento pagine che si legge con grande piacere e che si torna a consultare, come ha detto Cristina Giudice che si è anche soffermata sulla qualità della scrittura di Martina Corgnati. Perché non si tratta solo di scrittura bella, ma di aver saputo restituire la propria competenza, lo sguardo sull’artista e la relazione con la nipote, Lisa Wenger, depositaria delle carte di Meret – lettere, appunti, documenti – che sono materia viva e inedita della biografia.
Foto di Pinuccia Barbieri
da http://laboratoriodonnae.wordpress.com


dal16 dicembre al 30 dicembre 2014
Until Next Morning. Le opere esposte, tutte inedite, presentano la ricerca dell’artista negli ultimi 2 anni; si tratta di tecniche miste su carte di grande formato che sono il luogo di un paesaggio interiore.
a cura di Gianluca Ranzi
La Fondazione Mudima dal 17 al 30 dicembre presenta la mostra “Simona Caramelli. Until Next Morning” a cura di Gianluca Ranzi. Le opere esposte, tutte inedite, ripercorrono la ricerca dell’artista negli ultimi due anni e sono principalmente tecniche miste su carte di grande formato in cui la matericità della carta e le sue caratteristiche evidenziano le dinamiche profonde da cui muove l’ispirazione al lavoro.
Per Simona Caramelli il quadro diventa il luogo di un paesaggio interiore in cui il predominio del bianco e del nero è la traccia di una ricerca introspettiva portata avanti con determinazione e senza inibizioni.
Il titolo della mostra “Until Next Morning” fa riferimento a quel senso di sospensione e di continua attesa che è presente nel lavoro dell’artista e ben rappresentato in mostra da opere come quelle del ciclo “I”, che sta per insonnia, una condizione sofferta dall’artista e che ha dato origine alla produzione notturna di queste cinque grandi carte. Qui le piegature della carta, le sue lacerazioni e la sua “storia” diventano il simbolo delle dinamiche interiori che la pittura riesce a materializzare, mantenendo pur sempre una forma aperta, irrefrenabile e magmatica. Come scrive Gianluca Ranzi: “In queste opere l’idea ricorrente di una finestra sbarrata che apre sulle dinamiche interiori e cerca di trattenere una nebulosa di pittura e energia allo stato puro (I #2, 2014, acrilico e collage su carta, 175×150 cm.), assume una grande efficacia espressiva pur senza mai rinunciare a un sapiente controllo formale e a una caratteristica riduzione minimale della composizione”.
Il rapporto con lo spazio è quindi articolato e complesso, come avviene nelle ultime carte chiamate genericamente e programmaticamente “Untitled”, in cui la figura si allarga a macchia d’olio sul foglio lasciando margini di non-finito e vuoti d’immagine in cui la pittura galleggia, scorre in rivoli ed esplode nello spazio. In queste recentissime opere (come nel caso di Untitled, 2014, acrilico su carta, 140×180 cm.) la ricerca di Simona Caramelli assume la forza di un flusso inarrestabile che dal basso spinge verso l’alto il contenuto del suo inconscio, usando un segno incisivo e violento che libera e dà voce allo stato informe della materia e delle memorie, spingendolo fino alla soglia dell’evidenza formale e li trattenendolo come in una fugace apparizione restituita perennemente alla vista. In questo caso il “senza titolo” rimanda infatti a qualcosa che va oltre il quadro stesso e di cui ne costituisce la sorgente.
Nel ciclo intitolato “Hand” l’immagine fotografica di una mano inguantata intrisa di pittura viene riprodotta in serie su lastre di ferro o sdoppiata e triplicata su carta: se arcaiche sono la temperatura del colore e la lontananza dell’immagine moltiplicata, attualissima è la conturbante efficacia del simbolo del fare e della poiesi, di quel gesto liberatorio e sfrontato che sottintende tutta la ricerca dell’artista.
Simona Caramelli è nata a Pistoia nel 1969. In passato è stata attrice per il teatro ed il cinema collaborando con i più importanti registi italiani. Vive e lavora a Roma. Tra le mostre personali e collettive si segnalano: UNTIL NEXT MORNING, Fondazione Mudima, Milano a cura di Gianluca Ranzi (dicembre 2014); PREMIERE, Galleria PrimoSpazio, Foligno a cura di Piero Tomassoni (maggio 2010); mostra collettiva presso la Galleria PrimoSpazio, Foligno a cura di Piero Tomassoni (aprile 2010); MiArt Milano, galleria PrimoSpazio (marzo 2010), BLIND DATE, 420 Roma, collettiva indipendente (giugno 2009).
Immagine: Simona Caramelli_Untitled_2014_acrilico su carta_cm 140×180
Ufficio stampa
Irma Bianchi Comunicazione
Tel. 02 8940 4694 – info@irmabianchi.it
Inaugurazione 16 dicembre alle 18.30
Fondazione Mudima
via Tadino, 26 – Milano Lombardia Italia
Orario: lun-ven 11-13 e 15-19.30
Ingresso libero
Dal 17 dicembre 2014 al 15 febbraio 2015
Oltre 100 fotografie b/n ripercorrono tutta l’opera dell’artista, dall’inizio negli anni ’90 come fotografa nei Balcani ai suoi ultimi lavori ad Almeria. Le sue immagini analizzano i temi del confine, della vulnerabilita’ e del corpo.
la Fondazione Stelline presenta la personale di Vanessa Winship organizzata dalla Fundación Mapfre di Madrid: oltre 100 fotografie in bianco e nero ripercorrono attraverso un’ampia panoramica tutta l’opera dell’artista, dall’inizio della sua carriera, giovane fotografa nei Balcani, fino ai suoi ultimi lavori ad Almerìa.
Vanessa Winship è un’artista polivalente, i cui lavori analizzano la profondità dei temi della frontiera dell’identità, della vulnerabilità e del corpo, il tutto in uno spazio geografico ricco di intensità ed emozioni, dove l’instabilità dei confini va di pari passo con il mutare dell’identità storica contemporanea.
Le sue serie offrono uno spunto di riflessione su come il corso della storia riesca a modellare le forme del paesaggio e a lasciare il segno sui corpi dei suoi abitanti, ma anche sulle loro caratteristiche e sui loro gesti. Il viaggio e i suoi incontri con l’”altro” sono temi fondamentali della sua vita e della sua fotografia. Un paesaggio umano, che si impone sui conflitti politici e sociali ed emerge tra le rovine di mondi in decadenza. Un recente passato (edifici, sculture commemorative e mezzi di trasporto) procede in direzione opposta alle persone che si muovono tra di esse. La Winship descrive la componente mitica e leggendaria di questi luoghi e allo stesso tempo li destabilizza. Vengono certamente evocati gli eventi storici che hanno segnato queste regioni, ma la Winship pone l’enfasi più alta sulla microstoria di ognuna di esse: le attività del tempo libero, gli interni delle scuole, le condizioni di lavoro e le diverse forme di socializzazione e di culto religioso.
Le fotografie realizzate fino al 2011 tracciano una mappa personale dei confini dell’Europa e dei loro punti di contatto con l’Asia.Il suoparticolaremetodo di lavoro ha dato origine a serie come “Imagined States and Desires: A Balkan Journey”, “Black Sea: Between Chronicle and Fiction”, “Sweet Nothings: Schoolgirls of Eastern Anatolia” e “Georgia. SeedsCarried by the Wind”, che uniscono spazio pubblico e privato, concentrandosi su un evento e sulla costruzione di un ritratto in posa.
“Ospitare un’artista come Vanessa Winship è come fare un itinerario in un mondo che muta, nei confini e nella percezione storica dell’evoluzione –dichiara PierCarla Delpiano, Presidente Fondazione Stelline. Il tema del cambiamento alla vigilia di Expo2015 è particolarmente attuale nella Milano di oggi che diventa metropolitana. Come si intuisce nel dibattito culturale: grandi eventi, contaminazione, apertura. Grazie alla Winship abbiamo la possibilità di vedere ritratta la storia che cambia nei confini e nell’identità, particolarmente contestuale al momento storico che viviamo”.
Nel 2011, la Winship è stata la prima donna a ricevere il prestigioso premio Henri Cartier-Bresson per la fotografia. Il suo progetto vincente è stato “Shedances on Jackson. UnitedStates”, una serie che si concentra sui segni del declino dell’American Dream, visibile sia sulla superficie della terra che nelle caratteristiche umane e nel linguaggio del corpo. Nel 2014, su incarico della FUNDACIÓN MAPFRE, la Winship si è recata ad Almería (Spagna), per rappresentarne la notevole diversità geografica, lo sradicamento e la storia fatta di alterne vicende. Questi ultimi due progetti rivelano una progressiva scomparsa delle forme umane e l’emergere di un paesaggio che diventa eloquente attraverso il suo apparente silenzio e la sua immobilità. Il senso di un territorio di frontiera, la vulnerabilità della terra e il peso del passato, suggeriti dalla serie “Almería. Where Gold WasFound”, mettono questa regione in connessione con le altre parti del mondo su cui si è posato lo sguardo fotografico di Vanessa Winship.
Vanessa Winship (nata a Barton-upon-Humber, Regno Unito, nel 1960) è oggi uno dei nomi più acclamati della fotografia internazionale. Il suo stile non è meramente documentario, ma si concentra su temi quali la frontiera, l’identità, la vulnerabilità e il corpo. Sin dagli anni ’90, la Winship ha lavorato in diverse aree geografiche, tra cui i Balcani, il Mar Nero e il Caucaso, che nell’immaginario collettivo sono luoghi associati all’instabilità e ai tempi oscuri del recente passato e alla mutevolezza dei confini e delle identità.
Ufficio stampa
Andromaca Eventi e comunicazione
Valentina Morelli 338 5600375 valentina.morelli@andromaca.it
Opening 16 dicembre ore 18.30
Fondazione Stelline
Corso Magenta 61 Milano
Orario: martedì / domenica, 10 – 20 (chiuso lunedì)
Biglietti: intero € 6; ridotto € 4,50; scuole € 2
dal 20/11/2014 al 14/2/2015
Galleria Raffaella Cortese
via A. Stradella, 7- Milano
02 2043555 FAX 02 29533590
Nei film, nelle performance, nelle installazioni e nei dipinti di Rosier tutte le storie nascono dalla danza e dalla musica. Il lavoro di Wilcox presenta un interesse per il racconto soggettivo e i modi in cui la storia e’ sempre in divenire, tessuta di eventi, mito, memoria, associazioni.
Raffaella Cortese è lieta di presentare la seconda mostra personale dell’artista francese Mathilde Rosier.
Nei film, nelle performance, nelle installazioni e nei dipinti di Mathilde Rosier, tutte le storie nascono dalla danza e dalla musica. Il suono, la mimica del corpo e i disegni simbolici fanno in modo che le narrazioni non abbiano bisogno delle parole: il lavoro sfugge alle descrizioni razionali e alla comprensione immediata, pur rimanendo ancorato al reale.
La mostra di Mathilde Rosier subisce l’influsso della sua esperienza tra danza e gestualità, in relazione alla rappresentazione narrativa dello spazio e del tempo. Dopo aver dedicato buona parte della sua pratica artistica indagando una possibile fusione del mondo animale con l’essere umano, la sua ricerca più recente è focalizzata sulla figura umana e in particolare sulla rappresentazione del movimento. Negli ultimi lavori è evidente la volontà di infondere forza vitale ai dipinti e ai collage, strettamente legati alle sue performance in cui il suono, il corpo e l’azione diventano elementi inscindibili.
Una serie di collage di grande formato, raffiguranti dei danzatori, saranno la cornice della performance che Rosier presenterà all’opening della mostra nello spazio di via Stradella 4. I corpi dei danzatori sono frammentati da ritagli, i cui contorni si riferiscono a movimenti precedenti o successivi. Le figure dei ballerini diventano quelle di acrobati: è da questo concetto che Rosier ha iniziato a lavorare sull’arte del cadere.
La nozione di caduta implica una perdita del comune senso di percezione, una confusione che porta a un momentaneo smarrimento d’identità personale e collettiva, anche in relazione alla condizione socioeconomica attuale in Francia e non solo. Ma la mancanza di equilibrio come momento di disturbo può anche essere l’occasione per una rinnovata comprensione e una sorta di guarigione: è solo una questione di attitudine alla caduta.
In galleria, al numero 7, saranno esposte opere su carta realizzate in dimensioni reali per consentire a chi guarda di immedesimarsi nella caduta degli acrobati, affinché il rapporto con l’opera diventi più fisico che intellettuale.
Mathilde Rosier (FR, 1973) vive e lavora a Berlino. Recenti mostre e performance sono state ospitate da: Galleria d’Arte Moderna di Milano (2014, a cura di Francesco Bonami), Dortmunder Kunstverein (2012), Kunstverein Hannover (2012), Kunstpalais Erlangen (2011), Camden Arts Centre di Londra (2011), Museo Abteiberg Mönchengladbach (2011), Serpentine Gallery (2010), e Museo Jeu de Paume di Parigi (2010, a cura di Elena Filipovic).
Tafter.it • Cultura è sviluppo
Apre ad Umeå, in Svezia.
Il primo museo rigorosamente femminista aprirà domani i battenti a Umea, nel nord della Svezia. La struttura è “unica ed è il solo museo al mondo dedicato al ruolo della donna nel passato, nel presente e nel futuro“, ha spiegato la sua direttrice, Maria Perstedt.
Un orientamento che lo distingue nettamente dagli altri musei dedicati alle donne e alla loro storia. Inaugurato in una città capitale europea nel 2014, e vicino al circolo polare, il museo ha l’ambizioso obiettivo di far sentire la voce delle donne e di “descrivere e provocare le idee, le norme, e le strutture che limitano oggi le scelte e possibilità delle donne e degli uomini”.
Secondo Perstedt, che ha aderito al progetto lanciato nel 2010, l’assenza di prospettive femministe negli altri musei svedesi ha lasciato uno spazio per far riflettere il grande pubblico su queste questioni. Perstedt conta di creare “un museo vivente”, un luogo di incontri e dibattiti.
Interamente finanziato dal comune, il museo non espone una collezione permanente: offre ai visitatori due mostre temporanee, una sull’invecchiamento e l’altra intitolata “Radici”.
L’ingresso è gratuito.
Consulta il sito del KVINNOHISTORISKT MUSEUM
Fonte: ASCA
dal 19 novembre – 2 dicembre 2014
Il Goethe-Institut Mailand
Vi invita alla mostra
Parva sed apta mihi – due donne, una scelta
Museo Studio Francesco Messina Via San Sisto 4/A, Milano
Ingresso libero
parva sed apta mihi – due donne, una scelta
Eva Sørensen e Elisabeth Scherffig
Due mostre con lavori di Eva Sørensen e di Elisabeth Scherffig presentate da cramum e Fondazione Giacomo Pardi presso lo Studio Museo Francesco Messina del Comune di Milano e con il patrocinio del Goethe-Institut Mailand e del Consolato Generale della Repubblica Federale di Germania.
Eva Sørensen e Elisabeth Scherffig, due donne, due artiste straniere che hanno fatto della scelta di vivere in Italia, dell’arte e della cultura la chiave della propria esistenza e realizzazione.
I curatori – Sabino Maria Frassà e Andi Kacziba – hanno scelto di intitolare questo ciclo di mostre monografiche con la locuzione latina che il poeta Ariosto fece apporre all’ingresso della sua ultima dimora. Qui Ariosto trovò la sua dimensione, apta per completare l’Orlando Furioso.
Così Eva Sørensen ed Elisabeth Scherffig hanno trovato nel nostro Paese il luogo in cui sintetizzare le proprie origini in uno sviluppo artistico unico, accomunato dalla centralità del tratto, che diventa forma, disegno e materia.
Dopo la mostra con i lavori di Eva Sørensen, dal 21 ottobre al 2 novembre, il 18 novembre 2014, alle ore 18.30, inaugura la mostra con i lavori di Elisabeth Scherffig.
Elisabeth Scherffig nasce a Düsseldorf in Germania nel 1949. Vive e lavora a Milano dal 1971. Ha esposto in sedi istituzionali e gallerie private a Milano, Venezia, Düsseldorf, Londra, New York.
Elisabeth Scherffig con il suo Mappamondo spinge l’analisi al di là dell’apparenza. L’artista mappa il suo mondo attraverso attente sovrapposizioni stratigrafiche, calchi in porcellana e strappi di seta, che restituiscono la complessità e completezza delle sue città (Milano e Düsseldorf), della strada che percorre ogni giorno, dei suoi pensieri.
Orari d’apertura:
martedì – venerdì: ore 10.00 – 14.00
sabato: ore 14.00 – 18.00
Informazioni:
Tel. 02 86453005 – info@cramum.org
di Rossella Porcheddu
in Letterate Magazine, LM Home, Mostre, Parole/Visioni |
«L’arte non è fatta per essere posseduta» diceva Arturo Martini. Una frase impressa nella memoria di Maria Lai, sua allieva all’Accademia di Venezia, come raccontato in un video in mostra al Palazzo di Città di Cagliari. Non è in quello spazio, però, che ci si rende conto di quanto l’opera dell’artista sarda appartenga al luogo che l’ha vista nascere e che ha stimolato i suoi giochi di bambina.
È Ulassai, con le sue montagne e i suoi precipizi, a restituirci quel respiro che Maria Lai ha sempre cercato. E sebbene l’Ogliastra sia solo la seconda tappa di Ricucire il mondo, esposizione che ripercorre l’intera produzione dell’artista scomparsa nell’aprile del 2013, a noi sembra fondamentale partire da lì. Senza inseguire un arco temporale, piuttosto tracciando un percorso emotivo.
Ne La strada del rito pani, uccelli e pesci di pietra si rincorrono per circa sette chilometri. All’ingresso del paese, un muro alto venti metri accoglie Le capre cucite. È l’arte che dialoga con la natura, senza prendere il sopravvento su di essa, anzi, amalgamandosi ad essa.
Maria Lai, La scarpata
Si estende per trenta metri di altezza e ottanta di lunghezza La scarpata, realizzata nel 1993 per abbellire una muraglia contenitiva. Naturale è la disposizione delle pietre, altrettanto quella degli elementi in acciaio ossidante, che il vento, intervenuto a disturbare le fasi del lavoro, ha scombinato, modificando il progetto iniziale. Ed è ancora il vento a infilarsi tra le braccia del dio che si erge immobile nel Parco Eolico di Ulassai, nell’opera La cattura dell’ala del vento. Ed è l’uomo che non vuole piegare la natura ed è la natura che coadiuva l’uomo (senza voler dare alcun giudizio, in questa sede, sulla funzionalità delle pale, che tante polemiche hanno generato).
Maria Lai, La cattura dell’ala del vento
Se questi interventi ambientali ci restituiscono un’artista in ascolto della natura, c’è un’altra opera, tra quelle che compongono il Museo all’aperto, più raccolta, più intima. Addentrandoci nel paese, troviamo nella chiesa parrocchiale di Sant’Antioco quindici pannelli con le stazioni della Via Crucis. Un po’ di muffa a ricordare il tempo che passa e grovigli di fili per stilizzare la croce, per raccontare la fatica, per accennare il corpo morente. Pochi tratti per raccontare la Passione. Ed è così anche per la Sindone che troviamo al Museo Man, dove la mostra si è già conclusa (alla Stazione dell’Arte di Ulassai e al Palazzo di Città di Cagliati c’è tempo, invece, fino al 2 novembre). Adagiato a una parete, il lenzuolo è attraversato da una linea verticale che conduce al fulcro, un volto senza lineamenti, fatto di capelli, di barba e di spine.
Ed è importante sottolineare che quella di Cristo è una delle poche fisionomie umane che popolano l’arte di Maria Lai, più vicina all’informale che al figurativo. Ha fattezze umane anche Maria Pietra, protagonista di una delle favole cucite, offerta nel museo nuorese a una fruizione tattile. Guanto su una mano, le pagine di stoffa si possono toccare e sfogliare, mentre la voce di Maria Lai racconta la storia scritta da Salvatore Cambosu. Storia di una donna con abilità che vorrebbe non avere. Storia di una madre che piangendo il figlio morto impasta bambini di pane. La condizione femminile è indagata in Donne al loro posto del 1975, piccola teca con donne in gabbia esposta a Cagliari, e in una delle più celebri fiabe cucite, Il Dio distratto, esposta al Man, che vede le janas sussurrare nelle orecchie delle donne parole di libertà. E dal momento che lo sguardo di Maria Lai è raramente autoriferito, è un piacere scoprire in una piccola saletta, le Autobiografie: cornici a contenere scritture illeggibili, grovigli di fili a cadere oltre il bordo, per un timido racconto di sé.
Passando attraverso le sale del Palazzo di Città, dove, bisogna dirlo, l’allestimento non giova certo all’esposizione, s’incontra la prima produzione, i disegni, i presepi, i telai, i Pupi e le Geografie, che rimandando a luoghi e a mondi altri, puntando all’infinito da cui tutto proviene.
Salendo le scale del Man vediamo libri cuciti, telai di pietra, le carte da gioco – I luoghi dell’arte a portata di mano – per fare arte, leggere l’arte, ridefinire l’arte, e alcune foto di Legarsi alla montagna, intervento collettivo che ha visto la partecipazione dell’intero paese di Ulassai.
E se la mostra al Man, che tocca la produzione più matura, è sicuramente la più riuscita, per ideazione, allestimento e illuminazione, è alla Stazione dell’Arte di Ulassai, che per l’occasione ha riproposto l’allestimento di apertura dello spazio espositivo, nel 2006, che si conserva una delle opere più significative: Invito a tavola, realizzato per Pitti Immagine Casa nel 2004. Opera d’arte che viene offerta allo spettatore con un rituale, simile ad un invito a cena.
Tre luoghi. Tre spazi espositivi. Tre mostre per un’unica artista: un ricco banchetto per ogni invitato. A nutrirci sono quei primi segni di matita, è la curva di una pancia che culla un bambino. Sono le linee che puntano all’infinito, le regole cercate e le fiabe tramandate. Sono le parole aggrovigliate e non scritte, per quel gioco di detto e non detto di cui parlava Heidegger.
«L’arte non è fatta per essere posseduta» diceva Arturo Martini, e Maria Lai ha fatto suo questo assioma. E a ricordarcelo resta, sopra ogni cosa, l’immagine dei nastri che stringono ogni casa di Ulassai all’altra e infine ricongiungono il paese alla montagna, per chiedere pace. Un’opera di cui non restano tracce visibili, se non nella memoria di chi vi ha preso parte e nelle immagini in bianco e nero di quel nastro azzurro, simbolo dell’arte, che può rendere l’uomo libero.
da www.libreriamo.it
Donne e Arte, intervista a Elena Bordignon, Art blogger e fondatrice di ATPdiary
Fin dal passato, le donne hanno ricoperto un ruolo molto importante nel mondo dell’arte: numerose sono state ritratte dagli artisti, alcune erano artiste loro stesse, altre sono state collezioniste e mecenati. La nostra indagine sul mondo dell’arte al femminile muove le fila da queste considerazioni e vedrà coinvolte, per sei settimane consecutive, le donne italiane che ricoprono un ruolo di spicco nel panorama dell’arte contemporanea. Per avere una visione generale, abbiamo pensato di porre le stesse domande a tutte e sei le protagoniste, cogliendo così i diversi punti di vista. Solo l’ultima domanda è personalizzata per ognuna
MILANO – Fin dal Rinascimento, uno dei periodi più fiorenti per quanto riguarda l’arte e la cultura, le donne hanno assunto un ruolo di primissimo piano nel contesto artistico, grazie alla loro raffinatezza, al gusto, al potere economico. Isabella d’Este, moglie di Francesco II Gonzaga fu ad esempio l’unica nobildonna italiana ad avere uno studiolo, a riprova della sua fama di dama colta, che preferiva gli interessi intellettuali e artistici a uno stile di vita frivolo. Nello studiolo Isabella vi radunò i pezzi più pregiati delle sue collezioni, con opere del Mantegna, di Perugino, del Correggio. Nel seicento una delle figure chiave è Artemisia Gentileschi, pittrice della scuola caravaggesca, divenuta simbolo del femminismo internazionale a causa, suo malgrado, dello stupro subito. Anche un’altra artista ha avuto una vita non poco travagliata ma nonostante ciò, è riuscita a guadagnarsi un posto privilegiato nel mondo dell’arte: Frida Kahlo. Questo per dire che le donne hanno sempre saputo ritagliarsi il proprio spazio, diventando celebri tanto quanto i colleghi maschi. Cosa dire di Ileana Sonnabend, gallerista e mercante d’arte, tra le più celebri protagoniste dell’arte del XX secolo o di Peggy Guggenheim, collezionista d’arte statunitense, che ha dato il via ad un vero e proprio impero?
Settimana scorsa abbiamo intervistato Ilaria Bonacossa, curatrice e Direttrice del Museo d’arte contemporanea Villa Croce a Genova. Tutte le interviste sono a cura di Daniele Perra.
La donna protagonista di questa settimana è Elena Bordignon, Art Blogger, fondatrice di ATPdiary. Photo Credit: Linda Fregni Nagler.
Chi sei? Descriviti.
Sono una giornalista che si occupa da oltre un decennio di arte contemporanea. Attualmente dirigo un blog/magazine d’arte contemporanea. Iniziato come un diario online ATPdiary è diventato la mia “ragione professionale”. Chi sono? Un’editrice sui generis.
Qual è il ruolo delle donne nel mondo dell’arte italiano? Differenze con l’estero?
Carismatico, intenso e determinante. Così descriverei il ruolo delle donne – penso alle artiste, alle curatrici, alle direttrici di museo e alle tante galleriste italiane – che affrontano un sistema (dell’arte nello specifico) fatto di e per soli uomini. Non voglio difendere una categoria, non credo nelle differenze di genere: nulla toglie che nell’essere umano apprezzo per lo più l’aspetto femminile. Non credo ci sia una sostanziale differenza tra il sistema italiano e quello straniero. Sia per quanto riguarda il giornalismo, la curatela, la professione di galleriste; direi che la credibilità italiana sia eguale che all’estero. Ovviamente per quanto riguarda le artiste, non possiamo contare su presenze importanti come Cindy Sherman, Louise Bourgeois e Shirin Neshat, solo per citarne alcune, ma abbiamo validissime artiste riconosciute e stimate all’estero: penso a Paola Pivi, a Vanessa Beecroft e alla grande Marisa Merz. Nel ruolo di direttrici di galleria, abbiamo molte donne capaci e “di carattere”: Paola Capata, Federica Schiavo, Francesca Minini… la lista potrebbe continuare, sia per l’alto livello del lavoro, sia per il notevole sostegno che queste donne attuano nel sistema dell’arte italiana. Ce ne fossero di più…
Essere una donna, aiuta? Pro e contro.
Credo che la sensibilità e l’intelligenza femminile siano enormemente differenti rispetto a quelle maschili. Banalmente ritengo – e ne sono abbastanza certa – che le donne abbiano caratteristiche fisiologiche ed emotive molto più adatte alla società contemporanea: adattabili, generose e “materne”. Non so se aiuta o no, so solo che sono molto consapevole dei sottili atti discriminatori che le donne subiscono quotidianamente, non solo nella società (ancora di forte valenza maschilista), ma anche e soprattutto nell’ambiente familiare e domestico. Figuriamoci nelle aziende… Il grande “contro” dell’essere donne è avere la consapevolezza di essere “superiori” agli uomini per una ragione: siamo meno portate a discriminare. Un uomo sciocco è uguale a una donna sciocca. Una donna intelligente è uguale a un uomo intelligente (solo che una donna intelligente dà molto più “fastidio”).
Un libro, un artista, un fotografo che hanno cambiato la tua vita.
Per il libro, sicuramente “Post Mortem” di Albert Caraco. Per quanto riguarda l’artista, direi Rembrandt. Ho visto un suo quadro dal vivo a Vienna decenni fa ed è stato sconvolgente. Per quanto riguarda un fotografo, direi un mio caro zio – mancato quando era poco più che adolescente. Lui è stato la prima persona che mi ha fatto scoprire la “magia” della fotografia analogica.
Che cosa suggerisci a chi vuole intraprendere la tua carriera?
Studiare, viaggiare, “curiosare”. Mai come ora apprezzo le persone preparate culturalmente. Bisognerebbe capire fin da giovani l’importanza dello studio, anche accademico. Poi, una volta adulti e impegnati professionalmente, non si riuscirà più a concentrarsi nell’apprendimento. Soprattutto nel campo dell’arte contemporanea, essere preparati, conoscere, viaggiare per vedere mostre, musei, progetti, fiere ecc. è di estrema importanza.
Progetti futuri?
Non ne sono molto sicura, ma lavorare in un vivaio è uno dei progetti futuri che più mi rendono serena. Ovviamente temo che resterà un “sogno nel cassetto”… ma non si sa mai la vita cosa può riservare. Nell’immediato futuro professionale – per rispondere in maniera più realistica – ho in servo di migliorare e ampliare ATPdiary come testata giornalistica. Spero di avere l’energia e risorse concrete per poterlo fare.
Hai fondato il primo blog d’arte. Quali sono state le difficoltà? Come sei stata accolta nel mondo dell’arte?
Non ci sono state vere e proprie difficoltà. Direi che è stato faticoso imporre ATPdiary come un “serio” e veritiero portavoce dell’arte contemporanea. All’inizio non era considerato professionale e/o attendibile. Ma con il tempo, un lavoro costante e la massima serietà professionale, da “blog” ATPdiary è diventata una testata giornalistica d’arte che, senza timore, può stare accanto alle tante altre nel panorama italiano. Ne è la dimostrazione il fatto che parteciperà alla fiera d’arte di Torino, Artissima, come rivista online (unica nel suo genere).
Ovviamente è stata molto dura e ho lavorato (e sto attualmente lavorando) sodo per aumentare la visibilità e la professionalità di quello che, all’inizio, era considerato uno “scherzo” editoriale. Amici anche molto stretti, non hanno mai creduto nelle potenzialità delle riviste online. Forse perché troppo passatisti o non sufficientemente aperti a un nuovo modo di fare e diffondere informazione. All’oggi, ci sono Università, Istituti Superiori e Accademie che mi hanno invitato a raccontare la storia di ATPdiary. Ne sono molto orgogliosa e fiera. In generale il mondo dell’arte mi ha accolto con un po’ di ostilità ma, alcune realtà (pochissime) hanno creduto in me fin dall’inizio, sostenendomi anche economicamente. Devo a loro se ATPdiary è diventato un portale d’arte contemporanea con migliaia di visitatori al giorno.
In ogni caso, il “bello” deve ancora venire!
6 novembre 2014
Daniele Perra
dal 13 al 21 novembre 2014
Camera del Lavoro. Corso di Porta Vittoria 43. Milano Sala
Cesare Riva presso FLC. 2° piano
COMUNICATO STAMPA
da Antonella Proto Giurleo
la memoria storica della buona politica e la necessità di non poterne
prescindere per il futuro di una società democratica
Cristina Rossi
Accade che un’ex insegnante si rechi al sindacato della scuola e
scopra che, per il congresso, sono stati stampati dei quaderni
particolarmente eleganti.
Accade che, tenendo in mano un quaderno, la mai sopita passione per
la carta si riaccenda ( in realtà non si è spenta mai).
Accade che un’idea frulli: ” Perché, se esistono i libri
d’artista,
non inventare i quaderni d’artista?”
Il quaderno non resta solo, la segreteria Flc ne consegna altri.
Una piccola compagine di artiste viene coinvolta e, memore dei
quaderni di scuola, si lancia in un’avventura che porta con sé il
confronto tra la memoria e la politica ( o, forse, sarebbe più
corretto dire, dati i tempi, la memoria della politica?).
I quaderni, esposti nella Sala Cesare Riva, costituiscono scrigni di
memoria, diari di lavoro, intrecci di culture, itinerari di viaggio,
idealità mantenute. Sfogliarli, con delicatezza, costituirà, per le
visitatrici e per i visitatori, un viaggio ideale tra tempo, spazio,
ricordi e speranze.
Mostra: collettiva
Titolo: Quaderni d’artista
Artiste: Giuliana Bellini, Ludovica Cattaneo, Fernanda Fedi, Gretel
Fehr, Ornella Garbin, Nadia Magnabosco, Marilde Magni, Antonella Prota
Giurleo, Evelina Schatz, Dana Sikorska, Rosanna Veronesi
Luogo: Camera del Lavoro. Corso di Porta Vittoria 43. Milano Sala
Cesare Riva presso FLC. 2° piano
Inaugurazione: Giovedì 13 novembre 2014 alle ore 18 con interventi di
Caterina Spina, segretaria Flc di Milano, e Cristina Rossi, giornalista
Durata: sino a venerdì 21 novembre
Orari: giovedì e venerdì ore 10 – 12 e 17 – 19; per le scolaresche
occorre prenotare.
Curatrice: Antonella Prota Giurleo
Informazioni: Antonella Prota Giurleo a.protagiurleo@email.it 347 03 12
744
Pina Giorgio pinagiorgio2013@gmail.com 3392217378
dal 14 novembre 2014 al 6 gennaio 2015
Comunicato Museo Pecci
Promosso da Comune di Prato e Regione Toscana
Museo Pecci Milano, Ripa di Porta Ticinese 113.Milano
SUZANNE LACY
Gender Agendas
14 novembre 2014 – 6 gennaio 2015
Inaugurazione: giovedì 13 novembre 2014 ore 19.00
La mostra di Suzanne Lacy a Milano è una produzione del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, promosso da Regione Toscana e Comune di Prato in accordo con lo SpazioBorgogno. La produzione delle opere dell’artista è resa possibile grazie al sostegno di Franco Soffiantino. Partner tecnici Romagna Fiere e Studi d’Arte Cave Michelangelo.
In attesa della riapertura della rinnovata sede di Prato, prevista per la primavera 2015, il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci riparte con una nuova stagione nella sua succursale distaccata milanese, il Museo Pecci Milano, che ha sede in Ripa di Porta Ticinese 113. Con l’occasione dà il via ad una nuova linea di investigazione, dedicata a protagonisti dell’arte internazionale che abbiano svolto ricerche pionieristiche negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Sarà Suzanne Lacy, dal 14 novembre 2014 al 6 gennaio 2015, ad aprire la serie con una mostra retrospettiva tematica, intitolata Gender Agendas.
La mostra offre per la prima volta in Europa un’ampia presentazione delle opere dell’artista di Los Angeles, conosciuta come uno degli autori che fin dai primi anni Settanta, nella West Coast, hanno compiuto un lavoro cruciale mescolando l’arte emergente con l’impegno sociale. La sua attività spazia dalle esplorazioni del corpo alle riflessioni intime, fino alla strutturazione di grandi manifestazioni pubbliche che coinvolgono decine di artisti e migliaia di spettatori. È quest’ultima la parte che costituisce il filo conduttore principale della mostra, seguendo uno dei leitmotiv della sua ricerca: l’indagine sulla condizione femminile, talvolta svolta in modo più intimo, altre volte attraverso una forte carica politica e civile, nella considerazione del potere dell’arte come strumento di lotta e di promozione di idee libertarie e progressiste.
Nella mostra, curata dal nuovo direttore Fabio Cavallucci in collaborazione con Megan Steinman vengono presentati alcuni dei lavori in cui l’artista ha toccato i temi cruciali per la condizione femminile: lo sfruttamento sessuale e la violenza, l’invecchiamento e la considerazione che i media hanno della donna anziana, le questioni sociali che vanno dal razzismo alle condizioni di lavoro e di classe. Temi che se negli anni Settanta e Ottanta erano provocatori e avanguardisti, sono ancora oggi all’ordine del giorno. L’arte diviene così uno strumento utile, da una parte per scavare più profondamente i significati e le aspirazioni personali di tutte le centinaia di anonime performer che altrimenti non avrebbero accesso ai sistemi di comunicazione, dall’altra per portare ad evidenza pubblica, attraverso l’amplificazione dei media, le tematiche dei movimenti di liberazione femminili.
La mostra raccoglie i riadattamenti di alcuni tra i lavori più importanti di Suzanne Lacy. Tra questi Prostitution Notes, (1974), in cui svolgeva un’indagine sulle prostitute e sul loro sfruttamento in alcune aree di Los Angeles, con interviste nei bar e nei locali da loro frequentati. In Three Weeks in May (1977), l’artista, in accordo con la polizia di Los Angeles da cui riceveva informazioni riservate, indicava con la scritta rossa RAPE su una mappa della città i luoghi in cui avvenivano violenze sessuali contro le donne: la carta si arrossava giorno per giorno mostrando visivamente la drammaticità del problema. In Mourning and In Rage (1977) è un lavoro in cui Suzanne Lacy, insieme ad altre attiviste, nel momento in cui a Los Angeles c’era stato il brutale strangolamento di dieci donne per opera di un serial killer, si presentò davanti al municipio della città con dieci figure femminili, coperte dalla testa ai piedi con tuniche nere, ciascuna a denunciare altri tipi di violenza sulle donne, spostando la copertura dei mass media da un focus su specifiche storie delle vittime, alla cultura generale della violenza. The Crystal Quilt (1985-1987) è forse l’opera più celebre, quella con cui la Tate Modern ha deciso di aprire il nuovo spazio The Tanks dedicato all’arte performativa nel 2012. Quest’ultima performance, rappresentata ora da un time-lapse di pochi minuti, si svolse nella hall di uno shopping mall a Minneapolis, coinvolgendo 460 donne di età superiore ai sessant’anni, sedute ai tavoli disposti secondo il disegno di una grande tovaglia realizzata da Miriam Shapiro che discutevano tra loro mescolando le proprie esperienze e i propri ricordi con analisi sociologiche sul mancato utilizzo delle potenzialità della vecchiaia. Ogni dieci minuti le donne erano invitate a cambiare la posizione delle loro mani sulla tavola, modificando così il disegno della grande tovaglia. Alla fine della performance anche l’audience entra sullo stage, scompone le forme geometriche dei tavoli, trasformando l’austero ordine in una forma caleidoscopica di colori. Non mancano poi lavori più recenti, come Full Circle (1994) nel quale l’artista espone monumenti in pietra dedicati a donne importanti di Chicago e Storying Rape (2012), una discussione svolta nella City Hall della città di Los Angeles tra importanti personalità dei media, dell’associazionismo e della politica, per cercare di individuare una diversa narrativa per descrivere la violenza sessuale, che ponga la società di fronte al problema con uno sguardo meno blando. Si aggiunge infine una sezione di archivio, video e cartaceo, in cui si mostra la multiforme personalità dell’artista, con molti lavori, compresi quelli iniziali legati alle tematiche del corpo e della carne.
Suzanne Lacy si manifesta così come una pioniera che ha anticipato tanti aspetti divenuti tipici dell’arte degli anni successivi, compreso l’arte partecipativa degli anni Novanta, quella congerie di tendenze in cui il pubblico entra a far parte dell’opera, poi definite da Bourriaud “estetica relazionale”.
Con l’occasione sarà realizzato un apposito catalogo, primo di una serie pubblicata da Mousse, che riassume l’intero percorso di Suzanne Lacy, con testi di Sally Tallant, direttrice della Biennale di Liverpool, un’intervista a Suzanne Lacy realizzata da Fabio Cavallucci, e la riproduzione di gran parte dei lavori prodotti dall’artista dagli anni Settanta ad oggi.
Milano, ottobre 2014
INFORMAZIONI
MOSTRA: SUZANNE LACY. Gender Agendas
DURATA: 14 novembre 2014 – 6 gennaio 2015
Inaugurazione: giovedì 13 novembre 2014 ore 19.00
Sede: MUSEO PECCI MILANO
Ripa di Porta Ticinese 113 Milano
Orari: Da martedì a domenica dalle ore 12.00 alle ore 19.00
Chiusa il lunedì
Ingresso libero
Informazioni: Tel. 02-36695249-40 www.centropecci.it
Mostra promossa da: Regione Toscana e Comune di Prato
Prodotta da: Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato
In accordo con SpazioBorgogno
Partner: Franco Soffiantino
Partner tecnici: Romagna Fiere e Studi d’Arte Cave Michelangelo
Ufficio Stampa mostra:Maria Bonmassar
maria.bonmassar@gmail.com
ufficio + 39 06 4825370 cellulare + 39 335 490311
Ufficio stampa Centro Pecci: Ivan Aiazzi i.aiazzi@centropecci.it
ufficio + 39 0574 531828 cellulare + 39 331 3174150
di Francesca Balboni
Visitando la mostra di un’artista austriaca ho rivissuto una dimensione della mia vita alla quale sono inevitabilmente molto legata. Tale dimensione è ben descritta in alcune parole tratte dal libro Volere un figlio di Silvia Vegetti Finzi dove l’autrice scrive: «La donna porta, nella procreazione, tutta se stessa: non solo il corpo, ma i pensieri, gli affetti, la sua storia, prossima e remota». In queste parole credo sia racchiuso il forte messaggio che mi è arrivato guardando la mostra Relationships di Regina Huebner, presentata al pubblico durante la Giornata del Contemporaneo a cura dell’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani. Sono ormai molti anni che seguo il percorso artistico di Regina Huebner e ogni volta che vado ad una sua mostra mi sorprende la sua capacità di esplorare, magari inconsapevolmente, l’animo femminile. Forse mi sorprende perché ritrovo me stessa in alcune sue opere. Profondamente femminili, perché il tema dei suoi lavori e delle sue installazioni gioca spesso sulla sfera intima delle relazioni più prossime, quelle familiari. Forse la stessa artista ne ha avuto conferma, chiudendo il cerchio (nelle sue opere il cerchio e la sfera sono peraltro ricorrenti) col suo ultimo lavoro.
Una conferma l’ho certamente avuta io. Relationships rappresenta il punto d’arrivo, la sintesi forse, di un percorso dove l’esperienza della maternità ha avuto un ruolo fondamentale.
Una maternità che immagino vissuta talvolta in solitudine, “tessendo” gli attimi di vita e imprimendoli nella memoria, così come l’artista sembra aver rappresentato in un suo lavoro dove tesse un lunghissimo filo che dall’alto in basso crea una trama in verticale. E qui mi vengono nuovamente in mente alcune parole di Silvia Vegetti Finzi che ha dedicato una vita intera a studiare la dimensione materna: «Spesso lasciate troppo sole, le madri faticano a nominare le proprie emozioni» (tratto dall’articolo comparso sul Corriere della Sera). Alcuni dei lavori di Regina Huebner li ho sempre ricondotti ad un percorso temporale. Ritraggono un principio, così come viene descritto dall’incedere dei passi che vediamo riprodotti in un video molto suggestivo dal nome Journey II, che compare nella home page del suo sito internet (proprio in questi giorni è stato eletto tra i lavori finalisti del premio Terna 06 e a dicembre sarà esposto a Torino presso l’archivio di Stato nell’ambito del Contemporary Arts), e nella lunga tessitura il cui lavoro vuole forse ritrarre la trama della sua vita.
Il trascorrere del tempo e delle esperienze sono narrati, inoltre, in altri lavori fortemente simbolici, come ad esempio il video dove scorre, goccia dopo goccia, il latte materno (il bellissimo lavoro dell’artista rappresenta lo scorrere incessante del latte materno, quasi a voler raccogliere una quantità immensa di “liquido vitale”), oppure l’installazione dove una bambina (la figlia dell’artista) muove i suoi primi passi dell’infanzia disegnando un cerchio immaginario. Ed ancora la riproduzione di un mare capovolto che avanza e si ritira incessantemente, senza soluzione di continuità, che sembra voler esprimere la complessità della vita. I lavori vengono talvolta anche riproposti in sovrapposizione.
Relationships, che è la più recente raccolta dell’artista, appare infine il riassunto di un percorso, intensamente vissuto, qui espresso dal punto di vista artistico, a chiusura di una fase della vita in cui la maternità sembra aver costituito l’elemento preponderante e che ha molto probabilmente portato l’autrice , nel corso del tempo, a scoprire e ridisegnare la propria dimensione di figlia. Dopo aver tessuto ogni attimo, con l’intensità dei sentimenti, talvolta anche contraddittori, dopo aver nutrito col latte materno, dopo aver capovolto ripetutamente la propria prospettiva di vita per poter dare una forma possibile ad un percorso talvolta accidentato, come può essere quello di una madre; dopo aver maneggiato le rotondità della materia, che forse ci vuole rimandare al ventre materno e alla luna luminosa (come rappresentato nel video dove due mani accarezzano e maneggiano una sfera di ghiaccio che sembra appunto una luna) è possibile ripercorrere il proprio cammino. Dopo avere intensamente vissuto l’esperienza di madre l’artista può ritrovare le sue radici, senza le quali tutto il suo vissuto non sarebbe stato possibile, e le cerca in qualcosa che recupera dai suoi ricordi di bambina, cioè dei centrini e delle stoffe arricchite da pizzi che le ricordano il suo passato e la casa materna. Anche in questo caso, sembrano rinviare simbolicamente alla complessa trama della vita e che sembrano mostrare, ancora sgualciti, un percorso, quello di sé da ragazza, non del tutto compiuto.
La distanza data dalla lontananza fisica dalla famiglia di origine ha forse permesso all’artista di svolgere un percorso unico di crescita che ha consentito una rilettura adulta dei legami familiari, costruendo per se stessa una dimensione solida della propria personalità. Con un impatto riepilogativo della fase artistica e di vita, rappresentata dalla raccolta di opere contenuta in Relationships, viene poi inserito un nuovo elemento che porta con sé una importante valenza collettiva: Regina Huebner decide di condividere la propria esperienza, e di trarne un arricchimento per se stessa, chiedendo ad alcuni amici più vicini di scrivere una lettera da rivolgere ai propri genitori, una alla madre e una al padre.
Mi è parsa un’ idea coinvolgente e interessante tanto da immaginarla aperta a chi voglia, insieme ai commenti, provare a scrivere qualche riga come se dovesse indirizzarla alla propria madre o al proprio padre. Una parte del progetto Relationships, che è ancora agli esordi, potrebbe ricevere spunti certamente interessanti dagli interventi che appariranno su questo blog.
Questo articolo è frutto di una mia riflessione guardando i lavori della mostra “Relationships” di Regina Huebner. Le immagini e le opere artistiche citate sono di © Regina Hübner.
La riproduzione è consentita a condizione che sia citata la fonte.
http://27esimaora.corriere.it/articolo/quando-larte-comunica-il-femminile/
dal 1/10 al 15/11/2014
Galleria Monica de Cardenas, via Francesco Vigano’, 4- Milano
I dipinti di Bjerger sono ispirati a fotografie trovate, principalmente raccolte da riviste, libri e guide di viaggio. I dipinti di Streuli attingono a elementi di opere pittoriche della storia dell’arte europea e americana, ma anche a forme astratte, decorazioni e oggetti della vita quotidiana
Nella Project Room siamo felici di annunciare la prima mostra in Italia della pittrice svedese Anna Bjerger.
I dipinti di Anne Bjerger catturano lʼattimo fuggente e hanno una grande forza evocativa. Si ispirano a fotografie trovate, principalmente raccolte da riviste, libri e guide di viaggio. Lʼartista utilizza la capacità della fotografia di cogliere lʼazione e il movimento. Dipingendo queste immagini, salva dei momenti che altrimenti andrebbero persi per sempre, e li ricrea in pittura, il mezzo in assoluto più duraturo nel tempo. La sua pittura è ricca e fluida e conferisce unʼatmosfera emotiva alle scene di vita rimosse dalle loro origini.
Le immagini scelte spesso hanno delle qualità generiche di esperienza comune, ma il chi, il quando e il dove resta sempre ambiguo, non specificato. I momenti rappresentati sono spesso piacevoli – come bambini che giocano in un campo, una coppia che passeggia in una foresta – ma anche passeggeri, sfuggenti. Bjerger coinvolge lʼosservatore, facendolo diventare uno spettatore reale della scena. Questo è accentuato in “Snap”, in cui una donna punta la telecamera verso lo spettatore. In molte delle sue opere tuttavia cʼè una sensazione di intrusione, quasi di voyerismo, di essere testimoni di momenti privati ed intimi. Questo ruolo dello spettatore viene sottolineato in “Jumper”, che ritrae una classica scena da voyeur: una donna che si spoglia, vista attraverso la finestra. Ha una figura perfetta e la vista momentaneamente coperta dalla maglia che si sta togliendo. Eʼ una situazione carica di erotismo ma anche un poʼ ridicola – una fantasia adolescenziale ricorrente – e Bjerger sottolinea il nostro sguardo vorace con il suo modo di dipingere seducente e la composizione raffinata.
Anne Bjerger è attratta da immagini che fondono lʼanonimo con il familiare, creando spunti di narrazioni. “Attraverso la pittura posso cambiare la gerarchia allʼinterno dellʼimmagine e creare una versione diversa dellʼistante registrato dalla fotografia” dice “La fisicità della pittura, la struttura variabile della superfice e lʼattenzione alle dimensioni servono ad intensificare lʼesperienza dello sguardo.”
Anna Bjerger è nata a Skallsjo in Svezia nel 1973. Ha studiato a Londra al Central St. Martins School of Art e poi al Royal College of Art. Il suo lavoro è stato esposto in numerose mostre in Scandinavia, in Inghilterra e negli Stati Uniti.
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Christine Streuli
Siamo felici di annunciare una nuova mostra di Christine Streuli negli spazi della nostra galleria milanese.
Per i suoi quadri lʼartista svizzera trae spunto da un patrimonio infinitamente ampio di situazioni visive, cui la sua pittura attinge liberamente: vi si trovano elementi di opere pittoriche della storia dellʼ arte europea e americana, di cui è una grande conoscitrice, come pure forme astratte, decorazioni e motivi di culture extraeuropee, elementi della vita quotidiana, immagini tratte da pubblicità, salva- schermi o erbari antichi.
Immagini, suggestioni, motivi provenienti da culture differenti si incontrano e convivono sulla tela, dando vita a qualcosa di completamente nuovo, carico di unʼenergia vitale incontrollata e difficile da arginare. Nelle sue mostre recenti le pitture di Streuli tendono infatti a straripare dal quadro e invadere la parete e lo spazio reale, dialogando con lʼarchitettura. Nelle sue mostre recenti al Kunstmuseum di Lucerna e allʼ Haus am Wannsee a Berlino ha creato ambienti totalmente immersivi, volti ad attivare una partecipazione piena e personale da parte del pubblico.
Le opere di Streuli dispiegano i loro alti livelli di energia anche attraverso segni astratti di velocità, colore e spazialità. Citazioni, ripetizioni ed effetti specchiati animano lo spazio pittorico e sono altrettanto spontanei quanto sofisticati nella pianificazione e nellʼ esecuzione. Lʼarista segue il principio di “uno e lʼaltro” piuttosto che “lʼuno o lʼaltro”, lavorando sia in superfice che in profondità; combina parti libere e spontanee con elementi grafici molto ordinati e organizzati, così che ogni nuova opera genera lʼimpressione di una totale simultaneità di aspetti disparati. Per questo i dipinti di Streuli possono essere letti anche come metafore della comunità informatica globale, che con la sua disponibilità senza limiti pone nuove sfide ad ogni singolo individuo.
In questa mostra dal titolo “Ickelackebana” presenterà anche un ciclo di piccoli dipinti realizzati in lacca su alluminio, che con una pittura molto fluida rappresentano arrangiamenti floreali giapponesi “Ikebana”.
Nata a Berna nel 1975, Christine Streuli ha studiato a Zurigo e a Berlino e negli ultimi anni ha vissuto tra Berlino, Londra e New York. Nel 2007 ha rappresentato la Svizzera alla Biennale di Venezia, nel 2008 ha esposto al Kunsthaus Aarau e ad ArtUnlimited a Basilea, nel 2009 al Kunstverein Oldenburg, nel 2010 al Museum Marta Herford a Herford in Germania, nel 2013 al Kunstmuseum a Lucerna e allʼHaus Am Waldsee a Berlino, questʼanno ha partecipato alla Biennale a Sydney.
Immagine: Christine Streuli, Believer, 2008, Acryl und Lack auf Baumwolle, 100 x 150 x 5 cm, courtesy the artist, Foto: Jens Ziehe, Berlin
Inaugurazione 1 ottobre alle 18.30
Galleria Monica De Cardenas
via Francesco Vigano’, 4 – Milano Lombardia Italia.
Orario: martedì – sabato 15 – 19
Ingresso libero
Dal 11 ottobre 2014 – 15 febbraio 2015
Sophie Calle. MAdRE
a cura di Beatrice Merz al Museo di Rivoli
vedi anche
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/10/19/sophiecalle50.html?ref=search
Un nuovo importante progetto di mostra segna la marcia di avvicinamento del Castello di Rivoli al traguardo dei suoi primi trent’anni di attività. Ancora una volta una rassegna internazionale che vede, come è tradizione del Museo, qualcosa oltre la semplice collaborazione con un artista prestigioso quanto, piuttosto, una vera e propria sfida, un confronto da parte dell’artista stesso con un luogo carico di storia, da mettere in relazione con le proprie storie e narrazioni, col vissuto personale divenuto oggetto d’arte e di ricerca. È il caso della grande mostra che il Castello dedica alla celebre artista francese Sophie Calle, protagonista indiscussa della scena artistica mondiale, la quale propone un progetto interamente site-specific per le sale auliche al secondo piano della Residenza Sabauda. Il concept di mostra si articola sullo sviluppo di due importanti progetti che l’artista ha posto in essere da diversi anni: Rachel, Monique e Voir la mer. Il confronto tra questi importanti progetti propone due percorsi insieme distinti e uniti, includendo opere incentrate sui temi dell’affetto e dell’emozione, sulla morte, sull’analogia madre|mare alla base del titolo della mostra: un mare che accoglie e accomuna, copre e investe un’immensità di sentimenti ed emozioni contrastanti.
L’artista lavora da sempre intorno a temi quali il distacco da una persona cara, la rottura amorosa, la vita intima in generale riuscendo a rendere in modo efficace oltre alle emozioni anche il lato filosofico, la riflessione che queste suscitano, accompagnando l’elaborazione culturale del vissuto personale attraverso un’organizzazione così precisa da risultare quasi ossessiva fatta di oggetti, video e testi: sorta di mise-en-place e di organizzazione teatrale senza spettacolarizzazione scenica. Un processo di appropriazione per immagini dove anche il visitatore, quando ritenga di essersi perduto, può ritrovare un percorso e alla fine farlo proprio come in un romanzo a ruolo.
Sin dalla fine degli anni Settanta Calle lavora con metodi provocatori e assai controversi, mettendo in stretta relazione le proprie emozioni con le fasi e gli accadimenti della sua vita personale. La mostra al Castello di Rivoli rivela il lato di “accumulatrice d’immagini” dell’artista insieme alla sua capacità di rendere le stesse del tutto essenziali, al limite del minimale; diremmo emozioni allo stato puro.
L’aspetto emozionale dell’opera dell’artista non ne oscura tuttavia il tratto analitico; gli interrogativi su cosa significhi non vedere, cosa sia il non vedere. In altri termini una riflessione filosofica sul cos’è che non vediamo, sul ruolo giocato dai legami e dai ricordi, sul paradosso della natura che accoglie, che crea e distrugge, sulla cecità che crea incoscienza e sulle assenze di visione determinate dagli aspetti definitivi di un distacco. Vi è un aspetto epico nell’opera di Sophie Calle che si identifica bene nell’affrontare il tema della tragedia quotidiana rendendo condiviso il proprio dolore personale, con effetto insieme liberatorio e mnemonico.
Rachel, Monique
è un palinsesto di opere che vede la luce a partire dalla ripresa in video della morte della madre dell’artista. Dalla Biennale di Venezia del 2007, dove venne esposto il solo video, l’opera si è evoluta costantemente nel tempo accumulando elementi e ricordi quasi in forma di diario a ritroso, incrementando il corpus di opere dell’artista che sarà esposto nelle sale storiche e ampiamente decorate del Castello ricamando una sorta di nuovo dialogo tra le memorie di un luogo storico e gli oggetti cari alla madre o meglio oggetti e parole che traggono linfa vitale dal ricordo e si trasformano in oggetti d’arte. Calle stessa precisa l’oggetto della propria analisi affermando “Mia madre amava essere oggetto di discussione. La sua vita non compariva nel mio lavoro e questo la contrariava. Quando collocai la mia macchina fotografica ai piedi del suo letto di morte – volevo essere presente per udire le sue ultime parole ed ero intimorita che potesse morire in mia assenza – esclamò: ‘Finalmente’”.
Voir la mer
Video installazione appositamente concepita per la sala 18, che ha visto negli anni alcuni tra i più significativi progetti site specific per il Castello di Rivoli. Ancora l’artista introduce bene il progetto “A Istanbul, una città circondata dal mare, ho incontrato persone che non l’avevano mai visto. Li ho portati sulla costa del Mar Nero. Sono venuti a bordo dell’acqua, separatamente, gli occhi bassi, chiusi, o mascherati. Ero dietro di loro. Ho chiesto loro di guardare verso il mare e poi tornare indietro verso di me per farmi vedere questi occhi che avevano appena visto il mare per la prima volta”. Calle cattura sentimenti, felicità e sgomento attraverso l’attimo in cui i protagonisti le si rivolgono dopo diversi minuti impiegati a “contemplare” una cosa mai vista. Mai vista per il doppio ostacolo della disabilità che non concede loro di vedere con gli occhi e della condizione sociale che ha negato loro fino a quel punto di potersi immergere – loro nati e vissuti in una città di mare – nella percezione del mare, in una diversa modalità di visione. In una città abbracciata dal mare in pieno ventunesimo secolo l’artista trova e invita le persone, che mai hanno oltrepassato il limite fisico, a uscirne per riportarvi lo stupore del non visibile. Un vecchio, una bambina e una donna con un bambino in fasce accoglieranno i visitatori nella sala, con volti stupiti che non vedono ma parlano in modo diretto e frontale.
Vita, avventure e morte di Francesca Woodman
da http://www.doppiozero.com
dal 23 ottobre 2014 al 20 novembre 2014
IL CIELO SULLA TERRA
Spazio Donizzetti50 Via Donizzetti 50 MONZA
LeoNilde Carabba, l’alchimista della luce, esporrà un’estesa scelta di opere in una personale di ampio respiro allo spazio Donizetti, 50 a Monza. Oltre alle opere pittoriche di vario formato e di varie epoche sarà esposta, per la prima volta in Italia, la cartella di grafiche “Materia Mistica” – stampa digitale a 7 colori con interventi manuali, stampate su carta Fabriano Artistico 300 gr. nell’atelier di Giovanni Leombianchi e con testo introduttivo di Cristina Muccioli che dice: “Della mistica l’autrice sente e condivide profondamente la partecipazione di ogni ente all’essenza trascendente che, appunto, la anima. Si tratta di un logos uranio, di un vero e proprio discorso celeste (aggettivo che nel linguaggio della scienza si attribuisce ai corpi astrali) che porta il Cielo sulla Terra, dentro le sue terre, in quel magma pacificato, luminoso e materico fatto di ocra gialla e rossa, di terra di Siena bruciata e bruno di Van Dyck che reca il nome di Materia Mistica, come a significare che l’anima consiste massimamente nel suo opposto, nella gravità e nella grevità della terra, humus in latino: da lì deriva la parola uomo”. La cartella è già stata esposta con successo presso la GARWAIN Verlag & Kunstprojekte Kallemback di Coblenza (Germania). Sarà a disposizione del pubblico anche il testo di un’intervista a cura di Chiara Cinelli che uscirà nel prossimo numero di Arte Medica.
di Tiziana Plebani
L’esperienza quotidiana e l’arte del vivere ci insegnano che non si superano un dolore, una ferita, un trauma se non attraverso un processo di rielaborazione e consapevolezza che, se affrontato pienamente, conduce a un di più: di sapere, di attenzione, di energia. Ripartire dalla ferita del Mose inflitta alla città, alla laguna e ai suoi abitanti significa dunque non limitarsi a indagare i fenomeni della corruzione e il pericoloso intreccio di politica e malaffare, denunciando i colpevoli: bisogna far sì che la città tutta e i suoi cittadini conoscano ampiamente le caratteristiche del progetto di difesa di Venezia e della laguna dalle acque alte costituito da schiere di paratoie mobili a scomparsa poste alle bocche di porto (MOSE), ciò che ha comportato nella modifica dell’ambiente lagunare, i suoi punti di forza, le ragioni dei suoi sostenitori, le sue debolezze e i rischi. È indispensabile che si conoscano i progetti alternativi, che vennero scartati al tempo, lo studio della società francese Principia, commissionato dal Comune di Venezia e che al tempo stesso esperti, non coinvolti nell’ampio cono grigio di omertà e cooptazione, rendano conto dell’attuale andamento delle maree, delle acque alte e dello stato della laguna. E che soprattutto si spieghi a tutta cittadinanza, anche a quella priva di competenze specifiche com’è la maggioranza, quali sono ora le possibili strade da imboccare: se è indispensabile oramai realizzare il completamento del progetto Mose oppure vi sono reali strategie alternative e compensative. Questo dibattito, non rinviabile e urgente data la situazione di rischio a cui è esposta la città dopo gli scavi alle bocche di porto, dovrebbe essere ampio e coinvolgente tutta la città con assemblee nei sestieri e anche a Mestre.
Ciò che nel passato non è stato fatto – sensibilizzare e coinvolgere i cittadini nella scelta di un progetto di difesa cruciale per la vita della città – va fatto ora, senza perdite di tempo, creando partecipazione reale, circolazione di saperi vitali per la vita di questa città e della sua laguna, facendo rinascere così il senso e il desiderio di una comunità che sa rigenerarsi, autogovernarsi e scegliere il meglio.
26 Giugno 2014
dal 10 ottobre al 20 dicembre 201
Galleria Cardi di Milano Corso di Porta Nuova, 38
Cardi Gallery, galleria d’arte moderna e contemporanea, è lieta di presentare Louise Nevelson: 55-70, una mostra di oltre trenta importanti collage e sculture creati dal 1955 al 1970 che mostrano i risultati stilistici di Louise Nevelson (1899-1988), un’icona del movimento artistico femminile e una degli artisti più rilevanti del ventesimo secolo. Louise Nevelson: 55-70, sarà in mostra a Milano dal 10 ottobre al 20 dicembre 2014.
Louise Nevelson: 55-70 presenta lavori creati dal 1955 al 1970, periodo in cui emerse lo stile modernista tipico dell’artista, caratterizzato da complicati assembramenti di legno e superfici monocrome. Stile che si evolse poi negli anni Sessanta e Settanta quando Nevelson iniziò a incorporare nelle sue opere materiali industriali come plexiglas, alluminio e ferro.
La mostra presenta circa venticinque collage e dieci sculture provenienti da collezioni private di tutto il mondo, tra queste rilievi monocromi di grande formato, sculture da terra, e collage a tecnica mista su carta e su legno con inserti di giornale, pittura, vinile, metallo e altri oggetti trovati.
“Vado verso la scultura e i miei occhi mi dicono quello che è giusto per me”, spiega Nevelson. “Quando compongo, non ho nulla a parte il materiale, me stessa, e un assistente. Compongo proprio in quel momento mentre l’assistente inchioda. Qualche volta è il materiale che prende il sopravvento; qualche volta sono io. Lascio che giochino, come un’altalena. Il mio creare si basa su azione e controazione, come nella musica, tutte le volte. Azione e controazione. È sempre stata una relazione – il mio parlare al legno e il rispondere del legno a me”.
Louise Nevelson (1899-1988) è una delle più importanti scultrici del ventesimo secolo. Attiva nel periodo in cui l’astrattismo espressionista maschile era al suo apice, Nevelson con i suoi assemblaggi e le sculture di grandi dimensioni ha sfidato la convenzione per cui le donne erano escluse dal produrre un’arte potente e di grande formato.
Nevelson nasce a Kiev nel 1899 ed immigra negli Stati Uniti con la famiglia nel 1905. Nel 1920, si trasferisce a New York per perseguire la carriera artistica. Studiando all’Art Students League di New York con Kenneth Hayes Miller e successivamente a Monaco con Hans Hoffmann, Nevelson viene introdotta al Cubismo, al Surrealismo, all’arte Africana, indiana e Pre-Colombiana, tutti movimenti e stili che avranno influenze significative nella sua opera. Le opere dell’artista sono state esposte in gallerie e musei fin dalla prima mostra personale alla galleria Nierendorf a New York nel 1941; ricordiamo tra le altre la prima importante mostra museale Sixteen Americans al Museum of Modern Art di New York nel 1959, e la sua prima grande mostra personale in un museo nel 1967 al Whitney Museum of American Art di New York.
Dal 16 Ottobre al 13 Dicembre 2014
Looking Glass
Three Feminist Ways to Self-Portrait
da: www.rosannaciocca.it
Ciocca Arte Contemporanea Di Rossana Ciocca Via Lecco, 15 20124 Milano
Inaugurazione Giovedì 16 Ottobre ore 18.30
A cura di Raffaella Perna
La mostra Looking Glass: Three Feminist Ways to Self-Portrait propone una riflessione sull’autoritratto fotografico nell’arte femminista italiana degli anni Settanta, a partire dalle opere di tre protagoniste di quella stagione, Tomaso Binga, Nicole Gravier e Paola Mattioli. Tre donne si riappropriano della rappresentazione del corpo e della sessualità, libere finalmente dalla visione e dal desiderio maschili: i lavori di Binga, Gravier e Mattioli muovono dal privato per dare voce a una storia collettiva, rimasta fino a tempi assai recenti esclusa dal sistema dell’arte.
Per le donne, da sempre oggetto dello sguardo e della rappresentazione altrui, l’autoritratto serve infatti a raccontarsi, mettendo in gioco la propria identità e criticando gli stereotipi legati al femminile e al maschile. L’autoritratto fotografico, in particolare, concentra l’attenzione sul doppio ruolo della donna come soggetto e oggetto della rappresentazione: stare nello stesso tempo davanti e dietro l’obiettivo mette a nudo lo scarto esistente tra identità reale e fittizia, e la fotografia diventa il mezzo attraverso il quale scegliere la veste in cui raccontarsi agli occhi dell’altro, assumendo un ruolo attivo nelle dinamiche dello sguardo.
Nell’installazione Mater (1977) Tomaso Binga parte dal proprio corpo nudo, ritratto mentre assume la forma delle lettere che compongono, appunto, la parola “Mater”: crea così un alfabeto gestuale alternativo alla lingua corrente, considerata come una forma di espressione inautentica dalla cui costruzione la donna è rimasta esclusa. Le scritture viventi di Binga costituiscono perciò una radicale alternativa al linguaggio maschile. In Donna in gabbia (1974), poi, Binga denuncia la condizione di subalternità e la mancanza di libertà della donna: si rappresenta infatti dietro le sbarre, come un uccello prigioniero, imboccata da mani maschili, stigmatizzando così il controllo e il potere esercitati dall’uomo, troppo spesso contrabbandati come una forma di cura e protezione volta a tutelare il «sesso debole».
Gli autoritratti della serie Mythes et Clichés (1976-1980) di Nicole Gravier sono una critica agli stereotipi visivi della cultura dominante: l’artista si raffigura mentre simula pose e atteggiamenti tipici del fotoromanzo, appropriandosi dei canoni linguistici e delle inquadrature di questo genere popolare nato in Italia nell’immediato dopoguerra. Così facendo da un lato Gravier esaspera, criticandoli, non solo la banalità e il sentimentalismo del fotoromanzo, ma anche e soprattutto i luoghi comuni della rappresentazione del femminile trasmessi dai media; dall’altro, allo stesso fine, mette in primo piano elementi détournanti che stridono con l’atmosfera «rosa» della foto. Tutto è rappresentato in ambienti intimi come la camera da letto; le pose assunte dall’artista sono rilassate e lo sguardo non è rivolto in camera: lo spettatore è messo nella posizione del voyeur che ha accesso di nascosto a uno spazio privato, sottolineando quanto il processo fotografico, nel rappresentare il corpo, lo oggettualizzi.
La distanza tra l’immagine di sé e quella percepita dagli altri è, anche, al cuore della sperimentazione fotografica condotta da Paola Mattioli a metà degli anni Settanta: la sequenza in mostra, Diana (1977) – che ritrae Diana Bond allo specchio e mentre sitoglie una maschera bianca dal volto – si lega alla pubblicazione del libro Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo, raccolta di materiali individuali ed esperienze collettive di un gruppo di donne impegnato a lavorare sull’immagine del femminile. Nel volume Mattioli presenta anche Donne allo specchio (o Faccia a faccia), una serie che indaga il rapporto della donna con l’immagine riflessa, concepita come un autoritratto corale, in cui l’autrice si identifica con i soggetti ritratti: «In ognuna di loro mi rispecchio anch’io, perché è nell’altra che ritrovo frammenti diversi del mio stesso guardarmi». Lo specchio diviene dunque strumento di un viaggio identitario pensato al plurale.
Tomaso Binga (Bianca Pucciarelli in Menna) è un’autrice di poesia visiva, sonora e performativa. Negli anni Settanta ha assunto un nome maschile in segno di protesta contro le disparità che caratterizzano la relazione uomo-donna. Ha partecipato a numerose mostre personali e collettive; tra queste si ricordano le esposizioni al femminile curate da Romana Loda (Coazione a mostrare, Magma, Il volto sinistro dell’arte e non citi altra misura??), le mostre e le performance realizzate con Verita Monselles (Litanie Lauretane, Poesia Muta, Ti scrivo solo di domenica), la mostra Materializzazione del linguaggio, curata da Mirella Bentivoglio in occasione della Biennale di Venezia del 1978. Tra le mostre recenti si segnalano la retrospettiva Autoritratto di un matrimonio (Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea di Roma), le personali (quante?) alla Fondazione Federico J. Klemm a Buenos Aires (2006), Viaggio nella parola a La Spezia (2007), Scritture viventi (2013) alla Galleria Galeotti, in collaborazione con la Fondazione Filiberto Menna di Salerno e La Fondazione Carima di Macerata, Zitta tu… non parlare! alla Sala Santa Rita di Roma (2014). Dal 1974 dirige l’associazione culturale Lavatoio Contumaciale, che si occupa di poesia, arti visive, letteratura, musica e multimedialità; dal 1992 partecipa, in qualità di vice Presidente, alla gestione della Fondazione Filiberto Menna.
Nicole Gravier ha studiato all’Académie des Beaux-Arts di Aix-en-Provence, dove nel 1971 si è diplomata in Pittura. Si trasferisce definitivamente in Italia nel 1976. A Milano frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera dove si diploma in Pittura. Nel 1979 espone a New York alla Franklin Furnace e in Svezia alla Galerie St. Petri (Lund). Partecipa alla mostra La Pratica Politica alla Galleria d’Arte Moderna di Modena; nello stesso anno il «Corriere della Sera Illustrato», «HERESIS» e «Progresso Fotografico», le dedicano importanti articoli. Nel 1981 è invitata a Kunst in Sozialen Kontext al Museo di Karlsruuhe e la rivista «KunstForum» le dedica la copertina; nello stesso anno partecipa alla mostra Typish Frau (Kunstverein di Bonn, Galerie Philomena Magers e Stadtische Galerie Regensburg [almeno penso]). Il Museo di Vancouver (Canada) la invita a Mannerism – A Theory of Culture. Nello stesso anno partecipa ad Art Socio-Critique (Festival de La Rochelle). Nel 1997 è invitata a Vraiment: Féminisme et Art al Centre International d’Art Contemporain a Grenoble, con trenta artiste donne operanti in Europa e in America negli ultimi vent’anni. Nel 1999 partecipa alla rassegna Beyond the Photographic Frame all’Art Institute of Chicago, che acquista un suo lavoro.
Paola Mattioli si è laureata in filosofia con una tesi sul linguaggio fotografico; è tra i soci fondatori dell’associazione AMICI del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo; collabora – per le immagini – alla rivista «Via Dogana» della Libreria delle Donne di Milano. Ha esposto fotografie in numerose mostre personali e collettive. Tra le principali: Immagini del no (1974); Donne allo specchio (1977); Cellophane (1979); Ritratti (1985); Statuine (1987); Ce n’est qu’un début (1998); Trieste dei manicomi (1998); Un lavoro a regola d’arte (2003); Regine d’Africa (2004); Per-turbamenti (2005); Consiglio di Amministrazione (2006); Oltre Lilith (2006); Arte dell’altro mondo (2006); Alfabeti (2007); Sguardi nella città (2011); Donne Donne Donne (2012). Tra le sue pubblicazioni: Ungaretti (1972); Ci vediamo mercoledì (1978); Cattivi sentimenti (1991); Donne irritanti (1995); Tre storie (2003); Regine d’Africa (2004); Fabbrico (2006); Dalmine (2008); Una sottile distanza (2008); Passi di un’oca sperduta nella neve (2012); Mémoires d’Afrique (2013).
di Chiara Freschi
Sembra non siano tempi facili per i fondi relativi alle scritture e ai saperi delle donne. Capita a Napoli con l’indisponibilità del Fondo di soggettività femminile contenuto alla Biblioteca Brancaccio chiusa al pubblico, ma anche a Cagliari dove il Centro Documentazione e Studi delle Donne rischia la cessazione delle attività.
In questo panorama poco confortante, che ci si augura riesca ad essere rischiarato da soluzioni adeguate, finalmente arriva una buona notizia. Ida Gianelli, curatrice, protagonista dell’arte contemporanea internazionale, che ha diretto per anni il Museo Castello di Rivoli, attualmente consulente del Centre Pompidou, ha scelto di donare il suo fondo privato alla Biblioteca Italiana delle Donne di Bologna.
Più di cinquecento tra libri e riviste (molti dei quali inseriti ex novo nel catalogo nazionale), oltre quattrocento documenti d’archivio (lettere, inviti, flyers, comunicati stampa) interamente dedicati alle artiste presenti sulla scena italiana e internazionale, con un’attenzione particolare al loro complesso rapporto con il femminismo, grazie a pioniere come Carla Lonzi e Carla Accardi. Molti sono i nomi della straordinaria collezione di Ida Gianelli che andranno ad arricchire il catalogo della biblioteca bolognese e che saranno presto disponibili a tutte e tutti: da Artemisia Gentileschi a Laurie Anderson, da Georgia O’Keeffe a Frida Kahlo, da Niki De Saint Phalle a Grazia Toderi, ma anche Meret Oppenheim, Sonia Delaunay, Louise Nevelson.
Per festeggiare l’evento, saranno presentati una mostra bibliografica e il catalogo della donazione. L’appuntamento è il 25 settembre alle 18 a Bologna, nella sede della Biblioteca Italiana delle Donne (Via del Piombo 5). Insieme ad Ida Gianelli e Annamaria Tagliavini saranno presenti Pierangelo Bellettini –Direttore Istituzione Biblioteche, Gianfranco Maraniello- Direttore Istituzione Musei, Maura Pozzati -critica d’arte, Grazia Toderi- artista.