Entrare nel padiglione americano alla Biennale di Venezia di quest’anno è come fare un viaggio.
Joan Jonas ha costruito un dispositivo che pur in sintonia con i temi del curatore Okwui Enwezor, è misurato e poetico. Le cinque stanze del padiglione risultano essere un’unica e coerente opera, che riprende i temi di sue precedenti performance, Reanimation del 2010 in particolare, e brani di video di altri momenti del suo lavoro.
Ecco, una Penelope del proprio lavoro che intesse il suo passato col presente, lo rilegge e gli dà nuova forma. S’intrecciano nella narrazione dei video i fantasmi delle storie che la Jonas ha trovato in Nova Scotia, dove sono stati girati. I fantasmi, dice, sono ovunque. Dunque passato e memoria che ci chiamano, figure evanescenti ma mai spaventose.
I fantasmi sono bambini e ragazzi vestiti di bianco, ad evocare l’iconografia del fantasma col lenzuolo, con i quali per molti sabati si è incontrata a New York in un laboratorio creato apposta per questo lavoro e dove di nuovo sono state girate altre immagini che compongono questa narrazione plurima. La presenza dei bambini svela non solo il femminile ma soprattutto incarna contemporaneamente la coscienza collettiva e la speranza. Già perché se la bellissima mostra del curatore ha un difetto è proprio questo è dura, seria, sorprendente a tratti, ma un po’ senza speranza.
Ma Jonas, come sempre, si dà generosamente non solo nel padiglione, in luglio per tre sere consecutive farà anche la performance. Le varie sale contengono anche alcuni degli oggetti usati durante le performance e poi disegni e disegni. Il tratto duro usato per tracciare i pesci, e in parte anche le api, ricorda certi piatti di Picasso realizzati a Vallauris e un gusto un po’ anni Cinquanta che li rende affascinanti anche quando la natura di cui parla non è addomesticata.
Non manca un omaggio alla città di Venezia: nella sala centrale del padiglione una serie di specchi fatti realizzare a Murano restituiscono la luce di una sorta di lampadario veneziano. L’omaggio è assolutamente coerente col suo lavoro che spesso si è misurato con il doppio, lo specchio che richiama e deforma parti di corpo, volti, persone. Ma è la misura degli specchi ad essere interessante, come in Mirror, performance del 1969, gli specchi si potrebbero portare in mano. Hanno la misura degli specchi degli armadi anni ’60 e non quella gridata e narcisistica delle pareti a specchio che dagli anni ’80 invadono le camere da letto. Un guardarsi e prendere le proprie misure, e i frammenti di ciò che sta intorno, a misura d’uomo, anzi di donna.
Il padiglione ha il pregio di fare un discorso politico in modo poetico, “il personale è politico” del femminismo storico, prende qui una forma aperta che parla a tutti, investendoci della responsabilità verso la terra, gli animali, i nostri figli, e la forma della visione.
La grazia e compiutezza di questo padiglione è stata condivisa dalla giuria della Biennale che alla professoressa emerita dell’MIT Program in Art, Culture and Technology (ACT) ha conferito una menzione speciale.
http://www.domusweb.it/it/arte/2015/05/19/joan_jonas_politicamente_poetica.html
di Silvia Sperandio
VENEZIA – «All The World ‘s Futures» (Tutti i Futuri del Mondo): è questo il tema della 56ma Biennale Arte di Venezia, curata dal nigeriano Okwui Enwezor, che prende il via in uno scenario globale sempre più lacerato, caotico e incerto.
A 100 anni esatti dall’inizio della Prima guerra mondiale e a 70 dalla fine della Seconda, il mondo sembra precipitare nuovamente nel caos: ed ecco l’urgenza, la necessità, come spiega lo stesso Enwezor, di «chiamare a raccolta», in questa Esposizione internazionale, le forze immaginative e critiche di artisti e pensatori, per riflettere sull’attuale «stato delle cose». E intravedere, se possibile, nuovi orizzonti semantici.
La kermesse veneziana, insomma, «torna a osservare il rapporto tra l’arte e la realtà umana, sociale e politica», afferma il direttore della Biennale, Paolo Baratta. Sono 136 gli artisti coinvolti da Enwezor (dei quali 89 al debutto), provenienti da 53 Paesi. E di questi, cinque sono presenti per la prima volta: Grenada, Mauritius, Mongolia, Repubblica del Mozambico, Repubblica delle Seychelles.
Quali pratiche artistiche, dunque, in un’epoca di crescente barbarie e disumanizzazione?
In questa Biennale inquieta, globale e pluralistica, in cui gli artisti si misurano con la memoria (quella dei secoli e quella più recente), le nove grandi sculture bianche di fiberglass che troviamo all’ingresso dei Giardini hanno una valenza quasi simbolica: raffigurano eroi, re e potenti del passato che si ergono imponenti sui piedestalli, scrutando l’orizzonte. Ma la loro monumentalità è solo mera parvenza. Sono infatti figure mutilate, senza testa né braccia, o con il busto spezzato, simulacri del potere ridotti a involucri. L’opera «Coronation Park» (2015) è stata realizzata dagli artisti indiani Raqs Media Collective.
Sono dunque le “rovine” del passato, i simulacri da smantellare nella creazione di nuove possibilità? Il quesito sembra riecheggiare nell’antistante padiglione norvegese, delimitato da vetrate ampie e luminose. All’interno, in forte contrasto, vetri frantumati sono sul pavimento, mentre una decina di maxicornici quadrate e bianche sembrano scagliate con forza alla rinfusa da un misterioso gigante in preda a un raptus. Intanto, nella macroinstallazione di Camille Norment, «Rapture», una vibrazione sembra perforare l’intero spazio.
Voci, rumori, sibili, vibrazioni: i suoni del mondo sono in molti casi co-protagonisti dei lavori esposti, ed è questo un elemento che differenzia questa edizione dalla precedente, curata da Massimiliano Gioni e dedicata al Palazzo Enciclopedico, costellata di silenzi densi.
Perfino le parole tratte dal Capitale di Marx che vengono recitate non stop nell’Agorà del Padiglione centrale, cuore rosso pulsante dei Giardini dove si susseguono incessantemente eventi e performance, diventano traccia, ritmo, tappeto sonoro che trascende il contenuto semantico, forma tra le forme.
Voci: come quella di Pasolini che risuona nella grande sala del Padiglione centrale, nell’importante lavoro “Fabio Mauri e Pier paolo Pasolini Alle prove di Che cosa è il fascismo” (2005), di Fabio Mauri. Sullo stesso tema, un’altra installazione di Mauri, intitolata “Il Muro occidentale o del Pianto” (1993). Un’alta parete di valige, bagagli in transito costretti a espatriare portando con sé identità incenerite: nei viaggi senza ritorno nei lager nazisti dello scorso secolo, ma anche negli esodi di massa, nelle migrazioni che oggi stanno modificando la mappa geopolitica.
Sono invece rumori di guerra, mitragliatrici, suoni di uccelli impazziti e cavalli imbizzarriti quelli riprodotti nella videoinstallazione Now (2015), di Chantal Akerman, in HD, a canale multiplo , colore, 5 tracce, che si trova alle Corderie dell’Arsenale. Cinque schermi allineati trasmettono -non stop- le riprese di territori di Paesi inquieti, spopolati, come se lo sguardo li sorvolasse a volo radente, a bordo di un drone. Spazi deserti, che ci fanno precipitare nell’inferno di guerre scatenate da mani invisibili. Alla fine della sala, una minuscola oasi consolatoria e artificiale: un acquario in un ologramma, circondato da fiori finti e mini palloni da calcio, come tutti feticci di un’impossibile quiete.
Poco distante, in un’altro spazio dell’Arsenale riecheggiano rintocchi metallici: è l’opera The Bell, 2014-15, dell’artista iracheno Hiwa K, che ha raccolto materiale bellico dai terreni devastati dalla guerra, e poi, facendo fondere i metalli, ha realizzato una grande campana. L’installazione comprende due video, che ripercorrono tutte le fasi, dalla raccolta delle armi (fornite da 30 paesi del mondo) alla fusione dei metalli e alla creazione dell’opera. La campana è posta direttamente sul pavimento, sostenuta da una struttura di legno: tirando una fune legata al batacchio è possibile farla suonare, trasformando i simboli di distruzione in una creazione, in un suono di pace.
«This is not the season to be silent/ and we do it for our children», questa non è la stagione in cui stare in silenzio, recita la scritta a gessetto sul pavimento durante la performance site specific della Slovenia, all’Arsenale: quattro ragazze vestite di nero, sedute su travi di legno, ascoltano impassibili queste parole scandite da una giovane, in piedi. È il progetto dell’artista slovena Jasa, intitolato “Utter / the violent necessity for the embodied presence of hope”, che esorta a re-agire, a partecipare.
È una forma di partecipazione diversa quella richiesta da Adrian Piper, premiato sabato 9 maggio con il Leone d’Oro della Biennale: l’artista, con l’opera The Probable Trust Registry coinvolge il pubblico in prima persona, chiedendo l’adesione a una o più “Dichiarazioni di intenti”, con tanto di registrazione ufficiale. Una recita così: «Io sottoscritta, dichiaro che farò sempre ciò che dico che farò». Un progetto work in progress, dalle forti implicazioni etiche e “politiche”, che durerà fino a novembre.
Lungo il percorso all’Arsenale ci si imbatte anche nel “Cannone” di Pino Pascali, un’opera ormai storicizzata dell’artista poverista, che afferma, con la sua presenza immobile, una presa di posizione silenziosa.
Infine, è avvolta in un silenzio denso e poetico anche la maxi installazione nel padiglione del Giappone, The Key in the Hand, di Chiharu Shiota, un’opera da non perdere in questa Biennale. Due grandi barche di legno si intuiscono nello spazio centrale, dietro una fitta ragnatela di fili rossi tra loro annodati che pende dal soffitto. All’estremità di ogni filo sta attaccata una chiave, e il reticolato color rosso sangue è costellato di 180mila chiavi. «Ogni chiave evoca ricordi intimi, è un oggetto familiare che protegge persone e spazi importanti nelle nostre vite», spiega l’artista che nei mesi scorsi ha chiesto a migliaia di persone – via internet – di donare le loro chiavi inutilizzate per realizzare questo lavoro. «Spero che ciascuno tragga ispirazione dall’opera, che contiene l’accumulo dei ricordi di tutto il mondo, per ripensare il senso dell’essere in vita», afferma Chiharu Shiota, artista di Osaka classe 72.
Immagini, oggetti, suoni, e testi di questa esposizione, spiega il curatore della Biennale, Okwi Enwezor, sono “lo stretto indispensabile”, affinché questa mostra possa “prendere posizione” in questo momento di forte cambiamento a livello globale. Intanto, sulla manifestazione veglia simbolicamente “l’Angelus Novus” di Paul Klee: l’opera, riletta da Walter Benjamin che la acquistò nel 1921, rappresenta “un angelo, con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese, l’angelo della storia… Ha il viso rivolto al passato, ma una tempesta che spira dal paradiso lo spinge irresistibilmente nel futuro». E mentre Benjamin rilegge l’arte con gli occhi della storia, alla Biennale di Venezia gli artisti osservano la storia con gli occhi dell’arte.
di Francesca Pasini
Ha deluso, ha mantenuto le aspettative, meglio o peggio di quanto si credesse. La Biennale di Okwui Enwezor fa comunque riflettere. Ecco alcune idee e impressioni/1
Francesca Pasini. La politica nell’arte? Maybe
“Tutti i futuri del mondo” non ci dicono come cambiare il mondo. La contraddizione è la chiave di volta della Biennale. Dire, più che denunciare, le disparità è un grado di consapevolezza che si emancipa dalle rigidità ideologiche, ma il rischio è l’agiografia. La contraddizione ritorna. L’analisi dei soprusi, delle povertà, dei razzismi culturali e politici, che prende forma in modo multiforme in artisti di tutto il mondo, di tutte le culture e le età, dovrebbe essere il passo in avanti che mette al centro la relazione con l’altro. Ma questo “racconto consapevole”, che trasmigra in quasi tutti i padiglioni, rischia l’omologazione ed esalta la passività attuale. Le persone non vanno quasi più a votare, le ribellioni sono spesso episodi d’intolleranza che non riescono a prefigurare nuovi soggetti politici. Insomma è finito il sogno dell’arte che intuisce il cambiamento e ne fa una sintesi dello spirito del tempo? Sì e no. Sì, perché non ci sono figure che fanno fare uno scatto verso il non conosciuto; no perché questa sequenza di opere di qualità, che compongono l’archivio del dolore presente nel mondo, ci rende consapevoli della difficoltà in cui siamo immersi.
La lettura del Capitale di Marx che cadenzerà tutti i mesi della Biennale, è il passo centrale della contraddizione. Da un lato è un simbolo di un’epoca che ha sognato e agito rivoluzioni e rivolte; dall’altro pone la domanda: utilizzare Marx e il complesso e articolato pensiero marxista per affrontare la crisi economica è attuale? Il potere è ormai quello delle cinquecento multinazionali che governano il mondo, i riferimenti politici nazionali non sono più sufficienti a distinguere le loro politiche. Il lavoro non c’è, ma tutti deplorano i tentativi di costruire una cultura dei diritti del lavoro attuale. E allora Marx come lo rileggiamo?
Alla Biennale il sistema dell’arte internazionale è, come sempre, presente e potente. Forse è azzardato, ma esiste un’analogia tra sistema finanziario internazionale e sistema dell’arte. Il collezionista e imprenditore Maurizio Farè mi diceva, «oggi il denaro frutta solo nella finanza, per le persone normali i benefici non ci sono, le banche non danno più nulla, quindi molti vengono alla Biennale per vedere di comprare qualcosa che abbia un valore oggi e in futuro».
Viene un po’ un groppo in gola e una malinconia per le figure che offrivano intuizioni e speranze di rovesciare i sistemi. Nel senso che spingevano a ragionare sull’immaginazione e non solo sulla critica. Però per anni, per decenni, ci siamo battuti per un diritto di critica e oggi la Biennale lo evidenzia in modo puntuale e dialettico. Forse non sappiamo reggere il dolore che ci aggroviglia, come appare in Monica Bonvicini, che fa pendere da lunghe catene, un ammasso di seghe e attrezzi, impegolati da una nera pece, gocciolante. Difficile liberarsi dalla vischiosità del dolore. Ma questo sentimento umano, che è bene tenersi un po’ nel cuore per capirlo, una volta che diventa un segno diffuso, rischia di essere inoffensivo.
Enwezor non è caduto nella trappola di edulcorare il disagio, ma non ha sconfitto l’ombra della separazione tra il capitale e il lavoro, che oggi investe l’economia globale. Non è il compito dell’arte, ma nel momento in cui Enwezor pone la lettura di Marx idealmente e fisicamente al centro della mostra, non si può evitare di chiedersi: qual è il ruolo dell’arte nella politica? La critica che rintraccia tra le opere, rischia di diventare una specie di “realismo socialista”, sebbene non encomiastico, piuttosto che un giudizio sul Capitale Contemporaneo. La contraddizione non si ferma, ma non mette in moto nuove energie. Che dolore!
di Francesca Pasini
Provo ad aggiungere a memoria i colori pronunciati da artiste, artisti, collezionisti, giornaliste, ascoltatrici, ascoltatori. Quando dico che i colori non si possono descrivere, ma solo pronunciare, penso alle parole, ma anche alla voce e all’emotività della lingua madre.
Nel libro (Maria Morganti – Pronuncia i tuoi colori, Galleria Otto Zoo, Milano, 2015) racconto che l’opera è un soggetto e non un oggetto e che, tramite la sua mediazione, scopro qualcosa di me e dell’altro…..
http://www.libreriadelledonne.it/pronuncia-i-tuoi-colori-corrado-levi-maria-morganti-luisa-muraro-francesca-pasini/
dal 18/5/2015 al 30/7/2015
Twenty14 Contemporary Milano, piazza Mentana, 7 tel 02 49752406
Maria Mulas
Sospetto. In occasione della mostra l’artista presenta una serie di lavori inediti. Fasci di luce che tagliano tende e finestre, paesaggi metropolitani colti in giro per l’Europa e scorci dell’isola di Stromboli mediati dai riflessi.
Una serie di lavori inediti che mettono alla prova. Fasci di luce che tagliano tende e finestre, paesaggi metropolitani in giro per l’Europa e scorci isolani catturati mediati dal riflesso.
Maria Mulas dà vita ad una serie di “osservazioni” del naturale, del quotidiano attraverso una doppia lente: quella della sua Lumix e quella del suo unico spirito d’osservazione, creando uno spazio lirico contando sulle risorse del riflesso. Quanti di noi si accorgono delle nuvole riflesse? Quanti di noi guardano solo ma non osservano? Un artista deve osservare. Lei ci regala la sua visione da attenta osservatrice e scopritrice della realtà che ci circonda, ci mette alla prova, genera in noi “sospetto” e ci chiede di scrutare con attenzione.
Ancora un lavoro sulla luce. Lo studio che porta avanti da più di quarant’anni, il chiaro-scuro volutamente evidenziato sul volto dei migliaia di artisti che ha ritratto e adesso l’immagine riflessa restituita da tutto ciò che ci circonda. Siamo circondati. Ci invita ad una visione del mondo intorno non solo a 360 gradi, ma oltre: il guardare si distacca dalla superficialità e dal parziale per entrare nelle sfere del complesso.
Un invito all’attenzione di chi si sente immerso totalmente nella vita, proprio come l’artista stessa, tanto da scorgere i riflessi della luce sui muri di Stromboli all’ora del tramonto e l’incombenza di un cielo che si scontra in una pozzanghera. Il mondo che si riflette nel mondo e dentro di esso spesso l’immagine di un Uomo, le sue mani, quasi come un autografo dell’autrice. Lo specchio è solo uno, eppure, per la fisica dei riflessi, specchia entrambi, nello stesso istante. E fa uno di due.
Di sé dice che le piace lavorare nelle vesti dell’avvocato del diavolo e si riferisce all’illusione del vedere,del guardare qualcosa e cercare in quell’immagine la contraddizione attraverso cui veicolare una visione empatica e assolutamente opposta ma in perfetto equilibrio con quanto l’ha promossa.
Questo avviene grazie anche al confronto-scontro tra i materiali e le loro lavorazioni, applicando a ciò che non sembrerebbe possibile le tecniche utilizzate in altri settori, tessili e meccanici insieme, ad esempio. E’ proprio da questo strano connubio che nascono i “centrini industriali” di Cal Lane, in cui la vita domestica e le lavorazioni industriali si uniscono, mettendo insieme pesante-leggero, maschile-femminile, forte delicato, funzione-decorazione, ateo-religioso,…
Dalle opposizioni, in un contrasto decisamente forte e particolare, nascono le opere di questa artista giovanissima che sfrutta materiali industriali in ferro come struttura base per i suoi interventi, in un gioco di equilibri tra utilizzo del materiale industriale e la delicata raffinatezza dei pizzi, in un traforo di luci impareggiabile che sembra scrivere per metafore qualcosa che affascina senza essere stucchevole o lezioso. Il pizzo, come genere di lavorazione, consente di nascondere e al tempo stesso esporre; velature che ombreggiano corpi o spazi conferendo loro profondità particolarissime oppure intimità come quelle di una lingerie che rivela le forme. Non mancano però anche i risvolti umoristici che si proiettano da relazioni inattese intorno all’installazione. Ciò che viene anche esperito è una comprensione dell’oggetto artistico non come qualcosa di razionale ma imprevedibile, legandosi questo alla luce e ad altri fenomeni del luogo in cui si colloca, creando dialoghi di vicinanza e a questo punto di analisi percettiva, relativamente alla relazione che si produce tra le differenti parti e i componenti.
I suoi ultimi lavori, però, sembrano aver acquistato un’impronta decisamente politica, ed è lei stessa, ancora una volta ad affermarlo, facendo notare che tutti noi viviamo in un tempo di guerra di cui è impossibile non sentire un senso di colpa che ci prende tutti come l’altro, colui che la guerra decide e chi la subisce. Il suo primo lavoro con questa nuova matrice, politica appunto, ha titolo “Bombing filigrana Car” .
In questo lavoro l’artista afferma di essersi concentrata sulla creazione di un rapporto in cui il cattivo gusto delle immagini si facesse sentire forte e chiaro. Immagini di fiori e quindi della bellezza e della grazia vengono compressi sensibilmente in una forma che evidenzia una situazione violenta e tangibile. L’acciaio schiacciato dalla macchina viene tagliato secondo le trame di un pizzo e questo crea un panneggio in cui si evidenzia la rottura e da questa un senso di tristezza,si palesa un conflitto di attrazione tra il lavoro della fantasia con un’immagine orribile.
Nella sua mostra “Crude“, Cal lane mette insieme, o tenta di farlo, il rapporto tra Dio e l’olio (i contenitori per l’olio ) . Anche se le immagini hanno a che fare con temi politici palesi le immagini non indicano nulla di specifico – si limitano a coesistere – e quello che dice realmente dipende dalla storia e dalla sensibilità dello spettatore. L’opera consiste in una serie di latte di olio che sono state scorticate e aperte a forma di croce o come il piano del pavimento di una cattedrale gotica. Le lattine sono state poi intagliate secondo i disegni delle icone mediovale o i simboli cristiani. Ben lavorato come carta ritagliata, il bordo frastagliato del metallo assottigliato evoca sia un’immagine antica quanto qualcosa di contemporaneo, mettendo direttamente in gioco sia coloro che si utilizzano richiami storici sia coloro che ignorano assolutamente ogni passata memoria. Accanto alle lattine ci sono anche tre barili di petrolio da 45 galloni. I tamburi sono scuoiati e srotolati per creare una superficie piana. La superficie viene poi issata sul muro e tagliata in una sequenza di molteplici immagini che ripetono modelli di tatuaggio e modelli di tessuto, simboli religiosi o anche segnali di pericolo. Il collage di immagini crea così una speciale guerra, un conflitto tra simboli che alla fine sembra configurare in chi guarda una storia, come quella che veniva tessuta negli arazzi medievali.
Un’ultima nota, direttamente dall’artista. Afferma infatti, per spiegare le sue scelte, di essere sempre stata interessata e attratta dalle cose che la ripugnavano, perché ciò che voleva era capire il loro segreto, carpire il loro senso o riuscire a sospendere su di esse il giudizio. Le cose che stanno collocate agli estremi tra loro, spesso danno lo stesso esito: il calore estremo uccide quanto il freddo glaciale, la stessa cosa vale per altre tipologie come odio e amore, violenza e castità, fame e sazietà. Ecco queste cose, attirano lo sguardo e l’attenzione su cui si appunta Cal Lane dando per risultato i lavori riportati.
veevera
http://artmur.com/en/artists/cal-lane/sweet-crude/
http://www.decordova.org/art/exhibition/cal-lane-crude
http://www.callane.com/works.html
https://cartesensibili.wordpress.com/2015/05/13/groundunderthirty-veevera-larte-al-plasma-di-cal-lane-2/?fb_action_ids=10207092831105719&fb_action_types=news.publishes&fb_ref=pub-standard
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Artribune Magazine
sino al 7 Agosto 2015
Roni Horn. Racconti d’acqua
Galleria Raffaella Cortese, Milano – fino al 7 agosto 2015. Al civico 4 di via Stradella, Milano
Roni Horn porta otto dittici inediti. Il soggetto delle fotografie, allestite direttamente dall’artista americana, è il volto del fotografo Juergen Teller, suo amico da anni e riflessione metaforica sull’emotività
Forse, non sarà mai possibile verificare se il cognome del fotografo di moda (teller, “narratore”) possa aver influenzato la cadenza, l’andatura oppure la forma narrativa della ricerca fotografica di Roni Horn (New York, 1955), per il suo ultimo, inedito progetto espositivo stabilito nel nuovo spazio della Galleria Cortese. Ma quel che colpisce dei volti bifronti, specchianti, con asse di simmetria creata da neutri specchi acquei, figure stranianti che restano sospese nell’aria, è l’increspatura segnata dai moti espressivi dei connotati di Juergen Teller. Come un punto d’unione tra cielo e lago, tra la vastità di due elementi vitali, i ritratti di Horn raccolgono perplessità, orgoglio, sfida, nostalgia e infine silenzio. Tracce che intaccano, come il vento dei pensieri, il racconto di un uomo attraversato dalla fotografia.
Ginevra Bria
Milano // fino al 7 agosto 2015
Roni Horn – Water Teller
RAFFAELLA CORTESE
Via Stradella 4
02 2043555
info@galleriaraffaellacortese.com
www.galleriaraffaellacortese.com
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/43361/roni-horn-water-teller/
ANCHE I RICCHI MANGIANO
di Francesca Pasini
pubblicato mercoledì 29 aprile 2015 da Exibart
I rituali, che Germano Celant mette in scena ad “Arts & Foods” (Triennale di Milano, fino al 1 novembre), partono dalla Grande Esposizione di Londra del 1851, che successivamente prenderà il nome di Esposizione Universale. C’è un richiamo alla nascita storica di Expo e al modello del “Victoria and Albert Museum”, che ebbe origine appunto dalla “Great Exposition” e fu l’omaggio alla memoria dell’amato marito (in mostra c’è un dipinto della coppia reale in visita alla “Great Exhibition”). Il “Victoria and Albert” è un pozzo visivo, dove insieme agli oggetti, all’artigianato, ai memorabilia sono stati accumulati quadri, sculture, disegni. Il motivo firma del Museo è, però, l’incredibile anello di creatività che fa da cintura al vivere quotidiano.
Celant propone questo fascino. Memoria, bellezza, selezione ridondante di casalinghi eccelsi, riuniti in vetrine, in scaffali, magistralmente ideati dall’allestimento di Italo Rota, coinvolgono il pianterreno e fanno scattare l’emozione dell’eredità.
Tra quelle superbe raccolte di teiere, vasi, suppellettili che sprofondano oltre 150 anni fa, affiorano nonni, bisnonni, case di campagna, salotti, foto di famiglia. All’inizio del lunghissimo tavolo pieno di coltelli, ne ho riconosciuti alcuni d’argento, nello stile San Marco, con una lama che ricorda la silhouette di una gondola, dove campeggia con elegantissima grafica la parola, Venezia. Sono uguali a quelli che ho ereditato dal bisnonno, anche i miei hanno la lama di ferro e non di acciaio inossidabile, come nella produzione odierna. Ho provato la soddisfazione di aver conservato un esempio di produzione artigianale. Mi ha guidato nella grande ammirazione per le sale da pranzo di Eugenio Quarti, di Gerardo Dottori, del tavolo su cui mangiava D’Annunzio a Gardone, per quelli attorno ai quali mangiavano mamme con bambini, dipinti da De Nittis, Philip Rumpf, Plinio Nomellini. Ecco la guida del Victoria and Albert, ovviamente più ridotta. C’è un’attenzione esplicita all’Italia, ai grandi campioni dell’origine del design (la Wiener Werstatte, Charles Mackintosh), a straordinarie suppellettili giapponesi e orientali. Ci sono gli utensili contadini, le “gavette di ghiaccio” della Prima Guerra Mondiale, ma il confronto è così dispari che si dimenticano. Mentre l’immaginazione va a mille rispetto a tavole imbandite nella splendida luce di argenti, cristalli, vetri soffiati.
Nutrire il pianeta con l’arte non è del resto di buon senso. L’arte produce nutrimenti di tipo diverso e non meno necessari. Ma il cortocircuito è immediato: anche i ricchi mangiano!
Disagio e adesione si mescolano, non si può che fare così se si vuole testimoniare l’artisticità dei rituali che accompagnano il cibo. Ed è comunque una soddisfazione ripercorrere la storia delle forme, oggi, però, il problema del cibo, della natura da cui trarlo, è così aggrovigliato alla responsabilità di tutti, che la bellezza lascia il sale in bocca.
Ci sono salti utopistici che vorremmo “copiare”, come la Maison des Jours Meilleurs, una casa prefabbricata, che Jean Prouvé costruì nel 1956 influenzato dall’Abbé Pierre, che chiedeva alloggi per i meno abbienti. Occupa uno spazio di 9 metri x 7, al centro un blocco che contiene cucina e servizi, totalmente arredata di mobili d’autore, quadri compresi, da Picasso a Morandi, si poteva montare in sette ore. Se pensiamo all’Aquila l’invidia è enorme. Non tanto per una possibile produzione, ma per la spinta di portare la bellezza a tutti.
Oggi invece, lo spirito del tempo è il lusso per pochi, però ben distribuiti nel mondo. Quelli che verranno all’Expo troveranno pane per i loro denti. La magnifica progressione storica della produzione artistico-artigianale garantirà ai magnati cinesi e alle big economies internazionali che comprare in Italia industrie o il quartiere di Porta Nuova di Milano, come ha fatto l’emiro del Qatar, è un affare che dà lustro sociale e culturale. Speriamo che effettivamente sposti il livello della produzione industriale italiana. Che si inverta la rotta che, come dichiara Giorgio Galli, «ha modificato il patto dei produttori, proposto dall’economista Claudio Napoleoni e non realizzato, nel patto dei corruttori che arriva fino a Mafia Capitale». (Il Golpe Invisibile, Kaos Edizioni, 2015).
“Arts & Foods” procede al piano superiore giungendo al presente. Anche qui, oggetti domestici bellissimi, memento di tempi più vicini e del primato del design italiano; la storia travolgente della pubblicità attraverso manifesti d’autore. Dipinti, foto, sculture di artisti internazionali. Andy Warhol, Oldenburg, Wesselmann, Lichtenstein profetizzano l’inarrestabile civiltà dei consumi, l’ipertrofia del cibo e la conseguente obesità che travolge gli Usa, ma non solo. Una previsione che ritorna nelle grasse fette di torta di Jeff Koons (Cake, 1995), nelle enormi sculture Sleeping dogs (1997) di Dennis Oppenheim e nel Big, Big Mac (2013) di Tom Friedman nel 2013.
Insomma mentre “anche i ricchi mangiano”, il mondo diventa obeso. Molte sono le opere che testimoniano il rapporto complesso del cibo, come Cindy Sherman che ne fotografa la muffa, la putrefazione; Judy Chicago, nel suo tavolo Dinner Party, del 1974, mette nel piatto l’anatomia delle donne, opera radicale femminista americana (in mostra c’è uno di quei piatti). Rosemarie Trockel, nel 1991, compone in cubo bianco le piastre nere da cucina, ovvero un disegno astratto che sconfessa la neutralità dell’astrazione. Jana Sterbak riveste una poltrona di design con bistecche di carne, e Chair Apollinaire (1996) non più la pelle, ma la carne dell’animale entra nel panorama estetico dell’arredamento. Poi ci sono i maestri italiani dell’Arte Povera, Mario Merz, Penone, Kounellis. Il panorama è vastissimo e multiforme, ma un po’ scontato. Come sempre c’è qualche rimpianto per le mancanze. Solo una. Vent’anni fa Aldo Mondino ha creato nel giardino della Rotonda della Besana, a Milano, dei tappeti orientali, “tessendoli” con semi di grano e di vari legumi con diversi colori. Era un’opera destinata agli uccelli, che in un paio di giorni se la sono mangiata. Sarebbe stato bello rivederli nel giardino della Triennale, avrebbero sicuramente contribuito a nutrire il pianeta.
Dall’8 maggio al 17 maggio2015
Le associazioni Baobab, La Merlettaia e Solidaunia di Foggia ospitano nella sede di Via Arpi 79 la mostra itinerante “Lampedusa porta della vita”, curata da Anna Disalvo, Rossella Sferlazzo e Katia Ricci, che la rete delle Città vicine e il gruppo “Colors Revolutions” di Rossella Sferlazzo hanno organizzato nel luglio 2013 all’interno dell’ormai tradizionale “Lampedusa in festival” che si svolge ogni estate a cura dell’associazione “Askavusa”.
Nella serata inaugurale giovani migranti racconteranno la loro esperienza. Il 17 maggio le opere saranno esposte a Manfredonia a termine del progetto “La Casa dei diritti” dell’associazione di migranti residenti.
La mostra a cui hanno partecipato anche artiste e artisti di Foggia, è uno dei momenti dell’impegno e della riflessione che da anni le associazioni portano avanti sull’incontro tra donne e uomini di culture diverse, sulle difficoltà dell’accoglienza e della convivenza e il desiderio di affrontarle e superarle, predisponendoci alla reciproca conoscenza. Primario oggi è risolvere insieme ai paesi coinvolti il problema di un viaggio e un approdo sicuri e un progetto di vita da offrire a quanti sono costretti a lasciare le proprie terre diventate insicure e inospitali.
Le artiste e gli artisti invitati nelle loro opere realizzate con le più varie tecniche, dal collage alla pittura, dalla fotografia ai video, dall’installazione ai ready made, hanno espresso sentimenti diversi: la drammaticità purtroppo sempre attuale dei pericoli mortali affrontati durante lunghi ed estenuanti viaggi, che somigliano sempre più a deportazioni, ma anche la speranza di donne, uomini e bambini quando in lontananza intravedono la Porta di Lampedusa quale salvezza e accesso a una nuova vita. Presenti anche i sentimenti di donne e uomini abitanti dell’isola, che accolgono i migranti con uno slancio di generosità e curiosità, comprensibilmente offuscato a volte da timori e perplessità in un intreccio di desideri e bisogni tra chi arriva e chi accoglie.
Espongono:
Rosalba CASMIRO ● Antonio DI MICHELE ● Wanda DELLI CARRI ● Nicola LIBERATORE ● Guido PENSATO ● Michele CARMELINO ● Rosy DANIELLO ● Nelli MAFFIA ● Oronzo LIUZZI ● Enzo RUGGIERO ● Anna Maria DI CIOMMO ● Anna FIORE ● Pina MORGANTE ● Valentina BRULARY● Paola GELARDI ● Anna DI SALVO ● Michelangelo SPAMPINATO ● Caterina AIDALA ● Pietro D’AIETTI ● Pamela NICOLOSI ● Misia TOMASELLI ● Valerio TOMASELLI ● Samuele MAGGIORE● Rossella SFERLAZZO ● Giacomo SFERLAZZO ● Dalila DI MALTA ● Tommaso SPARMA ●Adriana MARAVENTANO ● Luca RIZZO ● Maxine CAMBAL ● Marisa PROVENZANO ● Peppino SALA ● Luciana TALOZZI ● Matteo PASQUINI ● Veslemoy OVERLAND BERG ● Sara CRESCIMONE ● Giuseppe BALISTRERI ● Marina CHIRCO ● Giusi MILAZZO ● Donatella FRANCHI ● Mirella CLAUSI ● Cettina ROVERE
Il progetto per il Bastione degli infetti
Il Comitato popolare Antico Corso prosegue la sua attività volta al recupero della memoria storica della città a partire dalla collina di Montevergine e dalle mura di cinta, promovendo alcune iniziative che si svolgono nel corso della settimana della cultura che è iniziata il 14 aprile e si concluderà il 22 aprile. Nella sede della Biblioteca Vincenzo Bellini è stata predisposta un’apposita sezione bibliografica che prende spunto dal “successo” ottenuto dal Bastione degli infetti nella campagna del FAI “ I luoghi del cuore”. Attraverso dei percorsi tematici e didattici si potrà consultare un ampio panorama bibliografico sul tema del sistema difensivo della nostra città, le cosiddette mura di Carlo V, e la Catania del 1500.
Bastione degli infetti, l’arte difende i luoghi del cuore
http://www.argocatania.org/2015/04/20/bastione-degli-infetti-pietre-mute-che-raccontano-la-storia-di-catania
Per il resto trovi notizie sul mio blog
https://cettinatiralosiblognotes.wordpress.com/
dal 30 aprile | 7 agosto 2015
Galleria Raffaella Cortese Via A Stradella 1-7
Anna Maria Maiolino, Cioè
Inaugurazione giovedì 30 aprile h. 19.00 | 21.00
con
performance in ATTO di Anna Maria Maiolino con la partecipazione dell’artista Sandra Lessa in via a.stradella 1, h. 19.30
COMUNICATO STAMPA
In occasione dei suoi ventanni di attività, Raffaella Cortese è lieta di presentare Cioè, seconda personale dell’artista Anna Maria Maiolino, riconosciuta a livello internazionale come una delle figure più influenti dell’arte sudamericana oggi.
Traendo ispirazione dallimmaginario quotidiano femminile e dallesperienza di una dittatura oppressiva e censoria quella del Brasile negli anni 70-80 Anna Maria Maiolino, italiana dorigine e brasiliana di adozione, realizza lungo il suo percorso opere ricche di energia vitale, abbracciando differenti linguaggi e media, dalla performance alla scultura, dal video alla fotografia, al disegno.
La mostra Cioé, presenta opere inedite recentemente realizzate dallartista, che sceglie come titolo una congiunzione discorsiva per rappresentare il suo desiderio di incuriosire il pubblico senza esplicitare le proprie intenzioni.
Solamente nell’esperienza diretta con l’opera e attraverso la diversità di un alfabeto di segni il pubblico troverà risposte e significati.
Secondo Maiolino nellidea di scultura è insito il concetto di processo: lartista è interessata a ciò che accade prima che il lavoro sia concluso e a una soluzione formale che sia testimone dellazione creativa.
In mostra opere realizzate con diversi media. Alcune sculture della serie Cobrinhas in ceramica raku e della serie Entre o Dentro e o Fora riflettono sulla contrapposizione di pieno e vuoto, sullassenza o presenza di materia: tutti temi cui alludono anche i titoli delle opere. I disegni sono realizzati con tecniche differenti: dalle Interações agli Hierárquicos, in cui l’inchiostro, mosso dalla forza di gravità e dalla casualità del movimento apportato dall’artista, scorre sulla carta e diviene agente trasformante della superficie; ai Filogenéticos realizzati a pennello, che ricordano degli organismi cellulari in continua metamorfosi; infine ai Pré-indefinidos e De Volta, che presentano un uso più tradizionale del vocabolario del disegno. Saranno infine in mostra un video di recente produzione João & Maria [Hansel and Gretel], 2009/2015 e un video storico degli anni 70 rieditato recentemente Um dia [One Day], 1976/2015.
Linaugurazione della mostra sarà per Anna Maria Maiolino loccasione speciale, dopo diversi anni dallultima performance, per presentare una nuova azione intitolata in ATTO, con la partecipazione straordinaria dell’artista Sandra Lessa.
La performance nasce e si sviluppa dai legami che intercorrono tra le due donne, una giovane e l’altra più anziana. Sandra evoca un paesaggio sonoro e corporeo, in cui molto è lasciato allimprovvisazione. Anna, la donna più anziana, le è vicina, attenta e sollecita: la sua presenza funge metaforicamente da maestra e induce la giovane al suo ritorno alla vita.
Anna Maria Maiollino (1942, Scalea, Italia) ha partecipato a numerose Biennali come la recente 10° Biennale di Gwangju, Gwangju e la Documenta 13, Kassel. Sue mostre personali hanno avuto luogo in importanti istituzioni quali: Berkeley Art Museum and Pacific Film Archive nel 2014; Malmo Kunsthalle nel 2011; Centro Galego de Arte Contemporanea de Compostela nel 2011; Fundació Antoní Tàpies, Barcellona, nel 2010; Camden Arts Center, Londra nel 2010; Pharos Center for Contemporary Art, Cipro, nel 2007; Miami Art Center, Florida, nel 2006; Drawing Center, New York, nel 2001. Il lavoro di Anna Maria Maiolino ha fatto anche parte di numerose esposizioni collettive tra le quali si ricordano: WACK! Art and the feminist revolution al MOCA, Los Angeles e P.S.1, New York nel 2007, Tropicalia, Museum of Contemporary Art, Chicago, nel 2005; 15 artists, MAM, Sao Paulo, Brazil, AMERICAbride of the Sun; Royal Museum of Fine Art, Antwerpen, Belgio, nel 1992.
Per ulteriori informazioni contattare Erica Colombo +39 02 2043555, info@galleriaraffaellacortese.com.
martedì – sabato h. 10.00-13.00 | 15.00-19.30
dal 6/3/2015 al 10/4/2015
C|E Contemporaneo via Gerolamo Tiraboschi – Milano
Memoria di Cristallo. L’artista coniuga il suo presente con una rivisitazione del passato, creando un significativo percorso di opere in vetro, video, neon, da cui traspare la sua Visione del Mondo.
a cura di Viana Conti
C|E Contemporary, Milano, apre la stagione espositiva 2015 con la mostra personale Memoria di Cristallo dell’artista storica internazionale Federica Marangoni, a cura di Viana Conti. L’opening, Venerdì 6 marzo, dalle ore 18 alle 22, prevede la presenza dell’artista e l’introduzione alla mostra, alle ore 19, della curatrice.
Con tale evento C|E Contemporary intende dare inizio ad un percorso espositivo che alterni a figure di artisti che hanno scritto un’importante pagina di storia, nel contesto linguistico di riferimento, ad altri di una generazione contemporanea di mezzo, che ha già messo, tuttavia, a segno la sua ricerca estetica ed il pensiero teorico che la sottende, unitamente, infine, ad una selezione di giovani artisti emergenti.
Con questa mostra l’artista veneziana coniuga il suo presente con una rivisitazione del passato, creando un significativo percorso di opere in vetro, video, neon, da cui traspare la sua Weltanschauung, quella sua Visione del Mondo, che scorre, come un film, attraverso il filtro della memoria, il filo della narrazione ed il momento estetico-discorsivo della comunicazione extra, inter ed intra-personale.
Amica e sodale, tra gli altri, degli artisti statunitensi George Segal, Tom Wesselmann, Nam June Paik, indubbia pioniera nel campo del video, sperimenta già nei primi anni Settanta materiali tecnologici innovativi come il fiberglass bianco, il poliestere, la lastra di perspex, il neon, il vetro, che connoterà tutta la sua produzione artistica. Storica la sua installazione-performance The interrogation, presentata nel 1980, insieme alla prima mondiale del suo film The Box of Life, al MOMA di New York. Se, come protagonista, si affianca alle grandi donne della storia dell’arte al femminile, come Lee Krasner, Camille Claudel, Louise Nevelson, Louise Bourgeois, Carol Rama, come artista contemporanea è collocabile, a livello concettuale, a fianco di artisti quali Nam June Paik, Dan Flavin, Bruce Naumann, Joseph Kosuth, Jenny Holzer, Barbara Kruger. Nel 2001 la Peggy Guggenheim Collection di Venezia presenta uno Special Event per la celebrazione della sua attività trentennale, introdotto, a livello critico, nel volume, edizioni Fidia-Museo Parco di Portofino, Federica Marangoni – elettronica: madre di un sogno umanistico, dal grande storico dell’arte scomparso Pierre Restany, che ne ha costantemente seguito e apprezzato l’evoluzione e l’innovazione artistica. In questa serata storica viene esposta la videoinstallazione, articolata in sei monitor, Bleeding Heart/Dripping Rainbow, che, rinviando al disastro reale dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre, rappresenta, nel linguaggio virtuale, un cuore che non cessa di sanguinare accanto ad un arcobaleno che non cessa di sciogliersi nei suoi più iridati colori. Opere pubbliche le sono state commissionate nelle città spagnole di Siviglia e Barcellona, nel percorso urbano di Santa Cruz di Tenerife.
Riflesso su una sfera di cristallo, l’universo mediatico dei feticci e stereotipi di massa si spezza, nel suo lavoro, in quella miriade di frammenti che riscrivono, tra luci e ombre, la storia conflittuale dell’umanità. Un intenso viaggio tra Oriente e Occidente, quello di questa mostra, intessuto dei fili d’oro della cultura bizantina, del rosso sangue dei genocidi e dei crimini contro l’umanità, un racconto di tolleranze e intolleranze, di fughe dalla realtà e approdo sulle spiagge cristalline dell’immaginario, illuminate dalla conoscenza, dalla bellezza, dalla poesia. Una sequenza verticale di gradini in tubo di neon rosso modificato, in modo da creare l’interruzione continua dell’emissione del gas, con l’esito visivo di una scarica elettrica, invita a salire là dove l’orizzonte diventa tanto ampio da rendere inutile la scala stessa su cui si è saliti, da rendere wittgensteinianamente superflue le parole, indicibile la realtà che si dispiega davanti al soggetto. Nel panorama di uno stoccaggio informativo, sfociante in un deserto comunicazionale, un’installazione di monitor di vetro incrinato rompe la comunicazione, riducendola in schegge e invitando al silenzio. Scritte al neon, dai colori simbolici, disseminate sulle pareti, danno voce ad appelli alla pace, alla libertà, alla solidarietà, all’ascolto delle minoranze. Accanto ad un cuore che sanguina, una video-scultura composta da due schermi, che procedono in sincronia, dedicata dall’autrice al confronto del passato con il presente, ricorda, sulla parete di fondo, che La vita è tempo e memoria del tempo, ricreando con abiti, mantelli, dal decoro rinascimentale, set scenografici e iconografici, tratti da Cimabue e Pier della Francesca, di un mondo arcaico rivisitato dall’artista, in cui sacralità, bellezza, armonia, si confrontano con il Caos dell’Umanità, con una Babele di linguaggi, un brulicare di soggetti del malessere e della paura, che si duplicano, moltiplicano, fino a far esplodere il globo come un vaso di coccio. Scanditi dal ritmo del battito cardiaco, scorrono, davanti allo spettatore, nelle modalità di un reportage bellico, i fotogrammi di un’infanzia sfruttata e affamata, di una violenza antifemminista, di un fanatismo religioso dai risvolti inconcepibili. Una mano in vetro di Murano, intrisa di rosso, si distende a proteggere la scritta Tolerance. Un monitor racchiuso in una micro gabbia di metallo, presenta il video intitolato Autoritratto-Volevo dirti che…, in cui l’artista stessa, deprivata dell’audio, parla, nel caos assordante del mondo, a interlocutori che non l’ascoltano. Attenta alla lezione della scuola di ricerca canadese di Marshall McLuhan, Marangoni identifica precocemente, nella sua opera, il mezzo con il messaggio. Nei suoi progetti, a partire dagli anni Settanta, la glacialità del cristallo si anima di emozione e di pathos. Cittadina, fatalmente ed epocalmente, del Villaggio globale, Federica Marangoni sa recuperare, in un clima di omologazione linguistica, quel giusto Segno che la connota, dando Forma inimitabile al suo Pensiero ed alla sua Poetica.
dal 5/3/2015 al 9/5/2015
Galleria Milano via Manin, 13 (via Turati 14) – Milano
La porta senza porta. Installazioni realizzate con una grande varieta’ di materiali e alcuni video. Un racconto letterario che inizia dal tentativo di conoscere e dominare la natura.
Amalia Del Ponte frequenta il corso di scultura di Marino Marini all’Accademia di Brera, tra il 1956 e il 1961. Sin dall’inizio la sua ricerca si rivolge alle geometrie, ai materiali e alle infinite possibilità che essi mettono in campo: sceglie il plexiglas per le sue prime sculture, chiamate Tropi da Vittorio Fagone in occasione della personale alla Galleria Vismara del 1967. Intanto lavora come interior designer, presentando «una peculiare spazialità e un costruttivismo originale nell’intenzione destabilizzante e straniante» (E. Fiorani), come per gli interni del primo negozio di Elio Fiorucci, a Milano (1967). Nel 1973 avviene il riconoscimento internazionale, quando vince il Primo Premio per la Scultura alla Biennale di San Paolo (invitata da Umbro Apollonio e Bruno Munari) per l’opera Area Percettiva, un ‘ambiente’ per sperimentare un’esperienza di vuoto. Nel 1995 le viene dedicata un’intera sala nel Padiglione Italia della XLVI Biennale di Venezia (invitata da Gillo Dorfles), dove espone le sue pietre sonore, i Litofoni. Nel 2010 realizza per l’Isola della Certosa nella Laguna di Venezia Regno dei possibili, invisibili, una video-istallazione dove «negli oblò appare la laguna sottostante l’isola della Certosa, quattro “tuffi” nell’acqua nascosta sotto i nostri piedi… Le creature stravaganti che così affiorano e si succedono non solo vibrano e si spostano, ma emettono sospiri, grida e fruscii» (A.M. Souzeau Boetti).
Il titolo della mostra, La porta senza porta, è un kōan, uno strumento di pratica meditativa zen e consiste in una frase paradossale, atta a risvegliare la consapevolezza profonda. Nella prima sala è esposto Potnia, litofono realizzato nel 1989. Potnia è una parola di origine indoeuropea che significa signora, ed è usata da Omero nell’Iliade come attributo di Artemide, per le sue capacità di dominare le fiere selvatiche. Si tratta di un litofono, pietra che diventa sonora se sollecitata da appositi percussori e con cui l’arpa, collocata al suo fianco, entra in risonanza.
Il nano illuminante (2014) consiste in un piccolissimo punti di luce racchiuso in una cornice smisuratamente grande, che apre una riflessione sulla rivoluzione nanotecnologica.
La seconda sala ospita l’istallazione Ars Memoriae (2014), libera interpretazione dei vari scritti di Giordano Bruno sull’argomento. L’ars memoriae è una tecnica usata nel mondo dell’antichità classica per evocare un discorso secondo una successione ordinata; Bruno va oltre, non la considera soltanto uno strumento per la retorica, ma uno strumento di conoscenza: alle immagini associa lettere alfabetiche e figure mitologiche. Attraverso le diverse combinazioni di immagini mentali e figure mitologiche, è possibile risvegliare l’attività fantastica e riappropriarsi «delle ombre e dei sigilli che le idee hanno lasciato nel mondo» (G. Bruno). L’opera permette al fruitore di sperimentare tale meccanismo.
Nella sala con boiserie Il pasto nudo (2014), mai esposto prima, si ispira all’omonimo libro di William S. Borroughs di cui ricrea simboli e suggestioni.
Le suggestioni letterarie, scientifiche e tecnologiche che di volta in volta hanno arricchito l’immaginario di Amalia Del Ponte non possono essere ricondotte a uno stile formale univoco. L’innata e inesauribile curiosità l’ha spinta a una pratica sperimentale costante, raffinata e lirica.
Proprio questo lirismo riesce a innescare una sottile e mai sfacciata provocazione nello spettatore, anzi l’eterogeneità dei materiali e delle tecniche utilizzate sono ben riconducibili a un modo di lavorare coerente e organico, come è possibile cogliere nell’ambito di questa mostra. Si tratta di un racconto letterario che inizia dai tentativi di conoscere, spiegare e quindi dominare la natura – tipici della cultura indoeuropea arcaica, per attraversare i territori ancora più insondabili della mente umana con le tecniche di memorizzazione di Giordano Bruno, arrivando agli esperimenti psicofisici di Burroughs ed infine al mondo infinitamente piccolo – o infinitamente grande – della nanotecnologia.
Saranno disponibili una selezione di opere video e alcuni filmati delle performance sonore.
dal 26/2/2015 al 21/3/2015
Luca Tommasi Arte Contemporanea
via Tadino, 15 (entrata anche da via Casati) Milano
Poisoned flowers. Lavori realizzati con la tecnica della stampa su lenticolare inserita in cornici in fusione di metacrilato. Ancora una volta l’artista sviluppa il tema del doppio con la presenza nelle immagini di una coppia di fiori ripresi en plein air.
Luca Tommasi è lieto di annunciare la personale di Chiara Dynys dal titolo Poisoned Flowers , una selezione di opere di uno dei cicli più originali dell’artista, che si terrà presso la galleria di Via Tadino 15 a Milano dal 26 febbraio al 21 marzo 2015. La mostra ospiterà una decina di lavori realizzati con l’esclusiva tecnica della stampa su lenticolare inserita in suggestive cornici in fusione di metacrilato.
Ancora una volta l’artista in questa nuova serie di lavori realizzati con la tecnica lenticolare sviluppa il tema del doppio con la presenza nelle immagini di una coppia di fiori ripresi en plein air. Elementi di una natura che normalmente sfugge allo sguardo e che invece l’occhio selettivo dell’artista pone sotto gli occhi dello spettatore, nel silenzio li sottrae al silenzio, proprio come succede agli oggetti nella natura morta. Fiori belli e immobili perché avvelenati, tanto da sembrare dei filtri amorosi, quasi a ritrovare la possibile etimologia di veleno in Venere. Ma anche fiori semplici e con il loro difetto d’identità per essere parte di una natura oggi avvelenata dall’uomo che però nella temporalità del loro apparire e svanire ritrovano l’appartenenza al ciclo fondamentale della vita. Il curatore Marco Bazzini ci invita così alla lettura delle opere: “Inizialmente i fiori scompaiono proprio dove sono apparsi: davanti ai nostri occhi. Un passaggio tanto semplice quanto enigmatico che non può non turbare ed emozionare. Un velo colorato si stende come una tenda davanti ad una finestra e sostituisce l’immagine, più o meno lentamente, al variare della nostra posizione. Questa muta mentre ci muoviamo, un passo e succede qualcosa di nuovo e inatteso. Finché una superficie monocroma si presenta come un’apparizione in superficie di un effetto di cancellazione. Un evento della scomparsa, aphánisis, che non nega l’apparizione perché essa stessa ephíphasis. Un apparire, quindi, come il non manifestarsi del determinato, dove la negazione non riguarda la privazione del vedere ma ne enfatizza lo stato di offuscamento a cui i Poisoned Flowers di Chiara Dynys sembrano costringerci.”
Chiara Dynys lavora a Milano. Sin dall’inizio della sua attività, all’inizio degli anni 90 ha agito su due filoni principali, entrambi riconducibili ad un unico atteggiamento nei confronti del reale: identificare nel mondo e nelle forme la presenza e il senso dell’ anomalia , della variante, della “soglia” che consente alla mente di passare dalla realtà umana ad uno scenario quasi metafisico. Per fare questo utilizza materiali apparentemente eclettici, che vanno dalla luce al vetro, agli specchi, alla ceramica, alle fusioni, al tessuto , al video e alla fotografia.
Chiara Dynys ha partecipato a numerose mostre personali e collettive in importanti musei e istituzioni culturali pubbliche e private. Tra le mostre personali più significative si ricordano: Centre d’Art Contemporain, Ginevra, 1996; Expression – Centre d’Exposition, Saint-Hyacinthe (Canada), 1997; Museo Cantonale, Ala Est, Lugano, 2001; Museum Bochum, Bochum, 2003; Kunstmuseum, Bonn, 2004; Wolfsberg Executive Development Centre, Wolfsberg, 2005; Rotonda di Via Besana, Milano, 2007; Museo Bilotti – Aranciera di Villa Borghese, Roma, 2008; Palazzo Reale, Milano, 2008; ZKM – Museum für Neue Kunst, Karlsruhe, 2009; Archivio Centrale di Stato, Roma, 2010; Centro Italiano Arte Contemporanea, Foligno, 2010; Gerish-Stiftung, Hamburg, 2013; Museo Poldi Pezzoli, Milano 2013; Galerie Hollenbach, Stoccarda 2014; Museo d’arte contemporanea, Lissone 2014.
http://undo.net/it/mostra/187477
I FANTASMI DELL’AVVENIRE
DI Sara Candidi
Di scena a Museion di Bolzano la prima personale dell’artista pugliese. Che si concentra sul rapporto tra l’individuo e l’istituzione. Indagandolo con il piglio dell’archeologa
Il Museion di Bolzano apre l’anno espositivo con due artiste: Rossella Biscotti (Molfetta, 1978, vive e lavora a Bruxelles) e Chiara Fumai (Roma, 1978, vive e lavora Bruxelles). “L’avvenire non può che appartenere ai fantasmi” è il titolo della prima personale italiana di Biscotti (fino al 25 maggio), già presente al Museion nel 2008 con la performance Everything is somehow related to everything else, yet the whole is terrifying unstable e poi nuovamente invitata nel 2010, da Rein Wolfs alla collettiva “The New Public”.
Come afferma Letizia Ragaglia, direttrice del museo e curatrice della mostra, Biscotti «si muove come una sorta di archeologa del contemporaneo» e nelle sue ricerche recupera oggetti, ricordi e situazioni del passato cercando di trovare in essi un punto di contatto con il presente per considerarli da una nuova prospettiva. La mostra espone alcune delle opere che hanno segnato la riflessione artistica di Biscotti, ma anche nuovi lavori realizzati appositamente per l’occasione come le Teste in oggetto, calchi in silicone azzurro di teste in bronzo di Benito Mussolini. Gli originali delle sculture, insieme a quelli del Re Vittorio Emanuele III, furono già esposti nel 2009, quando l’artista le scovò nei depositi del Palazzo degli Uffici dell’EUR a Roma e, sfidando la burocrazia, riuscì a presentarli per la prima volta al pubblico alla Nomas Foundation. Ampia parte della mostra è dedicata al progetto sul carcere Santo Stefano, unico esempio italiano costruito secondo il modello del panoptico descritto e progettato da Jeremy Bentham nel 1791: la riflessione sull’isolamento carcerario si concretizza con la realizzazione di calchi in piombo di alcuni tratti dei pavimenti della prigione. In parallelo, un video mostra il processo di spostamento delle lastre dalla terraferma all’isola e ritorno, creando una metafora simbolica del passaggio dei detenuti dalla libertà alla prigionia.
La questione dei detenuti è particolarmente cara all’artista: in occasione della 55. Biennale di Venezia, Biscotti aveva realizzato il progetto I dreamt that you changed into a cat… gatto… ha ha ha in cui aveva coinvolto le detenute del carcere della Giudecca durante il periodo precedente l’esposizione vera e propria. L’artista aveva infatti organizzato una conferenza in cui mostrava e spiegava il suo lavoro alle detenute, da quell’incontro scaturì quello che è stato definito laboratorio onirico, un momento di incontro all’interno del carcere in cui le recluse raccontavano i loro sogni. Questo percorso confluì nelle due opere finali presentate all’Arsenale: la serie di architetture in compost realizzate con l’organico raccolto dalle detenute e un audio della durata di un’ora in cui si udivano le voci delle donne che raccontavano i propri sogni, messo in onda simbolicamente ogni giorno alle ore 16 (orario di inizio del laboratorio onirico).
L’idea alla base del lavoro di Biscotti è quella di indagare dall’interno il rapporto tra l’individuo e l’istituzione e il carcere è la struttura che meglio rappresenta questo dualismo/antagonismo. Per l’artista non è tanto importante l’opera finita in sé, immobile e costante nel tempo, un oggetto estetico che può al massimo comunicare un messaggio o essere testimonianza di un’esperienza, ma ciò che ha davvero valore per Biscotti è proprio quell’esperienza che precede il lavoro esposto e le implicazioni emotive e sociali che ne conseguono. Per questo la sua ricerca va oltre la pratica strettamente artistica e si veste di reale impegno socio-politico il quale, sulla questione della prigionia, ed in particolare sull’incostituzionalità dell’ergastolo, è stato tradotto nel movimento Liberi dall’ergastolo, (
liberidallergastolo.wordpress.com/about).
Storia, memoria e impegno civile si incrociano nelle opere di Rossella Biscotti ed è qui che risiede il suo spirito archeologico, un lavoro incessante di ricerca e analisi, scavo e riflessione, che viene lasciato e ripreso perché ad ogni nuova visione si può scoprire qualcosa sfuggito in precedenza
La Project Room di Museion è invece dedicata al progetto “Der Hexenhammer” di Chiara Fumai (a cura di Frida Carazzato), che si compone di un grande wall painting e di una performance che verrà replicata periodicamente fino al termine della mostra. La rappresentazione muraria si ispira alla figura dell’anarchica tedesca Ulrike Meinhof e cita scene dal Malleus Maleficarum, trattato medievale contro la stregoneria, mentre la performance entra in dialogo con la mostra di Rossella Biscotti invadendone gli spazi e guidando gli spettatori in un’inaspettata visita all’interno di Museion. Fumai, attraverso lo studio di rilevanti figure storiche ribelli femminili, vuole ribaltare la visione patriarcale che per secoli ha dominato e forse ancora oggi domina la società.
http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=44743&IDCategoria=1&MP=true
dal 19/2/2015 al 28/3/2015
Catharine Ahearn Peep-Hole c/o Fonderia Battaglia
FONDERIA BATTAGLIA Milano via Stilicone, 10 – tel. 345 0774884
No soap radio. L’artista, partendo dal potenziale narrativo del quotidiano, crea immagini stratificate che alterano la percezione del reale. La mostra presenta una serie di sculture e dipinti, disposti in modo da creare una sorta di immaginaria astronave.
comunicato stampa
Nel lavoro di Catharine Ahearn, contraddistinto da una costante sperimentazione di
tecniche e materiali, il potenziale narrativo del quotidiano è il punto di partenza per la costruzione di immagini stratificate che alterano la percezione del reale aprendo l’immaginazione a una vasta gamma di possibilità. Facendo ricorso a esperienze o personaggi radicati nell’immaginario collettivo, l’artista accosta oggetti ordinari in visionarie e misteriose composizioni che ironizzano sulle dinamiche stereotipate del potere. NO SOAP RADIO consiste in una serie di sculture e dipinti concepiti appositamente per la mostra e disposti all’interno di un percorso espositivo scandito da una grande installazione site specific: una sorta di immaginaria astronave in PVC che eclissa e allo stesso tempo divide la struttura dello spazio espositivo. È attorno a questo intervento ambientale che Catharine Ahearn ha orchestrato l’intero progetto, in cui la poliedricità dei linguaggi utilizzati e la vasta gamma di materiali impiegati – da quelli più effimeri come il sapone ad altri di natura profondamente diversa come il ferro – offrono un’esperienza dei percorsi tematici e linguistici su cui si fonda la sua pratica.
L’ARTE CONTRO LA GUERRA
È possibile. L’artista iraniana ci spiega come
di Ludovico Pratesi
Donne velate che puntano pistole con sguardo altero, con le mani coperte da frasi scritte in farsi, l’antico persiano. Nei primi anni Novanta le opere fotografiche dell’artista iraniana Shirin Neshat (Qazvin, 1957) hanno denunciato la situazione delle donne in un Paese piegato dalla rivoluzione di Khomeini. Sono le Women of Allah, immagini scattate nel 1993 e esposte di recente al Mathaf, il museo d’arte moderna di Doha (Qatar) in occasione della mostra antologica Afterwards, insieme a opere più recenti, come The Book of Kings (2012) e Our House is on Fire (2013), dedicata ai protagonisti della Primavera Araba. Le opere di Shirin Neshat sono perciò sempre impregnate anche della complessa e spesso difficile realtà politica del suo Paese e del mondo arabo: per questo le abbiamo chiesto un’opinione dopo i fatti di Charlie Hebdo e il clima di terrore che l’Isis tenta di instaurare.
Oggi, come artista iraniana, qual è la sua posizione sul massacro di Parigi e, in generale, sulla libertà di espressione?
«Credo nella libertà di espressione e per questo vivo in esilio e non nel mio Paese, che priva il suo popolo dei diritti umani fondamentali come la libertà di espressione. Nonostante questo, non credo nella provocazione come valore per affermare questa libertà. Però mi considero una musulmana laica, e per principio sono contraria a ogni forma di estremismo religioso che possa causare violenza o sofferenza, introducendosi nella vita privata delle persone, da qualunque fonte provenga: cristiana, musulmana o ebrea».
La libertà di espressione è un tema rilevante nel suo lavoro?
«Dal momento che vivo fuori dalla mia patria non mi confronto con le autorità iraniane ogni giorno, anche se il mio lavoro continua a indirizzarsi verso tematiche socio politiche e religiose relative all’Iran. Ma rifiuto di utilizzare l’arte come uno strumento per creare controversie, o per inasprire, offendere o contrastare qualsiasi forma di credo religioso o ideologia politica. In generale penso che qualsiasi espressione artistica che sia fondata su un pregiudizio sia sempre manipolativa e sbagliata, dal momento che spinge verso lo sdegno o addirittura la violenza».
Ricorda quali furono le prime reazioni alle sue Women of Allah?
«All’inizio della mia carriera, molti occidentali pensavano che le parole scritte sui corpi femminili nella serie fotografica Women of Allah fossero versetti coranici. In realtà ho sempre usato soltanto versi poetici, perché non potrei mai immaginare di rendere banale ciò che è sacro per milioni di musulmani».
Adesso che reazioni provocherebbero?
«Quello che è successo al giornale Charlie Hebdo a Parigi, mi sembra che riaffermi l’idea che la rabbia nutre la barbarie, e che una forma di rabbia conduce ad un’altra forma di rabbia, e come siamo spinti verso un circolo vizioso di astio, rivincita e brutalità. La risposta può essere la creazione di dialoghi su come possiamo prevenire l’ira immotivata che causa tanta sofferenza. Mi piace credere che ci sono persone che hanno valori ai quali non aderisco personalmente, ma che rispetterò e tollererò finché saranno pacifici»
Crede nella possibilità di un dialogo vero e profondo tra l’Islam e l’Occidente?
«In qualità di artista e non di esperta, ritengo che la cultura occidentale non riesca a comprendere che non tutte le culture aderiscono ai valori razionali dell’Occidente. Il problema è il pregiudizio legato all’idea di confine, necessario ai musulmani per proteggere alcuni valori, e così estraneo agli occidentali che cercano di eliminare i confini per consentire una società aperta e giusta»
In che modo?
«Può sembrare troppo ottimista e ingenuo da parte mia, ma credo che la risoluzione di questa divisione storica tra le culture islamica e occidentale sia possibile solo se i popoli cominciano ad assumere un approccio diverso da quello dei governi. Penso che una soluzione sia possibile soltanto nell’evitare ogni ritorsione, con una diplomazia pacifica che conduca al rispetto reciproco, alla tolleranza e perfino alla celebrazione delle nostre differenze».
Crede che gli artisti possano avere un ruolo in questo dialogo?
«Sono fermamente convinta che gli artisti possano giocare un ruolo significativo nel costruire un dialogo tra culture in conflitto, perché il linguaggio dell’arte ha l’abilità di rimanere al di sopra e oltre le differenze religiose, culturali e nazionali, e arrivare nel profondo della psiche umana. Spesso però gli artisti si trovano nella posizione difficile di rispondere alle problematiche politiche del loro tempo, senza essere apertamente controversi, manipolativi, di parte o didattici. Dopotutto, è molto più facile fare un’arte che punta il dito su quello che è giusto o sbagliato, e più difficile fare arte che crea un momento di discussione, un forum che apre nuove prospettive e invita lo spettatore a formarsi una propria interpretazione. È attraverso quest’ultimo approccio che gli artisti possono giocare un ruolo significativo in questo momento storico».
Per concludere, l’arte contemporanea può assumere un valore politico?
«Sicuramente dovrebbe essere più consapevole dei problemi politici. Oggi percepisco una forte assenza di dialogo critico su temi politici, anche quelli relativi alla libertà di espressione, che è al centro di ogni pratica artistica».
da /www.exibart.com
http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=44696&IDCategoria=1&MP=true
dal 13/2 al 23/2/2015
SEICENTRO, Via Savona, 99 dal 13 al 23 febbraio
VISIBILITA INVISIBILE di Vera Benelli
Le particolari installazioni di Vera Benelli creano un percorso che, a partire
dai miti dell’antica Grecia, da Penelope ad Aracne, portano ad una riflessione
sulla condizione femminile fino ai giorni nostri.
SEICENTRO, Via Savona, 99 dal 13 al 23 febbraio
inaugurazione: Venerdì 13 febbraio, ore 18
Orari: 9.30-12.30 e 14-18
sabato o festivi: 14.30-18.30
Questo articolo è del 2013 ma mi era sfuggito quando è stato pubblicato su Artribune quindi non è dell’ultima ora, ve lo sottopongo perchè mio figlio mi ha fatto scoprire questa donna molto appassionata all’arte. Nello stesso cortite dove ha la sua casa museo ha aperto uno spazio-galleria che fa gestire da due giovani curatrici, che allestiscono mostre con due artist* un* famosa* e un’emergente.
Zina Borgini
Questo non è un museo, questa è una casa”. Così esordisce Erika Hoffmann con passo deciso e caschetto rosso, mostrando la porta nascosta nel muro candido che conduce al paese delle meraviglie, la sua “casa”, o meglio, l’ala della sua casa destinata alla collezione. Siamo andati a trovarla nella sua dimora berlinese.
Scritto da Naima Morelli | lunedì, 7 gennaio 2013
A casa di Erika Hoffmann si arranca nelle buffe pattine da sistemare sopra le scarpe, procurate dallo staff della collezione, che ricorda le precauzioni per “non sporcare” della prozia, dopodiché si ha accesso alla prima stanza.
In quella che una volta era una fabbrica di macchine da cucito, la luce entra morbida dalle grandi vetrate, atte a catturare ogni singolo, prezioso, raggio di luce, in un paese – siamo a Berlino – freddo e nuvoloso, poggiandosi sui divani che si trovano in ogni stanza. “Ma come fa a lasciare la sua soleggiata Italia per venire qui, io non lo so”, scherza la collezionista.
Nella collezione Hoffmann le opere in ogni stanza hanno un legame concettuale ed Erika stessa si occupa di riallestirle di anno in anno. In questo modo tutte le opere vengono esposte a rotazione, la collezione viene vivacizzata e c’è la possibilità di rileggere le opere in semantiche sempre nuove. Non è tutto: i numerosi visitatori della collezione saranno spinti a tornare a vedere le nuove soluzioni. L’anno scorso i fruitori in pattine avranno magari incontrato Frank Stella, Bruce Nauman, Mike Kelley, Fred Sandback, forse quest’anno toccherà a Jean-Michel Basquiat, Felix Droese, Günher Förg, Isa Genzken, Nan Goldin e Felix Gonzalez-Torres. Può darsi l’anno prossimo avranno l’occasione di vedere François Morellet, Arnulf Rainer, Gerhard Richter o Andy Warhol.
Quel che è vero è che i nomi, per quanto appartengano a pesi massimi dell’arte, qui sono del tutto secondari rispetto alle opere stesse. Di fianco ai lavori non ci sono infatti i nomi degli artisti; una scheda con le informazioni necessarie verrà fornita se richiesta in un secondo momento, ma la fruizione, ci tiene a precisare Erika, non deve essere influenzata dalla “griffe”, com’è è giusto che sia.
Prima dell’invito a inoltrarmi nella sua casa/collezione, Erika Hoffmann si era seduta a un tavolo di fronte a un video di Silvia Kolbowski, e precisa, affabile e compassata aveva risposto alle mie domande.
Quand’è che lei e suo marito avete cominciato a collezionare arte?
Abbiamo cominciato nel 1968. Potrei dire che non abbiamo mai smesso di collezionare arte, di tanto in tanto compriamo un lavoro di un artista con il quale abbiamo conversato. Ci piace avere questo stile di collezionismo basato sulla discussione con gli artisti che incontriamo alle inaugurazioni, ai musei; da lì spesso finiamo per acquistare il loro lavoro.
Negli Anni Sessanta tutto era basato sulle idee e suoi concetti, non di certo sugli oggetti d’arte. Credevamo fermamente in questo e tuttavia ci rendevamo conto che gli artisti non erano contrari alla vendita, che erano contenti di vedere il proprio lavoro nelle case private. E per noi era bello vedere le opere quotidianamente e continuare un dialogo immaginario con gli artisti. Le opere degli artisti costituiscono un’incessante comunicazione con le idee che l’artista ha inserito nel proprio lavoro.
Quindi qual è la differenza in termini di approccio tra un collezionista e un semplice fruitore?
C’è una differenza senz’altro, specialmente considerando che il collezionista ha l’arte quotidianamente davanti agli occhi e può decidere quando soffermarsi e quando no. Se sei in un museo, in un uno spazio neutrale, anche se in realtà non si potrebbe mai parlare di neutralità, l’opera d’arte viene percepita come qualcosa di sacro, ha un’aura datagli dall’istituzione stessa. Quando l’opera è invece in una casa privata, è come se diventasse parte della famiglia e la guardi con occhi familiari.
Quali sono i suoi criteri per giudicare cosa è valido e cosa non lo è?
Non posso certo dire cosa sia buono e cosa cattivo, è solamente che alcuni lavori mi parlano in maniera diversa, si relazionano a certe esperienze che mi riguardano. Per me è molto importante rimarcare che la mia collezione riguarda solamente le mie esperienze personali, è un’accumulazione di esperienze durante la mia vita. E se questa attrazione avviene sono molto contenta, d’altra parte tutto ciò mi rende irrequieta, se trovo un lavoro intrigante rimango sempre con il fiato sospeso perché vorrei averlo.
Quindi la sua è più che altro questione di sensibilità, la sua collezione è legata dal suo gusto personale.
Sì, ha molto a che fare con il mio gusto, questo è vero, certamente un lavoro deve intrigarmi a livello visivo, altrimenti nemmeno lo noto in una mostra. Adesso ovviamente non riesco a stare dietro a tutte le mostre, cominciare a seguire nuovi artisti come una volta, ce ne sono troppi. Ma se qualcosa cattura il mio occhio in maniera particolare e lo trovo in un certo senso nuovo, probabilmente cercherò di raccogliere informazione, oggigiorno non è così difficile come un tempo, c’è Internet. Ma mi piace anche rivolgermi a un gallerista che possa presentarmi direttamente all’artista, dandomi in questo modo la possibilità di saperne di più sulla struttura concettuale del lavoro.
Lei compra i lavori dalle gallerie o direttamente dall’artista?
Adesso come un tempo alcuni artisti non sono rappresentati dalle gallerie. Come Silvia Kolbowski: non ha una galleria, quindi compro il lavoro direttamente da lei, vive a New York, è argentina di nascita. Sapevo di lei già da – diciamo – venticinque anni e mi ha sempre intrigato, ma è una di quelle artiste il cui lavoro è difficile da mediare. Intendo dire: oggi le gallerie si preoccupano molto del guadagno. L’approccio intellettuale di Silvia Kolbowski è senz’altro molto difficile da mediare.
I suoi gusti sono cambiati nel tempo?
Certo, sono cambiati moltissimo dal ’68. Ci sono molte ragioni personali. Il primo fattore è che quando abbiamo cominciato a comprare avevamo poco denaro. I primi lavori che abbiamo comprato non erano per niente costosi.
Potrebbe dire che la sua collezione è una sorta di specchio di sé?
Sì! Probabilmente questo è molto chiaro per i visitatori. Ogni sabato ci sono centinaia di visitatori e la gente mi interroga rispetto a lavori, ma sono sicura che loro capiscano meglio di me quali siano i miei criteri.
Già, perché lei non è interessata a spiegare le opere, lei vuole più che altro creare una discussione attorno ai lavori con i visitatori…
Li incoraggio a farsi un’idea, non mi piace fornire un significato. Questo non è un museo, non ho una missione, questa è arte contemporanea, le persone possono avere centinaia di opinioni a riguardo. Vedere schiudersi tutte le possibilità e tutti i differenti aspetti che ognuno può individuare… Ecco, per me è proprio questa la cosa più intrigante che l’arte contemporanea possa fare.
A che tipologia appartengono i visitatori della sua collezione?
Ce ne sono di tutti i tipi, alcuni sono professionisti, poi ci sono i borghesi che sono sempre stati interessati alla cultura. Ci sono i giovani che vengono a Berlino e di tanto in tanto portano anche i propri genitori, e poi ci sono quelli che vengono solo per vedere quanto può essere fuori di testa una persona che vive circondata dall’arte.
Com’è che ha deciso di aprire la collezione al pubblico?
Lo scopo era contribuire in qualche modo al dialogo tra est ed ovest e volevamo portare a Berlino qualcosa che non si era visto prima. Qui era il vecchio est, e io e mio marito volevamo stare a est più che a ovest. A Berlino ovest la maggior parte dei lavori venivamo dall’ovest della Germania, e noi vivevamo nell’estremo ovest, vicino alla Francia, al Belgio e anche all’Italia che era, diciamo, il nostro focus. Eravamo molto più vicini a tutti questi paesi limitrofi che non all’est che era impenetrabile. Quindi abbiamo portato qualcosa che non si vedeva a Berlino, che a quei tempi era un’isola.
Cosa ha comportato per lei spostarsi a Berlino?
Ovviamente l’influenza del vivere qui da sedici anni mi ha fatto diventare molto più consapevole della storia. Vivendo nell’estremo ovest, vicino a Colonia, c’erano pur sempre centinaia di anni di storia da conoscere, per cui la storia recente diventava relativamente importante. A Berlino invece non ho potuto fare a meno di prendere consapevolezza della storia recente dell’ultima decade. Per esempio, abbiamo cercato di preservare l’importanza di questo palazzo che una volta era una fabbrica. Poi ovviamente a Berlino ero circondata da tutti questi palazzi monumentali che rappresentavano una certa storia, un certo tipo di ambizione molto diverse dalla provincia nella quale vivevo prima.
Che ruolo ha l’arte nella sua vita?
Probabilmente non è proprio il centro, perché ho una famiglia, figli e nipoti, ma è quasi centrale. Sono più di vent’anni adesso che ho lasciato la mia professione, ero una fashion designer, quindi era un ambito molto diverso, ma da allora ho dedicato la mia vita all’arte contemporanea. Non solo il contemporaneo in realtà: mi interesso a ogni tipo di arte, mi piace vedere i dipinti nelle chiese, le opere nei musei, nei palazzi, nei posti per le quali sono state concepite.
Condivide l’amore per l’arte con la sua famiglia?
No, per niente, loro hanno diverse mire, ma tollerano la mia pazzia e forse sono sollevati dal fatto che abbia qualcosa di cui occuparmi, quindi non li disturbo troppo. Adesso che la collezione è aperta al pubblico, i miei figli non sono critici come prima.
E con gli altri collezionisti, invece, mantiene un rapporto?
Sì, con qualcuno, non con tutti. Provengono da tutto il mondo, quindi a volte vengono a Berlino e li incontro, ma ce ne sono pochi con i quali ho stretto una vera e propria amicizia.
Le piace scoprire nuovi artisti? Continua a cercare nuova arte?
In realtà non è che la cerco, non sono interessata a scoprire artisti, ma più a cercare lavori che trovo degni di nota.
Ci sono opere alle quali è particolarmente affezionata?
Sì, ci sono alcune opere che mi piacciono molto, ma anche questo è cambiato nel tempo. Più che trovare affascinante un singolo lavoro, mi interessa di più la relazione tra i vari lavori della mia collezione. Quello che credo sia molto importante e gratificante è quando vedo che una certa stanza, un certo spazio nella mia casa ha successo per quell’anno. È una sperimentazione continua di varie soluzioni e sicuramente alcune stanze funzionano meglio di certe altre. Mi piace come i lavori funzionano nella loro totalità, questo vale anche nella produzione di un singolo artista. Ci sono artisti il cui lavoro continua a essere interessante durante il loro intero percorso artistico, il loro modo di sviluppare le idee e come si attengono una certa idea principale e sviluppano il proprio linguaggio attorno ad esso.
Quindi spesso lei continua a seguire il percorso di un artista che ha cominciato a collezionare…
Sì, e se l’artista riesce a trovare nuove soluzioni, questo non può che farmi piacere. Mi piace seguire gli artisti. Certo oggigiorno con questo mercato dell’arte impazzito trovo molta difficoltà a continuare a collezionare un certo artista, se molti altri lo apprezzano a volte non riesco a seguirlo. Ma senz’altro è positivo se ci sono altre persone che si prendono cura di lui.
www.sammlung-hoffmann.de
Naima Morelli
dal 6 al 15/02/2015
Presso ASSOCIAZIONE APRITI CIELO! Via L.Spallanzani 16 Milano ore 18,30
Inaugurazione della mostra Sprazzi Temporali di Isabella Spatafora
Due ritratti specchianti contornati da nuvole -come presenze del passaggio del tempo- e da cornici che nelle tele successive si screpolano. Screpolature inventate. L’istinto e la mente hanno dato ordine ed equilibrio con particolari e colori diversi evidenziando la traccia del tempo nella corruzione delle forme e delle superfici.
La mostra resta aperta i giorni 7-8 dalle 18,30 alle 20
il 9-10-11-12-13 dalle 15 alle 18,30
il 14- 15 dalle 18,30- 20 per altri orari su appuntamento tel.3498682453
ISABELLA SPATAFORA: vive a Milano dagli anni Sessanta. Nata in Sicilia nel trentacinque del secolo scorso, comincia a disegnare fin dall’età di cinque anni.