L’artista e regista Petra Bauer analizza il passato per meglio
esprimersi nel presente e anticipare il futuro, sia che
si concentri sulla storia dei registi che lavorano collettivamente;
che si focalizzi sul lavoro dei critici e teorici coinvolti
nella scena londinese degli anni settanta (Notes on
Political Cinema) (2011); che collabori con l’associazione
femminista per le minoranze Southall Black Sisters nella
realizzazione dell’eponimo film Sisters! (2011); o che realizzi
la sua installazione What Women Want (2014), incentrata
sull’attivismo e sul desiderio di emancipazione delle
donne svedesi agli inizi del XX secolo. Solitamente Bauer
intraprende queste esplorazioni in collaborazione con altri,
utilizzando strumenti concettuali e di ricerca documentaria
per indagare la scena politica: sia quella urbana, che quella
espositiva o dei mass-media. Nel suo sforzo di ridefinire
il ruolo dell’artista nella società, Bauer è affascinata dalle
lotte dei singoli individui e dei gruppi minoritari. Utilizza i
film e le istituzioni come uno spazio di negoziazione politica
e sociale.
In What Women Want l’artista analizza il viaggio delle attiviste
socialiste che girarono per la Svezia tra il 1907 e il 1920
per organizzare e mobilitare le donne nelle fila del movimento
femminile socialista. La prima iterazione di Bauer,
presentata a Malmö nel 2014, si concentrava sulle potenzialità
di cambiamento comunicate dai poster che invitavano
le donne a riunirsi per discutere le condizioni presenti e
future. La sua installazione, A Morning Breeze, alla Biennale
di Venezia, comprende una selezione di questi appelli
pubblici oltre a dei brani tratti da “Morgonbris”, la rivista
del primo movimento femminile socialista, e una collezione
di più di cinquanta ritratti di gruppo in bianco e nero che
rappresentano diversi club femminili socialisti in Svezia. I
ritratti, commissionati dai club stessi, testimoniano la sete
di autorappresentazione delle donne come soggetti politici,
prima di essere legalmente riconosciute come tali. In
Svezia le donne non ottennero il diritto al voto fino al 1919,
un anno dopo che il suffragio femminile divenne legge negli
Stati Uniti.
Bauer confronta il flusso di notizie del nostro tempo con
la persistenza dei messaggi che appartengono a priori al
passato, utilizzando vecchi giornali d’archivio e ristampe di
poster negli spazi pubblici di Malmö. Cosa accade quando
alcune delle domande fatte negli anni settanta vengono riproposte
oggi? Quali sono le idee femministe fondamentali
del nostro tempo?

(http://www.ultrafragola.tv/it/3288/3442/petra-bauer.html, 5 agosto 2015)

Veronica Valentini
Flash Art n.276 Giugno – Luglio 09THE FUTURE LASTS ONE DAY

 

 

VERONICA VALENTINI: I tuoi film mi ricordano certi aspetti del cinema di Werner

Herzog: ai limiti della natura fisica e ai limiti del genere artistico. Riconosci queste caratteristiche come elementi ricorrenti nel tuo lavoro?

Rosa Barba: Sì, ci sono delle somiglianze con l’opera di Werner Herzog nel modo in

cui esplora e mette in scena i paesaggi con la telecamera, così come la scelta di lavorare con protagonisti reali, gli elementi del documentario, o l’utilizzo che faccio dei paesaggi come una sorta di documento in cui ha luogo la storia. Per esempio, nei filmche ho girato nel deserto californiano del Mojave i paesaggi erano basi militari americane. Sono interessata a luoghi che hanno un passato per poi adottarli come scenario a cui aggiungere il mio racconto. Gli strati narrativi possono assumere varie forme. In They Shine (2007) c’è un sottofondo musicale oltre al piano visivo che mostra la scultura di pannelli solari nel deserto. La base musicale è composta da interviste realizzate con persone vissute nel deserto mentre immaginano la potenziale architettura futura. Queste ricerche sono state il punto di partenza per scrivere una storia stratificata sia nella colonna sonora sia nell’immagine. Ho un debole per i margini, gli interstizi, gli intervalli e per elementi architettonici del passato. Nel film installazione Spaltenfelder (Split Fields) (2003), per esempio, l’architettura dimessa di una probabile catastrofe — l’eruzione del Vesuvio — è rappresentata sotto forma di un’archeologica apocalisse sospesa: una villa abbandonata con elicottero e un igloo di cemento nel bosco. Una delle principali caratteristiche in Parachutable (2004) è un edificio circolare simile a un hangar: un’architettura utopica di Alfred Hardy, che la disegnò con l’intento di farla diventare invisibile in determinate condizioni di luce. Ho ricostruito la base dell’edificio e l’ho trasferito in un’area urbana, accompagnato da voci che discutono sulla possibilità di scomparire. All’interno dello spazio espositivo il film è proiettato su una costruzione che ricorda la sezione di una tubatura, il che sottolinea il carattere a volte mitologico di certe frange dell’urbanistica moderna.

VV: Sempre Herzog afferma che limitandosi a riprodurre i fatti reali,documentari tradizionali, si mostra una verità banale e superficiale, mentre quello che a lui interessa è una verità più profonda, che definisce “verità estatica”, e che si può raggiungere “solo attraverso l’invenzione, l’immaginazione e la stilizzazione”. Esiste una “verità estatica” nel tuo lavoro?RB: Sì, credo che il linguaggio porti al messaggio. Il linguaggio visivo e l’immaginazione della realtà mi permettono di intraprendere un nuovo percorso e osservare e commentare la storia dal suo interno. È un punto di vista nel quale si è invitati a entrare e sperimentare. Il mio lavoro è permeato di ricerche sociali e culturali, la rappresentazione dei soggetti è una specie di costruzione di monumenti particolari.Io lavoro confrontando diversi elementi, ognuno dei quali utilizza i propri mezzi con il linguaggio del film. In questo modo vivono delle proprie caratteristiche — fittizie o reali — orchestrate all’interno di un unico lavoro.

VV: In alcuni casi citerei il termine “eterotopia” per dare una definizione della tua opera. Sei d’accordo?

RB: I miei film sono ambientati in location che possono essere considerate come metafore di utopie compiute. I posti e le storie hanno gli stessi principi: è come ascoltare una voce proveniente da una minoranza della società. Io non osservo in modo documentaristico, ma intervengo criticamente. Cerco di inventare l’utopia re-interpretando la realtà nel modo in cui il pensiero politico diventa evidente e necessario. Ma tutto questo è ancorato alla finzione.

VV: Puoi parlarmi della produzione di Printed Cinema?

RB: La pubblicazione del progetto Printed Cinema (2004-08) — 10 pubblicazioni periodiche disponibili ora in un unico box — continua parallelamente al mio lavoro audiovisivo come una personale riflessione sull’essenza cinematografi ca. Vuoti, ellissi, dialettiche tra immagini sono determinanti in questo senso. In Printed Cinema ho provato a tradurre i miei film su un supporto cartaceo. Questo lo si vede nel montaggio principale, così come nelle opposizioni tra film e stampa, tra testo e immagine. Ogni pubblicazione si riferisce a un progetto in corso ma funziona anche indipendentemente. Volevo una rivista che avesse una propria vita attraverso la sua distribuzione. Ogni numero è posizionato all’ingresso di una mostra ed è disponibile gratuitamente fino all’esaurimento delle copie. Ho considerato la distribuzione come un modo di generare “proiezioni” nei posti in cui avevo esposto il mio lavoro. 

VV: In They Shine è evidente tanto la meccanica dell’apparecchio, quanto la proiezione. Tutto sembra avere lo stesso valore.RB: Dipende dai lavori. In generale io preferisco non oscurare la fonte della proiezione.Alcuni lavori sono significativi come “sculture”, per esempio Western Round Table

(2007). La presenza del proiettore spesso accompagna la presenza del narratore ed enfatizza l’argomento se è un lavoro d’archivio o d’invenzione. Western Round Table nasce dalla mia interpretazione di un incontro di Modern Art avvenuto nel 1949 nel deserto del Mojave. Un gruppo di intellettuali provenienti da diversi ambiti — arte, cinema, letteratura, critica, musica, scienza, filosofi a, architettura —, tra cui Marcel Duchamp, Frank Lloyd Wright e Gregory Bateson, discute contemporaneamente la pratica artistica, la sua eredità e il futuro modernista. Il luogo esatto della loro discussione è sconosciuto. La mia intenzione era quella di costruire un’opera enigmatica di questo incontro come una sorta di materiale di ricerca astratto dalla dimensione temporale. I due proiettori sono disposti l’uno di fronte all’altro su una

piccola base, l’audio è sincronizzato, la luce dei due proiettori attraversa la silhouette

dello spazio opposto contro le pareti della galleria. Le ombre sembrano individui. C’è

una specie di complotto in questo lavoro tale da far apparire il proiettore come un

testimone imparziale. They Shine esplora i miti urbani e le idee personali. Dall’esterno

del recinto si vede una coreografi a di migliaia di pannelli solari in movimento, mentre ruotano lentamente riflettendo il paesaggio circostante. L’installazione con il proiettore 35mm contrasta il soggetto fantascientifico del video.

VV: Quindi la dimensione temporale ha una particolare rilevanza nel tuo lavoro.

RB: Il tempo è l’ingrediente più importante nei miei “spettacoli”. Il tempo determina

l’andamento del film, l’ordine degli elementi, scandisce lo svolgimento dei movimenti.

VV: Panzano (2000) vede protagonisti una comunità di malati mentali, mentre Vertiginous Mapping (2008) è il primo web project. Puoi descrivere i punti in comune di questi due progetti diversi, seppure accomunati da un’ostinata esplorazione dell’ignoto?

RB: I lavori non sono molto differenti nell’approccio, ma solo nel contesto. L’invito da parte della Dia Art Foundation a realizzare un progetto per il web mi ha dato l’opportunità di presentare il film Vertiginous Mapping in un nuovo sito. La storia si svolge, attraverso vari link, in un paesaggio fittizio chiamato Forgotten. In Vertiginous Mapping la falda di Alkuna — una reale minaccia fi sica — serve come metafora di un potere aziendale fuori controllo, così come il movimento economico che cambia direzione da sinistra verso destra suggerisce un parallelismo ironico con le ideologie politiche che si spostano all’occorrenza. In Panzano i panorami interni sono trasmessi dai protagonisti. Questa comunità è separata dal suo ambiente d’origine e ricollocata in un nuovo scenario per riscoprire aspetti inesplorati della propria esistenza. I protagonisti non sono attori ma sono autentici e nel film emerge la loro reale esperienza di vita con la storia secondo la loro prospettiva e immaginazione.

VV: Sai dirmi qualcosa sull’opera in mostra alla Biennale Venezia?

RB: Si tratta di un film performance di 5 proiettori 16mm che formano un coro. L’installazione si ispira allo stile policorale veneziano del tardo Rinascimento e del primo Barocco, un tipo di musica chiamata “coro spezzato”, in cui cori opposti cantano consecutivamente e da cui prende il titolo l’opera (Coro Spezzato: The Future Lasts One Day). È un periodo in cui la concezione teocentrica del mondo viene lentamente sostituita da un’idea umanistica della realtà. I testi descrivono idee per il futuro e analizzano il presente con una moltitudine di voci. Le differenti idee del gruppo sono proiettate sui muri come frammenti di testo. Esse sono coordinate fra di loro e seguono un ordine coreografato. I vari film rallentano e accelerano in accordo con i testi proiettati secondo un ritmo idiosincratico. L’installazione cattura un particolare momento attraverso una coreografi a silenziosa. La reale funzione del coro, cioè quella di cantare ad alta voce, diventa futile. Rispetto al rumore martellante dei proiettori il coro produce frammenti di parole. Lo spazio interno diviene un archivio vivo di idee con i suoi “muri parlanti”.

 

Veronica Valentini è critica d’arte e curatrice. Vive e lavora a Milano.

Rosa Barba è nata ad Agrigento nel 1972. Vive e lavora a Berlino.

 

Flash Art n.276 Giugno – Luglio 09

Flash Art n.276 Giugno – Luglio 09

Exquisite Cacophony. Prendendo a prestito il titolo dell’opera di Sonia Boyce, Antonella Crippa sintetizza la sua visione – anzi, audizione – della Biennale di Venezia diretta da Okwui Enwezor. Tra suoni, frastuono e rumori dai futuri del mondo.

Quando il presente è nel caos, “il linguaggio diviene gutturale e si trasforma in pietra“, scrive il direttore Okwui Enwezor nel suo testo pubblicato nel catalogo della Biennale di Venezia 2015. “L’esposizione“, prosegue, “si inserisce nel rumoroso, polveroso e flemmatico oggi” e pertanto pullula di opere che si riferiscono a rovine, incertezze e confusione, soprattutto all’Arsenale.
Al contrario di quello che ci si aspetterebbe da una rassegna di arte visiva, tuttavia, il caos è piuttosto una cacofonia, il cui obiettivo è “orchestrare” e far ascoltare i suoni del mondo: sia i sussurri che provengono dalle piccole realtà individuali, sia le grida collettive. L’idea è contribuire a una presa di coscienza che inneschi un processo positivo, nell’attuale contesto globale ingiusto e violento, dove la ricerca del senso sembra un esercizio impossibile.

Lo spazio della rappresentazione – considerando che una mostra come la Biennale è anche la messa in scena di una sintesi – è quello definito da Now di Chantal Akerman, un’installazione video su numerosi schermi al centro di una stanza. Immagini del deserto riprese da una macchina che sfreccia sono lo sfondo di assordanti detonazioni e spari, come fossimo al confine di un tormentato Stato mediorientale. In un’altra sala, in antitesi, è allestito lo spazio dell’incomunicabilità, definito dalle sculture composte da strumenti musicali, lasciati muti, di Terry Adkins.
Mai come in questa edizione sono presenti così tanti lavori dalla forte componente sonora, dalla Exquisite Cacophony di Sonia Boyce a Gone Are the Days of Shelter and Martyr di Theaster Gates. Ma oltre al frastuono c’è il suono e, oltre il suono, la musica. Carsten Höller, ad esempio, propone Fara Fara, una videoinstallazione in cui racconta di due cantanti rivali di Kinshasa, dove è viva una tradizione musicale che ha un seguito enorme, un immenso potere della musica, a tratti struggente, a tratti irresistibile. Christian Boltanski risponde con il suo poetico tintinnare delle campanelle della videoinstallazione Animitas, un delicatissimo monumento che risuona nelle praterie cilene. In alcuni casi la visione implica un vero e proprio tempo da trascorrere a orecchie aperte, come succede per udire le sofisticate composizioni di Charles Gaines. La stessa concentrazione è necessaria per assistere al programma di letture e performance che si susseguiranno nell’Arena allestita nella “struttura sepolcrale” del Padiglione centrale, nel “gran bazar” della “terra incognita” dei Giardini (i virgolettati sono di Enwezor).

L’esposizione non è allestita in base a proporzioni auree perché è la realtà stessa a non essere ordinata né ordinabile. È vero, non ci sono didascalie ragionate che aiutino il visitatore. La mostra è senza spiegazioni perché è la realtà stessa a non offrire strumenti per decrittarla e risulta opaca al pensiero razionalista, a tratti autistico, dell’uomo occidentale del XXI secolo.
Forse è opportuno usare altri sistemi di comprensione, magari mutuati dalla cultura africana, più a suo agio con la mescolanza disordinata e le percezioni di tutti i cinque sensi. Questo sembra suggerire il curatore quando seleziona tanti lavori di artisti provenienti da quel continente, da Gonçalo Mabunda Barthélémy Toguo.
In un recente saggio per la mostra Africa al Mudec di Milano, Gigi Pezzoli ricorda: “È necessario ascoltare tutte le voci che animano una cerimonia religiosa africana e porre attenzione agli oggetti rituali, ai ‘feticci’, ai vestiti, alle decorazioni corporee e agli ornamenti. Non si possono poi trascurare le danze e i gesti, la musica e i suoi strumenti, gli spazi spesso così differenti l’uno dall’altro che ospitano tali oggetti e i luoghi dove le cerimonie si svolgono. Lo spazio religioso africano è decisamente sinestetico, saturo di forme, colori e suoni e odori capaci di agire su tutti i ricettori sensoriali che l’uomo ha a disposizione“. L’attuale edizione della Biennale sembra simile a quel tipo di teatro, dove è comune una tendenza all’accumulo. I suoi meriti sono, tra gli altri, quelli “di dare forma, corpo e voce ai misteri dei mondi dell’invisibile, alle paure più sommerse e alle infinite ambiguità dell’esistenza umana“.
In quest’ottica, l’epico Vertigo Sea di John Akomfrah, dove la potenza della natura, il sopravvivere del canto delle balene ai tentativi di sterminio dell’uomo, anche rivolti contro la sua stessa specie, e l’incessante rinnovarsi delle stagioni, può essere letto come una sintesi del mondo… o una divinazione incoraggiante.

l Padiglione russo dei Giardini si tingerà di verde. Per la prima volta nella storia della Biennale di Venezia, un’artista donna rappresenterà la confederazione. Un progetto in assonanza completa con il Padiglione rosso di Kabakov e con l’inizio di una nuova svolta

di Ginevra Bria

Il Padiglione verde dell’artista concettuale russa (ma di adozione americana) Irina Nakhova (Mosca, 1955) si preannuncia in dialogo con il Padiglione rosso costruito in occasione della 45. Biennale del 1993 da Ilya Kabakov. In quell’installazione Kabakov dimostrò l’importanza del discorso del colore per i modernisti e i post-modernisti sovietici, che lo trasferirono dall’essere significante all’essere significato, o dal formalismo al socio-formalismo.
Nel Padiglione verde, Nakhova esegue invece una possibile trasformazione dell’edificio attraverso una sorta di nuova pitturazione dell’esterno, che tornerà a prendere il proprio colore originale, una nuance verde che attiverà significativi meccanismi di colore in ciascuna delle sale del Padiglione. Questi ambienti interativi attivati dal colore richiameranno alla memoria il modello unico dell’installazione artistica che Nakhova ha concepito agli inizi degli Anni Ottanta come reazione alle condizioni lavorative di artisti non approvati, rinchiusi in studi angusti e caotici, senza alcuna possibilità di contatto con il proprio pubblico o di incontro con critici di riferimento.
Abbiamo incontrato la curatrice del progetto, Margarita Tupitsyn, che ha messo in evidenza alcuni aspetti del progetto russo.

Irina Nakhova è veramente la prima donna a esporre nel Padiglione?
Assolutamente sì!

Perché Padiglione verde?
Perché effettivamente l’intero padiglione verrà ridipinto nel suo originale colore, il verde, tonalità che simbolicamente ha giocato un ruolo di primo piano nel movimento artistico del Modernismo e Postmodernismo in Russia.

Le installazioni come interagiranno con il pubblico?
Le installazioni in ogni stanza saranno interdipendenti, misurate proprio sulla capacità di interagire degli spettatori. In effetti, la loro reale funzione dipende dalla presenza, anche psico-fisica, degli spettatori.

Il progetto è totalmente inedito?
Sì, è un lavoro site specific pensato in stretta relazione con i dettami architettonici dell’edificio di Alexei Schusev.

Qual è, a suo avviso, la definizione di memoria che darebbe Irina Nakhova?
Tutte le sue installazioni sono basate su una sorta di memoria artistica collettiva da lei direttamente vissuta e sulle modalità di lavoro nell’Unione Sovietica, dove gli artisti d’avanguardia non avevano possibilità di accesso a mostre pubbliche e a una sorta di riscontro critico.

Cosa ne pensa della suddivisione in padiglioni nazionali?
Ritengo che i padiglioni nazionali siano molto importanti come luoghi nei quali registrare e valutare nuovamente i paradigmi estetici creati all’interno di cornici regionali di matrice socio-politica e culturale.

Torniamo all’edificio di Schusev: quale sarà il dialogo con i lavori di Nakhova?
Irina ha prestato molta attenzione all’architettura di Schusev, partendo addirittura da un ritorno alla composizione cromatica originale, utilizzando tutti i lucernari dell’edificio e concependo un’installazione individuale per ogni stanza.

Visivamente, quale esperienza ci investirà?
Compiremo un viaggio meraviglioso attraverso le sensibilità e le teorie della storia dell’arte russa, tanto dell’avanguardia quanto dell’arte del dopoguerra, nonché del Modernismo e del Postmodernismo.

Quali sono le connessioni che legano il Padiglione russo con il tema del percorso di Enwezor?
E come potrebbe non essere connesso, se il tema principale su tutti i futuri del mondo proviene da un’eredità marxista che trova un ruolo nuovo nella contemporaneità? Dopotutto Nakhova rappresenta un Paese nel quale politica e cultura si sono sviluppate in parallelo sotto la prestazione del marxismo.

Potresti esprimere un augurio oppure formulare un pensiero, un invito che accompagni i visitatori al Padiglione russo della 56. Biennale di Venezia?
Vi aspetta un viaggio fuori dal normale attraverso un’eredità storica ed estetica, formale e teoretica; un itinerario nell’arte russa del XX secolo, nonché un suo collaudo nei confronti del mondo dell’arte di oggi.

Ginevra Bria

pubblicato martedì 28 luglio 2015
Per tre giorni, 20, 21 e 22 luglio, Joan Jonas ha fatto una performance a Venezia nell’ambito della Biennale che ha dilatato l’idea di essere vivente. Ecco il racconto
di Fancesca Pasini
They come to us without a word con questo titolo Joan Jonas ha creato nel Padiglione Usa, una sequenza di disegni, proiezioni, oggetti in cui luce e trasparenza collegano una stanza all’altra. Al centro c’è la natura: le api che impollinano l’aria, i pesci che indicano la funzione vitale dell’acqua, i cavalli che ci riportano alla terra. Da questo bellissimo padiglione, Menzione Speciale della Giuria, appare un avvertimento “dolce”.  La natura, il movimento, il suono, vivono  al di là delle parole. Come se la “fisicità della vita” avesse tutto dentro di sé. Avverte di fare un passo indietro per trovare, nel dialogo tra natura e cultura, il modo per accogliere  “chi ci viene incontro senza parole”, cioè le piante e gli animali. Leggo questo titolo anche come una metafora del dialogo tra uomini e donne, dove il silenzio potrebbe essere un sistema per capirci attraverso la “lettura della mente”, come dice Massimo Ammaniti, cioè tenendo conto dei gesti, dei colori che modificano le espressioni del volto, delle tonalità della voce, prima che diventino parole da scrivere e da leggere attraverso la grafia e gli alfabeti.
Nella performance che Joan Jonas ha fatto il 20, 21 e 22 luglio al Teatro Piccolo Arsenale a Venezia, They come to us without a word  esplicita  il legame tra umani e animali in relazione con la musica di Jason Moran, suonata al piano in scena, e con la bellissima canzone di Kate Fenner. L’altro elemento, già presente nelle proiezioni del Padiglione, è  il dialogo con bambini e bambine di varie età (simbolo di fantasia non preordinata).
Nella performance, in relazione con le opere esposte in Biennale, quelle immagini, quelle atmosfere narrative e simboliche si dispongono in una tridimensionalità che accoglie lo spazio scenico e i presenti. Si apre con l’immagine di una strada sterrata, vuota affiancata da alberi. E poi, secondo la grammatica di Joan Jonas, si sovrappongono, si mescolano, si sdoppiano, disegni, immagini, lei stessa, bambini e studenti dello IUAV, dove ha tenuto un workshop durante il mese di luglio.
Foglie e piante si dilatano su tutto lo schermo fino ad assumere una curvatura, come se le vedessimo attraverso una lente. Il reticolo di un alveare, invaso da una luce rossastra, s’ingrandisce progressivamente fino a farci “entrare” in quelle celle. È un disegno meraviglioso, che ricorda la struttura infinita di segni che la natura contiene. A tratti un sipario trasparente è calato sulla proiezione e così l’ombra, l’evanescenza  diventa “visibile”. La musica sostiene tutto il racconto e trova un punto nevralgico quando Joan Jonas esegue un assolo di campanelli e altri strumenti di scena. Tra lei e Jason Moran al pianoforte si crea un tutt’uno visivo, come se ci trovassimo di fronte a un inedito strumento. Ci sono momenti in cui il gioco di proiezione e di sovrapposizione del sipario crea una prospettiva teatrale esplicita. Appaiono i bambini tutti insieme che si muovono; un’installazione di coni bianchi che ci riporta al lavoro storico di Jonas.
La dimensione teatrale in cui è compreso l’assolo di Kate Fenner è intervallata in modo ritmico, da immagini di animali, tra i quali un grande pesce piatto, scuro che occupa tutto lo schermo, mentre cavalli, uccelli, pesci sono spesso  inseriti in sfondi limpidi, rosati. Verso la fine c’è un passaggio che ci riporta all’avvertimento di tornare indietro, di rientrare nella natura che ognuno ha vicino, per sentirsi parte di un tutto. Sullo sfondo scorre la proiezione di un prato circondato da alberi con grandi chiome e davanti Joan Jonas (e la sua ombra) muove una specie di grande remo come se volesse navigare dentro la terra, senza distinguere, mare, fiumi, praterie, montagne. La terra, gli animali, il suono ci vengono incontro senza parole, attraverso segni e figure che ricordano la funzione magica e il primo soggetto della pittura, che come sappiamo furono proprio gli animali. Scrive Joan Jonas nel libretto di scena della performance: «Oggi guardiamo gli animali allo zoo, li vediamo nei giocattoli dei bambini, sentiamo le loro voci registrate; rimangono nella nostra immaginazione come sogni e storie».
Guardare le ombre, le evanescenze che avvengono tra le piante, seguire il volo delle api alla ricerca del polline, capire come comunicano. È questo che Joan Jonas suggerisce mentre “rema dentro la terra”. Le api sono in pericolo e questo fatto coinvolge la nostra stessa esistenza. L’arte ci avvisa che c’è un livello profondo che va vissuto perché  “la vita è bella”, come appare in una cartolina proiettata, perché, come dichiara Joan Jonas in scena, “la fisicità della vita” è la nostra scommessa.
In qualche momento la partecipazione degli “attori”, distrae un po’ dal senso simbolico dell’alleanza dell’arte e della natura, che è il nodo di tutta la performance. Un tema che fa scattare una coincidenza espressiva tra Joan Jonas alla Biennale e Henri Rousseau a Palazzo Ducale.
È immediato vedere nel Doganiere un anticipo della fantasia dirompente che alberi, foglie di aloe, fiori producono in noi. Joan Jonas nelle sue proiezioni ci fa vedere che questa fantasia che è quello che ci rimane, rispetto alla distruzione progressiva dell’ambiente, mentre Rousseau la vedeva come il mezzo per sconfinare dal suo mondo. Così scrive nel 1910: «Non so se voi siete come me, ma quando entro in quelle serre e vedo quelle strane piante di paesi esotici, mi sembra di entrare in un sogno».
Joan Jonas avverte che la visione, la musica, il tempo naturale hanno la consistenza del sogno anche oggi. Non ci sono più terre esotiche, ma – come lei – ognuno deve munirsi di un remo per navigare nello spazio che collega l’origine del mondo con la nostra temporanea presenza. Comunicare con le immagini, profonde o passeggere, che attraversano le nostre esistenze. Senza parole. Perché le parole del vocabolario mediatico non servono.
Francesca Pasini

 

dal 5 luglio lal 20 settebre 2015

I lavori di due tra le più importanti esponenti donne dell’arte contemporanea sono esposti a Merano fino al 20 settembre

Fino al 20 settembre 2015 il centro espositivo Merano Arte a Merano ospita, in collaborazione con la Collezione Verbund di Vienna e a cura di Gabriele Schor, un’ampia selezione di opere di due tra le più importanti donne dell’arte contemporanea: Francesca Woodman e Birgit Jürgenssen.

Francesca Woodman è stata un’importante fotografa statunitense e, nonostante la sua breve vita (morì suicida a 23 anni), una delle artiste più influenti del Ventesimo secolo: il suo lavoro si concentrava soprattutto sul suo corpo e su ciò che lo circondava, usando in gran parte esposizioni lunghe o la doppia esposizione, per creare un effetto di fusione tra il corpo e l’ambiente circostante. Birgit Jürgenssen, invece, è considerata una delle più importanti esponenti dell’avanguardia femminista degli anni Settanta: nel corso della sua carriera ha realizzato circa 3.000 opere tra fotografie, stampe, disegni, acquerelli, collage, dipinti e sculture. La maggior parte di queste opere ha come soggetto principale il corpo femminile, che appare mascherato e frammentato, come critica agli stereotipi sessuali e di genere.

Le due artiste, pur senza essersi mai incontrate, hanno in comune sia il lavoro sull’immagine della donna e la messa in discussione della propria identità, sia l’uso dell’autoscatto e lo studio della messa in scena.

di Mariella Pasinati

Collaboro con le donne del passato, come con quelle con cui lavoro realmente, per mettere al mondo l’esperienza femminile”: sono parole di Miriam Schapiro, grande madre dell’arte femminista, scomparsa il 20 Giugno all’età di 91 anni.

La frase si riferisce ai collage della Collaboration series realizzati, a partire dal 1976, incorporando riproduzioni di dipinti di artiste del passato per rendere omaggio e valorizzare l’esperienza estetica delle donne, sottraendola all’invisibilità cui una storia dell’arte dominata dal maschile le aveva condannate. Con questi lavori Schapiro rendeva anche visibile la continuità genealogica e il senso della relazione fra donne come pratica che fa emergere e dà autorità all’espressione artistica femminile.

Un forte significato politico, dunque, ma anche un’importante sollecitazione, per chi come me si occupa di storia e di critica d’arte, nella ricerca di altre modalità secondo cui guardare -e raccontare- l’arte prodotta dalle donne al fine di restituirle senso e significato autonomi, indipendenti cioè dai modelli narrativi di una storia dell’arte a lungo incapace di riconoscerla, comprenderla e registrarla. Le parole di Schapiro sono state per me una conferma dell’importanza della relazione non solo come categoria politica, ma anche come chiave interpretativa nell’affrontare la lettura critica del lavoro delle artiste al fine di liberarne la parola e “guadagnarle” al genere femminile, un orientamento che mi ha guidato in tutti questi anni.

E’ questo, io credo, un punto di partenza per cominciare a riflettere sulle enormi questioni che, secondo Mira Schor, la morte di Schapiro ci consegna: “enormi questioni sul femminismo, sulla sua eredità e sul ruolo che l’artista gioca nel momento in cui entra in una storia che ha contribuito a creare, compresa l’idea che potrebbe e dovrebbe esistere una storia che include le voci e le immagini delle donne”.1

Miriam Schapiro era nata a Toronto nel 1923 ma la sua formazione artistica avvenne negli Stati Uniti dove l’artista ha vissuto e, fino a una decina di anni fa, continuato a lavorare.

La sua presenza sulla scena dell’arte si registra, già a metà degli anni ’50, con una versione originale dell’Espressionismo astratto che abbandonò, insoddisfatta e dopo un profondo conflitto interiore, agli inizi degli anni ’60, per orientarsi verso una geometrizzazione della forma e la definizione di un nuovo, originale, vocabolario dominato da forme simboliche che alludono tanto al corpo femminile-materno quanto alla casa, entrambi percepiti come fattori di limitazione/costrizione sociale per la donna-artista. Si tratta di una struttura scatolare verticale con aperture rettangolari contenenti figure biomorfiche astratte e la forma-uovo archetipica (The House, 1961).

Queste forme-tipo, con l’aggiunta della superficie specchiante, presto evolveranno nella Shrine series degli anni 1961-63: strutture-simbolo del corpo/anima dell’artista nonché vera e propria forma di “autobiografia pittorica”. La struttura-tipo è una successione verticale di scomparti geometrici sovrapposti, aperti come “cornici” o “finestre”. A partire dall’alto presentano una forma ad arco dipinta in oro, come nell’arte sacra -il piano dell’aspirazione, del desiderio-, cui seguono tre comparti che contengono rispettivamente: un’immagine tratta dalla storia o dal modo dell’arte, un uovo che rappresenta “la donna, la creatività, io stessa” (Schapiro) e una superficie specchiante per guardarsi dentro, in uno schema che sintetizza i diversi, frammentari aspetti di un sé che Schapiro percepisce come diviso e che sempre cercherà di unificare (Shrine for R.K. II, 1963

Nel corso degli anni ’60, le questioni intorno alle quali si sarebbe interrogata durante tutto il suo percorso creativo -il corpo femminile, la relazione genealogica fra donne, la sua personale esperienza di donna e artista in un mondo dell’arte segnato dal maschile- subiscono ulteriore approfondimento ed accelerazione.

Lo stimolo proviene dalla lettura del Taccuino d’oro di Doris Lessing, nel 1966 e dall’incontro con il femminismo. E’ proprio del 1967 una delle opere più note: OX, metafora del corpo e del desiderio femminile, definita dalla stessa Schapiro “esplicita pittura di vagina” dove la “O”, che costituisce il centro compositivo del lavoro, discende direttamente dalla forma-uovo, qui modificata nell’apertura ottagonale che si fa passaggio

Gli anni ’60, infatti, e tutto il decennio successivo vedranno la definizione di una nuova estetica e di un nuovo immaginario centrato sull’iconografia della vagina di cui sono solo alcuni esempi le piccole terrecotte di Hanna Wilke dei primi anni ’60, le ricerche di Carol Schneemann sullo “spazio vulvico”, la gigantesca bambola multicolore progettata come installazione da Niki de Saint Phalle nel 1966 (Hon) nel cui corpo gigantesco il pubblico era invitato a entrare attraverso un’apertura collocata in corrispondenza della vagina, le forme-vagina dei piatti che orneranno il Dinner Party (1974-1979) di Judy Chicago, l’enorme tavolo triangolare dedicato alla riscoperta e al recupero genealogico di donne significative del passato.

Nei primi anni ’70, è proprio insieme a Judy Chicago che Shapiro compirà una svolta radicale nella sua attività di insegnante al California Institute of the Arts; insieme organizzano un corso sperimentale di didattica dell’arte, il Feminist Art Program, il cui esito si concretizza nel 1972 nel progetto Womanhouse: una vecchia casa abbandonata è trasformata in spazio artistico per la libera espressione della creatività delle donne coinvolte, 21 studenti e alcune altre artiste coordinate da Schapiro e Chicago

L’esposizione che vi si realizza mostra una complessa installazione che ripensa e ridisegna la vita domestica delle donne. Attraverso una serie di stanze in cui si combinano scultura, pittura, performance e le tradizionali pratiche artigianali femminili, le donne artiste interrogano gli stereotipi sull’essere donna, la casa, la “domesticità” e contemporaneamente celebrano e valorizzano ciò che fino a quel momento non aveva avuto rilevanza estetica: assorbenti, biancheria intima, cosmetici diventano materiale per la produzione d’arte ridisegnando, pertanto, il rapporto tra pubblico e domestico, personale e politico.

Scoperta la chiave d’accesso, cioè la relazione con l’esperienza quotidiana delle donne, anche il lavoro artistico di Schapiro ne risulta notevolmente modificato. L’artista inizia ad approfondire la ricerca di principi estetici e pratiche metodologiche capaci di rendere, in termini visivi, le istanze politiche femministe, oltre che l’indagine su di sé e sulla propria esistenza ed identità di donna e artista, già iniziata con la Shrine series.

L’esigenza di dare visibilità e valore all’esperienza estetica delle donne, di affermarne una tradizione, trova, così, compimento in opere come She Sweeps with Many Colored Brooms (1976) definite ‘femmages’2 una sintesi, cioè, di femme e collage, a designare una tecnica che combina con la pittura acrilica le stoffe, i tessuti, i ricami, i lavori d’ago e di maglia realizzati da donne “anonime”: fazzoletti, centrini, grembiuli che Schapiro inserisce nelle sue opere “come omaggio a queste donne che sono venute prima di me

L’intenzione è di ridefinire la sostanza dell’arte recuperando e portando al livello della cultura “alta” quelle pratiche estetiche -cucito, ricamo, tessitura, patchwork- attuate dalle donne da sempre e da sempre confinate nell’ambito dell’artigianato e della semplice “decorazione”.3

A questa tradizione Schapiro intende, come donna e come artista, riferirsi. E non sarà sola poiché la critica all’idea della decorazione come categoria di valore inferiore rispetto all’astrazione, la conseguente valorizzazione di motivi recuperati anche da fonti della produzione visiva non occidentale nonché la formalizzazione dell’uso di materiali alternativi saranno alla base del movimento Pattern and Decoration di cui Schapiro farà parte e che attirerà oltre a donne anche uomini4, accomunati dalla scelta di un linguaggio formale in contrasto con l’austerità e il rigore delle correnti allora dominanti del Minimalismo e del Concettuale.

Sfidando i confini che dividono l’arte dall’artigianato, il pubblico dal privato, il maschile dal femminile Schapiro reinventa, così, inediti schemi decorativi e li accompagna con un nuovo vocabolario di forme che attinge dall’esperienza delle donne, in un tripudio di colori vivaci e atmosfere luminose: ventagli, cuori, case, abiti: “Sentivo che realizzando grandi tele dai magnifici colori, disegni e proporzioni e riempendole di stoffe potevo accrescere la consapevolezza di una donna di casa”.

Un’evoluzione significativa avviene con Anatomy of a Kimono (1976), l’opera che Schapiro esegue dopo l’esperienza in California e il ritorno a New York. Per tornare a confrontarsi con un mondo dell’arte dominato dalla dimensione “eroica” dell’Espressionismo Astratto maschile, l’artista sceglie il passaggio di scala alla dimensione monumentale, realizzando un femmage maestoso e imponente (2,10 x 15,60 metri c.)

L’opera è composta da dieci pannelli che presentano una sequenza di forme che si ripetono in un crescendo cromatico da tonalità più tenui al rosso sangue. Il motivo dominante è la forma del kimono, sintetizzata e semplificata ma cromaticamente vivace e sontuosa per qualità del disegno e definizione della superficie, in particolare nel pannello in cui l’artista elimina il contorno del kimono per liberare tutta la potenza espressiva della stoffa (Anatomy). Al motivo del kimono si affiancano altre due forme simboliche che si integrano: la prima è curvilinea, rimanda alla cintura del kimono -obi- e richiama iconograficamente l’Ankh, il simbolo della vita eterna nell’arte egizia; la seconda, caratterizzata da linee spezzate e da una salda strutturazione geometrica, allude alla forma di due gambe in rapido movimento (un “calcio” che ricorda il motivo delle arti marziali giapponesi) ed è la forma che l’artista sceglie per “chiudere” il percorso di fruizione dell’opera: un calcio al passato, un procedere verso il futuro.

Indirizzata originariamente solo alle donne, Anatomy of a Kimono dialoga in realtà anche col mondo maschile, infatti, come scrisse in seguito la stessa Schapiro: “Volevo parlare direttamente alle donne- Ho scelto il kimono come abito cerimoniale per la nuova donna. Volevo che indossasse il potere del proprio ruolo, della sua forza interiore … Poi mi sono ricordata che anche gli uomini portano il kimono e così alla fine l’opera ha assunto una qualità androgina. Bene. Il dipinto mi ha fatto un regalo”.5

Nel corso degli anni ’70 nella serie dei kimono e degli abiti, si delineano nuove possibilità espressive e poetiche, a partire da ulteriori elaborazioni della forma e da una riflessione sulla dimensione dell’abito come “modello architettonico” e “rifugio del corpo nudo”. Ma il corpo, finora, è assente: l’artista sembra alludere, ancora una volta, alla presenza/assenza delle donne da una cultura che non le prevede (Vesture Series #2, 1976)

Altrove, invece, Schapiro riprende il motivo della casa e della teca ma, a differenza dalle strutture a comparti della Shrine series, ora lo spazio -fisico e psichico- dell’esistenza femminile non è più frammentato (Heartfelt, 1

Le due tipologie -abito e casa- si connettono, poi, nel 1983 in The Poet, dove l’artista ritorna sul tema della donna creativa, ancora una volta rappresentata come un coloratissimo abito senza corpo all’interno di una forma-casa in cui fluttuano cuori, fiori, teiere; per quanto monumentale, però, questa figura che è “donna senza mani né testa … cioè per nulla donna”, appare impossibilitata ad uscire dall’ordine e dalla cultura patriarcale.

Nello stesso anno, tuttavia, Welcome to Our Home inverte decisamente il senso della rappresentazione. Al centro della composizione c’è ancora un costume senza corpo da cui si irradiano linee spezzate mentre gli stessi oggetti domestici e fluttuanti definiscono uno spazio senza ordine -“la domesticità è anche caos”, sottolineava la stessa Schapiro-

Questa volta, però, la figura-abito ha una parziale consistenza corporea poiché sul grembiule, in una forma ovale, porta un feto. Sembra che le domande e le inquietudini sull’identità di donna e di artista, la sua ricerca di una genealogia simbolica femminile comincino a produrre risultati.

Non è un caso, infatti, che fin dalla metà degli anni ’70, Schapiro aveva iniziato ad elaborare la serie delle Collaborazioni con le artiste del passato -Mary Cassatt e Berthe Morisot, in un primo tempo- alla ricerca pressante di una “legittima discendenza”. Così, sempre a metà degli anni ’80, l’artista torna ad affrontare, a partire da sé, il tema della creatività femminile.

Adesso i suoi lavori ruotano intorno alla danza e al teatro; sono opere che la stessa artista definisce autobiografiche, precisando: “il teatro è metafora della vita e funzionerà sempre meglio nella mia arte quanto più si riferirà direttamente alla mia vita”.

Nascerà una trilogia –I’m Dancing as Fast as I Can, 1984, Moving Away, 1985 e Master of Ceremonies, 1985- in cui Schapiro dà forma alla propria ricerca di auto identificazione, come artista e come donna.

Il percorso si delinea, nel passaggio da un’opera all’altra, attraverso la figura della danzatrice -cui è affidata la rappresentazione del sé- in una continua tensione e confronto conflittuale con una figura maschile ed una femminile. La prima è assunta a simbolo di una tradizione culturale e artistica esclusivamente segnata dagli uomini e da cui per la donna-artista è necessario staccarsi (lo attestano in I’m dancing as fast as I can i piccoli autoritratti di grandi artisti del passato); la seconda è segno di un femminile stereotipato al quale l’artista-danzatrice è legata, attraverso il segno del cordone ombelicale, ma dal quale è al contempo desiderosa di allontanarsi (Moving Away).

La ricerca di autonomia sembra però trovare compimento in Master of Ceremonies dove il suo “autoritratto” da artista, con in mano tavolozza e pennelli, è ormai separato anche fisicamente dai modelli di una femminilità stereotipata rappresentati da una femme fatale confinata in uno spazio ristretto alla sinistra della scena. La figura maschile, tuttavia, danza ancora disinvolta fra le fiamme e continua a dominare il centro della composizione. Ma la danzatrice-artista ha acquistato volto e abiti che non si conformano ai modelli della cultura dominante: indossa una sorta di un costume ispirato ai motivi di Sonia Delaunay e, assistita dalla genealogia femminile, prova a rubargli la scena muovendo anche lei un passo tra le fiamme.

Nei decenni successivi, Schapiro continuerà le sue Collaborazioni con le artiste del ‘900 e ci lascia, con le rielaborazioni degli autoritratti di Frida Kahlo, vivissime e acute riflessioni pittoriche sull’essere donna e artista, sulla contraddizione fra l’essere contemporaneamente soggetto ed oggetto dello sguardo (Time, 1988-91)

L’interesse per il teatro, i costumi, i tessuti la porterà, infine, negli anni ’90 ad indirizzare le collaborazioni verso Sonia Terk Delaunay e le artiste delle avanguardie russe cui è dedicato, fra gli altri lavori, Mother Russia (1994), un ventaglio dipinto nei colori della rivoluzione russa, omaggio a quelle grandi protagoniste di una brevissima esperienza che, nei primi anni dopo la rivoluzione, le vide impegnate nella progettazione di tessuti ed abiti, costumi e scenografie teatrali per dare forma ad una nuova società e cultura. Insieme alle immagini delle loro opere, a porzioni di tessuto e ai simboli della rivoluzione, Schapiro inserisce i ritratti fotografici delle artiste e, fra loro, una sua foto del ’74 realizzata dalle sue studenti e in cui Miriam appare abbigliata come una donna dell’800, formalizzando così la sua idea di una perfetta continuità genealogica femminile e contribuendo a proteggere e custodire gelosamente quelle memorie che, secondo la stessa Schapiro, costituiscono la condizione necessaria per la nostra sopravvivenza spirituale.

1. Mira Schor, Remembering Miriam Schapiro, hyperallergic.co

2. La concettualizzazione e la spiegazione del percorso che porta ai femmage è descritta in Melissa Meyer e Miriam Schapiro, “Waste Not Want Not: An Inquiry into what Women Saved and Assembled – FEMMAGE”, in Heresies I, no. 4, Winter 1977-78, pp. 66-69

3. Esperienze di utilizzazione e valorizzazione di materiali e pratiche tradizionalmente connessi all’esperienza della creatività femminile si sviluppano già dalla fine degli anni ’60 sia negli States che in Europa, secondo un sentire comune che negli anni del neofemminismo, tante artiste avrebbero sviluppato in chiave più esplicitamente politica.

4. Fra le artiste Joyce Kozloff, Cynthia Carlson, Valerie Jaudon, Betty Woodman, Jane Kaufman; fra gli artisti Robert Kushner, Kim MacConnel, George Woodman, Robert Zakanitch, Kendall Shaw, Brad Davis

5. Miriam Schapiro, “How did I Happen to Make the Painting Anatomy of a Kimono?” citato in Norma Broude and Mary Garrard, Feminism and Art History: Questioning the Litany, New York, Harpers & Row, 1982

pubblicato sabato 11 luglio 2015

Madeinfilandia continua a raccogliere artisti per farli conoscere e lavorare tra loro. Germe di un cambiamento dell’arte italiana? Chissà. Intanto vi raccontiamo

Francesca Psini

“Madeinfilandia è un luogo inventato da artisti per artisti per costruire occasioni di approfondimento diretto dell’arte e di loro stessi”. Così si legge nel comunicato della sesta edizione, che ha avuto luogo dal 28 giugno al 5 luglio a Pieve Presciano, località Filanda, in provincia di Arezzo.
Fino al 19 luglio, su appuntamento, sarà possibile vedere le opere, nate da questa esperienza, di Sergia Avveduti, Giovanni Blanco, Renata Boero, Alice Cattaneo, Farbrizio Corneli, Raffaele Di Vaia, Emilia Faro, Joao Freitas, Franco Menicagli, Maria Morganti, Marco Neri, Alfredo Pirri, Andrew Smaldone, Giuseppe Stampone, Serena Vestrucci/Francesco Maluta. (0575 897 183, madeinfilandia@gmail.com – info@madeinfliandia.org , www.madeinfilandia.org ).
L’arte è spesso un buon vettore di conoscenza dell’altro, a Madeinfilandia si aggiunge un dialogo diretto con gli invitati, come succede negli incontri di residenza, ormai ricorrenti. Il legame con la vita personale aggiunge però una suggestione importante per analizzare il rapporto con l’altro. A Madeinfilandia Luca Pancrazzi e Helena Asmar hanno la loro casa; Pietro Gaglianò ha qui lo studio; Loredana Longo e Alessio De Girolamo hanno abitato qui per tutto l’anno. Sono segni che deviano il concetto di residenza in quello di festa, “Festiào” in greco vuol dire “accolgo nel focolare domestico”. Estìa è, infatti, la dea del focolare. Entrare nella casa dell’altro è una differenza da non dare per scontata. Anch’io sono stata invitata a raccontare quello che penso attorno all’arte e l’ho fatto in dialogo con uno degli ospiti: Pietro Gaglianò.
Il fatto che non ci sia stata la consueta inaugurazione, ma la festa di questo inedito “focolare” è un altro segnale. Mi è tornato in mente lo spirito con il quale Luca ed Elena mi raccontavano la loro vita in Filanda, ho riconosciuto l’attenzione al locale con la quale Pietro Gaglianò porta avanti la sua ricerca. Ho trovato un nesso con la mia idea d’intersoggettività mediata dall’opera, cioè da un soggetto col quale confrontarsi e fare amicizia.
Madeinfilandia, una delle realtà molecolari che reagiscono alla passività culturale di questo momento, ha una ricaduta rispetto all’arte italiana, sempre meno rappresentata nei contesti internazionali e nazionali. Lo diciamo in tanti, da  tempo. Per ora non vedo strategie di cambiamento, che non siano quelle che mettono al centro il partire da sé, dai propri territori. Forse, prima o poi, le molecole si aggregheranno. Al tempo stesso si discosta, o almeno mi auguro, dall’idea di residenza, dove artisti, artiste, curatori, curatrici dovrebbero incontrare l’attimo che fa scattare l’invenzione.
L’Italia artistica sembra interessare poco, quindi per assurdo, non ci sono vincoli e si apre un’anomala libertà. Assumersi questa minorità, significa mettere al mondo  figure che aiutino a interpretare la situazione.
È un nodo cruciale che riguarda tutti, come ha ricordato Hanif Kureishi e altri suoi colleghi scrittori a ridosso delle elezioni politiche inglesi, lo scorso Aprile. Gertrude Stein, nel suo ritratto di Picasso (1938), scriveva che gli artisti sanno vedere il futuro “perché sono i primi che intuiscono i cambiamenti che avvengono nella loro generazione”. Ricordiamoci di Rossellini, De Sica: dalla povertà del dopoguerra hanno inventato il Cinema. Oggi la distruzione è più ambigua, apparentemente meno cogente, richiede uno sforzo soggettivo senza l’aiuto di energie esterne.
A Madeinfilandia da Alice Cattaneo ho capito che l’incontro con l’altro – sia individuale, sia territoriale – nasce non tanto da buone intenzioni, ma da intuizioni che possono avere il beneficio di entrare direttamente in dialogo. Questo è quello che Madeinfilandia mette in gioco. Alice Cattaneo ha creato un video, 150 centimetri, dove mette in scena il movimento semplice del toccare le cose, offrirle e riceverle. Le cose sono gli oggetti che ha trovato in loco, nelle quali ha intuito possibili elementi per una sua scultura in equilibrio inafferrabile. Quegli oggetti sono appoggiati a una parete e sembrano indicare il momento in cui stanno per unirsi gli uni agli altri. Una specie di scultura “disossata”. Ma  il punto nevralgico è il video. Gesti lenti in cui appare la sua mano che porge e riceve e quella di Maria Morganti, non sono riconoscibili, ma si sa che sono loro. 150 centimetri è la misura delle due braccia. C’è tutto: l’incontro con l’altro, il segno della materialità, l’artigianalità della scultura, la sua tridimensionalità fisica. Le immagini scorrono in piccoli riquadri asimmetrici dentro lo schermo del computer: alludono alla rotazione della scultura – da realizzare o solo da immaginare – e della vita. Ricordano anche gli avambracci di un Cristo che domina l’abside nella chiesetta del paese, una coincidenza junghiana visto che siamo in Toscana, una delle regioni con più alta densità di archetipi di Storia dell’Arte. Ho visto un inedito legame col passato e un augurio di relazioni possibili, dentro e fuori dall’arte.
Maria Morganti, ci ha regalato il suo colore: in due crepe del pavimento il pigmento affiora Nel buco, come una pietra preziosa, brillante, materica; nell’altra come un’ombra. Passaggi di condivisione con i quali pronuncia i suoi  colori. E a questo proposito, una grande sorpresa la provoca Eugenia Vanni. Durante la settimana ha creato due quadri a olio, dove il colore finale ha dentro migliaia di vite, Scandalo al Sole. È una visione aniconica che cattura la luce. I colori non si possono descrivere, ma solo pronunciare cioè vivere. I quadri, disposti all’esterno, addosso all’architettura di mattoni, calda come l’estate di questi giorni, oltre ad avere in sé il cambiamento del giorno e della notte, dicono che si può ancora dipingere, che si può cercare la perfezione, che la si può lasciare andare. Munch metteva i suoi quadri all’aperto, alla neve, al freddo, Eugenia Vanni li lascia al sole e all’abbaglio dei fari delle macchine. Nessuna sacralità /molta sorpresa.
Cos’hanno a che fare queste opere con la resistenza alla passività? Molto, perché l’intuizione “è un modo di vivere e non  un mistero da chiarire attraverso un’analisi razionale” (Carla Lonzi, La critica è potere, 1970, in Scritti  sull’arte, et. al/edizioni, 2012). Io aggiungo, per vivere l’incontro con l’altro da sé bisogna scegliere, decidere, dare, ricevere. E anche per questo occorre intuizione.
Francesca Pasini
http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=46419&IDCategoria=52

di Maria Nadotti 

Scultrice di sentimenti e stati d’animo, narratrice di affetti con perizia da ingegnere meccanico, pittrice e disegnatrice delle emozioni profonde che percorrono la superficie della pelle eludendo la durezza del cuore.

Il suo nome?

June Leaf.

 

Se gli appellativi potessero essere tradotti, nella nostra lingua si chiamerebbe ‘foglia di giugno’. E delle foglie di primavera questa artista – nata a Chicago nel 1929, oggi si divide tra New York City e l’Isola di Cape Breton, Nuova Scozia, insieme al marito, il fotografo Robert Frank – ha la tenacia fragile e vibrante. Poco nota fuori dagli Stati Uniti e dal Canada e ancora non del tutto riconosciuta nella sua schiva grandezza, Leaf ha dedicato la vita a tracciare con sguardo fermo e mano giocosa e austera una specie di verbale dell’inconscio, il proprio e l’altrui.

 

“Ho cominciato a lavorare nel 1948, a diciotto anni”, dice in un limpido autoritratto filmico realizzato nel 2007 presso la Mount Allison University (si veda questa lecture tenuta dall’artista nel 2007). “Da allora lavoro tutti i giorni e il bello sta proprio in questo. Se ho paura di qualcosa, se sono depressa, mi metto comunque al lavoro, mi esercito come i musicisti, con costanza e disciplina. Lavoro perché non voglio perdere né l’allenamento né l’abitudine al lavoro”.

 

Il talento di un artista non consiste forse proprio nella combinazione di esperienza e ossessione? Del resto, sostiene questa donna grande e solida, con un senso dello humour e una modestia impareggiabili, “non sono stata io a scegliere l’arte, è stata lei a scegliere me. Ho saputo così presto quel che volevo fare, che non ho imparato a fare altro e adesso mi dispiace, perché ho la sensazione di aver perso molto”.

 

I suoi materiali d’elezione sono lo stagno galvanizzato, i colori acrilici, la carta, la matita, il carboncino, ma anche una serie di objets trouvés o di loro parti e di congegni meccanici utili a far ‘muovere’ le sue figure: cinghie, rulli, martinetti, fili, altalene metalliche, rotelle, manovelle, spirali. Tutto danza nei teatrini scultorei o pittorici allestiti da Leaf. Come se, dopo aver dato vita ai suoi personaggi, non resistesse alla tentazione di animarli, farli scivolare e fluire come portati dall’acqua o da un grande fuoco.

 

Circolari e sinuosi come minuscoli anfiteatri, i suoi scenari accolgono i corpi da lei modellati mettendoli in risonanza con le loro ombre. Concavi e al contempo convessi, cavi, quasi in attesa di essere colmati e di colmarsi vicendevolmente, essi mimano i gesti dell’amore e della sottomissione, della paura e della forza, della libertà e del bisogno. La figura femminile, spesso piegata sulle ginocchia, è ‘inventrice’ di un corpo maschile che sembra accogliere con stupefazione il proprio ‘apparire’ grazie al gesto potente dell’altrui mano.

 

Che il fondale e le figure si sviluppino nello spazio tridimensionale attraverso l’assemblaggio di materiali diversi o che la loro volumetria sia compressa nella bidimensionalità di un foglio di carta o di una tela tormentati dal colore, il tropismo è sempre lo stesso: la creatura viene pensata, immaginata, voluta e infine creata da un soggetto che si rivela proprio attraverso l’atto creativo. Uno scambio alla pari, un duplice incantamento che l’osservatore è invitato a guardare, riflettendovisi come nelle trasparenze oscure di un lago.

 

Nelle sue opere tornano e ritornano forme e situazioni che l’artista non si stanca di indagare: la serpentina come illimitato spazio concluso; il bilico come figurazione ambigua di una triplice possibilità: il tuffo, la caduta, il volo; la corsa immobile; il vortice del movimento congelato.

 

Non a caso l’artista si serve di ‘basi’ o ‘strutture’ strappate alla loro funzione originaria e convertite in piedistalli nient’affatto muti o neutri. Come nei Canti di Maldoror di Lautréamont, trasformato in basamento, il tavolo della macchina da cucire sembra cedere a un’azione che trascende la sua disattivata promessa cinetica. E i rulli/pilastro muovono e insieme sigillano nel tempo sospeso del mito.

 

 

Malleabile e argenteo, resistente alla corrosione, lo stagno – materiale d’elezione dell’artista – è un metallo sonoro: piegato stride, riscaldato si spezza. Leaf lo plasma per ricavarne morbide figure che portano in sé tutta la vulnerabilità della carne, la sua silenziosa richiesta, la sua labile offerta. Incastonate in fondali materici e fuligginosi oppure in bilico su un ciglio come se stessero per precipitare, arrugginite da una misteriosa implicita usura, le sue figure si annunciano come piccoli teoremi privati per poi rivelare d’un tratto quello che davvero sono: fulgide rappresentazioni del mondo in cui viviamo e della nostra inspiegabile resa. Come non riconoscere, dietro l’“Uomo come scolatoio” del 2007, apparente ironica rappresentazione della virilità e delle sue aporie, il riferimento dolente alle tecniche persuasive messe in atto dagli americani a Abu Ghraib? O, dietro le sue leggiadre danze macabre, un insistente memento morilanciato nel vuoto di un presente che si dice senza Storia.

 

La mano dell’artista come flessibile e acuminato trapano/sonda, delicata e implacabile.

 

(Milano, 9 luglio 2015)

 

di Katia Ricci


L’11 luglio alle ore 19 a Vieste presso il Cine teatro Adriatico, Sala “Camillo Marchetti”, Pina Massarelli espone la mostra La Dea Madre  che comprende opere in ceramica, ispirate alle immagini e ai simboli della Dea Madre così frequenti anche nel territorio della Daunia. Preziosi e raffinati ciondoli in argento e arazzi di stoffa su cui sono cucite tavolette in ceramica con i simboli della dea completano  l’esposizione  che contiene un’importante intuizione critica. Secondo l’autrice, infatti,  le decorazioni geometriche della ceramica daunia derivano dai segni della dea madre che costellano i manufatti neolitici.  Accompagna la mostra un catalogo illustrato dalle fotografie di Gianfranco Gesmundo  con scritti critici di Floredana Arno, presidente del club unesco di Foggia, sponsor del catalogo, Maria Grazia Napolitano, Anna Potito, Katia Ricci, della stessa Pina Massarelli e testi poetici di Rosy Daniello e Marco Tonon.

Inevitabile è stato l’approdo alla ricerca e alla produzione di forme e simboli della Grande Madre per Pina Massarelli, femminista e ceramista, che continua a plasmare la propria vita secondo i propri desideri e necessità.

E non è un caso che oggi, in un momento di crisi e di trasformazione  delle società umane si ritorni allo studio e alle immagini della Grande Madre, quasi per nutrirsi dell’energia femminile e per rifondare un nuovo senso del potere che non significa dominio, come è nella parola patriarcato, ma principio generatore, come è nella parola matriarcato. Arché in greco, infatti, significa tanto dominio, quanto principio.

«Un matriarcato – scrive Anna Potito – oggi non più sognato o ipotizzato, che le ricerche dell’archeologa Marija Gimbutas[1], estese tra Asia Africa Europa, hanno mostrato operante tra il 7000 e il 3500 a.C., presso popoli felici, in armonia tra uomini e donne, che praticavano l’agricoltura, non conoscevano la guerra, sceglievano pacificamente come guida una donna, considerata unanimamente autorevole; una vita serena interrotta dalle orde di cavalieri armati provenienti dall’est».

Molte artiste e femministe hanno utilizzato l’immagine della Grande Madre, ma oggi anche gli uomini la guardano con interesse, ne è  prova la mostra La Grande Madre che si inaugurerà il 25 agosto a Palazzo reale a Milano a cura di Massimiliano Gioni. Insomma all’ideale borghese della donna, angelo del focolare, tutta dedita alla famiglia e ai figli, si sostituisce quello di “Colei che dà la vita” e “dà la forma”, come è detto nell’Inno a Iside del IV-III sec. a. C. e come è nel titolo del libro di Luciana Percovich.

Tutte le più antiche divinità femminili avevano epiteti che alludevano alla capacità di generare e di trasformare la vita e di darle forma: la Signora, la Madre, La Progenitrice, la Potente. Da lei discendevano tutte le cose e da tutte e tutti era riconosciuta l’esperienza comune di nascere da madre. Per questo tutte le statuette, a partire dal Paleolitico Superiore, come la Venere di Willendorf,  in pietra o scolpite a bassorilievo sulla roccia, di piccole dimensioni, che  accentuavano  la rotondità del ventre e del seno, trasmettono un senso di armonia e di pace. Fanno pensare ad una forza benefica, comunicano quel senso di calma che certi paesaggi naturali sanno infondere, come le relazioni umane, quando si è sicuri che le contraddizioni, il conflitto, necessario e non evitabile, non sfocino mai nella distruttività e nella sopraffazione dell’uno sull’altra perché si riconosce la comune origine e la comune fine.

«Ci sono segni – scrive Maria Grazia Napolitano – che ci dicono che è in corso, a livello planetario, una sorta di gravidanza della Vita che mette l’Umanità alla ricerca di nuovo senso per divenire nuova specie».

Nutrimento, energia, trasformazione, salute del corpo i significati che Pina Massarelli ha voluto infondere nella sua iconografia della Grande Madre. «Ho iniziato questa ricerca – racconta – quindici anni fa: la riflessione sulla salute e sul corpo, sulla linea mediana primitiva e sul respiro primario mi hanno portata a studiare il culto della dea madre a rintracciare nei suoi simboli il senso di sovranità, che mi fa ritrovare il mio posto nel mondo… Scoprivo che tra la ricerca sulla salute e la cultura della Dea c’era una forte risonanza. Si parlava di forza vitale, di movimento, di quiete, forme di vita che coincidevano. Capii che non c’era divergenza di pensiero tra la linea mediana, legata alla salute, e la ricerca sull’ordine simbolico della madre…

Quelle miriadi di decorazioni che, a partire dai Dauni, avevo disegnato, per anni, sui vasi: decori geometrici che si sono rincorsi per millenni ed erano giunti nelle mie mani, fino ad allora decori  indecifrabili. Dicevano che erano simboli apotropaici, scaramantici ma sentivo che non mi bastava ci doveva essere altro. Erano losanghe, triangoli, foglie, forme di uccelli, clessidre ecc.…

Marjia Gimbutas mi ha aperto una porta, una porta viva. Avevo disegnato movimento, energia, forza della natura. Cominciavo a sentire la magia vera, c’era un filo che collegava le cose.

E fu allora che separai i segni, li colorai, ogni segno aveva un significato energetico legato alla natura e divennero segni carichi di energia».

E così, dopo e insieme alla produzione di ceramiche legate al suo territorio di origine che corrisponde all’antica Daunia, riproponendo forme e decorazioni geometriche dei vasi, si è dedicata alla creazione di statuette della Dea Madre, le cui forme sono riproposte anche in ciondoli di metallo pregiato. Il vaso, che simboleggia l’utero o il ventre, i simboli energetici, l’acqua e la terra, rappresentati dal triangolo con la punta in basso, lo chevron, la linea a zig zag, oppure ondulata, la spirale che allude al vortice dell’acqua o all’energia tellurica, i colori, bianco e azzurro assolutamente predominanti, il nero e il rosso che suggeriscono il tempo ciclico della nascita e della morte, come la mezzaluna, segno del ritmo naturale e del risveglio primaverile dopo il sonno invernale.  L’idoletto femminile di Passo di Corvo e la stele funeraria di Castelluccio, importanti siti archeologici risalenti al Neolitico di cui è ricca la provincia di Foggia, sono le forme più legate al territorio. Tutti i simboli  manifestano un pensiero ecologico, di cui oggi si sente l’urgenza, un profondo legame con la natura e la necessità personale e comune di ritornare all’origine non per un senso di rimpianto di un’età dell’oro inesistente o non riproponibile, ma per ritrovare dentro di sé la matrice, l’arché materna, il divino femminile che è forza rigeneratrice. Tutto ciò che per Jung è «La magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita…»

[1] Marija Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Vicenza 1997 – Le Dee viventi, Milano 2005


La Fondazione Antonio Ratti presenta l’anteprima europea della performance di Yvonne Rainer The Concept of Dust, or How do you look when there’s nothing left to move?martedì 14 luglio alle ore 20.00 al Teatro Sociale di Como.
La performance, commissionata dal Getty e da Performa e recentemente messa in scena al MoMA di New York, verrà eseguita a Como all’interno del programma del XXI CSAV – Artists Research Laboratory.

http://www.fondazioneratti.org/news/210/yvonne_rainer_performance

 

Yvonne Rainer, co-fondatrice del Judson Dance Theater nel 1962, si è dedicata al cinema dopo quindici anni di carriera come danzatrice/coreografa (1960-1975). Dopo sette lungometraggi sperimentali – tra cui Lives of Performers (1972), Privilege (1990),MURDER and murder (1996) – è tornata alla danza nel 2000 in occasione di una commissione della Baryshnikov Dance Foundation per il White Oak Dance Project (After Many a Summer Dies the Swan).

Le coreografie create da allora sono AG Indexical, with a little help from H.M., RoS Indexical, una commissione per Performa07, Spiraling Down, Assisted Living: Good Sports 2 e Assisted Living: Do you have any money?.

Le sue coreografie e i suoi film sono noti in tutto il mondo. Il lavoro di Rainer è stato riconosciuto e premiato con mostre internazionali e borse di studio, in particolare: due Guggenheim Fellowships, due Rockefeller Grant, il premio Wexner, una MacArthur Fellowship e mostre retrospettive al Kunsthaus Bregenz e Museo Ludwig, Colonia (2012); al Getty Research Institute, Los Angeles; e presso Raven Row, Londra (2014).

La sua autobiografia – Feelings Are Facts: a Life – è stata pubblicata da MIT Press nel 2006 e una selezione delle sue poesie da Paul Chan per Badlands Unlimited nel 2011.

di Francesca Pasini

Un tour milanese attraverso mostre e opere di questa inizio estate. Incontrando soggettività diverse, mondi vicini e lontani attraverso cui interrogarsi. Perché l’arte è questo.

Anche se non biologico, l’opera d’arte è un soggetto vivente. Una delle sue prerogative è di allontanare l’intersoggettività dal conflitto tra autonomia e dipendenza. Il soggetto-opera, infatti, interagisce attraverso la propria storia “personale” e, soprattutto, rendendo visibili immagini del sé che erano imprigionate. Una specie di “carattere impersonale”, aperto, che ognuno può accogliere perché la figura non è fuori, ma dentro il dialogo tra sé e l’altro. Si determina un “luogo terzo” dove avviene la mediazione per incontrarsi in reciproca autonomia, senza opporsi o separarsi. Le distinzioni agiscono all’interno delle soggettività sprigionando tratti imprevisti del sé che entrano nel dialogo. E questo si rinnova di volta in volta. Il soggetto-opera rimane lo stesso, ma i suoi messaggi e le sue mediazioni cambiano in alleanza con gli sguardi di osservatori e osservatrici.

Questa è la base dell’universalità dell’arte che, da un lato supera il tempo lineare (succede anche di fronte a opere del passato), dall’altro rende visibile la differenza tra uomini e donne, non come opposizione binaria (soggetto – oggetto), ma come un dialogo con l’altro da sé, interno sia all’opera, sia allo sguardo di chi la osserva. In questi ultimi giorni, ho incontrato soggetti con i quali ho stabilito momenti di intersoggettività.
Comincio da “Fashion as Social Energy”, a cura di Anna Detheridge e Gabi Scardi, Palazzo Morando, Milano fino al 30 agosto. La storia riguarda il vestito dell’altro, cioè le tradizioni psicologiche, che si addensano nella pratica estetica di vestire il corpo. Il vestito è la forma più spontanea per assorbire gli scarti emotivi, i segni identificatori, le memorie e la rappresentazione del corpo. Spesso si abbreviano le distanze e si arriva al proverbio “l’abito non fa il monaco” o al suo contrario. Se l’abito è un’opera-soggetto possiamo, invece, cogliere l’emozione di un’alterità che vorremmo provare. È il caso di Luigi Coppola e Marzia Migliora: Io in testa, 2013, (foto di home page, di Francesco Niccolai). Una straordinaria processione di copricapo di carta da giornale, issati su aste, che, dalla classica barchetta dei muratori, si trasformano in “teste”. I tratti somatici sono titoli, foto, articoli. Il giornale è il vestito che indossiamo ogni giorno, ma Io in testa adesso cos’ho? Ho la memoria di una cultura civica, che non sempre affiora dai giornali. Intanto scorrono i treni affollati di Kimsooja, davanti a panni sbattutiti, lavati, strizzati, tinti incessantemente lungo le strade. Siamo a Mumbai, il movimento dei panni corre al ritmo dei treni verso il mercato globale (foto sopra). Un vestito collettivo, che scolora nella disparità. Giro l’angolo e in una vecchia vetrina di legno vedo gioielli, falsi, kitsch, bellissimi, raccontano l’abito che classifica l’etnia rom (Roma Coats -Gypsy Globales). Maria Papadimitriou fa scattare lo sgambetto. L’alterità non trova pace nella bellezza sotto vetro di questi gioielli. La mediazione che offre però mi ricorda che il radicalmente altro, esiste e resiste anche nell’arte.
Un altro abito che ha molto a che fare con l’abitare è il cibo. In questi mesi di Expo è ovunque. Nel documentario/video d’artista Il faut donner à manger aux gens?-  realizzato, nel 2014, da Paola Anzichè e dall’antropologo Ivan Bargna a Douala nell’Ovest del Camerun – è una chiave di contatto con l’Origine con la maiuscola. Mangiare è la prima facoltà dell’abitare. Il focolare lo abbiamo tutti dentro, ma qui lo vediamo nella sua regolarità, povera, precaria, in mezzo a una vegetazione densa, verde, polverosa, interrotta da baracche, veicoli, telefonini. È diversa, ma non così tanto dai brandelli di boschi, di acque, di lagune che ancora esistono dietro la porta delle nostre case. La natura non rispetta confini, continenti: ovunque fascino e paura si ripetono. Ci fanno riconoscere qualcosa, rispetto a forze che invece conosciamo pochissimo. Tutto il film racconta il cibo mentre viene cucinato, cercato, comprato, mangiato. Relazioni, affetti, fame, riti, indicano senza enfasi, con delicatezza, con rispetto, il centro della vita. Che si può fare per l’Africa? Probabilmente nulla. L’Occidente e la sua arte più che trasferirsi là, devono rispondere a una domanda tremenda: mangiare il cibo degli altri (le sue risorse) cosa ha che fare con il centro della vita?
Poi sono andata a Genova e il vestito dell’altro mi ha fatto vedere, qualcos’altro.
Galleria Pinksummer ospita, fino al 31 Luglio, The Icelandic Love Corporation, un trio di artiste che, da quando si sono incontrate all’Accademia di Reykjavík nel 1996, non si sono più lasciate. Il loro baricentro è la performance e il nylon, anzi i collant. Un materiale sintetico, elastico, forte, che alla più piccola smagliatura si disfa. Il “vestito” con cui creano sculture, oggetti, scene, fa cortocircuito con lo stereotipo della seduzione femminile, con la smagliatura sociale, culturale, con l’inquinamento ambientale. È anche un ponte con i “Circoli di Cucito”, dove negli anni ’80 le loro madri mettevano in pratica la relazione tra donne, raccontandosi come vivere e cambiare la vita.  In galleria, una grande parete a strisce di collant colorati, fa da quinta: si passa attraverso e si “va al cinema”. Qui c’è la registrazione della performance Think Less – Feel More. Oggetti, sculture, suoni fanno spazio alla conoscenza emotiva (feel more) più che all’ordine razionale (think less). Sono oggetti disposti a ragnatela, che invitano a tessere la tela della propria soggettività emotiva. Il filo di nylon forte, ma che subisce le smagliature, è il materiale che disfa il binomio “soggetto-oggetto”.
L’ambiente, la storia, le culture hanno prodotto sensibilità sostanziali all’abitare. Oggi siamo spesso dislocati nei “vestiti degli altri”, perché è facile connettersi, ma Michelangelo Consani (Prometeo Gallery, Milano, fino al 31 luglio, a cura di Matteo Lucchetti), tocca una profondità che non si può vivere da lontano. Dall’attrazione per il Giappone ci porta dentro l’influenza dei disastri nucleari, Hiroshima, Nagasaki, Fukushima, ma la storia che racconta è fatta di frammenti, incandescenti eppure “normali”. Come se non fossero dall’altra parte del mondo, ma dentro il mondo. Le Cose Potrebbero Cambiare, dichiara nel titolo. Come? Indossando il vestito di chi ci coinvolge. E così il piccolo video dei maiali che scappano dagli allevamenti dopo lo scoppio di Fukushima ci mostra l’ambigua libertà attuale. Mentre, nel busto dell’agronomo Masanobu Fukuoka, appare quella libertà che può essere garantita solo da se stessi. Per riconciliare l’equilibrio di cultura, scienza, coltura, Fukuoka (1913 – 2008) abbandona la chimica e si dedica a un’agricoltura seguace del Buddhismo Zen. Consani lo plasma in terracotta giapponese, incorpora il vuoto in modo che il volto vecchio, dolce, intenso, sembri appena sospeso sulle spalle. Un meraviglioso ritratto del cambiamento che segna una vita, sprigiona un sé, aperto a un’intersoggettività dove uomini, donne, natura cercano di stare insieme.
(exibart.com, 20/6/2015)

dal 19 giugno al 30 giugno 2015

Associazione Apriti Cielo! Via L.Spallanzani 16 – Milano

Inauguazione Mostra 30 giugno 2015 ore 18,30

La Mostra “Nature Viventi” nasce in simbiosi tra danza e fotografia, storie di immagini rappresentano incontri casuali tra l’umano  e la natura.   Nascono così dei rapporti che fondono i confini tra figura umana e forme che si concretizzano in esistenza reale, vivendo di vita propria.

Sono momenti irripetibili fatti di silenzio ed emozioni, che fanno riscoprire la fiducia e la gioia di appartenere a tutto il creato
Tale esperienza è nata in un’ isola del mare Mediterraneo, da un incontro fra due artiste che hanno  prasticano arti diverse, quali la danza e la fotografia .

la mostra è aperta sino al 30 giugno 2015 con i seguenti orari:

da martedì al sabato dalle ore 17 alle 19,30 oppure su appuntamento

telefonando al 3498682453

Helene Gritsch
Pittrice e grafica artistica, nata Innsbruk, vive e lavora a Milano. Diplomata in pittura all’accademia di belle Arti di Brera, MIlano.

http://helenegritsch2015.blogspot.it/2015/05/animambiente-foto-di-helene-gritsch.html

Isabelle Sagi

Danzatrice contemporanea e performer, vive e lavora a Düsseldorf, Germania. Ha lavorato con docenti internazionali e coreografi di danza moderna e contemporanea.

Kiki Smith è figlia d’arte, suo padre era Tony Smith, noto scultore minimalista. Lei usa materiali tradizionali e malleabili (scultura e disegno su carta in particolare) per affrontare tematiche comuni e quotidiane come l’identità, gli stereotipi sessuali e il corpo, affiancandosi in ciò all’impegno di altre artiste degli anni ’80-’90 come Rosemarie Trockel e, come lei, schierandosi all’interno del movimento femminista.

Il suo lavoro è forte e correlato con il tema della materialità del corpo, della sua deperibilità e vulnerabilità. In particolare è il corpo femminile ad essere preso in esame, specie come oggetto erotico visto attraverso la lente degli artisti di sesso maschile. Altro tema affrontato da Kiki Smith in tempi più recenti è quello del rapporto tra l’uomo e la natura, tra il corpo e il mondo.

A volte le opere dell’artista americana sono ispirate al mito, alla favola (Cappuccetto Rosso), alla letteratura (Alice nel paese delle meraviglie), sempre nello sforzo di reinterpretarne il significato in chiave attuale. Al giorno d’oggi è tra gli artisti più quotati al mondo, con la sua opera “Untitled (Butterfly)” aggiudicata da Christie’s lo scorso anno per più di 200 mila euro.

http://www.artsblog.it/post/1141/kiki-smith-femminismo-e-fragilita-umana


Alcuni lavori di Kiki Smith

Dove si narra di una passeggiata tra alcune opere, di un’artista un po’ strega e delle Arpie traghettatrici d’anime.

[Disse Senzanome, l’Arpia sull’albero] “Ascoltami bene. Migliaia di anni fa, quando arrivarono qui i primi spiriti, l’autorità ci conferì il potere di vedere in ciascuno di loro le cose peggiori, e da allora ci siamo nutrite del peggio, fino a irrancidirci il sangue e avvelenarci i cuori. Ma era la sola cosa di cui potessimo nutrirci.”

[…]

“Dunque ecco il vostro nuovo compito, un compito che soltanto voi [Arpie] potete espletare, voi che siete le custodi e le intendenti di questo luogo. Il vostro compito sarà quello di guidare gli spiriti dal punto di approdo sul lago e attraverso la terra della morte fino alla nuova finestra sul mondo esterno. In cambio, gli spiriti dovranno raccontarvi le loro storie come equo e dovuto pagamento per la vostra guida. Questo vi sembra giusto?” Senzanome guardò le sue sorelle e tutte annuirono. Poi disse: “E noi abbiamo il diritto di rifiutare di guidare chi mente, o chi non dice tutto, o chi non ha niente da dirci. Se vivono nel mondo, devono vedere e toccare e ascoltare e amare e imparare. Faremo un’eccezione per quegli infanti che non hanno avuto il tempo di imparare, ma in ogni altro caso ci rifiuteremo di guidare chi arriverà a mani vuote.”

Philip Pullman, Queste oscure materie: Il cannocchiale d’ambra

Camminare. Percorrere. Una sala dietro l’altra ad aprire squarci di senso. Basta varcare la soglia per entrare in altre geografie. Le mostre a volte portano altrove – soprattutto quelle di arte contemporanea, penso io. Sono salti nello spazio-tempo.
A Verona, nel 2004, mi sono ritrovata in uno stormo di Arpie. L’esposizione si intitolava La creazione ansiosa e si perdeva nel labirintico percorso di Palazzo Forti. Come non andare? Lì conobbi le donne-uccello di Kiki Smith. “Sirens” era il titolo, perché nel mito le piume si confondono con le squame. Avrebbero potuto alzarsi in volo e gridare di rabbia antica, avrebbero potuto soffiare via tutto, loro creature demoniache di bronzo e tempesta. Certe opere hanno un’intensità magnetica, sono come richiami dell’altrove, come voci dal pozzo dell’inconscio. È così che ho conosciuto Kiki Smith, l’artista un po’ strega.

Sono attratta dalla varietà, curiosa di sperimentare il più possibile. Faccio disegni, stampe, sculture, video, foto e arazzi.

K. Smith

Materia. Nelle sue opere la materia si solidifica in golem e animali totemici, in cataloghi di organi umani disegnati o incisi molte volte e molte ancora, su enormi fogli di carta di riso; sono mutevoli ossessioni su fragili supporti, dei mantra dell’anatomia, dei racconti delle viscere.
Lana, stoffa, arazzi, gomitoli di filo spinato. Carta e piume. Vetro, malleabile cera, domestiche presenze di ceramica, bronzo, pietra. Solide presenze mitologiche ti afferrano alla gola. Perché, penso io, come un’arpia a volte l’arte sa artigliarti e trasportarti altrove.

Di bronzo è “Lilith”, sta sulla parete e ti blocca il passo. Accucciata sul muro ti inchioda con lo sguardo. Un’oscura presenza con chiari occhi ipnotici. Sfida la forza di gravità e vince. Prima moglie di Adamo, lo lasciò perché non voleva essere sottomessa. Lei voleva uguaglianza, venne ripudiata, e la tradizione la trasformò in demone. Grida. Ferisce. Esulta di libertà. Lilith potente si muove sulle pareti, con la lingua lambisce sogni e desideri e a volte li azzanna. Come raccontare un’artista? Le sue creature parlano al suo posto, penso io, le sue creature e quello che ti fanno.

In una precedente intervista lei parlava a proposito del corpo femminile e rimandava a un senso di vergogna sempre presente. Perché?

– È qualcosa di radicato nella mitologia giudaico-cristiana, risale a Eva e in particolare è molto interna al cattolicesimo. La vergogna di Eva è la prima storia femminile che viene raccontata e si intreccia con molti aspetti del proprio sistema di credenze, quello che siamo chiamati a rettificare nella nostra quotidianità. Il corpo è una costruzione sociale ma è anche un’entità fisiologica che oltretutto muta nel tempo. Non so cos’era in origine; il corpo è molte cose insieme e i suoi elementi, proprio come in una persona, si battono per il controllo fino a arrivare all’affermazione di sé, alla propria presenza. [*]

Sfibrato, inginocchiato, aperto, esplorato. Kiki Smith gira intorno al corpo, ai suoi fluidi, ai suoi tabù e alle sue fragilità, raccontandole, mescolandole con la fiaba, con il mito, evocando l’invisibile.

Ancora bronzo, c’è una donna che nasce da un cerva (“Born”), nasce intera e adulta. Ne incarna forse tutta l’energia vitale, come una dea Diana dei nostri giorni, partorita dalla forza del bosco. Lo stesso bosco dove si avventura Cappuccetto rosso che cammina con il lupo in una lunga serie di incisioni, lunga quanto dura il mondo. Alcune opere ti attraversano come le nenie, le cantilene. Attraversano il corpo per arrivare nei luoghi della memoria. Piano piano le sale si animano di fantasmi. Nei lavori si scorgono affinità nelle metamorfosi, assonanze nelle ambigue relazioni fra l’uomo e la natura. Nascono evocazioni ad altre artiste alcune dimenticate come Leonor Fini, Meret Oppenheim o Leonora Carrington, altre più frequentate come Frida Kahlo o perché no, Louise Bourgeois… e altre, altre ancora.

Che tipo di artista è?

-Non ho bisogno di ritrovarmi in qualche ideologia. La creatività è una pura questione di consapevolezza. Un modo per sintetizzare. È un buon linguaggio per incarnare la coscienza in maniera visibile a tutti. È come una prova. Io non sono la persona più introspettiva al mondo, sono solo più vorace. [*]

Divorare. Annusare. Afferrare. Sfiorare. Partorire. Incidere. Disegnare. Defecare. L’arte si incarna nel mondo fisico. Diventa spessore, peso, ferita, lama, trama. Plasma delle porte che permettono di far scorrere il pensiero, che dan respiro alle emozioni. Là ognuno può trovare qualcosa, o niente, o troppo.

Io credo nell’arte come una nostra possibilità di auto-rappresentarci, di rappresentare le nostre esperienze umane. A volte creo immagini dure, ma per me sono tentativi di sopravvivenza.

K. Smith

A volte l’arte ti cambia il ritmo del respiro, perché leggera passa un’intuizione, un lampo, una risata. Ed è già molto.

Il lavoro di un artista prende tante direzioni diverse quanti sono i capelli che uno ha in testa. Va dove vuole.

K. Smith

http://www.softrevolutionzine.org/2014/kiki-smith-arte-mito-corpo/

di Davide Frattini

 

DEIR AL-BALAH – Il 19 novembre del 2013 Nidaa Badwan ha chiuso la porta della sua camera e non è più uscita per quattordici mesi. Il giorno prima i miliziani di Hamas l’avevano fermata mentre aiutava un gruppo di giovani a preparare una mostra.
«Perché porti quei pantaloni larghi? Devi indossare il velo non quel cappello colorato di lana. Sei strana, chi sei?».
«Un’artista».
«Che vuol dire? Che cos’è un’artista e soprattutto che cos’è un’artista donna?».

La stanza dell’isolamento, della prigionia autoimposta, è piccola nove metri quadrati, una sola finestra, una lampadina appesa ai fili elettrici. Le pareti sono colorate: adesso una è blu-verde oceano, quella di fronte coperta con un arcobaleno di cartoni per le uova. Cambiano come cambia l’ispirazione di Nidaa e soprattutto la luce naturale. «A volte devo aspettare ore per trovare i contrasti, le ombre che sto immaginando», racconta. A quel punto lo sfondo è già allestito: strumenti musicali (un oud, una chitarra rotta), una vecchia macchina per scrivere, una cucitrice, gomitoli di lana, una scala di legno da imbianchino.
Nidaa indossa il costume, risistema l’inquadratura e scatta: autoritratti dove il volto quasi non si riconosce, composizioni che a Marion Slitine, specialista francese di arte contemporanea palestinese, fanno pensare «alle nature morte di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, ai chiaroscuri di Caravaggio, alle scene teatralizzate e neo-classiche di Jacques-Louis David».
Per Nidaa sono le uniche scene che vuole vedere. Non ha lasciato la casa neppure durante i cinquanta giorni di guerra tra Israele e Hamas l’estate scorsa. La famiglia è scappata da questo villaggio nella parte centrale della Striscia e si è rifugiata verso la città di Gaza. La ragazza, 28 anni, è rimasta sotto i bombardamenti, circondata dalla distruzione. L’opera composta in quelle settimane la mostra mentre si rovescia in testa un secchio pieno d’acqua e vernice rossa, un macabro «ice bucket challenge» per raccontare il sangue attorno a sé.

«Questo spazio – dice mentre accarezza la macchina fotografica – mi ha dato la libertà che fuori non potevo trovare. Libertà dal grigiore e dalla bruttezza di Gaza, dall’assedio israeliano, libertà dalle imposizioni degli uomini di Hamas». La prima foto scattata sembra rivolta a loro e forse a tutti i maschi: Nidaa imbraccia l’oud e impone con il dito di piantarla a un gallo combattivo.
La seconda ringrazia la madre che con il padre, i due fratelli, le tre sorelle non l’ha mai abbandonata: «Nei primi mesi di autoreclusione ho pensato di suicidarmi, erano molto preoccupati. La mamma ha cominciato a lasciare davanti alla porta, oltre al cibo, piccoli compiti: i pomodori da tagliare, un’insalata da preparare». Nell’inquadratura sbuccia le cipolle, piange, anche di gioia, sono le prime opere, quelle che le hanno permesso di ricominciare. Nata Abu Dhabi, è tornata a Gaza con i genitori nel 1996 dopo gli accordi di Oslo: «C’era tanta speranza allora, mi sono sentita a casa, ho potuto studiare Belle Arti».
A gennaio gli amici l’hanno convinta a uscire almeno per qualche ora. Avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione della sua mostra «Cento giorni di solitudine», portata a Gerusalemme e in giro per la Cisgiordania dal Centro culturale francese. Gli israeliani non le hanno concesso il permesso di lasciare la Striscia, gli organizzatori hanno cercato di allestire un collegamento via Skype da Gaza e Nidaa ha accettato di andare da loro: «E’ saltata l’elettricità, niente evento. Lo stesso problema a casa quando devo fotografare. Così uso la luce naturale, è più affidabile: non posso interrompere la relazione tra il sole e la mia stanza».

Da allora ha lasciato la camera altre due volte per visitare l’istituto francese nella Striscia, chiuso al pubblico dopo la strage alla rivista parigina Charlie Hebdo e le proteste degli estremisti palestinesi per la nuova pubblicazione delle vignette che raffigurano Maometto.
Quando è per strada, adesso tira su il velo appena qualcuno si avvicina, porta gli occhiali scuri e tiene una mano davanti agli occhi: «Voglio guardarmi intorno il meno possibile per non rovinare le visioni che mi aspettano nella mia stanza».

Nidaa Badwan

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(Corriere della Sera, giugno 2015)

In una bella intervista rilasciata qualche tempo fa a Christiane Meyer-Thoss, Louise Bourgeois, scultrice, nata a Parigi nel 1911, ma residente a New York dal 1938, invitata a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia di quest’anno, ha dichiarato: “La storia della mia carriera è stata questa. Per molti anni, fortunatamente, i miei lavori non si sono venduti né per profitto né per altre ragioni. Io ero molto produttiva, perché nessuno cercava di copiare il mio alfabeto. Ne avevano sentito parlare, perché nel corso degli anni qualche mostra l’avevo fatta, ma non avevo venduto. E in America vendere equivale a avere successo. La mia immagine è rimasta tutta mia e di questo sono molto riconoscente. Ho lavorato in pace per quarant’anni. La produzione del mio lavoro non ha avuto niente a che vedere con la sua vendita. Su di me il mercato continua a non avere alcun effetto, né in positivo né in negativo”.

 

Prolifica, solitaria, controcorrente, in tutti questi anni Bourgeois ha tenacemente fatto della sua ricerca artistica il luogo dichiarato di una lucida autoanalisi. Convinta della necessità di non rimuovere, di non distrarsi da sé e dell’utilità, ancor meglio dell’inevitabilità, di fare i conti con il proprio passato, con i fantasmi dell’infanzia e della vicenda familiare oltre che con le tracce da essi inscritte nel corpo, l’artista ha scelto la scultura come mezzo di anamnesi e insieme di espressione. Indifferente alle mode culturali e alle tendenze artistiche che hanno via via dominato il nostro secolo, eppure di esse assai avvertita, ha perseguito una sua strada che solo verso la fine degli anni settanta ha incrociato il gusto e le nuove direttive del mercato dell’arte. È così che, a settant’anni compiuti e senza mai essersi allontanata da una sua privata e rigorosa linea di ricerca, Louise Bourgeois si è trovata a rappresentare al livello più alto tanto il discorso estetico oggi prevalente quanto i nuovi umori politici e sociali.

 

L’ho incontrata nella sua casa di New York, alle undici di mattina. Accanto a lei Jerry Gorovoy, suo assistente e manager, che si rivelerà via via una sorta di nume tutelare, presenza benigna e rassicurante, ironico e paziente alter ego dell’artista. Capace tanto di districarsi nelle secche di una comunicazione per Louise fastidiosamente solo “verbale,” quanto nelle iniziali diffidenze – e relativi test a cui la sottoscritta è stata doverosamente sottoposta – verso l’ennesima intervista. “Cinque minuti di gloria, solo perché mi hanno invitata alla Biennale di Venezia”, si lamenta Bourgeois, accusando stanchezza e irritazione verso quello che sembra essere un vero assalto dei media. “Mi chiedono tutti le stesse cose e poi a me non piace parlare. Io parlo attraverso il mio lavoro.” E mi gira intorno rifiutando di sedersi e, inizialmente, di parlare con il registratore acceso. Il suo sembra essere un rivisitato e ribaltato scenario da “via/qui” freudiano, istintivo e insieme sapientemente ironico e teatrale.

 

Sfruttando la topografia della sua casa inizia una sorta di azione coreografica piena di entrate e uscite di scena. Per un attimo è in piedi davanti a me, le mani appoggiate al tavolo e lo sguardo diretto e sospettoso di chi si teme in pericolo, e l’istante dopo è sparita. Risucchiata nel labirinto circolare delle stanze, mi parla da lontano e la sua voce fuori campo è quasi impercettibile. È Jerry a richiamarla e a ricordarle che in questo modo le sue parole rischiano di svanire su una cassetta impotente. Ricompare ogni volta portandosi dietro qualcosa, fotografia, disegno, oggetto, da cui fa ripartire il discorso. Dal punto esatto in cui credevo di averla persa.

 

Come si vedrà, l’intervista è dunque a tre voci: Louise, Jerry e chi scrive. Quando necessario si darà conto dei movimenti dell’artista nello spazio-casa, delle pause temporali tra uscite di scena e successivi ritorni, delle immagini che accompagnano le parole quasi a dare loro corpo e a restituire all’artista il suo, sommerso dall’ansia di essere imprigionato (tradito?) nei monchi e sghembi paradossi della disincarnata comunicazione verbale.

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MN:Parlami di tuo padre e di tua madre e di te come madre di tre figli.

LB: Io sono un’ottima madre, perché sono una madre che accetta. Non chiedo niente. Fintanto che i miei figli non vanno in guerra, in prigione o in ospedale, fintanto che non finiscono in uno di questi tre posti, io sono soddisfatta. Questo è tutto quello che chiedo. Dai miei figli non esigo e non pretendo nient’altro. Se vuoi puoi parlare con loro.

JG: Louise si è anche occupata di sua madre. Era malata e lei se ne è assunta la responsabilità.

LB: Mia madre aveva un enfisema polmonare. È per questo che la mia famiglia, una famiglia molto borghese e molto europea, andava a passare l’inverno nel sud della Francia. Ricordo che, per darle sollievo, le mettevo delle ventose sul torace. Ero diventata la sua infermiera a tempo pieno e questo è stato molto importante per la mia evoluzione. Anni dopo avrei rifatto quello stesso gesto di applicare le ventose sul corpo di Jerry. Arte-terapia. Arte-medicina. Basta guardare la serie delle sculture realizzate con le ventose (vedi Ventouse, 1990)

 

MN: Louise ha anche insegnato. Il rapporto insegnante-studente può adombrare una funzione materna o parentale?

JG: Louise ha insegnato, ma non a lungo e mai a tempo pieno. Lo ha fatto negli anni settanta, dopo la morte del marito. Ma non le è mai piaciuto: la stancava troppo e inoltre non ha mai creduto che l’arte si possa insegnare. La si può insegnare solo se gli studenti ti amano molto. Ma molti studenti sono ostili.

 

MN: A parlare con artisti e soprattutto artiste più giovani mi è capitato spesso di sentir parlare di Louise come di una madre simbolica, di una figura modello.

JG: La vedono come qualcuno che ha affrontato gli stessi temi e le stesse questioni che loro stanno affrontando oggi. Solo che Louise lo ha fatto, senza cedimenti, per tutta una vita. Credo che la vedano anche come un’artista che ha dimostrato che si può avere successo alle proprie condizioni. Una prova che anche le donne possono farcela. Sia rispetto al mercato che alla risposta dei critici. Non sono state molte le donne che sono riuscite a farcela.

 

MN: Però le ci è voluta una vita.

JG: Sì e inoltre non ha fatto nulla per riuscirci. Non ha neppure provato. La gente trama, manipola, cerca strade di tutti i tipi pur di affermarsi. Louise non ha avuto nessuna strategia. Chiedi come ha fatto a diventare famosa? È semplicemente successo. E la spiegazione sta nella combinazione di una serie di ragioni. Per prima cosa, quando l’astrazione e il formalismo sono arrivati al collasso, l’interesse della gente si è rivolto all’immaginazione, alla sessualità, alla narrativa, al personale, all’autobiografico. Nel mondo dell’arte, agli inizi degli anni settanta, c’è stato un vero e proprio cambio della guardia. Si è trattato di un’inversione di tendenza, di un mutamento di sensibilità. E, quando questo mutamento si è verificato, ecco Louise che per quarant’anni aveva lavorato sulle stesse questioni su cui un mucchio di artisti delle nuove generazioni cominciavano appena a lavorare. La reputazione di Louise non si è costruita attraverso i suoi pari e i suoi coetanei, bensì attraverso gli artisti delle generazioni successive che sono venuti a vedere quello che stava facendo e la hanno assunta come figura di riferimento, come esempio. Ripeto, non è stata la sua generazione a capirla, ma i più giovani, impegnati in una reazione decisa contro il formalismo puro. Non che Louise non fosse interessata alla forma. Il fatto è che, a differenza di tanti tra cui Greenberg, il suo discorso non si è mai limitato a una ricerca sulla forma o sui materiali.

Il femminismo è stato probabilmente uno degli altri elementi che hanno portato alla ribalta il lavoro di Louise.

LB: Le femministe mi hanno presa come modello, come madre. La cosa mi irrita. Non mi interessa fare la madre. Mi irritano davvero. Il punto non è questo. Io sono ancora una ragazzina che cerca di capire se stessa. Non sono una madre. Sono stata una madre reale e mi sono presa cura dei miei figli. Questo per me non è stato un problema.

 

MN: Tre figli maschi. Nessuna figlia.

LB: No, grazie a dio. È già difficile con i ragazzi, ma con una figlia è un’impresa disperata. Perché, vedi, i figli maschi ti amano davvero. Non sono sicura che con le figlie sia la stessa cosa. In ogni modo le ragazze sono più complicate e a me almeno questo problema è stato risparmiato.

 

MN: Cosa provi nei confronti delle donne? Solidarietà, competizione, rabbia, invidia…

LB: È una domanda troppo vaga. Ti rispondo rimandandoti a un mio vecchio lavoro, The Blind Leading the Blind (Il cieco che fa da guida ai ciechi, 1947/49).

 

MN: Parliamo della figura paterna. In molte tue opere ti sei applicata a smontarla, ridicolizzarla, cannibalizzarla. Come a saldare un tuo privato conto con il passato familiare, a vendicare te stessa e forse tua madre. Vedi una vera differenza tra le figure paterne, gli uomini di potere, e la figura del figlio?

LB: Sì, senza dubbio.

 

MN: Ma non credi che, prima o poi, tutti gli uomini diventino “padri”?

LB: No, non tutti gli uomini sono figure di potere.

JG: Credo che tu stia generalizzando. Parlando di figure paterne, Louise si riferisce a uomini che si prendono troppo sul serio, pomposi, pontificanti, tutti interni al loro ruolo e ben attaccati a posizioni di potere, che non si capisce neppure come abbiano raggiunto tanto si pongono al di là delle regole del gioco.

 

MN: Ribaltiamo la questione. In un’opera del 1947/49,The Dagger Child, tu rappresenti un bambino armato, un bambino-minaccia, in procinto di ferire la madre attraverso il suo bisogno. Dunque da una parte uomini potenti e prepotenti e dall’altra bambini ammalati di dipendenza. Non c’è proprio possibilità per le donne di avere a che fare con uomini maturi, che non ricorrano continuamente a giochi di potere o a ricatti? O devono diventare santi?

JG: (Ride) Vuoi dire che le donne non fanno le stesse cose? Anche una figlia può ricattare la madre. Non credo che si tratti di una questione di genere.

LB: L’esplosione di collera, vista dal punto di vista del bambino, ha due protagonisti, il grande e il piccolo. In certi casi, quando si è tra persone ragionevoli, non c’è bisogno di arrivarci. Ma anche la tensione può essere ricattatoria: se non fai quello che voglio, mi uccido; sposto su di te la responsabilità della mia morte. È una cosa difficile da accettare. Una volta che una certa amica ha tentato di fare con me questo giochino – se non mi ami, mi uccido – io le ho risposto: per favore ucciditi, io vado al cinema.

 

MN: Fantastico.

LB: Era abbastanza forte da rifiutare di assumersi la responsabilità. Ma questo vale per uomini e donne e per persone di tutte le età.

 

MN: Ritorniamo dunque al padre e al tuo desiderio di vendicarti mettendolo in ridicolo.

LB: Questo è lo scopo dell’intera faccenda: da vittima passiva a soggetto attivo. L’arte è vendetta. Mi hai fatta soffrire e io adesso faccio soffrire Jerry. Tu l’hai fatto a me e io lo faccio al prossimo.

 

MN: Senti il bisogno di vendicarti anche sulle donne?

LB: Non si tratta di una questione di genere. I giochi di potere non hanno nulla a che fare con il genere a cui si appartiene. Un bambino di tre mesi può rifiutarsi di mangiare, la madre lo forza, lui la respinge, lei insiste. Ti prego, ti prego, ti prego (Louise mima il tutto, piegando la voce a un pigolio piagnucoloso). Ti prego mangia altrimenti morirai. E il bambino pensa: sarei felice di morire, se non altro per liberarmi di te. È un fatto circolare. Il sesso non c’entra. Si tratta di ostilità, di resistenza.

 

MN: Ci sono donne artiste che ami particolarmente?

LB: (Louise esce e rientra con un libro che sfoglia insieme a me. Si tratta di un volume che raccoglie opere di pittrici del seicento e settecento) Se guardi con attenzione queste riproduzioni vedrai che si tratta di opere tecnicamente assai belle. Il tipo che ha curato la selezione amava tutto quello che aveva qualità. Non io. Per me quello che conta è il soggetto. Guarda questo quadro, pura tradizione Chardin, se lo osservi con attenzione scoprirai che anche qui c’è una melagrana. Si tratta in molti casi di nature morte. Un genere, per le donne, tradizionale. Molte non ce l’hanno fatta neppure in questo settore in cui le artiste venivano relegate anche se erano brave quanto o più degli uomini. La natura morta come ghetto, come pittura di secondo piano, dove i padri hanno rinchiuso le donne artiste e dove tuttavia tante di loro hanno dimostrato di essere meravigliosamente dotate, pur accettando un ruolo secondario. Ho deciso di collezionarle, perché mi servano da memento.

 

MN: Conosci Artemisia Gentileschi?

LB: Sì, certo.

 

MN: Be’, lei un ruolo di secondo piano sembra non averlo accettato e i suoi dipinti parlano di una vera e propria furia, di una radicale non accettazione.

LB: Eppure eccola qui. Mi sono molto care tutte queste donne che con il loro lavoro hanno saputo dimostrare di essere grandi artiste. Per quel che riguarda me, ho raggiunto un’età in cui ho imparato a accettare. Oggi quello che mi sta a cuore è trovare una via per esprimermi e per esprimere la mia aggressività e credo di averla trovata. Non combatto più contro nessuno. Combatto dentro di me e con i materiali. Legno tagliato in tutte le direzioni, la resistenza della pietra e del marmo, l’arrendevolezza della cera e delle fusioni.

JG: La materialità e la fisicità del fare sono molto importanti per Louise. Tagliare è aggressivo. Ci sono volte in cui non se la sente di tagliare e altre in cui è nello stato d’animo di mettere insieme e combinare cose. Ogni cosa, nel farsi fisico del lavoro artistico, ha una sua contropartita psicologica. Se Louise è di un certo umore non ce la fa a tagliare il legno, non se la sente, troppo aggressivo, impossibile farlo. Questa è una cosa molto importante da sapere: che posto prende il corpo e come la natura di una scultura dipenda dallo stato mentale di Louise, da come lei si sente.

 

MN: Come hai scoperto le cose che mi stai dicendo?

JG: Le ho osservate e alcune mi sono state confermate. Certe le so, perché è da molto tempo che sono accanto a Louise.

 

MN: Discutete molto?

LB: No, con Jerry è impossibile discutere. Ha sempre l’ultima parola. È per questo che mi piace.

 

MN: È stata molto dolorosa, Louise, la nostra intervista?

LB: No, perché le tue domande erano tutte molto buone e non c’è stata tensione. Adesso Jerry ti mostrerà alcune cassette in modo che tu possa completare le mie risposte.

 

(New York City, marzo 1993)

In: Maria Nadotti, Prove d’ascolto. Incontri e visioni, Edizioni dell’asino, Roma 2011.

di Mariella Pasinati

Questa volta, diversamente dal solito, è un’energia positiva che ci restituisce Raìces (radici), la performance appositamente concepita per Palermo da Regina Josè Galindo (1974), l’artista guatemalteca e figura rappresentativa del contemporaneo (Leone d’Oro come “artista under 35” alla Biennale di Venezia del 2005) nota per le sue azioni radicali ed estreme che disturbano nel profondo e sconvolgono, spesso lasciandoci senza fiato.

L’ha sottolineato la stessa Galindo a conclusione delle iniziative che hanno accompagnato la sua ultima azione realizzata il 23 aprile scorso negli spazi dell’Orto Botanico come parte di un progetto più vasto -promosso da Arcigay e sostenuto dal Comune di Palermo- che ha incluso la presentazione del video Descensión (2013) e la mostra Estoy viva, a cura di Eugenio Viola e Diego Sileo, già allestita nel 2014 al PAC di Milano (si visita fino al 28 giugno nel padiglione ZAC dei Cantieri culturali alla Zisa).

Galindo ha, infatti, sentito Raìces come la chiusura perfetta del percorso di Estoy viva iniziato lo scorso anno a Milano con una nota aspra e dura1, come sempre nelle azioni ad alta intensità emozionale proposte dall’artista guatemalteca, ma germogliato come un seme a Palermo. Perché Raìces parla di s/radicamento e rapporto con la terra, di diversità etniche e comune umanità, partendo dal sentimento della separazione, dal senso della perdita, dal male dello sradicamento, una delle ferite più laceranti del nostro tempo.

Con sorprendente convergenza temporale, in una momento così pesantemente segnato dalle morti nel Mediterraneo rispetto alle quali sempre più inadeguate appaiono le parole e risibili le iniziative della politica ufficiale, Raìces ha mostrato una prospettiva diversa, quasi una traduzione in chiave visiva dell’idea weiliana della necessità di soddisfare il radicamento “il più importante e misconosciuto bisogno dell’anima umana”. Così, le braccia profondamente conficcate nella terra ad assorbirne la linfa, Regina è rimasta bocconi, nuda e immobile per due ore ai piedi di un grande albero mentre, sparsi per tutto il giardino, donne e uomini di diverse etnie che oggi vivono a Palermo riproponevano il suo gesto, anch’essi con le braccia piantate nella terra ma vestiti, ognuna/o sotto un albero diverso, in rapporto alle rispettive origini, in una stretta vitale con la natura, quasi un rituale che porta rigenerazione. Lo spazio, l’orto botanico, con le sue piante che provengono da tutto il mondo ne ha costituito la cornice simbolica perfetta in quanto luogo emblematico tanto di una forzata deportazione/migrazione -vegetale ed umana-, quanto del possibile risarcimento, della possibilità di ricongiungersi con la fonte, l’origine delle proprie, diverse identità culturali e insieme rigenerarsi in un nuovo luogo di accoglienza.

La mostra palermitana ripropone, ulteriormente arricchite, le cinque sezioni tematiche che hanno caratterizzato l’esposizione di Milano: DONNA – ORGANICO – VIOLENZA – POLITICA – MORTE, restituendo una visione ricca ed accurata del lavoro dell’artista.

Non si tratta, tuttavia, di una separazione statica, le opere esposte travalicano infatti in maniera evidente le singole sezioni: certamente per l’intreccio dei temi e per il fatto che Galindo rende il suo corpo teatro di un conflitto interminabile agito sulla sua stessa carne; ma soprattutto perché si tratta di un corpo sessuato, di un’artista che non dimentica il suo essere donna. DONNA, infatti, non è una categoria, un contenuto della sua ricerca poetica bensì la posizione da cui Regina guarda la realtà, riferimento imprescindibile per il suo lavoro, insieme al suo paese, il Guatemala martoriato ed insanguinato per trentasei anni da una dittatura ed un potere opprimenti.

Al centro del suo discorso, infatti, c’è l’esperienza non mediata che l’artista vive e patisce in prima persona fino a sottomettersi a un continuo rischio fisico e psicologico che si spinge, a volte, ai limiti del tollerabile. Non si tratta però -ed è questa la sua forza- di una rappresentazione della violenza, del dolore, del trauma, piuttosto di renderli presenti nella concretezza del suo patire. Opportunamente Eugenio Viola ha parlato di estetica sacrificale; assunto intenzionalmente su di sé tutto il dolore del mondo il suo corpo si fa luogo di purificazione che attiva la memoria e la coscienza, lanciando una sfida anche alla vittimizzazione, così il silenzio diventa parola, la passività azione, la vulnerabilità forza.

Messe in visione nel corpo dell’artista, le violenze sferrate sui corpi delle donne e sul mondo -la violenza patriarcale, quella politica e militare, la violenza perpetrata da un potere pervasivo che esercita controllo ed abusi- restituiscono esistenza a ciò che altrimenti rischierebbe di rimanere senza testimonianza e di essere colpevolmente cancellato.

E’ così che esplorando le proprie paure e i propri limiti fisici, il rapporto personalepolitico acquista, nelle azioni di Galindo, senso e spessore nuovi ed imprevisti; le sofferenze di un corpo singolare di donna assumono valenza universale e, nella determinazione e temeraria visceralità delle sue azioni, incarnano la costrizione globale che affligge oggi la stessa condizione umana.

Eccola allora buttare il suo corpo in discarica come un rifiuto (No perdemos nada con nacer, 2000), privarlo della propria libertà, ora immobilizzato (Peso, 2006; Cepo, 2007), ora imprigionato (Libertad condicional, 2009), ora bloccato in una camicia di forza, a farci prendere coscienza dell’inevitabile condizione di dipendenza umana (Camisa de fuerza, 2006) e della necessità della relazione con l’altra/o, come ha mostrato in Rompiendo el hielo nel 2008 ad Oslo dove l’intervento compassionevole del pubblico ha vestito il suo corpo, impedendole di congelare.

La violenza sessista è poi indagata inscrivendo un insulto nella propria carne con la lama affilata di un coltello (Perra, 2005), sottoponendosi alla forzata ricostruzione dell’imene (Himenoplastia, 2004), infliggendosi tanti colpi di frusta quanti sono i femminicidi dell’anno 2005 in Guatemala, in una performance sonora di straordinaria potenza espressiva (279 Golpes, 2005).

Violenza, politica e corpo femminile si intersecano poi in lavori di grande forza e suggestione come Mientras, ellos siguen libres (2007) in cui, incinta e nuda, si costringe a giacere su un letto con le mani e i piedi legati da veri cordoni ombelicali, a ricordare il ricorso alla violenza sessuale da parte dell’esercito nel conflitto armato in Guatemala e, drammaticamente, in tante altre guerre; o ancora in Saqueo (2010), una performance in due tempi durante i quali Galindo prima si assoggetta, in Guatemala, alla perforazione dei molari con otturazioni in oro e quindi se le fa rimuovere in Germania per esporle come opere d’arte: un autentico saccheggio coloniale ai danni del sud del mondo; mentre a distanza di dieci anni da ¿Quién puede borrar las huellas? 2 torna ad affrontare con La verdad (2013) il tema della giustizia negata e della necessità della parola per affermare una verità che, nonostante tutto, non può esser messa a tacere: sebbene si faccia ripetutamente anestetizzare la bocca, Regina continuerà a leggere sia pure con sempre maggiore difficoltà, le testimonianze delle violenze subite rese al processo da chi è sopravvissuto/a ma che, ancora, non ha trovato giustizia.

Per Galindo, infatti, “i corpi sono fragili solo in apparenza”; ne è ulteriore conferma Piedra, la performance realizzata a San Paulo nel 2013 che ha visto tre volontari orinare sul corpo dell’artista, totalmente ricoperto di carbone e “fattosi” pietra: una violenza che è profanazione del corpo femminile ma che allude anche all’offesa inflitta alla terra (l’estrazione del carbone è causa di devastazione ambientale) e allo sfruttamento delle lavoratrici delle miniere del Brasile, ancora corpi a disposizione. Questa volta, però, dei tre volontari una è donna.

Non c’è mai nulla di scontato, infatti, in queste azioni sempre scomode, spiazzanti, eticamente impegnative; così mentre da un lato Regina mostra la straordinaria capacità del corpo femminile, come della pietra, di resistere e sopravvivere agli abusi, dall’altro segnala il pericolo della complicità con il maschile, richiamandoci a un esercizio di responsabilità, come lei stessa ci ricorda: “piuttosto che educare uomini mi interessa educare noi stesse. E’ una questione di riflessione, capire che … siamo state anche noi donne che abbiamo costruito questi uomini con questi principi e con questi valori. Non è una questione di colpa è una questione di responsabilità: cambiare i modelli di società non è facile, ci vorranno molte generazioni, ma è incoraggiante pensare che molto di quel cambiamento è nelle nostre mani, … possiamo cambiare questi paradigmi, promuovere altri valori … e creare nuove generazioni più equilibrate”.

1. La performance milanese Exhalación (estoy viva) consisteva nella presentazione del corpo dell’artista, completamente sedato grazie alla somministrazione controllata di un farmaco, davanti al pubblico che poteva avvicinarsi a lei e catturarne il respiro accostando al naso uno piccolo specchio, segno evidente della vita che continua, nonostante la morte apparente. La performance, tuttavia, non è del tutto riuscita poiché il fisico dell’artista si rifiutava di abbandonarsi completamente al sedativo, così ancora una volta Regina José Galindo si è esposta ad un rischio sfidando i limiti fisici e psicologici del proprio corpo.

2. nella coraggiosa performance realizzata nel 2003, la memoria del sangue versato e l’opposizione alla ricandidatura alla presidenza del golpista Ríos Montt si legano nelle tracce insanguinate dei piedi dell’artista che, bagnati ripetutamente nel sangue umano che Regina porta con sé in un catino, percorrono il tragitto dalla Corte costituzionale al Palazzo nazionale della capitale.

Dal 19 maggio al 20 giugno 2015

“FAME NEL MONDO – SOSPIRI DI VITA”

ARCHIVIO DI STATO DI MILANO
Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo
PALAZZO DEL SENATO
Via Senato, 10 – Milano

MOSTRA-INSTALLAZIONE di TERESA VELLA

Teresa Vella con la Mostra “FAME NEL MONDO – SOSPIRI DI VITA” allestita a Milano nelle Sale espositive dell’Archivio di Stato di Milano, ancora una volta offre l’opportunità ai visitatori di venire a contatto con la realizzazione artistica di elevato valore estetico-contenutistico.
Mostra, questa, che in concomitanza con l’EXPO, sottolinea ancora meglio il messaggio che Teresa Vella più volte diffonde, come ad esempio già nell’Antologica del 2009 presso l’Archivio di Stato di Bari, di agire concretamente per una distribuzione più equa degli alimenti per una fruizione indispensabile a tutti i Paesi del mondo. E questo, lo fa oggi attraverso la realizzazione di un tappeto in stoffa cucito dall’insieme di vari riquadri colorati con al centro di ognuno una certa quantità di pasta, ed un contenitore in vetro trasparente colmo d’acqua posto in fondo al tappeto, e sette ampolle in vetro soffiato sospese ad indicare il soffio vitale. E’ questa, l’Opera che dà il titolo alla Personale “Fame nel mondo – Sospiri di vita”, allestita a Milano.
Altro spazio occupa una seconda Opera “Cubolibro-Salento”, eseguita con vetro industriale-artistico fuso, con l’introduzione sottovetro di una poesia dedicata al Salento, mentre un’altra poesia, posta all’interno del cubo, ne descrive la caratteristica “corte” abitativa del quattrocento. Altre Opere, “Poesie sottovetro”, descrivono anche i sentimenti dell’Amore. Tutto ciò diventa Installazione scenografica attraverso l’utilizzo di reti per la raccolta delle olive, a simbolo della coltura e della cultura mediterranea.
Un terzo spazio ospita l’Opera-Installazione “Perenni Essenze”, struttura in legno con all’interno un contenitore in vetro di Murano colmo di spighe, nucleo dell’essenza della vita, nutrimento materiale e mentale. L’opera si estende sui muri attraverso finestre aperte costruite da semplici strutture lignee e, come all’interno dell’Opera, anche sul pavimento sono distribuite spighe di grano. Una gigantografia raffigurante un campo di grano fa da sfondo.
“Per Tutti”, è il titolo di un insieme di Opere in vetro di Murano finemente realizzate dall’Artista nelle fornaci di Murano. Sono preziosi vassoi piegati, colmi di frutta secca, a rappresentazione di un fondamentale messaggio all’apertura, alla cooperazione e alla generosità per una necessaria distribuzione del cibo, prezioso vitale dono per l’intera umanità.
Apre le porte all’intera Mostra, una significativa Opera dal titolo “Cubolibro Badessa Suor Chiara -1772”, ispirata ad un antico documento del 1773, tratto dal Libro mastro – conti spese alimentari – delle Suore Clarisse del Monastero di Sant’Orsola, custodito dall’Archivio di Stato di Milano.

Catalogo in Mostra – Testo critico: Antonella Marino

Dal lunedì al giovedì 10.00-18.00 / venerdì 10.00-15.00 / sabato 10.00-14.00 / domenica chiuso

Ingresso gratuito e aperto anche alle scolaresche

Teresa Vella
Via C. Annesi, 40 – 73024 Maglie (Lecce)
Mobile +39 3397109 252
e-mail: info@teresavella.com
sito web: www.teresavella.com

 

dL 10 giugno AL 10 luglio 2015

Sinopia Galleria
di Raffaella Lupi
via dei Banchi Nuovi 21/b – ROMA

Vernissage: mercoledi 10 giugno ore 18.00
Opere di LeoNilde Carabba
a cura di Raffaella Lupi

Accompagnano la mostra una selezione di disegni di Utta Wickert-Sili e la presentazione del libro di Alessandro Stefani “Cervelli da buttare”, Armando Editore.

Per l’occasione il libro verrà arricchito con copertine/opere realizzate a mano dagli artisti della Galleria Sinopia.
Con “ALCHIMIA DELLA LUCE” continuano i cicli di mostre della Galleria Sinopia che meditano intorno al tema del dialogo e delle contaminazioni.
La mostra è dedicata all’artista LeoNilde Carabba e vengono presentate sue opere antologiche fino alle ultime produzioni. Opere che si misurano con il mistero dell’Universo e che ambiscono ad esplorare nuovi territori e a varcarne i confini. Ricorrono nei suoi ultimi lavori, sfere concentriche, costellazioni pulsanti di luce dove ogni cerchio è “un richiamo all’armonia inclusiva dell’Uno”.
Oltre alle opere pittoriche di vario formato e di varie epoche sarà esposta, la cartella di grafiche “Materia Mistica” – stampa digitale a 7 colori con interventi manuali, stampate su carta Fabriano Artistico 300 gr. nell’atelier di Giovanni Leombianchi e con testo introduttivo di Cristina Muccioli.

LeoNilde Carabba è artista di fama internazionale, nata nel 1938, si forma nella Milano artistica degli anni ’50-’60 dove ha il sostegno e l’influenza formativa di artisti come Lucio Fontana, Roberto Crippa, Enrico Baj, Turcato, Tancredi, Jean Fautrier, Piero Manzoni, Christo e Carla Accardi. Comincia nel 1966 gli esperimenti sulla rifrazione della luce e sulle sue variabili attraverso l’uso di microsfere di vetro. Oggi completa la sua ricerca con rifrangenze, fluorescenze e fosforescenze e, nel superamento dell’eredità Optical, affronta tematiche scientifiche, esoteriche e cabalistiche. La lettura delle opere della Carabba si completa attraverso l’uso della luce “nera” di Wood e il buio e si nutrono di una tecnica complessa dove alchimia ed esoterismo si incontrano in un mix tecnologicamente molto avanzato. “La mia poetica si definisce con il concetto di arte come gioco, arte come vita, arte come continua reinvenzione del proprio essere nel mondo” cita l’artista.

Nel segno di quello che sempre più sta connotando la Galleria Sinopia come luogo di ricerca e di dialogo tra le arti, per tutta la durata dell’esposizione affiancano LeoNilde Carabba, definita “l’alchimista della luce”, una serie di opere, interventi, sperimentazioni che animeranno il dibattito artistico, creativo e anche scientifico.

Il tema di questo dialogo è da ricercarsi nella sfera fisica emotiva, nelle possibilità dell’arte di tradursi in un generatore di benessere e nella certezza che nell’arte è possibile trovare un rifugio emotivo, fisico e psichico.
In particolare saranno i disegni di Utta Wickert-Sili, grafica pubblicitaria, scenografa, illustratrice, art director nell’editoria, produttrice di libri e riviste, a mostrarci come l’arte produce benessere e migliora la qualità della vita. Utta l’ha sperimentato in prima persona: “Dedicarsi a un disegno, vederlo crescere, cambiare, completarsi: questo dà tantissima soddisfazione e aiuta a riallinearsi con sé stessi […]”.
Sinopia Galleria
di Raffaella Lupi
via dei Banchi Nuovi 21/b – ROMA
(+39) 06 6872869 | (+39) 347 3737656
info@sinopiagalleria.com | www.sinopiagalleria.com
dal martedi al sabato ore 10.00 – 13.00 | 15.00 – 19.00

Maria Carla Baroni ci ha inviato il suo documento Senso del lavoro e orario, contributo da lei preparato in occasione di un’assemblea nazionale delle donne del Partito Comunista d’Italia che si è tenuta a Napoli il 15/3/2015.

È un documento lungo, legato a una discussione interna di partito, ma mi hanno colpito alcune riflessioni in cui guarda sotto una nuova luce l’economia, il lavoro, il senso del lavoro e la tradizionale impostazione dei comunisti stessi, partendo da un punto di vista femminile e da un confronto con le pratiche politiche delle donne.

Desidero proporne alcuni stralci che trovo significativi e interessanti.

 

Silvia Baratella, 22 maggio 2015

 

Tempo fa Nicoletta Pirotta (Rete italiana Donne nella Crisi) aveva posto, in una delle prime riunioni dell’Agorà del Lavoro, un gruppo promosso dalla Libreria delle Donne di Milano, una domanda: «Qual è il senso del lavoro?»

Non ci avevo mai pensato, forse anche perché nella mia storia sindacale degli anni ’73-’82, in una Cgil egemonizzata dal PCI, si dava importanza solo al lavoro in sé, alla produzione in sé, qualunque cosa si producesse, anche strumenti di morte come armi e veleni chimici, anche se la produzione sterminava operai e operaie e la popolazione intorno alle fabbriche e avvelenava i campi coltivati e quindi il cibo e le acque. Unica eccezione la Fiom, che allora si era posta – almeno in via teorica – l’obiettivo della riconversione dell’industria bellica a produzioni civili.

A quel tempo, inoltre, era considerato lavoro “produttivo” solo quello che dava origine a merci, mentre il lavoro nei servizi – compresi i servizi di cura alle persone – era considerato “improduttivo” e, conseguentemente, di secondaria importanza. Il che la dice lunga sull’impronta maschile che caratterizzava il comune senso del lavoro.

 

[…]

 

A mio parere il senso del lavoro sta nel contribuire al ben-essere, allo star bene, collettivo. Viene subito in mente, quindi, in prima approssimazione, il lavoro: nel settore dell’educazione e della formazione di ogni ordine e grado, dagli asili nido alle università; nel settore della salute, dalla ricerca scientifica e tecnologica in campo ambientale, medico e farmacologico ai servizi di igiene pubblica, di prevenzione delle malattie e del disagio psichico, ai servizi di cura e di riabilitazione, quando indispensabile anche in regime di ricovero; nell’assistenza sociale, dai servizi territoriali di base (ambulatoriali) all’assistenza domiciliare, alle piccole comunità-alloggio alternative alle istituzioni totali per vecchi/e, handicappati/e, ecc., a forme di assistenza sociale che tentino di alleviare la crudeltà e il rigore delle istituzioni totali esistenti (come ad es. le carceri); per la produzione e l’accesso alla cultura (arti figurative, cinema, teatro, letteratura, informazione, editoria, biblioteche e iniziative di promozione della lettura, musica); nell’edilizia pubblica e nel trasporto pubblico; nello sport e nell’intrattenimento.

Significa che solo il lavoro di ricercatori e ricercatrici, insegnanti, medici/che e infermieri/e, artisti e operatori e operatrici culturali ha senso?

Ma non si può insegnare in una scuola sporca o con gli intonaci crollanti o curare in un ospedale sporco, dai muri cadenti o con attrezzature rotte, per cui anche chi cura la pulizia e la manutenzione svolge un lavoro essenziale al benessere collettivo, così come è essenziale anche il lavoro d’ufficio e organizzativo, senza il quale nessuna struttura può funzionare.

Però, se tutte le mansioni necessarie al funzionamento di una struttura dedicata al benessere collettivo sono indispensabili, il grado di istruzione richiesto, il contenuto intellettuale e decisionale, il grado di responsabilità e di gratificazione, la retribuzione, sono ben diversi […]. Queste disparità di fatto […] sono aggravate dalla gerarchizzazione nell’organizzazione delle decisioni e del lavoro, oltre che dalle modalità di tipo privatistico/industriale che il sistema capitalistico ha imposto ad alcuni settori di pubblica utilità; esempio tipico è la sanità, di fatto destinata attualmente – in netto contrasto con l’originaria e avanzatissima legge 833/1978 – solo alla produzione superspecialistica di singole prestazioni mediche, chirurgiche, strumentali e farmacologiche settorializzate e spezzettate, che generano rimborsi e profitti, e non certo il mantenimento o il recupero della salute di persone concrete nella loro interezza. Si giunge perfino al paradosso che, mentre nella catena di montaggio di una fabbrica si assemblano pezzi per formare un unico oggetto, negli ospedali si spezzetta – sotto forma di interventi parcellizzati – ciò che unico già era, per giunta un unico vivente e pensante. In queste condizioni, al di là dell’apporto individuale dei singoli lavoratori e lavoratrici, è la struttura nel suo complesso che non opera per il benessere collettivo.

 

[…]

 

E che senso ha invece il lavoro di chi opera come dipendente nell’industria degli armamenti o nella produzione di sostanze chimiche cancerogene o dei beni di lusso che usano materiali, energia, acqua e lavoro umano per soddisfare i desideri delle élites economiche a scapito dei bisogni del 90% della popolazione mondiale e della permanenza della vita sul pianeta?

 

A questo punto si pongono due ordini di questioni.

Un primo ordine attiene al passaggio dalla prestazione lavorativa del singolo essere umano all’organizzazione del lavoro complessiva, alla possibilità di co-decidere – almeno parzialmente – il contenuto del proprio lavoro, del come svolgerlo e del come vederlo retribuito, oltre al fatto, che dovrebbe essere imprescindibile, di poterlo svolgere con garanzie giuridiche di continuità e in condizioni che non attentino alla vita e alla salute propria e altrui.

[…]

Ciò può essere meno difficile nelle strutture pubbliche e contribuirebbe a migliorare la qualità complessiva del servizio erogato, ad es. con l’umanizzazione degli ospedali, con la valorizzazione e con l’arricchimento delle competenze e delle capacità di relazione e di lavorare in squadra e in modo interdisciplinare di tutti gli operatori e operatrici sanitari/e e con l’ascolto dei malati e dei familiari.

[…]

Il senso del lavoro, infatti, dovrebbe essere anche quello di esprimere se stessi/e, di valorizzare la propria individualità, capacità, desideri e aspirazioni, contribuendo – nello stesso tempo – al benessere collettivo, trovando le modalità per valorizzare ogni persona a vantaggio della collettività.

Per le donne il senso del lavoro non può che includere anche la possibilità di scegliere effettivamente e liberamente – insieme al lavoro – anche la maternità: il doppio sì di cui parla il movimento delle donne.

 

[…]

 

Il secondo ordine di questioni riguarda il fatto che il senso del lavoro non può essere disgiunto dal senso della produzione cui si partecipa. Fare l’addetta alla manutenzione o la contabile in una fabbrica di armi o in un ospedale può rispondere appieno alle aspirazioni personali e comporta sostanzialmente gli stessi atti, ma il senso complessivo del proprio lavoro è, nei due casi, diametralmente opposto.

Questo ci sposta sul piano del che cosa, come e per chi produrre e del chi e come decide che cosa, come e per chi produrre; riguarda sia il modello di sviluppo e la produzione di merci (solo beni utili alla generalità della popolazione, per non sprecare le limitate risorse del pianeta), sia il contenuto dei servizi pubblici (le finalità e il contenuto dell’insegnamento pubblico per tutti e tutte, le strategie pubbliche per il mantenimento della salute psicofisica dell’intera popolazione, le priorità della ricerca pubblica e così via), così come riguarda il sistema di decisione politica; di questo passo si arriva al superamento del capitalismo e del patriarcato…

 

[…]

 

L’unica prospettiva perché il nostro pianeta rimanga abitato da esseri viventi e non diventi una sterile stella – come diceva e scriveva la comunista Laura Conti nei gloriosi anni ’70 – è che ci si avvii sulla strada della diminuzione della quantità complessiva delle merci prodotte, scegliendo che cosa produrre. […]

L’occupazione potrà essere aumentata, infatti, oltre che dalla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità retributiva, solo indirizzando una quota consistente del lavoro umano alla cura del territorio e delle città e alla cura delle persone, cioè a lavori dotati di senso e di gratificazione sia per chi li svolge sia per chi ne riceve le prestazioni.

I lavori di cura alle persone, nella società attuale, sono spesso femminilizzati, il che li rende socialmente meno considerati e, in un’ottica capitalistica, sottoretribuiti, mentre sono proprio quelli che maggiormente – già ora – contribuiscono al ben-essere collettivo.

Tipico è tutto l’arco dell’educazione/formazione, in cui le donne sono presenti in modo quasi esclusivo dagli asili nido alle elementari e anche alle medie inferiori, mentre diminuiscono percentualmente mano a mano che si sale di grado, passando alle medie superiori e alle università, ai vertici delle quali sono ancora davvero pochissime.

La riconversione di una parte consistente del lavoro umano dalla produzione di merci (approccio maschile, oltre che capitalistico) alla cura del territorio, delle città e delle persone (approccio femminile) è una riconversione epocale per la quale dobbiamo attrezzarci e che dobbiamo favorire.

 

[…]

MARIA CARLA BARONI