dal 26 febbraio al 29 aprile 2016
Vernissage: 16 marzo ore 18.00
Fondazione Collegio San Carlo di Modena

Riflessione sulla complessità dell’immagine attraverso un’opera di Chiara Pergola.
Fondazione Collegio San Carlo, via San Carlo, 5 – Modena

Nell’ambito della programmazione sul tema ‘immagine’, cui sono dedicate le attività del Centro Culturale dell’intero anno accademico 2015/2016, la Fondazione San Carlo propone l’installazione Passanti (InDoor), realizzata da Chiara Pergola. Ponendosi in dialogo diretto con il luogo in cui si inserisce, la Sala dei Cardinali della Fondazione, e con gli osservatori, l’opera intende stimolare, attraverso i riflessi generati da 153 specchi di vetro sottile, una riflessione sullo statuto delle immagini e sul significato simbolico ed espressivo della loro percezione.
L’installazione sarà aperta al pubblico da venerdì 26 febbraio a venerdì 29 aprile, dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.30 alle ore 19.00 (escluse le festività pasquali, dal 24 al 29 marzo, e il 25 aprile). Per informazioni è possibile contattare il numero 059.421237.
Il vernissage, a ingresso libero, si terrà mercoledì 16 marzo alle ore 18.00. In occasione dell’incontro con l’artista verrà presentato il catalogo relativo all’installazione, a cura di Antonella Battilani, con un saggio critico di Elio Franzini, docente di Estetica all’Università di Milano e membro del Comitato Scientifico della Fondazione San Carlo.
“Lo sguardo nell’arte, nelle lame di vetro di Chiara Pergola, diviene vivo, interagisce con la forma artistica e con quel che la circonda, modifica il nostro stesso modo di vedere. Questi altri occhi sono tuttavia i nostri occhi, quelli con cui guardiamo il mondo, gli spazi che abitiamo. Le immagini con cui il mondo qui appare permettono a ciascuno di noi, nelle diverse ore del giorno, di disegnare una “propria” storia, dove l’immagine non è la “ripetizione” delle cose, bensì il luogo, e il tempo, in cui ne manifesta il senso espressivo…” (estratto del testo critico di Elio Franzini).
Chiara Pergola vive e lavora a Bologna. La sua ricerca, legata all’evoluzione della dimensione simbolica, dà origine a installazioni e interventi che rivelano la natura semantica di ogni forma espressiva e l’azione del segno sulla realtà. L’installazione Passanti (InDoor) è legata all’oggetto che ha dato origine alla sua esperienza artistica: un sottile specchio che, forzando a una visione convergente, costringe a prendere atto dell’intrinseca molteplicità dell’immagine.


Passanti (InDoor) INSTALLAZIONE
dal 26 febbraio al 29 aprile 2016

Orari: dalle 8.30 alle 19, dal lunedì al venerdì
Chiusure: festività pasquali, dal 24 al 29 marzo compresi, e 25 aprile
Info: Tel. 059.421237 o www.fondazionesancarlo.it.

Ufficio stampa FSC
Paola Ferrari
paola@paolaferrari.it
www.fondazionesancarlo.it

Testo critico sull’installazione Passanti/InDoor, a cura di Elio Franzini, professore di Estetica presso l’Università di Milano, membro del Comitato Scientifico della Fondazione San Carlo di Modena

Quando nell’arte appare lo specchio, la sua forza simbolica si presenta potente: l’opera non riproduce il visibile, bensì ne moltiplica le prospettive e le possibilità. L’arte, come nel lavoro di Chiara Pergola, diviene, per noi che passiamo, per noi passanti, varcare una soglia, attraversare una porta, quella linea sottile tra la forma e l’informe. Il “sapere” che è nelle immagini si coglie soltanto spezzando un paradigma regolistico, e classicistico, recuperando un’idea simbolica di forma, che è sempre compresenza – e mediazione – di visibile e invisibile. La “forma” artistica non è un’immagine mimetica, bensì è il senso simbolico dello spazio e del suo infinito moltiplicarsi in lame, in luce che si irradia, creando ombre, che sono nuove forme: esse derivano questo inestinguibile desiderio di “nuovo” dal voler essere “anamorfosi”, cioè stravolgimento della forma stessa, che ne mostra tuttavia l’interna forza, la volontà di espansione. Si inaugura qui un sapere figurale che non può essere “detto”, anche se è immediatamente, intuitivamente presente alla nostra realtà.
Lo sguardo nell’arte, nelle lame di vetro di Chiara Pergola, diviene vivo, interagisce con la forma artistica e con quel che la circonda, modifica il nostro stesso modo di vedere. Questi altri occhi sono tuttavia i nostri occhi, quelli con cui guardiamo il mondo, gli spazi che abitiamo. Le immagini con cui il mondo qui appare permettono a ciascuno di noi, nelle diverse ore del giorno, di disegnare una “propria” storia, dove l’immagine non è la “ripetizione” delle cose, bensì il luogo, e il tempo, in cui ne manifesta il senso espressivo. L’immagine, con le sue anamorfosi, si pone dunque, in questo lavoro, come punto di avvio per esibire il senso simbolico, espressivo e spirituale della percezione, per comprendere, infine, che dietro essa si cela un potere che in vari modi manifesta la relazione conoscitiva tra uno sguardo che afferra e le qualità degli spazi in cui “passiamo”.

Le lame di luce, gli specchi che Chiara Pergola getta verso l’alto, nascenti da solida base, ma ciascuno diverso dall’altro, e diversamente orientato, fanno comprendere che un’immagine è “simbolica” non quando viene descritta da una saggia iconologia, ma nel momento in cui, prima di questo orizzonte, costituisce il mondo come “organismo nascente”, come “operazione d’espressione”, che non allontana dalla realtà, ma che, indipendentemente da ciò che rappresenta, svela il senso profondo delle cose. L’artista, scrive il filosofo Merleau-Ponty, riprende e converte in oggetto visibile ciò che senza di lui resterebbe rinchiuso nella vita separata di ogni coscienza: rende l’immagine una “vibrazione delle apparenze” che rivela “la genesi delle cose”, inscindibile dalla realtà espressiva del nostro corpo.
Lo statuto di un’immagine è dunque legato a dimensioni estetiche, che si riferiscono in prima istanza alla percezione di uno spazio. Tale spazio di rappresentazione, la Sala dei Cardinali della Fondazione che attraversiamo, si offre così, grazie all’arte, alle sue stratificazioni di arte e di tempo, in molti modi, presentando, con il gioco dei riflessi, “luoghi” dell’immaginazione. Questo spazio, nella sua simbolicità, non è allora una nozione astratta, bensì una connessione che offre nuovi modi di orientarci nel mondo. Lo spazio, ci dice Chiara Pergola, non è una specie di etere nel quale sono immerse tutte le cose, bensì una potenza di connessione, che assume lo stile di uno spazio vissuto, che ciascuno di noi arricchisce, e nuovamente interpreta, con il proprio sguardo.

Spazi, dunque, da descrivere, senza che tale descrizione sia frantumazione del senso dello spazio stesso della rappresentazione, ma solo messa in rilievo di alcuni elementi del suo senso, che concorrono a delinearne una essenza che solo attraverso la nostra esperienza può manifestarsi. Gli specchi di Chiara Pergola, pur partendo da frammenti di vetro, non sono allora l’elogio di un frantumarsi della forma, bensì ne vogliono attestare un nuovo potere dialogico, che unisce l’invenzione fantastica e il senso filosofico, la situazione eccezionale e la ricerca della verità.

A partire dalle lame, e dai loro giochi di visioni e di ombre, si comprende il profondo rapporto tra rappresentazione artistica e funzione simbolica: perché vi sono forme di vita che non si riducono alla loro esibizione, bensì sono eventi che non possono svolgersi sul piano di una coscienza unica e unitaria, ma presuppongono quel dialogo tra coscienze cui il dialogo degli specchi allude. Queste opere di vetro sottile lanciato verso l’alto, che sono tra loro diverse, che esprimono punti di vista differenti, mostrano così un’esigenza comune, quella di esibire il manifestarsi storico di un “sentire” capace di spiegare i motivi di fondo che sono il senso, a volte invisibile, della storia stessa, il suo vivere simbolico in varie forme, in molteplici modalità non sempre rappresentative, espressione di differenti modi retorici per rivelare i sensi nascosti dell’immagine. La storia dell’arte, in particolare nella nostra contemporaneità, non si costruisce soltanto con le cronologie, bensì svincolando le forme da una rigida storicizzazione e cogliendone, senza rigettarne la storicità, gli spessori emotivi, afferrando che essa è una via per mostrare i sensi conoscitivi della rappresentazione, i suoi rapporti con la spazio-temporalità dell’esperienza. Il lavoro di Chiara Pergola, posto in un interno “storico”, ricco di autorevole passato, ricorda dunque a ciascuno di noi che passa, che attraversa la porta, che una narrazione cronologica e storica che non colga la potenza sincronica e diacronica racchiusa nelle immagini simboliche rischia, anche là dove rispecchia la consequenzialità dei linguaggi, di uccidere o depotenziare proprio l’intrinseca simbolicità della storia, che vive anche di salti, di legami analogici, di riunificazioni improvvise e apparentemente casuali tra le forme. Questi specchi fanno comprendere che il tempo lineare in cui viviamo è attraversato da lame di luce che ne arricchiscono la qualità, che ne moltiplicano le possibilità, in un incontro rinnovato e paradossale tra le forme dello spazio e quelle del tempo.

 

da alfabeta2.it

C’è chi crea un tableau vivant e chi, come Petrit Halilaj, una casa vivant.

In filosofia «il linguaggio è la casa dell’essere», ma quello che racconta Halilaj è più commovente, più contradditorio, più «banale», direbbe Hannah Arendt. È il dramma della distruzione della casa che vivono ogni giorno i migranti, politici ed economici. È successo anche agli Halilaj. Petrit è nato a Kumpir, in Kosovo, nel 1986; la casa è stata distrutta e dopo un soggiorno in Italia, dove ha frequentato l’Accademia di Brera, è andato a Berlino. Intanto il sogno che ha sostenuto lui e la sua famiglia si è avverato: la casa è stata ricostruita. A Pristina, in città, quella d’origine era in campagna. La espone a Milano, all’Hangar Bicocca.

Non è un diario fotografico, ma un insieme di storie che spuntano da vari angoli, proprio come avviene nelle case, quando una sedia, un tappeto, una foto in cornice sono tracce portanti, tanto quanto i muri. The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real. Un titolo che racconta appunto dei luoghi utopici e noiosi con i quali convivere.

La casa di Petrit e della sua famiglia è vista attraverso l’assenza, non è un escamotage poetico, ma una realtà fisica. In mostra, più o meno al centro dello spazio, ci sono i casseri usati per tirar su i muri. Invece di buttarli o incorporarli nell’edificio, Halilaj li usa come un sentiero della memoria. Sono sopraelevati, si cammina sotto, come se potessimo calpestare le fondamenta o radiografare la costruzione fin dentro la terra. Così la visione di una casa sospesa è un’immagine del sogno che l’ha preceduta, ma soprattutto è la costruzione allo stato nascente e la sua adattabilità a entrare fisicamente negli ambienti altrui, come un museo. Dove ciò che è esposto diventa «la casa personale» di chi, guardandola, trasferisce lì le proprie memorie.

È una delle intenzioni di Petrit coinvolgere altri nel suo sogno, e in questa assenza «iconografica» della casa reale appare lo stato di cambiamento che avviene in chi perde la propria. Ci sono tanti modi di perderla. A volte volontariamente, a volte perché si cambia città, a volte perché si rimane soli, a volte perché ci s’innamora di un’altra. La casa d’origine, qualunque essa sia, però rimane: l’assenza non la cancella. C’è bisogno di elaborare una distanza. Questo dichiara la casa vivant di Petrit Halilaj. Lo fa con tanti elementi. Un cinguettio diffuso che a chiunque fa venire in mente l’infanzia, un prato, un albero amato, un desiderio. Un video di prati fioriti, farfalle che volano e si posano, indica una campagna armoniosa: è il posto della sua vecchia casa. Oggi non si riconosce più nulla della distruzione. Petrit ha tratto in salvo pezzi di ringhiera del cancello e altri resti, ne ha fatto dei grandiosi gioielli che potrebbe indossare la casa ricostruita e quella che ha attraversato i suoi sogni: It is the first time dear that you have a human shape (diptych-earring), (butterfly collier), (bracelet). Ocarine, rami, utensili, ricordano la sua vita e la nostra (Objekte n’Kumpir).

Anche le galline hanno una casa, un po’ dentro e un po’ fuori. È stato aperto un varco e il pollaio si trova all’esterno dentro un grande razzo spaziale in legno. Le galline vivono la loro vita nell’arte, facendo le uova e chiocciando. They are Lucky to be Bourgeois Hens: sì, sono fortunate ad essere galline borghesi, vanno anche al museo!

Possiamo inventare molte associazioni, ma quello che incide è la visione biografica. Ricordo la prima volta che ho incontrato Petrit Halilaj ad Artissima-Torino nel 2008. Aveva una piccolissima stanzina nello stand della galleria Chert. Lui ti invitava a entrare e poi chiudeva la porta. Lì, in brulichio di piume di gallina che volteggiavano e di oggetti, mi ha raccontato la sua vita. Questa era la sua opera. Lo è ancora oggi. Il modo per parlare del legame spezzato dalla guerra nell’ex Jugoslavia è un dialogo a tu per tu. Oggi la sua stanzina è un museo, ma la temperatura è intatta. Oggi come allora, rende esplicita la necessità di non dimenticare. Non è political correctness, ma un suggerimento a lasciarci andare e ammirare una gallina che fa l’uovo, visione ormai quasi impossibile per chiunque; farci venire il senso di colpa per tutti quelli che perdono la casa e che non sappiamo come accogliere; emozionarci per chi ha la capacità e la fortuna di ricostruire la propria vita e di darle casa. Un’esperienza che riguarda tutti, in tutto il mondo. Anche chi non è sotto tiro, sa che la gallina di Halilaj è simbolo di un ricongiungimento, da compiere ogni giorno. La casa vivant di Petrit invita a ricostruire la propria casa ovunque e a sorridere al magnifico e immaginifico disegno della sua gallina borghese che ci accoglie all’ingresso e ci accompagna all’uscita.

Petrit Halilaj

Space Shuttle in the Garden

a cura di Roberta Tenconi

Milano, Pirelli Hangar Bicocca, 3 dicembre 2015-13 marzo 2016

(http://www.alfabeta2.it/2016/03/01/petrit-hallilaj-e-le-galline-borghesi/)

 


dal 10 marzo al  11 maggio 2016

 

Inaugurazione alla presenza delle artiste Ansarinia e Bächli giovedì 10 marzo h. 19.0021.00

 

La Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare la seconda mostra personale dell’artista svizzera Silvia Bächli.

Negli anni l’artista ha realizzato principalmente lavori su carta, sperimentando tecniche e formati diversi e sviluppando un linguaggio pittorico formalmente immediato e minimale che cela, però, una ricerca del tutto personale sulla linea.
Le opere in mostra, realizzate tra il 2013 e il 2015, sono una sintesi degli ultimi sviluppi del suo lavoro, da un punto di vista sia del colore che del gesto.

Per Silvia Bächli il disegno è azione e narrazione. Le sue linee hanno una direzione precisa, come se stessero raccontando una storia o persino più storie contemporaneamente quando, per esempio, s’intersecano, si rincorrono o si sovrappongono l’una sull’altra, più o meno ordinatamente. Lo spettatore è quindi invitato a leggere e interrogare questi segni e allo stesso tempo a indagare gli spazi vuoti che vengono a crearsi. Per l’artista, infatti, “disegnare è creare spazio” ed è per questo che nelle sue opere la pittura ha un così stretto rapporto con i margini del foglio: è un po’ come, sempre usando le sue parole, “lavorare con e contro” questi margini. Non è un caso che la massima dimensione dei lavori corrisponda alla massima apertura delle sue braccia.

Il titolo della mostra è tratto dalla raccolta poetica It (1969), capolavoro della scrittrice danese Inger Christensen, che l’artista ammira molto per l’attenzione che entrambe condividono per la forma, e da cui spesso trae spunto per i suoi lavori. È stato il caso, ad esempio, anche dell’installazione che Bächli ha realizzato per il padiglione svizzero durante la 53° Biennale di Venezia (2009), dedicata proprio alla poetessa e ispirata allo stesso passo che dà il titolo a questa mostra: “Questo. Questo è stato. Ora è cominciato. È. Persiste. Si muove. Avanti. Diventa. Diventa questo, questo e questo. Va ancora più avanti. Diventa altro. Diventa di più. Combina altro con di più e diventa costantemente altro e di più.”.

Silvia Bächli (Baden, 1956) ha avuto numerose mostre personali in prestigiose sedi museali come, ad esempio: Frac Franche-Comté, Besançon (2015); Staatliche Graphische Sammlung, Pinakothek der Moderne, Monaco (2014); Kunstmuseum St. Gallen, Svizzera, (2012); Centre Pompidou, Parigi, Museo Serralves, Porto (2007), Mamco, Ginevra (2006), Museée d’art moderne et contemporain in Strasbourg (2002). Nel 2009 ha rappresentato la Svizzera alla 53° Biennale di Venezia.

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Ana Mendieta
via a.stradella 1

 


La Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare la seconda mostra personale dell’artista cubana Ana Mendieta.

Saldamente ancorata alla realtà – e allo stesso tempo tormentata da un’interiorità profondamente segnata da avvenimenti tragici – in soli tredici anni di carriera Mendieta ha sperimentato con vari media, dalla performance al video, dalla fotografia al disegno, alla scultura.

La pratica artistica di Ana Mendieta ha sempre indagato lo stretto rapporto tra Arte e Natura, che nel suo lavoro è molto intenso e talvolta spinto al limite, soprattutto nell’uso che l’artista fa del proprio corpo. In molte performance, infatti, il corpo diventa il mezzo col quale l’artista si ricongiunge alla Natura, in una sorta di rito spirituale e viscerale che assume anche valore simbolico di rinascita. Come ha più volte dichiarato l’artista, “la cultura è memoria della storia” ed è in questo senso che il corpo è quindi non solo testimone, ma anche veicolo della nostra memoria collettiva.

Vincitrice del Prix de Rome per la scultura, nel 1983 Mendieta si trasferisce da New York a Roma, una città che amerà molto soprattutto per il suo rapporto con la Storia. Nel periodo di residenza presso l’American Academy in Rome, Mendieta ha la possibilità di sviluppare la sua tecnica scultorea, in particolare con materiali come la terra e i tronchi d’albero, ma si dedicherà molto anche al disegno.

Il progetto espositivo si concentra proprio sulla produzione di questo periodo, in particolare su un corpus selezionato di disegni – inchiostri, acquarelli, matite – che porteranno poi alla realizzazione delle sculture. In mostra anche il libro di litografie Duetto Pietre Foglie, realizzato sempre durante il soggiorno romano, e un prezioso taccuino del 1981 con alcuni studi preparatori.

Tra le maggiori mostre personali di Ana Mendieta (L’Avana, 1948-1985): Covered in Time and History, the films of Ana Mendieta, NSU Art Museum Fort Lauderdale; Katherine E. Nash Gallery, Minneapolis (2015-2016); She got Love, Castello di Rivoli, Torino (2013); Ana Mendieta: Earth Body, Sculpture and Performance 1972-1985, Whitney Museum of American Art, New York; Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington D.C.; Des Moines Art Center, Des Moines and Miami Art Museum, Miami (2004); Ana Mendieta (1948-1985) – Body Tracks, Neues Museum Luzern, Lucerne and Fries Museum, Leeuwarden (2002).

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Nazgol Ansarinia
via a.stradella 4

 


La Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare la prima personale in Italia dell’artista iraniana Nazgol Ansarinia.

Ansarinia analizza il quotidiano della sua città, Teheran: esamina e rielabora oggetti ed eventi di tutti i giorni facendo emergere le loro relazioni con la società iraniana contemporanea, indagando la sfera privata in relazione al più ampio contesto socioeconomico e architettonico.
La mostra ruota intorno a tre progetti aperti che ben rappresentano il lavoro dell’artista e i suoi recenti sviluppi.

Fondamentali nella sua produzione sono i collage della serie Reflections/Refractions, che esplorano visivamente le complessità del quotidiano. Varie trame geometriche, spesso utilizzate per evocare un ideale di bellezza per il loro ordine e la loro simmetria, sono applicate ad alcuni lavori a specchio, contribuendo a distorcere la realtà di tutto ciò che riflettono.

Per il suo ultimo progetto Membrane, invece, l’artista parte proprio dalla città. Negli ultimi anni, infatti, Teheran sta assistendo a un intenso processo di ridefinizione urbana, caratterizzato dal sorgere sempre più frequente di alti complessi residenziali in luogo di precedenti e più bassi edifici. Sebbene questi edifici siano distrutti, uno strato dell’immobile demolito rimane sulla parete comune agli edifici adiacenti. Membrane è l’impressione monumentale di questa parete, mappata dall’artista con uno scanner 3D a ricreare una sorta di modello tridimensionale del muro, che tiene in sé traccia di una parte dell’edificio distrutto.

In mostra anche una nuova scultura della serie Pillars. L’artista osserva le nuove case in città, in cui le colonne neoclassiche perdono la loro funzione strutturale divenendo l’ultima dimostrazione di ricchezza del nuovo ceto medio. Ansarinia utilizza le colonne con molta ironia, legandole ad alcuni articoli della Costituzione iraniana che invitano a riflettere sui problemi socio-economici della vita quotidiana. La mostra di Nazgol Ansarinia è dunque, allo stesso tempo, documento e rielaborazione di una società stratificata e in rapida evoluzione.

Nazgol Ansarinia (Teheran, 1979) vive e lavora a Teheran. Nel 2015 ha partecipato alla 56° Biennale di Venezia, presso il padiglione iraniano; nel 2011 e 2007 ha esposto alla Biennale di Istanbul e nel 2009 le è stato riconosciuto l’Abraaj Capital Art Prize. Tra le sue mostre collettive: DUST, Centre for Contemporary Art Ujazdowsku Castle, Varsavia; Adventure of the Black Square: Abstract Art and Society 1915-2015, Whitechapel Gallery, Londra (2015); Longing Persia, Exchange and reception of art in Persia and Europe in the 17th Century & Contemporary Art from Tehran, Museum Rietberg, Zurigo; Safar/Voyage, The Museum of Anthropology at the University of British Columbia, Vancouver (2013); When Attitudes Became Form Become Attitudes, Museum of Contemporary Art Detroit, Detroit / CCA Wattis Institute for Contemporary Arts, San Francisco (2012).

Per ulteriori informazioni contattare Erica Colombo +39 02 2043555, info@galleriaraffaellacortese.com.

 






dal18 Febbbraio al 31 Marzo 2016

Galleria Lia Rumma

Via Stilicone, Milano

La Galleria Lia Rumma è lieta di presentare la personale di Marzia Migliora “Forza lavoro” con inaugurazione il 18 Febbraio 2016 alle ore 19 presso la sede di Milano.
Il progetto espositivo prende le mosse dalla storia del Palazzo del Lavoro di Torino, realizzato da Pier Luigi Nervi nel 1961 in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia e della relativa esposizione internazionale dedicata al lavoro, a cura di Gio Ponti. A tale glorioso inizio sono seguiti anni di decadenza e incuria che hanno portato all’abbandono dei 47.000 metri quadrati della struttura.
In un periodo di transizione dello stabile, tra un importante incendio avvenuto nell’agosto 2015 e l’imminente trasformazione in centro commerciale di lusso, l’artista ha scelto di frequentare il Palazzo attraverso una molteplicità di approcci. Marzia Migliora ha dato corpo e parola al Palazzo, trasformandolo in un testimone privilegiato di un’epoca e lo ha collegato attraverso le singole opere realizzate a molte delle tematiche ricorrenti nella propria ricerca: la memoria come strumento di articolazione del presente o l’analisi dell’occupazione lavorativa come affermazione di partecipazione alla sfera sociale.
I tre piani della galleria ospitano esclusivamente nuove produzioni dell’artista, che ha concentrato per ogni livello un aspetto specifico della ricerca sul Palazzo. All’ingresso, l’installazione Lideazione di un sistema resistente è atto creativo introduce l’accezione più fisica della definizione di forza lavoro. La grande struttura di mattonelle in carbone pressato disegna infatti sul pavimento il modulo, in scala 1:1, del solaio a nervature isostatiche concepito da Nervi che intendeva così dare forma a ciò che avviene staticamente nella materia, attraverso la distribuzione delle linee di forza sulla superficie. Salendo al piano superiore troviamo una serie fotografica intitolata In the Country of Last Things che presenta cinque impressioni ottenute da dispositivi a foro stenopeico costruiti dall’artista assemblando frammenti vari delle vite passate del Palazzo e lasciate a impressionare per lungo tempo negli spazi dismessi. A fianco delle stampe e delle macchine stenopeiche una serie di monocromi neri ottenuti dalla lavorazione dei residui di combustione rimasti dopo il recente incendio e da altre polveri scure ottenute come scarto della lavorazione di metalli. Il gesto di impastarle in maniera pittorica ne dà una visualizzazione e rende tangibile la loro presenza nelle nostre vite: i cosiddetti composti organici volatili di origine antropica, dannosi per la salute, sono tanto impercettibili quanto onnipresenti nella nostra quotidianità, così dipendente dai derivati del petrolio e dalle loro infinite lavorazioni.
Chiude il percorso all’ultimo piano il video Vita Activa. Pier Luigi Nervi, Palazzo del Lavoro, Torino, 1961-2016, nel quale l’artista chiede al musicista Francesco Dillon di produrre dei suoni a partire dall’interazione con gli ambienti e i detriti dell’edificio, per integrarli poi alla sua esecuzione a violoncello di alcuni estratti dal Requiem in Re minore k626 di Mozart. La lotta che si instaura tra l’osservanza funebre che il brano produce, e i tentativi di ascoltare lo spazio nell’espressione delle sue ultime potenzialità di produzione di senso, si risolve in una tensione visiva che manifesta la parabola tra vita e morte sulla quale “Forza Lavoro” si sviluppa.
Testo critico a cura di Matteo Lucchetti

Si ringraziano Francesca Comisso e Liliana Dematteis dell’Archivio Gallizio per la collaborazione e il sostegno alla realizzazione del video Vita Activa, nato con l’invito a ideare un progetto in dialogo con l’opera di Pinot Gallizio.
Si ringraziano la Fondazione Merz e la Proprietà Pentagramma Piemonte per la preziosa collaborazione

Due artiste, Barbara Bloom e Joan Jonas, ci fanno intravedere quello che normalmente non si può vedere. In una sorprendente circolarità tra intuire, disegnare, mostrare

di Francesca Pasini

Nell’immagine c’è qualcosa che riconosciamo e nello stesso tempo sorprende, come se venisse da un deposito ad accesso libero, ma in cui non tutti decidono di entrare. L’arte è questo misto di conosciuto e imprevisto. Quello che mi attrae è soprattutto il rapporto tra l’artista e l’immagine nel momento in cui è lì, lì per presentarsi ai suoi occhi. Una volta arrivata parla a chi la guarda, crea a sua volta un deposito e offre un incontro con qualcosa che sta oltre. Questo andare oltre avviene perché ognuno è invitato a capire qual è “il punctum che ferisce e ghermisce”, come scriveva Roland Barthes ne La camera chiara. Trovare dentro di sé quello che non si era visto e che l’immagine fa affiorare o riaffiorare da quanto abbiamo accumulato. La sorpresa sta nel contatto con gli occhi dell’altro. Succede anche nei rapporti quotidiani, ma senza qualcosa che trattiene il passaggio dello sguardo è difficile raccontarsi quello che proviamo.

Tutta l’arte agisce così, ma quella visiva assomiglia di più a un dialogo tra soggetti che s’incontrano. Non si può parlare solo tra sé e sé e l’arte ha bisogno dell’altro che la guardi, la accetti, la rifiuti, e poi magari faccia pace. Esattamente come in ogni incontro.

Ci sono opere e immagini che hanno più forza, più invenzione nel farci percepire questo legame tra l’estetica e la comprensione di sé, come quelle di Barbara Bloom e Joan Jonas, in mostra alla Galleria Raffaella Cortese di Milano, fino al 27 febbraio.

Barbara Bloom con i suoi Works for the Blind ci porta dentro la massima aspettativa: mettersi nelle condizioni di guardare l’assenza di vista. Il contatto con gli occhi dell’altro è folgorante. L’emozione è fortissima. Barbara Bloom ce la fa provare unendo la lettura degli occhi a quella del braille. Sette fotografie in bianco e nero hanno dentro di sé qualcosa di noto e qualcosa che appartiene a quell’immagine. Davanti al vetro sono trascritte in braille, le citazioni che accompagnano ogni singola foto. Sono frasi sul senso del vedere e della perdita, tratte da Ludwig Wittgenstein, Hannah Arendt, Roland Barthes, Dorothy L. Sayers.

Chi è cieco ha la conoscenza immediata del testo e un’immaginazione dell’immagine; chi vede l’immagine non riesce a leggere il testo. È trascritto in caratteri piccolissimi, sembra piuttosto un francobollo che certifica la spedizione del messaggio.

Vedere e leggere si scinde nella vista e nel tatto, e in questo equilibrio appare sia la dolcezza di sentirsi uniti a chi non può vedere la foto, sia lo sforzo di immaginare le parole attraverso i rilievi tattili del braille. L’equilibrio c’è anche nella disparità fisica della vista, perché produce quello sfondamento soggettivo che alcune opere  imprimono alla “lettura della mente”, cioè a quella lettura che non si basa sulla grafia, ma sui segni emotivi, fisici che accompagnano le espressioni di uomini, donne, bambini, animali, paesaggi. In questo vedo la capacità di farci andare oltre, o meglio di trarre dalle intuizioni allo stato fluido il “punctum” che può condensarsi in un’immagine e da quel momento “ferirci e ghermirci”.

Nel secondo spazio della galleria, c’è The Weather, un’installazione di tappeti sollevati da terra e ad altezze diverse, su cui affiorano i rilievi della scrittura braille. Citazioni letterarie descrivono cambi di temperature, di colori, di umidità: “Piovve per quattro anni” (Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine). “Aveva cominciato a nevicare nuovamente” (James Joyce, Gente di Dublino). “Soffiava il vento del deserto quella notte” (Raymond Chandler, Vento rosso). “Ti scrivo sotto un azzurro perfetto” (Andre Gide, L’immoralista). “Il cielo a nord s’era oscurato”(Cormac McCarthy, Cavalli Selvaggi).

In un tappeto, più o meno al centro, sono trascritti i valori di “temperatura, somma termica, umidità, precipitazioni, pressione a livello del mare, velocità del vento, visibilità: condizioni meteorologiche al momento della nascita di Barbara Bloom, Los Angeles, 11 luglio 1951”.

Tutta la stanza è pervasa da un clima cilestrino, polveroso come nei cieli velati dalle nuvole, opaco come nei passaggi tra il giorno e la notte, verde leggero come traspare dall’acqua. Sulle pareti è steso un leggero velo azzurro-grigio. È un’immersione che mette in moto l’immaginazione dell’atmosfera in cui siamo calati. L’equilibrio tra visione fisica “corporea” e grafica letteraria ci riporta al contatto con gli occhi e la mente dell’altro che sta alla base del vivere quotidiano. Viene voglia di toccare i rilievi braille, ma anche le superfici vuote dei tappeti, come se la tattilità diventasse una chiave di lettura per tutti: vedenti e non. La sorpresa è enorme e non c’è che viverla.

Altrettanto forte è l’emozione nel terzo spazio della Galleria, dove Joan Jonas ha riunito in una stanza la trasparenza, la luce, la temperatura della natura. È una sintesi fulminea del Padiglione e della performance alla Biennale di Venezia, They come to us without a word. La misura della stanza è perfetta per racchiudere una molecola del mondo, s’intitola In the Trees: un’opera totale per immaginare uno sfondamento rispetto al deposito di immagini che ci circonda e che non sempre vediamo.

Incrociamo gli occhi con Jonas mentre attraversa una lieve foresta di alberi, inframmezzati da segni verdi brillanti: gli alberi disegnati da lei.  Il video “continua” riflettendosi sugli specchi, posizionati agli angoli della stanza. E sul lato opposto, in una proiezione circolare, stroboscopica, Jonas ci viene incontro con fogli di carta bianca su cui disegna la natura che la circonda e in cui ci invita a entrare. Un invito semplice, senza commenti, come appunto è quello della natura. Un richiamo pacato a fare un passo indietro per osservare i mutamenti e ricordare.

La parete di fondo è avvolta da una “nuvola” di disegni mossa dal vento. Sono disegni di uccelli che potenzialmente abitano gli alberi tra i quali Joan si è immersa e riflessa, ma sono un d’apres da Bird Guide of  Mailand by Dr. Boonsonq Lekaqul. E così si chiude il cerchio tra vedere e disegnare, tra leggere e intuire, tra vivere la natura e andarle incontro senza parole. È un’evocazione poetica, ma soprattutto un suggerimento ad accedere al deposito di immagini che artisti, uomini, donne,  bambini, animali, piante mettono quotidianamente in circuito.

http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=48558&IDCategoria=1&MP=true

La reporter era a Ouagadougou, in Burkina Faso, il 15 gennaio è stata uccisa in un attentato jihadista. Stava lavorando per Amnesty International a My Body My Rights, progetto sui diritti delle donne

inserito da Marta Facchini

La reporter Leila Alaoui era a Ouagadougou, in Burkina Faso, quando il 15 gennaio è stata uccisa in un attentato jihadista. Stava lavorando per Amnesty International a My Body My Rights, progetto sui diritti delle donne.

Metterne in risalto la fierezza e la dignità. Mostrarne l’eleganza. Sono queste le parole che Leila Alaoui usava per parlare dei soggetti ritratti in uno dei suoi ultimi progetti, Les Marocains. Il punto di arrivo di un viaggio itinerante, insieme a uno studio fotografico mobile, per raccontare la popolazione locale del Marocco. Alti due e metri e mezzo, imponenti, i ritratti erano stati esposti a Parigi in occasione della prima edizione della Biennale della fotografia araba. Immortalavano uomini e donne di diverse etnie della parte rurale del Paese, l’archivio visivo delle tradizioni e di un’estetica che rischia di scomparire.

«Tra gli arabi, i Marocchini hanno il rapporto più complesso con la fotografia. La loro apprensione è dovuta a una forma di superstizione. A questo si aggiunge una stanchezza per il turismo di massa, che allontana dalla macchina fotografica. La mia speranza è riuscire a mostrare le tradizioni del Paese oltre un racconto di folklore», aveva dichiarato in un’intervista al Guardian. «Sono del Marocco ma quando viaggio di regione in regione ho la sensazione di cambiare paese. Ho voluto fare un viaggio culturale come Robert Frank quando ha lavorato a The Americans. Catturare le tradizioni che stanno scomparendo e farne un archivio visuale».

Nata a Parigi nel 1982 e cresciuta a Marrakech, Leila aveva studiato fotografia e antropologia a New York. Il superamento delle frontiere, la duplicità dell’essere che si ottiene non fermandosi in un solo posto, era proseguito anche dopo il periodo degli studi. Quando, lasciata la Grande Mela, Leila era tornata in Marocco e aveva realizzato un lavoro sui migranti, soggetti costanti nei suoi interessi da giornalista. Poi, il Libano. Come spiegava in un’intervista ad Al Jazeera, la fotografia diventava il mezzo per superare le frontiere, raccontare le identità e le diversità culturali, le storie dei migranti. Ed erano proprio le sue origini, raccontava, a permettere il superamento di confini che sarebbero stati altrimenti difficili da valicare. No pasará, lavoro sui giovani che cercano di raggiungere l’Europa, è il suo più significativo progetto sulla migrazione. Tema affrontato anche in Crossings, videoinstallazione che riproduce il viaggio dei subsahariani per raggiungere il Marocco. Era poi venuta la volta di Beirut, dove nel 2013 aveva lavorato a un progetto sui profughi siriani.

«Era un’artista che brillava», scrive il New York Times, «e lottava per i dimenticati della società, i migranti». «Avete visto il sorriso radioso che mostrava sempre quando veniva fotografata?», ricorda Fatym Layachi, autore marocchino e amico d’infanzia, «Ecco, era questo il suo segreto. Era determinata a difendere la sua causa. Ed era in grado di scovare la bellezza in tutte le cose e in ogni persona. Ritrasmettendocela».

30 gennaio 2016

dal 12 al 24 febbraio 2016

Associazione Apriti Cielo! Via Spallanzani 16 – Milano  Porta Venezia

PERCEPERCEZIONE D I UN MONDO TRA TURBOLENZE E CAOS

Due trittici (150×300 ciascuno), dipinti fantasma progettati per dare primato al disegno sottostante. Curve, pensando a mondi separati ma intrecciati tra di loro. Colori diversi tra curva e curva per accentuarne lo scontro, ma non cupi. Colorazioni fantasy sognando la soluzione.

Il 2015 è stato l’anno della tecnologia basata sulla luce ma anche l’anno del crescente caos mondiale. Isabella Spatafora ha interrotto nel 2014/15 la ricerca sugli SPRAZZI DI LUCE NELLO SPAZIO-TEMPO, iniziando con i due trittici un percorso caotico pieno di problemi e soluzioni.

nasce in Sicilia nel trentacinque del secolo scorso, a Caltagirone.
Ricorda ancora l’immagine della maestra Mineo di prima elementare, moglie di un pittore che, accortasi delle sue capacità artistiche, a soli cinque anni la manda nelle altre classi della scuola a disegnare vari soggetti alla lavagna. Nello stesso anno, in privato, col maestro Sasso comincia a imparare a suonare il violino.
Verso i quindici anni, consapevole che la propria strada è l’Arte Figurativa, ritiene prioritario dedicarsi interamente alla propria inclinazione e decide così di lasciare la scuola civica di violino.
Sotto la guida dello scultore Gianni Ballarò, insegnante alla Scuola d’Arte per la Ceramica, impara a disegnare e modellare. Mentre frequenta la Scuola per la Ceramica, sostiene esami al Liceo Artistico di Palermo fino alla Maturità, ed è soprannominata “Luca fa presto”, espressione attinente al pittore seicentesco Luca Giordano per la velocità manifestata nell’esecuzione delle sue opere, dall’insegnante di nudo dal vero .
In quegli anni riceve il 2° Premio alla Prima Mostra Regionale Siciliana della Ceramica, e un diploma di merito “Ceramica contemporanea Principato di Monaco” rilasciato da S.A.S. Principe Ranieri III.
Espone anche opere a olio in una personale di pittura in un Circolo della sua città.
Insegna per cinque anni disegno in Sicilia, si sposa e ha una figlia. Si sente poi costretta a lasciare lavoro, famiglia e figlia (che poi riprenderà con sé), intraprendendo l’avventura del viaggio e del lavoro in fabbrica all’estero.
Rientra in Italia nel ’60 e si stabilisce definitivamente a Milano.
Frequenta per un corso di affresco e nudo dal vero alla serale del Castello Sforzesco. Lavora in uno studio di architetti e ingegneri e nel frattempo riprende l’insegnamento in diverse scuole medie dell’hinterland milanese.
Intraprende un percorso personale di pittura.
Con la nascita del Sindacato Artisti con sede al numero tre di via Solferino, partecipa a mostre collettive tra gli iscritti (chiamate accrochage dal critico d’arte Raffaele De Grada) e a mostre personali in Circoli Culturali di periferia. In quel periodo (1965), tiene una personale alla Galleria Pater di Milano presentata dallo stesso De Grada.
Il Sessantotto la vede impegnata attivamente in politica per alcuni anni.

http://www.apriti-cielo.it/inaugurazione-mostra-caos/

www.apriti-cielo.it

29 – 31 gennaio 2016 – BOLOGNA

Manto, Moreschini, Muzi, Pergola. 29 gennaio ore 18.

In occasione dell’art week bolognese inaugura presso gli spazi dello Studio Legale Commerciale in Via Clavature 22 a Bologna il progetto ARTWORLDS. Visioni, divisioni, condivisioni a cura di Raffaele Quattrone e Wunderkammer, a partire dal 29 gennaio alle ore 18.
https://www.facebook.com/events/939446079484295/
http://www.associazionewunderkammer.it/


In occasione dell’art week bolognese inaugura presso gli spazi dello Studio Legale Commerciale in Via Clavature 22 a Bologna il progetto ARTWORLDS. Visioni, divisioni, condivisioni a cura di Raffaele Quattrone e Wunderkammer, a partire dal 29 gennaio alle ore 18.

Concettualmente ispirato al libro “art worlds” del famoso sociologo americano Howard S. Becker basato sulla visione interazionista del mondo dell’arte, con accento sull’interdipendenza e sulle interazioni effettive tra i soggetti che si muovono ed agiscono all’interno del mondo dell’arte “condividendo” una sorta di abc, di linguaggio che permette loro di comprendere e comprendersi, il progetto include opere di Dacia Manto, Alessandro Moreschini, Sabrina Muzi, Chiara Pergola.

Nel video Asterina Dacia Manto indaga spazi marginali, territori sfuggevoli dove la natura riprende il sopravvento, dove crescere liberi, senza controlli. E’ un paesaggio in trasformazione, un organismo in crescita lenta e incontrollata. Il disegno sovrappone le sue trame alle trame vegetali, animali e minerali, strato su strato, in una visione caleidoscopica e mutevole. In Drawings from Asterina i disegni, tra luci, ombre e strati di grafite restituiscono visioni parziali e ambigue dei protagonisti più nascosti del video: insetti, falene, muschi, licheni che sembrano avere vita propria sui fogli , ma che sono indissolubilmente legati uno all’altro. La natura come luogo di trasformazione continua ed adattamento. Luogo di vita e morte, luce e ombra, generazione e rigenerazione. Un’installazione dove cultura e natura dialogano in modo sincero e paritetico.

Alessandro Moreschini ha una distintiva vivacità creativa anche nelle composizioni in bianco e nero. Ne è un esempio Flusso Vitale che richiama il movimento tipico di un ingranaggio composto da elementi circolari. Il centro della composizione dell’opera è occupato da un elemento tridimensionale che fuoriesce dalla superficie bidimensionale del quadro per cercare lo sguardo dell’osservatore quasi a captarne il “flusso vitale” che poi muove la composizione. In Amarsi è così inutile la scacchiera e le pedine del classico gioco degli scacchi sono ricoperte da biomorfismi decorativi che come una fitta vegetazione kitsch dialogano con la simbologia del gioco legata all’esistenza stessa: un campo d’azione delle forze divine (la scacchiera nella cultura persiana e araba dalle quali il gioco proviene, corrisponde infatti al tracciato fondamentale di un tempio o di una città). Completa l’allestimento l’opera Possibili accadimenti futuri.

Nell’installazione B-Side Chiara Pergola si interroga sul segno e sulla traccia dei due emisferi cerebrali e della loro attività congiunta. In questi autoritratti e “visioni interiori” dell’attività cerebrale, l’emisfero sinistro è disegnato con la mano destra, mentre il destro è disegnato con la sinistra. Il disegno diventa così il luogo di riproduzione del momento epifanico, nel quale i due emisferi, non più divisi, si riconnettono attraverso una scarica elettrica. La serie si collega ad altre opere di disegno, in particolare “Sightseeing” e “Novum Organum”, in cui la domanda sulla relazione tra i due emisferi cerebrali si collega ad una più ampia riflessione sul rapporto tra maschile e femminile, in cui il livello singolare di coesistenza nella struttura dell’encefalo è in continuità con il livello di espressione della dualità sessuale a livello storico e sociale.

Confucio ha affermato “l’ignoranza è la notte della mente, ma una notte senza luna né stelle”. Non so quanto possa aver influito questa affermazione sul percorso artistico di Sabrina Muzi, ma le quattro foto in mostra appartenenti alla serie La notte della mente ci portano in un ambiente buio e indefinito, un ambiente dove forse ci siamo smarriti, persi, dispersi. In ogni caso l’arte di Sabrina Muzi ha comunque sempre una valenza rituale, rigenerativa e purificatrice come dimostra l’opera Veste, un abito sciamanico ricco di tantissimi oggetti comuni o ricercati. L’arte, come lo sciamano, può collegarci ad un livello superiore, può mostrarci una strada nuova, nuovi valori, nuove idee. Completano l’allestimento alcune foto sempre in bianco e nero tratte dalla serie Metamorphosis e la scultura Accessorio.

Durante il periodo della mostra sarà possibile “sfogliare” il numero 0 della rivista digitale interattiva Startup dedicata al rapporto tra arte contemporanea e sociologia. Distribuita tramite Joomag, piattaforma americana con oltre 5 milioni di lettori, e con un design semplice e contemporaneo oltre ad un team di redattori qualificati internazionali, Startup trasforma l’esperienza tradizionale del leggere introducendo negli articoli, video, file audio e gallerie di immagini.

 

dal 22 gennaio al 2 febbraio 2016

MUVI
Museo Vitaloni/Art&Wild  Milano in Via Ampère, 27

“Incontri”
Personale di Rossella Roli

Vernissage, venerdì 22 gennaio alle ore 18
Porzioni di cielo e mare, di mondo e memoria. In valigia

Incontrare Rossella Roli nel suo studio significa entrare in uno spazio dove si conserva e si tutela memoria. Non è mai facile poter raccontare della storia personale e del mondo con passo poetico, ma Roli riesce nell’impresa e lo fa da quando ha deciso di attraversare l’arte utilizzando diversi contenitori, piccole valigie che per la maggior parte raccolgono il suo percorso biografico e talvolta manifestano tematiche sociali, altre volte “incastri” di memorie su commissione.
«Non ho mai amato l’arte “statica”, il fissare a distanza le opere: mi piace che la spettatrice, lo spettatore possa mettere le mani sul lavoro, voglio che gli assemblages che costruisco interagiscano con gli osservatori non solo a livello visivo, ma con tutti i sensi», spiega l’artista, che ha alle spalle un percorso all’Accademia di Brera concluso nel 2009.
I suoi rifermenti vanno dall’opera di Louise Bourgeois (guardando in particolar modo alle Celle, per la loro complessità anche materiale), ai contenitori di Joseph Cornell, passando l’Yves Klein della spiritualità del colore, e una particolare installazione di Pino Pascali, i 32 metri quadrati di mare circa, guardata per la sua capacità di svelare l’infinito attraverso una pratica quasi ludica, fino al lavoro di Lucy Orta, per i celebri kit di sopravvivenza e per i passaporti per i territori dei ghiacci, assunti dall’artista inglese come luoghi dell’arte per il loro essere liberi da burocrazia e politica, e che con il lavoro di Roli mantengono un legame a latere, vicino all’idea di viaggio.
Accanto al concetto “ghiaccio” inoltre, quasi a livello di onomatopea, c’è da sottolineare l’importanza che riveste un particolare materiale nella produzione dell’artista: il vetro. Rigido eppure effimero, il vetro per l’artista è condizione di assenza-presenza, divenendo uno dei simboli della memoria.

Va ricordato, inoltre, che gli assemblages di Rossella Roli si distinguono per un “tempo” continuamente ibridato: gli stessi contenitori sono già apparentati ad un passato, ad un loro percorso, e il contenuto non è mai creato ex-novo ma è raccolto con dovizia dagli angoli più disparati del mondo e va, dunque, a comporre un mosaico del nostro presente, senza dimenticare l’origine e la tensione verso il futuro.

Matteo Bergamini
Rivolgimenti – Incontri – Intervalli

Una produzione piuttosto vasta, realizzata nel 2015, riguarda i disegni dal titolo Rivolgimenti, Incontri, Intervalli.
Puó accadere che i pensieri diventino pesanti, invadenti. Si impongono e non possiamo fare a meno di pensarli. Pur riconoscendoli inutili o nocivi continuano, non abbandonano il campo della mente, vanno e tornano, insistono così tanto da non poterli controllare. Qui, a farsi sentire, è l’inconscio che pensa.
L’inconscio pensa, ma il suo è un pensiero che non attiene né al mentale né al fisico, ma possiede al contrario il potere di scompaginare entrambi.
Rossella Roli, vive e lavora a Milano. Nel 2001 si specializza in web design presso la Domus Academy di Milano e successivamente si diploma all’Accademia di Belle Arti di Brera presso il dipartimento di Arti Visive.
Dal 2006 le sue opere sono state ospitate nei seguenti spazi espositivi: Fruttiere di Palazzo Te, Mantova; Museo Malandra, Vespolate; Complesso Monumentale di Sant’Agostino, Mondolfo; Centro per le Arti Contemporanee del Broletto, Pavia; Palazzo Tornielli, Ameno; Casa Testori, Novate M.se; Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, Milano.
Tra le altre mostre si segnala Another break in the wall presso la Wannabee Gallery di Milano, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, la VI Biennale del Libro d’Artista Città di Cassino, la terza rassegna internazionale di arte contemporanea Human Rights?, patrocinata da Amnesty International e dal Consiglio d’Europa, presso la Fondazione Opera Campana di Rovereto e Trame di guerra presso il Castello Visconteo di Pavia in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale.
Mostre personali alla Galleria Blanchaert con Porzione di mare che sale e di cielo che sale che sale che sale, alla Galleria Obraz con Survivals, a Palazzo Stella con Inneschi e allo spazio Artestetica con Rivolgimenti.

www.rossellaroli.com
rossella.roli@gmail.com

www.museovitaloni.it
info@museovitaloni.it

Lunedì 18 gennaio 2016

“La civiltà femminile nutre il mondo” è il titolo dell’incontro che si terrà lunedì 18 gennaio alle ore 16,30 presso il Teatro Machiavelli, sito a Palazzo San Giuliano (piazza Università). Due artiste, Gheula Canarutto Nemni, www.gheulacanaruttonemni.com – autrice del romanzo “(Non) si può avere tutto”, ed. Mondadori (2015) e Cettina Tiralosi, www.cettinatiralosiblognotes.wordpress.com, digital painter di “Lacrime sciolgono muri e aprono orizzonti alla coscienza” (installazione di opere digitali) – si racconteranno attraverso le proprie opere in dialogo. La conversazione tra le due donne sarà accompagnata, in un’atmosfera coinvolgente, da musiche della tradizione ebraica accuratamente eseguite dall’arpista Ginevra Gilli. La serata si concluderà con una passeggiata attraverso le vie della Catania ebraica. La manifestazione è parte di una serie di proposte culturali iniziate nel marzo 2015 presso il Bastione degli Infetti (sito gestito dal Comitato Popolare Antico Corso) ed è realizzata con la collaborazione dell’Università degli studi di Catania, della Fondazione Lamberto Puggelli, del Teatro Machiavelli, dell’Associazione Ingresso Libero, del Comitato Popolare Antico Corso e delle librerie La Fenice e Vicolo Stretto.

La civiltà femminile nutre il mondo
Un dono prezioso ci viene consegnato quando veniamo alla luce: si chiama vita.
Tocca a noi saperla custodire in un insieme di pensieri e azioni quotidiane che si chiamano civiltà.
La trasmissione di questo sapere si fa almeno in due. L’una diventa testimonianza dell’altra.
Una vita vissuta in presenza e al presente, fatta di pesi e misure, di esercizio e facoltà, di scelte e possibilità che permettono di afferrare un filo conduttore di senso e di coscienza, che permettono di catturare una luce attraverso il buio per le strade del nostro cammino, di questo nostro vivere.
Una testimonianza di misura femminile della libertà è quella di una scrittrice come Gheula Canarutto Nemni e quella di una pittrice come me.
La mia attenzione per il libro di Gheula mi riconduce a constatare che tra i libri più significativi perme, tanti hanno nel titolo una negazione.
Non credere di avere diritti, Nonostante Platone, Non è da tutti, fino appunto a quest’ultimo (Non) si può avere tutto. Questa volta però il No è tra due parentesi. Un passo indietro per fare un balzo in avanti…anzi ci si prepara ad un salto in lungo…verso la libertà femminile.
Il mio NON A TUTTI I COSTI in continuo esercizio nel quotidiano è testimonianza di questa dura prova, ovvero non voglio muovermi a costo dell’umanità o a costo di perdere la mia umanità e l’amore per me stessa. Ne farei un torto prima di tutto a mia madre che mi ha messa al mondo e che con mio padre mi hanno cosi tanto desiderata e aspettata e soprattutto oggi a me stessa consapevole di questa preziosità.
Non a tutti i costi desidero di ottenere di realizzare un mio desiderio che esso stesso può diventare solamente una fantasia che ti tormenta l’anima e ti fa vivere infelice. Io ci rinuncio io mi sottraggo perché non mi fa intelligente ma rozza e disumana, cinica e superficiale.
Ottenere capra e cavoli? …ecco il problema. Non ci sono scorciatoie ed i passaggi sono così rigorosamente definiti e obbligati che se non fai nel tempo previsto, rischi come minimo se sei fortunata di ritornare alla casella di partenza come in un GIOCO DELL’OCA oppure rischi di restare con un pugno di mosche o altrimenti il peggio che è di perdere tutto per sempre e senza rimedio, riservandoti solo di essere rimasta almeno ancora in vita.
Sbagliando si impara che tutto è rimediabile finché la vita della mente ti permette di vedere altre soluzioni.
Tutto questo perché? Per narcisismo o per passione? Faccio tutto questo per passione verso la libertà femminile, mi muove la mia passione di cercarla trovarla e comunicarla. Considero il contesto dell’arte il più variegato e il più adeguato ad esprimere tutto ciò.
Suzana Glavaš nel suo intervento al convegno “DONNA SAPIENS-LA FIGURA FEMMINILE NELL’EBRAISMO” tenutosi presso il Castello Ursino a CATANIA, il 14 SETTEMBRE 2014 raccontò che nel Talmud è scritto, parafrasando: “Sii molto prudente a non far piangere una donna, poiché HaShem conta le sue lacrime. La donna è stata creata da una costola dell’uomo, non dai suoi piedi per essere calpestata. Non dalla sua testa per essere governata, ma dal suo fianco per
essergli alla pari. Sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata.”
Nelle lacrime apprezzai così la facoltà di resoconto del vissuto delle donne e degli uomini tanto da sceglierle come protagoniste nel titolo della mia installazione di opere digitali che, a partire da marzo 2015 presso il Bastione degli Infetti di Catania, sito gestito dal Comitato Popolare Antico Corso, ha continuato a trovare spazio in una catena di iniziative fino ad arrivare a quella di lunedì 18 gennaio 2016 presso il Teatro Machiavelli (Palazzo San Giuliano) Piazza Università, a Catania,
ringraziando per la disponibilità e la collaborazione l’Università degli studi di Catania, la
Fondazione Lamberto Puggelli, il Teatro Machiavelli e l’Associazione Ingresso Libero, Il Comitato Popolare Antico Corso, La Libreria Fenice e La Libreria Vicolo Stretto.
“La civiltà femminile nutre il mondo” è l’incontro di due artiste che si raccontano attraverso le proprie opere in dialogo: Gheula Canarutto Nemni , scrittrice di (Non) si può avere tutto – Ed. Mondadori (2015) e Cettina Tiralosi, digital painter di Lacrime sciolgono muri e aprono orizzonti alla coscienza e in un’atmosfera coinvolgente di musiche di tradizione ebraica accuratamente eseguite da Ginevra Gilli, arpista, ed infine attraverso le vie della Catania ebraica una passeggiata concluderà la serata.
“…Siamo nulla, siamo buio assoluto. Poi veniamo alla luce e inizia la nostra esistenza. Mi sono iscritta all’università a diciannove anni e in grembo portavo un’anima appena staccata dal Trono Celeste. Davo inizio a una corsa illudendomi di sapere dove e quale fosse il traguardo. Ho lottato a lungo per fare valere i miei diritti come essere umano. Ho combattuto con tutta me stessa per non venire schiacciata. Da quella porta dell’università, la stessa che avevo oltrepassato straripante di sogni e speranze, sono però uscita delusa. Spremuta……Pochi mesi dopo avere lasciato l’università
ho riacceso il computer, dichiarando davanti ad uno schermata immacolata che il periodo della mia spremitura era da considerarsi finito….Mi sono seduta al computer e ho aperto un file intitolandolo
Vita capitolo secondo e ho iniziato a premere sui tasti senza sapere dove volevo arrivare. Sentivo dentro di me un fiume in piena alla ricerca di un mare in cui sfociare…..Il rumore dei tasti premuti è per me come il suono della chiave che, girando nella toppa, apre una porta. Un varco che si affaccia sulle innumerevoli possibilità di unire fra loro lettere e parole. Ogni pagina scritta è una creatio ex
nihilo. Un lampo di pensiero, un’irradiazione lingiuistica che poi dirige le dita. Pensiero, parola e azione. E poi infinito….Ascoltavo in silenzio. Capendo il significato di capovolgimento. La discriminazione, le ingiustizie subite, sarebbero diventate il terreno dove avrei coltivato i miei sogni. Luce in ebraico si dice or. Il valore numerico delle sue lettere, la ghematria, è la stessa di Ein Sof, infinito. Da lì noi veniamo. Poi siamo un raggio. E diventiamo qualcuno.in quel momento il buio si accorge della nostra esistenza. E ci sfida con la sua presenza….La prima luce l’ho creata
Io, dice D-o. Ma d’ora in poi sarà compito vostro. Prendere il buio più profondo e trasformarlo in luce accecante. Tocca a noi, creature cacciate dall’Eden, ridare il respiro all’Infinito.” Gheula Canarutto Nemni , (Non ) si può avere tutto – Ed. Mondadori (2015)
Mi è stato insegnato a non avere mai paura del buio….è così sia.
Cettina Tiralosi

di Francesca Pasini

La città sola, senza altre orme che quelle della «guazza» mattutina, è un flash che talvolta ci passa davanti, allora si cammina svelti, intimiditi da quell’intimità. Ci crogioliamo nell’angolo più confortevole della nostra casa, ma fuori l’intimità dà insicurezza. Marina Ballo ci regala la meraviglia di Piazza Duomo sola, silenziosa, con addosso l’umidità della notte che scivola via, fotografia dopo fotografia.

Fa venire voglia di respirare largo, di riempirsi i polmoni e lasciarsi imbozzolare da questo guscio che contiene tutti i nostri gusci fisici e psichici. È molto diverso da un panorama naturale. Lì lo sconfinamento è appunto naturale ma qui, a Milano, in una piazza Duomo senza nient’altro che la spianata del selciato, neanche un tram, solo i barlumi lontani dell’architettura: qui non abbiamo scampo nel cosmo. Siamo abitanti di una piccola parte della terra. Magari è anche per questo che davanti alla visione di una città solitaria ci sembra di invadere uno spazio, non unicamente nostro. L’intimità altrui è imbarazzante. E così sostituiamo, alla scoperta, la preoccupazione per la solitudine. Abbiamo paura. Non ci fermiamo in una piazza vuota né di notte, né di giorno. Ammiriamo la vastità del paesaggio, ma stentiamo a entrare in sintonia con gli spazi costruiti quando sono vuoti.

Marina Ballo ci fa vedere il momento di grazia in cui la città nuda svela le sue molecole interne. Una radiografia a tre dimensioni, dove per un momento ci sentiamo in un luogo dove non c’è bisogno di confidenze o contatti emotivi per provare intimità con se stessi. Sì può stare lì. Guardarsi attorno, guardarsi dentro, con fiducia, in questa solitudine che contiene le nostre case, proprio le nostre, sapere che sono lì più o meno lontane. E allora si può essere spudorati, guardare, spiare. Come succede nella sequenza di sette fotografie Piazzaduomo#3, 2011: il selciato da un blu livido, umido s’illumina fino a una tinta perlacea aquatica; le lampade che contornano la piazza e gli edifici perdono luce. Diventa riconoscibile una ragazza, di schiena, seduta in mezzo. Era lì fin dalle ultime ore della notte. Marina ha deciso di scattare comunque. E così il desiderio di accompagnare la città dalla notte all’alba acquista concretezza nella fotografia. Svanisce l’imbarazzo della solitudine, e appare lo stupore di un luogo che contiene il risultato della costruzione urbana al grado zero. Appare questo infinito umano fatto di amori, di lotte, di nascite, di morti. Ha bisogno di confini fisici, corporei, mentali per bilanciare la vastità del cosmo.

Alberto Savinio diceva: «ascolto il tuo cuore, città». Marina Ballo sembra dire: «guardo il tuo corpo, città». Lo capta dal basso, perché l’equilibrio comincia nel momento in cui poggiamo i piedi per terra. Perché è un esercizio di lettura dove le cose scontate acquistano personalità. Nel trittico Piazzaduono#07, 2013, le intersezioni delle pietre del selciato si rincorrono da una foto all’altra creando una scena ritmica: dà prospettiva ai passi delle persone che appaiono piccole, lontane, e così mantengono il mistero delle loro fisionomie. Mentre nel dittico Piazzaduomo#11, 2014-15 la facciata parziale del Duomo fa da contrappeso alla pavimentazione umida, grigiastra, porosa, specchiante. Si ha la sensazione di assistere alla crescita dell’edificio in sintonia con la luce del giorno che cresce anche lui. Il cuore e il corpo della città visti dal basso ci parlano di tutto ciò che, pur essendo nascosto da muri, strade, monumenti, esiste e collabora alla percezione del nostro appartenere alla terra, prima che al cielo.

La mostra piazzaduomomilano è un progetto a quattro mani con Gabriele Basilico, pensato prima che lui morisse (il 13 febbraio 2013, a 69 anni), ed è un incontro tra la prospettiva dal basso e quella dall’alto. Anche Basilico, nel suo impareggiabile aggirarsi tra le guglie del Duomo, cattura il corpo della città. Facendoci volare con lo sguardo tra i tetti ci trasporta nella tattilità orizzontale di questa «pianura» sopra le architetture, sulla quale si ha la sensazione di poter camminare (Milano 2011,11A7-55). La distanza tra cielo e terra se ne va.

Poi con un colpo di vertigine ci spalanca il vuoto sotto l’Arengario (Milano 2011, 11A7-63). La strada è in pieno sole gli edifici in ombra e le persone, piccole, camminano e anche loro proiettano l’ombra. Una sintonia con lontananze che Ballo scopriva a raso terra e che Basilico, dopo averci fatto sognare di camminare tra tetti e guglie, sostenuti dall’aria, ci ricorda.

Uomini e donne siamo sempre piccoli sia rispetto all’altezza degli edifici, sia rispetto alla grandezza del selciato se lo si guarda dal basso. Come dire che la prospettiva è una questione mentale e non solo fisica. Immediato è pensare al volo sulla scopa di Miracolo a Milano di De Sica.

Marina Ballo Charmet-Gabriele Basilico

milanopiazzaduomo

a cura di Marco Belpoliti e Danka Giacon

Milano, Museo del Novecento, dal 10 ottobre 2015 al 26 febbraio 2016

Sabato 23 gennaio – 25 febbraio 2016 ore 18,30

La quarta vetrina

Artiste contemporanee raccontano la loro relazione con l’arte, i libri, le donne, i pensieri.

A cura di Francesca Pasini.

Prosegue il ciclo con Concetta Modica, Quel che resta.

Dopo l’inaugurazione, l’incontro con l’artista e la curatrice. Cena della cucina di Estia (la conferma è gradita).

Sarà in vendita la stampa (1/10), realizzata dall’artista per La Quarta Vetrina.

Da una vetrina all’altra, siamo alla terza, nasce un’antologia di visioni. La sinergia tra parole e immagini diventa fluida e, tra l’interno e l’esterno della vetrina e di chi partecipa, il filo delle suggestioni si disfa e si riannoda.

E’ il  caso di Concetta Modica che realizza un’opera col filo di lana, rimasto da opere precedenti. Nel 2001, da poco arrivata a Milano dalla Sicilia, alla Gamec di Bergamo, con i fili della coperta della nonna, che aveva disfatto, crea un paesaggio  astratto,  multicolore, nel quale si poteva entrare. Fili che ha poi usato per altre opere, alcune in collaborazione con altri artisti. Pensava di aver chiuso quel ciclo. “No, non è ancora finito”.

I molti fili che ha “visto” collegare parole e pensieri negli incontri in Libreria, le hanno fatto scegliere di usare Quel che resta per la vetrina e il dialogo che verrà. Così ha ricamato su un lenzuolo i segni che normalmente si fanno per contare, ad esempio i voti, quattro linee  orizzontali e una verticale e si ottiene un insieme di cinque per un conteggio tempestivo. Ma  è anche segno del tempo che passa.

L’immagine è aperta e molto attraente. Gli spunti di lettura sono tantissimi. La cultura artigianale. Il rapporto con il materno (la nonna) e il desiderio di promuoverlo tra donne uomini. Il dubbio di non poter mai dire quando l’opera è conclusa. Il dialogo come sistema di fili da disfare, per allentare i nodi, sciogliere i punti non scorrevoli e avere ancora altro filo da tessere.

A quest’opera, posta sul fronte della vetrina, Concetta Modica aggiunge sul retro, dove il fili pendono dal ricamo in  un intrico “naturale”, una scultura composita. Di nuovo il nodo è Quel che resta, dal passato o da altrove, come la mano in gesso trovata da un marmista,  che  impugna il trespolo su cui sono appoggiati tre suoi libri di foglie. Sono foglie cadute, che trova e conserva tra le pagine, colorando i tratti mancanti, gli sgretolamenti. Ritesse le loro vita e le sposta nei libri: i nostri compagni di viaggio dal passato al presente. Alla base del trespolo, in un sasso spaccato a metà ha premuto altri fili colorati. Saranno gli ultimi? Probabilmente, ma altri ne verranno lavorati e disfatti, durante il dialogo dell’inaugurazione. E non è questo il lavoro che la Libreria delle donne di Milano compie da oltre quarant’anni?
Concetta Modica, “Quel che resta”, 2016

da exibart

pubblicato il 14 gennaio 2016

di Francesca Pasini

Fin dal titolo, “Gli immediati dintorni”, Chiara Camoni (Nomas Foundation – Roma fino al  26 Febbraio) ci avverte della  sua tenace volontà di stare vicino alle cose. Tra opere di oggi e di ieri  appare un flusso che evidenzia il continuum del suo linguaggio. Su un grande tavolo a “L” sono disposti alcuni testi che accompagnano la biografia dei lavori e dei pensieri, invitano a sedersi, a leggere. Poi il tavolo gira e si “entra” nella stanza. Piccole sculture in creta cruda si alleano, da lontano, con i proiettori che rimandano sulle pareti due  video di alcuni fa.

La percezione diffusa è quella di un dialogo attorno a un tavolo imbandito di visioni e oggetti che richiamano la sua vita. Le sculture in creta cruda, realizzate a occhi chiusi, sono dedicate alla figlia di pochi mesi. Alcune sono avvolte da ramoscelli, altre li portano in testa, una collana di osso sta davanti. Insomma c’è l’universo in cui Chiara ha individuato il  metodo per soggiornare presso le cose e farle emergere attraverso un gesto che coglie la dimensione ridotta, meglio “iniziale”. Come nelle minime sculture in terracotta che s’inanellano le une sulle altre formando grandi matasse multiformi.

Le sculture a occhi chiusi hanno la magmaticità del tatto, e la sorpresa del passaggio tra il vedere della mente e lo sguardo fisico degli occhi. Una relazione che Chiara usa anche quando lavora con gli altri. Come in uno dei primi lavori: il libro di disegni  realizzati dalla nonna, che erano lo snodo per imparare ad attraversare insieme l’età adulta. La passività dell’affetto lasciava spazio all’invenzione di un incontro consolidato dalla crescita. Le statuine in mostra sono speculari a quel gesto. In questo caso Chiara dedica alla figlia l’esperienza di reciprocità che ha accompagnato la sua decisione di essere artista, anche come nipote. Segnala il rapporto madre-figlia con un’altra nascita, quella della forma di una scultura, che aveva così tanto nella mente da passare automaticamente alle dita che la plasmano, senza neppure guardare.

Una metafora del materno, ma anche il modo per dire che, le cose che incontriamo nella nostra intimità, restano nei dintorni di chi le vede e di chi le ritrova nella propria memoria. Le opere di Chiara non stanno di fronte a noi, sono con noi. E la scelta di metterle sopra un tavolo è una chiave intuitiva e immediata.

Generazione e filiazione sono attributi dell’arte, Chiara li avvolge come in un nastro di un registratore, situando il play back nell’incontro tra chi guarda e chi crea. Il concetto di nascita biologica e artistica trova una metaforica parentela.

In questo senso vedo la possibile interpretazione di un materno che, soggiornando presso le cose e gli eventi, non si situa né nella polarità madre-padre, né in quella madre-figlio. Riguarda il sentimento più ampio di essere accolti: donne, uomini, madri, padri, figli, visitatori, lasciando a ognuno il compito di plasmare un proprio legame attraverso il gesto che qualcuno/a ha creato  suggerendo ad altri/e di trasferirlo nella propria interna vicinanza.

Il simbolo della creta cruda può essere visto come una via di uscita dalla  gerarchica, a favore di una libertà da “cuocere” secondo le proprie intuizioni per dare stabilità al magma emotivo che tocca uomini e donne, e che, nella dialettica generazione-filiazione, è sempre stato avvicinato al materno.  Un materno che ha una lunga storia di separazioni e subalternità sociali. Già con i disegni della nonna, Chiara, svicola da questa separazione facendone l’elemento di libertà per andare oltre le consuetudini affettive.

L’arte ha di per sé qualità materna. Essa, infatti, supera le distinzioni sociali affettive rendendo visibile un’origine, in cui altri e altre si rispecchiano. Succede anche col padre, è vero, ma la fonte biologica della generazione risiede nel corpo della madre, di cui l’arte può assumere la metafora, chiunque sia chi la realizza. È un grande spostamento per cui c’è ancora molto da pensare e da capire. Più che dalla dedica alla figlia, sono influenzata dalla sua idea generatrice della forma. Appare ad esempio nella grande installazione di vasi, non ancora cotti, che verranno completati, modificati durante gli workshop che Chiara stessa ha predisposto. In primo piano c’è la trasmissione del gesto iniziale da cui spesso Lei parte per individuare la figura. Quindi, qualcosa che fa da ponte tra la filiazione (chi partecipa al workshop) e la generazione nell’incontro tra l’opera in gestazione e chi la porterà a termine.

Forse è ancora presto per rintracciare un concetto di materno dove la dualità uomo-donna, non sia l’unico polo attivo, ma una delle modalità per avvicinarsi al senso originario della generazione.  Chiara lo fa spesso nelle sue opere ed è chiaramente visibile ne Il Tronco, 2013.  Con pochi segni dà a un albero, trovato in un bosco, l’immagine di un corpo di donna, archetipico e nello stesso tempo vicino al presente; alle sue spalle, a terra, una specie di scialle  trapezoidale intessuto con altre partecipanti all’opera, diventa simbolo della rete di relazioni che tutti incontriamo.

Francesca Pasini

 

Martedi 12 gennaio ore 19
Prometeogallery

Via G. Ventura, 3, 20134 Milano

In occasione del Finissage della sua mostra personale, Regina José Galindo farà una lettura pubblica delle sue creazioni poetiche.
A seguire un talk in galleria tra l’artista in confronto con Diego Sileo, conservatore del PAC – Padiglione Arte Contemporanea Milano, e Francesca Pasini Curatrice e critica d’arte indipendente, su temi affini alla mostra “Mazorca”.

da Alias “il manifesto  del 2 gennaio 2016

di Graziella Geraci

Indagine aperta sulle relazioni fra i sessi

Intervista. L’artista iraniana Shirin Neshat è una delle protagoniste del nuovo calendario Pirelli, affidato alla magia fotografica di Annie Leibovitz

Artista eclettica, Shirin Neshat esplora attraverso l’arte visiva il mondo femminile nella cultura islamica svelando le contraddizioni, le limitazioni, la poeticità e la sensualità che convivono in una cultura millenaria. Foto, installazioni, film si intrecciano nella produzione dell’artista iraniana con progetti musicali ed episodi al limite del fashion come lo scatto di Annie Leibovitz che la vede protagonista per il calendario Pirelli del 2016, scelta, insieme ad altre undici donne, come simbolo di una femminilità contemporanea influente e di successo.
Shirin Neshat continua ad indagare se stessa e l’essere donna in tutte le sue accezioni, partendo da un vissuto che la vede bilanciare perfettamente il mondo occidentale e quello mediorientale.

Cosa pensa del nuovo stile del calendario Pirelli e cosa ha provato quando Annie Leibovitz la ha contattata per posare per «The Cal»?
Non conoscevo molto il calendario della Pirelli ma ho accettato per la reputazione di ottima fotografa di Annie Leibovitz. Successivamente quando ho visto le passate edizioni del calendario ho pensato che Annie fosse estremamente coraggiosa per cambiare l’identità di un prodotto così affermato da calendario sexy a qualcosa che non si basa sulla bellezza fisica ma sui risultati raggiunti dalle donne. Inutile dire che sono stata lusingata di far parte della sua selezione e penso che le immagini siano veramente fantastiche opere d’arte.

Qual è il suo rapporto con l’Italia e l’arte di questo paese?
L’Italia è stata determinante per l’evoluzione della mia carriera iniziata nella galleria di Lucio D’Amelio nel 1996. Ho anche ricevuto i premi più importanti in Italia: uno di questi è stato il Leone d’Oro della Biennale di Venezia (arti visive) nel 1999 e poi il Leone d’Argento al Festival Internazionale del Cinema di Venezia per il mio film Donne senza uomini, nel 2009. A settembre del 2015 sono stata a Bari per Passage through the world, un viaggio nella musica di Mohsen Namjoo per il quale ho realizzato con Shoja Aza la scenografia. È stato molto interessante e ho interagito con alcune donne anziane, delle lamentatrici, che sono entrate nello spettacolo e nella mia installazione video. Mohsen Namjoo ha avuto l’idea della musica che viaggia dall’est all’ovest attraverso diverse culture: l’idea l’ho trovata suggestiva, soprattutto per il particolare momento di conflitto tra cristiani e musulmani, tra oriente ed occidente, che stiamo attraversando. In questo progetto c’erano infinite possibilità da sviluppare: l’idea della musica mistica islamica, la circolarità della danza sufi, l’idea del mentore e dei suoi accoliti e un tipo di religiosità che si esprime nelle lamentatrici italiane.

C’è una differenza, secondo lei, tra l’arte occidentale e quella orientale?
È difficile generalizzare perché io vivo in mezzo alle due culture: emotivamente sono molto iraniana ma la mia educazione è occidentale. Quando sono a New York mi sento parte dell’occidente, quando sono in Italia mi sento orientale, sono completamente divisa in due, nel lavoro, nello stile, anche nel mio modo di vestire. C’è una grande differenza tra le due culture ma le emozioni umane sono il legame che le unisce. Con l’arte cerco di mostrare cosa realmente abbiamo in comune, uso l’iconografia, la musica e le immagini iraniane ma il mio lavoro è la ricerca, cercare umanità. Siamo uguali, abbiamo gli stessi sentimenti: tu soffri come soffro io, tu ti innamori proprio come mi posso innamorare io, tu sei libero, io sono libera … il potere dell’arte è rintracciare le assonanze nelle esperienze umane. C’è differenza nella lingua, nella religione e nello stile di vita, ma contemporaneamente esiste l’universalità dell’umanità. L’arte è l’unico modo per setacciarla. Una buona opera d’arte dovrebbe avere le due qualità: mostrare le divergenze e le cose comuni. Il mio lavoro è molto islamico: è basato sulla mia esperienza di donna iraniana, è particolarmente concentrato sull’Iran. Eppure nello stesso tempo, visto che vivo fuori dal mio paese, cerco i paradossi.

Nel suo film «Donne senza uomini» la relazione tra i due sessi non è positiva: è lo specchio della situazione in Iran o è una condizione globale?
Niente affatto. Il film è basato sul romanzo omonimo della scrittrice iraniana Shahrnush Parsipur e, a mio parere, la sua storia descrive le donne che non riescono a gestire le relazioni con gli uomini e a fronteggiarli. Il film è stato stilisticamente concepito nell’ambito del realismo magico. La storia si svolge nel 1953, non si tratta dell’Iran attuale, è un’allegoria e non una rappresentazione realistica della cultura iraniana.

Cosa pensa delle primavere arabe? Si intravedono cambiamenti per le donne?
Sono andata a Piazza Tahrir due volte. L’Egitto ha vissuto una sorta di onda verde, come quella iraniana. Questi movimenti hanno mostrato un nuovo concetto di famiglia nella quale le donne sono attive, sono intelligenti e si muovono all’interno della società. C’è una nuova generazione di donne erudite ed intraprendenti: in più, non sono come le occidentali che per partecipare alla politica devono necessariamente emulare gli uomini. Amo quel loro dinamismo mediorientale in cui le donne continuano a essere molto femminili, non competono con gli uomini e la loro partecipazione alla rivoluzione è stata un fatto naturale. Questa nuova generazione mi ha ispirata: la mia e quella precedente non ha avuto accesso all’educazione. Nella mia famiglia sono la sola a lavorare e a guadagnare, le mie sorelle hanno avuto la fortuna di andate tutte a scuola, ma si sono sposate e hanno fatto figli, accettando un ruolo tradizionale. La generazione attuale è composta da donne istruite al 95%, lavora, che hanno dimistichezza con la tecnologia e conoscono il mondo anche attraverso i social media. Non è una condizione così distante dalle possibilità che hanno gli uomini e questo status è nuovo per noi.
Ma la situazione dal punto di vista politico non sembra mutata, in Egitto si è instaurato di nuovo un potere militare. Il problema persiste, le donne stanno cambiando, ma la società probabilmente è ancora indietro. Il governo non ha la capacità di aiutare la trasformazione, anche se ora è difficile ricacciare le donne nella situazione precedente.

Quali sono i suoi progetti nel prossimo futuro?
Sto lavorando a un film sulla vita di Umm Kulthum. La cantante egiziana è morta nel 1975, ma ancora oggi è la voce più popolare nel Medio Oriente, è amata in Egitto, in Israele, in Algeria, in Marocco e in altri Stati. La sua figura è molto complessa. Era una donna mediorientale che per raggiungere il successo doveva essere non convenzionale, a suo modo progressista. Non ebbe mai figli, probabilmente era gay, era comunque circondata da uomini, viveva in una società maschilista, era nazionalista… tutti spunti interessanti.

Nel 2017, al Festival di Salisburgo realizzerò la regia dell’Aida. Mi interessa la sperimentazione, come artista sono propensa a fare sempre cose nuove, mi annoiano le ripetizioni. Quando Riccardo Muti mi ha contattata per l’Aida, la sua proposta mi ha spaventata, ma contemporaneamente stimolata: è qualcosa di completamente nuovo per me ed è un rischio.

Infine, sto terminando di girare alcuni video che vorrei esporre alla mia prossima mostra alla galleria Gladstone di New York. Ho intenzione di realizzare una trilogia, tre cortometraggi che hanno come soggetto i sogni. Lo stile sarà concettuale, come per gli altri video TurbulentRapture, saranno in bianco e nero e con una donna come protagonista. Avevo già realizzato per la Viennale un filmato di 3 minuti con Natalie Portman, ora è di 10 minuti e farà parte della trilogia che chiamerò Dreamers. Questo per ora è tutto, poi vedrò in corso d’opera.

sabato 12 dicembre ore 16.30 L’evento è stato spostato a sabato 9 gennaio alle ore 16,30
Feritelliarte Firenze

 

In occasione della mostra Altra misura. Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta si terrà un ciclo di cinque incontri dedicati ad approfondire i temi dell’esposizione, attraverso il confronto e la testimonianza di storiche dell’arte, curatrici, militanti, artiste, collezioniste e galleriste, invitate a riflettere sul rapporto tra arte e femminismo nel contesto storico attuale e in quello passato, sulle esperienze dei collettivi autogestiti, sulle recenti mostre dedicate all’arte femminile.
 
Interverranno
Barbara Casavecchia, Francesca Guerisoli,
Paola Mattioli, Libera Mazzoleni
Introduce e modera
Raffaella Perna

sarà riproposta la performance di

Libera Mazzoleni
Il pollo & l’Arte
 Impossibile dire, oggi, cosa sia l’Arte, tuttavia l’artista non si esime dall’interrogarsi. Il pollo & l’Arte srotola questa domanda intrecciando la tonalità aulica con la banale azione del divorare, del consumare, dell’assimilare, in un gioco di rinvii ambigui e spaesanti.

Una vittima sacrificale e un arte-fice (… artificio) che, abitando la follia di un’identità anonima, meta-fora di una generica umanità, pensa di creare il mondo, annicchilendolo continuamente nel gesto compiuto da una soggettività smisurata.

da La stampa del 30-11-2015

di Maria Corbi

Nel lavoro firmato da Annie Leibovitz anche Yoko Ono, Patti Smith e Serena Williams

Annie Leibovitz aveva già prestato il suo occhio e la sua sensibilità a The Cal nel 2000 quando l’unica modella a entrare nelle sue pagine fu Laetizia Casta. Per il 2016 l’eccezione è invece Natalia Vodianova. Quindi inutile aspettarsi una carrellata di donne nude e ammiccanti a rappresentare l’anno che verrà. Ecco invece un gruppo di donne carismatiche e toste, scelte per quello che sono e non per la loro perfezione. Un concetto di bellezza democratico, femminista, che salta i canoni imposti da pubblicità, uomini e mass media. Modelle per caso, anzi per scelta, per cercare di abbattere il muro del pensiero unico maschile sulla bellezza. Ed ecco Yoko Ono, 82 anni, la giapponese che negli anni ’60 stregò John Lennon e mise fine ai Beatles. Katherine Kennedy, 62 anni, super produttrice americana, socia di Steven Spielberg. Agnes Gund, 77 anni, collezionista, presidente del Museum oggi modern Att di New York. Patti Smith, 68 anni, sacerdotessa della musica New Waves.

Fran Lebowitz, 64 anni, opinionista made in Usa, paladina dei diritti dei fumatori.

Ava Duvernay, 44 anni, regista di Selma – La strada per la libertà. E poi Serena Williams, 33 anni, giunonica campionessa, mito del tennis. Ma a rappresentare il «nuovo femminile», «la generazione Z», le giovanissime, c’è Tavi Gevinson, 19 anni, aspetto di una tredicenne che con il suo blog Style Rookie , fondato nel 2008, è diventata una delle trenta donne under 30 più importanti del mondo dei media secondo Forbes. Nel 2012 ha pubblicato il suo primo progetto cartaceo: «Rookie – Year Book One». È considerata una «new feminist» e da piccola donna che a 12 anni alle sfilate si sedeva già a poche poltrone di distanza dalla Wintour, si è trasformata in una ambasciatrice della sua generazione. Via social, of course.

In occasione della presentazione del calendario Pirelli ha presentato anche il sito www.pirellicalendar.com per gli appassionati di «The Cal». All’interno materiale d’archivio, alcuni inediti e il backstage. Una storia del calendario ma anche uno spaccato dell’evoluzione del costume di oltre mezzo secolo di storia, dal 1963 fino ai giorni nostri.

http://www.lastampa.it/2015/11/30/societa/basta-nudo-e-sensualit-il-calendario-pirelli-celebra-le-donne-toste

dal 13 novembre 2015 al 23 gennaio 2016

Sally Schonfeldt
The Ketty La Rocca Research Centre

Istituto Svizzero di Roma  via Liguria, 20

The Ketty La Rocca Research Centre dell’artista Sally Schonfeldt (nata nel 1983 ad Adelaide e residente a Zurigo) è il secondo progetto del ciclo Artista Laureato, promosso dall’Istituto Svizzero di Roma, per indagare modelli alternativi nel sistema di educazione attraverso un dialogo tra soggetti attivi: accademie d’arte e istituti di cultura.

Il progetto di Schonfeldt, iniziato nel 2011 durante i suoi studi alla Zürcher Hochschule der Künste (ZHdK) e presentato oggi all’Istituto Svizzero di Roma, è ispirato dalla penetrante esplorazione del linguaggio nelle opere video, nelle performance, nei collage e nella fotografia dell’artista italiana Ketty La Rocca (La Spezia, 1938 – Firenze 1976). Artista della neo-avanguardia, La Rocca ha fatto parte del movimento di “poesia visiva” nel Gruppo 70, e ha lavorato alla frontiera dell’arte sperimentale nella Firenze degli anni Sessanta e Settanta.

Sally Schonfeldt ha iniziato una ricerca di un anno che ha successivamente rivisitato attraverso una complessità di temi che contestualizzano il lavoro di Ketty La Rocca. Affascinata dalla progressiva decostruzione dell’uso dominante del linguaggio e dall’attenzione radicale degli ultimi lavori di La Rocca sul potenziale del non-verbale e del gesto, Schonfeldt ha raccolto l’opera di quest’artista attraverso una riflessione soggettiva e una rilettura all’interno del femminismo storico e contemporaneo.

L’Istituto Svizzero di Roma ha invitato Sally Schonfeldt in Italia per continuare la sua ricerca: la nuova installazione del progetto di Schonfeldt a Roma contraddice la classica forma del “centro di ricerca” con un contesto intimo e soggettivo. The Ketty La Rocca Research Centre è progettato come una piattaforma, tanto letterale quanto metaforica, il cui materiale raccolto e messo in mostra rende possibile una lettura aperta e accessibile della pratica artistica di Ketty La Rocca. Libri d’arte, cataloghi, ephemera di mostre passate, recensioni di giornali, lavori video tra cui Le Mani, prodotto nel 1973 per il programma TV Rai Nuovi Alfabeti, vengono contestualizzati da ulteriori testi e libri su temi come la “poesia visiva”, il Gruppo 70, il femminismo italiano e la ricerca artistica.

Invece di un omaggio retrospettivo, Sally Schonfeldt presenta una celebrazione e una ricognizione della contemporaneità di La Rocca, un pretesto per mettere in dialogo artiste e musiciste di differenti generazioni e provenienza. Per questo, il 16 gennaio 2016, lo spazio verrà aperto alla collaborazione con altre artiste contemporanee, musiciste, teoriche e scrittrici coinvolte in pratiche femministe e collettive. Echo La Rocca – The Sound as the Trace of Her Voice, in collaborazione con OOR Records (Zurigo), estenderà la mostra ospitando stand temporanei di libri, dibattiti, interventi sonori e performance in relazione a La Rocca e alle sue multiforme pratiche.

The Ketty La Rocca Research Centre ospiterà anche la ricerca di Anna Frei, artista, graphic designer, DJ e produttrice culturale, sulle donne nella musica elettronica delle origini. Sviluppatasi nel corso degli ultimi anni, l’indagine della Frei verrà approfondita seguendo le tracce del coinvolgimento della stessa La Rocca nella musica elettronica nell’Italia degli anni Sessanta.

The Ketty La Rocca Research Centre a Roma è uno spazio attivo. Un’altra libreria, un’altra mostra, un altro centro di ricerca, un’altra stanza di lettura in cui i vari discorsi attorno a Ketty La Rocca si incontrano generando dialoghi tra i contesti storici e gli spazi. Una prospettiva che stabilisce contatti con studiosi, artisti, galleristi, storici dell’arte, critici e membri della famiglia coinvolti nel desiderio di tenere viva la presenza di Ketty La Rocca nel contemporaneo.

Sally Schonfeldt (1983, Adelaide, Australia) vive a Zurigo. Si è laureata alla Zürcher Hochschule der Künste (ZHdK) nel 2014. Il suo lavoro è principalmente orientate alla relazione dialogica tra teoria e potenzialità della ricerca artistica e estetica. Applica la storiografia per interrogare i modi della produzione di sapere in relazione al discorso post-coloniale, e la posizione delle donne nella storia. I suoi ultimi lavori includono Plattenstrasse 10 (2014) e The Struggle within the Struggle (2015). I suoi nuovi progetti (in collaborazione con Very Ryser) indagano un manifesto scritto dalle donne migranti in Svizzera nel 1975, con l’intenzione di ri-posizionarlo nell’attualità contemporanea.

Anna Frei (1982, San Gallo) vive a Zurigo. È artista, graphic designer, DJ e produttrice culturale. Le sue diverse attività sono il risultato di ricerche sui protagonisti, sui campi e sulle pratiche dell’arte emancipatoria e della musica. Nel 2014 ha co-fondato a Zurigo lo spazio polivalente OOR RECORDS, un negozio di dischi e una libreria d’arte, dove organizza performance, reading, dj-set e eventi di sound-art. Archivia e rende accessibili online registrazioni, mix e opere audio, e produce edizioni audio dei suoi eventi.

 

dal 3 dicembre 2015 al  27 febbraio 2016

Galleria Raffaella Cortese

Barbara Bloom | via a.stradella 1-7
Joan Jonas | via a.stradella 4


Inaugurazione alla presenza degli artisti giovedì 3 dicembre h. 19.0021.00
3 dicembre 2015 | 27 febbraio 2016
martedì – sabato h. 10.00-13.00 | 15.00-19.30 e su appuntamento

Barbara Bloom
The Weather | via a.stradella 1-7


La Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare la terza mostra personale dell’artista americana Barbara Bloom, che coinvolgerà due dei tre spazi espositivi della galleria. In mostra saranno opere inedite, concepite e realizzate appositamente per l’occasione.

L’Assenza e la sua rappresentazione sono state, per quasi 40 anni, un tema costante di ricerca e indagine nel lavoro di Barbara Bloom. Impronte digitali, tracce di rossetto, filigrane, macchie di tè, impronte di passi, testi invisibili, cancellature, depennamenti, Braille ed ellissi… sono le sue forme e i suoi oggetti preferiti. Questi legami tra il visibile e l’invisibile sono da sempre una presenza frequente nella ricerca dell’artista. Un aspetto altrettanto incisivo del lavoro di Barbara Bloom è rappresentato dal suo rapporto con la Letteratura e, in particolare, con i libri e i testi dei suoi autori preferiti che vengono utilizzati come “portatori di senso” e di cui spesso Bloom suggerisce dettagli impliciti nelle sue opere. L’artista ha più volte dichiarato che avrebbe potuto essere una scrittrice, probabilmente una romanziera, ma in qualche modo è finita a fare la cosa sbagliata (e ha involontariamente “accettato” di essere un’artista visiva).

Nello spazio n.7, sette tappeti di una tonalità grigio-verdeacqua aleggiano in bilico a diverse altezze dal pavimento. Ogni tappeto presenta sulla sua superficie un pattern di punti in rilievo che formano un testo in Braille. L’artista ha deciso di utilizzare testi descrittivi che accentuassero la complessità e la malinconia nella “lettura” dell’opera: un cieco dalla nascita, infatti, pur comprendendo il testo non potrà avere un’immagine visiva di ciò che il testo descrive; una persona vedente, invece, non leggendo il Braille, potrà semplicemente osservare l’oggetto.
Gli scritti che Bloom ha scelto sono una vasta gamma di descrizioni del tempo e delle condizioni atmosferiche, ossia un qualcosa che influisce su tutti noi e che tutti noi possiamo percepire. Appartengono a diversi autori e sono dunque trattati con stili diversi: Raymond Chandler, André Gide, James Joyce, Gabriel Garcia Marquez, Cormac McCarthy, Haruki Murakami; in più, un riferimento autobiografico nella descrizione delle statistiche meteorologiche di Los Angeles l’11 luglio, 1951 alle 2am (il suo luogo e data di nascita).
Nello spazio n.1 è esposta la serie fotografica Works for the Blind. Ogni lavoro è la fotografia di un’illusione e su ognuno è riportata una frase in Braille. La stessa frase è anche stampata, bianco su nero, a parole ma nelle dimensioni di un francobollo. Le immagini e i testi (di Wittgenstein, Barthes, o Dorothy Sayers) fanno riferimento alla difficoltà di vedere le cose per quello che sono realmente, ma pochissime persone saranno in grado di leggere l’opera nella sua completezza. I vedenti potranno osservare la fotografia dell’illusione (anche se non comprenderanno com’è stata realizzata), ma la maggior parte non percepirà il senso del testo, troppo piccolo da leggere; i non vedenti, invece, potranno leggere il testo (il plexiglass è tagliato in corrispondenza del testo in Braille, che può essere toccato), ma non potranno osservare la fotografia. L’unica cosa chiara è che ognuno di noi è cieco.
In questo spazio è esposta anche la serie fotografica Eyes Closed. Bloom ha passato molto tempo in sale cinematografiche nel mondo, per cui, in un modo o nell’altro, gran parte dei film che ha visto erano sottotitolati e quelle parole erano sempre approssimazioni inadeguate dei dialoghi; tuttavia, l’autorità loro conferita dall’essere scritte le rendeva più solide e strutturate del dialogo fugace.

Barbara Bloom è nata nel 1951 a Los Angeles. Vive e lavora a New York. Recentemente il MoMA di New York ha acquisito la sua serie fotografica Framing Wall (1977– 2015), che sarà in mostra al museo fino al 20 dicembre 2015. Il suo lavoro è stato esposto in importanti istituzioni quali: Museo Boymans van Beuningen, Rotterdam; Stedelijk Museum, Amsterdam; Museum of Contemporary Art, Los Angeles; La Biennale di Venezia; Kunstverein München, Monaco; Art Gallery of New South Wales, Sydney; The Serpentine Gallery, Londra; Kunsthalle di Zurigo; Württembergischer Kunstverein, Stoccarda; Carnegie Museum of Art, Pittsburgh; Leo Castelli Gallery, New York; SITE Santa Fe;Louisiana Museum of Modern Art, Danimarca; La Bienale de Venezuela, Caracas; Museum Friedricianum, Kassel; Parrish Art Museum, Southampton; Wexner Center for the Arts; Cooper-Hewitt Design Museum; International Center of Photography, New York; Martin-Gropius-Bau, Berlino; The Jewish Museum, New York.

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Joan Jonas
via a.stradella 4

 


Raffaella Cortese è lieta di presentare la seconda mostra personale in galleria dell’americana Joan Jonas, pioniera riconosciuta della performance e del video.

A partire dagli anni ‘60, ha posto la soggettività femminile al centro del proprio lavoro, attraverso un complesso repertorio linguistico fatto di gesti, narrazione e immagini in movimento. Sperimentatrice instancabile, Jonas esplora le possibilità insite nella natura interdisciplinare dell’arte: una caratteristica che l’ha resa un punto di riferimento per artisti delle più giovani generazioni.

Le opere più recenti di Joan Jonas si concentrano principalmente sulla fragilità della natura e il suo rapporto con la dimensione umana, come in Reanimation, in parte ispirato agli scritti dell’autore islandese Halldór Laxness, e They Come to Us without a Word, la sua grande installazione alla 56a Biennale di Venezia, solo per citarne alcune.
Nelle sue installazioni, video e performance, nulla è semplicemente descritto, ma piuttosto evocato attraverso i sensi. “Anche se l’idea del mio lavoro riguarda la questione di come il mondo stia così rapidamente e radicalmente cambiando, non analizzo il soggetto direttamente o in modo didattico”, ha dichiarato Jonas. “Piuttosto, le idee sono evocate poeticamente attraverso i suoni, le luci e l’accostamento di immagini di bambini, animali e paesaggi.”

La mostra in galleria vuole rendere omaggio al riconoscimento internazionale che Joan Jonas ha avuto in quest’ultimo periodo: dalla sua grande mostra itinerante Light Time Tales – presentata inizialmente all’Hangar Bicocca di Milano e ora in mostra alla Malmö Konsthall – alla sua straordinaria installazione nel Padiglione degli Stati Uniti alla Biennale di Venezia.
L’artista presenterà una serie di opere provenienti direttamente dall’installazione della Biennale, due video inediti e una serie di disegni concepiti appositamente per lo spazio espositivo in via Stradella 4.

Joan Jonas nasce a New York nel 1936. Vive e lavora a New York.
Negli ultimi 15 anni è stata docente di Arti Visive al MIT ed è attualmente Professor Emerita nel Programma del MIT di Arte, Cultura e Tecnologia (ACT) all’interno della facoltà di Architettura + Pianificazione. Nel 2009 l’artista ha ottenuto il primo premio annuale Lifetime Achievement Award del Guggenheim. Nel 2015, ha rappresentato gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia, dove ha ricevuto una menzione speciale.
Jonas ha avuto retrospettive all’Hangar Bicocca, Milano (2014) e Malmö Konsthall, Malmö (2015), Queens Museum of Art di New York (2003), Staatsgalerie, Stuttgart (2000), e allo Stedelijk Museum, Amsterdam (1994). Ha esposto a Documenta V, VI, VII a Kassel. Le è stata commissionata un’installazione e successiva performance dal titolo Lines in the Sand per Documenta XI, ricreata poi alla Tate Modern di Londra, e presso The Kitchen, New York nel 2004. Ha inoltre esposto e presentato performance in istituzioni come: Haus der Kulturen der Welt, Berlino; Sigmund Freud Museum, Vienna; Dia:Beacon, Beacon, New York; Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid; Museu d’Art Contemporani de Barcelona; Le Plateau e Jeu de Paume/ Hotel de Sully, Parigi; Renaissance Society, University of Chicago, Chicago, Illinois.


Per ulteriori informazioni contattare Erica Colombo +39 02 2043555, info@galleriaraffaellacortese.com.

mercoledì 9 dicembre ore 18,30

La Quarta Vetrina

della Libreria delle donne di Milano

Artiste contemporanee raccontano la loro relazione con l’arte, i libri, le donne, i pensieri. Una quarta vetrina per una quarta dimensione, da inventare ogni volta.

Prosegue il ciclo, a cura di Francesca Pasini con la scultura di Alice Cattaneo Col fiato sospeso per circa due ore. Dopo l’inaugurazione segue l’incontro con l’artista e la curatrice  e la cena della cucina di Estia ( la conferma è gradita).

Sarà in vendita la stampa (1/10)  realizzata dall’artista per  La Quarta Vetrina.

 

Alice Cattaneo ha ideato una scultura che parla di una verità attutita, in apnea, come succede quando si è sottacqua. La vetrina diventa metafora di un acquario da dove emergono figure geometriche semplici, connesse tra loro. Sono rettangoli, circonferenze, linee rette, inclinate che non parlano dell’asse del mondo, ma del dialogo con l’altro da sé. E’ un equilibrio fragile, come lo è la coerenza, perché ambedue hanno bisogno di misurarsi con certezze non univoche e conflitti non sempre riconoscibili. Tondini di ferro, fogli di acetato blu, arancio, rosso scuro, si allineano fuori dall’asse del mondo, lo indicano, forse lo intercettano, ma non è un punto di arrivo.

L’asse attorno a cui ruotano è quello dell’instabilità, che intravede connessioni  anche tra cose destinate a modificarsi. Non cerca la certezza dell’equilibrio, ma la sua pluralità. Non c’entra il calcolo giusto o sbagliato, ma la possibilità di rimettere in sesto le figure della mente, perché appaiono nella loro pluralità.

Così questo mondo geometrico dialogante con l’altro da sé diventa un confine che occlude la vetrina, ma non la copre, non è invasivo, la attraversa lasciando vivere i movimenti dei pensieri, dei sentimenti che sottendono alla fragilità della vita. E, proprio come dietro il vetro di un acquario, indica una visione attutita suggerendo di guardare all’interno di sé per andare oltre il vetro. Col buio e durante la notte, l’apparizione trascina il senso della perdita. Appena superi la vetrina illuminata, magari in macchina, quali connessioni ti resteranno negli occhi? Quali perderai? E’ un’altra metafora della relazione non geometrica tra sé e il mondo.