Dal 17 aprile al 12 giugno 2016

Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea

Palazzo Massari – Corso Porta Mare 9, 44121 Ferrara
tel

torna al Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara la Biennale Donna, con la presentazione della collettiva SILENCIO VIVO. Artiste dall’America Latina, curata da Lola G. Bonora e Silvia Cirelli. Organizzata da UDI – Unione Donne in Italia di Ferrara e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, la rassegna si conferma come uno degli appuntamenti più attesi del calendario artistico e dopo la forzata interruzione del 2014, a causa del terremoto che ha colpito Ferrara e i suoi spazi espositivi, può ora riprendere il proprio percorso di ricerca ed esplorazione della creatività femminile internazionale.
Da sempre attenta al rapporto fra arte e la società contemporanea, la Biennale Donna intende concentrarsi sulle questioni socioculturali, identitarie e geopolitiche che influenzano i contributi estetici dell’odierno panorama delle donne artiste. In tale direzione, la rassegna di quest’anno ha scelto di spostare il proprio baricentro sulla multiforme creatività latinoamericana, portando a Ferrara alcune delle voci che meglio rappresentano questa eccezionale pluralità espressiva: Anna Maria Maiolino (ItaliaBrasile, 1942), Teresa Margolles (Messico, 1963), Ana Mendieta (Cuba 1948 – Stati Uniti 1985) e Amalia Pica (Argentina, 1978). SILENCIO VIVO riscopre le contaminazioni nell’arte di temi di grande attualità, interrogandosi sulla realtà latinoamericana e individuandone le tematiche ricorrenti, come l’esperienza dell’emigrazione, le dinamiche conseguenti alle dittature militari, la censura, la criminalità, gli equilibri sociali fra individuo e collettività, il valore dell’identità o la fragilità delle relazioni umane.
L’esposizione si apre con l’eclettico contributo di Ana Mendieta, una delle più incisive figure di questo vasto panorama artistico. Nonostante il suo breve percorso (muore prematuramente a 36 anni, cadendo dal 34simo piano del suo appartamento di New York), Ana Mendieta si riconferma ancora oggi, a 30 anni dalla sua scomparsa, come un’indiscussa fonte di ispirazione della scena internazionale. La Biennale Donna le rende omaggio con un nucleo di opere che ne esaltano l’inconfondibile impronta sperimentale, dalle note Siluetas alla documentazione fotografica delle potenti azioni performative risalenti agli anni ’70 e primi ’80. Al centro, l’intreccio di temi a lei sempre cari, quali la costante ricerca del contatto e il dialogo con la natura, il rimando a pratiche rituali cubane, l’utilizzo del sangue – al contempo denuncia della violenza, ma anche allegoria del perenne binomio vita/morte – o l’utilizzo del corpo come contenitore dell’energia universale.
Il corpo come veicolo espressivo è una caratteristica riconducibile anche ai primi lavori della poliedrica Anna Maria Maiolino, di origine italiana ma trasferitasi in Brasile nel 1960, agli albori della dittatura. L’esperienza del regime dittatoriale in Brasile e la conseguente situazione di tensione l’hanno influenzata profondamente, spingendola a riflettere su concetti quali la percezione di pericolo, il senso di alienazione, l’identità di emigrante e l’immaginario quotidiano femminile. In mostra è presente una selezione di lavori che ne confermano la grande versatilità, dalle sue celebri opere degli anni ’70 e ’80 – documentazioni fotografiche che lei definisce “photopoemaction”, di chiara matrice performativa – alle sue recenti sculture e installazioni in ceramica, dove emerge la stretta connessione con il quotidiano, in aggiunta, però, all’esplorazione dei processi di creazione e distruzione ai quali l’individuo è inevitabilmente legato.
Di simile potenza suggestiva, ma con una particolare attitudine al crudo realismo, la poetica di Teresa Margolles testimonia le complessità della società messicana, ormai sgretolata dalle allarmanti proporzioni di un crimine organizzato che sta lacerando l’intero paese e soprattutto Ciudad Juarez, considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo. Con una grammatica stilistica minimalista, ma d’impatto quasi prepotente sul piano concettuale, i lavori della Margolles affrontano i tabù della morte e della violenza, indagati anche in relazione alle disuguaglianze sociali ed economiche presenti attualmente in Messico. Le installazioni che l’artista propone alla rassegna ferrarese – fra cui Pesquisas, realizzata appositamente per la Biennale Donna – svelano un evidente potere immersivo, che forza lo spettatore ad assorbire e partecipare al dolore di una situazione ormai fuori controllo, troppo spesso taciuta e negata dalle autorità locali.
Il percorso della mostra si chiude poi con la ricerca di Amalia Pica, grande protagonista dell’emergente scena argentina. Utilizzando un ampio spettro di media – il disegno, la scultura, la performance, la fotografia e il video – l’artista si sofferma sui limiti e le varie declinazioni del linguaggio, esaltando il valore della comunicazione, come fondamentale esperienza collettiva. Le sue opere si fanno metafora visiva di una società segnata dall’ipertrofia della comunicazione, un fenomeno diffuso che sempre più di frequente conduce all’equivoco e all’alienazione, invece che alla condivisione. Ispirandosi ad alcune tecnologie trasmissive del passato, mescolate a rimandi del periodo adolescenziale, Amalia Pica sorprende con interventi dal chiaro aspetto ludico, che invitano gli stessi visitatori a interagire fra loro, sperimentando varie e ironiche possibilità di dialogo.
La mostra, organizzata dal Comitato Biennale Donna dell’UDI (composto da Lola G. Bonora, Anna Maria Fioravanti Baraldi, Silvia Cirelli, Anna Quarzi, Ansalda Siroli, Dida Spano, Antonia Trasforini, Liviana Zagagnoni) e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, è curata da Lola G. Bonora e Silvia Cirelli, ed è sostenuta dal Comune di Ferrara e dalla Regione Emilia-Romagna.
In occasione dell’esposizione sarà edito un catalogo bilingue italiano e inglese che contiene le riproduzioni di tutte le opere esposte e apparati biografici, unitamente a contributi critici di Lola G. Bonora e Silvia Cirelli.

di Francesca Pasini

Miart è finita e le conquiste a Milano son già mille e tre! Ma non saranno transitorie come quelle di Don Giovanni.
“Il catalogo è questo”.
Massimo De Carlo e Rudolf Stingel a Palazzo Belgioioso. Un enorme tappeto rosso –viola copre perfettamente l’intero pavimento di tutte le stanze. Sprofondato tra i fili appare un disegno che allude ai tappeti persiani, un unico quadro con coinvolgenti strati di colore richiama la cromia del pavimento. Tutto è illuminato da meravigliosi lampadari che lambiscono stucchi e decorazioni del palazzo del Piermarini, fine ‘700. Una galleria perfetta e un’impeccabile proposta di ricerca contemporanea. Milano conquista un privilegio.
“L’inarchiviabile” e Frigoriferi Milanesi. Una grande mostra – curata con puntigliosa bellezza da Marco Scotini in collaborazione con Lorenzo Paini –  segna la nascita di FM – Centro d’arte contemporanea, in via Piranesi. Conquista una stella nella mappa di Milano. Gli anni ’70 italiani non sono archiviabili perché tuttora intaccano la percezione culturale, politica. Una stazione dove arrivano anche gallerie private permanenti, come Laura Bulian o temporanee, come Gallery Monitor (Roma), P420 (Bologna), SpazioA (Pistoia).
Sarah Lucas e Trussardi. La mitica rovina dell’Albergo Diurno, opera dei primi anni ’20 di Piero Portaluppi, ospita,  grazie alla collaborazione del Fai e Comune di Milano, la campionatura di fisicità messa in opera da una Sarah Lucas turbante e dolce. Di scena sono le incertezze, i turbamenti, gli imbarazzi nel prendersi cura del corpo e l’intimità che ha bisogno di ricovero. Così, insieme a Massimiliano Gioni e Vincenzo de Bellis, Milano ha conquistato per qualche giorno la possibilità di pensare al corpo di chi non ha casa stabile.
Paolo Gioli, Autoanatomie (Self-Anatomies), 1987, Polaroid su seta serigrafica cm 34×27- su carta da disegno, cm 50×60
Paolo Gioli e Peep Hole. Grande sorpresa della visionarietà della fotografia che vira dentro la pittura e viceversa. Una mostra che racconta una vita e una relazione totale con un mecenate, Paolo Vampa. Il fulminante incontro con Paolo Gioli ha modificato la sua stessa vita. Una relazione “pericolosa”, che nel contemporaneo si ripete con uno, nessuno, centomila.
Goldi e Chiari e Grimaldi Studio Legale. Enigmatici e astratti paesaggi, avvolti da fumi iridescenti stampati su specchi, conquistano una risposta indipendente agli specchi di Pistoletto. Basta spostare gli occhi, far spazio a qualcuno, cogliere il riflesso del sole che entra nella stanza, e i colori si muovono, la densità sfuma, la superficie si anima. Come davanti al cielo. Non serve riflettersi, l’interazione è interna.
Gabriella Ciancimino e Prometeo Gallery. Carte che si sovrappongono a matite, acquerelli, fiori inventati ed erbacce naturali in estinzione. Un grande muro raccoglie l’immaginazione della resistenza politica e culturale di donne, uomini e piante. La difesa dell’ambiente si espande ai fiori di libertà, cresciuti nella figurazione liberty siciliana, a quelli dell’Adonis Annua, un’erbaccia dell’area mediterranea. Una lotta per conquistare il sentimento dell’origine e le sue contraddizioni.
Tomaso Binga e Ciocca Arte Contemporanea. Dagli anni ’70 arriva Tomaso Binga, pseudonimo di Bianca Pucciarelli, con “Carta da parato quarantanni dopo”, a cura di Raffaella Perna. È proprio così, ci sono voluti più o meno quarantanni perché anche in Italia si parlasse di arte e femminismo. La grande presenza di donne artiste ha rotto la barriera e Tomaso Binga ripropone con ironia quieta e decisa le carte da parati con le quali si era confezionata un vestito, che sarcasticamente segnalava l’invisibilità di una donna, tanto da confondersi con le pareti di casa. Anche questa è una buona conquista.
Rudolf Stingel, Installation views Massimo De Carlo, Milano 2016 ROBERTO MAROSSI, COURTESY MASSIMO DE CARLO, MILAN/LONDON/HONG KONG
Nico Vascellari e Casa Bonacossa. Una coinvolgente e affettuosa installazione nel giardino di casa Bonacossa, a cura di Paola Clerico. Piccole fusioni in bronzo di uccellini e altri animali trovati morti nei boschi sono disposte attorno a un albero, illuminato da lampade di casa. Tutto nasce dal cane di Nico, cremato dopo la morte. Anche questi anonimi animali hanno subito un processo analogo attraverso la fusione e ora s’intravedono tra l’erba e le radici. La sera dell’inaugurazione un cane di amici si è disteso accanto a questi piccoli monumenti funebri. Una fantastica visione dell’empatia con i nostri compagni di pianeta.
Women in italian design e la Triennale. Silvana Annichiarico mette insieme alcune artiste e molte donne designer. E’ “l’altra metà del design”. Come dichiara Annichiarico, una specie di fiume scorre tra basi e campane di vetro protettive facendo emergere dal Carso della disattenzione nomi e opere. Particolarmente efficaci i primi decenni del secolo; dagli anni ‘80/’90 anche nel design le donne sono state riconosciute e le loro firme bene in vista. A me non è dispiaciuto questo sovraffollamento, perché il magma della creazione e della manualità che ogni oggetto chiede e offre è sempre uno sprofondamento tra ricordo e smemoratezza.
Linda Fregni Nagler e Acacia – Museo del Novecento. Una bella occasione per rivedere le fotografie rimesse in vita da Linda di un giovane uomo che da un cornicione di New York negli anni 50 si sporge verso il suicidio. Si sente il clamore della notizia, non si riescono a intrecciare gli occhi con lui, perché le foto giornalistiche, fortemente ritoccate, li sposta in una dimensione a noi preclusa.
Fa da pendant la ricostruzione di uno dei modellini volanti di Nadar che proiettando a terra l’ombra di queste ali /pale evoca il sogno del volo.
Linda Fregni Nagler e Acacia – Museo del Novecento
Massimo Bartolini e Massimo De Carlo. Tra i due Massimi c’è un dialogo allenato che dà buoni frutti e un cambiamento. Quattro dipinti in colori acrilici raccontano le montagne incantate di Bartolini. S’innalzano tra gli esterni di alcune architetture museali di Philadelfia. Si amalgamano in un’utopia spaziale, che percepiamo quando sentiamo vibrare l’aria e l’ombra che avvolge le montagne fisiche e mentali che vorremmo conquistare.
Last but not least il magnifico William Kentridge e Lia Rumma. K. supera se stesso con la proiezione su più schermi e con disegni su carta, su arazzi e sagomati su ferro. Conquista tutti. Lo aspettiamo il 21 aprile sul Tevere e vi racconteremo la processione da Milano a Roma.


(Exibart.com, 12/4/2016)

8, 9 e 10 aprile 2016

Sarah Lucas – Innamemorabiliamumbum
a cura di Massimiliano Gioni e Vincenzo de Bellis

Albergo Diurno Venezia
Piazza Oberdan – Milano
www.fondazionenicolatrussardi.com

 

Dall’8 al 10 aprile 2016 a Milano arriva miart, fiera totalmente dedicata all’arte moderna e contemporanea. Non mancheranno incontri, mostre, eventi, inaugurazioni e aperture straordinarie di musei, gallerie private e fondazioni. Tra queste Fondazione Trussardi che, proprio in collaborazione con miart, ha deciso di aprire le porte dell’Albergo Diurno Venezia di Milano per presentare un’artista internazionale: Sarah Lucas.
La celebre artista inglese sbarca in Italia con la sua personale Innamemorabiliamumbum, speciale progetto di arte contemporanea a cura di Massimiliano Gioni e Vincenzo de Bellis, realizzato in collaborazione con il FAI – Fondo Ambiente Italiano e il Comune di Milano.

Appena più su dei tunnel metropolitani di Porta Venezia e poco sotto la superficie di Piazza Oberdan si nasconde un tesoro: l’Albergo Diurno Venezia, progettato a inizio anni Venti da Piero Portaluppi. Oltre ai bagni pubblici e ai servizi per la cura del corpo (barbiere, parrucchiere, manicure, pedicure), l’Albergo comprendeva anche casellario postale, ufficio cambio, telefono, deposito bagagli e valori, agenzia di viaggio, sportello bancario, servizio di dattilografia, lavanderia e stireria per abiti, vendita di abbigliamento e noleggio di oggetti per uso personale. Era inoltre dotato di un avanguardistico impianto di radiodiffusione, previsto nell’intera area del salone.
Per la prima volta in assoluto nei suoi novant’anni di storia l’Albergo Diurno ha deciso di ospitare un progetto site-specific di arte contemporanea.

Le stanze dell’antico Hotel milanese accoglieranno le opere ambigue e irriverenti della Lucas nelle giornate di venerdì 8, sabato 9 e domenica 10 aprile. Il contrasto tra gli ambienti d’altri tempi dell’Hotel e la sfacciataggine delle opere dell’artista è netto, ma per questo intrigante.

Sculture, installazioni e performance sonore avranno come focus principale il corpo.
La Lucas conosce bene le rappresentazioni di genere e ci gioca al punto tale da riuscire a raccontarle alla perfezione; lascia stupiti parlando, tramite immagini, di una società che ancora non è pronta al cambiamento, ma lo fa divertendo.
Fin dall’inizio della sua carriera, inserita nel contesto degli Young British Artists nella Londra degli anni Novanta, la Lucas mette in ridicolo tabù e atteggiamenti maschilisti con le sue sculture ruvide e arrabbiate. I suoi autoritratti, in cui trasforma la propria immagine in un personaggio che attraversa decine di fotografie, pose e situazioni, mettono in scena miti e stereotipi femminili e maschili, trasformando ruoli e generi sessuali. “Mi piace giocare con gli stereotipi sessuali e di genere […] sono solo dei costrutti, e sono piuttosto fragili”, riconosce l’artista. Nel mondo di Sarah Lucas nessun soggetto sembra essere troppo fragile e nessun tabù troppo sacro.

Un’occasione unica per visitare quello che un tempo veniva considerato il “tempio della bellezza” milanese e, contemporaneamente, aprire la mente grazie alle creazioni argutamente allusive della Lucas.

INFO UTILI:
Sarah Lucas – Innamemorabiliamumbum

a cura di Massimiliano Gioni e Vincenzo de Bellis
8, 9 e 10 aprile 2016
Albergo Diurno Venezia
Piazza Oberdan – Milano
www.fondazionenicolatrussardi.com

di Ilaria De Pasqua |Riproduzione riservata © Latitudeslife.com

all’8 aprile al 15 giugno 2016

a cura di Marco Scotini con la collaborazione di Lorenzo Paini.

FM Centro per l’arte Contemporanea Via Piranesi, 10 Milano

Avviso inoltrato da Marcella Campagnano  presente  con il  lavoro, insieme a Carla  Accardi, Irma Blank, Lisetta Carmi,   Dadamaino, Ketty La Rocca, Marisa Merz e Angela Ricci Lucchi.

Artist presentii: Carla Accardi, Vincenzo Agnetti, Giovanni Anselmo, Nanni Balestrini, Gianfranco
Baruchello, Irma Blank, Alighiero Boetti, Sylvano Bussotti, Marcella Campagnano, Lisetta
Carmi, Giuseppe Chiari, Gianni Colombo, Dadamaino, Gino De Domincis, Mario Diacono,
Luciano Fabro, Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, Luigi Ghirri, Piero Gilardi, Paolo
Gioli, Global Tools, Alberto Grifi, Paolo Icaro, Emilio Isgrò, Jannis Kounellis, Ugo La Pietra,
Ketty La Rocca, La Traviata Norma, Laboratorio di Comunicazione Militante, Maria Lai,
Uliano Lucas, Walter Marchetti, Fabio Mauri, Mario Merz, Marisa Merz, Ugo Mulas,
Maurizio Nannucci, Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani, Luca Maria Patella, Giuseppe
Penone, Gianni Pettena, Vettor Pisani, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Salvo, Aldo
Tagliaferro, Franco Vaccari, Franco Vimercati, Michele Zaza, Gilberto Zorio.

Nei nuovi spazi di FM Centro per l’Arte Contemporanea, la mostra L’inarchiviabile/The Unarchivable, a cura di Marco Scotini e Lorenzo Paini. Protagonisti assoluti gli anni 70 – il decennio dell’iconoclastia dell’immagine e dell’arte partecipata, della Body Art e dell’animazione urbana, del Concettuale e dell’Arte Povera, della creatività diffusa e del design radicale – nelle opere di 60 artisti che spaziano dalla fotografia al video, dalla scultura alla performance, dai libri d’artista al cinema sperimentale.

L’arte esce dai luoghi istituzionali, le piazze e gli spazi alternativi soppiantano i musei, i linguaggi si intrecciano fino a diventare progetti totali. Lo stesso concetto di “inarchiviabile” si riferisce sia all’approccio multidisciplinare che caratterizza il decennio, sia alle nuove questioni legate al femminismo e alle politiche di genere.

Tra i lavori in mostra, prestiti che provengono da raccolte private di rilievo internazionale, come le collezioni La Gaia, Enea Righi, Maramotti e Consolandi. Il percorso comprende le personalità più significative del decennio, con particolare attenzione alle opere difficilmente riconducibili a un genere, sospese tra arte e performance, provocazione e utopia, pratiche effimere e performatività sociale.

Qualche esempio? Si passa dalle indagini sull’ambiente urbano e domestico di Ugo La Pietra, i “metaprogetti” pubblicati sulla rivista “Inpiù” (1973-1975), all’architettura radicale di Superstudio, Gianni Pettena, Ettore Sottsass; dalle classificazioni di Alighieri Boetti alle sequenze di numeri di Fibonacci di Mario Merz, dall’atlante geografico di Luigi Ghirri alle serie fotografiche di Michele Zaza e Aldo Tagliaferro. Senza dimenticare l’arte povera di Kounellis, Gilardi e Zorio, e il cinema sperimentale di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi.

Grand opening, all’interno di FM Centro per l’Arte Contemporanea, anche per le rassegne promosse dalle gallerie Laura Bulian Gallery, Monitor, P420 e SpazioA. Laura Bulian Gallery, che all’interno del centro ha la sua sede permanente, inaugura Imagine a Moving Image, la prima personale in Italia del giovane artista Marko Tadić. Il temporary space riservato ai progetti speciali presentati dalle gallerie di ricerca sarà invece occupato, per l’occasione,

da MonitorP420 e SpazioA: la loro mostra si intitolerà Corale e metterà a confronto artisti appartenenti a diverse generazioni.

FM Centro per l’Arte Contemporanea è promosso da Open Care (Gruppo Bastogi), società che offre servizi integrati per l’art advisory, la gestione e la conservazione dell’arte

 

dal 9 aprile 2016 al 19 febbraio 2017

La mostra traccia una nuova storia del design italiano al femminile, ricostruendo figure, teorie, attitudini progettuali che sono state seminate nel Novecento e che si sono affermate, trasformate ed evolute nel XXI secolo.

In occasione della XXI Esposizione Internazionale, il Design Museum della Triennale di Milano presenta la sua Nona Edizione dal titolo “ Women in Italian Design”.

La Nona Edizione del Triennale Design Museum, a cura di Silvana Annicchiarico e con progetto di allestimento di Margherita Palli, affronta il design italiano alla luce di uno dei nodi più delicati, più problematici, ma anche più stimolanti e suggestivi che è la questione del genere.

L’idea che il genere non sia più solo un dato biologico e naturale, ma una questione culturale apre interessanti prospettive anche per quello che potrà diventare il design dopo il design. Ma per affrontare in modo oggettivo ed equilibrato le questioni di gender legate al design è necessario affrontare preliminarmente la grande rimozione operata dal Novecento nei confronti del genere femminile.

Tutta la modernità novecentesca ha messo ai margini la progettualità femminile, pressoché ignorata da storici e teorici del design. Il XXI secolo è caratterizzato sempre di più da una forza rinnovata di tale progettualità.
L’ordinamento cronologico racconta questa storia in modo dinamico, fluido e liquido, usando la metafora di un fiume che attraversa tutto il Novecento.

Triennale Design Museum vuole quindi celebrare il femminile in quanto nuovo soggetto creativo di un design meno asseverativo, meno autoritario, più spontaneo, più dinamico. Per domandarsi se il nuovo protagonismo femminile sia fra gli interpreti principali del “Design after Design”.

Segnala Laura Minguzzi in particolare  Italian Women in design, due mostre dal titolo Intrecciare sull’arte del merletto  e Ricercare e percepire dove è esposto il libro “Architetture del desiderio” a cura di Ida Farè, Bianca Bottero e Anna Di Salvo che racconta la pratica del gruppo Vanda e della della Rete delle città vicine, il libro di Gisella Bassanini “Per amore della città” e altre esperienze della politica delle donne con le tesi di laurea del Politecnico di Milano sulla città e sulle architette di oggi e del secolo scorso.

dal 9 al 24 aprile 2016

CHIESA DI SANTA MARIA NOVA O DEL PILASTRELLO  Strada Padana Superiore Vimodrone-Milano 

IN-CONTEMPORANEA

a cura di Marco Tronci Lepagier

Porzione di mare che sale e di cielo che sale che sale che sale

ROSELLA ROLI

Inaugurazione: sabato 9 aprile ore 18 – Orario: 16-18 venerdì, sabato e domenica

Associazione Gruppo Amici per Vimodrone Parrocchia San Remigio

Allo scopo di diffondere la conoscenza della Chiesa di Santa Maria Nova del Pilastrello, edificio di pregio presente sul territorio con all’interno una serie di affreschi attribuiti alla scuola di Bernardino Luini, è nata l’idea di proporre a vari artisti la realizzazione di una serie di installazioni site-specific.

Quinto allestimento della serie è “Porzione di mare che sale e di cielo che sale che sale che sale” dell’artista Rossella Roli.

per volare via.

Una struttura di vetro, scientifica, che potrebbe abitare un laboratorio, contenente elementi chimici, acqua che è mare e aria per il cielo, transustanziati. Si rimestano e fondono attraverso un processo alchemico, che muove il fautore dell’azione verso le stelle. Questa l’origine.

Una sorta di sospensione temporale tra il mare e il cielo e l’infinito, fatta di ricordi e di presagi. Rossella Roli crea racconti di evaporazione, di attese, di impercettibili trasformazioni. Riflessioni sull’universo, il proprio e quello dell’arte, attraverso una serie di oggetti di vetro, a volte spinosi a volte macchinosi, sempre trasparenti, fatti di una apparente felicità contrassegnata da continui sforzi e difficoltà per adeguarsi alla realtà. È il blu il colore della magia, della costruzione di “rifugi” che non servono per proteggere ma per allontanarsi. Per volare via. Metafore del desiderio, per chi ha sempre la necessità di ricostrurire un proprio bagaglio di ricordi, di bellezza e di sogni.

Francesca Alfano Miglietti

Non amiamo il mare perché è blu, ma perché qualcosa dentro di noi, nei nostri ricordi inconsci, trova la sua reincarnazione nel mare blu. E quel qualcosa di noi, dei nostri ricordi inconsci, scaturisce sempre e dovunque dai nostri amori infantili, da quegli amori destinati in un primo tempo solo alla creatura, principalmente alla creatura-rifugio, alla creatura-cibo, quale è stata la madre o la nutrice…”

Gaston Bachelard

Rossella Roli, vive e lavora a Milano. Si occupa di progettazione grafica dal 1989 e dal

1992 è socia AIAP (Associazione Italiana Progettazione per la Comunicazione visiva). Nel

2001 si specializza in web design presso la Domus Academy di Milano e successivamente

si diploma all’Accademia di Belle Arti di Brera presso il dipartimento di Arti Visive.

www.rossellaroli.com rossella.roli@gmail.com T 347 6980377

Solo Exhibitions:

2013 Inneschi testo di Silvia Bottani – Satura Art Gallery, Palazzo Stella, Genova

2009 Survivals a cura di Silvia Bottani, Galleria Obraz, Milano

Porzione di mare che sale e di cielo che sale che sale che sale a cura di J. Blanchaert

Testo di presentazione di F. Alfano Miglietti (FAM), Galleria Blanchaert, Milano

Group Exhibitions:

2014 Trame di guerra a cura di F. Porreca, Castello Visconteo, Pavia

MA-EC Art Expo

Milan Art & Events Center, Milano

Progetto Conflitto

Spazio Apriti Cielo, Milano

Femminile, plurale. L’interiorità, lo sguardo dentro a cura di A. Redaelli

Galleria Biffi Arte, Piacenza | Palazzo Pirola, Gorgonzola ( Milano )

2013 Lo stato dell’arte nel 2013 a cura di L. Di Falco

Obraz Art Kitchen and Wine, Milano

Inneschi

Palazzo Stella, Milano

Fiera Arte Genova 2013

40 cappelli ‘40 a cura di D. Airoldi e M. Ferrando

Galleria Quintocortile, Milano

2012 Ri-definire il Gioiello a cura di S. Catena

Bertolt Brecht Spazio2 – Galleria l’Acanto, Milano

Fuori stagione a cura di L. Argentino

Bertolt Brecht Spazio2, Milano

L’amor che move il sole e l’altre stelle a cura di V. Agosti

Chiesa di San Gregorio e San Marco Cologno, ( Milano )

Human Rights? 2012 a cura di R. Ronca

Castello di Acaya, Lecce

Raccolte d’Arte a cura di N. De Biasi

Biblioteca Valvassori Peroni, Milano

Monocolori a cura di D. Airoldi e M. Ferrando

Galleria Quintocortile, Milano

Circuiti Dinamici 4 a cura di StatArt

Bertolt Brecht Spazio2, Milano

2011 10×10 a cura di L. Di Falco Obraz Gallery, Milano

11° Premio Nazionale d’Arte Città di Novara

Fondazione Novara Sviluppo (Palazzo Renzo Piano), Novara

La luce e la forma a cura di A. Bretta

Castello Estense, Imbarcadero Uno, Ferrara

Drawing Connections

Siena Art Institute, Siena

Human Rights 2011 a cura di R. Ronca

Fondazione Opera Campana dei Caduti, Rovereto (Trento)

Sconcerti VIII edizione Poesiarte Milano a cura di D. Airoldi e M. Ferrando

Galleria Quintocortile, Milano

AAM Arte Accessibile Milano

Spazio Eventiquattro, Gruppo 24Ore, Milano

Unità d’Italia Centocinquant’anni di storia

Chiesa di San Domenico, Budrio (Bologna)

 

2010 Step09 The art fair that’s step ahead

Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, Milano

Studi aperti. Arts festival nel Cuore Verde tra due Laghi

Ameno (Novara)

Giorni felici a Casa Testori. 22 artisti in 22 stanze

Casa Testori, Novate (Milano)

Obraz 10 a cura di L. Di Falco

Galleria Obraz, Milano

Amore a-meno a cura di E. Longari

Palazzo Tornielli, Ameno (Novara)

2009 VI Biennale del Libro d’Artista

Città di Cassino, Frosinone

Another Break in the Wall a cura di C. Ferraro e M. Congedi

Wannabee Gallery, Ameno (Novara)

Lo stato dell’arte nel 2009 a cura di L. Di Falco

Galleria Obraz, Milano

Ritratti a cura di B. Nahmad

Galleria Obraz, Milano

Passaggi di stato a cura di M. Bergamini

Spazio per le Arti Contemporanee del Broletto, Pavia

2008Cassandra a cura di C. Muccioli

Complesso Monumentale di Sant’Agostino, Mondolfo (Pesaro/Urbino)

2007Un segreto a cura di F. Alfano Miglietti (FAM)

Futurenetgroup – Sala delle Colonne, Milano

2006 Donne fuori dal limite a cura di MR. Pividori e R. Moratto

Museo d’Arte Contemporanea Malandra, Vespolate (Novara)

Arte in disparte Accademia di Belle Arti di Brera

Ex Chiesa di San Carpoforo, Milano

Un lavoro fatto ad arte (Centenario della CGIL) a cura di V. Pirola

Fruttiere di Palazzo Te, Mantova

Press:

Via Dogana | settembre 2014

Abitare | ottobre 2010

ArsLife | 19/07/2010

Vogue Italia | 24/06/2010

Corriere della Sera | F. Bonazzoli | 23/06/2010

Arte | novembre 2009

Il Giornale | M.Di Marzio | 17/11/2009

Cataloghi:

Giorni Felici | Catalogo Casa Testori Associazione Culturale | 2011

AAM Arte Accessibile Milano | Catalogo Maretti Editore | 2011

Amore a-meno | Catalogo Prearo Editore | 2010

Survivals | Catalogo Galleria Obraz | 2009

6° Biennale Libro d’Artista | Catalogo Gangemi Editore | 2009

Interviste:

Radio3 Suite | 02/07/2010

Ultrafragola Channels | 23/06/2010

 

dal 22 marzo al  17 aprile 2016
MUSEO ETNOGRAFICO ‘Giovanni Podenzana’
La Spezia
Mostra Fotografica di CARLA SANGUINETI
Il Sentimento del Sacro nelle Cinque Terre.
Segni, simboli e storie
22 marzo – 17 aprile 2016

La mostra che aprirà al pubblico martedì 22 marzo alle ore 17 è ospitata nella sala al primo piano del Museo e propone una serie di fotografie realizzate da Carla Sanguineti nella riviera spezzina e pubblicate da Morgana Edizioni ne Il sentimento del Sacro nelle Cinque Terre.
Carla Sanguineti è una donna nota nel panorama artistico e culturale nazionale: lungi dal voler essere etichettata come artista, scrittrice e politica di professione, nonostante che nella sua carriera abbia creato, abbia scritto e si sia impegnata su temi politici e sociali, con sue parole si definisce una persona che al margine del mondo dell’arte e della politica ci sta bene, soprattutto tra le donne, e con loro compie molteplici percorsi…
Proprio uno di questi percorsi l’ha portata a leggere in modo personale ed intimo il paesaggio delle Cinque Terre: qui, le tracce del Sacro (quel Sacro impossibile da costringere in una dimensione temporale precisa ma che al contrario permea la vita dell’uomo e dell’universo fin da epoche remote) si susseguono e si rincorrono, nascondendosi e risbucando all’improvviso agli occhi di chi le rimira. Di questo paesaggio complesso ed eterogeneo Carla ha saputo cogliere con scatti quasi ‘dilettanteschi’ l’essenza: il mare e l’irta scogliera, risorse e limiti dell’esistenza quotidiana; il duro e costante lavoro dell’uomo per addomesticare una natura ribelle; la natura avvolgente, a volte madre premurosa, altre perfida matrigna; le testimonianze della devozione popolare, dalle antiche e ingombranti pietre collocate lungo le vie, ai massi di arenaria ben squadrati posti a sostegno delle mura di raffinate chiese trecentesche…
Al termine dell’inaugurazione della mostra, nella sala al piano terra del Museo si svolgerà una conferenza cui prenderà parte la stessa Carla Sanguinetti con una relazione sulla Grande Madre, divinità primordiale presente in tutte le mitologie a noi oggi note. Elena Scaravella e Sonia Lazzari, curatrici insieme a Barbara Sisti della mostra Abiti preziosi e statue vestite in corso ai Musei Diocesani di Massa e Pontremoli, parleranno invece dell’antico uso di vestire le statue della Madonna. Infine Rossana Piccioli, già conservatrice del Museo Etnografico della Spezia e attuale presidente del Centro Studi Malaspiniani di Mulazzo, ricorderà l’uso tradizionale di offrire oro alla Madonna come ex-voto.
Per l’occasione, nella sala conferenze, sarà esposto al pubblico un giacchino della Collezione di Etnografia Lunigianese di Giovanni Podenzana proveniente da una statua della Vergine di una chiesa distrutta di Villafranca.
Il programma della giornata è scaricabile dal sito www.laspeziacultura.it e visibile sulla pagina Facebook ufficiale del Museo Etnografico della Spezia.
Per info:
Museo Etnografico “Giovanni Podenzana”
Via del Prione 156 – La Spezia
tel. 0187-727781/2/3
museo.etnografico@laspeziacultura.it

dal 12 marzo al 7 aprile 2016
Opening sabato 12 marzo alle ore 19.

wavegallery corsini.
“Viaggiare significa spostamento e nomadismo. Sotto le ali protettive di un angelo custode o le furiose spinte del demone. Nel caso dell’arte entrambe le figure accompagnano le peripezie dell’artista, geografica e mentale. Questo avviene anche nel caso di Paola Mattioli e Sarenco,entrambi protagonisti di un felice safari, che significa infatti viaggio, nel cuore dell’Africa, dal Kenya allo Zimbabwe, dal Senegal al Sudafrica.
Entrambi hanno praticato forme di nomadismo complementare, utilizzando diversi specifici, dalla fotografia alla letteratura, dalla parola alla poesia. Il risultato è un reportage intenso e sorprendente di un territorio profondo ed irriducibile come l’Africa, in cui prevale l’immagine come tramite tra la natura e lo spirito, l’apparizione di figure che sono sempre tramite del vivere quotidiano e della morte universale.
(…) Paola Mattioli, che pratica da molti anni una tangenza con il mondo dell’arte, introduce nell’ambito dell’immagine fotografica la torsione che appartiene alla storia della pittura, adoperando rigorosamente gli strumenti del linguaggio fotografico. Si mette nella posizione del duello, nella frontalità istituzionale del fotografo di fronte al dato, ma non lascia scattare il dito sulla macchina precipitosamente, bensì promuove una serie di relazioni e di rispecchiamenti, per cui arriva all’immagine mediante un rallentamento mentale e l’assunzione di una posizione di lateralità rispetto al proprio mezzo (…)”.
Achille Bonito Oliva
in Paola Mattioli e Sarenco, Mémoires d’Afrique, Fondazione Sarenco-Adriano Parise Editore, 2013

dal 26 febbraio al 29 aprile 2016
Vernissage: 16 marzo ore 18.00
Fondazione Collegio San Carlo di Modena

Riflessione sulla complessità dell’immagine attraverso un’opera di Chiara Pergola.
Fondazione Collegio San Carlo, via San Carlo, 5 – Modena

Nell’ambito della programmazione sul tema ‘immagine’, cui sono dedicate le attività del Centro Culturale dell’intero anno accademico 2015/2016, la Fondazione San Carlo propone l’installazione Passanti (InDoor), realizzata da Chiara Pergola. Ponendosi in dialogo diretto con il luogo in cui si inserisce, la Sala dei Cardinali della Fondazione, e con gli osservatori, l’opera intende stimolare, attraverso i riflessi generati da 153 specchi di vetro sottile, una riflessione sullo statuto delle immagini e sul significato simbolico ed espressivo della loro percezione.
L’installazione sarà aperta al pubblico da venerdì 26 febbraio a venerdì 29 aprile, dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.30 alle ore 19.00 (escluse le festività pasquali, dal 24 al 29 marzo, e il 25 aprile). Per informazioni è possibile contattare il numero 059.421237.
Il vernissage, a ingresso libero, si terrà mercoledì 16 marzo alle ore 18.00. In occasione dell’incontro con l’artista verrà presentato il catalogo relativo all’installazione, a cura di Antonella Battilani, con un saggio critico di Elio Franzini, docente di Estetica all’Università di Milano e membro del Comitato Scientifico della Fondazione San Carlo.
“Lo sguardo nell’arte, nelle lame di vetro di Chiara Pergola, diviene vivo, interagisce con la forma artistica e con quel che la circonda, modifica il nostro stesso modo di vedere. Questi altri occhi sono tuttavia i nostri occhi, quelli con cui guardiamo il mondo, gli spazi che abitiamo. Le immagini con cui il mondo qui appare permettono a ciascuno di noi, nelle diverse ore del giorno, di disegnare una “propria” storia, dove l’immagine non è la “ripetizione” delle cose, bensì il luogo, e il tempo, in cui ne manifesta il senso espressivo…” (estratto del testo critico di Elio Franzini).
Chiara Pergola vive e lavora a Bologna. La sua ricerca, legata all’evoluzione della dimensione simbolica, dà origine a installazioni e interventi che rivelano la natura semantica di ogni forma espressiva e l’azione del segno sulla realtà. L’installazione Passanti (InDoor) è legata all’oggetto che ha dato origine alla sua esperienza artistica: un sottile specchio che, forzando a una visione convergente, costringe a prendere atto dell’intrinseca molteplicità dell’immagine.


Passanti (InDoor) INSTALLAZIONE
dal 26 febbraio al 29 aprile 2016

Orari: dalle 8.30 alle 19, dal lunedì al venerdì
Chiusure: festività pasquali, dal 24 al 29 marzo compresi, e 25 aprile
Info: Tel. 059.421237 o www.fondazionesancarlo.it.

Ufficio stampa FSC
Paola Ferrari
paola@paolaferrari.it
www.fondazionesancarlo.it

Testo critico sull’installazione Passanti/InDoor, a cura di Elio Franzini, professore di Estetica presso l’Università di Milano, membro del Comitato Scientifico della Fondazione San Carlo di Modena

Quando nell’arte appare lo specchio, la sua forza simbolica si presenta potente: l’opera non riproduce il visibile, bensì ne moltiplica le prospettive e le possibilità. L’arte, come nel lavoro di Chiara Pergola, diviene, per noi che passiamo, per noi passanti, varcare una soglia, attraversare una porta, quella linea sottile tra la forma e l’informe. Il “sapere” che è nelle immagini si coglie soltanto spezzando un paradigma regolistico, e classicistico, recuperando un’idea simbolica di forma, che è sempre compresenza – e mediazione – di visibile e invisibile. La “forma” artistica non è un’immagine mimetica, bensì è il senso simbolico dello spazio e del suo infinito moltiplicarsi in lame, in luce che si irradia, creando ombre, che sono nuove forme: esse derivano questo inestinguibile desiderio di “nuovo” dal voler essere “anamorfosi”, cioè stravolgimento della forma stessa, che ne mostra tuttavia l’interna forza, la volontà di espansione. Si inaugura qui un sapere figurale che non può essere “detto”, anche se è immediatamente, intuitivamente presente alla nostra realtà.
Lo sguardo nell’arte, nelle lame di vetro di Chiara Pergola, diviene vivo, interagisce con la forma artistica e con quel che la circonda, modifica il nostro stesso modo di vedere. Questi altri occhi sono tuttavia i nostri occhi, quelli con cui guardiamo il mondo, gli spazi che abitiamo. Le immagini con cui il mondo qui appare permettono a ciascuno di noi, nelle diverse ore del giorno, di disegnare una “propria” storia, dove l’immagine non è la “ripetizione” delle cose, bensì il luogo, e il tempo, in cui ne manifesta il senso espressivo. L’immagine, con le sue anamorfosi, si pone dunque, in questo lavoro, come punto di avvio per esibire il senso simbolico, espressivo e spirituale della percezione, per comprendere, infine, che dietro essa si cela un potere che in vari modi manifesta la relazione conoscitiva tra uno sguardo che afferra e le qualità degli spazi in cui “passiamo”.

Le lame di luce, gli specchi che Chiara Pergola getta verso l’alto, nascenti da solida base, ma ciascuno diverso dall’altro, e diversamente orientato, fanno comprendere che un’immagine è “simbolica” non quando viene descritta da una saggia iconologia, ma nel momento in cui, prima di questo orizzonte, costituisce il mondo come “organismo nascente”, come “operazione d’espressione”, che non allontana dalla realtà, ma che, indipendentemente da ciò che rappresenta, svela il senso profondo delle cose. L’artista, scrive il filosofo Merleau-Ponty, riprende e converte in oggetto visibile ciò che senza di lui resterebbe rinchiuso nella vita separata di ogni coscienza: rende l’immagine una “vibrazione delle apparenze” che rivela “la genesi delle cose”, inscindibile dalla realtà espressiva del nostro corpo.
Lo statuto di un’immagine è dunque legato a dimensioni estetiche, che si riferiscono in prima istanza alla percezione di uno spazio. Tale spazio di rappresentazione, la Sala dei Cardinali della Fondazione che attraversiamo, si offre così, grazie all’arte, alle sue stratificazioni di arte e di tempo, in molti modi, presentando, con il gioco dei riflessi, “luoghi” dell’immaginazione. Questo spazio, nella sua simbolicità, non è allora una nozione astratta, bensì una connessione che offre nuovi modi di orientarci nel mondo. Lo spazio, ci dice Chiara Pergola, non è una specie di etere nel quale sono immerse tutte le cose, bensì una potenza di connessione, che assume lo stile di uno spazio vissuto, che ciascuno di noi arricchisce, e nuovamente interpreta, con il proprio sguardo.

Spazi, dunque, da descrivere, senza che tale descrizione sia frantumazione del senso dello spazio stesso della rappresentazione, ma solo messa in rilievo di alcuni elementi del suo senso, che concorrono a delinearne una essenza che solo attraverso la nostra esperienza può manifestarsi. Gli specchi di Chiara Pergola, pur partendo da frammenti di vetro, non sono allora l’elogio di un frantumarsi della forma, bensì ne vogliono attestare un nuovo potere dialogico, che unisce l’invenzione fantastica e il senso filosofico, la situazione eccezionale e la ricerca della verità.

A partire dalle lame, e dai loro giochi di visioni e di ombre, si comprende il profondo rapporto tra rappresentazione artistica e funzione simbolica: perché vi sono forme di vita che non si riducono alla loro esibizione, bensì sono eventi che non possono svolgersi sul piano di una coscienza unica e unitaria, ma presuppongono quel dialogo tra coscienze cui il dialogo degli specchi allude. Queste opere di vetro sottile lanciato verso l’alto, che sono tra loro diverse, che esprimono punti di vista differenti, mostrano così un’esigenza comune, quella di esibire il manifestarsi storico di un “sentire” capace di spiegare i motivi di fondo che sono il senso, a volte invisibile, della storia stessa, il suo vivere simbolico in varie forme, in molteplici modalità non sempre rappresentative, espressione di differenti modi retorici per rivelare i sensi nascosti dell’immagine. La storia dell’arte, in particolare nella nostra contemporaneità, non si costruisce soltanto con le cronologie, bensì svincolando le forme da una rigida storicizzazione e cogliendone, senza rigettarne la storicità, gli spessori emotivi, afferrando che essa è una via per mostrare i sensi conoscitivi della rappresentazione, i suoi rapporti con la spazio-temporalità dell’esperienza. Il lavoro di Chiara Pergola, posto in un interno “storico”, ricco di autorevole passato, ricorda dunque a ciascuno di noi che passa, che attraversa la porta, che una narrazione cronologica e storica che non colga la potenza sincronica e diacronica racchiusa nelle immagini simboliche rischia, anche là dove rispecchia la consequenzialità dei linguaggi, di uccidere o depotenziare proprio l’intrinseca simbolicità della storia, che vive anche di salti, di legami analogici, di riunificazioni improvvise e apparentemente casuali tra le forme. Questi specchi fanno comprendere che il tempo lineare in cui viviamo è attraversato da lame di luce che ne arricchiscono la qualità, che ne moltiplicano le possibilità, in un incontro rinnovato e paradossale tra le forme dello spazio e quelle del tempo.

 

da alfabeta2.it

C’è chi crea un tableau vivant e chi, come Petrit Halilaj, una casa vivant.

In filosofia «il linguaggio è la casa dell’essere», ma quello che racconta Halilaj è più commovente, più contradditorio, più «banale», direbbe Hannah Arendt. È il dramma della distruzione della casa che vivono ogni giorno i migranti, politici ed economici. È successo anche agli Halilaj. Petrit è nato a Kumpir, in Kosovo, nel 1986; la casa è stata distrutta e dopo un soggiorno in Italia, dove ha frequentato l’Accademia di Brera, è andato a Berlino. Intanto il sogno che ha sostenuto lui e la sua famiglia si è avverato: la casa è stata ricostruita. A Pristina, in città, quella d’origine era in campagna. La espone a Milano, all’Hangar Bicocca.

Non è un diario fotografico, ma un insieme di storie che spuntano da vari angoli, proprio come avviene nelle case, quando una sedia, un tappeto, una foto in cornice sono tracce portanti, tanto quanto i muri. The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real. Un titolo che racconta appunto dei luoghi utopici e noiosi con i quali convivere.

La casa di Petrit e della sua famiglia è vista attraverso l’assenza, non è un escamotage poetico, ma una realtà fisica. In mostra, più o meno al centro dello spazio, ci sono i casseri usati per tirar su i muri. Invece di buttarli o incorporarli nell’edificio, Halilaj li usa come un sentiero della memoria. Sono sopraelevati, si cammina sotto, come se potessimo calpestare le fondamenta o radiografare la costruzione fin dentro la terra. Così la visione di una casa sospesa è un’immagine del sogno che l’ha preceduta, ma soprattutto è la costruzione allo stato nascente e la sua adattabilità a entrare fisicamente negli ambienti altrui, come un museo. Dove ciò che è esposto diventa «la casa personale» di chi, guardandola, trasferisce lì le proprie memorie.

È una delle intenzioni di Petrit coinvolgere altri nel suo sogno, e in questa assenza «iconografica» della casa reale appare lo stato di cambiamento che avviene in chi perde la propria. Ci sono tanti modi di perderla. A volte volontariamente, a volte perché si cambia città, a volte perché si rimane soli, a volte perché ci s’innamora di un’altra. La casa d’origine, qualunque essa sia, però rimane: l’assenza non la cancella. C’è bisogno di elaborare una distanza. Questo dichiara la casa vivant di Petrit Halilaj. Lo fa con tanti elementi. Un cinguettio diffuso che a chiunque fa venire in mente l’infanzia, un prato, un albero amato, un desiderio. Un video di prati fioriti, farfalle che volano e si posano, indica una campagna armoniosa: è il posto della sua vecchia casa. Oggi non si riconosce più nulla della distruzione. Petrit ha tratto in salvo pezzi di ringhiera del cancello e altri resti, ne ha fatto dei grandiosi gioielli che potrebbe indossare la casa ricostruita e quella che ha attraversato i suoi sogni: It is the first time dear that you have a human shape (diptych-earring), (butterfly collier), (bracelet). Ocarine, rami, utensili, ricordano la sua vita e la nostra (Objekte n’Kumpir).

Anche le galline hanno una casa, un po’ dentro e un po’ fuori. È stato aperto un varco e il pollaio si trova all’esterno dentro un grande razzo spaziale in legno. Le galline vivono la loro vita nell’arte, facendo le uova e chiocciando. They are Lucky to be Bourgeois Hens: sì, sono fortunate ad essere galline borghesi, vanno anche al museo!

Possiamo inventare molte associazioni, ma quello che incide è la visione biografica. Ricordo la prima volta che ho incontrato Petrit Halilaj ad Artissima-Torino nel 2008. Aveva una piccolissima stanzina nello stand della galleria Chert. Lui ti invitava a entrare e poi chiudeva la porta. Lì, in brulichio di piume di gallina che volteggiavano e di oggetti, mi ha raccontato la sua vita. Questa era la sua opera. Lo è ancora oggi. Il modo per parlare del legame spezzato dalla guerra nell’ex Jugoslavia è un dialogo a tu per tu. Oggi la sua stanzina è un museo, ma la temperatura è intatta. Oggi come allora, rende esplicita la necessità di non dimenticare. Non è political correctness, ma un suggerimento a lasciarci andare e ammirare una gallina che fa l’uovo, visione ormai quasi impossibile per chiunque; farci venire il senso di colpa per tutti quelli che perdono la casa e che non sappiamo come accogliere; emozionarci per chi ha la capacità e la fortuna di ricostruire la propria vita e di darle casa. Un’esperienza che riguarda tutti, in tutto il mondo. Anche chi non è sotto tiro, sa che la gallina di Halilaj è simbolo di un ricongiungimento, da compiere ogni giorno. La casa vivant di Petrit invita a ricostruire la propria casa ovunque e a sorridere al magnifico e immaginifico disegno della sua gallina borghese che ci accoglie all’ingresso e ci accompagna all’uscita.

Petrit Halilaj

Space Shuttle in the Garden

a cura di Roberta Tenconi

Milano, Pirelli Hangar Bicocca, 3 dicembre 2015-13 marzo 2016

(http://www.alfabeta2.it/2016/03/01/petrit-hallilaj-e-le-galline-borghesi/)

 


dal 10 marzo al  11 maggio 2016

 

Inaugurazione alla presenza delle artiste Ansarinia e Bächli giovedì 10 marzo h. 19.0021.00

 

La Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare la seconda mostra personale dell’artista svizzera Silvia Bächli.

Negli anni l’artista ha realizzato principalmente lavori su carta, sperimentando tecniche e formati diversi e sviluppando un linguaggio pittorico formalmente immediato e minimale che cela, però, una ricerca del tutto personale sulla linea.
Le opere in mostra, realizzate tra il 2013 e il 2015, sono una sintesi degli ultimi sviluppi del suo lavoro, da un punto di vista sia del colore che del gesto.

Per Silvia Bächli il disegno è azione e narrazione. Le sue linee hanno una direzione precisa, come se stessero raccontando una storia o persino più storie contemporaneamente quando, per esempio, s’intersecano, si rincorrono o si sovrappongono l’una sull’altra, più o meno ordinatamente. Lo spettatore è quindi invitato a leggere e interrogare questi segni e allo stesso tempo a indagare gli spazi vuoti che vengono a crearsi. Per l’artista, infatti, “disegnare è creare spazio” ed è per questo che nelle sue opere la pittura ha un così stretto rapporto con i margini del foglio: è un po’ come, sempre usando le sue parole, “lavorare con e contro” questi margini. Non è un caso che la massima dimensione dei lavori corrisponda alla massima apertura delle sue braccia.

Il titolo della mostra è tratto dalla raccolta poetica It (1969), capolavoro della scrittrice danese Inger Christensen, che l’artista ammira molto per l’attenzione che entrambe condividono per la forma, e da cui spesso trae spunto per i suoi lavori. È stato il caso, ad esempio, anche dell’installazione che Bächli ha realizzato per il padiglione svizzero durante la 53° Biennale di Venezia (2009), dedicata proprio alla poetessa e ispirata allo stesso passo che dà il titolo a questa mostra: “Questo. Questo è stato. Ora è cominciato. È. Persiste. Si muove. Avanti. Diventa. Diventa questo, questo e questo. Va ancora più avanti. Diventa altro. Diventa di più. Combina altro con di più e diventa costantemente altro e di più.”.

Silvia Bächli (Baden, 1956) ha avuto numerose mostre personali in prestigiose sedi museali come, ad esempio: Frac Franche-Comté, Besançon (2015); Staatliche Graphische Sammlung, Pinakothek der Moderne, Monaco (2014); Kunstmuseum St. Gallen, Svizzera, (2012); Centre Pompidou, Parigi, Museo Serralves, Porto (2007), Mamco, Ginevra (2006), Museée d’art moderne et contemporain in Strasbourg (2002). Nel 2009 ha rappresentato la Svizzera alla 53° Biennale di Venezia.

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Ana Mendieta
via a.stradella 1

 


La Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare la seconda mostra personale dell’artista cubana Ana Mendieta.

Saldamente ancorata alla realtà – e allo stesso tempo tormentata da un’interiorità profondamente segnata da avvenimenti tragici – in soli tredici anni di carriera Mendieta ha sperimentato con vari media, dalla performance al video, dalla fotografia al disegno, alla scultura.

La pratica artistica di Ana Mendieta ha sempre indagato lo stretto rapporto tra Arte e Natura, che nel suo lavoro è molto intenso e talvolta spinto al limite, soprattutto nell’uso che l’artista fa del proprio corpo. In molte performance, infatti, il corpo diventa il mezzo col quale l’artista si ricongiunge alla Natura, in una sorta di rito spirituale e viscerale che assume anche valore simbolico di rinascita. Come ha più volte dichiarato l’artista, “la cultura è memoria della storia” ed è in questo senso che il corpo è quindi non solo testimone, ma anche veicolo della nostra memoria collettiva.

Vincitrice del Prix de Rome per la scultura, nel 1983 Mendieta si trasferisce da New York a Roma, una città che amerà molto soprattutto per il suo rapporto con la Storia. Nel periodo di residenza presso l’American Academy in Rome, Mendieta ha la possibilità di sviluppare la sua tecnica scultorea, in particolare con materiali come la terra e i tronchi d’albero, ma si dedicherà molto anche al disegno.

Il progetto espositivo si concentra proprio sulla produzione di questo periodo, in particolare su un corpus selezionato di disegni – inchiostri, acquarelli, matite – che porteranno poi alla realizzazione delle sculture. In mostra anche il libro di litografie Duetto Pietre Foglie, realizzato sempre durante il soggiorno romano, e un prezioso taccuino del 1981 con alcuni studi preparatori.

Tra le maggiori mostre personali di Ana Mendieta (L’Avana, 1948-1985): Covered in Time and History, the films of Ana Mendieta, NSU Art Museum Fort Lauderdale; Katherine E. Nash Gallery, Minneapolis (2015-2016); She got Love, Castello di Rivoli, Torino (2013); Ana Mendieta: Earth Body, Sculpture and Performance 1972-1985, Whitney Museum of American Art, New York; Hirshhorn Museum and Sculpture Garden, Smithsonian Institution, Washington D.C.; Des Moines Art Center, Des Moines and Miami Art Museum, Miami (2004); Ana Mendieta (1948-1985) – Body Tracks, Neues Museum Luzern, Lucerne and Fries Museum, Leeuwarden (2002).

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Nazgol Ansarinia
via a.stradella 4

 


La Galleria Raffaella Cortese è lieta di presentare la prima personale in Italia dell’artista iraniana Nazgol Ansarinia.

Ansarinia analizza il quotidiano della sua città, Teheran: esamina e rielabora oggetti ed eventi di tutti i giorni facendo emergere le loro relazioni con la società iraniana contemporanea, indagando la sfera privata in relazione al più ampio contesto socioeconomico e architettonico.
La mostra ruota intorno a tre progetti aperti che ben rappresentano il lavoro dell’artista e i suoi recenti sviluppi.

Fondamentali nella sua produzione sono i collage della serie Reflections/Refractions, che esplorano visivamente le complessità del quotidiano. Varie trame geometriche, spesso utilizzate per evocare un ideale di bellezza per il loro ordine e la loro simmetria, sono applicate ad alcuni lavori a specchio, contribuendo a distorcere la realtà di tutto ciò che riflettono.

Per il suo ultimo progetto Membrane, invece, l’artista parte proprio dalla città. Negli ultimi anni, infatti, Teheran sta assistendo a un intenso processo di ridefinizione urbana, caratterizzato dal sorgere sempre più frequente di alti complessi residenziali in luogo di precedenti e più bassi edifici. Sebbene questi edifici siano distrutti, uno strato dell’immobile demolito rimane sulla parete comune agli edifici adiacenti. Membrane è l’impressione monumentale di questa parete, mappata dall’artista con uno scanner 3D a ricreare una sorta di modello tridimensionale del muro, che tiene in sé traccia di una parte dell’edificio distrutto.

In mostra anche una nuova scultura della serie Pillars. L’artista osserva le nuove case in città, in cui le colonne neoclassiche perdono la loro funzione strutturale divenendo l’ultima dimostrazione di ricchezza del nuovo ceto medio. Ansarinia utilizza le colonne con molta ironia, legandole ad alcuni articoli della Costituzione iraniana che invitano a riflettere sui problemi socio-economici della vita quotidiana. La mostra di Nazgol Ansarinia è dunque, allo stesso tempo, documento e rielaborazione di una società stratificata e in rapida evoluzione.

Nazgol Ansarinia (Teheran, 1979) vive e lavora a Teheran. Nel 2015 ha partecipato alla 56° Biennale di Venezia, presso il padiglione iraniano; nel 2011 e 2007 ha esposto alla Biennale di Istanbul e nel 2009 le è stato riconosciuto l’Abraaj Capital Art Prize. Tra le sue mostre collettive: DUST, Centre for Contemporary Art Ujazdowsku Castle, Varsavia; Adventure of the Black Square: Abstract Art and Society 1915-2015, Whitechapel Gallery, Londra (2015); Longing Persia, Exchange and reception of art in Persia and Europe in the 17th Century & Contemporary Art from Tehran, Museum Rietberg, Zurigo; Safar/Voyage, The Museum of Anthropology at the University of British Columbia, Vancouver (2013); When Attitudes Became Form Become Attitudes, Museum of Contemporary Art Detroit, Detroit / CCA Wattis Institute for Contemporary Arts, San Francisco (2012).

Per ulteriori informazioni contattare Erica Colombo +39 02 2043555, info@galleriaraffaellacortese.com.

 






dal18 Febbbraio al 31 Marzo 2016

Galleria Lia Rumma

Via Stilicone, Milano

La Galleria Lia Rumma è lieta di presentare la personale di Marzia Migliora “Forza lavoro” con inaugurazione il 18 Febbraio 2016 alle ore 19 presso la sede di Milano.
Il progetto espositivo prende le mosse dalla storia del Palazzo del Lavoro di Torino, realizzato da Pier Luigi Nervi nel 1961 in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia e della relativa esposizione internazionale dedicata al lavoro, a cura di Gio Ponti. A tale glorioso inizio sono seguiti anni di decadenza e incuria che hanno portato all’abbandono dei 47.000 metri quadrati della struttura.
In un periodo di transizione dello stabile, tra un importante incendio avvenuto nell’agosto 2015 e l’imminente trasformazione in centro commerciale di lusso, l’artista ha scelto di frequentare il Palazzo attraverso una molteplicità di approcci. Marzia Migliora ha dato corpo e parola al Palazzo, trasformandolo in un testimone privilegiato di un’epoca e lo ha collegato attraverso le singole opere realizzate a molte delle tematiche ricorrenti nella propria ricerca: la memoria come strumento di articolazione del presente o l’analisi dell’occupazione lavorativa come affermazione di partecipazione alla sfera sociale.
I tre piani della galleria ospitano esclusivamente nuove produzioni dell’artista, che ha concentrato per ogni livello un aspetto specifico della ricerca sul Palazzo. All’ingresso, l’installazione Lideazione di un sistema resistente è atto creativo introduce l’accezione più fisica della definizione di forza lavoro. La grande struttura di mattonelle in carbone pressato disegna infatti sul pavimento il modulo, in scala 1:1, del solaio a nervature isostatiche concepito da Nervi che intendeva così dare forma a ciò che avviene staticamente nella materia, attraverso la distribuzione delle linee di forza sulla superficie. Salendo al piano superiore troviamo una serie fotografica intitolata In the Country of Last Things che presenta cinque impressioni ottenute da dispositivi a foro stenopeico costruiti dall’artista assemblando frammenti vari delle vite passate del Palazzo e lasciate a impressionare per lungo tempo negli spazi dismessi. A fianco delle stampe e delle macchine stenopeiche una serie di monocromi neri ottenuti dalla lavorazione dei residui di combustione rimasti dopo il recente incendio e da altre polveri scure ottenute come scarto della lavorazione di metalli. Il gesto di impastarle in maniera pittorica ne dà una visualizzazione e rende tangibile la loro presenza nelle nostre vite: i cosiddetti composti organici volatili di origine antropica, dannosi per la salute, sono tanto impercettibili quanto onnipresenti nella nostra quotidianità, così dipendente dai derivati del petrolio e dalle loro infinite lavorazioni.
Chiude il percorso all’ultimo piano il video Vita Activa. Pier Luigi Nervi, Palazzo del Lavoro, Torino, 1961-2016, nel quale l’artista chiede al musicista Francesco Dillon di produrre dei suoni a partire dall’interazione con gli ambienti e i detriti dell’edificio, per integrarli poi alla sua esecuzione a violoncello di alcuni estratti dal Requiem in Re minore k626 di Mozart. La lotta che si instaura tra l’osservanza funebre che il brano produce, e i tentativi di ascoltare lo spazio nell’espressione delle sue ultime potenzialità di produzione di senso, si risolve in una tensione visiva che manifesta la parabola tra vita e morte sulla quale “Forza Lavoro” si sviluppa.
Testo critico a cura di Matteo Lucchetti

Si ringraziano Francesca Comisso e Liliana Dematteis dell’Archivio Gallizio per la collaborazione e il sostegno alla realizzazione del video Vita Activa, nato con l’invito a ideare un progetto in dialogo con l’opera di Pinot Gallizio.
Si ringraziano la Fondazione Merz e la Proprietà Pentagramma Piemonte per la preziosa collaborazione

Due artiste, Barbara Bloom e Joan Jonas, ci fanno intravedere quello che normalmente non si può vedere. In una sorprendente circolarità tra intuire, disegnare, mostrare

di Francesca Pasini

Nell’immagine c’è qualcosa che riconosciamo e nello stesso tempo sorprende, come se venisse da un deposito ad accesso libero, ma in cui non tutti decidono di entrare. L’arte è questo misto di conosciuto e imprevisto. Quello che mi attrae è soprattutto il rapporto tra l’artista e l’immagine nel momento in cui è lì, lì per presentarsi ai suoi occhi. Una volta arrivata parla a chi la guarda, crea a sua volta un deposito e offre un incontro con qualcosa che sta oltre. Questo andare oltre avviene perché ognuno è invitato a capire qual è “il punctum che ferisce e ghermisce”, come scriveva Roland Barthes ne La camera chiara. Trovare dentro di sé quello che non si era visto e che l’immagine fa affiorare o riaffiorare da quanto abbiamo accumulato. La sorpresa sta nel contatto con gli occhi dell’altro. Succede anche nei rapporti quotidiani, ma senza qualcosa che trattiene il passaggio dello sguardo è difficile raccontarsi quello che proviamo.

Tutta l’arte agisce così, ma quella visiva assomiglia di più a un dialogo tra soggetti che s’incontrano. Non si può parlare solo tra sé e sé e l’arte ha bisogno dell’altro che la guardi, la accetti, la rifiuti, e poi magari faccia pace. Esattamente come in ogni incontro.

Ci sono opere e immagini che hanno più forza, più invenzione nel farci percepire questo legame tra l’estetica e la comprensione di sé, come quelle di Barbara Bloom e Joan Jonas, in mostra alla Galleria Raffaella Cortese di Milano, fino al 27 febbraio.

Barbara Bloom con i suoi Works for the Blind ci porta dentro la massima aspettativa: mettersi nelle condizioni di guardare l’assenza di vista. Il contatto con gli occhi dell’altro è folgorante. L’emozione è fortissima. Barbara Bloom ce la fa provare unendo la lettura degli occhi a quella del braille. Sette fotografie in bianco e nero hanno dentro di sé qualcosa di noto e qualcosa che appartiene a quell’immagine. Davanti al vetro sono trascritte in braille, le citazioni che accompagnano ogni singola foto. Sono frasi sul senso del vedere e della perdita, tratte da Ludwig Wittgenstein, Hannah Arendt, Roland Barthes, Dorothy L. Sayers.

Chi è cieco ha la conoscenza immediata del testo e un’immaginazione dell’immagine; chi vede l’immagine non riesce a leggere il testo. È trascritto in caratteri piccolissimi, sembra piuttosto un francobollo che certifica la spedizione del messaggio.

Vedere e leggere si scinde nella vista e nel tatto, e in questo equilibrio appare sia la dolcezza di sentirsi uniti a chi non può vedere la foto, sia lo sforzo di immaginare le parole attraverso i rilievi tattili del braille. L’equilibrio c’è anche nella disparità fisica della vista, perché produce quello sfondamento soggettivo che alcune opere  imprimono alla “lettura della mente”, cioè a quella lettura che non si basa sulla grafia, ma sui segni emotivi, fisici che accompagnano le espressioni di uomini, donne, bambini, animali, paesaggi. In questo vedo la capacità di farci andare oltre, o meglio di trarre dalle intuizioni allo stato fluido il “punctum” che può condensarsi in un’immagine e da quel momento “ferirci e ghermirci”.

Nel secondo spazio della galleria, c’è The Weather, un’installazione di tappeti sollevati da terra e ad altezze diverse, su cui affiorano i rilievi della scrittura braille. Citazioni letterarie descrivono cambi di temperature, di colori, di umidità: “Piovve per quattro anni” (Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine). “Aveva cominciato a nevicare nuovamente” (James Joyce, Gente di Dublino). “Soffiava il vento del deserto quella notte” (Raymond Chandler, Vento rosso). “Ti scrivo sotto un azzurro perfetto” (Andre Gide, L’immoralista). “Il cielo a nord s’era oscurato”(Cormac McCarthy, Cavalli Selvaggi).

In un tappeto, più o meno al centro, sono trascritti i valori di “temperatura, somma termica, umidità, precipitazioni, pressione a livello del mare, velocità del vento, visibilità: condizioni meteorologiche al momento della nascita di Barbara Bloom, Los Angeles, 11 luglio 1951”.

Tutta la stanza è pervasa da un clima cilestrino, polveroso come nei cieli velati dalle nuvole, opaco come nei passaggi tra il giorno e la notte, verde leggero come traspare dall’acqua. Sulle pareti è steso un leggero velo azzurro-grigio. È un’immersione che mette in moto l’immaginazione dell’atmosfera in cui siamo calati. L’equilibrio tra visione fisica “corporea” e grafica letteraria ci riporta al contatto con gli occhi e la mente dell’altro che sta alla base del vivere quotidiano. Viene voglia di toccare i rilievi braille, ma anche le superfici vuote dei tappeti, come se la tattilità diventasse una chiave di lettura per tutti: vedenti e non. La sorpresa è enorme e non c’è che viverla.

Altrettanto forte è l’emozione nel terzo spazio della Galleria, dove Joan Jonas ha riunito in una stanza la trasparenza, la luce, la temperatura della natura. È una sintesi fulminea del Padiglione e della performance alla Biennale di Venezia, They come to us without a word. La misura della stanza è perfetta per racchiudere una molecola del mondo, s’intitola In the Trees: un’opera totale per immaginare uno sfondamento rispetto al deposito di immagini che ci circonda e che non sempre vediamo.

Incrociamo gli occhi con Jonas mentre attraversa una lieve foresta di alberi, inframmezzati da segni verdi brillanti: gli alberi disegnati da lei.  Il video “continua” riflettendosi sugli specchi, posizionati agli angoli della stanza. E sul lato opposto, in una proiezione circolare, stroboscopica, Jonas ci viene incontro con fogli di carta bianca su cui disegna la natura che la circonda e in cui ci invita a entrare. Un invito semplice, senza commenti, come appunto è quello della natura. Un richiamo pacato a fare un passo indietro per osservare i mutamenti e ricordare.

La parete di fondo è avvolta da una “nuvola” di disegni mossa dal vento. Sono disegni di uccelli che potenzialmente abitano gli alberi tra i quali Joan si è immersa e riflessa, ma sono un d’apres da Bird Guide of  Mailand by Dr. Boonsonq Lekaqul. E così si chiude il cerchio tra vedere e disegnare, tra leggere e intuire, tra vivere la natura e andarle incontro senza parole. È un’evocazione poetica, ma soprattutto un suggerimento ad accedere al deposito di immagini che artisti, uomini, donne,  bambini, animali, piante mettono quotidianamente in circuito.

http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=48558&IDCategoria=1&MP=true

La reporter era a Ouagadougou, in Burkina Faso, il 15 gennaio è stata uccisa in un attentato jihadista. Stava lavorando per Amnesty International a My Body My Rights, progetto sui diritti delle donne

inserito da Marta Facchini

La reporter Leila Alaoui era a Ouagadougou, in Burkina Faso, quando il 15 gennaio è stata uccisa in un attentato jihadista. Stava lavorando per Amnesty International a My Body My Rights, progetto sui diritti delle donne.

Metterne in risalto la fierezza e la dignità. Mostrarne l’eleganza. Sono queste le parole che Leila Alaoui usava per parlare dei soggetti ritratti in uno dei suoi ultimi progetti, Les Marocains. Il punto di arrivo di un viaggio itinerante, insieme a uno studio fotografico mobile, per raccontare la popolazione locale del Marocco. Alti due e metri e mezzo, imponenti, i ritratti erano stati esposti a Parigi in occasione della prima edizione della Biennale della fotografia araba. Immortalavano uomini e donne di diverse etnie della parte rurale del Paese, l’archivio visivo delle tradizioni e di un’estetica che rischia di scomparire.

«Tra gli arabi, i Marocchini hanno il rapporto più complesso con la fotografia. La loro apprensione è dovuta a una forma di superstizione. A questo si aggiunge una stanchezza per il turismo di massa, che allontana dalla macchina fotografica. La mia speranza è riuscire a mostrare le tradizioni del Paese oltre un racconto di folklore», aveva dichiarato in un’intervista al Guardian. «Sono del Marocco ma quando viaggio di regione in regione ho la sensazione di cambiare paese. Ho voluto fare un viaggio culturale come Robert Frank quando ha lavorato a The Americans. Catturare le tradizioni che stanno scomparendo e farne un archivio visuale».

Nata a Parigi nel 1982 e cresciuta a Marrakech, Leila aveva studiato fotografia e antropologia a New York. Il superamento delle frontiere, la duplicità dell’essere che si ottiene non fermandosi in un solo posto, era proseguito anche dopo il periodo degli studi. Quando, lasciata la Grande Mela, Leila era tornata in Marocco e aveva realizzato un lavoro sui migranti, soggetti costanti nei suoi interessi da giornalista. Poi, il Libano. Come spiegava in un’intervista ad Al Jazeera, la fotografia diventava il mezzo per superare le frontiere, raccontare le identità e le diversità culturali, le storie dei migranti. Ed erano proprio le sue origini, raccontava, a permettere il superamento di confini che sarebbero stati altrimenti difficili da valicare. No pasará, lavoro sui giovani che cercano di raggiungere l’Europa, è il suo più significativo progetto sulla migrazione. Tema affrontato anche in Crossings, videoinstallazione che riproduce il viaggio dei subsahariani per raggiungere il Marocco. Era poi venuta la volta di Beirut, dove nel 2013 aveva lavorato a un progetto sui profughi siriani.

«Era un’artista che brillava», scrive il New York Times, «e lottava per i dimenticati della società, i migranti». «Avete visto il sorriso radioso che mostrava sempre quando veniva fotografata?», ricorda Fatym Layachi, autore marocchino e amico d’infanzia, «Ecco, era questo il suo segreto. Era determinata a difendere la sua causa. Ed era in grado di scovare la bellezza in tutte le cose e in ogni persona. Ritrasmettendocela».

30 gennaio 2016

dal 12 al 24 febbraio 2016

Associazione Apriti Cielo! Via Spallanzani 16 – Milano  Porta Venezia

PERCEPERCEZIONE D I UN MONDO TRA TURBOLENZE E CAOS

Due trittici (150×300 ciascuno), dipinti fantasma progettati per dare primato al disegno sottostante. Curve, pensando a mondi separati ma intrecciati tra di loro. Colori diversi tra curva e curva per accentuarne lo scontro, ma non cupi. Colorazioni fantasy sognando la soluzione.

Il 2015 è stato l’anno della tecnologia basata sulla luce ma anche l’anno del crescente caos mondiale. Isabella Spatafora ha interrotto nel 2014/15 la ricerca sugli SPRAZZI DI LUCE NELLO SPAZIO-TEMPO, iniziando con i due trittici un percorso caotico pieno di problemi e soluzioni.

nasce in Sicilia nel trentacinque del secolo scorso, a Caltagirone.
Ricorda ancora l’immagine della maestra Mineo di prima elementare, moglie di un pittore che, accortasi delle sue capacità artistiche, a soli cinque anni la manda nelle altre classi della scuola a disegnare vari soggetti alla lavagna. Nello stesso anno, in privato, col maestro Sasso comincia a imparare a suonare il violino.
Verso i quindici anni, consapevole che la propria strada è l’Arte Figurativa, ritiene prioritario dedicarsi interamente alla propria inclinazione e decide così di lasciare la scuola civica di violino.
Sotto la guida dello scultore Gianni Ballarò, insegnante alla Scuola d’Arte per la Ceramica, impara a disegnare e modellare. Mentre frequenta la Scuola per la Ceramica, sostiene esami al Liceo Artistico di Palermo fino alla Maturità, ed è soprannominata “Luca fa presto”, espressione attinente al pittore seicentesco Luca Giordano per la velocità manifestata nell’esecuzione delle sue opere, dall’insegnante di nudo dal vero .
In quegli anni riceve il 2° Premio alla Prima Mostra Regionale Siciliana della Ceramica, e un diploma di merito “Ceramica contemporanea Principato di Monaco” rilasciato da S.A.S. Principe Ranieri III.
Espone anche opere a olio in una personale di pittura in un Circolo della sua città.
Insegna per cinque anni disegno in Sicilia, si sposa e ha una figlia. Si sente poi costretta a lasciare lavoro, famiglia e figlia (che poi riprenderà con sé), intraprendendo l’avventura del viaggio e del lavoro in fabbrica all’estero.
Rientra in Italia nel ’60 e si stabilisce definitivamente a Milano.
Frequenta per un corso di affresco e nudo dal vero alla serale del Castello Sforzesco. Lavora in uno studio di architetti e ingegneri e nel frattempo riprende l’insegnamento in diverse scuole medie dell’hinterland milanese.
Intraprende un percorso personale di pittura.
Con la nascita del Sindacato Artisti con sede al numero tre di via Solferino, partecipa a mostre collettive tra gli iscritti (chiamate accrochage dal critico d’arte Raffaele De Grada) e a mostre personali in Circoli Culturali di periferia. In quel periodo (1965), tiene una personale alla Galleria Pater di Milano presentata dallo stesso De Grada.
Il Sessantotto la vede impegnata attivamente in politica per alcuni anni.

http://www.apriti-cielo.it/inaugurazione-mostra-caos/

www.apriti-cielo.it

29 – 31 gennaio 2016 – BOLOGNA

Manto, Moreschini, Muzi, Pergola. 29 gennaio ore 18.

In occasione dell’art week bolognese inaugura presso gli spazi dello Studio Legale Commerciale in Via Clavature 22 a Bologna il progetto ARTWORLDS. Visioni, divisioni, condivisioni a cura di Raffaele Quattrone e Wunderkammer, a partire dal 29 gennaio alle ore 18.
https://www.facebook.com/events/939446079484295/
http://www.associazionewunderkammer.it/


In occasione dell’art week bolognese inaugura presso gli spazi dello Studio Legale Commerciale in Via Clavature 22 a Bologna il progetto ARTWORLDS. Visioni, divisioni, condivisioni a cura di Raffaele Quattrone e Wunderkammer, a partire dal 29 gennaio alle ore 18.

Concettualmente ispirato al libro “art worlds” del famoso sociologo americano Howard S. Becker basato sulla visione interazionista del mondo dell’arte, con accento sull’interdipendenza e sulle interazioni effettive tra i soggetti che si muovono ed agiscono all’interno del mondo dell’arte “condividendo” una sorta di abc, di linguaggio che permette loro di comprendere e comprendersi, il progetto include opere di Dacia Manto, Alessandro Moreschini, Sabrina Muzi, Chiara Pergola.

Nel video Asterina Dacia Manto indaga spazi marginali, territori sfuggevoli dove la natura riprende il sopravvento, dove crescere liberi, senza controlli. E’ un paesaggio in trasformazione, un organismo in crescita lenta e incontrollata. Il disegno sovrappone le sue trame alle trame vegetali, animali e minerali, strato su strato, in una visione caleidoscopica e mutevole. In Drawings from Asterina i disegni, tra luci, ombre e strati di grafite restituiscono visioni parziali e ambigue dei protagonisti più nascosti del video: insetti, falene, muschi, licheni che sembrano avere vita propria sui fogli , ma che sono indissolubilmente legati uno all’altro. La natura come luogo di trasformazione continua ed adattamento. Luogo di vita e morte, luce e ombra, generazione e rigenerazione. Un’installazione dove cultura e natura dialogano in modo sincero e paritetico.

Alessandro Moreschini ha una distintiva vivacità creativa anche nelle composizioni in bianco e nero. Ne è un esempio Flusso Vitale che richiama il movimento tipico di un ingranaggio composto da elementi circolari. Il centro della composizione dell’opera è occupato da un elemento tridimensionale che fuoriesce dalla superficie bidimensionale del quadro per cercare lo sguardo dell’osservatore quasi a captarne il “flusso vitale” che poi muove la composizione. In Amarsi è così inutile la scacchiera e le pedine del classico gioco degli scacchi sono ricoperte da biomorfismi decorativi che come una fitta vegetazione kitsch dialogano con la simbologia del gioco legata all’esistenza stessa: un campo d’azione delle forze divine (la scacchiera nella cultura persiana e araba dalle quali il gioco proviene, corrisponde infatti al tracciato fondamentale di un tempio o di una città). Completa l’allestimento l’opera Possibili accadimenti futuri.

Nell’installazione B-Side Chiara Pergola si interroga sul segno e sulla traccia dei due emisferi cerebrali e della loro attività congiunta. In questi autoritratti e “visioni interiori” dell’attività cerebrale, l’emisfero sinistro è disegnato con la mano destra, mentre il destro è disegnato con la sinistra. Il disegno diventa così il luogo di riproduzione del momento epifanico, nel quale i due emisferi, non più divisi, si riconnettono attraverso una scarica elettrica. La serie si collega ad altre opere di disegno, in particolare “Sightseeing” e “Novum Organum”, in cui la domanda sulla relazione tra i due emisferi cerebrali si collega ad una più ampia riflessione sul rapporto tra maschile e femminile, in cui il livello singolare di coesistenza nella struttura dell’encefalo è in continuità con il livello di espressione della dualità sessuale a livello storico e sociale.

Confucio ha affermato “l’ignoranza è la notte della mente, ma una notte senza luna né stelle”. Non so quanto possa aver influito questa affermazione sul percorso artistico di Sabrina Muzi, ma le quattro foto in mostra appartenenti alla serie La notte della mente ci portano in un ambiente buio e indefinito, un ambiente dove forse ci siamo smarriti, persi, dispersi. In ogni caso l’arte di Sabrina Muzi ha comunque sempre una valenza rituale, rigenerativa e purificatrice come dimostra l’opera Veste, un abito sciamanico ricco di tantissimi oggetti comuni o ricercati. L’arte, come lo sciamano, può collegarci ad un livello superiore, può mostrarci una strada nuova, nuovi valori, nuove idee. Completano l’allestimento alcune foto sempre in bianco e nero tratte dalla serie Metamorphosis e la scultura Accessorio.

Durante il periodo della mostra sarà possibile “sfogliare” il numero 0 della rivista digitale interattiva Startup dedicata al rapporto tra arte contemporanea e sociologia. Distribuita tramite Joomag, piattaforma americana con oltre 5 milioni di lettori, e con un design semplice e contemporaneo oltre ad un team di redattori qualificati internazionali, Startup trasforma l’esperienza tradizionale del leggere introducendo negli articoli, video, file audio e gallerie di immagini.

 

dal 22 gennaio al 2 febbraio 2016

MUVI
Museo Vitaloni/Art&Wild  Milano in Via Ampère, 27

“Incontri”
Personale di Rossella Roli

Vernissage, venerdì 22 gennaio alle ore 18
Porzioni di cielo e mare, di mondo e memoria. In valigia

Incontrare Rossella Roli nel suo studio significa entrare in uno spazio dove si conserva e si tutela memoria. Non è mai facile poter raccontare della storia personale e del mondo con passo poetico, ma Roli riesce nell’impresa e lo fa da quando ha deciso di attraversare l’arte utilizzando diversi contenitori, piccole valigie che per la maggior parte raccolgono il suo percorso biografico e talvolta manifestano tematiche sociali, altre volte “incastri” di memorie su commissione.
«Non ho mai amato l’arte “statica”, il fissare a distanza le opere: mi piace che la spettatrice, lo spettatore possa mettere le mani sul lavoro, voglio che gli assemblages che costruisco interagiscano con gli osservatori non solo a livello visivo, ma con tutti i sensi», spiega l’artista, che ha alle spalle un percorso all’Accademia di Brera concluso nel 2009.
I suoi rifermenti vanno dall’opera di Louise Bourgeois (guardando in particolar modo alle Celle, per la loro complessità anche materiale), ai contenitori di Joseph Cornell, passando l’Yves Klein della spiritualità del colore, e una particolare installazione di Pino Pascali, i 32 metri quadrati di mare circa, guardata per la sua capacità di svelare l’infinito attraverso una pratica quasi ludica, fino al lavoro di Lucy Orta, per i celebri kit di sopravvivenza e per i passaporti per i territori dei ghiacci, assunti dall’artista inglese come luoghi dell’arte per il loro essere liberi da burocrazia e politica, e che con il lavoro di Roli mantengono un legame a latere, vicino all’idea di viaggio.
Accanto al concetto “ghiaccio” inoltre, quasi a livello di onomatopea, c’è da sottolineare l’importanza che riveste un particolare materiale nella produzione dell’artista: il vetro. Rigido eppure effimero, il vetro per l’artista è condizione di assenza-presenza, divenendo uno dei simboli della memoria.

Va ricordato, inoltre, che gli assemblages di Rossella Roli si distinguono per un “tempo” continuamente ibridato: gli stessi contenitori sono già apparentati ad un passato, ad un loro percorso, e il contenuto non è mai creato ex-novo ma è raccolto con dovizia dagli angoli più disparati del mondo e va, dunque, a comporre un mosaico del nostro presente, senza dimenticare l’origine e la tensione verso il futuro.

Matteo Bergamini
Rivolgimenti – Incontri – Intervalli

Una produzione piuttosto vasta, realizzata nel 2015, riguarda i disegni dal titolo Rivolgimenti, Incontri, Intervalli.
Puó accadere che i pensieri diventino pesanti, invadenti. Si impongono e non possiamo fare a meno di pensarli. Pur riconoscendoli inutili o nocivi continuano, non abbandonano il campo della mente, vanno e tornano, insistono così tanto da non poterli controllare. Qui, a farsi sentire, è l’inconscio che pensa.
L’inconscio pensa, ma il suo è un pensiero che non attiene né al mentale né al fisico, ma possiede al contrario il potere di scompaginare entrambi.
Rossella Roli, vive e lavora a Milano. Nel 2001 si specializza in web design presso la Domus Academy di Milano e successivamente si diploma all’Accademia di Belle Arti di Brera presso il dipartimento di Arti Visive.
Dal 2006 le sue opere sono state ospitate nei seguenti spazi espositivi: Fruttiere di Palazzo Te, Mantova; Museo Malandra, Vespolate; Complesso Monumentale di Sant’Agostino, Mondolfo; Centro per le Arti Contemporanee del Broletto, Pavia; Palazzo Tornielli, Ameno; Casa Testori, Novate M.se; Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, Milano.
Tra le altre mostre si segnala Another break in the wall presso la Wannabee Gallery di Milano, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, la VI Biennale del Libro d’Artista Città di Cassino, la terza rassegna internazionale di arte contemporanea Human Rights?, patrocinata da Amnesty International e dal Consiglio d’Europa, presso la Fondazione Opera Campana di Rovereto e Trame di guerra presso il Castello Visconteo di Pavia in occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale.
Mostre personali alla Galleria Blanchaert con Porzione di mare che sale e di cielo che sale che sale che sale, alla Galleria Obraz con Survivals, a Palazzo Stella con Inneschi e allo spazio Artestetica con Rivolgimenti.

www.rossellaroli.com
rossella.roli@gmail.com

www.museovitaloni.it
info@museovitaloni.it

Lunedì 18 gennaio 2016

“La civiltà femminile nutre il mondo” è il titolo dell’incontro che si terrà lunedì 18 gennaio alle ore 16,30 presso il Teatro Machiavelli, sito a Palazzo San Giuliano (piazza Università). Due artiste, Gheula Canarutto Nemni, www.gheulacanaruttonemni.com – autrice del romanzo “(Non) si può avere tutto”, ed. Mondadori (2015) e Cettina Tiralosi, www.cettinatiralosiblognotes.wordpress.com, digital painter di “Lacrime sciolgono muri e aprono orizzonti alla coscienza” (installazione di opere digitali) – si racconteranno attraverso le proprie opere in dialogo. La conversazione tra le due donne sarà accompagnata, in un’atmosfera coinvolgente, da musiche della tradizione ebraica accuratamente eseguite dall’arpista Ginevra Gilli. La serata si concluderà con una passeggiata attraverso le vie della Catania ebraica. La manifestazione è parte di una serie di proposte culturali iniziate nel marzo 2015 presso il Bastione degli Infetti (sito gestito dal Comitato Popolare Antico Corso) ed è realizzata con la collaborazione dell’Università degli studi di Catania, della Fondazione Lamberto Puggelli, del Teatro Machiavelli, dell’Associazione Ingresso Libero, del Comitato Popolare Antico Corso e delle librerie La Fenice e Vicolo Stretto.

La civiltà femminile nutre il mondo
Un dono prezioso ci viene consegnato quando veniamo alla luce: si chiama vita.
Tocca a noi saperla custodire in un insieme di pensieri e azioni quotidiane che si chiamano civiltà.
La trasmissione di questo sapere si fa almeno in due. L’una diventa testimonianza dell’altra.
Una vita vissuta in presenza e al presente, fatta di pesi e misure, di esercizio e facoltà, di scelte e possibilità che permettono di afferrare un filo conduttore di senso e di coscienza, che permettono di catturare una luce attraverso il buio per le strade del nostro cammino, di questo nostro vivere.
Una testimonianza di misura femminile della libertà è quella di una scrittrice come Gheula Canarutto Nemni e quella di una pittrice come me.
La mia attenzione per il libro di Gheula mi riconduce a constatare che tra i libri più significativi perme, tanti hanno nel titolo una negazione.
Non credere di avere diritti, Nonostante Platone, Non è da tutti, fino appunto a quest’ultimo (Non) si può avere tutto. Questa volta però il No è tra due parentesi. Un passo indietro per fare un balzo in avanti…anzi ci si prepara ad un salto in lungo…verso la libertà femminile.
Il mio NON A TUTTI I COSTI in continuo esercizio nel quotidiano è testimonianza di questa dura prova, ovvero non voglio muovermi a costo dell’umanità o a costo di perdere la mia umanità e l’amore per me stessa. Ne farei un torto prima di tutto a mia madre che mi ha messa al mondo e che con mio padre mi hanno cosi tanto desiderata e aspettata e soprattutto oggi a me stessa consapevole di questa preziosità.
Non a tutti i costi desidero di ottenere di realizzare un mio desiderio che esso stesso può diventare solamente una fantasia che ti tormenta l’anima e ti fa vivere infelice. Io ci rinuncio io mi sottraggo perché non mi fa intelligente ma rozza e disumana, cinica e superficiale.
Ottenere capra e cavoli? …ecco il problema. Non ci sono scorciatoie ed i passaggi sono così rigorosamente definiti e obbligati che se non fai nel tempo previsto, rischi come minimo se sei fortunata di ritornare alla casella di partenza come in un GIOCO DELL’OCA oppure rischi di restare con un pugno di mosche o altrimenti il peggio che è di perdere tutto per sempre e senza rimedio, riservandoti solo di essere rimasta almeno ancora in vita.
Sbagliando si impara che tutto è rimediabile finché la vita della mente ti permette di vedere altre soluzioni.
Tutto questo perché? Per narcisismo o per passione? Faccio tutto questo per passione verso la libertà femminile, mi muove la mia passione di cercarla trovarla e comunicarla. Considero il contesto dell’arte il più variegato e il più adeguato ad esprimere tutto ciò.
Suzana Glavaš nel suo intervento al convegno “DONNA SAPIENS-LA FIGURA FEMMINILE NELL’EBRAISMO” tenutosi presso il Castello Ursino a CATANIA, il 14 SETTEMBRE 2014 raccontò che nel Talmud è scritto, parafrasando: “Sii molto prudente a non far piangere una donna, poiché HaShem conta le sue lacrime. La donna è stata creata da una costola dell’uomo, non dai suoi piedi per essere calpestata. Non dalla sua testa per essere governata, ma dal suo fianco per
essergli alla pari. Sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata.”
Nelle lacrime apprezzai così la facoltà di resoconto del vissuto delle donne e degli uomini tanto da sceglierle come protagoniste nel titolo della mia installazione di opere digitali che, a partire da marzo 2015 presso il Bastione degli Infetti di Catania, sito gestito dal Comitato Popolare Antico Corso, ha continuato a trovare spazio in una catena di iniziative fino ad arrivare a quella di lunedì 18 gennaio 2016 presso il Teatro Machiavelli (Palazzo San Giuliano) Piazza Università, a Catania,
ringraziando per la disponibilità e la collaborazione l’Università degli studi di Catania, la
Fondazione Lamberto Puggelli, il Teatro Machiavelli e l’Associazione Ingresso Libero, Il Comitato Popolare Antico Corso, La Libreria Fenice e La Libreria Vicolo Stretto.
“La civiltà femminile nutre il mondo” è l’incontro di due artiste che si raccontano attraverso le proprie opere in dialogo: Gheula Canarutto Nemni , scrittrice di (Non) si può avere tutto – Ed. Mondadori (2015) e Cettina Tiralosi, digital painter di Lacrime sciolgono muri e aprono orizzonti alla coscienza e in un’atmosfera coinvolgente di musiche di tradizione ebraica accuratamente eseguite da Ginevra Gilli, arpista, ed infine attraverso le vie della Catania ebraica una passeggiata concluderà la serata.
“…Siamo nulla, siamo buio assoluto. Poi veniamo alla luce e inizia la nostra esistenza. Mi sono iscritta all’università a diciannove anni e in grembo portavo un’anima appena staccata dal Trono Celeste. Davo inizio a una corsa illudendomi di sapere dove e quale fosse il traguardo. Ho lottato a lungo per fare valere i miei diritti come essere umano. Ho combattuto con tutta me stessa per non venire schiacciata. Da quella porta dell’università, la stessa che avevo oltrepassato straripante di sogni e speranze, sono però uscita delusa. Spremuta……Pochi mesi dopo avere lasciato l’università
ho riacceso il computer, dichiarando davanti ad uno schermata immacolata che il periodo della mia spremitura era da considerarsi finito….Mi sono seduta al computer e ho aperto un file intitolandolo
Vita capitolo secondo e ho iniziato a premere sui tasti senza sapere dove volevo arrivare. Sentivo dentro di me un fiume in piena alla ricerca di un mare in cui sfociare…..Il rumore dei tasti premuti è per me come il suono della chiave che, girando nella toppa, apre una porta. Un varco che si affaccia sulle innumerevoli possibilità di unire fra loro lettere e parole. Ogni pagina scritta è una creatio ex
nihilo. Un lampo di pensiero, un’irradiazione lingiuistica che poi dirige le dita. Pensiero, parola e azione. E poi infinito….Ascoltavo in silenzio. Capendo il significato di capovolgimento. La discriminazione, le ingiustizie subite, sarebbero diventate il terreno dove avrei coltivato i miei sogni. Luce in ebraico si dice or. Il valore numerico delle sue lettere, la ghematria, è la stessa di Ein Sof, infinito. Da lì noi veniamo. Poi siamo un raggio. E diventiamo qualcuno.in quel momento il buio si accorge della nostra esistenza. E ci sfida con la sua presenza….La prima luce l’ho creata
Io, dice D-o. Ma d’ora in poi sarà compito vostro. Prendere il buio più profondo e trasformarlo in luce accecante. Tocca a noi, creature cacciate dall’Eden, ridare il respiro all’Infinito.” Gheula Canarutto Nemni , (Non ) si può avere tutto – Ed. Mondadori (2015)
Mi è stato insegnato a non avere mai paura del buio….è così sia.
Cettina Tiralosi

di Francesca Pasini

La città sola, senza altre orme che quelle della «guazza» mattutina, è un flash che talvolta ci passa davanti, allora si cammina svelti, intimiditi da quell’intimità. Ci crogioliamo nell’angolo più confortevole della nostra casa, ma fuori l’intimità dà insicurezza. Marina Ballo ci regala la meraviglia di Piazza Duomo sola, silenziosa, con addosso l’umidità della notte che scivola via, fotografia dopo fotografia.

Fa venire voglia di respirare largo, di riempirsi i polmoni e lasciarsi imbozzolare da questo guscio che contiene tutti i nostri gusci fisici e psichici. È molto diverso da un panorama naturale. Lì lo sconfinamento è appunto naturale ma qui, a Milano, in una piazza Duomo senza nient’altro che la spianata del selciato, neanche un tram, solo i barlumi lontani dell’architettura: qui non abbiamo scampo nel cosmo. Siamo abitanti di una piccola parte della terra. Magari è anche per questo che davanti alla visione di una città solitaria ci sembra di invadere uno spazio, non unicamente nostro. L’intimità altrui è imbarazzante. E così sostituiamo, alla scoperta, la preoccupazione per la solitudine. Abbiamo paura. Non ci fermiamo in una piazza vuota né di notte, né di giorno. Ammiriamo la vastità del paesaggio, ma stentiamo a entrare in sintonia con gli spazi costruiti quando sono vuoti.

Marina Ballo ci fa vedere il momento di grazia in cui la città nuda svela le sue molecole interne. Una radiografia a tre dimensioni, dove per un momento ci sentiamo in un luogo dove non c’è bisogno di confidenze o contatti emotivi per provare intimità con se stessi. Sì può stare lì. Guardarsi attorno, guardarsi dentro, con fiducia, in questa solitudine che contiene le nostre case, proprio le nostre, sapere che sono lì più o meno lontane. E allora si può essere spudorati, guardare, spiare. Come succede nella sequenza di sette fotografie Piazzaduomo#3, 2011: il selciato da un blu livido, umido s’illumina fino a una tinta perlacea aquatica; le lampade che contornano la piazza e gli edifici perdono luce. Diventa riconoscibile una ragazza, di schiena, seduta in mezzo. Era lì fin dalle ultime ore della notte. Marina ha deciso di scattare comunque. E così il desiderio di accompagnare la città dalla notte all’alba acquista concretezza nella fotografia. Svanisce l’imbarazzo della solitudine, e appare lo stupore di un luogo che contiene il risultato della costruzione urbana al grado zero. Appare questo infinito umano fatto di amori, di lotte, di nascite, di morti. Ha bisogno di confini fisici, corporei, mentali per bilanciare la vastità del cosmo.

Alberto Savinio diceva: «ascolto il tuo cuore, città». Marina Ballo sembra dire: «guardo il tuo corpo, città». Lo capta dal basso, perché l’equilibrio comincia nel momento in cui poggiamo i piedi per terra. Perché è un esercizio di lettura dove le cose scontate acquistano personalità. Nel trittico Piazzaduono#07, 2013, le intersezioni delle pietre del selciato si rincorrono da una foto all’altra creando una scena ritmica: dà prospettiva ai passi delle persone che appaiono piccole, lontane, e così mantengono il mistero delle loro fisionomie. Mentre nel dittico Piazzaduomo#11, 2014-15 la facciata parziale del Duomo fa da contrappeso alla pavimentazione umida, grigiastra, porosa, specchiante. Si ha la sensazione di assistere alla crescita dell’edificio in sintonia con la luce del giorno che cresce anche lui. Il cuore e il corpo della città visti dal basso ci parlano di tutto ciò che, pur essendo nascosto da muri, strade, monumenti, esiste e collabora alla percezione del nostro appartenere alla terra, prima che al cielo.

La mostra piazzaduomomilano è un progetto a quattro mani con Gabriele Basilico, pensato prima che lui morisse (il 13 febbraio 2013, a 69 anni), ed è un incontro tra la prospettiva dal basso e quella dall’alto. Anche Basilico, nel suo impareggiabile aggirarsi tra le guglie del Duomo, cattura il corpo della città. Facendoci volare con lo sguardo tra i tetti ci trasporta nella tattilità orizzontale di questa «pianura» sopra le architetture, sulla quale si ha la sensazione di poter camminare (Milano 2011,11A7-55). La distanza tra cielo e terra se ne va.

Poi con un colpo di vertigine ci spalanca il vuoto sotto l’Arengario (Milano 2011, 11A7-63). La strada è in pieno sole gli edifici in ombra e le persone, piccole, camminano e anche loro proiettano l’ombra. Una sintonia con lontananze che Ballo scopriva a raso terra e che Basilico, dopo averci fatto sognare di camminare tra tetti e guglie, sostenuti dall’aria, ci ricorda.

Uomini e donne siamo sempre piccoli sia rispetto all’altezza degli edifici, sia rispetto alla grandezza del selciato se lo si guarda dal basso. Come dire che la prospettiva è una questione mentale e non solo fisica. Immediato è pensare al volo sulla scopa di Miracolo a Milano di De Sica.

Marina Ballo Charmet-Gabriele Basilico

milanopiazzaduomo

a cura di Marco Belpoliti e Danka Giacon

Milano, Museo del Novecento, dal 10 ottobre 2015 al 26 febbraio 2016

Sabato 23 gennaio – 25 febbraio 2016 ore 18,30

La quarta vetrina

Artiste contemporanee raccontano la loro relazione con l’arte, i libri, le donne, i pensieri.

A cura di Francesca Pasini.

Prosegue il ciclo con Concetta Modica, Quel che resta.

Dopo l’inaugurazione, l’incontro con l’artista e la curatrice. Cena della cucina di Estia (la conferma è gradita).

Sarà in vendita la stampa (1/10), realizzata dall’artista per La Quarta Vetrina.

Da una vetrina all’altra, siamo alla terza, nasce un’antologia di visioni. La sinergia tra parole e immagini diventa fluida e, tra l’interno e l’esterno della vetrina e di chi partecipa, il filo delle suggestioni si disfa e si riannoda.

E’ il  caso di Concetta Modica che realizza un’opera col filo di lana, rimasto da opere precedenti. Nel 2001, da poco arrivata a Milano dalla Sicilia, alla Gamec di Bergamo, con i fili della coperta della nonna, che aveva disfatto, crea un paesaggio  astratto,  multicolore, nel quale si poteva entrare. Fili che ha poi usato per altre opere, alcune in collaborazione con altri artisti. Pensava di aver chiuso quel ciclo. “No, non è ancora finito”.

I molti fili che ha “visto” collegare parole e pensieri negli incontri in Libreria, le hanno fatto scegliere di usare Quel che resta per la vetrina e il dialogo che verrà. Così ha ricamato su un lenzuolo i segni che normalmente si fanno per contare, ad esempio i voti, quattro linee  orizzontali e una verticale e si ottiene un insieme di cinque per un conteggio tempestivo. Ma  è anche segno del tempo che passa.

L’immagine è aperta e molto attraente. Gli spunti di lettura sono tantissimi. La cultura artigianale. Il rapporto con il materno (la nonna) e il desiderio di promuoverlo tra donne uomini. Il dubbio di non poter mai dire quando l’opera è conclusa. Il dialogo come sistema di fili da disfare, per allentare i nodi, sciogliere i punti non scorrevoli e avere ancora altro filo da tessere.

A quest’opera, posta sul fronte della vetrina, Concetta Modica aggiunge sul retro, dove il fili pendono dal ricamo in  un intrico “naturale”, una scultura composita. Di nuovo il nodo è Quel che resta, dal passato o da altrove, come la mano in gesso trovata da un marmista,  che  impugna il trespolo su cui sono appoggiati tre suoi libri di foglie. Sono foglie cadute, che trova e conserva tra le pagine, colorando i tratti mancanti, gli sgretolamenti. Ritesse le loro vita e le sposta nei libri: i nostri compagni di viaggio dal passato al presente. Alla base del trespolo, in un sasso spaccato a metà ha premuto altri fili colorati. Saranno gli ultimi? Probabilmente, ma altri ne verranno lavorati e disfatti, durante il dialogo dell’inaugurazione. E non è questo il lavoro che la Libreria delle donne di Milano compie da oltre quarant’anni?
Concetta Modica, “Quel che resta”, 2016