Da Erbacce – Sono una cartoonist di Gaza. Dal 7 maggio 2024 vivo a Khan Yunis, nel campo di Ain Jalut, in una tenda con mia sorella e con i miei fratelli accanto a noi. Quando la carta finisce, disegno sulla tenda.

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Da Doppiozero – Fra i grandi meriti di Omero, nota Hannah Arendt, c’è quello di aver reso immortali gli eroi di cui racconta la storia. Non sappiamo chi fosse Omero, il narratore che chiamiamo con questo nome, ma sappiamo chi fossero Achille, Ettore e Ulisse perché ne conosciamo le storie e non ci stanchiamo di rileggerle e raccontarle. Racchiusa nelle storie, la loro fama è imperitura e li salva dall’oblio. Non sono però solo i guerrieri a guadagnarsi questa immortalità donata dal canto omerico. Penelope, la tessitrice che fa e disfa la sua tela, è la protagonista di una storia davvero memorabile che la tradizione non ha infatti mai potuto dimenticare.

A Roma, promossa dal Parco archeologico del Colosseo, si è di recente aperta Penelope, la prima mostra dedicata al personaggio omerico, a cura di Alessandra Sarchi e Claudio Franzoni, con l’organizzazione di Electa. Potete visitarla fino al 12 gennaio 2025, ammirando cinquanta opere che, attraverso la tradizione visiva e letteraria, ripercorrono il mito e la fortuna della regina tessitrice, celebre per il suo gesto di fare e disfare. Genialmente, l’esposizione comprende anche un omaggio a Maria Lai, artista che ha messo al centro del suo lavoro la materia tessile. Da Penelope alla grande artista sarda, dall’immaginario antico all’arte contemporanea, la mostra ci invita ad esplorare l’universo, simbolico e operativo, delle donne che tessono, che fanno del gesto della tessitura una trama di libertà, creatività e riscatto.

Racconta il mito che fu la dea Atena a donare alle donne l’arte del tessere, riservando invece agli uomini quella del guerreggiare. Ovviamente la parola greca è techne, un termine che, al contrario dell’italiano arte, non convoca immediatamente la bellezza, bensì una certa rigorosa perizia, una capacità del fare, un’abilità e una competenza fondate su un sapere. In Platone la figura del ‘tecnico’, comprensiva di quello che noi chiameremmo artigiano e artista, implica la conoscenza di un campo specifico o, meglio dell’idea, della forma che è al centro di questo campo – poniamo, l’idea di letto, guardando alla quale il costruttore di letti trae le regole oggettive così come il materiale adatto per la fabbricazione del letto. Ogni tecnico ha un sapere specifico dell’oggetto di cui è competente e che impone un ordine preciso al suo operare, dettandone le procedure, i tempi e la materia. Nel dire che un’opera è fatta a regola d’arte c’è dunque una sorta di ridondanza: l’arte, ovvero la techne, consiste sempre, e di per sé, nella sua regola. Il tecnico è precisamente l’esperto che vede e segue, esegue, questa regola. L’arte del tessere, in cui eccelle la regina di Itaca, sarà quindi un sapere specialistico delle regole, degli strumenti e del materiale, nonché delle modalità di intreccio, trama e ordito, adatti a produrre il tessuto. Diciamo, nel caso di Penelope, a produrre la tela, il sudario per Laerte.

L’algida spiegazione razionale dell’operare tecnico, fatta da Platone, ci aiuta qui tuttavia solo fino a un certo punto. Platone non prevede infatti che il tecnico, una volta fabbricata la tela, la disfi. Il gesto della tessitrice Penelope è anomalo, anzi scandaloso. Penelope possiede certamente un sapere perfetto della tecnica del tessere ma evidentemente sa qualcosa di più, qualcosa che, pur accadendo nella stanza dei telai in cui, come tutte le donne, è confinata, travalica questo confine, questo ruolo, questa specie di prigione femminile, e agisce sull’assetto politico del regno, là dove dominano gli uomini e lei è esclusa. Tessendo la tela di giorno e disfacendola di notte, Penelope per quattro anni tiene in scacco i pretendenti alla sua mano e la sorte di Itaca. Come con l’astuzia, la metis, il marito ha escogitato il trucco del cavallo di legno per sconfiggere il nemico in battaglia, così la metis di Penelope escogita il trucco del fare e disfare la tela per sconfiggere i pretendenti al governo di Itaca. Al contrario del marito, che opera nella propria sfera di competenza, ovvero nella sfera maschile del guerreggiare, Penelope, pur operando nella sfera propriamente femminile del tessere, fa in modo che gli effetti della sua astuzia riesca a travalicarla. Quel che avviene nella stanza dei telai riguarda direttamente la vicenda politica di Itaca, è questo il nucleo memorabile della storia.

Come ci raccontano Omero e la letteratura antica in generale, nella cultura occidentale, al contrario di ciò che avviene in altre culture, la tessitura è riservata anticamente alle donne o, meglio, il loro confinamento nell’ambito domestico prevede che esse vi svolgano il lavoro di tessitrici. Gli esempi testuali abbondano. Basterà qui, per stare ai poemi omerici, ricordare le parole che Ettore, pur dolce e mite marito, rivolge alla moglie Andromaca che, uscita dalla casa, si reca alla porta Scea per scongiurarlo in lacrime di non scendere in battaglia: «su, rincasa e bada ai tuoi lavori, il telaio e il fuso – le dice Ettore – e ordina alle ancelle di mettersi all’opera; alla guerra penseranno gli uomini» (Iliade, VI, vv. 490-93). Penelope stessa, che ha osato parlare nella sala degli uomini, il megaron, viene invitata dall’arrogante figlio Telemaco a tornare nella stanza dei telai. La politica e la guerra spettano agli uomini, la casa in cui si svolgono i lavori domestici e, in primis, la tessitura, spetta alle donne. I ruoli di genere, come oggi si direbbe, sono chiari. Donando alle donne l’arte della tessitura, in un certo senso, è stata miticamente Atena a escluderle dall’ambito pubblico e a imprigionarle in quello domestico. Ciò non implica che, per i Greci, quella della tessitura sia un’arte inferiore o secondaria, visto che di tale arte si pregia, anzi, la stessa Atena e molte divinità femminili. C’è nell’arte del tessere un orgoglio per l’abilità di produrre splendidi e utili oggetti, nonché una riconosciuta creatività che va al di là dell’utile. Dal tessuto, dall’ambito del textum, derivano del resto parole molto significative come testo e trama. Il tessuto istoriato è tale perché, come il grande Omero, racconta storie. Le crea, le inventa e le tramanda.

Si legge nel catalogo della mostra che nella tradizione iconica Penelope appare spesso malinconica. La malinconia, insieme alla fedeltà e alla pudicizia, scrive la curatrice Alessandra Sarchi nel suo saggio illuminante, costituiscono le sue principali caratteristiche. Pudore e riservatezza sono sottolineate anche nel saggio, altrettanto illuminante e documentato, dell’altro curatore, Claudio Franzoni. Sono saggi ricchissimi e avvincenti, indispensabili per chi visiti la mostra o voglia approfondire i vari filoni letterari, artistici, speculativi e simbolici che si stringono intorno alla figura di Penelope o da essa sgorgano.

Secondo un’autorevole tradizione, la casta e malinconica Penelope, modello di tutte le mogli, è un’icona dell’attesa. Forse ha una struggente nostalgia del marito e ancora spera che torni. Forse simboleggia appunto la moglie fedele alla quale manca il marito, ovvero la moglie che l’assenza del marito e l’incertezza per la sorte di lui rende triste e sconsolata. O forse suggerisce che nello stare confinata tutta la vita nella stanza dei telai, in fondo, c’è ben poca gioia. Molto stupore desta comunque il fatto che, quando Ulisse finalmente torna, travestito da vecchio mendicante, al contrario del cane Argo e del porcaro Eumeo, Penelope non lo riconosca. È Omero a raccontarci questo fatto davvero strano, tutt’altro che trascurabile. Quando Ulisse si palesa, lei non gli crede, vuole le prove. Avrà pensato che dopo tanti anni fosse improbabile che Ulisse fosse ancora vivo? (e alquanto forte e vigoroso come si evince dalla prova dell’arco). O avrà pensato che il suo trucco di fare e disfare per tenere sotto scacco il trono e il destino di Itaca, il suo astuto gioco della politica, fosse giunto inesorabilmente alla fine? Dopo tutto, che ne è di Penelope quando Ulisse si reinsedia nel regno? La regina Penelope, protagonista di una memorabile storia, dopo il ritorno del re, suo legittimo marito, ha ancora una storia?

In effetti è plausibile persino ipotizzare che, nel momento in cui la sua memorabile storia finisce, quando il suo personaggio, che ha svolto un ruolo cruciale nella trama del racconto, esce di scena; che quando Omero chiude la vicenda del fare e disfare perché è tornato il re, Penelope abbia nostalgia del passato. Ora sarà come tutte le altre tessitrici, seguirà diligentemente la regola della sua arte, produrrà splendidi e utili tessuti ma non li disferà più. Anche la complicità con le ancelle per fare funzionare il trucco sarà solo un ricordo. La fama che ne ha fatto una delle icone fondamentali nell’immaginario dell’occidente svanirà nella noia casalinga dell’ordinario.

Il segreto dell’arte di Maria Lai è efficacemente espresso dal suo motto secondo il quale «essere è tessere», a cui si accompagna la sua acuta osservazione sulla somiglianza fra il filo della tessitura e quello della scrittura. Lo testimoniano, fra le realizzazioni dell’artista, i celebri libri di stoffa così come i telai, i grovigli e i fili che legano la montagna e l’abitare in un’opera collettiva. Nell’antichità erano le Moire a filare, e filavano la vita singolare di ogni essere umano, dalla nascita alla morte, essendo la morte semplicemente il filo troncato, spezzato. Sì, essere è tessere, anche perché, secondo il mito delle Moire, il nostro essere qui, in questo mondo o, se si vuole, il nostro esistere come singolarità incarnate, è un filo sottile, intrecciato con altri fili, che si dipanano in una trama collettiva, istoriata temporaneamente, per un tratto, per nodi provvisori, dalla storia di ciascuna vita. Notoriamente le Moire si sono guadagnate nella tradizione una fama sinistra perché tagliano il filo, decretano la morte. Si dimentica però che esse sono all’opera anche quando il filo si forma e nasce, al suo inizio. Come ben sa Penelope, c’è un inizio per ogni filatura, così come, intrecciando i fili, per ogni tessitura. Forse anche per questo la regina disfaceva di notte la tela: per ricominciare, per far sì che la sua storia non finisse e diventasse interminabile, perché sempre tornava al senso davvero memorabile e infinitamente ripetuto del suo inizio.

Da Internazionale – “Vi chiediamo visioni di società senza armi, stati senza eserciti, comunità liberate dal lutto della guerra. E vi chiediamo di farlo nello spazio di un poster”. Questa è la richiesta di Cheap nella loro ultima call for artists.

Cheap è un progetto di arte pubblica fondato a Bologna nel 2013 da sei donne che hanno scelto di lavorare con la poster art. Ogni anno lanciano un invito rivolto a chiunque si occupi di arte visiva per realizzare poster da attaccare nelle strade di Bologna. Il tema di quest’anno è stato: Fuck war!

Il collettivo bolognese ha deciso di dedicare questa edizione alla guerra, con un occhio di riguardo alla Striscia di Gaza. “Era inevitabile che il massacro che si sta compiendo in Palestina fosse al centro del lavoro di molte delle artiste che hanno partecipato alla call. Non è nemmeno una guerra: quello a cui stiamo assistendo è un genocidio che il sistema dell’informazione – soprattutto in Italia – si sta in larga parte rifiutando di indagare e denunciare. Abbiamo voluto tentare di aprire una breccia nella conversazione pubblica surreale che sentiamo attorno a noi su quello che sta succedendo in Palestina. Chiedere il cessate il fuoco non è una richiesta radicale come viene bollata: davanti a 40mila civili uccisi è il minimo a cui ci si possa appellare”.

L’invito ai partecipanti è stato quello di disertare l’immaginario bellico e sabotare la retorica che lo sostiene. Sono arrivati 1.120 poster da 41 diversi paesi nel mondo, 662 partecipanti che hanno lavorato con diverse tecniche e mezzi: fotografia, collage, illustrazione, tipografia, intelligenza artificiale e grafica.

I manifesti per le strade di Bologna rimandano a un immaginario non solo di pace ma anche di giustizia sociale, invitano ad azzerare la spesa militare per investire in istruzione e sanità, visioni di società senza armi e di stati senza eserciti.

La artiste di Cheap saranno a Ferrara il 4 ottobre, durante il festival di Internazionale, per presentare il loro ultimo libro Disobbedite con generosità (People).

Da il manifesto – Alias – A MILANO. Triennale, la mostra di Gae Aulenti, a cura di Giovanni Agosti. Il percorso si sviluppa «in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica» (Aulenti). Edifici negozi mostre musei, e il teatro con Luca Ronconi. E in un gioco di carte, gli «attori» della sua vita professionale e privata…

Come avrebbe immaginato Gae Aulenti una mostra dedicata al proprio percorso creativo? Possiamo dedurlo da qualche suo pensiero: «Il sistema espositivo non può essere un semplice supporto del materiale da rappresentare, ma deve partecipare ad esso, esserne coinvolto e insieme coinvolgere lo spettatore, con chiara volontà». Quanto al percorso, dovrebbe essere immaginato «in modo che l’esperienza spaziale, procedendo per amplificazioni e variazioni continue, si sviluppi con forme autonome successive, in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica». Si coglie immediatamente un’idea espositiva orientata al teatro; non a caso il visitatore, con un upgrade di status, diventa spettatore. Il coinvolgimento è reale se contempla però anche uno spaesamento: perdersi per ritrovarsi con un’aumentata consapevolezza. Di qui la necessità di cambi di ritmo che interrompano la linearità del percorso e stimolino uno sforzo di conoscenza e di critica.

La mostra che la Triennale di Milano ha dedicato a Gae Aulenti (fino al 12 gennaio) prende avvio da una sala che immediatamente inghiotte lo spettatore nel meccanismo della macchina espositiva: sotto un soffitto di onde di stoffa si procede circondati dalle sagome ritagliate nel legno delle donne picassiane che corrono felici verso il mare. Il prototipo è il piccolo capolavoro dipinto dal malagueño nel 1922 durante le vacanze sulle spiagge di Dinard. La sala ripropone l’allestimento, pensato insieme a Carlo Aymonino e Steno Paciello, per la sezione italiana alla Triennale milanese del 1964, che era valsa a Gae Aulenti il Gran premio internazionale assegnato dalla stessa Triennale. Nel gioco di squadra quell’idea così teatrale è come una firma: infatti quindici anni dopo Aulenti avrebbe voluto un dettaglio di quell’allestimento sulla copertina del catalogo della sua prima mostra monografica al PAC di Milano. Questo impatto trascinante fa subito i conti con il brusco cambio di passo dell’allestimento del negozio Olivetti di Buenos Aires del 1968: macchine da scrivere e oggetti di design disposti su gradoni, ricavati entro spicchi di piramide che precipitano in direzione dell’osservatore. Così siamo calati immediatamente in un territorio aulentiano, nel segno di una calcolata discontinuità.

Una mostra su Gae Aulenti non poteva essere pensata secondo i canoni di una mostra di architettura. Anche per questo la curatela è stata affidata a Giovanni Agosti, che, come lui stesso ammette nell’introduzione alla guida che accompagna i visitatori (in attesa del catalogo, la cui pubblicazione è prevista per l’autunno: l’una e l’altro per i tipi di Electa), non è né storico dell’architettura, né del design, né del teatro, «ma solo uno storico dell’arte che le ha voluto però molto bene». Hanno affiancato Agosti Nina Artioli, nipote dell’architetto e contitolare dello studio Tspoon che ha progettato l’allestimento, e Nina Bassoli, curatrice del settore Architettura della Triennale.

Il congegno drammaturgico del’esposizione prevede una sezione «tradizionale» in cui sono esposti materiali documentari (incuriosiscono i diari e alcune lettere) e disegni, tra i quali spiccano gli splendidi lucidi a china e retino con le piante e gli alzati di alcuni dei progetti più famosi di Aulenti. È un lungo corridoio perimetrale che si innesta nel tratto superstite della Galleria dei disegni, che lo stesso architetto aveva progettato per la Triennale del 1994. Dal corridoio si può gettare l’occhio sulla «macchina evocatoria», come la definisce Agosti, che in tredici spazi incastrati l’uno nell’altro, rispettando l’ordine cronologico, restituisce, con spezzoni ricostruiti in dimensioni reali, altrettante tappe fondamentali della storia di Gae Aulenti.

Per una felice combinazione il percorso aperto dalla corsa delle amazzoni picassiane si chiude con i due progetti per, rispettivamente, la stazione Museo della metropolitana di Napoli (2001) e l’«aeroportino» di Perugia (2012), che è l’ultimo lavoro: una chiusura che suona come un commiato, con il tocco struggente dato dall’apparire sui monitor degli arrivi e partenze dei disegni dell’amatissimo nipote Pietro, inseriti come lampi nell’elenco dei progetti, realizzati e non, di nonna Gae.

Tra l’incipit e l’exit della mostra, lo spettatore ha sperimentato continui spiazzamenti. Davanti a lui si è palesato uno spaccato del negozio Fiat di Zurigo (1973) con le automobili disposte spericolatamente su una parabolica, come se la strada avesse fatto irruzione nel negozio. Ha messo piede nel salotto di casa Brion a San Michele di Pagana (1973), dove il senso di morbidezza dato dalla moquette è chiamato a una resa dei conti con le complicazioni introdotte dai rialzi, dai gradini e soprattutto dal brusco presidio dei pilastri.

I pilastri sono un marchio di fabbrica, una cifra «psichica» più che stilistica che pervade, in modo trasversale, i lavori di Gae Aulenti: dominano con la loro caratura drammatica sulla scena

della celebre Elektra scaligera con la regia di Luca Ronconi (1994); stipano lo spazio aggraziato dell’aeroportino di Perugia; si fanno foresta urbana nel rifacimento di Piazza Cadorna a Milano (2000); diventano elementi attorno ai quali far ruotare lo spazio labirintico immaginato per la mostra dedicata a Christo alla Rotonda della Besana a Milano (1973). Il pilastro è una sorta di costante drammatica che vigila sulla scena architettonica mettendosi di traverso rispetto a ogni rischio di percezione accomodante. È il segno, volutamente invasivo, del pensiero e dell’energia critica che abita ogni progetto della Gae.

Per lei, scriveva Alberto Arbasino, c’è un’equivalenza di piani tra «riflessioni critiche, idee, muri e mattoni», tutti allo stesso modo «strumenti culturali e concreti». Un concetto chiarito nel meraviglioso incipit dello scritto dedicatole in Ritratti italiani (Adelphi): «Gae Aulenti dice, con calma: mai Decoration; soltanto Design. Spiega meglio, criticamente: Struttura non superficie. Cioè Forma, non epidermide, né rivestimento».

Questa visione emerge liberata in tutta la sua drasticità nei due allestimenti teatrali riproposti nella «macchina evocatoria» della mostra milanese: l’Elektra, dove la reggia di Micene era trasformata in un mattatoio insanguinato, e le Baccanti (1977), sempre per la regia di Ronconi, al Laboratorio di Progettazione di Prato. In mostra ci si addentra nello spazio claustrofobico dove davanti a due letti d’ospedale gli spettatori (solo 24) assistevano alla recita di una parte del secondo stasimo della tragedia. La traduzione era di Edoardo Sanguineti, che dopo lo spettacolo ammise di aver capito «per la prima volta cos’è una tragedia greca».

Quello con Ronconi è un rapporto chiave per Gae Aulenti. Si erano conosciuti nei camerini della Scala nel 1974, dopo la prima contestatissima dellaWalkiria con le scene di Pier Luigi Pizzi. Lei si era fatta avanti per esternare tutta la propria ammirazione, e da lì era scattata la voglia di iniziare a collaborare. Ronconi, semplicemente «Luca», non poteva mancare nel mazzo delle 88 carte (disegnate da Giovanna Buzzi) dei personaggi, pubblici e privati, che hanno popolato i mondi di Gae Aulenti. Un «Gioco», in vendita a 20 euro, che è parte integrante del congegno della mostra. Come scrive Agosti «gli spazi sono degli stati in luogo, quasi la realizzazione delle didascalie di un dramma, dove gli attori sono quelli figurati dalle carte da gioco».

Ma sulla scena di Gae Aulenti si poteva entrare anche per vie privilegiate aperte in forza di tenerezza, come testimonia la foto indimenticabile di lei che tiene per mano la nipotina Nina nel tumulto del cantiere del Musée d’Orsay.

Da il manifesto – Hebron Road è la strada che da sempre ha dato la possibilità di raggiungere Al Khalil (Hebron) da Gerusalemme. Se una volta questa via era continua, oggi è interrotta dall’enorme muro che Israele ha costruito dopo la seconda intifada nel 2002. Palazzi abbandonati a fianco di grattacieli nuovi danno vita a un contrasto che assume tratti surreali quando si inizia a scorgere l’immensa struttura di cemento che blocca l’orizzonte.

«Questa strada è un microcosmo, rappresenta la situazione generale in tutte le sue contraddizioni» dice Emily Jacir, direttrice del centro culturale e residenza artistica Dar Jacir. Il centro sorge proprio su questo grande viale a Betlemme. Una struttura costruita nel 1880 da un avo di Emily, che oggi ospita artisti da tutto il mondo e, soprattutto, da tutta la Palestina storica, rendendolo luogo di eredità radicate nella terra. «I palestinesi non hanno accesso ai musei di Gerusalemme dove è conservata la nostra storia», dice Emily, che aggiunge «la nostra comunità è frammentata e disseminata in tutto il mondo, la nostra narrazione è interrotta».

Dar Jacir è un luogo di salvaguardia del patrimonio culturale palestinese: «Quando le persone vedono le vecchie fotografie di questa strada, riconoscono il nostro passato. Noi veniamo da qua». «I nostri vicini sono i campi profughi di Aida e di Azza, qui lavoriamo molto con i bambini, offriamo corsi di musica, agricoltura, arte e danza – prosegue Emily – questo è uno spazio interdisciplinare e transgenerazionale dove le persone si riuniscono per vivere insieme, farsi domande e creare progetti».

Ad Al-Khalil, al capo opposto di questa lunga strada, è stato concepito il progetto Artist + Allies x Hebron (AAH), fondato dal fotografo sudafricano Adam Broomber e dall’attivista palestinese Issa Amro. Il collettivo artistico si propone di preservare l’arte e la natura agricola della Cisgiordania meridionale e di sostenere gli artisti palestinesi e internazionali impegnati nella resistenza culturale contro l’occupazione.

Dalla collaborazione tra Dar Jacir e AAH è nata l’esposizione South West Bank: Landworks, Collective Action and Sound a Palazzo Contarini Polignac, come evento collaterale alla 60a Biennale di Venezia. I territori palestinesi non hanno mai avuto uno spazio all’interno dei Giardini, pur essendo sempre rappresentati da un notevole numero di artisti. Quest’anno le proteste contro il genocidio a Gaza hanno portato alla chiusura del padiglione israeliano.

«Penso che sia molto importante che in un momento come questo la Palestina sia presente alla Biennale» sostiene Broomberg. La mostra South West Bank comprende sia le opere di artiste palestinesi, come Dima Srouji e Shaima Hamad, che quelle di internazionali. Tra queste il progetto fotografico “Anchor in the Landscape” di Adam Broomberg e Rafael González, che riflette sul ruolo totemico dell’ulivo nell’identità palestinese.

L’albero era già stato protagonista di un’altra opera firmata AAH, “H2 – Counter Surveillance”. Per sensibilizzare sull’uso pervasivo della video sorveglianza da parte dello Stato israeliano, gli artisti hanno inserito alcune telecamere di sorveglianza tra le fronde degli alberi, registrando giorno e notte le colonie israeliane. I filmati sono stati proiettati in tempo reale in musei di tutto il mondo, capovolgendo la prospettiva di ipervigilanza militare di Israele.

Adam Broomberg, di famiglia ebraica di origini lituane, è nato e cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid, in cui riconosce somiglianze e differenze con l’occupazione nei territori palestinesi. Tra gli obiettivi del collettivo AAH c’è anche quello di portare la comunità internazionale in Cisgiordania, «perché si può parlare e parlare, ma una volta lì, ci vogliono cinque minuti per capire cosa significano discriminazione e apartheid», spiega Broomberg. Il fotografo è stato definito antisemita e ha perso la sua posizione di professore all’università di Amburgo per le sue dichiarazioni a sostegno della Palestina. «Il lavoro culturale come questo funziona, perché altrimenti non vorrebbero fermarci», sostiene Broomberg: «Penso che l’arte sia un modo sottile di rendere le persone consapevoli di ciò che sta accadendo».

A due passi dall’enorme struttura divisoria di cemento armato, Dar Jacir sembra un’oasi in mezzo al caos. Ulivi, diversi tipi di piante e grandi alberi che «nascondono il muro ai nostri occhi per qualche istante», dice Bisho, un giovane artista di Betlemme in residenza. Il ragazzo palestinese, che si occupa di riciclo di tessuti e tinture naturali, racconta di aver trovato un luogo di pace ma anche di incontro, dove gli artisti palestinesi scambiano idee e visioni con quelli internazionali. Bisho crede «nella condivisione delle esperienze. Per noi è difficile spostarsi e quindi siamo molto aperti a scambi con gli stranieri, è una possibilità di viaggiare senza muoversi».

Da la Repubblica – Robinson – Due grandi mostre, aperte alla Galleria Borghese di Roma e al Museo Novecento di Firenze, celebrano finalmente in Italia l’artista vissuta quasi un secolo che ha definitivamente liberato la creatività dal monopolio maschile. E che oggi continua a ispirare

Quanti interrogativi affiorano dal suo ghigno secco e da quel reticolo di rughe che è una matassa di ricordi emersi in superficie. Quanta ironia possiede ogni immagine della sua persona. E di quanta capacità di filtrare, modellare, spezzettare per poi rivisitare le cose del mondo, soffrendo ma anche giocando, si nutre ogni sua opera. Louise Bourgeois è un’artista sovraccarica di rinvii simbolici che esprime dimensioni spesso bipolari per raccontarci l’esistenza con le sue contraddizioni, i suoi traumi, le sue oscenità e i suoi conflitti, addensandola in una sfera traversata dalla psicoanalisi e dal mito. È una portatrice di affondi nella violenza relazionale e un’artefice di dilatazioni barocche degli sconvolgimenti del Novecento. È pure la fattucchiera che in un celebre ritratto di Robert Mapplethorpe reca sottobraccio un fallo enorme. Bellicoso? O difensivo come una clava? Si tratta di una sua scultura, Fillette, cioè ragazzina: «Per fare la foto avevo portato con me una piccola Louise», scrive lei. «Quell’opera mi rassicurava». Brandisci il pene, prima che lui catturi te.

Ora due grandi mostre in Italia, a Roma e a Firenze, celebrano il genio di Louise, nata a Parigi nel 1911 e morta a New York nel 2010. Visse in Francia fino al 1938 e poi in America, viaggiando nel frattempo in Europa e in Italia, dove passò periodi a Pietrasanta e a Carrara, nei laboratori del marmo. L’attuale riconoscimento italiano, forse tardivo vista la mole del personaggio e dei suoi influssi, esalta il segno di un’inventrice prolifica e autonoma, distante dai minimalismi, dai concettualismi e dagli espressionismi astratti del secolo scorso. Alla Galleria Borghese s’apre Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria, esposizione votata alla sua prassi scultorea, mentre il Museo Novecento presenta Louise Bourgeois in Florence, progetto sdoppiato col Museo degli Innocenti, sede di Cell XVIII (Portrait), cioè di una delle famose “Celle” di Louise. Questa categoria di lavori anni Novanta consiste in una trafila di paesaggi ingabbiati che contengono emblemi e relitti: specchi, ghigliottine, sedie fluttuanti, sacchi di stoffa, pelli di coniglio, letti, fantocci, ex voto… Illusioni carcerarie o monastiche. Ricettacoli di proliferazioni dell’inconscio. Ma anche sviluppi del tema della donna-casa che negli anni Quaranta era al centro della serie di pitture Femme-Maison, dove i corpi metà donna e metà edifici scavavano nell’identità femminile soffocata dalle prigioni domestiche.

Aveva genitori pesanti, Louise, e li portò sulle spalle per tutta la vita. La sua arte fu una pluridecennale seduta psicoanalitica per affrancarsi da loro, o ridisegnarli a modo proprio. Qualcosa di universale, nella rappresentazione di quegli spettri, oltrepassa di molto l’autobiografia parlandoci di spirito e sesso, vita e morte, anima e corpo, misoginia e fallocrazia. Sua madre era Joséphine Fauriaux, suo padre era Louis Bourgeois. Restauravano arazzi. Lui era dispotico, umiliante e fanatico dei bordelli. Lei teneva insieme la famiglia distogliendo lo sguardo dai tradimenti del marito. Louise impara la cura delle stoffe, la pratica dei colori, la ricomposizione dei pezzi mancanti nei corpi. Inizia studi di matematica alla Sorbonne e li lascia per l’École des Beaux-Arts. Poi trasmigra negli atelier di artisti come Ferdinand Léger, che la spinge verso la scultura. Farà anche installazioni, narrazioni oggettistiche, teatrini onirici, gouaches (scarlatte e colme di senso d’umido, evocative di fluidi corporei) e iperbolici ragni materni. Userà il gesso, il cemento, il lattice, il marmo, il bronzo, il legno e la stoffa, corteggiata con l’antica arma infantile dell’ago. Non si dà confini: indaga materiali e disposizioni delle forme in spazi minimi e massimi, da esploratrice del cosmo. Sposa l’americano Robert Goldwater, che insegna storia dell’arte, e parte con lui per gli Stati Uniti. A New York trova i surrealisti Marcel Duchamp e André Breton, maschi indifferenti all’arte delle donne. «Erano interessati alle donne ricche, questo sì», scrive Louise, «ed erano interessati soprattutto a sé stessi». Lei è rimasta ancorata ai voli azzurri di Joan Miró, scoperto negli anni parigini e descritto come «un magnifico shock estetico». A New York la memoria è il suo racconto: nel ’50 plasma figure totemiche, diciassette sculture lignee che richiamano le persone lasciate in Francia. «Mi mancavano disperatamente».

In tempi successivi privilegia i falli, che però non sono mai soltanto falli. Sono fiabe, sfide, gusci misterici. Escrescenze microbiologiche e aggregazioni collinari. Vedi gli addensamenti di cazzetti in marmo nero dell’opera Colonnata. A volte paiono fanciulline oblunghe e pettorute (Fillette); a volte si miscelano nel bronzo di una forma organica bifronte che mima testicoli e fessure, o insegue mammelle amalgamabili coi genitali maschili (Janus Fleuri). Opposizione, scissione, ansia di risolvere il dualismo.

Risale al ’74 The Destruction of the Father, ritratto di famiglia situato in un antro pieno di protuberanze viscerali. «È l’orrida cena capeggiata dal padre che si siede e gode», scrive. «E gli altri, la madre e i figli? Stanno in silenzio. La madre cerca di soddisfare il tiranno, suo marito». Tramite frammenti di carne macellata allestisce il banchetto cannibalesco. È una vendetta rituale. «Più mio padre si pavoneggiava, più ci sentivamo insignificanti», spiega. «Improvvisamente si creava una tensione terribile e noi lo afferravamo, lo trascinavamo sul tavolo e lo smembravamo. Fantasie, ma talvolta la fantasia è vissuto». Nell’estro di Bourgeois si stagliano scenari da tragedia greca che ispireranno non poco la Abramović, ma non soltanto. Un’ondata femminista di fine Novecento (Kiki Smith, Rona Pondick e altre) prese Louise come punto di riferimento per svelare la corporeità, anche nei tabù e nell’enfasi del rapporto madre-figlio. L’ultima, ossessiva icona di Bourgeois sono i ragni, col loro abbraccio dominatore e protettivo. Di proporzioni abnormi, sorgono in diverse città del mondo. Il ragno è la madre. È intelligenza procreativa. Ma è anche tessitura di una tela, costruzione dell’arte, emanazione della fillette Louise che ammanta con una cupola le nostre paure.

Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria è alla Galleria Borghese di Roma fino al 15 settembre, a cura di Cloé Perrone, Geraldine Léardi e Philip Larratt-Smith in collaborazione con The Easton Foundation e l’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici. “Esistere come donna” è il programma di incontri e proiezioni a cura di Electa e Fondamenta che la accompagna: galleriaborghese.beniculturali.it Louise Bourgeois in Florence Do Not Abandon Me è al Museo Novecento di Firenze fino al 20 ottobre, a cura di Philip Larratt-Smith e Sergio Risaliti: Cell XVIII (Portrait) a cura di Philip Larratt-Smith con Arabella Natalini e Stefania Rispoli è nelle stesse date al Museo degli Innocenti di Firenze.

Da la Repubblica – Robinson – «Mi diceva: lavora in cucina, in bagno, in camera da letto, ovunque. E mettitelo bene in testa: hai un sacco di tempo davanti a te». Nei ricordi di Tracey Emin, Louise Bourgeois è ancora lì che la sprona, la rimprovera, le dà consigli, condividendo con lei il mistero dell’arte. L’ex ragazza terribile della scena inglese, appena nominata Dame Commander dell’Impero britannico dal re Carlo III, ha vissuto con la madre di tutte le artiste contemporanee un curioso sodalizio. Lontane quasi mezzo secolo per l’anagrafe, firmarono insieme il progetto Do Not Abandon Me, fondendo il loro stile e i colori in acquerelli unici. Tracey ha poi dedicato all’amica un documentario della Bbc e oggi, mentre è alle prese con una mostra a Bruxelles, prepara quella del 2025 al fiorentino Palazzo Strozzi e revisiona una monografia in uscita da Phaidon, si abbandona volentieri al racconto di una Bourgeois vista da molto vicino.

Dame Tracey Emin, quando si è imbattuta per la prima volta nell’arte di Louise Bourgeois?

«Nel 1996: il curatore Stuart Morgan fu il primo a parlarmene. Mi invitò a vedere la mostra della “sua amica Louise” alla Tate, dicendomi che sicuramente l’avrei apprezzata. E così mi ritrovai davanti ad alcune acqueforti. Erano datate anni Quaranta e iniziai a chiedermi perché mai. Guardando quelle opere, ero convinta che Bourgeois avesse la mia stessa età. Non ne sapevo niente, non avevo mai letto nulla di lei. Solo più tardi avrei scoperto che era molto, molto più anziana. E diventammo amiche».

Dove vi incontraste?

«A casa sua a New York, nel 2007. Riuscii ad avere un appuntamento. La cosa assurda fu che la porta era aperta. Entrai e chiamai. L’assistente, Jerry Gorovoy, scese giù dalle scale e mi chiese: come sei entrata? E io: la porta era aperta. E lui: impossibile. Forse era stata Louise stessa ad aprirla. Non lo scoprimmo mai. Lei, già ultranovantenne, era nel suo studio e ogni cosa in quella stanza appariva grigia e monotona, eccetto il pavimento che splendeva del magenta dei suoi disegni. Brillava intensamente. Louise era seduta al tavolo da lavoro. La guardavo e ricordo di essermi resa conto che aveva un seno enorme, gigantesco, e che non ero mai stata nella stessa stanza con una persona così anziana, la più anziana con cui avessi mai parlato. Fu tutto strano e intenso: andammo subito d’accordo».

Bourgeois le chiese di collaborare con lei. Fu una richiesta unica. Non era mai capitato con nessuno.

«Sì, accadde un anno dopo. Una sorpresa enorme per me. Ero abbastanza nervosa per questo. Lei iniziò a dirmi: fa’ quello vuoi, qualsiasi cosa, incasina tutto. Fa’ quello che vuoi. Più lo diceva e più diventavo nervosa. Alla fine, mi ci sono voluti due anni prima che realizzassi la mia parte, aggiungendo il mio tratto alle sue invenzioni. Ho fatto tutto in un solo weekend, ho arrotolato i disegni e glieli ho rispediti. Lei era a letto quando le sono stati recapitati. Jerry glieli srotolava e, ogni volta che Louise ne vedeva uno, esultava. Li ha apprezzati tantissimo. Compresi i peni, gli uomini nudi. Fu molto sorpresa. Voleva che effettivamente il risultato finale della nostra collaborazione risultasse come di una sola mano. L’ego non era contemplato».

Bourgeois iniziò a lavorare in un mondo dell’arte ancora tutto maschile: è stata una pioniera.

«La sua rivoluzione fu di realizzare progetti di qualsiasi dimensione. Dai piccoli disegni alle sculture giganti. Nulla era impossibile per lei. Non si poteva dirle di no. È stata la prima donna artista a ragionare così. Faceva esattamente ciò che voleva, anche se, certo, si muoveva in un mondo

ancora tutto maschile. Eppure manteneva una sua femminilità nei lavori. Nessun uomo avrebbe potuto fare quello che faceva Louise: qualcosa di ultra-femminile e, talvolta, enorme nelle proporzioni. Ha rotto una marea di barriere per noi. È stata un modello eccezionale. Il suo vero insegnamento era dire: fallo e basta».

Che cosa è cambiato da allora nel mondo dell’arte?

«Fino a una decina d’anni fa, il pubblico riusciva a stento a fare il nome di dieci artiste. Ora ci sono tante artiste e artisti black, c’è più diversità. Quando Louise era giovane, c’erano donne nel mondo dell’arte, ma erano più figure legate alle istituzioni o al mercato, penso a Peggy Guggenheim. Artiste come Joan Mitchell hanno impiegato tanto tempo per essere apprezzate. Bourgeois stessa ha dovuto superare la sessantina per essere riconosciuta. E pensare che adesso sono io ad avere sessant’anni! La mia generazione ha vissuto un sacco di cambiamenti».

Louise si sentì più libera di creare dopo la morte di suo marito, Robert Goldwater, nel 1973.

«Decisamente. Trasformò la casa di New York nel suo studio. Ogni singola parte. Amava suo marito, ma come artista credo si sentisse un po’ frenata, durante il matrimonio. Ricordiamoci che era anche madre. Aveva un mucchio di distrazioni domestiche».

Una volta, lei, Tracy, ha detto che per continuare a essere artista non avrebbe potuto diventare madre.

«È vero. Non sarei stata in grado di conciliare entrambe le cose. Alcune donne ci riescono. Ma per me sarebbe risultato impossibile. È il mio cuore che mi guida, che mi sveglia al mattino. Sono i sentimenti. Per questo, se avessi avuto un bambino, non sarei riuscita a separarmene. E non avrei potuto fare anche l’artista. Avrei fatto male una delle due cose, sicuramente. La mia energia funziona così. Il mio tempo è questo. Ma sono una madre di gatti, e va bene così».

Bourgeois ha definito la sua idea di maternità con il ragno: la serie di aracnidi giganti ribattezzati “Maman” che sono nei musei di tutto mondo.

«Per lei il ragno è l’essere femminile che depone le uova, ha più gambe, è in grado di essere qualsiasi cosa, apparentemente fragile ma forte. I ragni che Louise realizza su ampia scala, poi, sono come dei rifugi. Ci si può riparare sotto e sentirsi sicuri. E questa idea di maternità così concreta è geniale. La sua Maman è una creatura che protegge».

Ricorda l’ultima volta che vi siete incontrate?

«Era a New York, un paio di mesi prima che morisse, nel 2010. Guardammo insieme un libro di opere giovanili e parlammo un sacco. Mi diceva sempre: (ne imita la voce) tu hai tempo, tu hai tempo. Era una cosa che mi ripeteva spesso perché effettivamente io non me ne rendevo conto. Non capivo quanto tempo avessi rispetto a Louise. E quanto ancora ne avessi a disposizione per cambiare completamente la mia vita. Louise cambiò la sua a sessantaquattro anni. Io ancora non sono arrivata a quell’età».

L’ha mai sognata in questi anni?

«Sì, uno strano sogno. L’ho vista su una diga, sembrava di essere a Venezia. Louise era in piedi davanti all’acqua, che mi aspettava».

Da Facebook – Dal 12 al 22 giugno 2024 presso il Museo Civico di Foggia sono esposte le cartoline della mostra di mail art Trame di vita Trame di pace, organizzata dalla Merlettaia di Foggia insieme alla rete delle Città Vicine e all’Atelier di artiste dell’Alveare di Lecce. Dopo Foggia la mostra sarà itinerante tra luoghi delle Città Vicine.

Inevitabile la scelta del tema di quest’anno in un periodo buio dell’umanità, ma nello stesso tempo illuminato da sprazzi di luce e di speranza per le azioni di tante donne e uomini in ogni parte del mondo tese al cambio di civiltà. La guerra non ha un volto di donna è il titolo di un libro di Svetlana Aleksievič che dice: «Le donne sono legate all’atto di nascita, alla vita». Papa Francesco invita a guardare alle donne per trovare la pace e uscire dalla spirale della violenza e dell’odio. Purtroppo c’è anche qualche segnale femminile a sposare la logica maschile riguardo alla guerra a cui le donne sono rimaste storicamente estranee.

L’arte è lo spazio in cui tutte le differenze, a partire da quella sessuale, possono incontrarsi e confrontarsi senza i conflitti distruttivi che stanno appestando questa nostra epoca, portandovi bellezza e fiducia.

Nello scenario della società contemporanea, l’arte assume un rilievo fondamentale come strumento critico e politico. In particolare negli ultimi anni, è cresciuto l’impegno di artisti/e sulle questioni che riguardano l’attualità attraverso le loro opere, facilitato dall’uso di strumenti digitali, dei social media e delle piattaforme online, che hanno consentito loro di raggiungere un pubblico più ampio e di diffondere in modo rapido ed efficace i loro messaggi. Anche le città sono investite da nuove forme d’arte che mirano all’occupazione dello spazio pubblico e diventano teatro di nuove sperimentazioni culturali, in cui artisti/e agiscono su territori non deputati generando spazi di socialità, occasioni di incontri, attraverso forme d’arte e performance agite anche in modo illegale.

In particolare la pratica della mail art, arte postale, con la sua lunga tradizione di carattere politico e di resistenza a ogni forma di potere, è particolarmente adatta a veicolare pensieri, parole, messaggi che hanno stretti legami con l’attualità e profondi significati sociali e politici. È, infatti, lontana dai condizionamenti, dalle mode e dalle trappole del cosiddetto sistema dell’arte ed è basata sulla comunicazione creativa. «La Mail Art – dice il mailartista Ruggero Maggi – non si fa per soldi, non si fa per la fama… si fa… si vive… è emozione».

Ma è anche un atto politico, come ogni azione che nasce dal desiderio di aprirsi all’altro e ad altro, dalla necessità di creare relazioni, in questo caso tra mittente, destinatario, spettatore. La comunicazione mailartistica si avvale di reti che coprono l’intero pianeta. Non c’è paese, infatti, in cui non ci siano artisti che si servono di questa pratica per comunicare e scambiarsi idee, anche a costo di persecuzioni, come nei paesi a regime totalitario.

Nelle cartoline di Trame di vita trame di pace, sia nelle immagini che nelle poesie ci sono manifestazioni di dolore, quasi incredulità per quello che sta accadendo, espresse da simboli di guerra, da colori cupi o dal rosso del sangue versato, ma anche e soprattutto di speranza che ci ricorda che in tante e tanti stanno costruendo una nuova civiltà. Certo assistiamo a una brusca e drammatica interruzione di quel percorso, ma il male che ci circonda non ci deve far dimenticare quante /i ovunque operano per la pace, cambiando il proprio stile di vita, prendendosi cura gli uni degli altri e della natura con piccoli gesti quotidiani, mattoncini lego, per costruire la grande città di donne, uomini, esseri viventi e inanimati che avranno finalmente sconfitto l’orrore. Frequenti i simboli che rimandano alla dimensione materna, alla genealogia femminile e al mondo dell’infanzia, su cui si appuntano speranze e ragioni per bandire la guerra.

La novità della mail art di quest’anno è che vi hanno partecipato molte bambine e bambini, alcune/i italiani, altri, guidati dalla loro maestra, di una scuola d’infanzia tedesca. Vi partecipa anche una bambina dall’Islanda.

Colombe, cuoricini, sole, farfalle, colori accesi esprimono tenere e fresche emozioni; la parolaFrieden (pace), scritta in caratteri grandi, a colori, o con collage, che spesso campeggia sopra tutto lo spazio, è come un’invocazione, un grido rivolto agli adulti di fermarsi, di arrestare l’orrore, un grido che i bambini di Gaza, dell’Ucraina, di tante parti dell’Africa e del pianeta non riescono più neanche a sussurrare. Mi hanno colpito alcuni disegni che rivelano dolore e paura: una mano le cui dita si trasformano in un coccodrillo vorace e un monte con tre croci. In guerra Cristo è crocifisso ogni volta che qualcuno muore e si fa del male a un bambino.

Commovente la cartolina di una bambina che disegna sagome di adulti tenuti per mano e guidati da bambini perché, come dice Susanna, gli adulti dovrebbero ascoltare i piccoli perché «nel pensiero di noi bambini la guerra non esiste». Kría scrive: «La pace è piena d’amore, invece la guerra di odio e dolore. Siate gentili e non usate i fucili».

Partecipanti:

Michelina Boccia, Maria Bonaduce, Rossana Bucci, Federica Cananà, Giorgia Cananà, Monica Carbosiero, Rosalba Casmiro, Marilena Cataldini, Daniela Cecere, Ornella Cicuto, Alberta Crescentini, Rosy Daniello, Michela Del Tinto, Wanda Delli Carri, Gianni De Maso, Vittoria Di Candia, Michelina Di Conza, Anna Di Salvo, Anna Fiore, Antonio Fortarezza , Donatella Franchi, Carmen Fuiano, Viola Gesmundo, Donata Glori, Nando Granito, Clelia Iuliani, Francesca Lamberti, Antonietta Lelario, Nicola Liberatore, Oronzo Liuzzi, Adele Longo, Rosanna Macrillò, Nelli Maffia, Ruggero Maggi, Mariangela Magnelli, Madia Daniela Massagli, Pina Massarelli, Carmen Matteo, Giovanni Morgese, Clelia Mori, Pina Nuzzo, Vincenzo Patti, Stefania Piccirilli, Maria Paola Quattrone, Cornelia Rosiello, Enzo Ruggiero, Concetta Russo, Adriana Sbrogiò, Rosa Serra, Emilia Stefania, Enrico Straccini. Emilia Telese, Stella Zaltieri.

Bambine/i: Susanna, Francesco, Fabrizia, Kría. Scuola dell’infanzia di Riesenzwerge di Radebeul a Dresda: Johanna, Jonas,Zoey, Lina, Leonie, Ludovica, Ferdinand, Elliot, Gabriel, Philippa, Juna.

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Francesca Woodman da Angel series, Roma 1977

Da il manifesto, Alias – Chi ama e ha amato il lavoro di Francesca Woodman sa che quella ricerca pulsa intorno a una disparizione di sé: paradossalmente proprio nel suo autoritrarsi ossessivamente attraverso il mezzo fotografico l’artista pareva quasi sempre eludere quest’ultimo, e ritrarsi dal suo mortifero incantesimo – peculiarità della fotografia, il legame fotografia-morte, così accoratamente individuato da Roland Barthes nella Chambre claire. Gran parte del fascino enigmatico esercitato dal lavoro della Woodman risiede appunto in una sorta di continua e baluginante oscillazione tra offuscamento ed evidenza, che scandisce quelle sue fotografie in fondo alle quali era usa, mostrandosi, nascondersi, mai rivelarsi, pur dandosi, allo stesso modo in cui il corpo suo si dissimulava nell’incastro tra gli oggetti e gli ambienti.

Nonostante la tentazione di connettere intimamente arte e vita della Woodman – chi non ha mai anche solo sospettato, a una lettura postuma, che dietro quelle messe in scena da cui tracimavano sensazioni di perdita, di desiderio, di costrizione del corpo, di un camuffarsi esistenziale nel mondo, non si celassero sinistri presagi? –, va ribadito che l’artista tenne sempre separate le proprie nature identitarie: quasi mai appare come persona nei suoi autoritratti – sempre velata, mascherata, la testa girata, nascosta, esclusa dalla fotografia, fuori fuoco –, dove appare invece come modella di se stessa, la modella più complice e affidabile che potesse trovare per comprendere ed eseguire le proprie istruzioni di artista, e questo è stato letto, per esempio da Rosalind Krauss in anni recenti, in relazione a un metodo operativo che voleva essere formalistico, non interessato alla narratività, né tanto meno espressionistico.

È la disparizione che strega letteralmente Bertrand Schefer, autore del volumetto Francesca Woodman ora tradotto da Johan & Levi (pp. 68, euro 14,00). Il filosofo e romanziere francese e l’artista americana si incontrano idealmente nel 1999, quando lei era già morta da diciotto anni, toltasi la vita all’età di ventuno, e lui, già traduttore in francese di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, si trovava alla Fondation Cartier pour l’art contemporain per iniziare un lavoro nel settore editoriale. Gli mostrarono allora, a scopo esemplificativo, il catalogo di una mostra sulla Woodman da loro appena pubblicato. Schefer ne rimase estremamente colpito, forse inizialmente disturbato, ma fu l’innesco di un’ossessione dai risvolti personali che, anni dopo, verrà attizzata e intensificata dalla visione di alcune fotografie amatoriali scattate alla Woodman da un compagno di corso durante i tempi della Rhode Island School of Design.

Schefer inizia proprio da tali immagini un’indagine dai toni a tratti intimi, alla ricerca di quella Woodman più autentica – la ragazza americana adolescente, che cercava di affermarsi come artista, senza sacrificare la sua genialità alla costruzione della carriera, opportunisticamente, e per questo forse rimasta ai margini –, che in anni e anni di rimuginio sul suo lavoro era rimasta per Schefer, per noi tutti, una figura necessariamente evanescente e indeterminabile. Per quanto possa sembrare opinabile questa posizione dello scrittore, che appare ribaltare il senso di lettura della vita e dell’opera della Woodman, spostando l’interesse del proprio racconto su quell’aspetto estremamente privato che lei aveva teso a obliterare, il suo libro nasce da qui.

Rimarrà quindi profondamente deluso il lettore che cerchi un’esaustiva biografia dell’artista americana, o una dotta sistematizzazione storica e critica, poiché il libro di Schefer si propone piuttosto come un racconto letterario e affettivo, a tratti poetico, forse cinematografico nel ritmo, che vuole essere «une sorte de dialogue entre elle et moi», e che risuona dell’urgenza di un atto d’amore – un amore impossibile, come quelli tra uomini e fantasmi.

Il libro ben si inserisce in prospettiva con le altre produzioni di Schefer, dotto traduttore dall’italiano, sì, eppure anche autore di riflessioni ellittiche sospese tra racconto autobiografico, saggio e poesia in prosa, in cui entra spesso e volentieri la riflessione sul mezzo fotografico, e che prendono la forma ora di intime meditazioni sul ricordo di una persona scomparsa, amata e mai nominata (Cérémonie, 2012), ora di un processo di ricomposizione della figura della madre, e della propria esistenza, innescato proprio da una fotografia vista da bambino, e ricordata (La photo au-dessus du lit, 2014), ora di un ennesimo svolgimento sul tema della relazione tra immagini e parola, teso a definire il filmare la disparizione come elemento motore del cinema (Disparitions, 2020).

La Woodman pure, d’altra parte, mostrava interesse per il rapporto fotografia-scrittura. Alcuni suoi scatti erano corredati di brevi frasi, per non parlare dei quaderni fotografici, sulla scia del misterioso Nadja di André Breton, libro che il vate del surrealismo aveva composto con testo e immagini associati, a restituire il ricordo e l’essenza di una donna amata, svanita, e di se stesso insieme: «Vorrei che le parole avessero con le mie immagini lo stesso rapporto che le fotografie hanno con il testo in Nadja di André Breton – enunciava la Woodman in una dichiarazione riportata da Roberta Valtorta –. Egli coglie tutte le illusioni e i dettagli enigmatici di alcune istantanee abbastanza ordinarie e ne elabora delle storie. Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza». E Nadja aleggia anche tra i convitati di pietra, assenti eppure mai eludibili, che infestano la poetica di Schefer: «Chi sono io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio, in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto», attaccava del resto Breton il suo libro. Va insieme al Barthes che cerca in fondo alle fotografie la madre scomparsa.

«You cannot see me from where I look at myself», scriveva Francesca sul suo diario, frase citata nel libro e associata al primo, potentissimo quanto inconsapevole, autoscatto realizzato a tredici anni con la Yashica appena regalatale: si direbbe quasi che Schefer l’abbia presa come una sfida personale.