di Gabriella Galzio


Lo sguardo alto sul divenire delle civiltà è stato coltivato a lungo dalla studiosa tedesca delle civiltà, nonché filosofa teoretica, Heide Göttner Abendroth che nella seconda metà del ’900 ha fondato i Moderni Studi Matriarcali, portando alla luce intere civiltà, sepolte sotto la dicitura “Preistoria”, e restituendole a pieno titolo alla Storia, che dunque si amplia del suo tratto paleolitico e neolitico rimosso. Queste civiltà matriarcali rimosse sono di natura sostanzialmente diversa dalla nostra che definiamo universale o classica, ma che in realtà è anch’essa relativa e, con la definizione di “patriarcale”, storicamente databile a partire dal 2600 a.e.c (almeno per quanto riguarda l’area mesopotamica e mediterranea). Finalmente, gli studi poderosi di questa ricercatrice giungono in Italia grazie alle Edizioni Mimesis (2023) con il titolo Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa (traduzione di Luisa Vicinelli e Nicoletta Cocchi). L’opera è di tale dirompente innovatività sul piano storiografico da costituire una pietra miliare nel panorama degli studi storici e da meritare di essere adottata come libro di testo nelle scuole superiori e nelle università. L’approccio scientifico, il rigore logico e metodologico che attraversa tutte le 583 pagine del libro ne fanno, infatti, un solido e affidabile strumento didattico. L’autrice stessa, del resto, ha fondato nel 1986 l’International Academy HAGIA che dirige ancora oggi. Il libro, peraltro, scritto con stile limpido, si presta anche alla divulgazione presso un più ampio pubblico e ci apre a un viaggio nella nostra storia più antica alla ricerca di soluzioni per il presente, per costruire – con le parole della teologa Mary Daly – un “futuro arcaico”. Le società matriarcali (“In principio le madri”), infatti, estranee a ogni idea di dominio, erano impostate su valori materni, sul rispetto della diversità e sulla reciprocità, erano società pacifiche ed egualitarie tra i generi e le generazioni.

Va detto che, per ricostruire le fattezze di queste società matriarcali, la studiosa ha condotto la sua quarantennale ricerca muovendosi continuamente tra due piani. Su un piano sincronico antropologico, andando alla ricerca di tutte le società matriarcali sopravvissute, ancora oggi sparse nel mondo (paradigmatico il caso dei Moso della Cina), laddove il frutto di questo studio ampio e diversificato è stato già pubblicato in Italia per i tipi della Venexia con il titolo Le società matriacali. Studi sulle culture indigene del mondo. Su un piano diacronico storico la ricercatrice ha ricostruito la lunga storia delle civiltà matriarcali dal paleolitico all’età del ferro nell’Asia occidentale e in Europa, confluita in quest’ultima recentissima sua opera – Storia delle società matriarcali e nascita del patriarcato – e che costituisce quanto di più all’avanguardia vi sia in questo campo di ricerche. Ora, ciò che risulta prezioso da questi studi approfonditi lungo il duplice asse sincronico diacronico, è che Göttner-Abendroth ha potuto finalmente individuare le caratteristiche fondamentali peculiari delle civiltà matriarcali pur nelle loro molteplici coniugazioni nel tempo e nello spazio.

Economicamente la società matriarcale è una società di compensazione o società in equilibrio (Ausgleichsgesellschaft) in cui le donne amministrano i beni necessari alla vita come terra, case e generi alimentari e attraverso la distribuzione hanno continuamente cura a che vi sia un equilibrio economico. Questa economia non è di accumulazione, bensì di distribuzione, è nello spirito una “economia del dono”; socialmente poggia su strutture di parentela (Verwandtschaftsgesellschaft), entità claniche o tribali caratterizzate da matrilinearità (parentela in linea materna) e matrilocalità (residenza presso la madre), dove vige uguale valore dei generi (egalitarismo di genere); politicamente è una società basata sul consenso, laddove le case dei clan costituiscono la base reale della politica, con una delegazione di uomini inviati come portavoce delle loro tribù presso assemblee più grandi all’esterno; costoro hanno qui la propria sfera d’azione e dignità con vincolo di mandato. Nella maggior parte dei casi ciò sortisce non solo una società egalitaria tra i generi, ma una società egalitaria nel suo complesso; culturalmente poggia su una cultura di tipo sacrale che possiede sistemi religiosi e di visione del mondo complessi, laddove fondamentale nella concezione della vita sulla terra e del cosmo è la fede nella rinascita. Nelle culture matriarcali, infatti, la morte è vissuta come parte di un flusso continuo metamorfico di morte-rinascita e dunque connessa alla vita. Non esistono dei maschili astratti e staccati dalla realtà, ma è una divinità femminile, nelle sue molte apparizioni, a permeare l’immagine del mondo; divinità che viene intesa come immanente e operante nel mondo.

«Oggi – scrive la studiosa nell’introduzione alla sua opera storica – le forme di repressione e di sfruttamento del patriarcato non colpiscono soltanto le donne e i bambini, ma, seppur in modo diverso, anche la maggior parte degli uomini. Molti movimenti internazionali che lottano per un cambiamento radicale e per una società migliore ne contano tanti tra le loro fila. […] La nostra ricerca fornisce allo stesso tempo un importante sostegno alle lotte dei popoli indigeni che rivendicano la propria identità culturale, opponendo una strenua resistenza al colonialismo insito nel patriarcato». Candidata per ben due volte al Premio Nobel per la Pace, Heide Göttner-Abendroth ci consegna con questo trattato storico le prove che la guerra non è connaturata all’essere umano, quanto piuttosto è un prodotto storico, affacciatosi con la fase patriarcale dell’umanità, insieme agli stati e ai loro apparati di coercizione. Che dunque come è cominciata, può anche finire.

Alla luce di questo ampliato quadro storiografico, possiamo anche rintracciare la matrice prima dello scontro brutale tra Israele e Hamas che può essere fatta risalire alla lontanissima Età del bronzo, epoca delle ondate di patriarcalizzazione indoeuropee (già teorizzate da Marija Gimbutas) succedutesi nel Levante, rendendo possibile rintracciare le radici matriarcali dei palestinesi che affondano nella Terra di Canaan (tra Palestina, Libano e Siria), dal momento che i cananei immigrati, pur essendo patrilineari, si erano mescolati alle popolazioni locali matrilineari adottando gran parte della loro cultura. Le popolazioni matriarcali del Levante, situate tra Palestina, Libano e Siria, riuscirono dunque ancora ad assorbire una prima ondata di immigrazione cananea patrilineare, analogamente a quanto accadde in seguito nel Mediterraneo, dove i minoici matriarcali di Creta assorbirono la prima ondata patriarcale achea, dando vita alla cultura minoico-micenea. Ma, come a Creta giunse una seconda e più virulenta ondata achea, l’invasione dorica, così nel Lavante, «il secondo spartiacque si ebbe con l’invasione della Terra di Canaan da parte degli Israeliti. Anche loro erano pastori semiti nomadi, giunti in diverse ondate dai deserti meridionali (metà del II millennio). Aggressivi come gli Accadi di Sumer, si stabilirono nella parte meridionale di Canaan (Antica Palestina)» (p. 419). Guidati da Mosè al fine di raggiungere la “terra promessa”, dall’Egitto portarono con sé una forma di religione monoteistica che imposero alle popolazioni autoctone. «Le donne, in particolare, oppresse e totalmente prive di diritti, erano profondamente devote alla dea Asherah e al culto di Anat e Ba’al. Zelanti verso il loro unico e solo dio, i profeti consideravano “meretricio” il comportamento delle donne e intrapresero contro di loro una lunga e aspra lotta» (p. 420).

Oggi, sotto il monoteismo islamico, apparso storicamente dopo quello ebraico, le donne continuano a gridare “Donna, Vita, Libertà”, pur avendo perso memoria della dea Asherah e delle altre divinità femminili del Vicino e del Medio Oriente. […] Riportare alla memoria 3000 anni di storia avrà un senso se le donne in primis saranno liberate, e si lascerà loro l’opera di mediazione per costruire un percorso di pace tra i popoli, affinché possano condividere pacificamente un territorio comune nel rispetto delle proprie identità culturali e religiose.


Heide Göttner Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa, Mimesis 2023, pagg. 583 euro 28


(Odissea, 19 novembre 2023, pubblicato con il titolo “Il conflitto israelo-palestinese” sul blog: ODISSEA (libertariam.blogspot.com))

di Francesca Borrelli


Morta a ottantasette anni la scrittrice e critica letteraria inglese, aveva vinto il Booker Prize nel 1990 con «Possessione». Ripubblichiamo l’intervista che Francesca Borrelli le fece in occasione del festival di Mantova il 3 settembre del 2003, incontrando l’autrice, notoriamente schiva, a Torino


La scrittrice britannica A.S. Byatt, che vinse il Booker Prize nel 1990 col suo romanzo «Possessione» (pubblicato in Italia da Einaudi, come gli altri suoi romanzi), è morta all’età di 87 anni. Lo ha annunciato il suo editore Penguin Random House. Nata nella città inglese di Sheffield nel 1936 e formatasi all’Università di Cambridge, Byatt ha insegnato alla Central School of Art and Design e allo University College di Londra tra il 1972 e il 1984. Fra i suoi libri (in Italia con Einaudi), «Possessione» – da cui nel 2002 è stato tratto un film con Gwyneth Paltrow -, «Tre storie fantastiche», «Angeli e insetti», «La torre di Babele», «Le storie di Matisse», «La vergine nel giardino», «Natura morta», «Una donna che fischia», «La Cosa nella foresta», «Il libro dei bambini», «Ragnarök», «Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris».

Forse non è governato da un principio razionale il progetto di pubblicare in Italia i libri che compongono la tetralogia ideata da Antonia Byatt in un ordine diverso da quello da lei predisposto. Infatti, la prima volta che ci imbattemmo nella protagonista, Frederica Potter, buona parte delle sue esperienze formative le stavano già alle spalle, e tutto ignoravamo dei suoi trascorsi giovanili, che occupavano circa ottocento pagine di due libri precedenti, ma solo successivamente tradotti. Tuttavia, non c’è dubbio che dopo l’incredibile successo di Possessione, la scommessa di attirare il lettore nella nuova, immane trama che la Byatt andava tessendo si giocasse tutta nella Torre di Babele, il romanzo tradotto per primo, nonostante formasse il terzo quadro della tetralogia: perché è tra quelle pagine che i personaggi acquistano una vivacità e un carattere tali da indurre il desiderio di non abbandonarli più. Nel volume inaugurale, la Vergine nel giardino, dedicato al figlio perduto in un incidente stradale, la scrittura di Antonia Byatt era ancora affaticata dalla sua vocazione saggistica, da una erudizione insufficientemente mascherata, dal bagaglio mai deposto delle troppe reminiscenze letterarie che affollavano la pagina, dove il gusto dell’intreccio e la vitalità dei personaggi guadagnavano a fatica il respiro di una autentica felicità narrativa. Ora che il secondo movimento del quartetto ci viene restituito con il titolo Natura morta (sempre grazie alla appassionata traduzione di Fausto Galuzzi e Anna Nadotti per Einaudi) la consolazione di potere proiettare sulle figure ancora indistinte che lo popolano la luce di cui saranno investiti nel libro seguente – La Torre di Babele, appunto – ci aiuta a motivare la nostra partecipazione alle loro vicende.

Della famiglia Potter, riguardata dalla proverbiale vocazione inglese a sdrammatizzare le avversità della vita, tra le pagine di Natura morta seguiamo soprattutto i tre figli: la materna Stephanie, sposata al pastore di scarsa fede Daniel Orton, è senz’altro la più attraente dei tre, sebbene anche su di lei Antonia Byatt proietti una cerebralità che, tanto per dirne una, la fa «odiare alla maniera di George Eliot» e amare con le riserve di una vocazione intellettuale sacrificata alle incombenze familiari. Il fratello Marcus è un ragazzo disturbato, ma non tanto da staccarsi narrativamente dallo sfondo, se non grazie a quegli impacci ben descritti, di cui cade vittima a fronte di richieste emotivamente troppo cariche. Ma la vera protagonista, qui come in tutta la tetralogia, è Frederica, adolescente per lo più ritratta nell’ambiente del college dove studia, e dove consuma le sue prime, scriteriate avventure sessuali. Se non fosse per una irredimibile povertà di inventiva, Frederica si darebbe alla tessitura di romanzi. Il suo passato l’ha vista calcare le scene del teatro, il presente è ancora filtrato da una ambizione sufficiente a giustificarle l’epiteto di «squalo intellettuale», e il suo futuro reclama uno status sociale per il quale ci vuole un marito: lo individuerà nel bel personaggio di Nigel Reiver, un filibustiere dal quale sarà impegnata a separarsi violentemente nel corso del libro successivo. Studenti e professori di Cambridge ruotano sullo sfondo a animare debolmente il contesto, tra loro il solo dotato di un profilo originale è Raphael Faber, ebreo tedesco umorale e tendenzialmente misantropo le cui barriere difensive Frederica cercherà invano di sfondare. Così va la vita, o quel che di essa filtra tra le mura di un college, mentre la Storia si prepara di lì a poco a registrare la crisi di Suez e l’invasione dell’Ungheria. Finché il capitolo finale del libro, di gran lunga il migliore, spezzerà l’incantesimo investendo anche gli interni della famiglia Potter di una assurda tragedia.

Antonia Byatt è una scrittrice notoriamente schiva, è restia alle interviste e paventa i bagni di folla. Perciò decide di dosare gli impegni e chiede di andarla a incontrare a Torino, dove ieri era di passaggio prima di approdare al Festival di Mantova, che oggi inaugura con lei i suoi appuntamenti letterari.

Proviamo a sorvolare rapidamente lintera architettura di questa sua tetralogia, cominciata venticinque anni fa e appena conclusa con il romanzo titolato The whistling woman (La donna che fischia), uscito questa estate in Inghilterra. Come si è assestato il suo progetto narrativo via via che prendeva corpo, e qual è il bilancio di questa sua fatica distribuita in circa 2000 pagine?

Fin dall’inizio avevo intenzione di scrivere un lungo libro, al quale mi sarei dedicata a piccole dosi, nei ritagli di tempo che mi lasciavano i miei figli, allora molto piccoli. Lo immaginavo come un romanzo destinato a scorrere lungo la mia vita come un fiume, costruito tramite una architettura aperta. E pensavo sarebbe stato un libro sulla contemporaneità. Infatti, il prologo della Vergine nel giardino è ambientato nel `68, ma poi la narrazione torna indietro ai primi anni `50. Quando ho terminato l’ultimo romanzo avevamo passato la soglia del 2000, perciò questa tetralogia ha finito per diventare «storica»: ecco la differenza più importante rispetto al progetto iniziale. La stampa inglese insiste nel domandarsi come mai i nostri scrittori non si occupino del presente. Io avevo intenzione di farlo, ma tutto sommato l’avere composto un grande romanzo storico ora mi sembra un fatto positivo. Un altro elemento stabilito dall’inizio riguarda il contrasto tra scienza e religione. Fin da subito sapevo che alla fine dell’ultimo romanzo avrei inserito una conferenza sui rapporti tra mente e corpo, sollevando domande che oggi sono di estrema attualità. Tutto questo mi è costato un grandissimo lavoro, ho studiato molto, ho scambiato una corrispondenza interessante con alcuni scienziati attenti agli aspetti metaforici del linguaggio e preoccupati dal dibattito sulle analogie tra mente e computer. Avrei preferito che questa tetralogia fosse ancora più lunga, perché – come diceva Tolkien – qualcosa finisce sempre col restare fuori. Quando Henry James cominciò a scrivere Le ali della colomba, disse che nel dare inizio a un romanzo si ha sempre l’ambizione di catturare il mondo intero. A dire il vero, io volevo raccontare solo frammenti di realtà, e forse per questo ho inframezzato la scrittura di alcuni racconti; perché implicano una prospettiva parziale, che permette, tra l’altro, di dedicarsi con più gusto alla scrittura.

Il lettore che segue i libri organizzati intorno alla vita di Frederica Potter si accorge con sollievo che le tentazioni saggistiche dellautrice cedono via via alla sua attitudine narrativa. Fin qui, tra le pagine di Natura morta, Frederica impara di più dalla letteratura che dalla vita. Ma già nella Torre di Babele il rapporto si capovolge, e finalmente le emozioni guadagnano spazio. È daccordo?

Sono d’accordo, più si va avanti, più le passioni prendono il sopravvento sulle idee mutuate dalla letteratura. Frederica risente di una educazione limitante, com’è stata quella della mia generazione. Anch’io mi sono formata prevalentemente sulla letteratura, e quasi solo sugli autori inglesi. Imparavamo interi poemi a memoria, e questo ci insegnava a coltivare l’amore delle parole, mentre ora i giovani preferiscono occuparsi di teoria della critica. Io nasco come saggista, sono vissuta in una enorme soggezione per i nostri grandi scrittori, e poi col tempo ho perso interesse per la teoria letteraria, mentre è cresciuta in me la narratrice. Ora mi sento pienamente realizzata come autrice di romanzi.

Tra le pagine di Natura morta i personaggi si presentano ancora come figure indistinte, debolmente caratterizzate. Mi domando se è voluto, ossia se essendo ancora molto giovani devono scontare lincertezza di una identità non ancora acquista; o se la sua abilità descrittiva sia cresciuta nel tempo, come il frutto di un apprendistato al romanzo maturato via via.

Una parte del progetto prevedeva, in effetti, di accordare il carattere dei personaggi alla loro età, ed è ovvio che la giovinezza comporti identità ancora sul vago. Certo, nella Torre di Babele gli stessi caratteri saranno precisati meglio, anche perché il libro è investito da una vena satirica e questo aiuta a definire i profili. Inoltre, la mia idea prevedeva di presentare gruppi di persone accomunate da uno stesso modo di parlare, dotate di un linguaggio condiviso, e anche questo elemento contribuisce a disegnare le fisonomie con più precisione. Ma c’è anche un diverso aspetto del mio progetto secondo cui Natura morta avrebbe dovuto essere il mio libro biologico, al centro del quale stanno il sesso, la nascita, la morte. Per descrivere tutto questo mi ero proposta di evitare l’uso di metafore, di figure retoriche. Volevo nominare le cose stesse così come si presentano alla percezione. Ma era una pretesa impossibile da realizzare, infatti non ci sono riuscita.

In effetti, specialmente Natura morta risente di una tentazione fenomenologica…

È vero, ma più ancora – dati i miei interessi scientifici – mi è stato maestro Wittgenstein, e soprattutto il poeta americano William Carlos Williams: nessuna idea se non nelle cose – diceva. Inoltre, io sono stata allevata nella letteratura inglese, le cui virtù stanno nella concretezza, nel creare cose piuttosto che astrazioni.

In molti dei suoi libri è evidente come lei si senta a casa non solo nella letteratura, ma anche nella pittura. In Natura morta la narrazione è intervallata da frequenti osservazioni su Van Gogh, nonché da brani delle sue lettere al fratello Theo. Dal suo racconto Zucchero abbiamo appreso che lei passò un lungo periodo di tempo a Amsterdam, mentre suo padre era ricoverato in ospedale, e nel tempo libero andava spesso al museo Van Gogh. Per questo il pittore olandese ha un ruolo protagonista nel suo libro?

No, c’è una ragione che riguarda la struttura del romanzo e poi ce n’è una istintuale; ma i ricordi autobiografici non c’entrano. L’aspetto istintuale sta nel fatto che quando cominciai a scrivere Natura morta vedevo questo romanzo colorato di viola scuro. Allora pensai che mi sarebbe stato necessario un colore complementare, non potevo andare avanti a scrivere un libro investito di una tonalità così buia. E mentre riflettevo sul colore di cui avevo bisogno, vidi davanti a me La sedia gialla di Van Gogh. Era proprio lui il pittore che faceva al mio caso, perché non cerca di connettere religiosamente la pittura ai concetti, va diritto alle cose come appaiono. Anch’io cerco di procedere così nel libro, volevo fosse un romanzo domestico, fatto di sedie, oggetti, interni di case, bambini, e volevo guardasse alla natura fattuale di quel che accade: come fa Van Gogh, e questa è la ragione strutturale per cui l’ho scelto.

Torniamo ai personaggi, e parliamo di due figure che si fanno strada lentamente, per poi acquistare una speciale vivacità narrativa: il pastore Daniel Orton, che piomberà nella tragedia dopo la morte di sua moglie Stephanie; e Nigel Reiver, il violento marito di Frederica. Non trova che siano tra i comprimari più interessanti?

In effetti ho la tendenza a creare personaggi maschili positivi. Fin dall’inizio della tetralogia intendevo dipingere Daniel Orton come un uomo buono. Non era ancora interessante nella Vergine nel giardino, ma lo diventa qui, in Natura morta, anche se la disperazione per la morte di Stephanie lo rende un cattivo padre. Se la caverà meglio nel libro successivo, La Torre di Babele, quando il suo nuovo lavoro consisterà nel prestare soccorso telefonico. Per un uomo provato come lui è più facile essere d’aiuto se le persone che glielo chiedono gli sono estranee. Quanto a Nigel Reiver, in un romanzo strettamente femminista dovrebbe essere un uomo del tutto negativo. Ma a me piace, ha una influenza positiva su Frederica, ha ragione di pretendere da lei più di quel che lei gli dà, la aiuta a trasformarsi in una persona responsabile, così come il figlio l’aveva trasformata nella madre in cui stentava a riconoscersi. E quando firmeranno il divorzio, tutto questo le impedirà di sentirsi una vittima. Il motivo per cui Frederica sceglie Nigel sta nel fatto che, diversamente dagli altri uomini con cui era andata a letto negli anni di Cambridge, lui ha una fisicità spontanea, è l’unico che ci sa fare col sesso. E lei, che è l’incarnazione del conflitto tra le ragioni del corpo e quelle della mente, fa lo sbaglio di pensare che risolverà i problemi del corpo… col corpo.

In non pochi passaggi la voce narrante irrompe nellintreccio. È un espediente usato da molti scrittori, ma soprattutto qui, in Natura morta, linterruzione arriva spesso in modo brusco, a esplicitare intenzioni poi abbandonate, o cambiamenti di idee dellautore. Tanto che viene da chiedersi non solo se lei intenda prendere le distanze dai suoi personaggi, o ricordare che siamo allinterno di una finzione, ma se lei desideri scoraggiare, almeno a tratti, ogni possibile meccanismo di identificazione…

Questa domanda implica una risposta sincera, che mi è particolarmente difficile dare. Perché quando ero una giovane narratrice quel che desideravo era proprio creare un incidente tecnico che comportasse nel lettore lo stesso shock di un incidente reale. Tra il momento in cui concepii questa idea e il tempo che mi ci volle a realizzarla, mio figlio venne investito per la strada e morì. Talvolta non riuscivo a scrivere affatto, ma quando ce la facevo la condizione era che ricordassi a me stessa di essere all’interno di un artificio. Anche il fatto di inventare un incidente capitato a uno dei miei personaggi, dal momento che sapevo cosa significava nella realtà, mi sembrava una impresa insormontabile. Così introdussi questa voce narrante, per tenere me stessa a distanza da quella disgrazia. Per scusarmi di avere scritto un libro e tenermelo lontano, attribuendolo a un altro narratore.

Cosa dobbiamo aspettarci dal romanzo conclusivo della tetralogia?

La protagonista, che è sempre Frederica, riuscirà a conciliare in sé la donna che si permette di fischiettare, che è capace di svolgere il suo ruolo di madre e che mette su una famiglia: a modo suo naturalmente, ossia in maniera un po’ improbabile. La volevo protagonista di una commedia di stampo shakespeariano, non di un dramma. Ora il mio editore francese è preoccupato, ha una idea molto elevata di Frederica e pensa che se una donna fischia questo la rende volgare. Crede che il titolo rimandi a qualcosa di comico, infatti ha ragione, è proprio così. E ci sarà un happy ending, per Frederica come per tutti i personaggi, salvo la figura di un religioso visionario al quale farò fare una fine tragica.


(Il manifesto, 18 novembre 2023)

di Franca Fortunato


Se è vero che la guerra, con le dovute eccezioni, non ha un volto di donna, come scrive la scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, è certo, invece, che la lotta e la resistenza ha il volto di tante donne. Donne libere e consapevoli, unite contro il dominio e la violenza degli uomini sul loro corpo. Sono (siamo) le figlie e le nipoti di Delia, la protagonista del film geniale di Paola Cortellesi C’è ancora domani. Un domani che, grazie alle femministe, per noi donne è divenuto il nostro oggi, un tempo di libertà femminile ma non di libertà maschile per tutti quegli uomini, troppi, che non accettano di perdere il dominio e il controllo sul corpo e la vita delle donne. Da qui il loro odio verso le donne e la paura della libertà femminile che generano violenza, stupri, molestie fino al femminicidio. Loro sono gli eredi di Ivano, il marito di Delia, che, figlio degno di suo padre, sin dalla prima scena del film dà alla moglie, che lo saluta a letto, un sonoro ceffone in faccia perché si è svegliata tardi. Donne libere e consapevoli sono le afghane. È di loro che voglio parlare, dopo aver letto il libro Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani di Lucia Capuzzi, Viviana Daloiso e Antonella Mariani, tre giornaliste dell’“Avvenire” che raccolgono le lettere al giornale inviate da Kabul e le testimonianze e interviste a donne che, fuggite dopo il ritorno dei talebani, vivono in esilio. Tutte chiedono alla comunità internazionale, ai mass media e a tutte/i noi di non dimenticarle, di non lasciarle sole e di accogliere «quante/i fuggono dal Paese perché non possono più rimanere», come quelle/i fatti morire nel naufragio di Cutro. Si sentono “tradite”, in particolare dagli Stati Uniti. È per non dimenticarle che nasce il libro e io ne scrivo. Chi è fuggita parla con nostalgia del suo Paese dove sogna un giorno di tornare. Chi è rimasta parla con rabbia e indignazione dei divieti imposti dai talebani, ma non rinuncia ai sogni, alla volontà di vivere, di lottare e resistere. «Prima ci hanno intimato che studiassimo solo in casa e non lavorassimo più, poi hanno detto che il velo non bastava ed era obbligatorio il burqa, poi ci hanno impedito di andare nel bazar e fare la spesa, di passeggiare, di frequentare i centri sportivi e le piscine prima riservate a noi. È proibito cantare. Ridere è un peccato. Non ci ammazzano tutte perché serviamo per partorire. Naturalmente figli maschi. Una donna se esce deve essere accompagnata da un maschio, mai da sola.» Ma loro sono donne resilienti. C’è chi, espulsa dall’università, continua a studiare online e insegna di nascosto alle altre ragazze. L’associazione di donne Rawa, col ritorno dei talebani, è tornata con le scuole segrete. «Insegniamo a poche persone nella stanza dove la famiglia vive e dorme. Teniamo la voce bassa, siamo pronte a fare sparire in fretta i pochi libri e quaderni che portiamo con noi e fingere di stare leggendo il Corano o insegnando uno dei pochi mestieri permessi (sarta)». C’è chi con la figlia prepara in casa biscotti e torte di compleanno e le vende on line perché «c’è ancora chi festeggia, e chi viene festeggiato, nelle città. Di nascosto», e intanto sogna il giorno in cui avrà un suo negozio e «ci saranno negozi ovunque, donne ovunque che lavorano, libere». C’è chi sogna ancora di diventare pilota e chi «durante la notte, in segreto, continua a scrivere canzoni perché l’arte non può essere repressa e soffocata». Fuori «si vedono solo maschi», città senza donne. Dopo le manifestazioni contro i divieti, represse con la forza, le donne hanno fatto della casa un luogo di libertà, di lotta e di resistenza, e parlano. Altro che “stai zitta”. Per loro, c’è da credere, “C’è ancora un domani”. Non dimentichiamole.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 18 novembre 2023)

di redazione Il Fatto quotidiano


L’economia è politica (192 pp, 16,50 euro, ed Fuoriscena) è il nuovo libro il primo in italiano di Clara E. Mattei, economista, professoressa alla New School for Social Research di NewYork. Questo ultimo lavoro ribalta il racconto consueto delleconomia da cui siamo intossicati e rivela, ripercorrendo una lunga storia che dal fascismo arriva fino ai giorni nostri, quanta e che politica si nasconde dietro le scelte economiche. I tempi sono ormai maturi per smascherare le falsità insite in questa visione. Questo libro, accompagnato dai commenti di tre importanti economisti internazionali Thomas Piketty, Branko Milanović e Adam Tooze introduce una nuova prospettiva emancipatrice, capace di rivelare la trama nascosta dietro le questioni economiche centrali nella discussione pubblica: dallausterità allinflazione, dalla disoccupazione alla crescita, dalla concorrenza al debito al rapporto tra Stato e mercato, e moltissimo altro. Con precisione e incisività lautrice spiega come il potere politico abbia costruito nel tempo un sistema profondamente antidemocratico, destinato scientemente ad arricchire pochi privilegiati, impoverendo per converso la maggioranza della popolazione e rendendo i cittadini sempre più sudditi. La conoscenza è il primo passo per immaginare un mondo diverso e per muoversi affinché esso diventi possibile.

Mattei – collaboratrice del Fatto Quotidiano – è autrice di The Capital Order, inserito dal Financial Times tra le dieci pubblicazioni più influenti dell’anno a tema economico, edito in Italia da Einaudi con il titolo di Operazione austerità ma con lo stesso sottotitolo: Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo. Nell’ottobre 2023 ha ricevuto l’Herbert Baxter Adams Prize, conferitogli dalla American Historical Association. Qui sotto un estratto dell’introduzione del nuovo libro pubblicato da ilfattoquotidiano.it.


Siamo a Bruxelles, è l’autunno del 1920. Uomini politici ed economisti provenienti da tutta Europa si siedono attorno ai tavoli di lavoro, sono riuniti per la prima conferenza economica internazionale. I toni formali e gli abiti eleganti non riescono a mascherare la tensione che si respira nell’aria. Le loro dichiarazioni lasciano trapelare un senso di accerchiamento, addirittura di angoscia, per quello che considerano un disordine inaccettabile, un caos sociale che sta portando l’economia capitalistica sull’orlo del baratro. Mentre costruivano un pacchetto di provvedimenti improntati alla più dolorosa austerità, i tecnocrati riuniti a Bruxelles erano ben consapevoli del fatto che il vento tirasse da tutt’altra parte. Indurre i cittadini a piegarsi all’ordine del capitale era più facile a dirsi che a farsi. Lo choc della guerra mondiale aveva scatenato nello spirito della gente comune un senso di rivalsa rispetto alle ingiustizie. La Grande Guerra aveva sprigionato una consapevolezza nuova: era emerso chiaramente quanto i lavoratori fossero il motore della macchina economica. L’inflazione montante di quegli anni non faceva che infervorare gli animi e acuire quel senso diffuso di fallimento del vecchio sistema capitalistico.

Alla pari dei suoi colleghi, il professor Luigi Einaudi ne era terrorizzato, sapendo che, ben lungi dall’essere un problema esclusivamente economico, l’instabilità monetaria era una questione intrinsecamente politica. Non per nulla, egli definiva l’inflazione come ciò che «pareva muovere nel profondo la società intiera e preparare alla rivoluzione sociale». Per di più, ne attribuiva la colpa proprio a quei lavoratori che, avendo ottenuto maggiori salari, erano incapaci di controllarsi e indulgevano in quel comportamento scialacquatore comprovato dagli «aumenti cospicui dei consumi non necessari di bevande alcoliche, dolci, cioccolata, biscotti». Ecco denunciata l’immoralità alla base del disequilibrio tra domanda e offerta, che andava disciplinata a qualunque costo, anche quello di sostenere il regime fascista di Benito Mussolini. Fu infatti proprio il Duce a garantire una sufficiente dose di austerità economica, caratterizzata da tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, riduzione dei salari e incremento dei tassi di interesse, che gli consentì di guadagnarsi il plauso degli esperti economici di tutto il mondo, anche di liberali come lo stesso Einaudi. Oggi i loro discepoli non la vedono certo diversamente.

La storia si ripete. Balzo in avanti di cento anni, siamo a Washington DC nel marzo del 2022. L’economia globale è scossa da un’altra ondata di inflazione monetaria. Gli esperti della Federal Reserve (Fed) si riuniscono a porte chiuse per alzare i tassi di interesse. Li alzeranno per più di un anno. La maggioranza di noi sente queste notizie alla radio o alla tv con distrazione mista a rassegnazione. Ci paiono scenari lontani, decisioni “economiche”, quindi tecniche, che non ci riguardano direttamente e rispetto alle quali non possiamo fare granché. Ma è davvero così? Oppure questa capacità di “depoliticizzare” l’economia, ossia la capacità di allontanare la nostra partecipazione dalle decisioni economiche, è proprio la chiave del successo di un sistema che ci lega le mani e ci toglie la voce? Questo libro è animato anzitutto da un intento: provare ad abbattere quel diffuso luogo comune secondo il quale le decisioni delle istituzioni economiche (dalla Fed alla Banca Centrale Europea al Tesoro), cioè le scelte che danno forma alla nostra economia, siano “neutrali” o al servizio “del bene comune”.

La “naturalizzazione” del capitalismo e la nostra ormai acquisita abitudine di delegare molte decisioni fondamentali agli esperti senza intrometterci troppo nei loro affari sono espressione della perniciosa depoliticizzazione dell’economia. Gli economisti di professione, la televisione, i social, i giornali perpetuano quotidianamente l’accettazione e la diffusione di narrazioni che mascherano il funzionamento del nostro sistema economico invece di spiegarlo. È ora di evadere da questa prigione. Mentre scrivo, ci sono moltissime donne e uomini che combattono per una società diversa, credendoci con tale abnegazione da rischiare la propria vita. Il mio è un minuscolo contributo, ed è l’esempio dei miei due prozii che continua a essere per me una fonte di ispirazione inesauribile.

In queste ultime righe introduttive voglio brevemente ricordare i fratelli di mio nonno Camillo, che intrapresero una risoluta battaglia contro l’oppressione fascista. Teresa Mattei, con il nome di battaglia di Chicci, fu la più giovane donna a sedere all’Assemblea costituente. Si deve a lei l’inserimento delle parole «di fatto» nell’articolo 3 della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Spirito libero, Teresa non ebbe paura di allontanarsi dal Partito comunista quando esso tradì i suoi ideali, e di affrontare la violenza delle SS quando, durante la Resistenza, approfittarono del suo corpo mentre portava messaggi partigiani. Suo fratello, Gianfranco Mattei, giovane professore di Chimica e gappista, fu catturato il 1° febbraio 1944 mentre costruiva bombe contro i fascisti. Dopo due giorni di sevizie continue, Gianfranco si impiccò con la sua cintura pur di non tradire i suoi compagni. Le ultime parole del mio prozio, scritte sul retro di un assegno consegnato di nascosto al compagno di cella, sono state per i suoi genitori: «Siate forti, sapendo che lo sono stato anch’io». Per essere forti ci servono strumenti forti. E allora proviamoci.


(Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2023)

di Alessandra Pigliaru


È un volume che raccoglie conversazioni con Lea Melandri, Luisa Muraro, Adriana Cavarero e saggi di Rossana Rossanda quello curato da Elvira Roncalli dal titolo Il futuro è aperto. Storia e prospettive del femminismo italiano (Prospero editore, pp. 312, euro 18). Il progetto editoriale, pubblicato in lingua inglese circa un anno fa da Roncalli, docente di filosofa negli Stati Uniti al Carroll College, Helena, Montana, viene ora reso disponibile anche qui. Comprensibile l’intenzione, più che legittima da parte di Roncalli che in altre sedi si è occupata di filosofia europea novecentesca e contemporanea, di apparecchiare un testo che sia di ragionamento e soprattutto stimolo. Ne risulta un libro utile nella sua agilità, per certi versi audace nella vicinanza di femministe e teoriche diverse fra loro che mostra tuttavia quanto sia stato articolato il movimento delle donne in Italia, la rivoluzione che è stata il femminismo e le sue pratiche politiche, i fili inscindibili che – anche chi femminista non è stata – ha intessuto.

Infine quanto, pur nella eterogeneità, si possa considerare viva e orientante nella sua parzialità la mappa che Il futuro è aperto contiene e intende consegnare, nelle mani di chi desideri leggere ciò che hanno avuto da dire quattro protagoniste, a diversi livelli, della discussione pubblica. Esplorare la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, prende consistenza intorno allo squasso diventato un taglio che in quegli anni si andava determinando, con pratiche politiche diverse a partire dalla esperienza, che non è parola neutra perché il femminismo, a meno che non sia una gabbia teorica, scintillante eppure disabitata, è una esperienza che anzitutto si incontra e che chi è arrivata prima di noi ha attraversato. Di questo danno conto anzitutto le tre intervistate che hanno fatto germinare scoperte e scelte in un momento storico tanto complesso quanto propizio: il movimento studentesco e il Sessantotto, la nascita dei primi collettivi, il separatismo, l’università, puntellando di ricerche, libri (utile prima delle interviste, raccolte singolarmente e in momenti diversi, è la breve nota bio-bibliografica dedicata a ciascuna), contaminazioni soprattutto nella relazione con altre donne.

Il volume si apre a partire dalla memoria del corpo con cui esordisce Melandri in risposta alla prima domanda di Roncalli; la differenza sessuale come verità soggettiva, intorno a cui si concentra Muraro; l’unicità incarnata materialmente relazionale, con cui risponde Cavarero. Nell’ultima parte del libro vengono ospitati tre scritti di Rossana Rossanda, i primi due sono del 1987, uno contenuto nella rivista Memoria e l’altro sul manifesto, così come il terzo che nel 1996 sempre su questo giornale. Sono tre testi che sigillano e illuminano il volume, e che intercettano qualche momento del rapporto di Rossana Rossanda con il femminismo, segnato da confronti inaggirabili.

Nel libro di Elvira Roncalli a essere presente è anche il suo sguardo, anche lei cioè – che insieme a Silvia Benso ha di recente curato il volume Contemporary Italian Women Philosophers: Stretching the Art of Thinking – dice come sia arrivata al femminismo. In molti passaggi viene convocata Carla Lonzi, per esempio. Ma la sensazione più intensa dopo averlo letto è che il futuro è stato davvero aperto. E lo può essere ancora.


(il manifesto, 15 novembre 2023)

di Laura Iamurri*


Desiderata, invocata, da tempo attesa, la nuova edizione dei testi di Carla Lonzi ha finalmente preso avvio, e ha suscitato un’eco straordinaria. Il primo a tornare in libreria è, e non poteva essere altrimenti, Sputiamo su Hegel e altri scritti, uno dei testi fondativi del femminismo italiano, dirompente e urticante fin dal titolo; il volume esce a cura di Annarosa Buttarelli per “La tartaruga”, la collana della Nave di Teseo diretta da Claudia Durastanti che riprende nome e insegna della casa editrice di libri scritti da donne fondata da Laura Lepetit nel 1975: una collocazione particolarmente felice, che riannoda alcuni fili dispersi del movimento delle donne.

Altrettanto felice è la scelta del Violarosso di Carla Accardi in copertina, che “tradisce” il colore dei “Libretti verdi” di Rivolta Femminile, ma che appare anche come un festoso invito alla lettura. Perché la ripubblicazione dei testi di Lonzi è sempre una festa, lo è per tutto il pubblico delle lettrici e dei lettori ma in particolar modo per le persone più giovani che hanno avuto molte difficoltà, in questi ultimi anni, a reperirli e che si sono scambiate copie cartacee o file pdf. Se la necessità di questa nuova edizione emergeva già in maniera evidente dalle richieste di prestito delle biblioteche (Sputiamo su Hegel è il libro più richiesto in assoluto alla Biblioteca delle Donne di Bologna), l’esaurimento della prima tiratura in un tempo brevissimo ne ha dimostrato anche l’urgenza: uscito in libreria il 5 settembre, nei giorni immediatamente successivi il libro era già introvabile e già in ristampa.

Sputiamo su Hegel è il primo testo teorico nel quale Lonzi ha sviluppato le premesse esposte in maniera apodittica nel Manifesto di Rivolta Femminile scritto nei primi mesi del 1970. È anche il testo che, sempre nel 1970, ha inaugurato le pubblicazioni della casa editrice Scritti di Rivolta Femminile. Qualche anno dopo, nel 1974, fu riedito insieme ad altri testi scritti dalla sola Lonzi (La donna clitoridea e la donna vaginale), o insieme a Carla Accardi ed Elvira Banotti (il Manifesto) o ancora elaborati con le compagne di Rivolta e firmati collettivamente (Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschileSessualità femminile e aborto, entrambi 1971, Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, 1972), ed è questa raccolta che viene ripubblicata ora. È in questi testi che si ritrova, insieme alla magnifica scrittura di Lonzi, tutta la spietata radicalità del suo pensiero, che scarta da ogni aspirazione paritaria (“l’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti”) a favore dell’affermazione della alterità delle donne, della non assimilabilità delle donne agli uomini e dunque della loro estraneità al patriarcato, alla sua storia e alla sua cultura. “La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia”, scrive Lonzi, e questa assenza è ciò che permette di osservare con crudele disincanto la realtà (“Abbiamo guardato per 4000 anni: adesso abbiamo visto!”, si legge nel Manifesto): dunque è l’intera struttura patriarcale ad apparire come uno strumento generalizzato di oppressione e assoggettamento. La cultura politica marxista assimilata in gioventù serve a Lonzi per capire che nessuna rivoluzione ha mai risolto la questione femminile: “il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale”; anche gli obiettivi di altri movimenti femministi – la contraccezione, il divorzio, l’aborto – sono interpretati non come strumenti di autodeterminazione femminile ma al contrario come sistemi di controllo al servizio e a conferma dell’ordinamento sociale patriarcale.

Scrive Lonzi nella Premessa a Sputiamo su Hegel e altri scritti che “il rischio di questi scritti è che vengano presi come punti fermi teorici”: in effetti il suo pensiero negli anni successivi evolve, si modifica, per certi versi si radicalizza ulteriormente, ma questi testi restituiscono la prima fase, quella dello “sdegno” per l’inferiorizzazione delle donne a tutti i livelli e in tutti i contesti, della individuazione della sessualità come snodo cruciale, dell’attacco ad alzo zero alla cultura patriarcale con la sola, residuale, apertura agli artisti per una “affinità caratteriale” che sta “nella coincidenza immediata tra il fare e il senso del fare”. In questo credito agli artisti filtra naturalmente il passato di Lonzi, segnato prima dalla formazione storico-artistica con Roberto Longhi a Firenze, e poi soprattutto dagli anni di attività professionale come critica d’arte: anni importanti, nei quali era maturata una severa analisi politica sul ruolo e la funzione della critica. Alla metà degli anni sessanta, a fronte di un contesto artistico in rapido mutamento, Lonzi aveva presentato sulla rivista “marcatré” una forma inedita di critica, che abbandonava l’esercizio solitario del giudizio a favore di una attività da svolgere con l’artista, cioè di fatto una conversazione registrata e poi trascritta con cura, nel rispetto delle parole effettivamente pronunciate e degli argomenti – talvolta in apparenza marginali – trattati in quello che sulle pagine stampate appariva alla fine come un discorso a due più che come una intervista, e che inaugurava una sorta di critica d’arte in forma di colloquio, un dialogo alla pari. È questa orizzontalità della relazione, questa modalità all’insegna dell’ascolto reciproco, che Lonzi porta in seguito all’interno dei piccoli gruppi di autocoscienza, laboratorio imprescindibile del femminismo in Italia.

Il pensiero di Lonzi conserva intatto il suo carattere dirompente, la sua capacità di interrogare e mettere in crisi chi legge sul doppio piano della singolarità e delle relazioni; e tuttavia ovviamente mostra anche la sua distanza dalla nostra contemporaneità, non fosse altro per lo strenuo binarismo uomo/donna e per la risoluta messa da parte della questione di classe. Sono differenze importanti rispetto alle istanze degli attuali movimenti femministi, formate su una pluralità di letture ed elaborate intorno ai concetti di intersezionalità, di inclusività, di messa in discussione del binarismo di genere.

Questo punto in particolare appare oggi cruciale, e ci si può chiedere se i testi di Lonzi non rischino di apparire anacronistici, ancorati come sono a una struttura delle definizioni e delle relazioni di genere divenuta ormai inattuale. E tuttavia la curiosità e l’entusiasmo che Lonzi suscita nelle giovani generazioni ci dicono qualcosa di diverso: il ruolo centrale che la sessualità, e la sessualità femminile in special modo, assume nel pensiero di Lonzi non cessa di essere un fatto politico perché lì si apre uno spazio di libertà, di consapevolezza e di rivendicazione del piacere che può essere diversamente interpretato in relazione alla propria singolare identità di genere.

La questione di genere non è del resto l’unico punto di possibile frizione rispetto alle istanze degli attuali movimenti femministi, formate su una pluralità di letture ed elaborate intorno ai concetti di intersezionalità e di inclusività.

Per questa ragione la proposta di Annarosa Buttarelli di pubblicare Sputiamo su Hegel, e gli altri testi che seguiranno, senza accompagnamento critico ha suscitato qualche perplessità; mi è capitato di parlarne con artiste, giovani studiose, intellettuali di varia formazione, e io stessa mi sono interrogata sull’opportunità di questa scelta: in fondo, si potrebbe obiettare, una breve prefazione che permetta di contestualizzare il testo non è una lettura obbligatoria, chi non ha interesse può saltarla a piè pari e chi vuole invece avere qualche informazione in più la trova lì, nello stesso volume. E però l’argomento di Buttarelli non è eludibile: i testi di Lonzi sono tutti “testi di trasformazione”, sostiene la curatrice dell’intero progetto di riedizione nella sua brevissima nota, e come tali non sopportano “commenti, spiegazioni, interpretazioni che spegnerebbero la loro forza travolgente”. Non c’è dubbio che ci sia una forza sorgiva nella radicalità di Lonzi capace di sradicare secoli di un ordine che appariva “naturale” solo perché non era mai stato davvero messo in discussione, e non c’è dubbio che questa forza sia capace di investire con tanta più energia quanto più arriva in maniera diretta e senza mediazioni. Esiste anche, oggi, una bibliografia ampia e diversificata su Lonzi, sul suo pensiero e sui suoi scritti che permette senz’altro di dotarsi di eccellenti strumenti di lettura, separati dalla materia prima e bruciante degli scritti.

La situazione è in effetti oggi molto diversa rispetto agli anni intorno al 2010, quando Sandro D’Alessandro, con la sua et al. edizioni, intraprese la prima ripubblicazione dei testi della critica d’arte e teorica femminista. Allora davvero Lonzi era una figura scivolata in una specie di semiclandestinità e i suoi testi, nella edizione originale di Rivolta Femminile, erano reperibili quasi solo presso la Libreria delle Donne di Milano. Tra 2010 e 2011 uscirono Sputiamo su Hegel e altri scrittiAutoritrattoVai pure e Taci, anzi parla, con l’aggiunta nel 2012 della corposa raccolta degli Scritti sull’arte, mai riuniti da Lonzi in vita ma rintracciati e radunati da Lara Conte e Vanessa Martini insieme a chi scrive. Nei prossimi mesi, saranno gli stessi libri a tornare in circolazione nella nuova bella edizione di “La tartaruga”, con l’aggiunta della raccolta postuma di poesie Scacco ragionato (uscito a cura di Marta Lonzi e Anna Jaquinta per Scritti di Rivolta Femminile, nel 1985 e mai più ristampato) e con l’esclusione invece, almeno per il momento, degli Scritti sull’arte.

L’edizione dell’inizio degli anni dieci appare oggi tutto sommato dimenticata: la fine della casa editrice ha fatto sì che i testi andassero esauriti in poco tempo e che non ci fosse la possibilità di ristamparli, e così è capitato anche di leggere, nelle numerose recensioni che hanno celebrato il ritorno di Sputiamo su Hegel e altri scritti nelle librerie, della prima ripubblicazione di Lonzi dopo cinquant’anni. Dispiace, questa smemoratezza, non solo perché non rende giustizia a un editore coraggioso e impegnato quale è stato D’Alessandro, ma anche perché quella prima rimessa in circolazione dei testi ha reso possibile, negli anni immediatamente successivi, il moltiplicarsi di corsi universitari nelle diverse discipline della filosofia, della letteratura, della storia dell’arte, che hanno a loro volta generato letture appassionate e studi approfonditi. Di fatto, quella sfortunata edizione è all’origine dell’attuale “Lonzi renaissance”, e delle traduzioni di alcuni suoi testi in varie lingue che ne sono una delle manifestazioni più evidenti; ed era davvero paradossale che, mentre diventavano disponibili in altri paesi, i testi di Lonzi non fossero più reperibili in Italia. Ora finalmente, con l’edizione dei “La tartaruga”, si apre una nuova stagione di letture e di studi, di riflessione e di politica. Carla Lonzi è tornata.


(L’Indice, n° 11/2023, 2 novembre 2023)


*Laura Iamurri insegna storia dell’arte contemporanea all’Università Roma 3 laura.iamurri@uniroma3.it

di Franca Fortunato


Fare i conti con la storia della propria madre e con la relazione con lei, cercando di sciogliere alcuni nodi dolorosi che si porta dentro dall’infanzia e dall’adolescenza, è quello che fa la giovane scrittrice italo-nigeriana Sabrina Efionayi con il suo libro autobiografico Addio, a domani edito da Einaudi. Scrive per raccontare per la prima volta della madre, di cui non aveva mai parlato a nessuno perché si vergognava di lei. Durante la scrittura si accorge di non riuscire a parlare in prima persona e dire “io” ma dice: lei-Sabrina, tale è il dolore. Parla con la madre e le ricorda episodi della loro vita insieme, le confessa sensazioni e sentimenti non detti, le dice quello che ha capito da figlia della sua storia e di sé stessa. Non lo fa con acredine o risentimento ma con gratitudine e comprensione. La storia di Gladys, la madre, è uguale a quella di tante giovani africane. Nigeriana, figlia di una famiglia povera, ha diciotto anni quando una donna si presenta al suo villaggio e se la porta via con la promessa di un lavoro “vero” e invece la prostituisce e la lega a sé con un debito che sembra non estinguersi mai. La figlia non la biasima per aver creduto che avrebbe «trovato un lavoro vero che non avesse lo scopo» di umiliarla e denigrarla. Le riconosce di aver «sempre lottato» per la sua dignità e «fino alle lacrime e al sangue per restare viva» e capisce che non avevano niente di cui vergognarsi, la madre era solo una vittima. Le confessa che quando a undici anni le ha raccontato la sua storia senza mai usare la parola “prostituzione” ma “sofferenze”, si è sentita “sporca” e ha temuto che un giorno sarebbe toccato anche a lei perché una volta ha sentito una persona dire che «tutte le nere fanno così perché a loro piace». Nata dall’amore per un ragazzo nigeriano da cui la madre si era sentita rispettata e amata e che scompare dopo la sua nascita, viene affidata dalla madre alla vicina di casa, Antonietta, che vive con la famiglia del fratello. «Libero mia figlia», le dice. Col tempo le due donne comprendono che «della bambina avrebbero potuto occuparsene insieme», in un rapporto di fiducia e gratitudine reciproca. Di questo Sabrina è grata a entrambe. Non si è mai sentita una bambina abbandonata e quando diceva di essere adottata la madre la riprendeva dicendole: «No, non dire così. Tu non sei adottata. È vero che hai due mamme, ma non sei una bambina adottata». Sabrina le confessa che a quel punto non aveva più le parole per dirsi. «Avevi detto che non dovevo dire di essere adottata, e allora le parole hanno iniziato a mancarmi. Non le avevo le parole giuste e tu non me le hai date». Di una cosa è sicura, dell’amore di entrambe le mamme e del suo per loro. Quando la madre si libera dalla prostituzione e si trasferisce a Firenze, chiede solo che sua figlia passi con lei i mesi estivi. Ogni volta chiede fiducia ad Antonietta che teme non gliela riporti più. Anche Sabrina lo teme, ma non lo dice. La porta più volte in Nigeria e lì la figlia sente l’appartenenza a quella identità a lungo rinnegata, «come qualcosa di cui vergognarsi». Ma, se in Nigeria le veniva detto che era «troppo italiana» per i suoi comportamenti, in Italia le veniva detto «di non esserlo abbastanza» per il colore della pelle. Alle medie scopre «di essere nera, nera davvero» e crescendo comprende con dolore cosa vuol dire non avere la cittadinanza italiana. Al primo anno di università si deve iscrivere come studentessa extracomunitaria. A un certo punto si ribella alla madre, si allontana da lei, tornata in Nigeria, sposatasi e divenuta madre di una bambina. La incontra un’ultima volta e non riesce «a dare un nome» a ciò che prova. Ha bisogno di tempo per capire (capirsi). Nell’attesa le dice addio, a domani.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 11 novembre 2023)

di Franco Cardini e Marina Montesano


Pubblichiamo alcuni estratti da Donne sacre. Sacerdotesse e maghe, mistiche e seduttrici (il Mulino) di Franco Cardini e Marina Montesano. Un incontro con miti, simboli, magie, archetipi che si muovono nei millenni e un succedersi di vicende e di figure femminili fuori dal comune.


Non c’è uomo, a parte Adamo, che non sia figlio di una donna: che non abbia albergato per mesi nel buio, caldo, sicuro ricettacolo del suo ventre; che non si sia attaccato ai suoi seni in cerca di vita; che – lo capisse, lo volesse o no – per tutta la sua esistenza non l’abbia poi cercata al fondo di tutte le donne che ha incontrato e che ha amato, o che ha finito per odiare, o che magari ha violentato e ucciso. Lei, il grande archetipo che Mircea Eliade e Carl Gustav Jung hanno cercato di farci comprendere. La Madre amata in tutti i modi possibili, da Edipo a Giovanni evangelista. Quella ch’è anche Sposa e Sorella, come l’amante edenica del Cantico dei Cantici: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! […] Tutta bella sei tu, amata mia – e in te non vi è difetto. Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata».

L’essere umano vive, caccia, si accoppia, si riproduce, soffre, ha paura, uccide e muore da molti millenni: anche se soltanto da sì e no sei o settemila anni ha imparato a narrare le sue gesta, o almeno a lasciar traccia cosciente di quel che è stato o che ha voluto essere o che ha desiderato di far credere ai suoi posteri di essere stato. E magari molto, troppo spesso, ha dovuto, potuto o perfino voluto far a meno di una figura paterna. Ma della madre, di quella no. Senza quel ventre, senza quel seno, senza quegli occhi che lo guardavano, senza quelle mani che lo proteggevano e lo accarezzavano, non sarebbe stato nulla. Altro che «riposo del guerriero», come vaneggiava il povero, troppo grande Nietzsche che non a caso finì anche lui toccato dalla follia al pari di Attis oppure come Agave, madre e dilaniatrice di Penteo. C’è sempre una madre, nel destino di ognuno. Anche i più terribili tiranni degli ultimi duecento anni, anche Napoleone, Adolf Hitler, Josif Stalin, magari hanno dimenticato o disprezzato oppure odiato il padre, ma hanno mantenuto un ricordo pieno di tenerezza e di timor filiale per la madre. Che almeno in un caso ha finito anche col diventare regina. Anzi addirittura imperatrice, Madame Mère.

È tempo di affrontare il cuore di questo grande archetipo, che nella cultura moderna «secolarizzata» continua a conservare i tratti che gli hanno prestato Sandro Botticelli e Raffaello Sanzio. Ma che conosce, a sua volta, qualche precedente: nella storia, nel mito, nell’intricato e fascinoso mondo dei simboli. Passeremo dalle dee-madri della preistoria e dell’antichità alle figlie del sole e della luna fino a giungere al «nodo» della bambina di Nazareth divenuta Stella Maris e Regina Angelorum: esamineremo quindi – in una sequenza che fatalmente introdurrà a continui confronti liberamente evocati fra tempi e spazi diversi – quelle «donne sacre» che sono (o sono state) tali in quanto interlocutrici di Dio, quelle in grado di parlare con i morti, le fate che si comportano come donne e le donne che si presentano come fate: e così via, fino alle martiri di una libertà ancora da conquistare e alle eroine di una libertà conquistata. Questa è una storia senza fine perché, per definizione, essa non finisce mai: dalla sacralità antica e premoderna alla sacralizzazione moderna e postmoderna, in una prospettiva alla quale non si può proporre né tanto meno imporre un fine. Rien que la Femme. […]

Non abbiamo cercato, nelle nostre protagoniste, solo il primato dell’eccellenza: ma qualcosa d’inesprimibile, un quid maius. Come quando, tra millanta bottiglie piene d’acqua, di zucchero e di acini d’uva spremuta, se ne stappa una in apparenza come le altre: e si scopre che è vino. Quella speciale caratteristica che ti commuove, ti turba, ti fa tremare dinanzi a un paesaggio boscoso, a un picco innevato, a un cielo pieno di stelle, a un mare in tempesta o arcanamente sereno, a qualcuno che parlandoti, o cantando, o guardandoti in silenzio, sa riempirti di fuoco e di ghiaccio. È questo il «sacro»: un luogo, un albero, un fiore, una pietra, un suono, un essere umano o qualcuno che gli somiglia ma c’è dell’altro… Il sacro è una forza silenziosa e sottile ma sconvolgente: qualcosa di totalmente diverso, di «altro», rispetto all’umano; una forza divina e mostruosa al tempo stesso. Può essere anche santo, quindi pros- simo al divino e al suo modello; al contrario, però, accade che si presenti come terribile e feroce. […]

Nella contemporaneità del Novecento e degli Anni zero (ossia i nostri) le donne hanno raggiunto nella società ruoli ch’erano in passato loro preclusi; oggi si discute persino di un sacerdozio femminile nella Chiesa, già una realtà in quella anglicana, nella quale dal 2019 le donne ordinate preti sono state più degli uomini, e aumentano anche i loro ruoli dirigenziali. Può darsi che questo abbia «normalizzato» le donne, che le abbia private di quell’aura di maghe, sacerdotesse, mistiche, veggenti che le ha circondate, o per meglio dire che ha circondato alcune fra loro. Peraltro nella società contemporanea, non solo in quella occidentale, cresce il ruolo delle donne; un ruolo che si esplica a diversi livelli della società e della cultura. Ovunque ci si volga, figure femminili appaiono ormai in ogni settore della vita civile: al punto da poter affermare che il carisma «laico» ha sostituito il sacro, o ne è la figura «mutante». Ma in uno stato di grazia, cioè d’accezione, non a causa di uno sviluppo «naturale». In termini sinteticamente weberiani, si potrebbe forse azzardare la formula della donna sacra ch’è tale, rispetto alla donna di pur segnalate e riconosciute qualità, allorché in lei si manifesti e da lei promani un carisma capace di battere decisamente le qualità dell’istituzione. […]

Insomma, l’ultimo secolo si tinge di rosa, si sarebbe detto un tempo: senonché il rosa non è più il colore d’eccezione per le donne, e persino Barbie diviene discusso simbolo dell’emancipazione. Eroine o comunque figure che definiscono molti dei cambiamenti della contemporaneità: sono loro a raccogliere, in un’epoca desacralizzata, l’eredità delle donne sacre?


(Avvenire 10 novembre 2023)

di Annalisa Camilli


Il regista mette in scena tutte le sfumature della disperazione femminile, ma anche la resa di un maschile senza salvezza. Partendo da due testi di Natalia Ginzburg


Molti conoscono quell’articolo sul “pozzo” di Natalia Ginzburg, pubblicato nel 1948 sulla rivista Mercurio, diretta dalla sua amica, la scrittrice Alba de Céspedes. Quello in cui Ginzburg parlava della malinconia particolare in cui cadono di tanto in tanto le donne – tutte le donne – di qualsiasi origine e classe sociale. Quel pozzo che è la loro infelicità e che deriva da secoli di subalternità. Quel pozzo con cui devono fare i conti anche quelle più libere: la fatica e la sofferenza, cioè, di affrontare un mondo che non è stato fatto per loro e che non le prevede, se non in ruoli marginali.

«Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla», scriveva Ginzburg su Mercurio.

E ancora: «M’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi induceva a commiserarle e che capivo molto bene, perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai».

A quel pozzo si pensa subito e continuamente, quando appaiono sulla scena Barbara, Tosca, Flaminia e Letizia, le quattro donne – di età e classi sociali diverse – che sono le protagoniste di Fragola e panna (Einaudi 2023), la commedia in due atti scritta da Ginzburg nel 1966 (prima della rivoluzione sessuale, del sessantotto, del referendum italiano sul divorzio) e portata in scena da Nanni Moretti nel suo Diari d’amore, insieme a un’altra opera della scrittrice, Dialogo, in questi giorni sul palco dell’Arena del sole di Bologna e poi in tournée in tutta Italia. Alla sua prima esperienza da regista teatrale, Moretti sceglie due testi di Ginzburg, una scrittrice a cui è molto legato. Fragola e panna non è mai stato messo in scena.

Quattro diverse infelicità

Le quattro donne di questa commedia sono tutte espressioni diverse di quell’infelicità. Flaminia, la padrona di casa, è la più ambigua, la più compromessa. È benestante, ha una bella villa in campagna, ma ha sposato un uomo che l’ha sempre tradita e con cui vive da separata in casa, in un isolamento e un’ipocrisia che risultano insopportabili anche alla domestica, Tosca, che ripete continuamente di volersene andare.

«Di Cesare ora non me ne importa più niente, ma prima di arrivare a questo distacco, ho sofferto, mi sono lacerata e straziata», confessa a un certo punto Flaminia mentre parla con Barbara, la giovanissima amante del marito, che è venuta a cercarlo a casa in un giorno di neve con un’enorme valigia, per sfuggire alla rabbia del suo di marito, che l’ha picchiata, dopo avere scoperto il tradimento.

Tra le due donne si crea subito un’intimità, si specchiano, per un attimo intuiscono il fondo di quel pozzo in cui entrambe sono precipitate. Ma poi ciascuna torna a recitare la sua parte: Flaminia dà dei soldi e da mangiare a Barbara, e poi la caccia di casa e la fa portare dalla sorella Letizia in un convento di suore. E quando torna Cesare, il marito, continua a recitare la parte della complice.

Anche se poi scopre un disagio nuovo di fronte al cinismo del marito, un malessere che è stata Barbara – la ragazza sprovveduta e disperata che le è piombata in casa – a scatenare. Flaminia è gelosa di Barbara, ma non di Cesare, per l’amore che Barbara è capace di provare e che lei invece non sa sentire più, se non in forma di disprezzo. «Lei è innamorata di te, chissà cosa vede in te e io invece so quello che sei, sei niente, un uomo di niente», dice a un certo punto al marito, che si è seduto sul divano del salotto, al centro della scena per tutto lo spettacolo.

Mentre Flaminia scende nel pozzo e scopre una nuova coscienza di sé, Cesare minimizza le sue responsabilità, prova a manipolare la moglie promettendole una crociera e dipinge Barbara come una persona malata e marginale. «Sapete cosa fa a quest’ora? Gira la città da un caffè all’altro, mangiando gelati. La sua passione sono i gelati di fragola con panna. È capace di mangiarne dieci in un solo pomeriggio. Ha lo stomaco di un rinoceronte», dice con freddezza, per mettere a tacere la moglie e la cognata che sono preoccupate per la sorte della ragazza.

Cesare è interpretato da uno dei più importanti attori teatrali italiani, Valerio Binasco, che veste i panni di un uomo, vile e cinico, con molto calore. L’effetto è un personaggio senza salvezza, che tuttavia sembra consapevole della sua meschinità. Quello di Cesare è un maschile che alza le mani e si consegna: mostra la radice marcia che lo ha prodotto. Ma non chiede perdono.

Colpisce la scelta di avere affidato a due attori di grande esperienza e spessore dei ruoli secondari. Binasco è Cesare, mentre Daria Deflorian, altro nome di spicco della scena teatrale italiana, veste i panni della governante Tosca. Il personaggio di estrazione più bassa, eppure il più moderno della pièce. Madre single e lavoratrice, la domestica Tosca è l’unica che ascolta la ragazza, l’unica che da subito empatizza con lei, pur non capendo esattamente a che titolo stia bussando alla porta della casa in cui lavora.

Tosca ripete continuamente che sta per andarsene, perché la casa è troppo isolata, non le piace la campagna, c’è troppo silenzio e in sostanza si respira troppa infelicità: «Non sarebbero cattivi, però non danno grande soddisfazione. Mangiano e non dicono è buono, è cattivo. Niente. Non ti dicono mai niente».

Incontrarsi da un’altra parte

Quando le hanno proposto di fare il provino per il ruolo di Tosca, Daria Deflorian stava lavorando a un altro progetto suo, che ha dovuto rimandare, ma non le è costato fatica. Voleva partecipare all’esordio teatrale di Moretti, che l’aveva già diretta nel film Tre piani. «Non credo di avere fatto un buon provino, non credo di sapere fare provini. C’era un grande imbarazzo tra me e Nanni», racconta Deflorian il giorno dopo il debutto di Diari d’amore a Bologna.

«Per me è stato molto importante provare che potevo recitare senza scegliere nulla, provare a fare quello che dice Jorge Luis Borges in uno dei suoi libri, riscrivere il Don Chisciotte senza cambiare una virgola. È un lavoro che a livello attoriale mi sta confortando: eseguo e basta. Altrimenti il ventaglio dei personaggi che si possono interpretare nel corso di una vita diventa limitato», spiega Deflorian, che è anche autrice e regista.

«Per me interpretare Tosca ha significato interpretare un personaggio senza indossare la maschera, cioè la possibilità d’incontrarmi da un’altra parte, in un testo del passato, scritto da Ginzburg, che non mi appartiene affatto. È stata la possibilità di non abituarsi a interpretare solo quello che ci assomiglia, stare solo dentro al simile. Stare in scena è un piccolo allenamento a metterci nei panni dell’altro», continua a spiegare l’attrice.

«Per esempio all’inizio avevo messo nel personaggio di Tosca una mia idea di classe: cioè l’idea che la domestica fosse più in gamba del lavoro che faceva, che meritasse molto di più. Invece Moretti mi ha detto: “No, lei è molto orgogliosa del lavoro che fa”. Queste poche parole da subito mi hanno guidato nel lavoro», racconta Deflorian, che da ragazza ha dovuto lavorare come domestica per guadagnarsi da vivere. «Pensavo che l’altro da me fosse interpretare una donna borghese annoiata, come il personaggio che ho fatto in L’origine del mondo di Lucia Calamaro. E invece uscire da me ha significato interpretare una domestica orgogliosa del suo lavoro», spiega.

«Una cosa che mi piace molto di Tosca è che dalla cucina ascolta tutto, c’è anche quando non è in scena. Ogni tanto quel personaggio mi ha fatto pensare alle badanti di mia madre, che stavano così lontano dai loro figli, dalla loro famiglia. Donne che hanno fatto scelte “dannate”, ma che in queste decisioni di migrare per lavorare interpretano il desiderio di stare in vita, di proseguire la vita».

Moretti ha deciso che la messa in scena delle commedie fosse molto rispettosa del testo di Ginzburg, interpretato anche dagli attori in maniera scrupolosa. «Ci ha chiesto anzi di calcare le parole che non si usano più e che ci riportano indietro nel tempo», racconta Deflorian.

Questo anche per esaltare le caratteristiche del linguaggio della scrittrice piemontese, che da qualche anno vive una riscoperta, dovuta anche al successo delle traduzioni in inglese dei suoi romanzi fatte dalla famosa traduttrice statunitense Ann Goldstein (la stessa che ha portato negli Stati Uniti la trilogia di Elena Ferrante). “Ginzburgmania” l’ha definita Davide Coppo in un lungo articolo su Rivista Studio, in cui ha intervistato anche il curatore italiano delle opere di Ginzburg per Einaudi, Domenico Scarpa.

«Ci ritroviamo tutti, alla fine di un burnout lavorativo, di un amore finito, di un altro anno portato avanti senza certezze, a pensare come la povera Barbara di Fragola e panna: “Ma come farò, tutta la vita? Sarà tutta la vita così?”», conclude Coppo, che ricorda la passione di una scrittrice contemporanea come Sally Rooney per Ginzburg. Uno dei motivi della modernità dei testi di Ginzburg, del suo continuare a parlarci oltre il tempo, sta nella lingua: piana, precisa, sobria, vicina al parlato.

«La lingua di Ginzburg è bella da leggere, ma è ancora più bella da recitare. Prima di lavorare a questo spettacolo non ero un’appassionata dei suoi libri, ma ho scoperto nei suoi testi questa capacità di prendere posizione anche nell’incertezza. La sua forza è che non può fare mai a meno dell’altro. Il suo femminile non vuole rinunciare, per esempio, al dialogo con il maschile, anche se lo spazio di libertà è minimo», racconta Deflorian.

La domestica, Tosca, nel suo rivendicare il suo disagio, dicendo che se ne vuole andare, «parla in fondo della necessità che ci siano gli altri, esprime il desiderio di relazione, di comunicazione, che non trova nella villa, in quella coppia borghese che si regge sull’ipocrisia».

Secondo l’attrice, quello che funziona dei dialoghi di Ginzburg è che c’è sempre «qualcosa che non torna, c’è come un desiderio di un abbraccio, ma questa ricomposizione non arriva mai».


(L’Essenziale, 6 novembre 2023)

di Pinella Leocata


Catania. In occasione dei trent’anni del gruppo femminista “La Città Felice” Lia Cigarini ha presentato, nell’aula magna del dipartimento di Scienze Politiche di Catania, la nuova edizione del suo testo La politica del desiderio (Orthotes editore) che presenta gli scritti che vanno dal 1974 al 1994 arricchiti da quelli pubblicati tra il 1999 e il 2020. Un libro che è una sorta di “romanzo di formazione”, di “antologia della politica delle donne” e del femminismo di cui ripercorre sia il pensiero e le tematiche fondamentali – quali la libertà femminile, il desiderio, la rappresentanza, il lavoro, il diritto e l’aborto – sia le pratiche politiche inventante e sperimentate dalle donne, dall’autocoscienza alla pratica dell’inconscio, del partire da sé, della differenza con gli uomini e delle relazioni duali tra donne. Temi discussi dalle docenti Pinella Di Gregorio, Stefania Mazzone e Teresa Consoli e dalle femministe Laura Colombo della Libreria delle donne di Milano e Anna Di Salvo, Mirella Clausi, Giusi Milazzo e Nunzia Scandurra de La Città Felice.

Per Lia Cigarini – avvocata, giurista e una delle principali protagoniste del femminismo italiano – “l’orizzonte della politica delle donne era, ed è, un cambio di civiltà” da realizzare attraverso la pratica della differenza femminile, uno degli apporti italiani più innovativi e studiati dal femminismo internazionale. Le donne – sostiene – anche con la loro entrata dirompente nel mondo del lavoro, hanno scosso le fondamenta del patriarcato, l’hanno svuotato dal di dentro perché non gli danno più consenso, vanno da un’altra parte in una sorta di esodo. Questo, da una parte, ha portato al fatto che anche gli uomini accettino i concetti e i diritti di parità – peraltro già sanciti dall’art.3 della Costituzione che però incasella le donne, che sono maggioranza, tra le minoranze, come quelle etniche, linguistiche e di religione – ma, allo stesso tempo, i maschi si sentono profondamente disturbati perché vedono che le donne vanno avanti – conquistando posizioni apicali, nelle istituzioni, nella politica e nelle aziende – mentre loro sono bloccati. Le donne non sono più dipendenti da loro, in loro possesso e, peraltro, troncano le relazioni sentimentali, li abbandonano. Abbandono che per i maschi – che lo vivono come l’abbandono della madre cui sono profondamente legati – è intollerabile. Di qui l’incremento esponenziale dei femminicidi, espressione distorta della conquistata libertà delle donne.

Le femministe sottolineano che l’obiettivo della loro lotta non è la parità, ma la possibilità di esprimere e affermare la propria differenza, i propri desideri, la propria libertà che è possibilità di costruire il senso di sé trovato di volta in volta nel rapporto con gli altri. “La libertà – dice Lia Cigarini – è un’esperienza che si guadagna con l’autocoscienza, la psicoanalisi, la pratica delle relazioni. È l’esperienza personale, insieme alle relazioni con le altre e gli altri, a modificare la realtà, non le leggi che sono un modo di delegare al potere, un modo di dare il potere di risolvere i problemi al Governo e a una maggioranza parlamentare, tra l’altro entrambi espressioni di una parte della popolazione. Un approccio che è il contrario della politica femminista secondo cui è con la pratica delle relazioni e con l’autonomia che si risolvono i problemi, non con la legge”. Per questo le femministe degli anni Settanta dicevano di essere sopra la legge e chiedevano – ma furono sconfitte – la depenalizzazione dell’aborto anziché una legge che lo regolasse, legge che pure oggi difendono dai ripetuti attacchi.

Ed è per questo che Lia Cigarini e le femministe della differenza sono convinte che il cambio di civiltà passi anche attraverso nuovi tipi di relazioni delle donne con gli uomini, quelli che – come i partecipanti all’esperienza di “Maschile plurale” – stanno facendo propria la pratica delle donne dell’interrogarsi e del partire da sé. Gli uomini che ripudiano la guerra, che s’inseriscono nella lunga tradizione del pacifismo, che sono consapevoli che la violenza contro le donne, quella che chiamiamo “questione femminile”, è in realtà una “questione maschile” perché c’è una radice antropologica nella violenza, quella della guerra come quella contro le donne. Ed è su questo nodo che devono interrogarsi per superarlo, trasformarlo. Uomini che devono riflettere sulla propria differenza – superando la propria percezione di sé, maschile, come se fosse universale – ed elaborare un proprio linguaggio. Tanto più necessario in questo periodo storico in cui anche il lavoro delle nuove generazioni è “femminile”, nel senso che è frutto della messa a profitto del desiderio dal momento che si fa plusvalore sui desideri e sulle relazioni, per quanto pilotate e distorte, cioè sul femminile.

Di qui l’invito ad aprire un dialogo con gli uomini, questi uomini, e a ricordare che il movimento delle donne non ha una posizione univoca. “Il femminismo non è unico: è conflittuale, è un terreno di lotta.”


(La Sicilia, 3 novembre 2023)

di Silvia Morosi


Il filo invisibile che collega tre generazioni di donne e il desiderio di vivere liberamente la propria maternità, dentro o fuori una famiglia tradizionale, è al centro del libro «Una buona madre» (Guanda, 2022) dell’irlandese Catherine Dunne, vincitrice della prima edizione del Premio Europeo Rapallo. Promosso dalla cittadina ligure, con il sostegno di BPER Banca, il riconoscimento di respiro internazionale è stato annunciato lunedì 30 ottobre, insieme alle terne delle scrittrici italiane finaliste per le sezioni narrativa e saggistica (che saranno – invece – premiate durante la cerimonia finale di sabato 11 novembre). La giuria composta da scrittori, giornalisti e critici che da sempre hanno dedicato ampia parte della loro attività ai problemi connessi al genere, ha scelto Dunne tra una selezione di autrici di 27 Paesi dell’Unione europea: il suo lavoro «si impone come voce dell’universo femminile, dei dolori e degli affetti, delle ingiustizie subite e del loro coraggioso superamento, fin dall’uscita nelle librerie de “La metà di niente”», si legge nella motivazione. L’opera premiata, in particolare, «collega un presente avvincente a un passato tormentato, mettendo in luce modi e aspetti diversissimi dell’essere madre, insieme ai trascorsi storici di un Paese cattolico come l’Irlanda, carico di istituzioni ignobili dovute alle collusioni Chiesa/Stato». L’autrice si è detta «grata» per il riconoscimento pensato per riconoscere il talento della letteratura scritta dalle donne, e ha ringraziato «i traduttori che, con il loro lavoro, rendono la narrativa europea accessibile a tanti lettori».

Selezionate tra le oltre cento candidature ricevute di opere edite in lingua italiana e pubblicate per la prima volta a partire dal primo ottobre 2022, sono risultate finaliste in questa edizione per la narrativa Mariapia Veladiano con Quel che ci tiene vivi (Guanda); Claudia Petrucci con Il cerchio perfetto (Sellerio); Giusy Sciacca con Damore e di rabbia (Neri Pozza). Per la saggistica, invece, Marina Valensise con Sul Baratro. Città, artisti e scrittori dEuropa alla vigilia della Seconda guerra mondiale (Neri Pozza); Teresa Cremisi con Cronache dal disordine (La nave di Teseo); Sara De Simone con Nessuna come lei (Neri Pozza). L’edizione 2022 aveva visto trionfare Francesca Maccani nella sezione narrativa ed ex aequo Maura Gancitano e Bianca Pitzorno nella categoria saggistica.

Anche quest’anno – spiega a La27Ora Margherita Rubino, coordinatrice del Premio Rapallo – «sono state numerose le candidature (più di cento libri, tra saggistica e narrativa, ndr) anche se, in accordo con i sette componenti della giuria, abbiamo limitato le possibilità di adesione delle case editrici. Dai libri di saggistica potevamo aspettarci trattassero temi politici, societari, storici, ma è sorprendente la quantità di bellissimi libri sull’amicizia tra donne (Mansfield e Woolf), sulle biografie di artisti rilette con sensibilità estrema, su certi punti di vista della Storia fin qui disattesi». Quanto ai romanzi, chiarisce, «molte storie portano il segno di un punto di vista femminile, ma romanzi come L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi della rumena Tatiana Țîbuleac, ben considerato dalla giuria per i romanzi stranieri, è scritto in prima persona e chi narra è un ragazzo, un adolescente disastrato e geniale». Se si osservano le classifiche dei libri venduti nel 2023, «si vede con chiarezza che le donne stanno vendendo sempre di più. E questo dovrà di certo incrementare la quantità di scrittrici vincitrici di premi letterari. Non posso dire che il futuro è rosa, ma posso dire che la situazione sta migliorando moltissimo. Non dobbiamo dimenticare – conclude – i millenni in cui le donne non venivano pubblicate. Oggi la diffusione e il successo delle autrici non può non incrementare la quantità, ma io credo anche la qualità del mercato».


(Corriere della Sera, Luisa, la newsletter de La27Ora, 30 ottobre 2023)

di Franco Lolli


Poco più di centoquaranta pagine sono state sufficienti a Manuela Fraire per riportare all’attenzione del lettore, nel suo saggio La porta delle madri (Cronopio, pp. 146, € 13,00), i temi che la sua attività di psicoanalista e di donna impegnata nel movimento femminista ha da sempre incrociato e studiato.

Tra questi, il concetto di differenza sembra occupare un posto centrale: particolarmente efficace, un passaggio nel quale specifica (rettificando errate opinioni) che «la differenza sessuale nel discorso del femminismo non è quella della donna dall’uomo ma il quid che li unisce e li separa al di là di ogni complementarietà. Se femminile e maschile si spartissero tutte le parti che appartengono all’una o all’altro, non vi sarebbe alcun resto, mentre nella differenza sessuale c’è un resto che per la psicoanalisi è il sessuale».

A venire interrogata non è dunque, semplicisticamente, la diversità dell’universo maschile rispetto a quello femminile, bensì l’impossibilità per entrambi di sapere qualcosa sulla sessualità dell’altro. Fraire compie questo passaggio mettendo a fuoco la sottomissione di qualunque corpo umano al regime pulsionale nel quale il dato biologico si interseca con quello linguistico, il reale del corpo con il simbolico della parola, il soma – direbbe Freud – con la psiche. In questa ottica, studia la differenza tra madre e donna, tra madre e gestante, tra femminilità e disposizione alla passività, tra istinto e pulsione, tra genere e sesso. E orienta il suo interesse verso le nuove forme di famiglia (omogenitoriali e monoparentali, in particolare), le nuove forme di gravidanza che la tecnologia ha reso possibile e gli aspetti etici legati alle trasformazioni di quello che un tempo veniva definito «legame primario». Anche in questo ambito, ciò che sembra attrarre soprattutto l’attenzione di Fraire è la differenza: tra l’accudimento del bambino da parte del genitore donna e quello da parte del genitore uomo, ovvero tra un’esperienza di cura radicata nella tradizione e la prassi di chi «non ha ancora accumulato abbastanza esperienza di allevamento di un infans senza la supervisione di una donna» che gli consenta di «contare su un sesto senso che gli permetta di decifrare e anticipare i bisogni di chi ancora non parla».

Il libro di Manuela Fraire offre anche, all’interno della sua prospettiva concettuale, una riflessione sulla pratica analitica, alla luce di una serie di interrogativi: sull’eventuale condizionamento del sesso dell’analista, su quanto il controtransfert risenta dei pregiudizi «sessuali» dell’analista, su quale sia il peso dell’identificazione proiettiva.

Tre film, narrati da altrettanti registi uomini – The Favourite diretto da Yorgos Lanthimos, Vier Minuten diretto da Chris Kraus, e The French Lieutenant’s Woman di Karel Reisz – consentono all’autrice di analizzare altre differenze ancora: quella tra l’atteso e l’ospite, e quelle tra l’essere e il sentirsi soli e, ancora, l’avvertire se stessi come diversi, «i tre volti che può assumere la condizione che chiamiamo solitudine».


(Alias – il manifesto, 29 ottobre 2023)

di Andrea Carloni


Vivian Lamarque scrive poesie fin da bambina e ne pubblica da cinquant’anni. Nel 2002 è uscita per Mondadori la raccolta di tutte le sue poesie, ma ha continuato, e continua, a scriverne. Ha collezionato numerosi premi (il Montale, il Carducci, il Morante, il Saba e, recentemente, il Premio Strega Poesia).

Vorrei cominciare dallinizio, quindi dal titolo di questa sua ultima raccolta di poesie: Lamore da vecchia. Cosa può raccontarci di questa scelta?

Se ben ricordo, tutti i titoli dei miei libri di poesia sono apparsi prima delle poesie stesse, hanno “dato il la”. Unica eccezione, Madre d’inverno, che giunse a libro terminato. Il titolo L’amore da vecchia nacque nel 2016 contemporaneamente all’uscita di Madre d’inverno, il giorno del mio settantesimo compleanno. Proprio in quei giorni mi capitò come una sassata un colpo di fulmine (in assenza di metà fulmine però!), una specie di stordito innamoramento. Poesie come se piovesse, precedute dal fulmineo nuovo titolo: L’amore da vecchia. Amore naturalmente non rivelato all’interessato (anzi al disinteressato). Intanto le recensioni al libro precedente, pur ottime, mi parevano ruotare troppo intorno alla mia biografia, mea culpa pensai, nel prossimo libro guai a me se toccherò ancora il tema infanzia, solo versi d’amore. Ma avevo fatto i conti senza l’oste, cioè senza le poesie stesse. Dopo un anno (mi ero festeggiata zitta zitta anche l’anniversario del fulmine), camuffate di rami e foglie come nella foresta di Birnam, sono avanzate di nuovo, striscianti, le poesie sui soliti temi prediletti. Allora nove sezioni anziché l’unica prevista. E della prima, “I nomi degli amanti”, salvate solo metà delle poesie.


    e perdono chiedo ai fidanzati.

    Tutti dimenticati?

    No, i loro nomi ho ancora dentro bene

    incisi, ma come per nebbia

    confondo un poco rami e mani, colore

    delle foglie e dei capelli.

    Oh presto saremo boschi tutti quanti insieme?


Lei dichiara per questo libro una matrice fortemente autobiografica, forse mai così netta come in queste pagine. Quale rapporto intercorre oggi fra le sue vicissitudini e le sue poesie?

Siamo in guerra! Più giuro di non parlare mai più d’infanzia, più loro insistono. Devo informarle che ho quasi ottant’anni, che sono ridicole, che la smettano. Niente, imperterrite si camuffano, veda nella risposta precedente la foresta di Birnam. Tempo fa avevo studiato una strategia: iniziai a scrivere la mia autobiografia, in prosa naturalmente, pensando di così tacitare quel tema in versi. Fallimento totale: e per di più invasero anche la prosa.


    I am an orphan! I am an orphan!

    Ma, sorpresa, orfano lui non era affatto.

    Come io non lo sono

    come voi non lo siete

    come tutti

    lo siamo.


In copertina appare il disegno essenziale della curva di una linea, fa pensare allavvolgimento di un filo. Come nasce questa immagine e quanto è casuale?

Le copertine sono le mie croci. Le vorrei solo con titolo e nome dell’autore, fine, come nei vecchi Specchi color seppia. Le vorrei fisse nel tempo, come avviene con la bianca Einaudi o con gli Adelphi. Le prime copertine che mi proposero per L’amore da vecchia mi spaventarono. «Aiuto, sul mio corpo avete messo una testa non mia», scrivevo disperata a Elisabetta Risari e a Luigi Belmonte. Nel 2002 avevo ottenuto di disegnarmela da me la copertina dell’Oscar, idem anni dopo quella di Poesie per un gatto e poi quella di La gentilèssa. Per L’amore da vecchia chiedevo meno segni, più vuoto, infine dopo una quindicina di prove, ecco giungermi l’attuale. Nel centro del filo c’era una specie di occhio inquietante, ottenni di eliminare pure lui e sì, ha ragione, il risultato è un filo e, me ne sono accorta dopo, in quarta di copertina la poesia parla di un filo da ricamo, felice casualità.


    Finito, già finito

    lincantato tempo

    dei rami in fiore?

    Come quando

    sul più bello del ricamo

    finisce il filo da ricamo?


Lironia e soprattutto lautoironia sembrano essere compagne fedeli dei suoi componimenti, anche in una delle sezioni più intense, Io non sono morta io sono nata. Quanto aiuta lalleggerimento?

È la mia arma, la mia salvezza. Imparai a farne uso fin da bambina. In un tema di seconda o terza elementare, dovendo parlare del babbo Dante morto quando avevo quattro anni, dopo tante belle dovute parole, si infilò nel pennino l’invidia per gli altri bambini che il papà lo avevano ancora: «ci sono anche altri colleghi del mio babbo morti, ma pochissimi!». Dire e non dire, oppure dire modificando l’alfabeto: in una letterina di Natale dettata dalla maestra e che cominciava con «Cari genitori», per un lapsus calami, firmai anziché Vivian, Viviam. Imperativo esortativo del verbo vivere, fa niente se uno dei due genitori era morto!


    Nessuno si meraviglia

    se uno alla sua età

    muore.

    Nessuno.

    Ma lei sì!

    Lei che sarei io, sì.

    Sì, lei si meraviglierà,

    io mi meraviglierò.

    Tanto


Fra i suoi versi compaiono i nomi di tanti poeti del passato, Pascoli, Caproni, Gozzano, Saba… Rivolgo a lei la stessa domanda della sezione Poesie sulla poesia: non ce ne inviano più di poesie i morti, nemmeno una?

Ha ragione. La sua domanda mi fa pensare che in fondo anche da là ce ne inviano ancora, a tonnellate. Perché, se rileggo oggi a ottant’anni poesie che avevo letto a trenta, mi dicono molte cose in più, nuove, nuovissime, grazie poeti! Per esempio grazie Lello Baldini, che sto rileggendoti in questi giorni.


   Dipenderà dalla poesia e dalla rosa

    una tra i fogli laltra tra le foglie

    se di qualche millimetro col tempo

    cresceranno, o se resteranno lì inerti

    sul foglio e nel vaso, senza una nuova

    parola, senza una foglia nuova.


(La Balena Bianca, 24 ottobre 2023)

di Jessica Chia


Sono piccole, alcune hanno ancora i denti da latte. Altre, invece, hanno le prime forme sul petto. Sono bambine fra i sei e i diciassette anni, che si accalcano davanti alla Camera del lavoro, a Milano. Urlano, sono senza i loro genitori; consegnano volantini con su scritto: «Mi son la piscinina, mica la schiava». Alzano la voce, per la prima volta in vita loro: «Sciopero! Sciopero!». Quelle bambine stanno segnando la storia dei diritti nel lavoro minorile e femminile in Italia. È il 1902 e le «piscinine» – questo il loro nome in dialetto – sono apprendiste sarte, modiste, corriere, che consegnano a piedi, in tutta la città, grossi pacchi con vestiti realizzati su misura dagli opifici tessili e dalle botteghe sartoriali. Sono al servizio delle «maestre», che non le retribuiscono e non insegnano loro il mestiere. E oltre ai soprusi salariali, sono costrette a subirne di peggiori, in silenzio, perché nessuno crede loro: le molestie e le violenze sessuali praticate dai mariti, e dagli uomini di casa, delle loro «maestre».

Tra loro c’è anche Nora, quindici anni, balbuziente, povera, quasi analfabeta e insicura. Ma con una forza sconosciuta nascosta dentro lei, e di cui ancora non conosce il potenziale. Ispirata al quadro La piscinina di Emilio Longoni (1859-1932) del 1891, la ragazza è la protagonista del nuovo romanzo di Silvia Montemurro, La piccinina, appena uscito per edizioni e/o (pp. 192, 16,50 euro), che unisce la storia di quegli straordinari fatti storici alla vita personale, difficile, della piccola Nora: le prime amicizie, la scoperta dell’amore e del proprio corpo, le dinamiche violente delle famiglie in quegli anni. Fino al confronto con la dura e spietata realtà che vivono le bambine di quell’epoca.

Scriveva La Domenica del Corriere sui quei tumulti: «Le piscinine domandano: un salario minimo di 50 centesimi, riduzione di orario, non essere adibite a lavori di famiglia e non portar lo scatolone; doppia paga alle domeniche e compenso proporzionato per ore straordinarie di lavoro. […] La grande sala della Camera del lavoro, invecchiata fra le adunanze di tutti i generi, non ricorderà certo d’aver mai veduto fra le sue pareti nulla di simile a quanto vi si è svolto ieri. Una nidiata di bambine – saranno state un centinaio – sedute in buon ordine, contornavano il palco delle Commissioni. Un cinguettio di voci infantili, allegro e irrequieto echeggiava fra le nere muraglie, sotto al lucernario polveroso, che finora avevano rimbombato delle grida minacciose di tumultuose assemblee operaie».

L’evento, infatti, non sconvolge solo i giornalisti dell’epoca: si sconvolgono le «maestre», che le seguono nei loro cortei, insultandole. Si sconvolgono gli uomini delle loro famiglie, che si sentono «insultati», provano la vergogna del disonore per queste figlie ribelli che non sanno stare al loro posto. E questo avviene anche nella famiglia di Nora. Ma lei si ispira agli insegnamenti di suo padre, morto nelle lotte delle Cinque giornate di Milano: «Il papà mi ha insegnato che le grandi lotte per i diritti partono sempre dalle rivolte del popolo. Quindi anche noi ci potevamo ribellare». E nonostante la balbuzie, lei cammina fiera, di fronte alla folla che si prende gioco di loro, fino alla Camera del lavoro, per consegnare i desiderata delle scioperanti: «“Boicottare” diceva (suo padre, ndr), scandendo bene le parole, “imparalo anche tu, Nora, cosa vuol dire. Che magari un giorno ti servirà. Una parola preziosa”».

A casa la vita non è facile: i suoi fratelli sono i primi che la insultano per via degli scioperi (le dicono che «i giornali scrivono delle piscinine, “le zabette che vanno in giro a fare lo sciopero”, come gli uomini» insiste lui. «Ci fai vergognare, tutti quanti»). E lei vive, senza amore familiare, nella perpetua insicurezza della sua balbuzie: non riesce a esprimersi, è lo zimbello di tutti. Ma quelli sono anche gli anni in cui Nora scopre le amicizie, come l’Angelica e la Lisa. Soprattutto la Lisa: così bella, in grado di parlare senza balbettare, dolce e composta. C’è poi l’Emilio, il suo amico pittore adulto, figura di riferimento per Nora. E infine l’Achille, il ragazzo di cui si innamora come solo a 15 anni ci si può innamorare: perdutamente e dolorosamente. Ma l’amicizia di questo trio di ragazzini è destinata a finire quando si troveranno ad affrontare un evento troppo grande per quelle piccole donne dal viso di bambine: l’aborto clandestino che quasi ucciderà una di loro.

«Mi avevano anche inculcato nella testa che ci fosse una sorta di potere nascosto, nel genere maschile, per cui noi donne dovevamo stare all’erta o saremmo finite abbandonate e rinnegate per via di uno sciocco errore di calcolo». Nora impara molto presto che la vita per le femmine è disseminata di dolori e ingiustizie: gli uomini possono farne quello che vogliono di una bambina povera, tanto la «vergogna» rimarrà attaccata solo addosso a lei, per tutta la vita. Ed è quello che lei subirà proprio sul luogo di lavoro; quel luogo per il quale avevano chiesto maggiori tutele e più dignità.

Attraverso gli occhi di Nora, Silvia Montemurro racconta una storia che è soprattutto una storia delle donne: dalle lotte collettive, alla loro figura marginale – di fatiche domestiche e «allevatrici» di figli – nelle famiglie, ai tentativi di emancipazione di quelle nate nelle classi più povere, per non rimanere «zitelle». Le descrive – con una prosa piacevole che, in prima persona, ricalca la voce della quindicenne Nora e il suo guardo di scoperta sulla vita – in un mondo ancora di dominazione maschile, dove la violenza è pane quotidiano e bisogna imparare a sopravvivere fin da piccole. Come fanno le piccinine, per cui il loro coraggio ha rappresentato un enorme passo in avanti nella storia dei diritti: «…diverranno lavoratrici oneste, combatteranno cento altre battaglie con la convinzione profonda di una verità appresa da bambine, molte diverranno madri; i loro figli certo non saranno crumiri. Su, camminate, bambine!» (Avanti!, giugno 1902).


(27esimaora.corriere.it, 15 ottobre 2023)

di Luciana Tavernini


Louise Glück (1943-2023) è morta il 13 ottobre scorso. La ricordiamo nelle sue opere. Proponendoci la sua verità soggettiva sulla complessità e unità dell’esistenza e rivelandoci il modo in cui le si è manifestata, la poesia del premio Nobel Louise Glück ci offre l’opportunità di lasciarci a nostra volta illuminare e trasformare.


Nell’anno della pandemia planetaria (2020) il Nobel è andato a una scrittura di «austera bellezza» che ruota intorno al tema della morte ma anche della resilienza. Come recita la motivazione del premio, Louise Glück nella sua poesia attinge alla sua vita e costituisce una «voce inconfondibile» che «rende universale l’esistenza individuale».

Nata a New York il 22 aprile1943 da famiglie di origine ebrea e ungherese, emigrate negli USA all’inizio del Novecento, da giovane Louise Glück ha sofferto di anoressia. La sua è una poesia dell’esperienza e delle relazioni e lei ne è consapevole. Il secondo marito John Dranow e il figlio Noah, nato nel 1973, diventano interlocutori, ad esempio, in L’iris selvatico. E della sua maternità dice in un’intervista a Luca di Mastrantonio: «La nascita di mio figlio mi ha fatto crescere. Un’esperienza che mi ha dato tanto e mi ha sottoposta a molte forzature. All’improvviso, diventi responsabile di un esserino e, per un paio di anni, sono stata una mamma single. È uno shock, ma è stata la decisione migliore che abbia mai preso. Anche sul lato artistico: sarei stata una poetessa molto più tediosa senza la nascita di un figlio. E senza i miei studenti, i loro testi, non avrei superato il mio primo grande blocco di scrittura.»

Louise Glück ha scritto dodici libri di poesie e due di saggi, e ha ottenuto i maggiori riconoscimenti statunitensi. Poems: 1962-2012, è un volume di ben 656 pagine che contiene cinquant’anni di poesie. Il Saggiatore, che ha ripubblicato L’Iris Selvatico e Averno, ha recentemente mandato in libreria Notte fedele e virtuosa, Ararat, e il suo ultimo libro Ricette per l’inverno collettivo.

Ho incontrato la poesia di Louise Glück, come credo molte, quando le è stato assegnato il Nobel: la sua poesia si è diffusa e si diffonde attraverso le relazioni, con il passaparola. Anche per le traduzioni in Italia dei primi due libri è stato così, come racconta il traduttore Massimo Bacicalupo in una intervista rilasciata presso il Centro Studi americani. Infatti Glück, come ci avverte nel suo discorso di accettazione del Nobel, non è una «poeta da stadio» e neppure «una poeta che parla a se stessa», ma fin dall’infanzia come lettrice di poesia sente l’importanza del «ruolo di lettrice scelta», un ruolo «intimo, seduttivo, spesso furtivo o clandestino» e ora come autrice sa che «chi legge o ascolta dà un contributo essenziale, in quanto destinatario di una confidenza o di un grido di protesta, a volte in quanto cospiratore» nel cogliere la profondità politica della poesia.

Diffida della vita pubblica in cui le generalizzazioni cancellano la precisione e le verità parziali cancellano il candore e la rivelazione. I premi, la notorietà, possono essere «un’estensione dell’intensa relazione che la poesia aveva creato: un’estensione, non una violazione»; ciò che le interessa, come ad alcuni altri poeti e poete, è piuttosto «raggiungere molte persone […] nel tempo, nel futuro»; ma desidera che «in qualche modo profondo questi lettori arrivino sempre singolarmente, uno a uno». Cita proprio una poesia di Emily Dickinson, «I’m nobody! Who are you?» (1861), per esprimere questo intimo e necessario rapporto tra poeta e chi legge: «“Io sono Nessuno! Tu chi sei?/ Sei Nessuno anche tu?” […] “Allora siamo in due!/ Non dirlo! Potrebbero esiliarci, lo sai…”».

Dunque, ci suggerisce come avvicinarci a lei. Farsi scegliere da chi fa poesia, e sedute sul divano, diventare «compagne di invisibilità», collaborando alla rivelazione che può accadere.

I suoi sono veri e propri libri, non semplici raccolte di poesie. La critica parla di sequenza poetica lirico narrativa, dunque andrebbero letti ciascuno per intero seguendo l’ordine da lei indicato, un ordine non solo temporale ma anche di sviluppo del tema proposto. Sono veri e propri classici perché ogni volta che li leggiamo scopriamo qualcosa di nuovo. Non dobbiamo, come certi collezionisti di opere d’arte, conservarli in cassaforte, nella libreria, cassaforte di libri. Sarebbe come lasciare ricoprire di polvere qualcosa di prezioso e vivo che a ogni rilettura rivela nuove scoperte; infatti, in ogni sua poesia ne sono stratificate altre, come in quelle di Emily Dickinson, da lei considerata sua maestra, ed è un vero piacere poter leggere il testo in originale per azzardare altre traduzioni sia per le caratteristiche linguistiche dell’inglese, sia per la scelta di parole polisemiche come bed, letto e aiuola, che ci fanno passare dal fiore alla relazione di coppia.

L’iris selvatico

Vorrei proporvi di conoscerla a partire dal suo settimo libro, L’iris selvatico (1992), per l’importanza che oggi sentiamo di un diverso rapporto con la natura, non a caso mostrato da ciò che María Zambrano chiama logos poetico, la capacità di stare presso le cose, amandole con meraviglia in un ascolto che riesce a portare alla parola verità non ancora espresse dell’esistenza.

Qui tutto accade nel giardino, nell’orto, nella campagna del Vermont dove Glück abitava col marito e il figlio. Tre sono all’incirca le tipologie delle cinquantaquattro poesie, scritte in due mesi e mezzo: quelle in cui i fiori parlano, figure che rappresentano stati dell’animo umano; i “Mattutini” e successivamente i “Vespri” in cui la giardiniera dialoga con il divino; alcune situazioni temporali e di luogo dove il divino si manifesta e parla direttamente. Intrecciandosi tra loro le poesie creano un percorso iniziatico che non si può raccontare ma solo seguire e ripercorrere, come il cammino a spirale dei templi indonesiani di Borobudur dove si ascende, entrando in profondità con se stesse.

Vengono presentate situazioni quotidiane vissute con grande intensità come può accadere nelle micro-meditazioni dello yoga in cui l’essere capaci dell’attenzione – nell’accezione di Simone Weil, del fare vuoto dentro di sé per aprirsi all’oggetto, a ciò che abbiamo davanti – ci permette di cogliere il senso dell’esistenza. La poesia di Glück a una lettura superficiale può sembrare che mostri qualcosa di banale, di quotidiano anche se avvertiamo in qualche suo verso come una scossa. Ma se ci limitiamo a una comprensione apparente perdiamo il piacere della sorpresa. E in un suo “Mattutino” lei dice: «Per me, sempre/ il piacere è la sorpresa» (p. 83).

Le sue poesie nascono da momenti di essere come li chiama Virginia Woolf, da momenti di felicità come dice Mansfield. Monica Farnetti scrive che si tratta di un’esperienza legata «a una percezione nitida, intera e pervasiva della realtà», «una realtà vivente». «È, insomma, un campo di percezione, e insieme di passione, il quale stando dentro i suoi limiti funziona però come parte per il tutto, vale a dire del mondo come corpo celeste pieno di meraviglie e del cosmo che lo ospita fin dall’inizio del tempo». Farnetti parla di Katherine Mansfield e, partendo da lei, disegna una genealogia di autrici che dall’inizio del Novecento «prendono via via coraggio e si autorizzano (l’una l’altra e ciascuna se stessa) a ficcare il naso nella terra e nel cielo, per rendersi conto da dove e per quale via il mondo sia venuto al mondo e quale posto occupino l’umano e i suoi dissimili» (p. 44). Oltre a Mansfield e Woolf, indica Colette, Marguerite Duras, Elisabeth von Armin, Clarice Lispector, Marguerite Yourcenar, le nostre Marisa Bulgheroni e Anna Maria Ortese e per gli USA Alice Walker, bell hooks, Toni Morrison. Insomma mi sento di collocare Glück in questa genealogia di donne che vivono l’esperienza dell’alterità impastata con l’identità, piazzandosi, come dice Farnetti, «con tutto il corpo e con tutti e cinque i sensi al centro di quest’esperienza e vivendola appunto come esperienza e non come concetto» (p. 49).

Una modalità empatica in cui si è disponibili «ad accorgersi dell’altro e a stare amorosamente in sua compagnia. A starci dunque per amore, e per amore appunto d’altro», una capacità di lettura per Glück che dal suo giardino fa «saltare le pareti dell’io» praticando «il passaggio Io/Altro», coniugando la sfera terrestre e celeste e «mantenendo il respiro e la grandezza dell’universo» (Farnetti, p. 50). Un’empatia che la porta a sentire i fiori e a dialogare con un Padre divino che ha elementi biblici. Come direbbe la teologa Antonietta Potente, nelle serie di poesie intitolate Mattutino e Vespro è «l’anima corporea» (p. 80) della giardiniera che si rivolge al Padre, a un Tu, al «grande Mistero che ci avvolge, noi normalmente lo chiamiamo “Dio”, in realtà non sappiamo se ha un nome» (p. 55). Si tratta di una presenza-assenza di cui si ha «nostalgia e sete» perché «se l’essere umano non percepisse l’assenza non potrebbe né cercare né amare» (p. 29). In contrasto con questa sua percezione del divino Louise Glück scrive la parola dio minuscola solo in tre poesie, per indicarne un uso ormai svilito: per commiserarsi (Viole, «povero dio triste», p. 59), per dividere (Zizzania «se adori/ un solo dio, ti serve/ un solo nemico», pp. 61-63), come voce di dio eco della propria (Scilla, p. 43).

Il tu divino invece lei può rimproverarlo per la sua indifferenza e per come «forza il cuore» e dunque lo può paragonare a un coltivatore che prova una nuova specie (Mattutino, p. 69), ma spera che «intenda farmi/ di nuovo sana per sempre, come fui/ sana e intera nell’infanzia ignara», o ancora prima quand’era dentro sua madre o nel sogno di una possibile eternità. Un tu divino a cui può esprimere anche i suoi dubbi cercando la prova della sua esistenza nel piantare un fico nel Vermont (Vespro, p. 97). Questo tu parla con compatimento («quando vi ho fatti vi amavo. / Ora vi compatisco») perché le anime che avrebbero dovuto essere immense per i doni della bellezza del mondo sono «piccole cose vocianti» (Vento calante, p. 45) o sono incapaci di pensare al suono della sua voce («come altro che una parte di voi», Fine dell’inverno, pp. 35-37).

Per dire di questa relazione mi sembrano utili le parole di Luisa Muraro (Il dio delle donne) riferite alle mistiche: si tratta de «l’imprevedibile dio delle donne», «presente-assente in una relazione di amore libero che si faceva riconoscere senza mai farsi prendere» (p. 24), che viene detto in un linguaggio che non ha mai «la pretesa di dire la verità su Dio» (p. 25), un dio che «c’è nella forma di un capitare sempre possibile» (p. 31). Per questo, potendo leggere l’originale, spesso io preferisco tradurre you con tu piuttosto che con voi, in questo modo il dialogo diviene intimo: il tu divino si rivolge a un altro tu e non mi appare come un predicatore che si rivolge sempre a un voi, che rappresenta il genere umano.

La poesia di Glück è relazionale ma proprio perché chi legge è ascoltatrice all’interno del dialogo, vi è difficoltà a capire chi sta parlando e a chi (situazione che si può definire di locutore inaffidabile). Si assiste alla rivelazione se ci mette nella stessa disposizione della poeta che si colloca in ascolto della realtà che la circonda, del vivente che, attraverso lei, prende voce e illumina il senso dell’esistenza.

Nelle diciotto poesie il cui titolo è il nome di un vegetale, Glück lo descrive con una precisione da pittura antica. A volte il nome mi era sconosciuto, così ho cercato in internet e, grazie all’esattezza della descrizione, ad esempio per il Lamium (p. 25), ho potuto individuare di quale sottospecie si trattava. La poesia mi ha dato così le parole per dire il valore di un’amica, una di quelle amiche riservate, con una loro luce interna «come un sentiero che nessuno può usare, un sottile/ lago d’argento nell’oscurità sotto i grandi aceri» (p. 25). Ho provato quindi l’emozione del ritrovare lì quell’amica che non si lascia toccare dal sole, che non si mette in mostra, ma è tanto più preziosa nella sua apparente freddezza.

La prima poesia, L’iris selvatico (pp.13-15), che dà il titolo al libro, è la più perfetta descrizione che io conosca della depressione e del suo superamento. Gli iris li conoscete. Pensate alla loro fioritura nel dipinto di van Gogh, ma d’inverno resta solo il rizoma sottoterra. Glück dice «è terribile sopravvivere come coscienza sepolta nella terra scura». E l’uscita dal soffrire accade con il ritorno della parola. «Tu che non ricordi /passaggio dall’altro mondo/ ti dico che seppi parlare di nuovo». E alla fine c’è la descrizione della bellezza dell’iris fiorito, apertura alla meraviglia della vita, alla sua origine. «Dal centro della mia vita venne /una grande fontana, ombre blu /profondo su acqua di mare azzurra». E in Bucanave il superamento della disperazione avviene «gridando sì, rischia la gioia// nel vento aspro del mondo» (p. 27).

Le sue poesie costituiscono una critica politica profonda: troviamo rappresentata, ad esempio, la costruzione del nemico come inganno per continuare a dolerci e incolpare qualcuno perché le nostre particolari passioni finiscono e non vogliamo prendere coscienza del fatto che non erano destinate a durare, (Zizzania, pp. 61-63); oppure la necessità del disfacimento dell’io per essere in grado di mostrare al sole, al signore in cielo, «il fuoco del mio cuore, fuoco come la sua presenza», come ci dice il papavero rosso, chiamandoci fratelli e sorelle (Il papavero rosso, p. 77); o la falsa credenza che le macchine siano il mondo vero, e il fascino che subisce la mente che «vuole brillare, scopertamente, come/ brillano le macchine, e non/ crescere in profondità come, per esempio, le radici», qualcosa che bisogna però «pensarci due volte» prima di dire (Margherite, p. 105).

A volte troviamo la rappresentazione della coppia, ma mai in modo idilliaco. Ad esempio ne Il giardino (p. 51) «persino all’inizio dell’amore» senza che vi sia consapevolezza si «compone un’immagine di separazione»; oppure il biancospino capisce che «passione e rabbia umana» hanno causato la fuga dei due perché hanno lasciato cadere tutto quello che avevano raccolto (Il biancospino, p. 53). I gigli bianchi, l’ultima poesia del libro è costruita sulla simmetria tra la coppia di gigli e la coppia umana, dove alla fine dell’estate, come durante la pandemia, possiamo sentire il terrore che tutto possa finire, essere soggetto a devastazione, perduto. Possiamo sentire inutile bellezza e aria profumata. Ma lo splendore, il giardino che abbiamo costruito in «quest’unica estate» ci ha fatto entrare nell’eternità. Le mani che seppelliscono il bulbo, le mani che ci toccano e di cui avvertiamo il bisogno permetteranno lo sprigionarsi dello splendore che ritornerà.

Glück propone la sua verità soggettiva sulla complessità e unità dell’esistenza e, mostrandoci come le si è manifestata in un rinnovato rapporto con la natura, ci offre l’opportunità di lasciarci a nostra volta illuminare e trasformare.


Bibliografia


Massimo Bacigalupo, “Louise Gluck e la poesia americana”, Intervista rilasciata presso il Centro Studi Americani, il 10 dicembre 2020, https://www.youtube.com/watch?v=BbX0NqF5NpM

Emily Dickinson, “Io sono Nessuno! Tu chi sei?” in Tutte le poesie, trad. di Silvio Raffo, Meridiani Mondadori, Milano 1997

Monica Farnetti, “Felicità di Katherine Mansfield” in Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee, La Tartaruga/Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 40-55, 332 pagine, 17 euro

Louise Glück, Ararat, trad. di Bianca Tarozzi, Il Saggiatore, Milano 2021, 128 pagine, 14 euro e-Pub 7,99 euro

Averno, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2019, 160 pagine,14 euro, e-Pub 7,99 euro

L’iris selvatico, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2020, 158 pagine, 14 euro, e-Pub 7,99 euro

Notte fedele e virtuosa, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2021,176 pagine,14 euro, e-Pub 7,99 euro

Ricette per l’inverno dal collettivo, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2022, 96 pagine,13 euro, e-Pub 7.99 euro

Poems: 1962-2012, FSG – Macmillan, London 2013, 656 pagine, 22 dollari, e-Pub 8,72 dollari

Nobel Lecture, The Nobel Foundation, Stoccolma 2020, gluck-lecture-english.pdf

“Discorso per il premio Nobel”, trad. di Valeria Gorla, in The Italian Review, 1, 2021https://www.theitalianreview.com/discorso-per-il-premio-nobel/

Luca di Mastrantonio, “L’arte ci salverà dalla catastrofe della pandemia”, Intervista a Louise Glück, https://www.corriere.it/sette/incontri/intrevista-louise-gluck-nobel/index.shtml

Luisa Muraro, Il dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, ripubblicato da Marietti, Milano 2020, 240 pagine, 17,50 euro

Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare. La mistica luogo dell’incontro, Ed. Paoline, Milano 2017, 130 pagine, 13 euro

Zambrano María, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996, pp.188, 13 euro

Zamboni Chiara, “María Zambrano: il sentire inconscio e il linguaggio nel generarsi della natura”, In Sentire e scrivere la natura, Mimesis Edizioni, Milano 2020, pp. 89-131, 20 euro


(Leggendaria, n. 155/2022, pp. 43-45 – Primopiano/Louise Glück, 5 gennaio 2023)

di Alessandra Pigliaru


Che la vecchiaia sia un tema presente nella discussione pubblica internazionale, non lo si deve solo all’attenzione che da anni gli Age Studies assicurano, quanto piuttosto a un intrecciarsi nelle forme della rappresentazione con i capisaldi dell’umano vivere capaci di declinarne i contesti, da quello lessicale a quello sessuato. Considerando alcuni libri editi in questo ultimo anno, ci accorgeremmo di quanto la trasversalità sia d’obbligo.

Lidia Ravera nel suo Age pride. Per liberarci dai pregiudizi sull’età (Einaudi, pp. 101, euro 13) propone per esempio «un nuovo titolo di merito» preferendo al termine anziano/anziana quello di Grande adulta o Grande adulto. E prosegue dicendo che nonostante l’attribuzione qualitativa tenda a immaginare persone «serene», ci si potrebbe sincerare come non lo siano affatto, «neppure rassegnati: inquieti» perché «sono corpi che conoscono le carezze, hanno imparato a farne a meno, ma anche a inventarne di nuove, diverse. Sono anime in prova, alle prese con la durata, alcune sono tormentate, altre soddisfatte. Ci sono le anime placate, ma ci sono anche le anime furiose. Ciascuno invecchia a modo suo, fedele alla sua storia, alla sua identità, al suo carattere».

Restando tuttavia sull’aggettivazione dell’essere adulti, anche Gabriella Caramore nel suo L’età grande (Garzanti, pp. 144, euro 14) racconta di una ampiezza, al netto di quanto la vecchiaia si leghi più facilmente al tempo. Ha quest’ultimo un aspetto ineluttabile, osserva la sua fine, la sua chiusura, e non è un caso che una delle più prestigiose manifestazioni culturali italiane quale è Torino Spiritualità, conclusasi pochi giorni fa e dedicata «Agli assenti. Della morte ovvero della vita», abbia scelto di presentare il libro di Caramore (in conversazione con Elena Loewenthal) dando alla parabola terrestre l’accezione temporale e spaziale che la designa.

Che i processi di invecchiamento restituiscano un quadro ben più generativo di quanto fornitoci dal senso comune lo si assume da diversi lavori, tra quelli di carattere antropologico si può vedere il volume a cura di Jacopo Favi, Invecchiare (Meltemi 2021). Anche Barbara Leda Kenny, in un lungo articolo di qualche mese fa su «L’essenziale» ragionava del mutamento e della trasformazione di scenario, soprattutto in Italia e a proposito delle donne anziane (erano 4,5 milioni quelle sole, soprattutto vedove) con cui si potrebbe auspicare un modello diverso di convivenza e di famiglia.

Sta di fatto che in una dimensione anzitutto del «sentire» la propria carne attraversata da ciò che è stato e ciò che arriverà, il nodo del presente si affaccia per dipanarsi in scritture letterarie, che spesso si ibridano tra il memoir, l’autobiografia e la prospettiva della storia culturale, come accade in La quarta parte, di Luisa Passerini appena uscito per manifestolibri (pp. 112, euro 12) in cui la vecchiaia è luogo frequentato dall’autrice da svariati anni. Già nel 2006 nella rivista «Storia delle donne» (Firenze University Press) dava conto, tra le altre cose, dell’affacciarsi anche in Italia, alla fine degli anni Novanta, di alcune ricerche sulla necessità di sessuare la vecchiaia. Ciò per dire che La quarta parte ha una tale struttura teorica alle sue spalle che sarebbe riduttivo collocare questo agile e utile volumetto come un memoir, cominciato nella primavera del 2020 e concluso nell’inverno successivo.

Al centro vi è una donna che accompagna la coscienza dei suoi ottant’anni con Dante Alighieri, Agnès Varda e David Hume, aprendo degli squarci che vanno dunque dalle lettere al cinema e alla filosofia, nel corpo a corpo con alterne passioni, compresi vizi e virtù, tra cui spicca la temperanza. Specificata nella sua raffigurazione sapiente di arcano maggiore in cui c’è una figura femminile che travasa dei liquidi da una brocca a un’altra. In quest’operazione che Passerini identifica di mediazione, collegamento ed equilibrio, si sgrana ciò che connette e mescola «gradi di rilevanza e irrilevanza». E, potremmo aggiungere, nonostante tutto ha tenuta, in una pratica come quella di trasferire, trasmettere. Che cosa ci consegna invece il sapere critico delle donne è materia che Passerini maneggia perfettamente, coinvolgendo diversi campi di competenza, come accaduto nel lavoro collettivo Vecchie allo specchio. Rappresentazioni nella realtà sociale, nel cinema e nella letteratura (pubblicato dal Cirsde nel 2012), insieme a Edda Melon, Luisa Ricaldone e Luciana Spina.

Si trattava di una indagine avviata da alcuni incontri avvenuti tra il febbraio e il marzo del 2008. E che le pratiche torinesi siano floride in tale versante tematico lo si evince anche dal volume che Ricaldone ha dato alle stampe per Iacobelli editore nel 2018 dal titolo Ritratti di donne da vecchie (recensito su queste pagine da Laura Fortini). Se non si possono non segnalare i libri di Loredana Lipperini, Non è un paese per vecchie (2010), quello a cura di Anna Maria Crispino e Monica Luongo, Passaggi d’età (2013) e di Francesca Rigotti, De senectute (2018), sono ugualmente utili volumi più recenti che interrogano da un’angolatura ogni volta differente il significato dello scorrere delle età. Insieme al romanzo di Fuani Marino, Vecchiaccia (Einaudi, pp. 160, euro 17), ci sono due sillogi che si misurano con alterne geografie sentimentali di un certo rilievo: la prima è una raccolta di racconti scritta da Jane Campbell che si intitola Spazzolare il gatto (Edizioni Atlantide, pp. 168, euro 17,50, traduzione di Federica Bigotti). La seconda è invece in versi ed è L’amore da vecchia, di Vivian Lamarque (Mondadori, pp. 160, euro 18). Campbell, di origine inglese, ha esordito con il primo racconto in rivista all’età di 77 anni diventando presto un caso di culto, e ora ci dona tredici magnifici ritratti di altrettanto donne che confessano la propria audacia senza nascondimenti.

A cominciare dal primo in cui una ottantaseienne degente in un reparto di geriatria, dopo aver condotto una moderata esistenza coniugale, osserva una giovane donna che si allunga per cambiare una lampadina e, senza preavviso alcuno, sente «la voglia risvegliarsi tra i lombi appassiti». O ancora quando sollecita, più avanti: «Adesso non possiedo nulla, tranne, suppongo, il mio corpo e la mia mente, così come sono dopo numerosi decenni di utilizzo. Mal-utilizzo, talvolta. Ma almeno, grazie a Dio, sono stati utilizzati e non li ho sprecati. Certo questo a mio figlio non posso dirlo». Non mancano le cliniche della memoria, dolori piuttosto lancinanti e niente è facile, Campbell neppure si presta a una retorica senza costrutto per scacciare via l’angoscia della morte. Racconta invece di una sfrontatezza capace di erodere l’imbarazzo. «Invecchiare – prosegue la scrittrice – è spesso descritto come un accumulo, di malattie, sofferenze, rughe, ma è in realtà un processo di espropriazione, di diritti, di rispetto, di desiderio, di tutte quelle cose che una volta possedevi e di cui godevi con tanta naturalezza».

Il graffio, al contempo tagliente e delicato, è ciò che invece indaga Vivian Lamarque che, nelle sue poesie, nomina l’amore transitorio e non esclusivo che si promette al vivente. «Sono una Autunno./ Anzi, il tempo di dirlo/ e ora sono una Inverno. Che paura fossi una foglia ma/ menomale sono un’alberella/ le foglie loro cadono, ma noi/ no». E parla di scomparsi che non possiamo più toccare ma che sentiamo nella testa, con la stessa identica voce ad ammonirci che dobbiamo andare altrimenti si fa tardi, eppure non c’è un domani, non tutti i ritorni sono possibili. «Perché non sono un baobab e questa è l’infanzia?» si domanda Lamarque. «Numero d’anni avere davanti quante le stelle sulle teste/ degli alberi. E giorni ancora di più./ Agli anni preferisce i giorni e ai giorni i mattini […] Metterli in banca metterli in banca i giorni risparmiarlo/ il Tempo […] Teneteli a cuore i mattini metteteli in banca./ Però anche vecchiaia è bellezza, capelli color/ della neve, pelle rigata come belle cortecce e alcuni che ti vogliono bene e alcuni che ti cedono il posto in tram». L’ironia agrodolce è nel post-scriptum, certo senza reclamare comprensione eppure «Ma perché non avete tutti 80 anni come me?».


(il manifesto, 11 ottobre 2023)

di Beppe Pavan


La frase che ho scelto per il titolo di questa presentazione mi sembra illuminante: è l’immagine che amo evocare quando parlo della “macchia d’olio” che si allarga nel mondo ogni volta che un altro uomo si incammina consapevolmente sui sentieri del cambiamento della propria maschilità, abbandonando le forme patriarcali del possesso, del dominio, della competizione, della sopraffazione…

Il libro che vi presento si intitola Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato (VandA ed. 2023): è un invito a offrire al mondo bambini, adolescenti, ragazzi «empatici e capaci di essere compagni di strada nonviolenti delle donne» che incontreranno e sceglieranno. Chi scrive così è Monica Lanfranco, che non solo radica le proprie riflessioni su una ricca antologia di testi femministi, ma soprattutto ci spalanca numerose finestre sulla sua esperienza di mamma alle prese con due figli maschi da aiutare a “crescere”. E la citazione con cui apre l’introduzione ce ne comunica bene il senso: «Alleviamo le nostre ragazze a combattere gli stereotipi e a perseguire i loro sogni, ma non facciamo lo stesso con i nostri ragazzi».

La dialettica che percorre tutto il libro è tra patriarcato (da disertare) e femminismo (da affermare). A pag. 35 Monica cita la nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie che «definisce femminista una persona che crede nella piena uguaglianza tra uomini e donne. Ma come possiamo crescere dei figli femministi, ovvero crescere dei figli gentili, sicuri di sé e liberi di inseguire i propri sogni, senza modelli alternativi a quelli del patriarcato?».

Non facciamoci tentare dal chiamarcene fuori, perché è uno degli stereotipi patriarcali più radicati pensare che crescere i figli sia compito delle madri. Il libro, in realtà, non è un esercizio di autocoscienza solo per le madri: il sottotitolo recita «crescere uomini disertori del patriarcato» e di questa necessità siamo consapevoli noi uomini adulti che da decenni partecipiamo a gruppi di autocoscienza maschile. Ma quanti siamo consapevoli e convinti che «se i bambini e le bambine vengono separati per sesso nel gioco così come nelle attività didattiche fin dalla scuola materna, alla fine del ciclo gli stereotipi di genere ne escono rafforzati, mentre i gruppi incoraggiati a giocare con amici e amiche del sesso opposto imparano a risolvere meglio i problemi e a comunicare in modo meno aggressivo e con più profondità» (pag. 98)?

«Nessuno dei nostri figli nasce cattivo, misogino, predatore: nessun bambino o ragazzo lo è. Sono l’esempio, i comportamenti appresi, i messaggi culturali diretti e indiretti, ad autorizzare i maschi a diventare arroganti machisti e pericolosi predatori, perché la violenza si insegna.

La buona notizia è che anche la nonviolenza si insegna, ed è in questa pratica quotidiana di rispetto, senso del limite e collaborazione che si costruisce la felicità propria e quella di chi ci sta accanto» (pag. 84).

Ah, la felicità! Grazie, Monica, di averla evocata! Anche a me è successo di incontrare la felicità, ed è successo proprio quando ho scelto di abbandonare – disertare – il modello patriarcale di stare nelle relazioni che famiglia, parrocchia, seminario, fabbrica, esercito e anche sindacato avevano cercato di inculcarmi.

C’è uno stereotipo che persiste anche all’interno dei nostri gruppi di Uomini in Cammino: è quello che continua a identificare il femminismo con “le donne che ce l’hanno con gli uomini”.

Un altro è «lo stereotipo secondo cui il femminismo riguarda solo le donne» (pag. 125). Questo libro ci invita, invece, a considerare il femminismo come alternativa al patriarcato: «Dovremmo essere tutti femministi» è il titolo del libro di Chimamanda Ngozi Adichie, che fa il paio con «Il femminismo è per tutti» di bell hooks. Credo che sia un invito da prendere sul serio, perché – conclude Monica a pag. 124 – «la parola crescere […] contiene le due facce della stessa medaglia: cresciamo da quando usciamo dal corpo di nostra madre, e poi siamo aiutati a crescere da chi si assume questo compito, per avviarci e guidarci a costruire un’esistenza autonoma».

Non è come affermava quel mio vicino di casa: «Io sono così e non posso cambiare!». Cambiare si può. Cambiare conviene. Diventare femministi, disertori del patriarcato, conviene!


(Uomini in Cammino, n.2/2023, www.maschileplurale.it)


Beppe Pavan fa parte del Gruppo Uomini di Pinerolo (i corsivi nel testo sono iniziativa sua).

di Jennifer Guerra


Carla Lonzi ha vissuto molte vite, pur in una vita piuttosto breve. È stata prima una critica d’arte, poi una femminista, una saggista e una poetessa. Ma è stata anche una filosofa riluttante che, con una formazione accademica completamente diversa, a trentanove anni decide di intitolare il suo brevissimo e folgorante debutto teorico Sputiamo su Hegel, bersagliando il Filosofo per eccellenza. Oggi, a più di cinquant’anni dalla sua prima edizione, il testo è tornato in libreria per La Tartaruga, con la curatela di Annarosa Buttarelli. Il ritorno di Lonzi era più che mai atteso: dopo l’edizione di Gammalibri del 1982, pubblicata all’indomani della morte dell’autrice, l’unico modo per leggerla era scovare uno dei rari Libretti verdi di Rivolta, la piccola produzione editoriale del gruppo di Rivolta femminile. Per la sua difficile reperibilità – e anche grazie a un titolo indimenticabile – Sputiamo su Hegel è diventato un libro per cui è giusto scomodare un aggettivo spesso usato a sproposito, iconico.

Ancora oggi c’è chi si stranisce per la scelta di questo verbo così forte, alla prima persona plurale: sputare. Perché sputare su Hegel e non criticare con forza, rigettare, disconoscere? Perché un gesto corporeo così viscerale, quasi ripugnante? Un titolo del genere presuppone una cesura del dialogo, l’impossibilità definitiva di comunicazione, con una modalità del tutto estranea a quel femminismo conciliante che deve essere a misura e a beneficio di tutti a cui ci siamo abituati negli ultimi anni. Non si può fare altro che sputare di fronte a Hegel, suggerisce Lonzi già nel Manifesto di Rivolta femminile, perché per le donne non c’è dialettica né dialogo nelluniverso patriarcale. E non ha senso che chi è stata storicamente esclusa da quella dinamica, sia proprio colei che si fa carico di promuovere una conciliazione. Sputo sia, dunque, perché Hegel non è soltanto Georg Wilhelm Friedrich Hegel nato a Stoccarda il 27 agosto 1770, ma è l’incarnazione di tutto ciò che Lonzi vuole lasciarsi alle spalle una volta per tutte. Nella scheda di Rivolta femminile scritta per Lalmanacco del movimento femminista italiano, edito da Edizioni delle donne nel 1978, si legge che questo testo “apre una strada per chiudere tutte le altre”: ideologia, lotta di classe, cultura.

Definire Carla Lonzi una filosofa potrebbe sembrare un azzardo. Come fa notare Franco Restaino, che pure la annovera fra le «avanguardie filosofiche del Novecento», Lonzi ha scritto soltanto una manciata di brevi testi teorici e che mancano di organicità, per poi chiudere la sua produzione con il “diario” Taci, anzi parla e con il dialogo con Pietro Consagra Vai pure. Anche in questo la definizione di “diario” appare quanto mai riduttiva: un mastodontico testo sperimentale, che mescola memoria, prosa, poesia, sogno e autocoscienza. Anche Taci, anzi parla finisce così con l’essere un testo dal carattere eminentemente filosofico, attraverso una retrospettiva che potrebbe essere accostata alle Confessioni agostiniane. D’altronde quella al femminismo, scrive Lea Melandri, somiglia per tutte a una conversione. Non si tratta di un’adesione ideologica, ma di un investimento totale e totalizzante della propria vita, che ti costringe a rivedere il tuo passato e ad ancorare diversamente il tuo essere al mondo.

Per Roberto Esposito, la filosofia italiana del Novecento è caratterizzata da una «integrale storicizzazione». Non una consapevolezza della determinazione storica del pensiero, quanto piuttosto di una «tendenza, tacita o proclamata, a farsi esso stesso storia o, per usare un’espressione più carica di risonanze, “pensiero in atto” – inteso nel senso, insieme, dell’azione e dell’attualità». La peculiarità italiana starebbe, per il filosofo, nel tentativo di farsi filosofia, oltre che di fare filosofia, ovvero di «conferire alla filosofia i caratteri concreti della vita». Questa attitudine attraversa tutto il Novecento e sfiora anche il pensiero di Carla Lonzi, che si configura come ancora più eretico e avanguardistico rispetto a ciò che le accade intorno. Da critica d’arte, Lonzi comincia a mettere in discussione il senso stesso della critica, un “vivere nevroticamente il bisogno di conoscenza”, quando si rende conto che non tutto si può spiegare con la teoria, ma c’è qualcosa, in quell’interstizio tra vita e pensiero, che le sfugge continuamente.

Questa intuizione, già presente quando Lonzi è poco più che ventenne, si cementifica nel femminismo che la investirà una decina di anni dopo. Lonzi capisce che quell’incertezza che le sembra impossibile fermare è antitetica a un’idea di mondo come quella proposta dalle ideologie dominanti del suo tempo, il materialismo storico e il freudismo. In quelle visioni del mondo, non c’è spazio per la marginalità, per l’«eterna ironia della comunità» che è la presenza femminile. Per Lonzi allora il «pensiero in atto» sta necessariamente altrove, è un «muoversi su un altro piano», per citare ancora il Manifesto di Rivolta femminile. Questa alterità non è semplicemente dovuta a un’esclusione storica della donna dai processi di potere e riconoscimento, ma a un rifiuto radicale di parteciparvi, un rifiuto che prevede che la donna si faccia soggetto e si allontani dal gioco, che «vanifichi il traguardo della presa di potere».

Rigettando la dialettica hegeliana, e quindi l’idea di una storia progressiva, in Sputiamo su Hegel Lonzi fa un coraggioso voto di fiducia al presente. Questo ancoramento al presente non va però confuso con l’immanenza in cui il patriarcato ha sempre costretto le donne. «Hegel ritiene la donna per sua natura ferma in uno stadio, a cui egli attribuisce tutta la risonanza possibile, ma tale che un uomo preferirebbe non essere mai nato se dovesse considerarlo per sé stesso», scrive Lonzi. Lo strumento che condanna le donne a questa immobilità è l’universalità. Vediamo ancora oggi quanto la pretesa di universalità depotenzi le singolari esperienze delle donne, pretendendo che tutte replichino la stessa storia e lo stesso destino, si facciano portatrici dei medesimi desideri. Per questo quando una donna prende la parola, specie se è una donna con un ruolo pubblico, si dà per scontato che stia parlando a nome di tutte le donne.

E così attorno al tema dell’universalità si plasma la grande dicotomia che attraversa tutto Sputiamo su Hegel e che sarà centrale per tutto il pensiero femminista italiano: uguaglianza contro differenza. Rigettare l’uguaglianza non significa soltanto rinunciare alla cultura del padre, ma anche credere che quell’interstizio che sfugge, quel muoversi su un altro piano, sia l’unica strada percorribile. Per questo la frase più bella e significativa del Manifesto di Rivolta femminile, scritto nel 1970 con Carla Accardi ed Elvira Banotti, resta: «Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte». È il proposito più alto, più difficile della filosofia di Carla Lonzi. Non una filosofia di reiette o di escluse che si riscattano dalla storia, ma una filosofia che si fa storia pur avendo disconosciuto questa parola una volta per tutte.


(Limina.it, 3 ottobre 2023)

di Doranna Lupi


Valentina Pazé insegna Filosofia politica presso l’Università di Torino e ha recentemente pubblicato Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato (ed. Bollati Boringhieri), un libro ricco di spunti per riflettere sul tema della libertà.

Nelle prime righe della sua introduzione spiega che questo libro nasce dallo sconcerto che prova per “il silenzio assordante che circonda le nuove forme di sfruttamento mascherate e giustificate nel nome della libertà”. Sono nuove forme di schiavitù volontaria, in cui ci troviamo di fronte anche a persone che negano di essere sfruttate o che sostengono di desiderare di esserlo. Nel mercato del biocapitalismo non si mettono più in vendita solo i prodotti della fatica umana ma gli stessi corpi umani, soprattutto quelli delle donne, attraverso la prostituzione, la pornografia, la maternità surrogata. Allora, come entra in gioco la libertà quando si parla di corpi in vendita come se fossero merce? Cos’è la libertà? Di quale libertà e della libertà di chi stiamo parliamo?

Per rispondere a questi interrogativi l’autrice si è avvalsa anche di ciò le donne hanno detto rispetto all’esperienza della prostituzione o della gestazione per altri, sia quelle che l’esperienza l’hanno vissuta sia quelle che non l’hanno vissuta ma che ritengono il tema della vendita dei corpi femminili un nodo fondamentale da dipanare per il rispetto della libertà e della dignità di tutti e tutte. Da questo mondo ci arrivano testimonianze diverse ed è possibile farci un’idea ascoltando le diverse voci. Nel libro l’autrice parte da letture tratte sia da Fiere di essere puttane di M. Nikita e T. Schaffauser che da Stupro a pagamento di Rachel Moran.

Dopo aver ascoltato queste voci così inconciliabili tra loro, cosa dici?

Dico che ci restituiscono un quadro molto variegato, che è anche quello che emerge facendo un po’ di ricerca su Internet, tra blog e siti di associazioni pro e contro il sex work… Oggi anche il mondo della ricerca è diviso su questo tema, tra chi difende la possibilità che la prostituzione sia una libera scelta e chi ritiene, invece, a partire da testimonianze come quella di Rachel Moran, che la prostituzione sia per definizione “stupro a pagamento”, qualcosa di violento e disumanizzante. Come ci si comporta di fronte a questi racconti, come ci si posiziona? Una modalità abbastanza frequente consiste nel dire “il mondo è bello perché è vario”, il modo di vivere la prostituzione è del tutto soggettivo e noi non possiamo giudicare le scelte altrui e imporre le nostre personali intuizioni su ciò che significa prostituirsi. Questo è un approccio abbastanza comune, che a me però sembra insufficiente, perché fare ricerca nelle scienze sociali – ricerca di qualsiasi tipo, storica, sociologica, antropologica – significa andare oltre la semplice registrazione delle testimonianze, che vanno certo ascoltate ma anche contestualizzate, decodificate, interpretate, messe a confronto con ciò che sappiamo da altre fonti. Di certo, sulla prostituzione qualcosa sappiamo. Sappiamo che si tratta di un’attività oggettivamente pericolosa, per chi la esercita per un certo lasso di tempo, dal punto di vista fisico e psichico. Le prostitute (in maggioranza donne e in una piccola percentuale trans e uomini al servizio del desiderio omosessuale, mentre i clienti sono quasi tutti maschi) rischiano diciotto volte di più delle altre donne di morire di morte violenta. Non solo. Ci sono ricerche che ci dicono che due terzi delle persone coinvolte nella prostituzione soffre di disturbi da stress post traumatico, esattamente quelli che si riscontrano nei veterani di guerra e in chi è vittima di stupro e di altri gravi traumi. Altre ricerche insistono sul rischio di suicidio, depressione e altre problematiche psichiatriche importanti, legate tra l’altro alla necessità, per chi esercita questo “mestiere”, di attivare meccanismi psicologici di dissociazione da ciò che fa, per mantenere un’immagine accettabile di sé. Questo mi sembra che spieghi perché, alla fine, la prostituzione non può essere considerata “un lavoro come un altro”: non esistono altri lavori altrettanto pericolosi e usuranti.

Tu racconti che quando hai proposto all’università di discutere di prostituzione, maternità surrogata, velo islamico, il dibattito in aula è stato molto acceso. Ma in quell’occasione si è anche rivelata la difficoltà di andare oltre l’idea di libertà espressa dalla maggior parte delle e degli studenti: che ciascuno deve poter fare ciò che vuole, che la libertà è il valore supremo e l’autorealizzazione individuale l’unico obiettivo da raggiungere.

A ben vedere questa sembra l’idea che sta dietro al nuovo significato dato dalle giovani femministe al diritto all’autodeterminazione delle donne: libertà di fare ciò che si vuole del proprio corpo, anche di metterlo in vendita, in quanto imprenditrici di sé stesse. Questo può aiutarci a spiegare come mai in molti ambienti, anche a sinistra, nonostante la maggior parte delle donne che mettono in vendita i loro corpi siano povere e, quindi, nonostante la disuguaglianza che c’è tra i soggetti coinvolti in questo mercato, si sia arrivati a pensare alla prostituzione e alla maternità surrogata in termini di nuovi diritti da legalizzare e regolamentare?

Certo, c’è una sinistra che ha accettato i principi del neoliberalismo e c’è un femminismo neoliberale. Che cos’è il neoliberalismo? È una concezione non solo dell’economia, ma del mondo, che consiste nell’estendere la razionalità del mercato all’intera società e nel considerare gli individui come “imprenditori di se stessi”, in perenne competizione tra loro. In questa chiave sicuramente il corpo può essere inteso come un oggetto di cui sono proprietario, o proprietaria, e da cui posso ricavare qualcosa.

Quanto alla domanda “che cos’è la libertà?”, la risposta più semplice è anche quella più intuitiva: “poter fare quello che voglio”, nell’assenza di divieti e obblighi. Ma questa è la libertà dello stato di natura di Hobbes, è la libertà del lupo di mangiare l’agnello. In contesti in cui non esistono obblighi né divieti siamo tutti liberi di fare ciò che vogliamo, ma poi i forti prevalgono sui deboli. Se vogliamo uscire dallo stato di natura, e garantire i diritti dei più deboli, dobbiamo accettare qualche limite e qualche obbligo. Rispetto al tema dell’autodeterminazione a me sembra che ci sia davvero tanta confusione oggi. Che cos’è la libertà sessuale, che la nostra Costituzione riconosce come un diritto fondamentale? È il diritto a esprimere la propria sessualità come si vuole, con chi si vuole, ma non è il diritto di vendere servizi sessuali. I diritti fondamentali sono per definizione inalienabili, imprescrittibili, indisponibili. Non sono in vendita.

Quando parliamo di prostituzione, o anche di gestazione per altri, stiamo parlando di un altro genere di libertà: la libertà di iniziativa economica, che è anch’essa riconosciuta dalla nostra Costituzione, ma entro certi limiti. L’articolo 41 dice che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Quando si usano, in relazione alla prostituzione o alla maternità surrogata, slogan come “il corpo è mio e lo gestisco io” sì fa veramente confusione, perché in questo caso non è in gioco il diritto ad autodeterminarsi in campo sessuale e riproduttivo, ma l’esercizio dell’autonomia negoziale entro la sfera del mercato, dove si incontrano soggetti diseguali. In questo contesto, la legge deve proteggere i soggetti deboli perfino da se stessi, perché il soggetto debole può essere tentato dal mettersi in vendita. Questo ce lo spiegava già Marx nel Capitale, quando invitava gli operai a lottare per ottenere “una legge di Stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vendere sé e la loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto con il capitale”.

Dove è in gioco qualcosa di inaccettabile spesso una buona strategia è un processo di abbellimento della realtà attraverso la sanificazione del linguaggio. La prostituzione è diventata lavoro sessuale, la tratta lavoro sessuale forzato, i papponi dei grandi bordelli in Germania sono diventati manager, il traffico della pedofilia lavoro sessuale minorile. La maternità surrogata è diventata gestazione congiunta e solidale. Perché, ti chiedi nel libro, facciamo fatica a chiamare le cose con il loro nome? Cosa c’è di inaccettabile nella prostituzione e nella maternità surrogata da richiedere questo processo di trasformazione del linguaggio? E a vantaggio di chi?

Le parole sono importanti ed effettivamente oggi intorno al linguaggio usato per nominare questo fenomeno c’è un conflitto durissimo. Ce lo dicono i titoli di libri come Sex work is work, oppure Sex work is not work. E capita di assistere a discussioni accesissime sul tema: “la prostituzione è lavoro o non è lavoro? Che cos’è?”. Sembra talvolta che se ne faccia quasi una questione ontologica… Ma naturalmente questo tipo di approccio non ha senso. La prostituzione è, diventa, dal punto di vista giuridico, ciò che noi vogliamo che sia. È un lavoro là dove il diritto la inquadra in tal senso. Quando, prima della legge Merlin, esistevano le “case chiuse”, la prostituzione era un lavoro anche da noi. Chi dice “sex work is not work” evidentemente esprime una posizione normativa: afferma che la prostituzione non dovrebbe essere considerata come un lavoro. In Germania è passata una legge, nel 2002, che ha depenalizzato l’induzione, il favoreggiamento, lo sfruttamento della prostituzione. Lì il pappone è diventato un imprenditore come un altro, che organizza il lavoro dei suoi (ma soprattutto delle sue) dipendenti. In Italia non è così: la prostituzione non è un lavoro, e non è neanche un diritto. Su questo dobbiamo capirci bene. Nel nostro paese prostituirsi non è vietato, è lecito. Esiste quindi la libertà di prostituirsi, intesa come libertà di fatto, ma non esiste un diritto a prostituirsi riconosciuto da una norma giuridica. Se esistesse, esisterebbe il dovere correlativo di non ostacolare, e anzi di promuovere, il suo esercizio. Qui da noi non è così.

Questa è stata la scelta della Senatrice Merlin, parlamentare socialista, che ha scritto nel ’58 una legge che a me sembra ancora valida nel suo impianto di fondo (anche se poi qualche correttivo si può immaginare) perché profondamente rispettosa nei confronti delle donne. La legge Merlin non prevede nessun tipo di etichettatura, nessun tipo di registrazione o visita medica obbligatoria, dalle implicazioni umilianti e stigmatizzanti, che erano previste nelle “case chiuse”. Non vieta la prostituzione, ma vieta e punisce chiunque si avvantaggi della prostituzione altrui. Oggi c’è chi vorrebbe superare questa legge. Nella scorsa legislatura c’erano 22 proposte di legge depositate in Parlamento, quasi tutte orientate a depenalizzare le “condotte parallele”, ossia lo sfruttamento, l’induzione, il favoreggiamento. Leggi in genere difese in nome della libertà delle donne, quando in realtà mirano a riconoscere la libertà di chi lucra sulla prostituzione altrui.

Tornando alla questione delle parole, sono diverse anche in riferimento a quell’altra pratica, oggi molto contestata e oggetto di dibattito, che è la maternità surrogata (o “utero in affitto” o “gestazione per altri”: bisogna vedere come chiamarla, per l’appunto). A me non piace la formula “gestazione per altri” perché mi sembra che isoli il momento della gestazione, lo presenti come qualcosa di impersonale, disincarnato, come se non ci fosse sempre una donna, una madre, che porta avanti la gravidanza. Quindi preferisco parlare di “maternità surrogata” (anche se, per comodità, mi capita di usare anche la formula gpa). Di che cosa si tratta? Della possibilità, dischiusa dalle moderne tecnologie mediche, di scomporre il processo procreativo rendendo possibile che una donna fornisca l’ovocita, un uomo lo sperma e un’altra donna l’utero. Quest’ultima si impegna, per contratto, a farsi impiantare uno o più embrioni prodotti in laboratorio e a portare avanti una gravidanza, per poi partorire e consegnare il bambino o la bambina ai “committenti” (detti anche “genitori intenzionali”). A proposito di “neolingua”, questa donna il più delle volte viene chiamata “portatrice”, parola un po’ curiosa perché essere incinta non è proprio come portare un pacco; il bambino è dentro di lei e per venire al mondo deve essere partorito, aspetto di cui ci si dimentica molto spesso quando si parla di questo tema.

Anche sulla maternità surrogata è interessante notare che esistono racconti diversi. Ci sono donne che raccontano la loro esperienza in termini drammatici, dicendo di aver sofferto molto quando hanno dovuto separarsi del bambino, pur avendo firmato un contratto in cui inizialmente si rendevano disponibili a farlo, e donne che sostengono di avere liberamento scelto di diventare madri surrogate e di essere riuscite a vivere con distacco la gravidanza. Molte insistono sulle motivazioni altruistiche che le avrebbero guidate, sul desiderio di “donare” un bambino alle coppie infertili.

Il dono è entrato prepotentemente nella retorica per giustificare tutta una serie di transazioni. È il caso anche della maternità surrogata. Ma quando ci scambiamo dei doni tra di noi non firmiamo un contratto, non c’è un principio legale che regola lo scambio, non ci sono rimborsi, agenzie di intermediazione, consulenti legali, blog e marketing. Semplicemente c’è il nostro scambio, che sta nella sfera delle relazioni umane e, come per il sesso, è una dimensione esclusivamente relazionale. Uno dei tuoi capitoli si intitola: la libertà di donarsi e di donare. In che senso possiamo intendere questa libertà?

In teoria è facile distinguere la forma commerciale della maternità surrogata da quella altruistica: nel primo caso si prevede un compenso, nel secondo un semplice “rimborso spese”. In pratica il rimborso va ben oltre le spese che comporta una gravidanza e la sua entità è del tutto equiparabile ai compensi previsti per la gpa commerciale. Perché allora insistere nel qualificare l’attività della madre surrogata in termini di dono? A me pare che le retoriche del dono si spieghino con il bisogno degli imprenditori del settore, per un verso, e delle stesse donne che si prestano a questa attività, per un altro, di raccontarsi, e raccontare, qualcosa di diverso dallo scambio commerciale. E tuttavia – come accennavi – c’è un contratto che le vincola, che stabilisce cosa possono e non possono fare, quali farmaci devono assumere, a quali regole dietetiche devono attenersi per il bene del feto che ospitano nel loro utero… E c’è, soprattutto, l’obbligo finale di consegnare il bambino a coloro che lo hanno “commissionato”. Nel Regno Unito si prevede la possibilità che la donna cambi idea, ma si tratta di una possibilità più teorica che reale. La decisione della donna di tenere il bambino diventa efficace solo dopo sei settimane dal parto; nel frattempo il bambino è già stato affidato alla coppia dei “genitori intenzionali” e, quando il giudice si pronuncia, di regola lo assegna a loro, nel suo “superiore interesse” a essere cresciuto in una famiglia più benestante di quella della madre naturale. Ma se è un dono, come mai sono sempre donne di ceto medio-basso e di scarso livello di istruzione, disoccupate o lavoratrici precarie al momento della stipula del contratto, a rendersi disponibili? Questa è una domanda che dovremmo farci…

C’è poi ciò che raccontano gli imprenditori del settore sulla necessità della “formazione” della madre surrogata. Leggendo questa letteratura si scopre che madre surrogata non si nasce ma si diventa, attraverso un percorso diverso a seconda dei contesti. In India le donne, poverissime, vengono ricoverate in ostelli, nei quali vivono per tutto il periodo della gravidanza, e qui viene detto loro che sono uteri e soltanto uteri, e che l’utero è come uno spazio vuoto, una casa che può ospitare i figli degli altri. Queste sono veramente delle narrative che ci rimandano indietro, alle origini della nostra civiltà, quando nelle Eumenidi di Eschilo il matricida Oreste viene assolto perché la sua colpa non è così grave: in fondo i figli li fa il padre, non la madre, che è solo il contenitore del seme paterno.

In altri paesi le retoriche cambiano, ma fino a un certo punto. In Israele, dove pure questa pratica è consentita, si invitano le madri a non toccarsi la pancia quando il feto incomincia a muoversi, per evitare che si stabilisca l’attaccamento tra madre e bambino, che tuttavia – come sappiamo – ha una base ormonale e può venirsi a creare comunque. Di qui tutta una serie di tecniche e strategie messe in atto dalle agenzie per evitare questo rischio. Negli Stati Uniti il modello cosiddetto “aperto” di gpa mira a deviare l’affettività della madre surrogata dal bambino che ha nel ventre alla coppia di committenti: li si invita a conoscersi, a diventare amici, si prevedono gruppi di auto-aiuto con altre madri surrogate per il sostegno reciproco, e una consulenza psicologica obbligatoria. “Ma non era una questione di libera scelta? – si è chiesta Daniela Danna – di autodeterminazione? Perché allora l’affiancamento di una psicologa?”. Volendo far lavorare gli psicologi, aggiunge, potremmo pensare piuttosto a un sostegno psicologico alle coppie infertili…

Al di là della provocazione, qui bisognerebbe aprire una riflessione sul desiderio di genitorialità delle coppie infertili, eterosessuali e omosessuali e, più in generale, sul rapporto tra desideri e diritti. Dovremmo chiederci se ogni nostro bisogno o desiderio possa essere trasformato in un diritto, in presenza del quale sorge in qualcun altro un dovere corrispondente. Con riferimento alla maternità surrogata, il punto è che non stiamo parlando del diritto di accedere a una tecnica di procreazione assistita, ma a usare il corpo di una donna. Bisognerebbe anche riflettere sul fatto che ci sono tanti modi di essere genitori, anche al di là della genetica. Su questo tema c’è oggi un grande dibattito all’interno del mondo Lgbt, diviso tra chi guarda con favore alla gestazione per altri e chi propone, in alternativa, di rivendicare il diritto all’adozione per le coppie omosessuali, o comunque di riflettere su altre forme di genitorialità “sociale”. Questo tenendo presente che oggi la richiesta di questo tipo di pratica viene in gran parte da coppie infertili eterosessuali.

Come mai per quanto riguarda la prostituzione e la GPA sei favorevole ai divieti, sei per limitare legalmente il favoreggiamento, l’induzione, e non sei per la liberalizzazione, mentre per il velo islamico sei contraria a qualsiasi divieto?

Io ho provato a costruire un ragionamento attorno a tre casi diversi tra di loro: quando parliamo di prostituzione e maternità surrogata ci confrontiamo con la sfera del mercato; quando ragioniamo di velo islamico entriamo in una sfera diversa. Nel caso del velo le leggi francesi vietano sia l’hijab nelle scuole sia il velo integrale nei luoghi pubblici. Penso invece che non si dovrebbero prevedere divieti, perché stiamo parlando non di libertà di iniziativa economica, e quindi di mercato, ma di libertà di espressione. Questo non significa che non ci siano pratiche problematiche: in particolare il velo integrale suscita inquietudine e molti interrogativi. La psicologa Silvia Bonino ha scritto cose interessanti proprio sulle implicazioni del velo integrale, come il burqa, che coprendo persino gli occhi fa venir meno la possibilità di comunicare attraverso lo sguardo, limitando le relazioni umane. Rimane il fatto che un divieto, in questo caso, rischia di avere effetti controproducenti. Banalmente, se vieto alle donne velate di frequentare luoghi pubblici, ciò che probabilmente otterrò è che restino ancora più confinate entro le mura domestiche… Quindi, riassumendo, sul piano dei principi la libertà di espressione è altra cosa rispetto alla libertà economica. Quest’ultima può e deve essere limitata per difendere i lavoratori dalle pressioni del mercato, prevedendo ad esempio il divieto di rinunciare alle ferie. La libertà di espressione, invece, è tendenzialmente inoffensiva e va limitata solo in casi molto particolari. Questo sul piano dei principi. Sul piano pragmatico, ritengo che le leggi francesi sul velo, che sono state scritte in nome della laicità, falliscano nel loro obiettivo. Con questo voglio dire che il velo non va vietato, ma neanche imposto, mi sembra ovvio…

L’ultimo capitolo del tuo libro si intitola “La libertà e le sue sorelle dimenticate”. In realtà la triade liberté, égalité, fraternité avrebbe dovuto essere fin dall’inizio della rivoluzione francese una quadriade: libertà, uguaglianza, fraternità e sorellanza. Le donne, infatti, erano fuori dal contratto sociale e Olympe de Gouges ha provato a inserirle nel 1891 con la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, ma i fratelli rivoluzionari non erano ancora pronti e la sua libertà di pensiero le è costata il patibolo. I fratelli, anche i più illuminati, hanno tenuto ben stretto, per più di un secolo, il loro diritto ad accedere ai corpi delle donne attraverso il matrimonio e la prostituzione, due capisaldi del patriarcato. Non potrebbero trovarsi proprio qui, in queste dinamiche di dominio sui corpi delle donne di stampo patriarcale, le radici di un sistema capitalistico sganciato da ogni rispetto dei corpi e della natura?

Per quanto riguarda la triade che dovrebbe invece diventare una quadriade, come ho detto, le parole sono importanti, hanno una storia, ed effettivamente ai tempi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino quando si scriveva “uomo” si alludeva proprio all’uomo maschio, al cittadino maschio. Detto questo, le parole poi col tempo possono essere risemantizzate, possono assumere significati diversi, e a me “fratellanza” continua a piacere. Il linguaggio ha dei limiti e in italiano non esiste il genere neutro, così di fatto il maschile ha funzionato a lungo come maschile sovraesteso, perché se diciamo “sorelle” è chiaro che stiamo parlando solo delle sorelle, delle donne, se diciamo “fratelli”, a seconda del contesto d’uso, possiamo riferirci a uomini e donne. E oggi c’è il problema che qualcuno chiede un linguaggio in grado di includere anche le persone non binarie…

Quanto alla sostanza, se per patriarcato intendiamo qualcosa che va oltre la sfera della politica e del diritto, la sfera pubblica, e investe anche l’ambito del privato e la sfera simbolico-culturale, si tratta di un tema centrale. È chiaro che nella prostituzione si esprime un certo modo di vedere la sessualità, molto misero e gretto, con una visione predatoria del maschio che vede nella donna solo un oggetto del suo piacere, e in qualche modo anche nella maternità surrogata ritornano costrutti patriarcali, sia che si rappresenti la donna come una santa, che ama rimanere incinta per donare i figli ad altri, sia che, come scrive Silvia Niccolai, la si riduca alla mera funzione biologica di “fornetto”, da impiegare per produrre bambini. Io in questo libro mi sono occupata principalmente della sfera politica, ma poi bisognerebbe interrogarsi sulla grande domanda di sesso a pagamento, che viene quasi esclusivamente da maschi. Come su ciò che si nasconde dietro al velo imposto alle donne da culture patriarcali. Io nel libro ho riflettuto più sul capitalismo che sul patriarcato, affrontando il tema della “schiavitù volontaria” in termini generali, e non solo in riferimento alle donne. Ma riconosco l’importanza dei temi da te indicati.


(Viottoli, 1/2023)

di Jessica Chia


Sta in piedi, disarmata; indossa una gonna. Lo sguardo è severo, potente. Insieme a lei ci sono altre donne, due delle quali, gonna al ginocchio, sono armate: munizioni intorno al collo e armi sulle spalle. Le due donne al centro della copertina de La Resistenza delle donne (Einaudi), il saggio con cui la storica e scrittrice Benedetta Tobagi ha vinto lo scorso 16 settembre il Campiello 2023 (con 90 voti della Giuria popolare) sono le sorelle partigiane Lina e Liliana Cecchi, pistoiesi, che immortalate in questa fotografia del 1944 testimoniano un’«altra» storia.

«È una foto densa di storia e di significati – dice Tobagi a La27ora, raggiunta al telefono in occasione della vittoria della 61ª edizione del premio letterario – e l’ho scelta perché rappresenta donne armate e disarmate insieme. E la donna in primo piano, disarmata, emana un’autorevolezza e un carisma palpabili, che bucano la fotografia e colgono qualcosa di grande di questa storia. Ci fu un grande dibattito tra le donne partigiane, se prendere le armi o meno, e per molte è stata una scelta etica. Che poi ha alimentato, durante la Costituente, il varo dell’Articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra”. La partigiana e politica Teresa Mattei (1921-2013, ndr), la più giovane eletta all’Assemblea costituente a 25 anni, disse che quando si votò l’Articolo 11 tutte le elette si presero per mano».

Perché è importante la vittoria di un premio come il Campiello per questo libro?

«Il fatto che il premio sia stato votato da una giuria popolare, scelto a breve distanza da La Sibilla. Vita di Joyce Lussu (Laterza) di Silvia Ballestra, la storia di un’altra partigiana, femminista e attivista per l’ambiente, mi è sembrato, oggi, un segnale di speranza. Mi ha toccato come le parole di queste donne risuonassero attuali, così come quello che hanno incarnato, cioè essere le sole vere volontarie della guerra di Liberazione, mentre la società si aspettava da loro che rimanessero a casa. Invece sono donne che si sono fatte trovare quando la storia ha bussato, dicendo: “Abbiamo fatto solo quello che c’era da fare”. E si sono spese per contrastare l’orrore che avevano davanti, incarnando tanti modi diversi di combattere: con le armi e senza. Queste sono due cose che parlano al presente».

In che modo?

«Vediamo ogni giorno cose feroci e orribili che accadono intorno a noi. E spesso rispondiamo con atteggiamenti di chiusura; vengono respinte le persone che stanno bussando alle nostre frontiere per cercare una speranza di futuro. E, per quanto riguarda le donne, vediamo che ancora siamo alle prese coni veleni di una cultura patriarcale e di una sopraffazione che alimenta la violenza di genere. Davanti a tutto questo, ho sentito che c’era una grandezza nel messaggio della Resistenza delle donne che continua su tanti fronti. Questo premio è quasi coinciso con l’anniversario dell’inizio delle rivolte in Iran e della la morte di Mahsa Amini. E sono tante le forme di resistenza femminile, appunto, che spesso partono dalla dimensione privata per poi diventare una lotta di resistenza collettiva».

I più giovani porteranno avanti questa memoria?

«Io lavoro molto con le scuole superiori, e devo dire che questo libro parla ai ragazzi e non solo alle ragazze, li fa sentire interrogati e in effetti è un libro che parte con delle domande molto radicali su chi sei, chi vuoi essere, quale parte vuoi avere nel mondo. Tutti i ragazzi sono alle prese con le grandi domande e le grandi paure, tante volte con ansia per il futuro ma anche con un grande desiderio di fare e trovare dei riferimenti».

Le testimoni in vita oggi sono sempre meno. Lei come ha lavorato?

«Ho lavorato su storie di vita, autobiografie narrate, testimonianze raccolte a partire dagli anni Settanta e tutta la memorialistica perché questo ti dà la stratificazione nel tempo del racconto, dopo un lunghissimo silenzio da parte di quelle testimoni. Nel libro io ho voluto dare respiro alle studiose che hanno riportato questa pagina di storia alla luce. Oggi si è un po’ perso il senso di quanto la ricerca può trasformare le cose e aprire degli orizzonti. Per le ex partigiane, l’incontro con le studiose le ha aiutate a guardare alla loro esperienza con occhi diversi, a capire più profondamente le questioni femminili. È un movimento in due direzioni».

Un nome, una foto, una storia che l’hanno colpita di più nella sua ricerca?

«La prima immagine che mi è venuta in mente sabato sera è una foto della partigiana Gina Negrini (1925-2014, ndr) seduta a una scrivania con occhi luminosi, sorriso ironico, penna in mano: era stata una partigiana – nome di battaglia Tito – di origini umilissime. Dopo la guerra, lei finisce in un matrimonio tossico con un uomo che la umilia. È una donna che ha dato prova di colossale coraggio, spirito di iniziativa, ma ha molte ferite che la portano nel buco nero di una relazione malata. Però ha un istinto di sopravvivenza e sente che non vuole che muoia con lei la ragazza che era stata e che aveva fatto la Resistenza; allora capisce che per salvarla deve scrivere la sua storia: nasce Sole nero, in cui, oltre alla Resistenza, parla di un abuso subito quando era una ragazzina. È in questo modo che torna alla vita. Il tema di trovare la voce e farla sentire nello spazio pubblico è cruciale, è uno dei fili rossi attorno a cui ho costruito il libro. È un tema pubblico, le donne che non avevano voce in capitolo, non avevano diritti civili, non erano neppure cittadine. Durante la Resistenza, le donne prendono la parola, fanno riunioni, si aiutano a vicenda a istruirsi alla politica. È la consacrazione delle donne nello spazio pubblico. Anche il mio primo libro è stato autobiografico, e questo mi ha permesso di riprendere le fila della mia storia, ho raccontato di mio padre, della sua vita e della sua morte. Attraverso la scrittura ho trovato un modo di venire veramente al mondo».

Chi sono le «partigiane moderne», le donne che lottano, che fanno sentire la propria voce oggi?

«Nella Resistenza ’43-45 le donne hanno avuto anche una dimensione di riscatto e liberazione personale e di prima messa in discussione del sistema patriarcale. Oggi nel mondo vediamo luoghi di colossale oppressione, come il già citato Iran, l’Afghanistan, le donne combattenti dell’esercito curdo. Ora vediamo che il femminile è il motore della ribellione e della rivoluzione perché la situazione femminile è una cartina di tornasole: innesca, quando c’è grande sopraffazione, e limitazione dei diritti, una ribellione che poi si estende a tutta la società. Tutte le persone che lottano per arrivare a una reale parità, che eroda il sistema patriarcale, stanno continuando quella Resistenza che ha avuto una grandissima dimensione di prefigurazione del futuro».

Queste donne ci hanno lasciato in eredità anche il senso della parola “libertà”. Lei come l’ha fatta sua, dopo la stesura di questo libro?

«Una delle cose più potenti che mi è rimasta è il senso di questa grande speranza, un ottimismo della volontà come scelta, come assunzione di responsabilità di voler contribuire a costruire il futuro, anche quando le circostanze sembrano ostili e difficili. Mi rimangono le parole di una lettera di Carla Capponi (1918-2000, ndr) rivolte a una giovane ragazza, a cui disse di non farsi ingannare dall’eccezionalità delle circostanze, perché ciascuno di noi è poi chiamato alle scelte nel proprio contesto, nella propria vita. Serve un po’ di coraggio, di cuore, e non bisogna voltarsi dall’altra parte. Poi Carla Capponi dice: «Credimi, eravamo tante». Noi sappiamo che quelle partigiane erano pochissime rispetto alla massa della popolazione (oltre 70mila aderenti ai gruppi di difesa, e circa 35mila le partigiane combattenti). Allora ho pensato: si può essere tanti anche quando siamo pochi perché l’essere solidali amplifica la potenza, la capacità di incidere nelle cose. E quindi, di cambiarle».


(27esimaora.corriere.it,18 settembre 2023)