di Annalisa Camilli
Il regista mette in scena tutte le sfumature della disperazione femminile, ma anche la resa di un maschile senza salvezza. Partendo da due testi di Natalia Ginzburg
Molti conoscono quell’articolo sul “pozzo” di Natalia Ginzburg, pubblicato nel 1948 sulla rivista Mercurio, diretta dalla sua amica, la scrittrice Alba de Céspedes. Quello in cui Ginzburg parlava della malinconia particolare in cui cadono di tanto in tanto le donne – tutte le donne – di qualsiasi origine e classe sociale. Quel pozzo che è la loro infelicità e che deriva da secoli di subalternità. Quel pozzo con cui devono fare i conti anche quelle più libere: la fatica e la sofferenza, cioè, di affrontare un mondo che non è stato fatto per loro e che non le prevede, se non in ruoli marginali.
«Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla», scriveva Ginzburg su Mercurio.
E ancora: «M’è successo di scoprire proprio nelle donne più energiche e sprezzanti qualcosa che mi induceva a commiserarle e che capivo molto bene, perché ho anch’io la stessa sofferenza da tanti anni e soltanto da poco tempo ho capito che proviene dal fatto che sono una donna e che mi sarà difficile liberarmene mai».
A quel pozzo si pensa subito e continuamente, quando appaiono sulla scena Barbara, Tosca, Flaminia e Letizia, le quattro donne – di età e classi sociali diverse – che sono le protagoniste di Fragola e panna (Einaudi 2023), la commedia in due atti scritta da Ginzburg nel 1966 (prima della rivoluzione sessuale, del sessantotto, del referendum italiano sul divorzio) e portata in scena da Nanni Moretti nel suo Diari d’amore, insieme a un’altra opera della scrittrice, Dialogo, in questi giorni sul palco dell’Arena del sole di Bologna e poi in tournée in tutta Italia. Alla sua prima esperienza da regista teatrale, Moretti sceglie due testi di Ginzburg, una scrittrice a cui è molto legato. Fragola e panna non è mai stato messo in scena.
Quattro diverse infelicità
Le quattro donne di questa commedia sono tutte espressioni diverse di quell’infelicità. Flaminia, la padrona di casa, è la più ambigua, la più compromessa. È benestante, ha una bella villa in campagna, ma ha sposato un uomo che l’ha sempre tradita e con cui vive da separata in casa, in un isolamento e un’ipocrisia che risultano insopportabili anche alla domestica, Tosca, che ripete continuamente di volersene andare.
«Di Cesare ora non me ne importa più niente, ma prima di arrivare a questo distacco, ho sofferto, mi sono lacerata e straziata», confessa a un certo punto Flaminia mentre parla con Barbara, la giovanissima amante del marito, che è venuta a cercarlo a casa in un giorno di neve con un’enorme valigia, per sfuggire alla rabbia del suo di marito, che l’ha picchiata, dopo avere scoperto il tradimento.
Tra le due donne si crea subito un’intimità, si specchiano, per un attimo intuiscono il fondo di quel pozzo in cui entrambe sono precipitate. Ma poi ciascuna torna a recitare la sua parte: Flaminia dà dei soldi e da mangiare a Barbara, e poi la caccia di casa e la fa portare dalla sorella Letizia in un convento di suore. E quando torna Cesare, il marito, continua a recitare la parte della complice.
Anche se poi scopre un disagio nuovo di fronte al cinismo del marito, un malessere che è stata Barbara – la ragazza sprovveduta e disperata che le è piombata in casa – a scatenare. Flaminia è gelosa di Barbara, ma non di Cesare, per l’amore che Barbara è capace di provare e che lei invece non sa sentire più, se non in forma di disprezzo. «Lei è innamorata di te, chissà cosa vede in te e io invece so quello che sei, sei niente, un uomo di niente», dice a un certo punto al marito, che si è seduto sul divano del salotto, al centro della scena per tutto lo spettacolo.
Mentre Flaminia scende nel pozzo e scopre una nuova coscienza di sé, Cesare minimizza le sue responsabilità, prova a manipolare la moglie promettendole una crociera e dipinge Barbara come una persona malata e marginale. «Sapete cosa fa a quest’ora? Gira la città da un caffè all’altro, mangiando gelati. La sua passione sono i gelati di fragola con panna. È capace di mangiarne dieci in un solo pomeriggio. Ha lo stomaco di un rinoceronte», dice con freddezza, per mettere a tacere la moglie e la cognata che sono preoccupate per la sorte della ragazza.
Cesare è interpretato da uno dei più importanti attori teatrali italiani, Valerio Binasco, che veste i panni di un uomo, vile e cinico, con molto calore. L’effetto è un personaggio senza salvezza, che tuttavia sembra consapevole della sua meschinità. Quello di Cesare è un maschile che alza le mani e si consegna: mostra la radice marcia che lo ha prodotto. Ma non chiede perdono.
Colpisce la scelta di avere affidato a due attori di grande esperienza e spessore dei ruoli secondari. Binasco è Cesare, mentre Daria Deflorian, altro nome di spicco della scena teatrale italiana, veste i panni della governante Tosca. Il personaggio di estrazione più bassa, eppure il più moderno della pièce. Madre single e lavoratrice, la domestica Tosca è l’unica che ascolta la ragazza, l’unica che da subito empatizza con lei, pur non capendo esattamente a che titolo stia bussando alla porta della casa in cui lavora.
Tosca ripete continuamente che sta per andarsene, perché la casa è troppo isolata, non le piace la campagna, c’è troppo silenzio e in sostanza si respira troppa infelicità: «Non sarebbero cattivi, però non danno grande soddisfazione. Mangiano e non dicono è buono, è cattivo. Niente. Non ti dicono mai niente».
Incontrarsi da un’altra parte
Quando le hanno proposto di fare il provino per il ruolo di Tosca, Daria Deflorian stava lavorando a un altro progetto suo, che ha dovuto rimandare, ma non le è costato fatica. Voleva partecipare all’esordio teatrale di Moretti, che l’aveva già diretta nel film Tre piani. «Non credo di avere fatto un buon provino, non credo di sapere fare provini. C’era un grande imbarazzo tra me e Nanni», racconta Deflorian il giorno dopo il debutto di Diari d’amore a Bologna.
«Per me è stato molto importante provare che potevo recitare senza scegliere nulla, provare a fare quello che dice Jorge Luis Borges in uno dei suoi libri, riscrivere il Don Chisciotte senza cambiare una virgola. È un lavoro che a livello attoriale mi sta confortando: eseguo e basta. Altrimenti il ventaglio dei personaggi che si possono interpretare nel corso di una vita diventa limitato», spiega Deflorian, che è anche autrice e regista.
«Per me interpretare Tosca ha significato interpretare un personaggio senza indossare la maschera, cioè la possibilità d’incontrarmi da un’altra parte, in un testo del passato, scritto da Ginzburg, che non mi appartiene affatto. È stata la possibilità di non abituarsi a interpretare solo quello che ci assomiglia, stare solo dentro al simile. Stare in scena è un piccolo allenamento a metterci nei panni dell’altro», continua a spiegare l’attrice.
«Per esempio all’inizio avevo messo nel personaggio di Tosca una mia idea di classe: cioè l’idea che la domestica fosse più in gamba del lavoro che faceva, che meritasse molto di più. Invece Moretti mi ha detto: “No, lei è molto orgogliosa del lavoro che fa”. Queste poche parole da subito mi hanno guidato nel lavoro», racconta Deflorian, che da ragazza ha dovuto lavorare come domestica per guadagnarsi da vivere. «Pensavo che l’altro da me fosse interpretare una donna borghese annoiata, come il personaggio che ho fatto in L’origine del mondo di Lucia Calamaro. E invece uscire da me ha significato interpretare una domestica orgogliosa del suo lavoro», spiega.
«Una cosa che mi piace molto di Tosca è che dalla cucina ascolta tutto, c’è anche quando non è in scena. Ogni tanto quel personaggio mi ha fatto pensare alle badanti di mia madre, che stavano così lontano dai loro figli, dalla loro famiglia. Donne che hanno fatto scelte “dannate”, ma che in queste decisioni di migrare per lavorare interpretano il desiderio di stare in vita, di proseguire la vita».
Moretti ha deciso che la messa in scena delle commedie fosse molto rispettosa del testo di Ginzburg, interpretato anche dagli attori in maniera scrupolosa. «Ci ha chiesto anzi di calcare le parole che non si usano più e che ci riportano indietro nel tempo», racconta Deflorian.
Questo anche per esaltare le caratteristiche del linguaggio della scrittrice piemontese, che da qualche anno vive una riscoperta, dovuta anche al successo delle traduzioni in inglese dei suoi romanzi fatte dalla famosa traduttrice statunitense Ann Goldstein (la stessa che ha portato negli Stati Uniti la trilogia di Elena Ferrante). “Ginzburgmania” l’ha definita Davide Coppo in un lungo articolo su Rivista Studio, in cui ha intervistato anche il curatore italiano delle opere di Ginzburg per Einaudi, Domenico Scarpa.
«Ci ritroviamo tutti, alla fine di un burnout lavorativo, di un amore finito, di un altro anno portato avanti senza certezze, a pensare come la povera Barbara di Fragola e panna: “Ma come farò, tutta la vita? Sarà tutta la vita così?”», conclude Coppo, che ricorda la passione di una scrittrice contemporanea come Sally Rooney per Ginzburg. Uno dei motivi della modernità dei testi di Ginzburg, del suo continuare a parlarci oltre il tempo, sta nella lingua: piana, precisa, sobria, vicina al parlato.
«La lingua di Ginzburg è bella da leggere, ma è ancora più bella da recitare. Prima di lavorare a questo spettacolo non ero un’appassionata dei suoi libri, ma ho scoperto nei suoi testi questa capacità di prendere posizione anche nell’incertezza. La sua forza è che non può fare mai a meno dell’altro. Il suo femminile non vuole rinunciare, per esempio, al dialogo con il maschile, anche se lo spazio di libertà è minimo», racconta Deflorian.
La domestica, Tosca, nel suo rivendicare il suo disagio, dicendo che se ne vuole andare, «parla in fondo della necessità che ci siano gli altri, esprime il desiderio di relazione, di comunicazione, che non trova nella villa, in quella coppia borghese che si regge sull’ipocrisia».
Secondo l’attrice, quello che funziona dei dialoghi di Ginzburg è che c’è sempre «qualcosa che non torna, c’è come un desiderio di un abbraccio, ma questa ricomposizione non arriva mai».
(L’Essenziale, 6 novembre 2023)
Catania. In occasione dei trent’anni del gruppo femminista “La Città Felice” Lia Cigarini ha presentato, nell’aula magna del dipartimento di Scienze Politiche di Catania, la nuova edizione del suo testo La politica del desiderio (Orthotes editore) che presenta gli scritti che vanno dal 1974 al 1994 arricchiti da quelli pubblicati tra il 1999 e il 2020. Un libro che è una sorta di “romanzo di formazione”, di “antologia della politica delle donne” e del femminismo di cui ripercorre sia il pensiero e le tematiche fondamentali – quali la libertà femminile, il desiderio, la rappresentanza, il lavoro, il diritto e l’aborto – sia le pratiche politiche inventante e sperimentate dalle donne, dall’autocoscienza alla pratica dell’inconscio, del partire da sé, della differenza con gli uomini e delle relazioni duali tra donne. Temi discussi dalle docenti Pinella Di Gregorio, Stefania Mazzone e Teresa Consoli e dalle femministe Laura Colombo della Libreria delle donne di Milano e Anna Di Salvo, Mirella Clausi, Giusi Milazzo e Nunzia Scandurra de La Città Felice.
Per Lia Cigarini – avvocata, giurista e una delle principali protagoniste del femminismo italiano – “l’orizzonte della politica delle donne era, ed è, un cambio di civiltà” da realizzare attraverso la pratica della differenza femminile, uno degli apporti italiani più innovativi e studiati dal femminismo internazionale. Le donne – sostiene – anche con la loro entrata dirompente nel mondo del lavoro, hanno scosso le fondamenta del patriarcato, l’hanno svuotato dal di dentro perché non gli danno più consenso, vanno da un’altra parte in una sorta di esodo. Questo, da una parte, ha portato al fatto che anche gli uomini accettino i concetti e i diritti di parità – peraltro già sanciti dall’art.3 della Costituzione che però incasella le donne, che sono maggioranza, tra le minoranze, come quelle etniche, linguistiche e di religione – ma, allo stesso tempo, i maschi si sentono profondamente disturbati perché vedono che le donne vanno avanti – conquistando posizioni apicali, nelle istituzioni, nella politica e nelle aziende – mentre loro sono bloccati. Le donne non sono più dipendenti da loro, in loro possesso e, peraltro, troncano le relazioni sentimentali, li abbandonano. Abbandono che per i maschi – che lo vivono come l’abbandono della madre cui sono profondamente legati – è intollerabile. Di qui l’incremento esponenziale dei femminicidi, espressione distorta della conquistata libertà delle donne.
Le femministe sottolineano che l’obiettivo della loro lotta non è la parità, ma la possibilità di esprimere e affermare la propria differenza, i propri desideri, la propria libertà che è possibilità di costruire il senso di sé trovato di volta in volta nel rapporto con gli altri. “La libertà – dice Lia Cigarini – è un’esperienza che si guadagna con l’autocoscienza, la psicoanalisi, la pratica delle relazioni. È l’esperienza personale, insieme alle relazioni con le altre e gli altri, a modificare la realtà, non le leggi che sono un modo di delegare al potere, un modo di dare il potere di risolvere i problemi al Governo e a una maggioranza parlamentare, tra l’altro entrambi espressioni di una parte della popolazione. Un approccio che è il contrario della politica femminista secondo cui è con la pratica delle relazioni e con l’autonomia che si risolvono i problemi, non con la legge”. Per questo le femministe degli anni Settanta dicevano di essere sopra la legge e chiedevano – ma furono sconfitte – la depenalizzazione dell’aborto anziché una legge che lo regolasse, legge che pure oggi difendono dai ripetuti attacchi.
Ed è per questo che Lia Cigarini e le femministe della differenza sono convinte che il cambio di civiltà passi anche attraverso nuovi tipi di relazioni delle donne con gli uomini, quelli che – come i partecipanti all’esperienza di “Maschile plurale” – stanno facendo propria la pratica delle donne dell’interrogarsi e del partire da sé. Gli uomini che ripudiano la guerra, che s’inseriscono nella lunga tradizione del pacifismo, che sono consapevoli che la violenza contro le donne, quella che chiamiamo “questione femminile”, è in realtà una “questione maschile” perché c’è una radice antropologica nella violenza, quella della guerra come quella contro le donne. Ed è su questo nodo che devono interrogarsi per superarlo, trasformarlo. Uomini che devono riflettere sulla propria differenza – superando la propria percezione di sé, maschile, come se fosse universale – ed elaborare un proprio linguaggio. Tanto più necessario in questo periodo storico in cui anche il lavoro delle nuove generazioni è “femminile”, nel senso che è frutto della messa a profitto del desiderio dal momento che si fa plusvalore sui desideri e sulle relazioni, per quanto pilotate e distorte, cioè sul femminile.
Di qui l’invito ad aprire un dialogo con gli uomini, questi uomini, e a ricordare che il movimento delle donne non ha una posizione univoca. “Il femminismo non è unico: è conflittuale, è un terreno di lotta.”
(La Sicilia, 3 novembre 2023)
Il filo invisibile che collega tre generazioni di donne e il desiderio di vivere liberamente la propria maternità, dentro o fuori una famiglia tradizionale, è al centro del libro «Una buona madre» (Guanda, 2022) dell’irlandese Catherine Dunne, vincitrice della prima edizione del Premio Europeo Rapallo. Promosso dalla cittadina ligure, con il sostegno di BPER Banca, il riconoscimento di respiro internazionale è stato annunciato lunedì 30 ottobre, insieme alle terne delle scrittrici italiane finaliste per le sezioni narrativa e saggistica (che saranno – invece – premiate durante la cerimonia finale di sabato 11 novembre). La giuria composta da scrittori, giornalisti e critici che da sempre hanno dedicato ampia parte della loro attività ai problemi connessi al genere, ha scelto Dunne tra una selezione di autrici di 27 Paesi dell’Unione europea: il suo lavoro «si impone come voce dell’universo femminile, dei dolori e degli affetti, delle ingiustizie subite e del loro coraggioso superamento, fin dall’uscita nelle librerie de “La metà di niente”», si legge nella motivazione. L’opera premiata, in particolare, «collega un presente avvincente a un passato tormentato, mettendo in luce modi e aspetti diversissimi dell’essere madre, insieme ai trascorsi storici di un Paese cattolico come l’Irlanda, carico di istituzioni ignobili dovute alle collusioni Chiesa/Stato». L’autrice si è detta «grata» per il riconoscimento pensato per riconoscere il talento della letteratura scritta dalle donne, e ha ringraziato «i traduttori che, con il loro lavoro, rendono la narrativa europea accessibile a tanti lettori».
Selezionate tra le oltre cento candidature ricevute di opere edite in lingua italiana e pubblicate per la prima volta a partire dal primo ottobre 2022, sono risultate finaliste in questa edizione per la narrativa Mariapia Veladiano con Quel che ci tiene vivi (Guanda); Claudia Petrucci con Il cerchio perfetto (Sellerio); Giusy Sciacca con D’amore e di rabbia (Neri Pozza). Per la saggistica, invece, Marina Valensise con Sul Baratro. Città, artisti e scrittori d’Europa alla vigilia della Seconda guerra mondiale (Neri Pozza); Teresa Cremisi con Cronache dal disordine (La nave di Teseo); Sara De Simone con Nessuna come lei (Neri Pozza). L’edizione 2022 aveva visto trionfare Francesca Maccani nella sezione narrativa ed ex aequo Maura Gancitano e Bianca Pitzorno nella categoria saggistica.
Anche quest’anno – spiega a La27Ora Margherita Rubino, coordinatrice del Premio Rapallo – «sono state numerose le candidature (più di cento libri, tra saggistica e narrativa, ndr) anche se, in accordo con i sette componenti della giuria, abbiamo limitato le possibilità di adesione delle case editrici. Dai libri di saggistica potevamo aspettarci trattassero temi politici, societari, storici, ma è sorprendente la quantità di bellissimi libri sull’amicizia tra donne (Mansfield e Woolf), sulle biografie di artisti rilette con sensibilità estrema, su certi punti di vista della Storia fin qui disattesi». Quanto ai romanzi, chiarisce, «molte storie portano il segno di un punto di vista femminile, ma romanzi come L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi della rumena Tatiana Țîbuleac, ben considerato dalla giuria per i romanzi stranieri, è scritto in prima persona e chi narra è un ragazzo, un adolescente disastrato e geniale». Se si osservano le classifiche dei libri venduti nel 2023, «si vede con chiarezza che le donne stanno vendendo sempre di più. E questo dovrà di certo incrementare la quantità di scrittrici vincitrici di premi letterari. Non posso dire che il futuro è rosa, ma posso dire che la situazione sta migliorando moltissimo. Non dobbiamo dimenticare – conclude – i millenni in cui le donne non venivano pubblicate. Oggi la diffusione e il successo delle autrici non può non incrementare la quantità, ma io credo anche la qualità del mercato».
(Corriere della Sera, Luisa, la newsletter de La27Ora, 30 ottobre 2023)
di Franco Lolli
Poco più di centoquaranta pagine sono state sufficienti a Manuela Fraire per riportare all’attenzione del lettore, nel suo saggio La porta delle madri (Cronopio, pp. 146, € 13,00), i temi che la sua attività di psicoanalista e di donna impegnata nel movimento femminista ha da sempre incrociato e studiato.
Tra questi, il concetto di differenza sembra occupare un posto centrale: particolarmente efficace, un passaggio nel quale specifica (rettificando errate opinioni) che «la differenza sessuale nel discorso del femminismo non è quella della donna dall’uomo ma il quid che li unisce e li separa al di là di ogni complementarietà. Se femminile e maschile si spartissero tutte le parti che appartengono all’una o all’altro, non vi sarebbe alcun resto, mentre nella differenza sessuale c’è un resto che per la psicoanalisi è il sessuale».
A venire interrogata non è dunque, semplicisticamente, la diversità dell’universo maschile rispetto a quello femminile, bensì l’impossibilità per entrambi di sapere qualcosa sulla sessualità dell’altro. Fraire compie questo passaggio mettendo a fuoco la sottomissione di qualunque corpo umano al regime pulsionale nel quale il dato biologico si interseca con quello linguistico, il reale del corpo con il simbolico della parola, il soma – direbbe Freud – con la psiche. In questa ottica, studia la differenza tra madre e donna, tra madre e gestante, tra femminilità e disposizione alla passività, tra istinto e pulsione, tra genere e sesso. E orienta il suo interesse verso le nuove forme di famiglia (omogenitoriali e monoparentali, in particolare), le nuove forme di gravidanza che la tecnologia ha reso possibile e gli aspetti etici legati alle trasformazioni di quello che un tempo veniva definito «legame primario». Anche in questo ambito, ciò che sembra attrarre soprattutto l’attenzione di Fraire è la differenza: tra l’accudimento del bambino da parte del genitore donna e quello da parte del genitore uomo, ovvero tra un’esperienza di cura radicata nella tradizione e la prassi di chi «non ha ancora accumulato abbastanza esperienza di allevamento di un infans senza la supervisione di una donna» che gli consenta di «contare su un sesto senso che gli permetta di decifrare e anticipare i bisogni di chi ancora non parla».
Il libro di Manuela Fraire offre anche, all’interno della sua prospettiva concettuale, una riflessione sulla pratica analitica, alla luce di una serie di interrogativi: sull’eventuale condizionamento del sesso dell’analista, su quanto il controtransfert risenta dei pregiudizi «sessuali» dell’analista, su quale sia il peso dell’identificazione proiettiva.
Tre film, narrati da altrettanti registi uomini – The Favourite diretto da Yorgos Lanthimos, Vier Minuten diretto da Chris Kraus, e The French Lieutenant’s Woman di Karel Reisz – consentono all’autrice di analizzare altre differenze ancora: quella tra l’atteso e l’ospite, e quelle tra l’essere e il sentirsi soli e, ancora, l’avvertire se stessi come diversi, «i tre volti che può assumere la condizione che chiamiamo solitudine».
(Alias – il manifesto, 29 ottobre 2023)
di Andrea Carloni
Vivian Lamarque scrive poesie fin da bambina e ne pubblica da cinquant’anni. Nel 2002 è uscita per Mondadori la raccolta di tutte le sue poesie, ma ha continuato, e continua, a scriverne. Ha collezionato numerosi premi (il Montale, il Carducci, il Morante, il Saba e, recentemente, il Premio Strega Poesia).
Vorrei cominciare dall’inizio, quindi dal titolo di questa sua ultima raccolta di poesie: L’amore da vecchia. Cosa può raccontarci di questa scelta?
Se ben ricordo, tutti i titoli dei miei libri di poesia sono apparsi prima delle poesie stesse, hanno “dato il la”. Unica eccezione, Madre d’inverno, che giunse a libro terminato. Il titolo L’amore da vecchia nacque nel 2016 contemporaneamente all’uscita di Madre d’inverno, il giorno del mio settantesimo compleanno. Proprio in quei giorni mi capitò come una sassata un colpo di fulmine (in assenza di metà fulmine però!), una specie di stordito innamoramento. Poesie come se piovesse, precedute dal fulmineo nuovo titolo: L’amore da vecchia. Amore naturalmente non rivelato all’interessato (anzi al disinteressato). Intanto le recensioni al libro precedente, pur ottime, mi parevano ruotare troppo intorno alla mia biografia, mea culpa pensai, nel prossimo libro guai a me se toccherò ancora il tema infanzia, solo versi d’amore. Ma avevo fatto i conti senza l’oste, cioè senza le poesie stesse. Dopo un anno (mi ero festeggiata zitta zitta anche l’anniversario del fulmine), camuffate di rami e foglie come nella foresta di Birnam, sono avanzate di nuovo, striscianti, le poesie sui soliti temi prediletti. Allora nove sezioni anziché l’unica prevista. E della prima, “I nomi degli amanti”, salvate solo metà delle poesie.
e perdono chiedo ai fidanzati.
Tutti dimenticati?
No, i loro nomi ho ancora dentro bene
incisi, ma come per nebbia
confondo un poco rami e mani, colore
delle foglie e dei capelli.
Oh presto saremo boschi tutti quanti insieme?
Lei dichiara per questo libro una matrice fortemente autobiografica, forse mai così netta come in queste pagine. Quale rapporto intercorre oggi fra le sue vicissitudini e le sue poesie?
Siamo in guerra! Più giuro di non parlare mai più d’infanzia, più loro insistono. Devo informarle che ho quasi ottant’anni, che sono ridicole, che la smettano. Niente, imperterrite si camuffano, veda nella risposta precedente la foresta di Birnam. Tempo fa avevo studiato una strategia: iniziai a scrivere la mia autobiografia, in prosa naturalmente, pensando di così tacitare quel tema in versi. Fallimento totale: e per di più invasero anche la prosa.
I am an orphan! I am an orphan!
Ma, sorpresa, orfano lui non era affatto.
Come io non lo sono
come voi non lo siete
come tutti –
lo siamo.
In copertina appare il disegno essenziale della curva di una linea, fa pensare all’avvolgimento di un filo. Come nasce questa immagine e quanto è casuale?
Le copertine sono le mie croci. Le vorrei solo con titolo e nome dell’autore, fine, come nei vecchi Specchi color seppia. Le vorrei fisse nel tempo, come avviene con la bianca Einaudi o con gli Adelphi. Le prime copertine che mi proposero per L’amore da vecchia mi spaventarono. «Aiuto, sul mio corpo avete messo una testa non mia», scrivevo disperata a Elisabetta Risari e a Luigi Belmonte. Nel 2002 avevo ottenuto di disegnarmela da me la copertina dell’Oscar, idem anni dopo quella di Poesie per un gatto e poi quella di La gentilèssa. Per L’amore da vecchia chiedevo meno segni, più vuoto, infine dopo una quindicina di prove, ecco giungermi l’attuale. Nel centro del filo c’era una specie di occhio inquietante, ottenni di eliminare pure lui e sì, ha ragione, il risultato è un filo e, me ne sono accorta dopo, in quarta di copertina la poesia parla di un filo da ricamo, felice casualità.
Finito, già finito
l’incantato tempo
dei rami in fiore?
Come quando
sul più bello del ricamo
finisce il filo da ricamo?
L’ironia e soprattutto l’autoironia sembrano essere compagne fedeli dei suoi componimenti, anche in una delle sezioni più intense, Io non sono morta io sono nata. Quanto aiuta l’alleggerimento?
È la mia arma, la mia salvezza. Imparai a farne uso fin da bambina. In un tema di seconda o terza elementare, dovendo parlare del babbo Dante morto quando avevo quattro anni, dopo tante belle dovute parole, si infilò nel pennino l’invidia per gli altri bambini che il papà lo avevano ancora: «ci sono anche altri colleghi del mio babbo morti, ma pochissimi!». Dire e non dire, oppure dire modificando l’alfabeto: in una letterina di Natale dettata dalla maestra e che cominciava con «Cari genitori», per un lapsus calami, firmai anziché Vivian, Viviam. Imperativo esortativo del verbo vivere, fa niente se uno dei due genitori era morto!
Nessuno si meraviglia
se uno alla sua età
muore.
Nessuno.
Ma lei sì!
Lei che sarei io, sì.
Sì, lei si meraviglierà,
io mi meraviglierò.
Tanto
Fra i suoi versi compaiono i nomi di tanti poeti del passato, Pascoli, Caproni, Gozzano, Saba… Rivolgo a lei la stessa domanda della sezione Poesie sulla poesia: non ce ne inviano più di poesie i morti, nemmeno una?
Ha ragione. La sua domanda mi fa pensare che in fondo anche da là ce ne inviano ancora, a tonnellate. Perché, se rileggo oggi a ottant’anni poesie che avevo letto a trenta, mi dicono molte cose in più, nuove, nuovissime, grazie poeti! Per esempio grazie Lello Baldini, che sto rileggendoti in questi giorni.
Dipenderà dalla poesia e dalla rosa
– una tra i fogli l’altra tra le foglie –
se di qualche millimetro col tempo
cresceranno, o se resteranno lì inerti
sul foglio e nel vaso, senza una nuova
parola, senza una foglia nuova.
(La Balena Bianca, 24 ottobre 2023)
di Luciana Tavernini
Louise Glück (1943-2023) è morta il 13 ottobre scorso. La ricordiamo nelle sue opere. Proponendoci la sua verità soggettiva sulla complessità e unità dell’esistenza e rivelandoci il modo in cui le si è manifestata, la poesia del premio Nobel Louise Glück ci offre l’opportunità di lasciarci a nostra volta illuminare e trasformare.
Nell’anno della pandemia planetaria (2020) il Nobel è andato a una scrittura di «austera bellezza» che ruota intorno al tema della morte ma anche della resilienza. Come recita la motivazione del premio, Louise Glück nella sua poesia attinge alla sua vita e costituisce una «voce inconfondibile» che «rende universale l’esistenza individuale».
Nata a New York il 22 aprile1943 da famiglie di origine ebrea e ungherese, emigrate negli USA all’inizio del Novecento, da giovane Louise Glück ha sofferto di anoressia. La sua è una poesia dell’esperienza e delle relazioni e lei ne è consapevole. Il secondo marito John Dranow e il figlio Noah, nato nel 1973, diventano interlocutori, ad esempio, in L’iris selvatico. E della sua maternità dice in un’intervista a Luca di Mastrantonio: «La nascita di mio figlio mi ha fatto crescere. Un’esperienza che mi ha dato tanto e mi ha sottoposta a molte forzature. All’improvviso, diventi responsabile di un esserino e, per un paio di anni, sono stata una mamma single. È uno shock, ma è stata la decisione migliore che abbia mai preso. Anche sul lato artistico: sarei stata una poetessa molto più tediosa senza la nascita di un figlio. E senza i miei studenti, i loro testi, non avrei superato il mio primo grande blocco di scrittura.»
Louise Glück ha scritto dodici libri di poesie e due di saggi, e ha ottenuto i maggiori riconoscimenti statunitensi. Poems: 1962-2012, è un volume di ben 656 pagine che contiene cinquant’anni di poesie. Il Saggiatore, che ha ripubblicato L’Iris Selvatico e Averno, ha recentemente mandato in libreria Notte fedele e virtuosa, Ararat, e il suo ultimo libro Ricette per l’inverno collettivo.
Ho incontrato la poesia di Louise Glück, come credo molte, quando le è stato assegnato il Nobel: la sua poesia si è diffusa e si diffonde attraverso le relazioni, con il passaparola. Anche per le traduzioni in Italia dei primi due libri è stato così, come racconta il traduttore Massimo Bacicalupo in una intervista rilasciata presso il Centro Studi americani. Infatti Glück, come ci avverte nel suo discorso di accettazione del Nobel, non è una «poeta da stadio» e neppure «una poeta che parla a se stessa», ma fin dall’infanzia come lettrice di poesia sente l’importanza del «ruolo di lettrice scelta», un ruolo «intimo, seduttivo, spesso furtivo o clandestino» e ora come autrice sa che «chi legge o ascolta dà un contributo essenziale, in quanto destinatario di una confidenza o di un grido di protesta, a volte in quanto cospiratore» nel cogliere la profondità politica della poesia.
Diffida della vita pubblica in cui le generalizzazioni cancellano la precisione e le verità parziali cancellano il candore e la rivelazione. I premi, la notorietà, possono essere «un’estensione dell’intensa relazione che la poesia aveva creato: un’estensione, non una violazione»; ciò che le interessa, come ad alcuni altri poeti e poete, è piuttosto «raggiungere molte persone […] nel tempo, nel futuro»; ma desidera che «in qualche modo profondo questi lettori arrivino sempre singolarmente, uno a uno». Cita proprio una poesia di Emily Dickinson, «I’m nobody! Who are you?» (1861), per esprimere questo intimo e necessario rapporto tra poeta e chi legge: «“Io sono Nessuno! Tu chi sei?/ Sei Nessuno anche tu?” […] “Allora siamo in due!/ Non dirlo! Potrebbero esiliarci, lo sai…”».
Dunque, ci suggerisce come avvicinarci a lei. Farsi scegliere da chi fa poesia, e sedute sul divano, diventare «compagne di invisibilità», collaborando alla rivelazione che può accadere.
I suoi sono veri e propri libri, non semplici raccolte di poesie. La critica parla di sequenza poetica lirico narrativa, dunque andrebbero letti ciascuno per intero seguendo l’ordine da lei indicato, un ordine non solo temporale ma anche di sviluppo del tema proposto. Sono veri e propri classici perché ogni volta che li leggiamo scopriamo qualcosa di nuovo. Non dobbiamo, come certi collezionisti di opere d’arte, conservarli in cassaforte, nella libreria, cassaforte di libri. Sarebbe come lasciare ricoprire di polvere qualcosa di prezioso e vivo che a ogni rilettura rivela nuove scoperte; infatti, in ogni sua poesia ne sono stratificate altre, come in quelle di Emily Dickinson, da lei considerata sua maestra, ed è un vero piacere poter leggere il testo in originale per azzardare altre traduzioni sia per le caratteristiche linguistiche dell’inglese, sia per la scelta di parole polisemiche come bed, letto e aiuola, che ci fanno passare dal fiore alla relazione di coppia.
L’iris selvatico
Vorrei proporvi di conoscerla a partire dal suo settimo libro, L’iris selvatico (1992), per l’importanza che oggi sentiamo di un diverso rapporto con la natura, non a caso mostrato da ciò che María Zambrano chiama logos poetico, la capacità di stare presso le cose, amandole con meraviglia in un ascolto che riesce a portare alla parola verità non ancora espresse dell’esistenza.
Qui tutto accade nel giardino, nell’orto, nella campagna del Vermont dove Glück abitava col marito e il figlio. Tre sono all’incirca le tipologie delle cinquantaquattro poesie, scritte in due mesi e mezzo: quelle in cui i fiori parlano, figure che rappresentano stati dell’animo umano; i “Mattutini” e successivamente i “Vespri” in cui la giardiniera dialoga con il divino; alcune situazioni temporali e di luogo dove il divino si manifesta e parla direttamente. Intrecciandosi tra loro le poesie creano un percorso iniziatico che non si può raccontare ma solo seguire e ripercorrere, come il cammino a spirale dei templi indonesiani di Borobudur dove si ascende, entrando in profondità con se stesse.
Vengono presentate situazioni quotidiane vissute con grande intensità come può accadere nelle micro-meditazioni dello yoga in cui l’essere capaci dell’attenzione – nell’accezione di Simone Weil, del fare vuoto dentro di sé per aprirsi all’oggetto, a ciò che abbiamo davanti – ci permette di cogliere il senso dell’esistenza. La poesia di Glück a una lettura superficiale può sembrare che mostri qualcosa di banale, di quotidiano anche se avvertiamo in qualche suo verso come una scossa. Ma se ci limitiamo a una comprensione apparente perdiamo il piacere della sorpresa. E in un suo “Mattutino” lei dice: «Per me, sempre/ il piacere è la sorpresa» (p. 83).
Le sue poesie nascono da momenti di essere come li chiama Virginia Woolf, da momenti di felicità come dice Mansfield. Monica Farnetti scrive che si tratta di un’esperienza legata «a una percezione nitida, intera e pervasiva della realtà», «una realtà vivente». «È, insomma, un campo di percezione, e insieme di passione, il quale stando dentro i suoi limiti funziona però come parte per il tutto, vale a dire del mondo come corpo celeste pieno di meraviglie e del cosmo che lo ospita fin dall’inizio del tempo». Farnetti parla di Katherine Mansfield e, partendo da lei, disegna una genealogia di autrici che dall’inizio del Novecento «prendono via via coraggio e si autorizzano (l’una l’altra e ciascuna se stessa) a ficcare il naso nella terra e nel cielo, per rendersi conto da dove e per quale via il mondo sia venuto al mondo e quale posto occupino l’umano e i suoi dissimili» (p. 44). Oltre a Mansfield e Woolf, indica Colette, Marguerite Duras, Elisabeth von Armin, Clarice Lispector, Marguerite Yourcenar, le nostre Marisa Bulgheroni e Anna Maria Ortese e per gli USA Alice Walker, bell hooks, Toni Morrison. Insomma mi sento di collocare Glück in questa genealogia di donne che vivono l’esperienza dell’alterità impastata con l’identità, piazzandosi, come dice Farnetti, «con tutto il corpo e con tutti e cinque i sensi al centro di quest’esperienza e vivendola appunto come esperienza e non come concetto» (p. 49).
Una modalità empatica in cui si è disponibili «ad accorgersi dell’altro e a stare amorosamente in sua compagnia. A starci dunque per amore, e per amore appunto d’altro», una capacità di lettura per Glück che dal suo giardino fa «saltare le pareti dell’io» praticando «il passaggio Io/Altro», coniugando la sfera terrestre e celeste e «mantenendo il respiro e la grandezza dell’universo» (Farnetti, p. 50). Un’empatia che la porta a sentire i fiori e a dialogare con un Padre divino che ha elementi biblici. Come direbbe la teologa Antonietta Potente, nelle serie di poesie intitolate Mattutino e Vespro è «l’anima corporea» (p. 80) della giardiniera che si rivolge al Padre, a un Tu, al «grande Mistero che ci avvolge, noi normalmente lo chiamiamo “Dio”, in realtà non sappiamo se ha un nome» (p. 55). Si tratta di una presenza-assenza di cui si ha «nostalgia e sete» perché «se l’essere umano non percepisse l’assenza non potrebbe né cercare né amare» (p. 29). In contrasto con questa sua percezione del divino Louise Glück scrive la parola dio minuscola solo in tre poesie, per indicarne un uso ormai svilito: per commiserarsi (Viole, «povero dio triste», p. 59), per dividere (Zizzania «se adori/ un solo dio, ti serve/ un solo nemico», pp. 61-63), come voce di dio eco della propria (Scilla, p. 43).
Il tu divino invece lei può rimproverarlo per la sua indifferenza e per come «forza il cuore» e dunque lo può paragonare a un coltivatore che prova una nuova specie (Mattutino, p. 69), ma spera che «intenda farmi/ di nuovo sana per sempre, come fui/ sana e intera nell’infanzia ignara», o ancora prima quand’era dentro sua madre o nel sogno di una possibile eternità. Un tu divino a cui può esprimere anche i suoi dubbi cercando la prova della sua esistenza nel piantare un fico nel Vermont (Vespro, p. 97). Questo tu parla con compatimento («quando vi ho fatti vi amavo. / Ora vi compatisco») perché le anime che avrebbero dovuto essere immense per i doni della bellezza del mondo sono «piccole cose vocianti» (Vento calante, p. 45) o sono incapaci di pensare al suono della sua voce («come altro che una parte di voi», Fine dell’inverno, pp. 35-37).
Per dire di questa relazione mi sembrano utili le parole di Luisa Muraro (Il dio delle donne) riferite alle mistiche: si tratta de «l’imprevedibile dio delle donne», «presente-assente in una relazione di amore libero che si faceva riconoscere senza mai farsi prendere» (p. 24), che viene detto in un linguaggio che non ha mai «la pretesa di dire la verità su Dio» (p. 25), un dio che «c’è nella forma di un capitare sempre possibile» (p. 31). Per questo, potendo leggere l’originale, spesso io preferisco tradurre you con tu piuttosto che con voi, in questo modo il dialogo diviene intimo: il tu divino si rivolge a un altro tu e non mi appare come un predicatore che si rivolge sempre a un voi, che rappresenta il genere umano.
La poesia di Glück è relazionale ma proprio perché chi legge è ascoltatrice all’interno del dialogo, vi è difficoltà a capire chi sta parlando e a chi (situazione che si può definire di locutore inaffidabile). Si assiste alla rivelazione se ci mette nella stessa disposizione della poeta che si colloca in ascolto della realtà che la circonda, del vivente che, attraverso lei, prende voce e illumina il senso dell’esistenza.
Nelle diciotto poesie il cui titolo è il nome di un vegetale, Glück lo descrive con una precisione da pittura antica. A volte il nome mi era sconosciuto, così ho cercato in internet e, grazie all’esattezza della descrizione, ad esempio per il Lamium (p. 25), ho potuto individuare di quale sottospecie si trattava. La poesia mi ha dato così le parole per dire il valore di un’amica, una di quelle amiche riservate, con una loro luce interna «come un sentiero che nessuno può usare, un sottile/ lago d’argento nell’oscurità sotto i grandi aceri» (p. 25). Ho provato quindi l’emozione del ritrovare lì quell’amica che non si lascia toccare dal sole, che non si mette in mostra, ma è tanto più preziosa nella sua apparente freddezza.
La prima poesia, L’iris selvatico (pp.13-15), che dà il titolo al libro, è la più perfetta descrizione che io conosca della depressione e del suo superamento. Gli iris li conoscete. Pensate alla loro fioritura nel dipinto di van Gogh, ma d’inverno resta solo il rizoma sottoterra. Glück dice «è terribile sopravvivere come coscienza sepolta nella terra scura». E l’uscita dal soffrire accade con il ritorno della parola. «Tu che non ricordi /passaggio dall’altro mondo/ ti dico che seppi parlare di nuovo». E alla fine c’è la descrizione della bellezza dell’iris fiorito, apertura alla meraviglia della vita, alla sua origine. «Dal centro della mia vita venne /una grande fontana, ombre blu /profondo su acqua di mare azzurra». E in Bucanave il superamento della disperazione avviene «gridando sì, rischia la gioia// nel vento aspro del mondo» (p. 27).
Le sue poesie costituiscono una critica politica profonda: troviamo rappresentata, ad esempio, la costruzione del nemico come inganno per continuare a dolerci e incolpare qualcuno perché le nostre particolari passioni finiscono e non vogliamo prendere coscienza del fatto che non erano destinate a durare, (Zizzania, pp. 61-63); oppure la necessità del disfacimento dell’io per essere in grado di mostrare al sole, al signore in cielo, «il fuoco del mio cuore, fuoco come la sua presenza», come ci dice il papavero rosso, chiamandoci fratelli e sorelle (Il papavero rosso, p. 77); o la falsa credenza che le macchine siano il mondo vero, e il fascino che subisce la mente che «vuole brillare, scopertamente, come/ brillano le macchine, e non/ crescere in profondità come, per esempio, le radici», qualcosa che bisogna però «pensarci due volte» prima di dire (Margherite, p. 105).
A volte troviamo la rappresentazione della coppia, ma mai in modo idilliaco. Ad esempio ne Il giardino (p. 51) «persino all’inizio dell’amore» senza che vi sia consapevolezza si «compone un’immagine di separazione»; oppure il biancospino capisce che «passione e rabbia umana» hanno causato la fuga dei due perché hanno lasciato cadere tutto quello che avevano raccolto (Il biancospino, p. 53). I gigli bianchi, l’ultima poesia del libro è costruita sulla simmetria tra la coppia di gigli e la coppia umana, dove alla fine dell’estate, come durante la pandemia, possiamo sentire il terrore che tutto possa finire, essere soggetto a devastazione, perduto. Possiamo sentire inutile bellezza e aria profumata. Ma lo splendore, il giardino che abbiamo costruito in «quest’unica estate» ci ha fatto entrare nell’eternità. Le mani che seppelliscono il bulbo, le mani che ci toccano e di cui avvertiamo il bisogno permetteranno lo sprigionarsi dello splendore che ritornerà.
Glück propone la sua verità soggettiva sulla complessità e unità dell’esistenza e, mostrandoci come le si è manifestata in un rinnovato rapporto con la natura, ci offre l’opportunità di lasciarci a nostra volta illuminare e trasformare.
Bibliografia
Massimo Bacigalupo, “Louise Gluck e la poesia americana”, Intervista rilasciata presso il Centro Studi Americani, il 10 dicembre 2020, https://www.youtube.com/watch?v=BbX0NqF5NpM
Emily Dickinson, “Io sono Nessuno! Tu chi sei?” in Tutte le poesie, trad. di Silvio Raffo, Meridiani Mondadori, Milano 1997
Monica Farnetti, “Felicità di Katherine Mansfield” in Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee, La Tartaruga/Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, pp. 40-55, 332 pagine, 17 euro
Louise Glück, Ararat, trad. di Bianca Tarozzi, Il Saggiatore, Milano 2021, 128 pagine, 14 euro e-Pub 7,99 euro
Averno, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2019, 160 pagine,14 euro, e-Pub 7,99 euro
L’iris selvatico, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2020, 158 pagine, 14 euro, e-Pub 7,99 euro
Notte fedele e virtuosa, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2021,176 pagine,14 euro, e-Pub 7,99 euro
Ricette per l’inverno dal collettivo, trad. di Massimo Bacigalupo, Il Saggiatore, Milano 2022, 96 pagine,13 euro, e-Pub 7.99 euro
Poems: 1962-2012, FSG – Macmillan, London 2013, 656 pagine, 22 dollari, e-Pub 8,72 dollari
Nobel Lecture, The Nobel Foundation, Stoccolma 2020, gluck-lecture-english.pdf
“Discorso per il premio Nobel”, trad. di Valeria Gorla, in The Italian Review, 1, 2021https://www.theitalianreview.com/discorso-per-il-premio-nobel/
Luca di Mastrantonio, “L’arte ci salverà dalla catastrofe della pandemia”, Intervista a Louise Glück, https://www.corriere.it/sette/incontri/intrevista-louise-gluck-nobel/index.shtml
Luisa Muraro, Il dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, ripubblicato da Marietti, Milano 2020, 240 pagine, 17,50 euro
Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare. La mistica luogo dell’incontro, Ed. Paoline, Milano 2017, 130 pagine, 13 euro
Zambrano María, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996, pp.188, 13 euro
Zamboni Chiara, “María Zambrano: il sentire inconscio e il linguaggio nel generarsi della natura”, In Sentire e scrivere la natura, Mimesis Edizioni, Milano 2020, pp. 89-131, 20 euro
(Leggendaria, n. 155/2022, pp. 43-45 – Primopiano/Louise Glück, 5 gennaio 2023)
di Jessica Chia
Sono piccole, alcune hanno ancora i denti da latte. Altre, invece, hanno le prime forme sul petto. Sono bambine fra i sei e i diciassette anni, che si accalcano davanti alla Camera del lavoro, a Milano. Urlano, sono senza i loro genitori; consegnano volantini con su scritto: «Mi son la piscinina, mica la schiava». Alzano la voce, per la prima volta in vita loro: «Sciopero! Sciopero!». Quelle bambine stanno segnando la storia dei diritti nel lavoro minorile e femminile in Italia. È il 1902 e le «piscinine» – questo il loro nome in dialetto – sono apprendiste sarte, modiste, corriere, che consegnano a piedi, in tutta la città, grossi pacchi con vestiti realizzati su misura dagli opifici tessili e dalle botteghe sartoriali. Sono al servizio delle «maestre», che non le retribuiscono e non insegnano loro il mestiere. E oltre ai soprusi salariali, sono costrette a subirne di peggiori, in silenzio, perché nessuno crede loro: le molestie e le violenze sessuali praticate dai mariti, e dagli uomini di casa, delle loro «maestre».
Tra loro c’è anche Nora, quindici anni, balbuziente, povera, quasi analfabeta e insicura. Ma con una forza sconosciuta nascosta dentro lei, e di cui ancora non conosce il potenziale. Ispirata al quadro La piscinina di Emilio Longoni (1859-1932) del 1891, la ragazza è la protagonista del nuovo romanzo di Silvia Montemurro, La piccinina, appena uscito per edizioni e/o (pp. 192, 16,50 euro), che unisce la storia di quegli straordinari fatti storici alla vita personale, difficile, della piccola Nora: le prime amicizie, la scoperta dell’amore e del proprio corpo, le dinamiche violente delle famiglie in quegli anni. Fino al confronto con la dura e spietata realtà che vivono le bambine di quell’epoca.
Scriveva La Domenica del Corriere sui quei tumulti: «Le piscinine domandano: un salario minimo di 50 centesimi, riduzione di orario, non essere adibite a lavori di famiglia e non portar lo scatolone; doppia paga alle domeniche e compenso proporzionato per ore straordinarie di lavoro. […] La grande sala della Camera del lavoro, invecchiata fra le adunanze di tutti i generi, non ricorderà certo d’aver mai veduto fra le sue pareti nulla di simile a quanto vi si è svolto ieri. Una nidiata di bambine – saranno state un centinaio – sedute in buon ordine, contornavano il palco delle Commissioni. Un cinguettio di voci infantili, allegro e irrequieto echeggiava fra le nere muraglie, sotto al lucernario polveroso, che finora avevano rimbombato delle grida minacciose di tumultuose assemblee operaie».
L’evento, infatti, non sconvolge solo i giornalisti dell’epoca: si sconvolgono le «maestre», che le seguono nei loro cortei, insultandole. Si sconvolgono gli uomini delle loro famiglie, che si sentono «insultati», provano la vergogna del disonore per queste figlie ribelli che non sanno stare al loro posto. E questo avviene anche nella famiglia di Nora. Ma lei si ispira agli insegnamenti di suo padre, morto nelle lotte delle Cinque giornate di Milano: «Il papà mi ha insegnato che le grandi lotte per i diritti partono sempre dalle rivolte del popolo. Quindi anche noi ci potevamo ribellare». E nonostante la balbuzie, lei cammina fiera, di fronte alla folla che si prende gioco di loro, fino alla Camera del lavoro, per consegnare i desiderata delle scioperanti: «“Boicottare” diceva (suo padre, ndr), scandendo bene le parole, “imparalo anche tu, Nora, cosa vuol dire. Che magari un giorno ti servirà. Una parola preziosa”».
A casa la vita non è facile: i suoi fratelli sono i primi che la insultano per via degli scioperi (le dicono che «i giornali scrivono delle piscinine, “le zabette che vanno in giro a fare lo sciopero”, come gli uomini» insiste lui. «Ci fai vergognare, tutti quanti»). E lei vive, senza amore familiare, nella perpetua insicurezza della sua balbuzie: non riesce a esprimersi, è lo zimbello di tutti. Ma quelli sono anche gli anni in cui Nora scopre le amicizie, come l’Angelica e la Lisa. Soprattutto la Lisa: così bella, in grado di parlare senza balbettare, dolce e composta. C’è poi l’Emilio, il suo amico pittore adulto, figura di riferimento per Nora. E infine l’Achille, il ragazzo di cui si innamora come solo a 15 anni ci si può innamorare: perdutamente e dolorosamente. Ma l’amicizia di questo trio di ragazzini è destinata a finire quando si troveranno ad affrontare un evento troppo grande per quelle piccole donne dal viso di bambine: l’aborto clandestino che quasi ucciderà una di loro.
«Mi avevano anche inculcato nella testa che ci fosse una sorta di potere nascosto, nel genere maschile, per cui noi donne dovevamo stare all’erta o saremmo finite abbandonate e rinnegate per via di uno sciocco errore di calcolo». Nora impara molto presto che la vita per le femmine è disseminata di dolori e ingiustizie: gli uomini possono farne quello che vogliono di una bambina povera, tanto la «vergogna» rimarrà attaccata solo addosso a lei, per tutta la vita. Ed è quello che lei subirà proprio sul luogo di lavoro; quel luogo per il quale avevano chiesto maggiori tutele e più dignità.
Attraverso gli occhi di Nora, Silvia Montemurro racconta una storia che è soprattutto una storia delle donne: dalle lotte collettive, alla loro figura marginale – di fatiche domestiche e «allevatrici» di figli – nelle famiglie, ai tentativi di emancipazione di quelle nate nelle classi più povere, per non rimanere «zitelle». Le descrive – con una prosa piacevole che, in prima persona, ricalca la voce della quindicenne Nora e il suo guardo di scoperta sulla vita – in un mondo ancora di dominazione maschile, dove la violenza è pane quotidiano e bisogna imparare a sopravvivere fin da piccole. Come fanno le piccinine, per cui il loro coraggio ha rappresentato un enorme passo in avanti nella storia dei diritti: «…diverranno lavoratrici oneste, combatteranno cento altre battaglie con la convinzione profonda di una verità appresa da bambine, molte diverranno madri; i loro figli certo non saranno crumiri. Su, camminate, bambine!» (Avanti!, giugno 1902).
(27esimaora.corriere.it, 15 ottobre 2023)
di Alessandra Pigliaru
Che la vecchiaia sia un tema presente nella discussione pubblica internazionale, non lo si deve solo all’attenzione che da anni gli Age Studies assicurano, quanto piuttosto a un intrecciarsi nelle forme della rappresentazione con i capisaldi dell’umano vivere capaci di declinarne i contesti, da quello lessicale a quello sessuato. Considerando alcuni libri editi in questo ultimo anno, ci accorgeremmo di quanto la trasversalità sia d’obbligo.
Lidia Ravera nel suo Age pride. Per liberarci dai pregiudizi sull’età (Einaudi, pp. 101, euro 13) propone per esempio «un nuovo titolo di merito» preferendo al termine anziano/anziana quello di Grande adulta o Grande adulto. E prosegue dicendo che nonostante l’attribuzione qualitativa tenda a immaginare persone «serene», ci si potrebbe sincerare come non lo siano affatto, «neppure rassegnati: inquieti» perché «sono corpi che conoscono le carezze, hanno imparato a farne a meno, ma anche a inventarne di nuove, diverse. Sono anime in prova, alle prese con la durata, alcune sono tormentate, altre soddisfatte. Ci sono le anime placate, ma ci sono anche le anime furiose. Ciascuno invecchia a modo suo, fedele alla sua storia, alla sua identità, al suo carattere».
Restando tuttavia sull’aggettivazione dell’essere adulti, anche Gabriella Caramore nel suo L’età grande (Garzanti, pp. 144, euro 14) racconta di una ampiezza, al netto di quanto la vecchiaia si leghi più facilmente al tempo. Ha quest’ultimo un aspetto ineluttabile, osserva la sua fine, la sua chiusura, e non è un caso che una delle più prestigiose manifestazioni culturali italiane quale è Torino Spiritualità, conclusasi pochi giorni fa e dedicata «Agli assenti. Della morte ovvero della vita», abbia scelto di presentare il libro di Caramore (in conversazione con Elena Loewenthal) dando alla parabola terrestre l’accezione temporale e spaziale che la designa.
Che i processi di invecchiamento restituiscano un quadro ben più generativo di quanto fornitoci dal senso comune lo si assume da diversi lavori, tra quelli di carattere antropologico si può vedere il volume a cura di Jacopo Favi, Invecchiare (Meltemi 2021). Anche Barbara Leda Kenny, in un lungo articolo di qualche mese fa su «L’essenziale» ragionava del mutamento e della trasformazione di scenario, soprattutto in Italia e a proposito delle donne anziane (erano 4,5 milioni quelle sole, soprattutto vedove) con cui si potrebbe auspicare un modello diverso di convivenza e di famiglia.
Sta di fatto che in una dimensione anzitutto del «sentire» la propria carne attraversata da ciò che è stato e ciò che arriverà, il nodo del presente si affaccia per dipanarsi in scritture letterarie, che spesso si ibridano tra il memoir, l’autobiografia e la prospettiva della storia culturale, come accade in La quarta parte, di Luisa Passerini appena uscito per manifestolibri (pp. 112, euro 12) in cui la vecchiaia è luogo frequentato dall’autrice da svariati anni. Già nel 2006 nella rivista «Storia delle donne» (Firenze University Press) dava conto, tra le altre cose, dell’affacciarsi anche in Italia, alla fine degli anni Novanta, di alcune ricerche sulla necessità di sessuare la vecchiaia. Ciò per dire che La quarta parte ha una tale struttura teorica alle sue spalle che sarebbe riduttivo collocare questo agile e utile volumetto come un memoir, cominciato nella primavera del 2020 e concluso nell’inverno successivo.
Al centro vi è una donna che accompagna la coscienza dei suoi ottant’anni con Dante Alighieri, Agnès Varda e David Hume, aprendo degli squarci che vanno dunque dalle lettere al cinema e alla filosofia, nel corpo a corpo con alterne passioni, compresi vizi e virtù, tra cui spicca la temperanza. Specificata nella sua raffigurazione sapiente di arcano maggiore in cui c’è una figura femminile che travasa dei liquidi da una brocca a un’altra. In quest’operazione che Passerini identifica di mediazione, collegamento ed equilibrio, si sgrana ciò che connette e mescola «gradi di rilevanza e irrilevanza». E, potremmo aggiungere, nonostante tutto ha tenuta, in una pratica come quella di trasferire, trasmettere. Che cosa ci consegna invece il sapere critico delle donne è materia che Passerini maneggia perfettamente, coinvolgendo diversi campi di competenza, come accaduto nel lavoro collettivo Vecchie allo specchio. Rappresentazioni nella realtà sociale, nel cinema e nella letteratura (pubblicato dal Cirsde nel 2012), insieme a Edda Melon, Luisa Ricaldone e Luciana Spina.
Si trattava di una indagine avviata da alcuni incontri avvenuti tra il febbraio e il marzo del 2008. E che le pratiche torinesi siano floride in tale versante tematico lo si evince anche dal volume che Ricaldone ha dato alle stampe per Iacobelli editore nel 2018 dal titolo Ritratti di donne da vecchie (recensito su queste pagine da Laura Fortini). Se non si possono non segnalare i libri di Loredana Lipperini, Non è un paese per vecchie (2010), quello a cura di Anna Maria Crispino e Monica Luongo, Passaggi d’età (2013) e di Francesca Rigotti, De senectute (2018), sono ugualmente utili volumi più recenti che interrogano da un’angolatura ogni volta differente il significato dello scorrere delle età. Insieme al romanzo di Fuani Marino, Vecchiaccia (Einaudi, pp. 160, euro 17), ci sono due sillogi che si misurano con alterne geografie sentimentali di un certo rilievo: la prima è una raccolta di racconti scritta da Jane Campbell che si intitola Spazzolare il gatto (Edizioni Atlantide, pp. 168, euro 17,50, traduzione di Federica Bigotti). La seconda è invece in versi ed è L’amore da vecchia, di Vivian Lamarque (Mondadori, pp. 160, euro 18). Campbell, di origine inglese, ha esordito con il primo racconto in rivista all’età di 77 anni diventando presto un caso di culto, e ora ci dona tredici magnifici ritratti di altrettanto donne che confessano la propria audacia senza nascondimenti.
A cominciare dal primo in cui una ottantaseienne degente in un reparto di geriatria, dopo aver condotto una moderata esistenza coniugale, osserva una giovane donna che si allunga per cambiare una lampadina e, senza preavviso alcuno, sente «la voglia risvegliarsi tra i lombi appassiti». O ancora quando sollecita, più avanti: «Adesso non possiedo nulla, tranne, suppongo, il mio corpo e la mia mente, così come sono dopo numerosi decenni di utilizzo. Mal-utilizzo, talvolta. Ma almeno, grazie a Dio, sono stati utilizzati e non li ho sprecati. Certo questo a mio figlio non posso dirlo». Non mancano le cliniche della memoria, dolori piuttosto lancinanti e niente è facile, Campbell neppure si presta a una retorica senza costrutto per scacciare via l’angoscia della morte. Racconta invece di una sfrontatezza capace di erodere l’imbarazzo. «Invecchiare – prosegue la scrittrice – è spesso descritto come un accumulo, di malattie, sofferenze, rughe, ma è in realtà un processo di espropriazione, di diritti, di rispetto, di desiderio, di tutte quelle cose che una volta possedevi e di cui godevi con tanta naturalezza».
Il graffio, al contempo tagliente e delicato, è ciò che invece indaga Vivian Lamarque che, nelle sue poesie, nomina l’amore transitorio e non esclusivo che si promette al vivente. «Sono una Autunno./ Anzi, il tempo di dirlo/ e ora sono una Inverno. Che paura fossi una foglia ma/ menomale sono un’alberella/ le foglie loro cadono, ma noi/ no». E parla di scomparsi che non possiamo più toccare ma che sentiamo nella testa, con la stessa identica voce ad ammonirci che dobbiamo andare altrimenti si fa tardi, eppure non c’è un domani, non tutti i ritorni sono possibili. «Perché non sono un baobab e questa è l’infanzia?» si domanda Lamarque. «Numero d’anni avere davanti quante le stelle sulle teste/ degli alberi. E giorni ancora di più./ Agli anni preferisce i giorni e ai giorni i mattini […] Metterli in banca metterli in banca i giorni risparmiarlo/ il Tempo […] Teneteli a cuore i mattini metteteli in banca./ Però anche vecchiaia è bellezza, capelli color/ della neve, pelle rigata come belle cortecce e alcuni che ti vogliono bene e alcuni che ti cedono il posto in tram». L’ironia agrodolce è nel post-scriptum, certo senza reclamare comprensione eppure «Ma perché non avete tutti 80 anni come me?».
(il manifesto, 11 ottobre 2023)
di Beppe Pavan
La frase che ho scelto per il titolo di questa presentazione mi sembra illuminante: è l’immagine che amo evocare quando parlo della “macchia d’olio” che si allarga nel mondo ogni volta che un altro uomo si incammina consapevolmente sui sentieri del cambiamento della propria maschilità, abbandonando le forme patriarcali del possesso, del dominio, della competizione, della sopraffazione…
Il libro che vi presento si intitola Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato (VandA ed. 2023): è un invito a offrire al mondo bambini, adolescenti, ragazzi «empatici e capaci di essere compagni di strada nonviolenti delle donne» che incontreranno e sceglieranno. Chi scrive così è Monica Lanfranco, che non solo radica le proprie riflessioni su una ricca antologia di testi femministi, ma soprattutto ci spalanca numerose finestre sulla sua esperienza di mamma alle prese con due figli maschi da aiutare a “crescere”. E la citazione con cui apre l’introduzione ce ne comunica bene il senso: «Alleviamo le nostre ragazze a combattere gli stereotipi e a perseguire i loro sogni, ma non facciamo lo stesso con i nostri ragazzi».
La dialettica che percorre tutto il libro è tra patriarcato (da disertare) e femminismo (da affermare). A pag. 35 Monica cita la nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie che «definisce femminista una persona che crede nella piena uguaglianza tra uomini e donne. Ma come possiamo crescere dei figli femministi, ovvero crescere dei figli gentili, sicuri di sé e liberi di inseguire i propri sogni, senza modelli alternativi a quelli del patriarcato?».
Non facciamoci tentare dal chiamarcene fuori, perché è uno degli stereotipi patriarcali più radicati pensare che crescere i figli sia compito delle madri. Il libro, in realtà, non è un esercizio di autocoscienza solo per le madri: il sottotitolo recita «crescere uomini disertori del patriarcato» e di questa necessità siamo consapevoli noi uomini adulti che da decenni partecipiamo a gruppi di autocoscienza maschile. Ma quanti siamo consapevoli e convinti che «se i bambini e le bambine vengono separati per sesso nel gioco così come nelle attività didattiche fin dalla scuola materna, alla fine del ciclo gli stereotipi di genere ne escono rafforzati, mentre i gruppi incoraggiati a giocare con amici e amiche del sesso opposto imparano a risolvere meglio i problemi e a comunicare in modo meno aggressivo e con più profondità» (pag. 98)?
«Nessuno dei nostri figli nasce cattivo, misogino, predatore: nessun bambino o ragazzo lo è. Sono l’esempio, i comportamenti appresi, i messaggi culturali diretti e indiretti, ad autorizzare i maschi a diventare arroganti machisti e pericolosi predatori, perché la violenza si insegna.
La buona notizia è che anche la nonviolenza si insegna, ed è in questa pratica quotidiana di rispetto, senso del limite e collaborazione che si costruisce la felicità propria e quella di chi ci sta accanto» (pag. 84).
Ah, la felicità! Grazie, Monica, di averla evocata! Anche a me è successo di incontrare la felicità, ed è successo proprio quando ho scelto di abbandonare – disertare – il modello patriarcale di stare nelle relazioni che famiglia, parrocchia, seminario, fabbrica, esercito e anche sindacato avevano cercato di inculcarmi.
C’è uno stereotipo che persiste anche all’interno dei nostri gruppi di Uomini in Cammino: è quello che continua a identificare il femminismo con “le donne che ce l’hanno con gli uomini”.
Un altro è «lo stereotipo secondo cui il femminismo riguarda solo le donne» (pag. 125). Questo libro ci invita, invece, a considerare il femminismo come alternativa al patriarcato: «Dovremmo essere tutti femministi» è il titolo del libro di Chimamanda Ngozi Adichie, che fa il paio con «Il femminismo è per tutti» di bell hooks. Credo che sia un invito da prendere sul serio, perché – conclude Monica a pag. 124 – «la parola crescere […] contiene le due facce della stessa medaglia: cresciamo da quando usciamo dal corpo di nostra madre, e poi siamo aiutati a crescere da chi si assume questo compito, per avviarci e guidarci a costruire un’esistenza autonoma».
Non è come affermava quel mio vicino di casa: «Io sono così e non posso cambiare!». Cambiare si può. Cambiare conviene. Diventare femministi, disertori del patriarcato, conviene!
(Uomini in Cammino, n.2/2023, www.maschileplurale.it)
Beppe Pavan fa parte del Gruppo Uomini di Pinerolo (i corsivi nel testo sono iniziativa sua).
Carla Lonzi ha vissuto molte vite, pur in una vita piuttosto breve. È stata prima una critica d’arte, poi una femminista, una saggista e una poetessa. Ma è stata anche una filosofa riluttante che, con una formazione accademica completamente diversa, a trentanove anni decide di intitolare il suo brevissimo e folgorante debutto teorico Sputiamo su Hegel, bersagliando il Filosofo per eccellenza. Oggi, a più di cinquant’anni dalla sua prima edizione, il testo è tornato in libreria per La Tartaruga, con la curatela di Annarosa Buttarelli. Il ritorno di Lonzi era più che mai atteso: dopo l’edizione di Gammalibri del 1982, pubblicata all’indomani della morte dell’autrice, l’unico modo per leggerla era scovare uno dei rari Libretti verdi di Rivolta, la piccola produzione editoriale del gruppo di Rivolta femminile. Per la sua difficile reperibilità – e anche grazie a un titolo indimenticabile – Sputiamo su Hegel è diventato un libro per cui è giusto scomodare un aggettivo spesso usato a sproposito, iconico.
Ancora oggi c’è chi si stranisce per la scelta di questo verbo così forte, alla prima persona plurale: sputare. Perché sputare su Hegel e non criticare con forza, rigettare, disconoscere? Perché un gesto corporeo così viscerale, quasi ripugnante? Un titolo del genere presuppone una cesura del dialogo, l’impossibilità definitiva di comunicazione, con una modalità del tutto estranea a quel femminismo conciliante che deve essere a misura e a beneficio di tutti a cui ci siamo abituati negli ultimi anni. Non si può fare altro che sputare di fronte a Hegel, suggerisce Lonzi già nel Manifesto di Rivolta femminile, perché per le donne non c’è dialettica né dialogo nell’universo patriarcale. E non ha senso che chi è stata storicamente esclusa da quella dinamica, sia proprio colei che si fa carico di promuovere una conciliazione. Sputo sia, dunque, perché Hegel non è soltanto Georg Wilhelm Friedrich Hegel nato a Stoccarda il 27 agosto 1770, ma è l’incarnazione di tutto ciò che Lonzi vuole lasciarsi alle spalle una volta per tutte. Nella scheda di Rivolta femminile scritta per L’almanacco del movimento femminista italiano, edito da Edizioni delle donne nel 1978, si legge che questo testo “apre una strada per chiudere tutte le altre”: ideologia, lotta di classe, cultura.
Definire Carla Lonzi una filosofa potrebbe sembrare un azzardo. Come fa notare Franco Restaino, che pure la annovera fra le «avanguardie filosofiche del Novecento», Lonzi ha scritto soltanto una manciata di brevi testi teorici e che mancano di organicità, per poi chiudere la sua produzione con il “diario” Taci, anzi parla e con il dialogo con Pietro Consagra Vai pure. Anche in questo la definizione di “diario” appare quanto mai riduttiva: un mastodontico testo sperimentale, che mescola memoria, prosa, poesia, sogno e autocoscienza. Anche Taci, anzi parla finisce così con l’essere un testo dal carattere eminentemente filosofico, attraverso una retrospettiva che potrebbe essere accostata alle Confessioni agostiniane. D’altronde quella al femminismo, scrive Lea Melandri, somiglia per tutte a una conversione. Non si tratta di un’adesione ideologica, ma di un investimento totale e totalizzante della propria vita, che ti costringe a rivedere il tuo passato e ad ancorare diversamente il tuo essere al mondo.
Per Roberto Esposito, la filosofia italiana del Novecento è caratterizzata da una «integrale storicizzazione». Non una consapevolezza della determinazione storica del pensiero, quanto piuttosto di una «tendenza, tacita o proclamata, a farsi esso stesso storia o, per usare un’espressione più carica di risonanze, “pensiero in atto” – inteso nel senso, insieme, dell’azione e dell’attualità». La peculiarità italiana starebbe, per il filosofo, nel tentativo di farsi filosofia, oltre che di fare filosofia, ovvero di «conferire alla filosofia i caratteri concreti della vita». Questa attitudine attraversa tutto il Novecento e sfiora anche il pensiero di Carla Lonzi, che si configura come ancora più eretico e avanguardistico rispetto a ciò che le accade intorno. Da critica d’arte, Lonzi comincia a mettere in discussione il senso stesso della critica, un “vivere nevroticamente il bisogno di conoscenza”, quando si rende conto che non tutto si può spiegare con la teoria, ma c’è qualcosa, in quell’interstizio tra vita e pensiero, che le sfugge continuamente.
Questa intuizione, già presente quando Lonzi è poco più che ventenne, si cementifica nel femminismo che la investirà una decina di anni dopo. Lonzi capisce che quell’incertezza che le sembra impossibile fermare è antitetica a un’idea di mondo come quella proposta dalle ideologie dominanti del suo tempo, il materialismo storico e il freudismo. In quelle visioni del mondo, non c’è spazio per la marginalità, per l’«eterna ironia della comunità» che è la presenza femminile. Per Lonzi allora il «pensiero in atto» sta necessariamente altrove, è un «muoversi su un altro piano», per citare ancora il Manifesto di Rivolta femminile. Questa alterità non è semplicemente dovuta a un’esclusione storica della donna dai processi di potere e riconoscimento, ma a un rifiuto radicale di parteciparvi, un rifiuto che prevede che la donna si faccia soggetto e si allontani dal gioco, che «vanifichi il traguardo della presa di potere».
Rigettando la dialettica hegeliana, e quindi l’idea di una storia progressiva, in Sputiamo su Hegel Lonzi fa un coraggioso voto di fiducia al presente. Questo ancoramento al presente non va però confuso con l’immanenza in cui il patriarcato ha sempre costretto le donne. «Hegel ritiene la donna per sua natura ferma in uno stadio, a cui egli attribuisce tutta la risonanza possibile, ma tale che un uomo preferirebbe non essere mai nato se dovesse considerarlo per sé stesso», scrive Lonzi. Lo strumento che condanna le donne a questa immobilità è l’universalità. Vediamo ancora oggi quanto la pretesa di universalità depotenzi le singolari esperienze delle donne, pretendendo che tutte replichino la stessa storia e lo stesso destino, si facciano portatrici dei medesimi desideri. Per questo quando una donna prende la parola, specie se è una donna con un ruolo pubblico, si dà per scontato che stia parlando a nome di tutte le donne.
E così attorno al tema dell’universalità si plasma la grande dicotomia che attraversa tutto Sputiamo su Hegel e che sarà centrale per tutto il pensiero femminista italiano: uguaglianza contro differenza. Rigettare l’uguaglianza non significa soltanto rinunciare alla cultura del padre, ma anche credere che quell’interstizio che sfugge, quel muoversi su un altro piano, sia l’unica strada percorribile. Per questo la frase più bella e significativa del Manifesto di Rivolta femminile, scritto nel 1970 con Carla Accardi ed Elvira Banotti, resta: «Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte». È il proposito più alto, più difficile della filosofia di Carla Lonzi. Non una filosofia di reiette o di escluse che si riscattano dalla storia, ma una filosofia che si fa storia pur avendo disconosciuto questa parola una volta per tutte.
(Limina.it, 3 ottobre 2023)
di Doranna Lupi
Valentina Pazé insegna Filosofia politica presso l’Università di Torino e ha recentemente pubblicato Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato (ed. Bollati Boringhieri), un libro ricco di spunti per riflettere sul tema della libertà.
Nelle prime righe della sua introduzione spiega che questo libro nasce dallo sconcerto che prova per “il silenzio assordante che circonda le nuove forme di sfruttamento mascherate e giustificate nel nome della libertà”. Sono nuove forme di schiavitù volontaria, in cui ci troviamo di fronte anche a persone che negano di essere sfruttate o che sostengono di desiderare di esserlo. Nel mercato del biocapitalismo non si mettono più in vendita solo i prodotti della fatica umana ma gli stessi corpi umani, soprattutto quelli delle donne, attraverso la prostituzione, la pornografia, la maternità surrogata. Allora, come entra in gioco la libertà quando si parla di corpi in vendita come se fossero merce? Cos’è la libertà? Di quale libertà e della libertà di chi stiamo parliamo?
Per rispondere a questi interrogativi l’autrice si è avvalsa anche di ciò le donne hanno detto rispetto all’esperienza della prostituzione o della gestazione per altri, sia quelle che l’esperienza l’hanno vissuta sia quelle che non l’hanno vissuta ma che ritengono il tema della vendita dei corpi femminili un nodo fondamentale da dipanare per il rispetto della libertà e della dignità di tutti e tutte. Da questo mondo ci arrivano testimonianze diverse ed è possibile farci un’idea ascoltando le diverse voci. Nel libro l’autrice parte da letture tratte sia da Fiere di essere puttane di M. Nikita e T. Schaffauser che da Stupro a pagamento di Rachel Moran.
Dopo aver ascoltato queste voci così inconciliabili tra loro, cosa dici?
Dico che ci restituiscono un quadro molto variegato, che è anche quello che emerge facendo un po’ di ricerca su Internet, tra blog e siti di associazioni pro e contro il sex work… Oggi anche il mondo della ricerca è diviso su questo tema, tra chi difende la possibilità che la prostituzione sia una libera scelta e chi ritiene, invece, a partire da testimonianze come quella di Rachel Moran, che la prostituzione sia per definizione “stupro a pagamento”, qualcosa di violento e disumanizzante. Come ci si comporta di fronte a questi racconti, come ci si posiziona? Una modalità abbastanza frequente consiste nel dire “il mondo è bello perché è vario”, il modo di vivere la prostituzione è del tutto soggettivo e noi non possiamo giudicare le scelte altrui e imporre le nostre personali intuizioni su ciò che significa prostituirsi. Questo è un approccio abbastanza comune, che a me però sembra insufficiente, perché fare ricerca nelle scienze sociali – ricerca di qualsiasi tipo, storica, sociologica, antropologica – significa andare oltre la semplice registrazione delle testimonianze, che vanno certo ascoltate ma anche contestualizzate, decodificate, interpretate, messe a confronto con ciò che sappiamo da altre fonti. Di certo, sulla prostituzione qualcosa sappiamo. Sappiamo che si tratta di un’attività oggettivamente pericolosa, per chi la esercita per un certo lasso di tempo, dal punto di vista fisico e psichico. Le prostitute (in maggioranza donne e in una piccola percentuale trans e uomini al servizio del desiderio omosessuale, mentre i clienti sono quasi tutti maschi) rischiano diciotto volte di più delle altre donne di morire di morte violenta. Non solo. Ci sono ricerche che ci dicono che due terzi delle persone coinvolte nella prostituzione soffre di disturbi da stress post traumatico, esattamente quelli che si riscontrano nei veterani di guerra e in chi è vittima di stupro e di altri gravi traumi. Altre ricerche insistono sul rischio di suicidio, depressione e altre problematiche psichiatriche importanti, legate tra l’altro alla necessità, per chi esercita questo “mestiere”, di attivare meccanismi psicologici di dissociazione da ciò che fa, per mantenere un’immagine accettabile di sé. Questo mi sembra che spieghi perché, alla fine, la prostituzione non può essere considerata “un lavoro come un altro”: non esistono altri lavori altrettanto pericolosi e usuranti.
Tu racconti che quando hai proposto all’università di discutere di prostituzione, maternità surrogata, velo islamico, il dibattito in aula è stato molto acceso. Ma in quell’occasione si è anche rivelata la difficoltà di andare oltre l’idea di libertà espressa dalla maggior parte delle e degli studenti: che ciascuno deve poter fare ciò che vuole, che la libertà è il valore supremo e l’autorealizzazione individuale l’unico obiettivo da raggiungere.
A ben vedere questa sembra l’idea che sta dietro al nuovo significato dato dalle giovani femministe al diritto all’autodeterminazione delle donne: libertà di fare ciò che si vuole del proprio corpo, anche di metterlo in vendita, in quanto imprenditrici di sé stesse. Questo può aiutarci a spiegare come mai in molti ambienti, anche a sinistra, nonostante la maggior parte delle donne che mettono in vendita i loro corpi siano povere e, quindi, nonostante la disuguaglianza che c’è tra i soggetti coinvolti in questo mercato, si sia arrivati a pensare alla prostituzione e alla maternità surrogata in termini di nuovi diritti da legalizzare e regolamentare?
Certo, c’è una sinistra che ha accettato i principi del neoliberalismo e c’è un femminismo neoliberale. Che cos’è il neoliberalismo? È una concezione non solo dell’economia, ma del mondo, che consiste nell’estendere la razionalità del mercato all’intera società e nel considerare gli individui come “imprenditori di se stessi”, in perenne competizione tra loro. In questa chiave sicuramente il corpo può essere inteso come un oggetto di cui sono proprietario, o proprietaria, e da cui posso ricavare qualcosa.
Quanto alla domanda “che cos’è la libertà?”, la risposta più semplice è anche quella più intuitiva: “poter fare quello che voglio”, nell’assenza di divieti e obblighi. Ma questa è la libertà dello stato di natura di Hobbes, è la libertà del lupo di mangiare l’agnello. In contesti in cui non esistono obblighi né divieti siamo tutti liberi di fare ciò che vogliamo, ma poi i forti prevalgono sui deboli. Se vogliamo uscire dallo stato di natura, e garantire i diritti dei più deboli, dobbiamo accettare qualche limite e qualche obbligo. Rispetto al tema dell’autodeterminazione a me sembra che ci sia davvero tanta confusione oggi. Che cos’è la libertà sessuale, che la nostra Costituzione riconosce come un diritto fondamentale? È il diritto a esprimere la propria sessualità come si vuole, con chi si vuole, ma non è il diritto di vendere servizi sessuali. I diritti fondamentali sono per definizione inalienabili, imprescrittibili, indisponibili. Non sono in vendita.
Quando parliamo di prostituzione, o anche di gestazione per altri, stiamo parlando di un altro genere di libertà: la libertà di iniziativa economica, che è anch’essa riconosciuta dalla nostra Costituzione, ma entro certi limiti. L’articolo 41 dice che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Quando si usano, in relazione alla prostituzione o alla maternità surrogata, slogan come “il corpo è mio e lo gestisco io” sì fa veramente confusione, perché in questo caso non è in gioco il diritto ad autodeterminarsi in campo sessuale e riproduttivo, ma l’esercizio dell’autonomia negoziale entro la sfera del mercato, dove si incontrano soggetti diseguali. In questo contesto, la legge deve proteggere i soggetti deboli perfino da se stessi, perché il soggetto debole può essere tentato dal mettersi in vendita. Questo ce lo spiegava già Marx nel Capitale, quando invitava gli operai a lottare per ottenere “una legge di Stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vendere sé e la loro schiatta alla morte e alla schiavitù, per mezzo di un volontario contratto con il capitale”.
Dove è in gioco qualcosa di inaccettabile spesso una buona strategia è un processo di abbellimento della realtà attraverso la sanificazione del linguaggio. La prostituzione è diventata lavoro sessuale, la tratta lavoro sessuale forzato, i papponi dei grandi bordelli in Germania sono diventati manager, il traffico della pedofilia lavoro sessuale minorile. La maternità surrogata è diventata gestazione congiunta e solidale. Perché, ti chiedi nel libro, facciamo fatica a chiamare le cose con il loro nome? Cosa c’è di inaccettabile nella prostituzione e nella maternità surrogata da richiedere questo processo di trasformazione del linguaggio? E a vantaggio di chi?
Le parole sono importanti ed effettivamente oggi intorno al linguaggio usato per nominare questo fenomeno c’è un conflitto durissimo. Ce lo dicono i titoli di libri come Sex work is work, oppure Sex work is not work. E capita di assistere a discussioni accesissime sul tema: “la prostituzione è lavoro o non è lavoro? Che cos’è?”. Sembra talvolta che se ne faccia quasi una questione ontologica… Ma naturalmente questo tipo di approccio non ha senso. La prostituzione è, diventa, dal punto di vista giuridico, ciò che noi vogliamo che sia. È un lavoro là dove il diritto la inquadra in tal senso. Quando, prima della legge Merlin, esistevano le “case chiuse”, la prostituzione era un lavoro anche da noi. Chi dice “sex work is not work” evidentemente esprime una posizione normativa: afferma che la prostituzione non dovrebbe essere considerata come un lavoro. In Germania è passata una legge, nel 2002, che ha depenalizzato l’induzione, il favoreggiamento, lo sfruttamento della prostituzione. Lì il pappone è diventato un imprenditore come un altro, che organizza il lavoro dei suoi (ma soprattutto delle sue) dipendenti. In Italia non è così: la prostituzione non è un lavoro, e non è neanche un diritto. Su questo dobbiamo capirci bene. Nel nostro paese prostituirsi non è vietato, è lecito. Esiste quindi la libertà di prostituirsi, intesa come libertà di fatto, ma non esiste un diritto a prostituirsi riconosciuto da una norma giuridica. Se esistesse, esisterebbe il dovere correlativo di non ostacolare, e anzi di promuovere, il suo esercizio. Qui da noi non è così.
Questa è stata la scelta della Senatrice Merlin, parlamentare socialista, che ha scritto nel ’58 una legge che a me sembra ancora valida nel suo impianto di fondo (anche se poi qualche correttivo si può immaginare) perché profondamente rispettosa nei confronti delle donne. La legge Merlin non prevede nessun tipo di etichettatura, nessun tipo di registrazione o visita medica obbligatoria, dalle implicazioni umilianti e stigmatizzanti, che erano previste nelle “case chiuse”. Non vieta la prostituzione, ma vieta e punisce chiunque si avvantaggi della prostituzione altrui. Oggi c’è chi vorrebbe superare questa legge. Nella scorsa legislatura c’erano 22 proposte di legge depositate in Parlamento, quasi tutte orientate a depenalizzare le “condotte parallele”, ossia lo sfruttamento, l’induzione, il favoreggiamento. Leggi in genere difese in nome della libertà delle donne, quando in realtà mirano a riconoscere la libertà di chi lucra sulla prostituzione altrui.
Tornando alla questione delle parole, sono diverse anche in riferimento a quell’altra pratica, oggi molto contestata e oggetto di dibattito, che è la maternità surrogata (o “utero in affitto” o “gestazione per altri”: bisogna vedere come chiamarla, per l’appunto). A me non piace la formula “gestazione per altri” perché mi sembra che isoli il momento della gestazione, lo presenti come qualcosa di impersonale, disincarnato, come se non ci fosse sempre una donna, una madre, che porta avanti la gravidanza. Quindi preferisco parlare di “maternità surrogata” (anche se, per comodità, mi capita di usare anche la formula gpa). Di che cosa si tratta? Della possibilità, dischiusa dalle moderne tecnologie mediche, di scomporre il processo procreativo rendendo possibile che una donna fornisca l’ovocita, un uomo lo sperma e un’altra donna l’utero. Quest’ultima si impegna, per contratto, a farsi impiantare uno o più embrioni prodotti in laboratorio e a portare avanti una gravidanza, per poi partorire e consegnare il bambino o la bambina ai “committenti” (detti anche “genitori intenzionali”). A proposito di “neolingua”, questa donna il più delle volte viene chiamata “portatrice”, parola un po’ curiosa perché essere incinta non è proprio come portare un pacco; il bambino è dentro di lei e per venire al mondo deve essere partorito, aspetto di cui ci si dimentica molto spesso quando si parla di questo tema.
Anche sulla maternità surrogata è interessante notare che esistono racconti diversi. Ci sono donne che raccontano la loro esperienza in termini drammatici, dicendo di aver sofferto molto quando hanno dovuto separarsi del bambino, pur avendo firmato un contratto in cui inizialmente si rendevano disponibili a farlo, e donne che sostengono di avere liberamento scelto di diventare madri surrogate e di essere riuscite a vivere con distacco la gravidanza. Molte insistono sulle motivazioni altruistiche che le avrebbero guidate, sul desiderio di “donare” un bambino alle coppie infertili.
Il dono è entrato prepotentemente nella retorica per giustificare tutta una serie di transazioni. È il caso anche della maternità surrogata. Ma quando ci scambiamo dei doni tra di noi non firmiamo un contratto, non c’è un principio legale che regola lo scambio, non ci sono rimborsi, agenzie di intermediazione, consulenti legali, blog e marketing. Semplicemente c’è il nostro scambio, che sta nella sfera delle relazioni umane e, come per il sesso, è una dimensione esclusivamente relazionale. Uno dei tuoi capitoli si intitola: la libertà di donarsi e di donare. In che senso possiamo intendere questa libertà?
In teoria è facile distinguere la forma commerciale della maternità surrogata da quella altruistica: nel primo caso si prevede un compenso, nel secondo un semplice “rimborso spese”. In pratica il rimborso va ben oltre le spese che comporta una gravidanza e la sua entità è del tutto equiparabile ai compensi previsti per la gpa commerciale. Perché allora insistere nel qualificare l’attività della madre surrogata in termini di dono? A me pare che le retoriche del dono si spieghino con il bisogno degli imprenditori del settore, per un verso, e delle stesse donne che si prestano a questa attività, per un altro, di raccontarsi, e raccontare, qualcosa di diverso dallo scambio commerciale. E tuttavia – come accennavi – c’è un contratto che le vincola, che stabilisce cosa possono e non possono fare, quali farmaci devono assumere, a quali regole dietetiche devono attenersi per il bene del feto che ospitano nel loro utero… E c’è, soprattutto, l’obbligo finale di consegnare il bambino a coloro che lo hanno “commissionato”. Nel Regno Unito si prevede la possibilità che la donna cambi idea, ma si tratta di una possibilità più teorica che reale. La decisione della donna di tenere il bambino diventa efficace solo dopo sei settimane dal parto; nel frattempo il bambino è già stato affidato alla coppia dei “genitori intenzionali” e, quando il giudice si pronuncia, di regola lo assegna a loro, nel suo “superiore interesse” a essere cresciuto in una famiglia più benestante di quella della madre naturale. Ma se è un dono, come mai sono sempre donne di ceto medio-basso e di scarso livello di istruzione, disoccupate o lavoratrici precarie al momento della stipula del contratto, a rendersi disponibili? Questa è una domanda che dovremmo farci…
C’è poi ciò che raccontano gli imprenditori del settore sulla necessità della “formazione” della madre surrogata. Leggendo questa letteratura si scopre che madre surrogata non si nasce ma si diventa, attraverso un percorso diverso a seconda dei contesti. In India le donne, poverissime, vengono ricoverate in ostelli, nei quali vivono per tutto il periodo della gravidanza, e qui viene detto loro che sono uteri e soltanto uteri, e che l’utero è come uno spazio vuoto, una casa che può ospitare i figli degli altri. Queste sono veramente delle narrative che ci rimandano indietro, alle origini della nostra civiltà, quando nelle Eumenidi di Eschilo il matricida Oreste viene assolto perché la sua colpa non è così grave: in fondo i figli li fa il padre, non la madre, che è solo il contenitore del seme paterno.
In altri paesi le retoriche cambiano, ma fino a un certo punto. In Israele, dove pure questa pratica è consentita, si invitano le madri a non toccarsi la pancia quando il feto incomincia a muoversi, per evitare che si stabilisca l’attaccamento tra madre e bambino, che tuttavia – come sappiamo – ha una base ormonale e può venirsi a creare comunque. Di qui tutta una serie di tecniche e strategie messe in atto dalle agenzie per evitare questo rischio. Negli Stati Uniti il modello cosiddetto “aperto” di gpa mira a deviare l’affettività della madre surrogata dal bambino che ha nel ventre alla coppia di committenti: li si invita a conoscersi, a diventare amici, si prevedono gruppi di auto-aiuto con altre madri surrogate per il sostegno reciproco, e una consulenza psicologica obbligatoria. “Ma non era una questione di libera scelta? – si è chiesta Daniela Danna – di autodeterminazione? Perché allora l’affiancamento di una psicologa?”. Volendo far lavorare gli psicologi, aggiunge, potremmo pensare piuttosto a un sostegno psicologico alle coppie infertili…
Al di là della provocazione, qui bisognerebbe aprire una riflessione sul desiderio di genitorialità delle coppie infertili, eterosessuali e omosessuali e, più in generale, sul rapporto tra desideri e diritti. Dovremmo chiederci se ogni nostro bisogno o desiderio possa essere trasformato in un diritto, in presenza del quale sorge in qualcun altro un dovere corrispondente. Con riferimento alla maternità surrogata, il punto è che non stiamo parlando del diritto di accedere a una tecnica di procreazione assistita, ma a usare il corpo di una donna. Bisognerebbe anche riflettere sul fatto che ci sono tanti modi di essere genitori, anche al di là della genetica. Su questo tema c’è oggi un grande dibattito all’interno del mondo Lgbt, diviso tra chi guarda con favore alla gestazione per altri e chi propone, in alternativa, di rivendicare il diritto all’adozione per le coppie omosessuali, o comunque di riflettere su altre forme di genitorialità “sociale”. Questo tenendo presente che oggi la richiesta di questo tipo di pratica viene in gran parte da coppie infertili eterosessuali.
Come mai per quanto riguarda la prostituzione e la GPA sei favorevole ai divieti, sei per limitare legalmente il favoreggiamento, l’induzione, e non sei per la liberalizzazione, mentre per il velo islamico sei contraria a qualsiasi divieto?
Io ho provato a costruire un ragionamento attorno a tre casi diversi tra di loro: quando parliamo di prostituzione e maternità surrogata ci confrontiamo con la sfera del mercato; quando ragioniamo di velo islamico entriamo in una sfera diversa. Nel caso del velo le leggi francesi vietano sia l’hijab nelle scuole sia il velo integrale nei luoghi pubblici. Penso invece che non si dovrebbero prevedere divieti, perché stiamo parlando non di libertà di iniziativa economica, e quindi di mercato, ma di libertà di espressione. Questo non significa che non ci siano pratiche problematiche: in particolare il velo integrale suscita inquietudine e molti interrogativi. La psicologa Silvia Bonino ha scritto cose interessanti proprio sulle implicazioni del velo integrale, come il burqa, che coprendo persino gli occhi fa venir meno la possibilità di comunicare attraverso lo sguardo, limitando le relazioni umane. Rimane il fatto che un divieto, in questo caso, rischia di avere effetti controproducenti. Banalmente, se vieto alle donne velate di frequentare luoghi pubblici, ciò che probabilmente otterrò è che restino ancora più confinate entro le mura domestiche… Quindi, riassumendo, sul piano dei principi la libertà di espressione è altra cosa rispetto alla libertà economica. Quest’ultima può e deve essere limitata per difendere i lavoratori dalle pressioni del mercato, prevedendo ad esempio il divieto di rinunciare alle ferie. La libertà di espressione, invece, è tendenzialmente inoffensiva e va limitata solo in casi molto particolari. Questo sul piano dei principi. Sul piano pragmatico, ritengo che le leggi francesi sul velo, che sono state scritte in nome della laicità, falliscano nel loro obiettivo. Con questo voglio dire che il velo non va vietato, ma neanche imposto, mi sembra ovvio…
L’ultimo capitolo del tuo libro si intitola “La libertà e le sue sorelle dimenticate”. In realtà la triade liberté, égalité, fraternité avrebbe dovuto essere fin dall’inizio della rivoluzione francese una quadriade: libertà, uguaglianza, fraternità e sorellanza. Le donne, infatti, erano fuori dal contratto sociale e Olympe de Gouges ha provato a inserirle nel 1891 con la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, ma i fratelli rivoluzionari non erano ancora pronti e la sua libertà di pensiero le è costata il patibolo. I fratelli, anche i più illuminati, hanno tenuto ben stretto, per più di un secolo, il loro diritto ad accedere ai corpi delle donne attraverso il matrimonio e la prostituzione, due capisaldi del patriarcato. Non potrebbero trovarsi proprio qui, in queste dinamiche di dominio sui corpi delle donne di stampo patriarcale, le radici di un sistema capitalistico sganciato da ogni rispetto dei corpi e della natura?
Per quanto riguarda la triade che dovrebbe invece diventare una quadriade, come ho detto, le parole sono importanti, hanno una storia, ed effettivamente ai tempi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino quando si scriveva “uomo” si alludeva proprio all’uomo maschio, al cittadino maschio. Detto questo, le parole poi col tempo possono essere risemantizzate, possono assumere significati diversi, e a me “fratellanza” continua a piacere. Il linguaggio ha dei limiti e in italiano non esiste il genere neutro, così di fatto il maschile ha funzionato a lungo come maschile sovraesteso, perché se diciamo “sorelle” è chiaro che stiamo parlando solo delle sorelle, delle donne, se diciamo “fratelli”, a seconda del contesto d’uso, possiamo riferirci a uomini e donne. E oggi c’è il problema che qualcuno chiede un linguaggio in grado di includere anche le persone non binarie…
Quanto alla sostanza, se per patriarcato intendiamo qualcosa che va oltre la sfera della politica e del diritto, la sfera pubblica, e investe anche l’ambito del privato e la sfera simbolico-culturale, si tratta di un tema centrale. È chiaro che nella prostituzione si esprime un certo modo di vedere la sessualità, molto misero e gretto, con una visione predatoria del maschio che vede nella donna solo un oggetto del suo piacere, e in qualche modo anche nella maternità surrogata ritornano costrutti patriarcali, sia che si rappresenti la donna come una santa, che ama rimanere incinta per donare i figli ad altri, sia che, come scrive Silvia Niccolai, la si riduca alla mera funzione biologica di “fornetto”, da impiegare per produrre bambini. Io in questo libro mi sono occupata principalmente della sfera politica, ma poi bisognerebbe interrogarsi sulla grande domanda di sesso a pagamento, che viene quasi esclusivamente da maschi. Come su ciò che si nasconde dietro al velo imposto alle donne da culture patriarcali. Io nel libro ho riflettuto più sul capitalismo che sul patriarcato, affrontando il tema della “schiavitù volontaria” in termini generali, e non solo in riferimento alle donne. Ma riconosco l’importanza dei temi da te indicati.
(Viottoli, 1/2023)
di Jessica Chia
Sta in piedi, disarmata; indossa una gonna. Lo sguardo è severo, potente. Insieme a lei ci sono altre donne, due delle quali, gonna al ginocchio, sono armate: munizioni intorno al collo e armi sulle spalle. Le due donne al centro della copertina de La Resistenza delle donne (Einaudi), il saggio con cui la storica e scrittrice Benedetta Tobagi ha vinto lo scorso 16 settembre il Campiello 2023 (con 90 voti della Giuria popolare) sono le sorelle partigiane Lina e Liliana Cecchi, pistoiesi, che immortalate in questa fotografia del 1944 testimoniano un’«altra» storia.
«È una foto densa di storia e di significati – dice Tobagi a La27ora, raggiunta al telefono in occasione della vittoria della 61ª edizione del premio letterario – e l’ho scelta perché rappresenta donne armate e disarmate insieme. E la donna in primo piano, disarmata, emana un’autorevolezza e un carisma palpabili, che bucano la fotografia e colgono qualcosa di grande di questa storia. Ci fu un grande dibattito tra le donne partigiane, se prendere le armi o meno, e per molte è stata una scelta etica. Che poi ha alimentato, durante la Costituente, il varo dell’Articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra”. La partigiana e politica Teresa Mattei (1921-2013, ndr), la più giovane eletta all’Assemblea costituente a 25 anni, disse che quando si votò l’Articolo 11 tutte le elette si presero per mano».
Perché è importante la vittoria di un premio come il Campiello per questo libro?
«Il fatto che il premio sia stato votato da una giuria popolare, scelto a breve distanza da La Sibilla. Vita di Joyce Lussu (Laterza) di Silvia Ballestra, la storia di un’altra partigiana, femminista e attivista per l’ambiente, mi è sembrato, oggi, un segnale di speranza. Mi ha toccato come le parole di queste donne risuonassero attuali, così come quello che hanno incarnato, cioè essere le sole vere volontarie della guerra di Liberazione, mentre la società si aspettava da loro che rimanessero a casa. Invece sono donne che si sono fatte trovare quando la storia ha bussato, dicendo: “Abbiamo fatto solo quello che c’era da fare”. E si sono spese per contrastare l’orrore che avevano davanti, incarnando tanti modi diversi di combattere: con le armi e senza. Queste sono due cose che parlano al presente».
In che modo?
«Vediamo ogni giorno cose feroci e orribili che accadono intorno a noi. E spesso rispondiamo con atteggiamenti di chiusura; vengono respinte le persone che stanno bussando alle nostre frontiere per cercare una speranza di futuro. E, per quanto riguarda le donne, vediamo che ancora siamo alle prese coni veleni di una cultura patriarcale e di una sopraffazione che alimenta la violenza di genere. Davanti a tutto questo, ho sentito che c’era una grandezza nel messaggio della Resistenza delle donne che continua su tanti fronti. Questo premio è quasi coinciso con l’anniversario dell’inizio delle rivolte in Iran e della la morte di Mahsa Amini. E sono tante le forme di resistenza femminile, appunto, che spesso partono dalla dimensione privata per poi diventare una lotta di resistenza collettiva».
I più giovani porteranno avanti questa memoria?
«Io lavoro molto con le scuole superiori, e devo dire che questo libro parla ai ragazzi e non solo alle ragazze, li fa sentire interrogati e in effetti è un libro che parte con delle domande molto radicali su chi sei, chi vuoi essere, quale parte vuoi avere nel mondo. Tutti i ragazzi sono alle prese con le grandi domande e le grandi paure, tante volte con ansia per il futuro ma anche con un grande desiderio di fare e trovare dei riferimenti».
Le testimoni in vita oggi sono sempre meno. Lei come ha lavorato?
«Ho lavorato su storie di vita, autobiografie narrate, testimonianze raccolte a partire dagli anni Settanta e tutta la memorialistica perché questo ti dà la stratificazione nel tempo del racconto, dopo un lunghissimo silenzio da parte di quelle testimoni. Nel libro io ho voluto dare respiro alle studiose che hanno riportato questa pagina di storia alla luce. Oggi si è un po’ perso il senso di quanto la ricerca può trasformare le cose e aprire degli orizzonti. Per le ex partigiane, l’incontro con le studiose le ha aiutate a guardare alla loro esperienza con occhi diversi, a capire più profondamente le questioni femminili. È un movimento in due direzioni».
Un nome, una foto, una storia che l’hanno colpita di più nella sua ricerca?
«La prima immagine che mi è venuta in mente sabato sera è una foto della partigiana Gina Negrini (1925-2014, ndr) seduta a una scrivania con occhi luminosi, sorriso ironico, penna in mano: era stata una partigiana – nome di battaglia Tito – di origini umilissime. Dopo la guerra, lei finisce in un matrimonio tossico con un uomo che la umilia. È una donna che ha dato prova di colossale coraggio, spirito di iniziativa, ma ha molte ferite che la portano nel buco nero di una relazione malata. Però ha un istinto di sopravvivenza e sente che non vuole che muoia con lei la ragazza che era stata e che aveva fatto la Resistenza; allora capisce che per salvarla deve scrivere la sua storia: nasce Sole nero, in cui, oltre alla Resistenza, parla di un abuso subito quando era una ragazzina. È in questo modo che torna alla vita. Il tema di trovare la voce e farla sentire nello spazio pubblico è cruciale, è uno dei fili rossi attorno a cui ho costruito il libro. È un tema pubblico, le donne che non avevano voce in capitolo, non avevano diritti civili, non erano neppure cittadine. Durante la Resistenza, le donne prendono la parola, fanno riunioni, si aiutano a vicenda a istruirsi alla politica. È la consacrazione delle donne nello spazio pubblico. Anche il mio primo libro è stato autobiografico, e questo mi ha permesso di riprendere le fila della mia storia, ho raccontato di mio padre, della sua vita e della sua morte. Attraverso la scrittura ho trovato un modo di venire veramente al mondo».
Chi sono le «partigiane moderne», le donne che lottano, che fanno sentire la propria voce oggi?
«Nella Resistenza ’43-45 le donne hanno avuto anche una dimensione di riscatto e liberazione personale e di prima messa in discussione del sistema patriarcale. Oggi nel mondo vediamo luoghi di colossale oppressione, come il già citato Iran, l’Afghanistan, le donne combattenti dell’esercito curdo. Ora vediamo che il femminile è il motore della ribellione e della rivoluzione perché la situazione femminile è una cartina di tornasole: innesca, quando c’è grande sopraffazione, e limitazione dei diritti, una ribellione che poi si estende a tutta la società. Tutte le persone che lottano per arrivare a una reale parità, che eroda il sistema patriarcale, stanno continuando quella Resistenza che ha avuto una grandissima dimensione di prefigurazione del futuro».
Queste donne ci hanno lasciato in eredità anche il senso della parola “libertà”. Lei come l’ha fatta sua, dopo la stesura di questo libro?
«Una delle cose più potenti che mi è rimasta è il senso di questa grande speranza, un ottimismo della volontà come scelta, come assunzione di responsabilità di voler contribuire a costruire il futuro, anche quando le circostanze sembrano ostili e difficili. Mi rimangono le parole di una lettera di Carla Capponi (1918-2000, ndr) rivolte a una giovane ragazza, a cui disse di non farsi ingannare dall’eccezionalità delle circostanze, perché ciascuno di noi è poi chiamato alle scelte nel proprio contesto, nella propria vita. Serve un po’ di coraggio, di cuore, e non bisogna voltarsi dall’altra parte. Poi Carla Capponi dice: «Credimi, eravamo tante». Noi sappiamo che quelle partigiane erano pochissime rispetto alla massa della popolazione (oltre 70mila aderenti ai gruppi di difesa, e circa 35mila le partigiane combattenti). Allora ho pensato: si può essere tanti anche quando siamo pochi perché l’essere solidali amplifica la potenza, la capacità di incidere nelle cose. E quindi, di cambiarle».
(27esimaora.corriere.it,18 settembre 2023)
di Franca Fortunato
Andare alla ricerca della propria origine, della madre morta suicida, scavare nella sua vita per rimetterla al mondo e riunirsi a lei nella gratitudine e nell’amore, è ciò che fa la scrittrice Maria Grazia Calandrone, quando viene a sapere che c’è chi può parlarle della donna che l’ha messa al mondo e poi l’ha lasciata, e della cui vita non sa nulla. Di questo scrive nel suo libro autobiografico Dove non mi hai portata, ed. Einaudi, candidato al premio Strega. Scrive perché la madre «diventi reale, per strappare alla terra l’odore di lei» ed «esplorare un metodo per chi ha perduto la sua origine». Anna, la figlia tredicenne, l’accompagna nel «viaggio all’origine», lungo il sentiero della genealogia materna. Maria Grazia cerca le tracce della madre nei luoghi dell’infanzia, ascolta chi l’ha conosciuta, chi le è stata amica, prende appunti, fa interviste, esamina documenti, fascicoli per «avere la gioia di vedere la faccetta di Lucia bambina». Una bambina allegra, sveglia, bellissima. Percorre a piedi, come sua madre, la strada che faceva per andare a scuola. Rintraccia il nome della maestra, una foto con lei in piedi e gli anni in cui frequentò la scuola elementare, da cui, dopo la seconda, venne via per ordine del padre-padrone. Lo stesso che le imporrà di sposare un uomo più grande di lei, che non amava, rendendola infelice. Amava un giovane come lei. Il marito la «massacra di calci e pugni in testa». «Tutti sapevano che la picchiava, nessuno faceva niente» e la legge glielo consentiva per “correggerla”. Quando si innamora di Giuseppe, sposato e con figli, più grande di lei, va a vivere da lui, scandalizzando il paese. Rimasta incinta, decidono di trasferirsi a Milano. Il marito la denuncia e i due diventano ricercati per adulterio. Erano gli anni ’60 e allora l’adulterio era un crimine punito con due anni di carcere, il divorzio non c’era, i figli nati fuori dal matrimonio erano “illegittimi”, “figli di NN” e di “madre ignota”. Le tolsero la figlia appena nata e per riaverla dovette dichiarare essere figlia al marito. Per tutto il libro la storia della madre si intreccia con pezzi di quella dell’Italia del tempo. È analfabeta Lucia, ma ha intelletto d’amore, ama sé stessa, non si sottomette alla legge dei padri, non accetta l’infelicità come “dovere coniugale”, vuole essere felice, libera di amare ed essere amata. È coraggiosa, forte, ma è sola e pagherà cara la sua trasgressione. Il femminismo era di là da venire. Il 24 giugno del 1965, trovandosi “in condizioni disperate”, lasciata seduta su un plaid la sua creatura di otto mesi a Villa Borghese, affidandola alla “compassione di tutti”, si allontana e va a morire con Giuseppe nel Tevere. Aveva solo ventinove anni. Tutti i giornali, che l’autrice riprende, parlarono del loro suicidio, della bambina e della gara per adottarla. Pagine di compassione, di amore e gratitudine sono quelle in cui la figlia racconta le ultime ore di vita della madre e del padre. Una madre «resa segreta dalla morte» che la «lascia entrare» nella sua mente, nella sua anima pensante. «Vengo con te – le dice – dove non mi hai portata: nella morte. Scendo a conoscere cosa hai sentito». E sente tutto l’amore della madre, di cui le è grata, sia nell’«aver sopportato lo strazio» di averla lasciata e sia nell’averla consegnata «alla vita», destinandola alla madre adottiva, Consolata. Segue le tracce della madre fino al cimitero dove «la mettono dentro la sua terra» senza messa e funerale. Neppure da morta i genitori la fanno entrare in casa. Un libro potente, di amore e libertà, non di abbandono, di una figlia che riscatta la madre, le rende giustizia e la riporta a sé, a casa.
(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 16 settembre 2023)
di Laura Marzi
Sputiamo su Hegel e altri scritti di Carla Lonzi è il primo dei testi della pensatrice e poeta femminista che La Tartaruga pubblica. Il progetto prevede di ridare alle stampe tutti gli scritti di Lonzi che Annarosa Buttarelli, curatrice del volume, definisce la: «femminista più amata nel mondo».
Di certo Carla Lonzi è stata una voce fondamentale in Italia e il gruppo di Rivolta femminile che costituì insieme a Carla Accardi ed Elvira Banotti ha rappresentato un’avanguardia per il movimento delle donne. In questa prima raccolta di testi scritti fra il ’70 e il ’72 vi si ritrova il loro manifesto, che contiene strumenti fondamentali per comprendere non solo il femminismo storico: le donne di Rivolta Femminile individuano nella necessità di una: «presa di coscienza» un passaggio fondamentale per evitare una: «liberazione che poi si rivela esteriore». La parità, per esempio, e l’emancipazione costituiscono nel pensiero di Lonzi e delle donne di Rivolta dei falsi miti, delle vere e proprie sconfitte in quanto forme di adeguamento a un sistema di valori e di potere determinato dagli uomini. Del resto il femminismo di Lonzi non è materiale adatto per il programma di un partito politico né si riduce a una serie di indicazioni per la lotta contro determinate ingiustizie e l’ottenimento di certi diritti, è il pensiero generativo di una rivoluzione paradigmatica.
Sputiamo su Hegel è un testo firmato solo da lei che sorge dalla necessità di chiarire che all’interno della lotta di classe la liberazione delle donne non era contemplata. La dialettica servo-padrone, caposaldo della filosofia hegeliana, è un rapporto, spiega Lonzi, che esiste all’interno del mondo maschile: «la rivoluzione del proletariato è una rivoluzione patriarcale». Più in generale, il titolo di questo pamphlet esprime una presa di coscienza sulle sfide poste dall’introduzione di nuove tecnologie, appunto, rispetto a un canone, quello filosofico occidentale, che non ha mai contemplato nell’Uomo universale le donne. Questa intuizione di Carla Lonzi è stata poi all’origine di testi di filosofia femminista fondamentali, come per esempio: Nonostante Platone di Adriana Cavarero ripubblicato anch’esso quest’anno da Castelvecchi Editore.
In Sputiamo su Hegel Lonzi riporta dei brani di un colloquio in cui Lenin rimprovera Clara Zetkin del fatto che nelle loro riunioni tra operaie «vi occupate soprattutto delle questioni del sesso e del matrimonio». Ora, questo rimbrotto di Lenin potrebbe risuonare ed è stato da molti interpretato come un’ulteriore prova della frivolezza delle donne, che invece di parlare della lotta proletaria si raccontavano fatti privati. Invece il matrimonio e la famiglia sono le istituzioni su cui si fonda il patriarcato e di conseguenza la “cattività” delle donne: per questo le operaie che si incontravano perché volevano fare la rivoluzione si concentrano proprio sulla loro vita coniugale e certamente non a caso parlano fra loro di sesso. Nessun’altra come Lonzi ha messo in luce l’origine sessuale della subordinazione delle donne nel sistema patriarcale.
In Donna clitoridea e donna vaginale, un altro dei testi contenuti in questa raccolta firmato solo da Lonzi, la pensatrice fiorentina critica apertamente l’idea freudiana per cui il pieno sviluppo sessuale di una donna si compie nel momento in cui riesce a raggiungere l’orgasmo vaginale, mentre, come del resto scrive anche Simone de Beauvoir, la fase del piacere clitorideo deve essere superata perché sarebbe transitoria, immatura. Per Lonzi, invece: «la donna non è la grande madre, la vagina del mondo, ma la piccola clitoride per la sua liberazione».
Citando Masters e Johnson, autori del primo manuale di fisiologia sessuale (1966), Lonzi riporta l’evidenza scientifica che emerge dallo studio dei due scienziati statunitensi secondo cui la clitoride rappresenta l’organo di piacere femminile. Lonzi scrive che il pregiudizio che una donna sia frigida se non riesce a raggiungere la vetta del piacere nel coito dipende dal fatto che l’orgasmo maschile si realizza con la penetrazione. Per Lonzi: «non è più l’eterosessualità a qualsiasi prezzo, ma l’eterosessualità se non ha prezzo». Alle donne viene chiesto di fondersi con il proprio partner, di sentire all’unisono con lui, di perdere il controllo per raggiungere l’acme, ma: «l’erotismo puro – provenendo dallo stato di coscienza – libera nell’essere umano la capacità di diventare individuo».
Tale prospettiva modifica dalle radici l’approccio a questioni fondamentali e sempre attuali: in La sessualità femminile e l’aborto, un altro dei testi della raccolta, l’obbiettivo non è la lotta per la legalizzazione, ma per una diversa sessualità. Il testo sposta la questione e fa emergere il controsenso che la responsabilità dell’interruzione di gravidanza cada sulle spalle delle donne: se l’uomo mette incinta una donna raggiungendo il suo piacere con l’eiaculazione, perché il peso dell’aborto, della procedura e della colpa, ricadono su chi non solo non ha deciso, ma probabilmente non ha nemmeno goduto nel momento del concepimento?
Carla Lonzi scrive e pratica il femminismo separatista a partire dal punto di vista della differenza, che non va confusa con l’essenzialismo, ma compresa per quello che è: l’instancabile ricerca di un pensiero e di un posizionamento consapevoli e liberi dal patriarcato inteso come struttura, immaginario, sistema. La femminista afroamericana Audre Lorde quasi dieci anni dopo scriverà: «gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone».
In un momento storico in cui da una parte il femminismo occupa uno spazio rilevante nel dibattito pubblico e in quello culturale e dall’altra la cronaca descrive una realtà ancora così tragicamente maschilista, il pensiero di Lonzi continua a essere uno spazio di riflessione imprevista, né rivendicatoria né vittimista, ma rivolta alla destrutturazione dei fondamenti della cultura occidentale e animata da un desiderio indefesso di smascherare il potere.
(Tuttolibri – La Stampa, 16 settembre 2023)
di Loredana Magazzeni
Anticipiamo questa recensione di un’opera di Paola Èlia Cimatti in uscita sul prossimo numero di Leggendaria, ricordando che sabato 23 settembre alle 18.00 l’autrice sarà presente a un incontro sulla sua raccolta di poesie Passioni. Poesie scelte 2000-2022.
La redazione del sito
Paola Elia Cimatti, che da molti anni fa parte del Gruppo ’98 di poesia, perché è soprattutto poeta, ama molto la scrittura narrativa e ha vinto nel 2020 il Premio letterario intitolato a Clara Sereni, con i racconti di Lo sguardo di Bianca, che hanno per tema l’esistenza di una persona albina.
Non si tratta però di racconti sull’albinismo, sono racconti e basta, ironici, a volte surreali, che narrano la condizione di una donna la quale, sul finire degli anni Settanta, vive l’uscita dalla famiglia, immersa nel suo universo provinciale e magico, l’arrivo nella città per l’università e il lavoro, la metamorfosi e il passaggio dall’età infantile a quella adulta, ovvero la costruzione di sé attraverso una condizione particolare e sensibile.
I dieci racconti non seguono un ordine temporale che non sia quello del ricordo e dell’associazione mentale per improvvise accensioni, gesti, modi di dire, spezzoni di frasi che si sono innestate e hanno inciso, dolorosamente o giocosamente, sulla condizione della giovane donna che è Bianca.
Un libro sulla ricerca di libertà, e soprattutto sull’essere e continuare ad essere sé stesse. C’è una raccolta di poesia della poetessa inglese Kate Tempest, che si intitola Hold your own, “Resta te stessa”, esortazione che invita a tenere insieme orgogliosamente i propri pezzi a dispetto di tutti, e soprattutto di chi ci vuole conformati, mimetizzati, inermi e infine sbagliati.
In questi racconti Paola ha tenuto fede al “partire da sé” del pensiero della differenza, e al motivo della gratitudine e dell’affidamento fra donne caro alla filosofia femminista, dedicando il suo lavoro a Donatella Pannacci, che in tante abbiamo amato e apprezzato per la sua pluridecennale attività nel gruppo bolognese del Movimento di Cooperazione Educativa, che ci ha insegnato soprattutto l’ascolto l’una dell’altra. L’ascolto profondo dell’altro può essere insegnato, se appunto abbiamo la fortuna di incontrare maestre capaci di insegnarlo o libri altrettanto in grado di suscitare cambiamento, come quelli di Simone Weil e di Etty Hillesum, amati e studiati da Paola, che sono per lei punti di riferimento non solo teorici.
La scrittura di questi racconti è situata, nasce da un posizionamento preciso: la campagna romagnola degli anni Cinquanta, in cui si snoda l’infanzia della protagonista, campagna immersa in un pensiero magico che esclude senza reticenze il diverso, chi nasce con un segno o uno stigma, come può essere il colore della pelle o dei capelli. La trasparenza dei capelli costa a Bianca l’ostracismo dalla comunità, a partire dalla sua stessa famiglia e dalla figura di riferimento, così importante nel libro, che è quella della madre, Ottavia.
Il suo è un essere “una bambina fuori posto”, un’appartenente a “il mondo di sotto”, di cui negare l’esistenza coprendone la diversità, in questo caso il colore dei capelli, con continue tinture, tema del racconto Capelli trasparenti. È qui che Bianca comincia a perfezionare la sua “arte di scomparire”, dando forma al senso di esclusione che derivava dall’essere, suo malgrado, “l’errore che era”.
I dieci racconti sono però percorsi dal tono prediletto, che è quello dell’autoironia a tratti surreale, a tratti attenta dalle esperienze estreme, come può essere, per la ragazza Bianca, l’uccisione cruenta di una gallina, con atmosfere di suspence, come quando “una cupa aria elettrica faceva stridere i coltelli sui piatti”, sottolineando una violenza che era tipica di un mondo ancestrale contadino. Di converso, attraversa il libro la musica, con i brani dell’amata fisarmonica, e l’amore per le canzoni di lotta degli anni Settanta. Ma l’altro amore che muove Bianca è l’amore per la sua città d’adozione, Bologna, amore che ci rimanda in vividi quadri attraverso il racconto Finestre, le tante finestre che hanno accompagnato i suoi traslochi, con visioni dei tetti e del verde nascosto di Bologna. Surreale e quasi comico appare infine il racconto Scrivere il proprio nome, tutto incentrato su giochi di parole ed espressioni e quello dedicato a Calimero, il pulcino nero, cui simbolicamente si avvicina la bambina Bianca, con una immedesimazione al contrario.
(www.libreriadelledonne.it, 15 settembre 2023)
di Nicola Villa
Altreconomia ripubblica l’ultima opera di Laura Conti, partigiana e scienziata madre dell’ambientalismo italiano. Nel “Discorso sulla caccia” analizza le origini della caccia in un percorso che, partendo dalla teoria dell’evoluzione, giunge alla Rivoluzione francese e alla Resistenza, passando per l’antropogenesi e l’anatomia femminile, con una critica radicale all’agricoltura.
Scritto nel 1991, sulla scia delle politiche sul referendum contro la caccia mentre era in parlamento nelle fila del Partico comunista italiano (Pci), questo controverso pamphlet è costato a Laura Conti l’emarginazione dalla Lega per l’ambiente, che aveva contribuito a fondare nel 1980.
Pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1992, questo libro è imprescindibile per affrontare il tema del nostro rapporto con l’ambiente, gli animali e l’ecosistema, per diffondere la consapevolezza sui grandi problemi ambientali e affermare l’urgenza di un’azione politica per risolverli.
Il sottotitolo scelto dall’autrice è lungo, quasi un indice programmatico: “Dove si parla anche di evoluzione, antropogenesi, anatomia femminile, agricoltura; del diritto alla pigrizia e di coccolamenti durati milioni di anni; della dubbia compatibilità fra uomo e Pianeta Terra; di possibili catastrofi e dei rischi di facili rimedi”. In questo testo è evidente il metodo che Conti adottava con lo studio di tutta la documentazione disponibile, intraprendendo strade inconsuete per analizzare i problemi e trovarne una soluzione.
Laura Conti – nata a Udine nel 1921 e morta a Milano nel 1993 – ha affiancato all’attività professionale un intenso impegno politico, prima nel Partito socialista e dal 1951 nel Partito comunista, come consigliera provinciale a Milano, dove fu anche segretaria della Casa della cultura, e poi in Regione Lombardia; nel 1987 è stata eletta alla Camera dei deputati.
Dall’inizio degli anni Settanta si è concentrata, soprattutto, sulle tematiche ambientali e femministe, tanto da essere considerata un’antesignana dell’ecofemminismo. È autrice di tre romanzi (“Una lepre con la faccia da bambina”, “Cecilia e le streghe” e “La condizione sperimentale”) e di numerosi saggi sulla questione ambientale, sull’assistenza sociale, sull’educazione sessuale, l’aborto e sulla storia della Resistenza, oltre a varie opere di divulgazione scientifica (“Questo Pianeta”, “Che cos’è l’ecologia” e “Il tormento e lo scudo”, tutti ripubblicati, come i romanzi, da Fandango). È stata anche tra le prime a occuparsi del disastro ambientale di Seveso del 1976, denunciando le omissioni dell’amministrazione regionale sulle pagine de l’Unità e poi in una inchiesta pubblicata da Feltrinelli, “Visto da Seveso”.
Oggi ripubblichiamo “Discorso sulla caccia” con le correzioni volute direttamente dall’autrice stessa, arricchita dalla curatela di Marco Martorelli, il direttore della rivista Scienza aperta, nonché amico di lunga data di Laura Conti e fedele custode delle sue opere, come voluto per testamento dalla stessa scrittrice. Questa nuova edizione è impreziosita dalla prefazione di Luca Giunti, attivista No Tav e guardiaparco delle maestose Alpi Cozie, nella provincia di Torino, autore di articoli divulgativi e scientifici.
Una nuova edizione di un testo così importante, che continua a suscitare interesse e riflessioni profonde sulla nostra relazione con l’ambiente, gli animali e l’ecosistema.
(Altreconomia, n. 262 – settembre 2023)
di Olivia Guaraldo
Diceva Thomas Hobbes che «gli Stati sono istituiti dai padri e non dalle madri di famiglia». Pur ammettendo – unico fra i pensatori moderni – una naturale uguaglianza fra i sessi in termini di forza e intelligenza, il filosofo inglese constatava, con il suo solito realismo, che a comandare sono sempre stati gli uomini. Inutile girarci intorno, il potere ha sempre avuto e sempre avrà una connotazione essenzialmente maschile, ci ricorda Hobbes. Sarebbe perciò irrealistico pensare che il sapere che l’Occidente ha prodotto sul potere non sia maschilista o patriarcale, come si dice in un gergo ormai desueto. Si tratta di rapporti di forza, direbbe Foucault sulla scorta di Nietzsche. I maschi hanno sempre comandato, ergo i maschi hanno pure dettato le regole di trasmissione di un sapere che sistematizza i termini di quel comandare.
Da Aristotele a Rousseau, senza soluzione di continuità, si afferma in esso quanto segue: il maschio è il soggetto adatto a decidere, comandare, governare; la femmina a obbedire. I discorsi in cui quel sapere si formulava non si presentavano come proclami ideologici o pamphlet polemici, non erano insomma libri autoprodotti. Erano, al contrario, autorevoli esiti del sapere dotto, legittimo, universale. Hanno configurato una tradizione, la cui efficacia ancora si riverbera nella nostra sgangherata contemporaneità. Per fortuna un po’ scalfita, l’efficacia di quella tradizione, dal lento mutamento dei rapporti di forza. Gli studi femministi, negli ultimi decenni, sono divenuti parte essenziale di tale mutamento, producendo un sapere che ha finalmente demistificato la pretesa di validità universale della tradizione.
Il libro di Giulia Sissa L’errore di Aristotele – Donne potenti, donne possibili, dai Greci a noi (Carocci editore «Sfere», pp. 375, euro 29,00), prosegue con grande capacità analitica dei testi antichi e moderni, l’opera di demistificazione. Anzi, oltre a farci scoprire un Aristotele meno conosciuto – quasi divertente – ne traccia l’ininterrotta influenza nella cultura europea medievale e moderna, attraverso la sua canonizzazione da parte del cristianesimo, la sua rielaborazione da parte dei pensatori moderni, tutti – o quasi – ancora del suo parere per quanto riguarda le donne. Ciò che Aristotele disse sulle donne, ad esempio ritorna, quasi immutato, nel moderno Rousseau, il quale afferma che esse, per natura, devono obbedire al maschio, essere mogli docili e fedeli, perché così la natura vuole.
Nel percorrere analiticamente una simile continuità, il libro di Sissa fa emergere con chiarezza una cosa che a noi oggi pare davvero straordinaria, persino divertente se non fosse stata così influente: le autorevoli e spassionate trattazioni della differenza fra i sessi si presentano nella storia del sapere come oggettive e scientifiche, senza che mai a nessuno dei dotti compilatori – Aristotele, Epitteto, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Rousseau, solo per fare alcuni nomi di autori che Sissa analizza con grande acume – venisse in mente di essere un po’ di parte. Nessuna donna entrò mai nei dibattiti sulla “natura” femminile, sarà per questo che tale natura è descritta sempre in termini passivi, subordinati, infidi e inaffidabili?
Come a dire, ogni produzione di sapere ha al suo interno una specifica dimensione di potere. Il libro di Sissa ci conduce in un appassionante viaggio nella costruzione del regime di verità patriarcale, nella fase del suo stabilizzarsi scientifico. Se oggi siamo, a detta di molte autorevoli pensatrici femministe, alla fine del patriarcato – di cui i femminicidi, gli stupri sarebbero i feroci colpi di coda – l’epoca di Aristotele fu invece la fase in cui il sapere maschile sul mondo – e soprattutto sulle donne – divenne episteme, scienza. Tale episteme, inutile dirlo, deve ad Aristotele – il grande sistematizzatore del sapere greco antico – la sua fortuna. Giulia Sissa ci racconta la costruzione epistemica dell’inferiorità femminile, e la racconta attraverso una minuziosa analisi dei testi. Del resto, nonostante Aristotele fosse, come detto, un sistematizzatore, un elencatore, egli si rivelò anche uno straordinario fornitore di immagini, di metafore, di modi di pensare che restituiscono, attraverso una interessante «logica del concreto», che la differenza sessuale si dà nei corpi, per natura. Ci sono delle specifiche disposizioni fisiche che determinano le posizioni politiche: la passionalità, l’esuberanza, in una parola la virtù politica antica per eccellenza, l’andreia, è sinonimo di virilità, di ciò che per natura caratterizza gli uomini (aner). E tale natura immediatamente determina la cultura: gli uomini hanno il sangue caldo, ma proprio per questo sono coraggiosi, risoluti, adatti a governare. Le donne, invece, pur essendo intelligenti, hanno una «complessione fredda» – non sono stupide ma molli, incapaci di decidere, «superflue, inutili, pericolose. Sono un ostacolo nella lotta come nell’arena politica». Anatomia e fisiologia decidono insomma delle sorti politiche delle donne (e degli uomini). Guarda un po’, la differenza sessuale! Perché essa gode di così poca stima oggi? Perché viene accusata di essere “essenzialista”, biologista, escludente? Forse perché, come si evince da questo bellissimo libro, ne abbiamo sempre avuto a disposizione una versione patriarcale, maschile, androcentrica. Una lettura dell’anatomia e della fisiologia tutta a vantaggio di chi, in effetti, ne scriveva, ovvero i maschi. Quando si dice i rapporti di forza.
Eppure, la cultura greco-antica, oltre Aristotele, nella sua straordinaria complessità e ricchezza, ci tramanda anche dell’altro, non è solo sistematizzazione patriarcale della “natura”. Figure di donne forti e risolute, capaci di decidere e di agire, di consigliare e temperare gli eccessi passionali di maschi molto caldi, o di incitare all’azione giusta maschi indecisi, fanno da contraltare alla narrazione fisiologica di Aristotele, nel teatro, nella storiografia, nella poesia. Giocasta delle Fenicie, Etra nelle Supplici, Antigone, sono donne che divergono dagli schemi patriarcali e mostrano, agli ateniesi che andavano a teatro, come a noi oggi, le possibilità della potenza femminile. Le narrazioni alternative, le letture possibili del femminile, i percorsi di libertà che le donne possono compiere, oltre gli stereotipi prodotti dall’episteme fisiologico-politica, iniziano già all’epoca dello stabilizzarsi di quell’episteme, di quel sapere che invece vuole irrigidire la differenza sessuale in una gerarchia. Il libro di Giulia Sissa argutamente combatte, con sapienza e ironia, quell’irrigidimento, dando ampio spazio alle potenzialità alternative di narrazioni del femminile.
Agli antipodi di Aristotele c’è, infine, come argomenta la studiosa negli ultimi due capitoli del libro, la luce della modernità, accesa innanzitutto dal pensatore seicentesco Poullain de la Barre, che per primo prende sul serio l’uguaglianza naturale di tutti gli esseri umani, insistendo sulla non naturalità di una inferiorità delle donne. Chi la predica è vittima del proprio pregiudizio – di uomo – o si ferma a semplici apparenze. Dopo di lui, un altro pensatore divergente è il marchese de Condorcet, che in epoca rivoluzionaria sostiene – isolato – la causa del diritto di cittadinanza alle donne, in virtù del fatto che non c’è in natura una inferiorità femminile. Si tratta, anche qui, solo di pregiudizio. Infatti, afferma Condorcet, i diritti scaturiscono esclusivamente dal fatto che gli esseri umani sono «esseri sensibili capaci di acquisire idee morali e ragionare su di esse». È solo frutto di pregiudizio affermare che le donne possano essere escluse da questa definizione universale, che siano incapaci di imparare, ragionare, decidere. La loro inferiorità non è per natura, ma è il prodotto di una specifica cultura, che le priva di adeguata educazione, come afferma, nello stesso periodo, Mary Wollstonecraft.
Insomma, solo poche voci maschili sostengono la causa delle donne, nella lunga storia della loro universale inferiorizzazione. Eppure a esse – e all’apertura moderna che inaugurano – Sissa affida quella che lei chiama una «nota di ottimismo». Non ci sarà però speranza per il genere umano se la mascolinità non si sottoporrà a una demistificazione, uguale e contraria a quella che le donne hanno faticosamente intrapreso per sottrarsi alla presa invalidante della tradizione. È necessario, scrive Sissa, che anche il corpo maschile di cui Aristotele ci parla, «che si vuole onnipotente, quella virilità che crede che tutto sia permesso, quella soggettività per cui tutto dev’essere fattibile» venga messo in discussione. «Spostare lo sguardo critico su quel corpo vissuto al maschile non corrisponde a ciò che viene chiamato essenzialismo. Il corpo è una sfida, la si può raccogliere in modi diversi».
(Alias – Il manifesto 10 settembre 2023)
di Franca Fortunato
Dopo la pausa estiva torno con questa rubrica onorando la scrittrice sarda Michela Murgia, a un mese dalla sua scomparsa. Lo faccio parlando del suo romanzo d’esordio “Accabadora” che ho letto per la prima volta dopo la sua morte. Io e lei non la pensavamo allo stesso modo su tutto ma questo non mi ha impedito di recensire su queste pagine alcuni dei suoi libri, l’ho fatto con rispetto delle mie e sue idee. L’ho ammirata per il coraggio e la forza che ha mostrato davanti alla morte, scrivendo e parlando fino alla fine. Il suo romanzo è ambientato nella Sardegna degli anni ’50 del secolo scorso, la cui trama ci parla di donne sapienti della civiltà della madre, la stessa che avevo conosciuto dall’esperienza di mia madre. Il libro, infatti, attraverso le protagoniste, Maria la figlia, Anna Teresa Listru la madre, Bonaria Urrai la donna a cui Maria è fill’e anima, parla di donne che nei rapporti tra loro e davanti alla vita e alla morte non cercano la legge, non rivendicano diritti, non vanno nei tribunali, ma si rifanno all’antico sapere della madre. Un sapere sulla vita e sulla morte che sa distinguere «un atto pietoso da un delitto» come fa l’accabadora (donna della morte) che in Sardegna nei secoli passati praticava l’eutanasia ai malati senza più possibilità di essere curati, su richiesta dei familiari o dell’ammalata/o. Bonaria Urrai, la sarta, è l’accabadora.
Un sapere materno che orienta il patto tra donne, tra Anna, vedova con quattro figlie, e Bonaria, anche lei vedova e benestante, che «andò da lei a parlare della possibilità di prendere Maria a fill’e anima». «Fillus de anima – scrive Murgia – è così che in Sardagna li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra». Bonaria «aveva fatto in modo di accompagnare la richiesta con un’offerta tale che alla vedova non venisse la tentazione di dirle di no. Anna accettò senza discussione». Maria «dopo sei anni di notti passate a condividere l’aria di una sola stanza con le altre tre sorelle» accettò di seguire Bonaria e da adulta pagò il suo debito di gratitudine. Ma, «nei tredici anni che visse con lei nemmeno una volta la chiamò mamma» ma zia, Tzia in sardo. Sua madre Anna l’affidò a Bonaria per necessità ma le rimase vicina e quando aveva bisogno di lei la chiamava e lei correva. La storia è simile a quella di mia madre. La nonna, col consenso del nonno, affidò mia madre piccola alla zia, per salvaguardarla dopo che la figlia, di cui mia madre prese il nome, morì bruciata mentre lei era a lavoro nei campi. Mia madre, come Maria, non ha mai chiamato la zia “mamma” e a noi figlie parlava di lei come la zia che l’aveva cresciuta come una figlia. Le era grata come anche a sua madre che le era stata sempre vicina, rendendola una bambina serena. La zia aveva sostituito la madre senza cancellarla. Due donne legate da un patto di gratuità che si fidavano l’una dell’altra. Questa è quella che chiamo civiltà della madre che oggi la pratica medico-commerciale dell’utero in affitto, che Michela sosteneva, si è persa, fondando il desiderio di avere un/a figlio/a sul diritto di usare e sfruttare il corpo di un’altra donna, come contenitore e incubatrice, cancellando totalmente la madre e l’esperienza materna, su cui si fonda l’umano. Maria sapeva che sua madre e le sorelle erano la sua famiglia, come lo era Bonaria con cui viveva e cresceva nell’amore. Non si crea una famiglia cancellando la madre, l’origine di tutte/i noi, di cui, prima o poi, si va alla ricerca come racconta Maria Grazia Calandrone nel suo libro autobiografico “Dove non mi hai portata”, candidato al Premio Strega e di cui scriverò la prossima volta.
(Il Quotidiano del Sud, 9 settembre 2023, con il titolo “A Michela Murgia a un mese dalla sua morte”)
Due incontri dedicati all’autrice di «Sputiamo su Hegel». La casa editrice La Tartaruga pubblicherà tutti gli scritti, fuori commercio e non disponibili da anni. Venerdì 8 settembre al Festivaletteratura di Mantova ne discutono Laura Iamurri, Luca Scarlini, Carla Subrizi ed Elvira Vannini con Annarosa Buttarelli. Sabato 9 sarà la volta di Lunetta Savino e Viola Lo Moro
«Così sono arrivata al femminismo che è stata la mia festa, qualcuna doveva ben cominciare, e la sensazione che mi portavo addosso che, o lo facevo io o nessuno mi avrebbe salvato, ha operato in modo che l’ho fatto io. Dovevo trovare chi ero, alla fine, dopo avere accettato di essere qualcosa che non sapevo». È il 16 agosto del 1972 ed è quanto scrive Carla Lonzi nel suo Taci, anzi parla. Diario di una femminista, edito nel 1978, ancora oggi un documento straordinario e tra i più significativi del femminismo italiano degli anni Settanta. Unico nel suo genere, contiene infatti il lavorio della pratica delle relazioni tra donne e lo svelamento delle contraddizioni, pensieri, poesie, lettere, sogni e aspettative in riferimento, anzitutto, alla propria singolare esperienza incarnata. In effetti, ogni suo singolo libro (pubblicati negli anni Settanta grazie agli Scritti di Rivolta Femminile) risponde alla necessità dettata dal dissenso verso l’immagine in cui si sentiva costretta da chi la osservava «inespressa e felice di rappresentare qualcosa, non me stessa».
L’intuizione di Carla Lonzi però, morta di cancro nel 1982 all’età di cinquantun anni, è ancora più esatta. L’inizio è la comparsa di una possibilità, un movimento di donne che le fa sentire di avere «tutto pronto», si accorge che l’automatismo della identificazione le aveva fatto consumare «un’infinità di energie»; niente sarebbe stato lo stesso senza la relazione con le compagne di Rivolta Femminile. Carnalmente esistente dunque, sia pure nella parzialità del contesto materiale e storico da cui ha agito, è cruciale, per chiunque e non solo per le donne, avere ancora oggi la possibilità di leggerla.
Dopo anni in cui la sua produzione era ormai fuori commercio, il progetto di ripubblicazione era stato ripreso dall’editore Et al che dal 2010 al 2012 aveva dato alle stampe cinque volumi (Sputiamo su Hegel e altri scritti; Taci, anzi parla; Autoritratto; Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra; Scritti sull’arte – quest’ultima una collazione postuma). Ora dobbiamo invece ringraziare La Tartaruga, perché Claudia Durastanti che ne segue le scelte editoriali ha affidato ad Annarosa Buttarelli la curatela di tutti gli scritti lonziani.
Arriva nelle librerie in questi giorni il primo libro: Sputiamo su Hegel e altri scritti che nel titolo perde la decisione di Rivolta Femminile del 1974 di tenere in copertina anche Donna clitoridea e donna vaginale, uno dei testi compresi nel volumetto, tra i più spiazzanti e che ancora oggi ci interroga su quanto riusciamo a gettare nel discredito il piacere femminile riempiendo dotte conversazioni di «desiderio» e non toccando più i corpi, sempre più immalinconiti e attorcigliati. Diversamente dalla scelta di Et al però, che al tempo aveva fatto introdurre ogni volume, nel caso della Tartaruga gli scritti di Carla Lonzi, leggiamo nella nota di Annarosa Buttarelli (filosofa, esponente di primo piano del femminismo della differenza italiano nonché responsabile del Fondo Carla Lonzi avviato nel 2018 presso la Gnam di Roma) che, questa volta, non ci saranno prefazioni. La ragione è convincente: i testi lonziani «non sopportano commenti, spiegazioni, interpretazioni che spegnerebbero la loro forza travolgente, la loro intensa, parlante presenza».
Insieme al diario del 1978 e a Vai pure (1980), Sputiamo su Hegel (titolo che Lonzi ha definito «squisitamente orale») rappresenta uno dei punti più alti, mentre il testo omonimo interno al volume spiega lo sberleffo irriverente verso il pensiero sistematico, perché non ci deve essere reverenza verso chi ha collocato le donne come inferiori o inesistenti nel tessuto storico. È una somma provocazione che Lonzi poteva ben permettersi, scrittrice e lettrice colta, pensatrice finissima oltre che critica d’arte acclarata che poi abbandona quel mondo perché il riconoscimento attribuitole era interno a un processo di produzione maschile, narcisistico e inservibile.
Composto da testi pubblicati da Rivolta femminile tra il 1970 e il 1972 e successivamente riuniti nel 1974, Sputiamo su Hegel, sia per ciò che ha firmato Lonzi sia per ciò che è stato firmato collettivamente, è l’itinerario delle singole tappe di una personale e politica presa di coscienza. Lo definirà, nel valore che si dà agli inizi liberatori, come ciò che è stato l’Inferno per Dante, un primo stadio.
In apertura, il Manifesto di Rivolta Femminile (luglio 1970), procede per frasi brevi, asciutte e taglienti in cui il tema di fondo è la liberazione radicale della donna intesa come soggetto che «non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario». La decostruzione è dei nodi del patriarcato, trappola che non ha concesso un pieno affrancamento dalla cultura maschile rendendo la donna spettatrice muta di una storia mutilata che non le appartiene. Si rifiuta il matrimonio; si denuncia la discrasia del pensiero maschile come unilaterale, in particolare rispetto alla dialettica servo-padrone, «regolazione di conti tra collettivi di uomini: essa non prevede la liberazione della donna, il grande oppresso della civiltà patriarcale». Ci si smarca dal principio di uguaglianza e si annuncia infine il separatismo.
Uno dei testi più controversi è Sessualità femminile e aborto, nel luglio del 1971 rappresenta una delle prime prese di parola pubblica sull’interruzione volontaria della gravidanza, sia pure in netta discontinuità: quella che viene rifiutata è infatti una sessualità femminile slegata dal piacere e la gravidanza – talvolta – è il frutto dell’accondiscendenza all’egoismo maschile che vuole colonizzare il corpo della donna. È da qui che si comprende meglio Donna clitoridea e donna vaginale (agosto 1971), dove Lonzi dichiara che il sesso femminile è la clitoride e non la cavità vaginale, slegata dal piacere. Anche per questo, rileggerla è una festa. Come lo è il femminismo, ce lo ha detto lei.
(Il manifesto, 2 settembre 2023)
N.B. Da quarant’anni tutti i titoli dei libretti verdi di Rivolta Femminile sono disponibili alla Libreria delle donne di Milano. Potete trovarli al nostro indirizzo di via Pietro Calvi 29. Contatti: tel. 02/70006265 – e-mail: info@libreriadelledonne.it.
La redazione del sito
di Vanessa Roghi
Ho letto il primo libro di Agatha Christie intorno ai 12 anni. Me l’ha dato mia zia Grazia in una delle lunghe estati che passavo con lei sul Monte Amiata. Si intitolava L’assassinio di Roger Ackroyd. Non era il primo libro che Christie aveva scritto, non lo sapevo ovviamente, né mi interessava allora, ma avevo già una certa attenzione per le cronologie perché, l’anno prima, Sandro detto il Polpo, un amico dei miei genitori, aveva iniziato a regalarmi i dischi dei Beatles registrati su audiocassetta, in ordine cronologico. Mi aveva detto che bisognava ascoltarli così.
In effetti, a pensarci bene, anche mia zia mi disse subito qualcosa che aveva a che fare con la cronologia, se non dei libri, certo dei personaggi. Mi disse che dovevo stare molto attenta a non leggere Sipario, l’ultima avventura di Poirot, e il motivo era evidente. In quel libro Poirot moriva. Ubbidii, e iniziai a passare le mie giornate a leggere quei romanzi color giallo che, però, trovavo solo a casa sua. Quindi, d’inverno, continuavo a saccheggiare la biblioteca della mia mamma e leggevo quello che leggeva lei: Hermann Hesse, Raymond Queneau, Linus (la rivista) e FMR (la rivista). Nemmeno a scuola c’era Agatha Christie. La mia biblioteca scolastica delle elementari mi aveva introdotto al Corriere dei piccoli, a Asterix e a Piccole donne, La figlia del capitano, Pattini d’argento, ma di gialli nemmeno l’ombra. Doveva essere una cosa che riguardava pochi iniziati come me e mia zia e quindi era chiaramente bene non parlarne né a scuola né con nessuno.
Così ho attraversato gli anni delle scuole superiori e poi quelli dell’Università coltivando questa passione in segreto. C’era sempre qualcuno che per fare il ganzo citava Georges Simenon. Grazie, erano buoni tutti a citarlo: a quel tempo (e ancora oggi) lo pubblicava già Adelphi. Ma Christie no, non la citava nessuno intorno a me. Se ci penso, adesso, mi sembra che il momento in cui questa passione è stata sdoganata ha coinciso con l’esplosione della moda dei gialli “blu” di Sellerio e io ho iniziato a non sentirmi più sola. Grazie mille, Andrea Camilleri (e Leonardo Sciascia), sempre. La verità è che sola, ovviamente, non lo ero mai stata. Noi lettori appassionati eravamo e continuiamo a essere miliardi, eppure la letteratura cosiddetta di genere continua a essere considerata letteratura di serie B, come la chiamava Gianni Rodari. Ma questa è un’altra storia.
Insomma, sono diventata adulta leggendo tutti i romanzi di Agatha Christie per poi dimenticarli e rileggerli fino alla scoperta della sua autobiografia, bellissima, dove ho incontrato una donna dalla vita sorprendente: gli inverni dell’infanzia in Francia perché il padre affittava casa ai ricchi americani; i viaggi in giro per il mondo, il surf, la scrittura e l’inatteso successo, i due matrimoni, la misteriosa scomparsa, la passione per l’archeologia… Ma la scoperta più grande è avvenuta nel 2021 durante un periodo di qualche mese che ho passato a New York.
Dormivo poco e ogni mattina andavo a fare lunghe passeggiate ascoltando gli audiolibri di Agatha Christie, a volte in inglese a volte in italiano tanto mi piaceva la lettura di Alberto Onofrietti. Così, camminando per Central Park, le cuffie in testa, e la città che si svegliava, mi sono persa nel racconto stando attenta non solo alla trama, ai risvolti storici che costellano tutti i romanzi, alle tecniche di investigazione (entusiasmanti per chi come me è cresciuta nel segno di Miti emblemi e spie di Carlo Ginzburg), ma anche a particolari linguistici cui non avevo mai prestato attenzione. Forse perché ero negli Stati Uniti, forse perché il momento storico lo rendeva inevitabile, ho iniziato a notare, per la prima volta e con un certo disagio, il modo in cui in alcuni romanzi venivano tratteggiati alcuni caratteri di ebrei, greci, italiani. Non accadeva sempre. Ogni tanto.
Ho iniziato a farci caso, e mi è tornata in mente la questione della cronologia: ho iniziato a mettere in ordine i libri nei quali le connotazioni negative legate all’origine o alla religione erano più evidenti e mi sono resa conto che erano in gran parte libri scritti prima della Seconda guerra mondiale. Devo dire, mi sono molto rilassata, perché ho pensato che, raccontando quei tipi umani, Christie restituiva non tanto il suo sguardo quanto quello del suo tempo, di certi ambienti, di una certa borghesia (qui una interessante riflessione su lei e Roald Dahl). Uno sguardo che, per fortuna, è cambiato con il passare degli anni e che ce la fa apprezzare ancora di più perché non è semplice fare i conti con le strutture mentali dell’epoca in cui ci si trova a crescere, come lei, evidentemente, era riuscita a fare.
Eppure sapevo che prima o poi qualcuno avrebbe accusato Agatha Christie di razzismo e antisemitismo, e infatti è accaduto, sta accadendo. Razzista, ha detto Sam Naidu, professoressa di Letteratura inglese alla Rhodes University in Sudafrica, in una intervista alla BBC data dopo l’annuncio dell’ultimo film di Kenneth Branagh, Assassinio a Venezia in uscita il 14 settembre. Razzista e antisemita.
Approfondendo la questione mi sono accorta che era già successo. Leggendo un bel saggio del 1987 (Detecting Social History: Jews in the Works of Agatha Christie) ho ripensato a quello che mi aveva detto tanti anni fa David Elwood, storico inglese studioso del fascismo italiano. Stavamo a casa sua a Oxford, dovevo intervistarlo per un documentario su Mussolini, e lui, parlando dell’aviazione durante la guerra di Etiopia, mi aveva fatto notare come i giovani aviatori, italiani o inglesi che fossero, appartenevano tutti alla stessa classe sociale e condividevano le stesse idee razziste nell’Europa degli anni Trenta.
Non si capisce perché un’eco di queste idee non dovrebbe esserci anche nei libri di Christie, donna del suo tempo ma anche oltre il suo tempo, se si pensa al fatto che scelse di fare di un profugo belga, Hercule Poirot, uno dei personaggi più importanti della letteratura del XX secolo. Un profugo belga, costretto a emigrare in Inghilterra durante la Prima guerra mondiale, vittima di continui insulti da parte di esponenti di quello sciovinismo razzista e classista che Christie demolisce un pezzo per volta nei suoi romanzi (ne parla qui Igiaba Scego).
Quando Christie iniziò a scrivere i suoi “gialli” era ancora largamente condivisa l’idea che il crimine fosse una prerogativa dei poveri e dei viziosi. I maggiordomi erano spesso, davvero, gli assassini e difficilmente un delitto poteva aver luogo fra un tè del pomeriggio e una messa domenicale. Nei romanzi di Christie, invece, la classe sociale non conta. E questo è davvero un elemento rivoluzionario. Se i suoi libri raccontano prevalentemente i bianchi perché bianca e coloniale era la società inglese in cui i suoi personaggi si muovono, bianchi sono anche gli assassini. Bianchi e benestanti.
Lo sottolinea lei stessa attraverso lo sguardo di uno dei suoi personaggi: «“Quello che è successo ha dell’inverosimile! Non l’avevo mai neanche sentito dire… intendo che non è mai avvenuto tra gente della nostra classe”. Era evidente che la signorina Carroll era convinta che gli omicidi venivano commessi solo da alcolizzati appartenenti alle classi inferiori» «“I’m sure it was a most extraordinary thing to happen. I’ve never heard of such a thing happening – I mean to anyone in our class of life”. It was clearly Miss Carroll’s idea that murders were only committed by drunken members of the lower classes» (traduzione di Rosalba Buccianti).
È un estratto da Lord Edgware Dies/Se morisse mio marito, uscito nel 1933, novant’anni fa. È un romanzo che ci viene in aiuto anche rispetto al tema del razzismo e dell’antisemitismo, ma in un modo inatteso. Come fa notare, infatti, Francesco Spurio in un bell’articolo di qualche anno fa, è accaduto spesso che le traduzioni italiane degli anni del fascismo riscrivessero interamente dei passaggi in chiave razzista: «Basta rivolgere l’attenzione alle prime pagine di Lord Edgware Dies, tradotto da Tito N. Sarego e, come si ricorderà, apparso nei “Libri Gialli” nel 1935 col titolo Se morisse mio marito. Nel presentare infatti l’attrice Carlotta Adams, nella traduzione si mettono in bocca a Poirot e al suo fedele compagno di avventure Hastings frasi palesemente antisemite che non trovano traccia alcuna nel testo originale. La Christie si limita a descrivere, per bocca di Poirot, l’attrice come una donna scaltra e attratta dal denaro: “Miss Adams, I think, will succeed. She is shrewd and that makes for success. Though there is still an avenue of danger – since it is of danger we are talking. – You mean? – Love of money. Love of money may lead such a one from the prudent and cautious path” (Christie 1933, 6). Nell’edizione italiana, ben prima che si scatenasse la campagna razziale sul modello nazista, si rispolvera invece il risaputo cliché dell’ebreo gretto e avido, creando dal nulla uno sproloquio lungo ben nove righe. Si fa in modo che Poirot dapprima domandi a Hastings: “Si sarà accorto, spero, che è ebrea?”, per poi constatare che “quando ci si mettono, questi ebrei, sanno arrivare molto in alto … e costei non manca certo di attitudini”. Nella libera “reinterpretazione” italiana, è invece attribuito a Hastings il seguente commento: “A dire il vero non ci avevo fatto caso, ma l’osservazione del mio amico mi aprì gli occhi e notai anch’io sul bel volto bruno le inconfondibili stigmate della sua razza” (Sarego 1935a, 7-8)».
Quello che pare incredibile è che le traduzioni razziste degli anni Trenta abbiano continuato a circolare per tutto il dopoguerra, e che nessuno si sia preso la briga di rifarle da capo. Neppure Oreste Del Buono, nella prefazione a Assassinio sull’Orient Express del 1970, ha pensato che fosse importante ripartire dalle traduzioni. Lo sottolinea Eleonora Federici in un volume collettaneo su fascismo, franchismo e traduzioni. Per cui il destino di Agatha Christie è sempre stato questo: essere adattata ai tempi in cui veniva letta per motivi politici e pedagogici.
Esemplare in questo senso la battaglia di HarperCollins, editore di Christie, per uniformare in tutto il mondo il titolo di Dieci piccoli indiani (già Ten little niggers) in E non rimase nessuno (And then there were none). Una storia raccontata molto bene nella nota dell’Editore posta in fondo all’edizione del 2019 del romanzo (traduzione di Lorenzo Flabbi). Il titolo, come è noto, deriva da una filastrocca popolare negli Stati Uniti le cui varianti riportano, a partire dalla fine del XIX secolo, sia niggers che indians che soldiers.
«Il crime novel che esce nel novembre 1939 da Collins a Londra si intitola Ten Little Niggers; la vicenda si svolge a Nigger Island e le statuette rappresentano “ten little Niggers”. Il termine nigger però è inaccettabile negli Stati Uniti, dove il romanzo fu pubblicato da Dodd, Mead & Co. nel gennaio del 1940 col titolo And Then There Were None, tratto dall’ultimo verso della filastrocca anziché dal primo; Soldier Island è il nome dell’isola e i dieci sono “little soldier boys”. (Sempre negli USA per qualche anno si affacceranno in libreria anche dei paperback col titolo Ten Little Indians e con le conseguenti modifiche dei nomi dell’isola e dei protagonisti)». Oggi il titolo più usato è And Then There Were None, l’isola si chiama Soldier Island e i dieci sono “little soldiers”. La prima edizione italiana del 1946 era già E poi non rimase nessuno. Fu, del resto, Christie stessa a cambiare il titolo la prima volta, quindi sono sicura che non avrebbe avuto problemi a cambiarlo una seconda.
E degli stereotipi cosa avrebbe fatto? Recentemente si è parlato del caso Dahl e anche in quella circostanza si è arrivati a decidere che alcune sensitive words dovessero essere eliminate dai suoi libri. Mi è parsa una decisione infelice: se Dahl era un antisemita (e l’ha rivendicato fino alla fine), sarà il caso di saperlo, non di dare una bella passata di vernice alle sue pagine, restaurandole per il pubblico di oggi.
Io sono della scuola dello storico dell’arte Cesare Brandi che non c’entra niente con la traduzione ma un po’ c’entra. Ci ho pensato spesso viaggiando in oriente, in Thailandia per esempio, dove i templi vengono “restaurati” rifacendoli da capo. La scuola di Brandi, invece, è quella del restauro conservativo: si interviene perché le opere non reggono al passare del tempo, ma si lascia traccia dell’intervento. Lo stesso metodo dovrebbe essere usato con le opere di scrittori come Dahl, e come Christie. Non possiamo cancellare i pregiudizi dalla letteratura degli anni Trenta, è pericolosissimo, si potrebbe arrivare a credere, così, che la Shoah per esempio sia stata il prodotto delle decisioni di un singolo pazzo furioso e non di una società nella quale l’antisemitismo e il razzismo erano parte anche della cultura dei liberali, persino di alcuni progressisti. E si dovrebbe farlo non solo per capire il passato, ma anche per evidenziare la pericolosità di molti stereotipi dei quali, certo, non ci siamo liberati.
Alla fine la scelta filologica e critica pare sempre la più giusta. È la strada intrapresa (per ora) qui da noi: a settembre Mondadori, da sempre editore italiano di Christie, pubblicherà una serie bilingue dei romanzi della “regina del delitto”, pensata non solo per mettere in luce la bellezza della scrittura di Christie, ma anche la sua immensa capacità di rievocare la tradizione letteraria inglese che, da Shakespeare in poi, è rintracciabile in tutte le sue opere (cura la collana Federico Biolchi). In attesa dell’uscita del Meridiano di Christie (la selezione delle opere sarà dello scrittore Antonio Moresco), continuo a rileggerla trovando sempre nuove notazioni acute e ironiche sulle trasformazioni della società inglese. Qualche giorno fa, per esempio, mi sono accorta di una scena di Polvere negli occhi (A pocket full of Rye, 1953): di fronte al malore del capoufficio, un gruppo di segretarie di solito estremamente efficienti non sa dove andare a cercare un medico. Lo scambio di battute è fantastico, come il commento di Agatha Christie: «Come cittadine di uno Stato ove esisteva un servizio nazionale di Sanità, si dimostravano piuttosto ignoranti» (traduzione di Silvia Boba). In questa direzione di scavo, che punta a chiarire la lettura collettiva e la contestualizzazione storica delle diverse edizioni di Christie, stanno lavorando da qualche anno due giovani e bravissimi critici, Marco Amici e Davide Astegiano, che cureranno parte dell’apparato critico del Meridiano, ma il cui lavoro è già visibile qui (ed è davvero imperdibile per noi devoti lettori).
Infine: un mese fa ho deciso di leggere Sipario, contravvenendo a quanto mi aveva detto mia zia nel 1984. Forse il fatto di aver compiuto cinquant’anni mi ha fatto pensare che non mi sarei perdonata se mi fosse successo qualcosa senza averlo letto, e poi anche Agatha che prima di morire ha deciso di far morire il suo eroe. È andata bene, ho retto il colpo. E non è escluso che anche di questa morte mi dimenticherò, come faccio ormai da anni con tutte le altre, sorprendendomi ogni volta di aver dimenticato trama, personaggi, vittime e colpevoli, e di tornare a essere ancora per qualche ora quella bambina di 12 anni, con il suo libro “giallo” tra le mani, alle pendici del Monte Amiata, in un’assolata estate di tanti anni fa.
(dedicato a mia zia Grazia)