di Franca Fortunato


Ci sono ricordi che a un certo punto della propria vita bussano alla memoria e chiedono di essere raccontati per lasciare testimonianza. È quello che fa Dacia Maraini col suo ultimo libro Vita mia – Giappone, 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia, edito Rizzoli. Memorie di un pezzo della sua vita, scritte a «una età in cui il cuore diventa un cimitero» per le tante persone care che non ci sono più. Torna alla bambina di sette anni che insieme al padre, Fosco, alla madre, Topazia, e alle sorelle minori, Yuri e Toni, venne rinchiusa in un campo di concentramento per antifascisti italiani, considerati “traditori della patria”. I genitori, infatti, si erano rifiutati di firmare e giurare fedeltà alla Repubblica di Salò e al governo nazifascista. Nonno Antonio aveva cacciato di casa Fosco per aver rifiutato la tessera del fascio. Ricorda con nostalgia gli anni sereni prima del campo e l’amata tata, che «nel suo cantilenare giapponese» insegnava alle sorelline stornelli, ninne nanne, filastrocche e raccontava le più belle favole della tradizione giapponese. Un’infanzia interrotta nel campo di concentramento, nelle baracche, dove torna con la memoria per raccontare il dolore, le sofferenze, la paura, le privazioni, il freddo, la fame e le malattie che li «consumavano». Di notte per tenersi caldi e consolarsi dormivano abbracciati e lei, quando non sopportava i crampi della fame, mangiava le formiche. Al centro del racconto c’è l’opera della madre, di sua madre, divenuta la sarta del campo. Cuciva per distrarsi, per non pensare, cuciva per la comunità, anche per le guardie per avere un po’ di riso in più da dare alle sue figlie. Cuciva nonostante il dolore continuo alle gambe e gli edemi che le gonfiavano le caviglie e i polpacci, nonostante le macchie che offuscavano lo sguardo. E intanto cuciva e rammendava legami, sentimenti, relazioni e si faceva carico della serenità delle figlie. «Raccontava del pane ancora caldo, “un profumo da re” diceva e io tiravo su col naso e chiudevo gli occhi per immaginare quell’odore. “Lo senti l’odore che sale dalla crosta appena uscita dal forno?” Ma io faticavo a immaginare il suo pane. Il pane lo conoscevo poco essendo arrivata in Giappone ad appena due anni». Aveva una bella voce, come sua madre, nonna Sonia, e insegnava alla figlia le canzoni siciliane, mentre il padre intonava canzoni montanare. Per farle addormentare cantava loro l’aria del coro muto della Butterfly. A Natale del ’43 costruì delle bambole con gli stracci, realizzò dei teatrini col cartone e addobbò l’albero di ciliegio del cortile. «Le bambine erano felici». La sera della vigilia cantarono tutti. Lei, unica donna, cercava di mettere pace tra i compagni di prigionia che nel suo diario, che tenne fino a quando durò il «moncone di matita», paragona a dei bambini capricciosi che bisticciavano per un nonnulla. Partecipava alle infinite discussioni degli internati continuando a lavorare al cucito. Ogni tanto interveniva per mettere pace oppure diceva la sua. Ascoltava le poesie del marito, poi le nascondeva nella pancia dello spelacchiato orsacchiotto che «passava le notti tra le braccia della piccola Yuri». Arrivò la fine della guerra, la tragedia delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, la resa del Giappone. Era tutto finito, volevano dimenticare. Tornano in Italia, a Bagheria, a casa della nonna paterna, nonna Yoi, la viaggiatrice e scrittrice. Erano ancora poveri ma felici per la ritrovata libertà e a casa della nonna nella sua ricca biblioteca la scrittrice scopre un’altra fame, quella dei libri. L’esperienza del campo non le impedisce di amare il Giappone e i giapponesi, per aver conosciuto allora la gentilezza, generosità e solidarietà della gente comune.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 20 gennaio 2024)

di Luisa Vicinelli


Presentazione dell’ultimo testo pubblicato in italiano della studiosa tedesca Heide Goettner-Abendroth. Un viaggio nella nostra storia più antica alla ricerca di soluzioni per il presente

«Greci, Romani, Celti e Germani si sono imbattuti in culture matriarcali più antiche ed evolute nel corso delle loro guerre di conquista, innescando conflitti di larga portata di cui sia i reperti archeologici che le fonti storiche offrono testimonianza, e che troviamo riflessi nelle rispettive mitologie di questi popoli. Le antiche civiltà non indoeuropee si possono facilmente riconoscere nelle culture megalitiche del Neolitico e dellEtà del bronzo dellEuropa Antica, nonché nelle prime culture estremamente evolute del bacino danubiano e dellarea egea. Gli elementi matriarcali non costituiscono quindi il “mistero” dei popoli indoeuropei che sono arrivati dopo, ma sono stati semplicemente adottati da culture precedenti, ovviamente matriarcali.»

Il nuovo libro di Heide Goettner-Abendroth Le società matriarcali Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa (Mimesis) indaga sulla nostra storia più antica. Ci parla delle sue origini nel Paleolitico, perché è all’inizio di questa lunga epoca durata come minimo due milioni di anni che risalgono i primi ritrovamenti di utensili e di ripari costruiti dagli esseri umani. Sempre seguendo la traccia dei reperti, le prime statuette dalla fisionomia rigorosamente femminile sono datate più di 500.000 anni fa. Si denota fin dalle origini la preponderanza delle rappresentazioni di donne, a indicare l’alta considerazione attribuita al nostro sesso, probabilmente dovuta alla raccolta di cibo, alla capacità di rigenerare la specie e di giocare un importante ruolo di guida nelle società che si stavano formando. Anche dopo, quando sorgono le prime formazioni templari e si moltiplicano le pitture rupestri, le immagini di uomini e animali che iniziano a comparire mantengono un significato sacro che le collega a una visione religiosa incentrata sul materno e la rinascita, quindi al femminile. Questa lettura inedita della spiritualità che albergava nelle nostre antenate e nei nostri antenati capovolge gli assunti della narrazione ufficiale: i primi esseri umani non erano tanto interessati alla sopravvivenza materiale quanto alla continuità della vita, la loro, degli animali e del luogo dove vivevano, in cui vedevano la presenza di una madre terra che sostentava la vita e accoglieva nella morte, in attesa della rigenerazione. Erano i cicli infiniti delle stagioni – e prima ancora quelli della luna – che li informavano di questa eternità immanente, in cui l’esistenza rinasceva incessantemente. Nella descrizione abendrottiana i “cavernicoli” appaiono molto diversi da quelli che siamo abituati a vedere nei libri scolastici e nei musei: sono “esseri umani” come noi, con un’alta capacità cognitiva in grado forse anche più di noi di esprimere una visione organica e consapevole del mondo circostante.

Ma com’è possibile formulare una ricostruzione storica di epoche lontanissime non potendo quasi mai contare sulla conservazione dei reperti e sull’univocità delle interpretazioni? Heide Goettner-Abendroth ha potuto avvalersi di una pietra di paragone decisiva, grazie agli Studi Matriarcali moderni da lei fondati nel 1982 per studiare i matriarcati del presente e del passato. Arrivati in Italia agli inizi degli anni 2000 ed esposti nel suo primo libro tradotto nella nostra lingua (Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia 2013) sono stati in grado di restituirci la struttura di società totalmente diverse da quelle patriarcali, i cui modelli sono rintracciabili anche nelle prime comunità umane. Le accomuna la cura per i vivi e per i morti, e per il territorio, e la preoccupazione di mantenere bilanciato ogni aspetto della vita, affinché nulla sia d’ostacolo all’armonia e alla pace. L’assenza di potere, di gerarchia, l’uso collettivo delle terre e dei beni gestito dalle madri dei clan, un’attenta ridistribuzione delle risorse per il benessere di tutti e una politica del consenso che dà voce a ogni persona rendono queste società davvero ugualitarie e pacifiche, così come lo erano le genti del Paleolitico e del Neolitico, nonostante molti archeologi si ostinino a vedere in ogni sepoltura collettiva un massacro. Abendroth smonta una dopo l’altra queste congetture senza fondamento fornendo una visione organica delle società umane del periodo. Diventa particolarmente d’attualità lo studio dell’autrice sulla guerra, nata con le invasioni dei pastori guerrieri patriarcali che scesi dalle steppe euroasiatiche hanno portato un nuovo ordine sociale e spazzato via le pacifiche società matriarcali preesistenti. Da allora la nostra storia è stata un succedersi di imperi e potentati nati e poi collassati nel corso di guerre senza fine, e ancora non sappiamo come liberarcene. Forse i modelli di società che siamo stati in grado di creare in un lontano passato possono essere d’ispirazione.

Ma quello della guerra non è l’unico tema su cui possiamo trarre insegnamento: Abendroth, narrando la nascita del patriarcato, ripercorre tutti i passi che hanno portato alla domesticazione delle donne e poi alla loro sottomissione, e alla conseguente sottomissione di tutte le classi non egemoni. Nonostante una credenza diffusa, non è stato con la clava che il potere maschile si è affermato, bensì con il mercimonio delle donne, indispensabile ai guerrieri invasori per assicurarsi una progenie a cui trasmettere proprietà e potere. Il degrado dello status femminile è proceduto di pari passo con l’affermarsi del potere del padre di famiglia, con l’emergere di dei maschili tuonati e rabbiosi fino ai monoteismi che hanno definitivamente affossato la religione della dea e la centralità femminile. Ovunque, sebbene con modalità differenti legate alla peculiare storia di ogni territorio, si sviluppa la famiglia patriarcale in sostituzione del clan matrilineare. Popolazioni come i Celti, che vengono oggi portati a esempio per il potere concesso alle donne, in realtà s’iscrivono totalmente nel sistema parentale proprio di tante società guerriere. Nemmeno le Amazzoni, di cui l’autrice rivendica l’esistenza storica dando credito alle numerose testimonianze degli scrittori dell’antichità, riescono a fermare l’avanzata del nuovo modello sociale, sebbene oppongano una strenua resistenza armata per difendere la loro libertà. Solo pochi gruppi etnici sono in grado di mantenere in alcune credenze e costumi quelle che non sono altro che permanenze degli antichi matriarcati. Eppure è a queste antiche società, e a quelle che sono riuscite a sopravvivere non senza fatica in varie parti del mondo fino a oggi – come ad esempio i Moso e i Minangkabau – che dobbiamo guardare se vogliamo risolvere i problemi creati da questi relativamente pochi millenni di patriarcato. Come aveva già detto Mary Daly, siamo chiamate a creare un Futuro Arcaico. E l’arcaico che ci viene in aiuto è quello narrato da Heide Goettner Abendroth in questo libro.


(Noi donne, 19 ottobre 2023)


(*) Heide Goettner-Abendroth, filosofa e ricercatrice socio-culturale, è nata l’8 febbraio 1941 a Langewiesen ed è considerata una delle pioniere degli studi delle donne della Germania occidentale. Dopo aver insegnato Filosofia Moderna all’Università di Monaco, ha abbandonato la carriera universitaria per fondare nel 1986 l’INTERNATIONAL ACADEMY HAGIA (www.hagia.de) per gli Studi Moderni sul Matriarcato e la Spiritualità Matriarcale, che dirige ancora oggi. Per la sua ricerca durata più di trent’anni è stata riconosciuta negli ambienti progressisti e femministi come la fondatrice degli Studi Matriarcali moderni, un nuovo campo epistemologico per la definizione strutturale della forma sociale matriarcale che è stato presentato nel corso di diversi convegni internazionali: nel 2003 in Lussemburgo, nel 2005 a San Marcos (Texas), nel 2009 a Roma, Milano e Bologna e nel 2012 a San Gallo in Svizzera. È stata eletta una delle mille Donne di Pace del mondo e candidata per ben due volte al Premio Nobel per la Pace. Dei suoi numerosi libri sono stati tradotti in inglese “The Dancing Goddess. Principles of a Matriarchal Aesthetic” e “The Goddess and Her Heros. Matriarchal Religion in Mythology, Fairy-Tales and Poetry”.In Italia sono stati pubblicati: Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene nel mondo” (Venexia, 2013), “Società di pace. Matriarcati del passato, presente e futuro” (Castelvecchi, 2018) e “Madri di saggezza” (Castelvecchi, 2020).

di Francesca Lazzarato


Il sostantivo spagnolo nero possiede significati in buona parte affini a quelli che “genere” ha in italiano, ma ce n’è almeno uno del tutto diverso: il termine, infatti, vuol dire anche “stoffa, tessuto”, ed è questo il senso che viene spontaneo attribuirgli, incontrandolo in (D)istruzioni duso per una macchina da cucire (pp. 80, euro 14) di Eugenia Prado Bassi, singolare scrittrice, editrice, grafica e drammaturga cilena, presentata per la prima volta in italiano da Edicola Edizioni nell’ottima traduzione di Laura Scarabelli, cui si deve anche una puntuale prefazione.

L’autrice, tuttavia, ha inserito la parola nero, insieme alla figura di un’antica macchina da cucire a manovella, in una paginetta dove leggiamo una definizione ben lontana da quella che ci si aspetterebbe, in un testo che si occupa di sarte, sartine e cucitrici: «Genere: artefatto creato dall’uomo che definisce o riduce la specie umana in due categorie, secondo le quali la femmina deve investire tutte le sue energie per imparare ad aspettare il suo turno. Dicesi anche di un insieme di entità o cose con caratteristiche comuni, parti di un tutto fondato e determinato dal padre. Le conseguenze si riproducono nei secoli dei secoli, sistematicamente».

Un simile gioco linguistico (che rimanda alla differenza sessuale e che in italiano va perduto, com’è inevitabile) è destinato a spiazzare il lettore, a ribaltarne le attese, a farlo muovere tra metafore visive e testuali, e soprattutto a definire il tono di una narrazione plurima, autentico collage di scrittura e immagini, ma soprattutto di significati. Una “confezione” complessa, precisa e perfetta nella sua apparente semplicità, che sfrutta il frammento e accosta voci di donne rinchiuse in una stanza, in un capannone, in una fabbrica più o meno clandestina, più o meno squallida, dove siedono per ore e ore davanti alle macchine da cucire, per poi tornare in case dove le aspettano il lavoro domestico, la cura della famiglia e altri “lavoretti” di sartoria, eseguiti in privato per integrare un salario insufficiente.

Eugenia Prado Bassi (che dice di sé stessa «non vengo dalla letteratura, i miei processi creativi risiedono altrove, leggo, disegno, comunico via web. Lavoro con altre logiche, vivo la maggior parte della giornata davanti allo schermo di un computer, transitando da un luogo all’altro») è, come sottolinea Laura Scarabelli, una «scrittrice eccentrica», che infrange le strutture narrative tradizionali per aprirle a un’infinità di letture e interpretazioni, servendosi di procedimenti audaci come quello che ha dato vita al suo romanzo-installazione Hembros: Asedios a lo Post Humano, opera capace di fondere teatro, musica, letteratura, video, in perpetua evoluzione e costantemente rielaborata in un arco di quasi vent’anni.

Nel lavoro dell’autrice, dunque, troviamo l’eco della sperimentazione che tutt’ora connota parte della letteratura cilena (da Diamela Eltit a Cynthia Rimsky a Juan Pablo Sutherland), e che, in queste (D)istruzioni per luso, ci rimanda a quel che scrive una straordinaria esponente della poesia argentina, Tamara Kamenszain, nel saggio Bordado y costura del texto: «La possibilità femminile di osservare le cuciture per vederne la costruzione dal rovescio, apre alla donna, nel suo rapporto con la scrittura, il cammino dell’avanguardia».

In questo breve, frammentario racconto, Eugenia Prado Bassi esamina in modo nuovo e originale un personaggio che nel corso del tempo ha sedotto scrittori e artisti e che è stato così a lungo presente nella cultura popolare da diventare quasi un archetipo, ma che qui emerge con forza inconsueta grazie all’uso di linguaggi diversi, cuciti insieme da un ago simbolico: spiegazioni tecniche, definizioni dei punti più usati, descrizioni di utensili e macchinari, voci tratte da un dizionario reinventato e allusivo, figurine in bianco e nero (antichi corsetti, manichini, mostruose crinoline), pagine di diario e appunti. Il tutto fuso in un testo che rivendica ogni sua riga come intensamente politica e mette in luce la contraddizione non risolta tra l’orgoglio per il salario guadagnato e l’esercizio della propria abilità, e l’annullamento di ogni possibile tempo di vita da parte di un capitalismo estremo e vorace.

Il libro si presenta in primo luogo come un taccuino, un quaderno privato sul quale la sarta Mercedes («che scrive bene», che ama leggere e guardarsi intorno) incolla immagini ritagliate, conserva cartamodelli e annota frasi, impressioni, episodi, vicende, voci, lamentele, astuzie e ribellioni delle venticinque compagne con cui condivide giornate interrotte da un’unica ora di pausa, e lo spazio di uno stanzone che dilata l’angolo o l’ambiente destinati al cucito nelle case di un tempo, non importa se borghesi o proletarie.

Modellati da gesti ripetuti all’infinito, i corpi delle costureras affiorano dalla scrittura, sottoposti a un controllo costante che va di pari passo con quello dei tempi di produzione, e che nelle illustrazioni è simboleggiato da un occhio onniveggente, intento a osservare abiti e manichini.

Corpi precari, sfruttabili e sfruttati, costretti a identificarsi e quasi a fondersi con lo strumento che usano, corpi addestrati sin dall’infanzia alla «femminile» e «naturale» attività del taglio-e-cucito, nati «con una naturale tendenza a divenire macchine», dice Mercedes, perché i loro corpi costituiscono una potentissima forza produttiva, e in più di un senso.

Non è solo il vorace mercato del fast fashion, infatti, a dover essere rifornito: i doveri della biologia, ricordati da una delle compagne di Mercedes, impongono anche la produzione di altri corpi, di altra forza lavoro, di nuovi consumatori.

Nell’ultimo capitolo, «Altre pratiche femminili», un ulteriore collage di voci racconta perciò la disperazione di chi deve, e non vuole, «sopportare feti troppe volte incubati a forza», e la trama del testo (o del corpo) si increspa, cucendo con punti fittissimi l’aborto segreto e clandestino alla prima definizione di un metaforico dizionario sartoriale, che apre il libro: «Rammendare: riparare un tessuto o una stoffa, livida, ferita, graffiata, rotta, devastata».

A far da sfondo, mai ricordate da Prado Bassi ma ineludibili, le presenze fantasmatiche delle messicane morte nella fabbrica tessile di Chimalpopoca, un edificio pericolante e abusivo crollato nel 2018; delle cucitrici perite nel crollo del Rana Plaza nel 2013, in Bangladesh; delle donne e delle ragazze scomparse nell’incendio della Triangle Shirtwaist Company di New York nel 1911 (l’otto marzo nasce e continua a nascere dai loro corpi bruciati).

La voce di Mercedes, però, è anche quella della burla, della rabbia, della gioia, della consapevolezza, dell’abilità, di un legame tra donne che va e viene come l’ago nella stoffa, delle piccole rivincite che ciascuna e tutte si prendono su sorveglianti e padroni. In (D)istruzioni per l’uso di una macchina da cucire, Prado Bassi è riuscita a concentrare tutto questo: non solo forbici che tagliano e separano, ma fili che possono unire, legare, tessere, aiutare a resistere.


(Il manifesto, 13 gennaio 2024)

di Eugenio Giannetta


A conclusione dell’anno del centenario della nascita escono le lettere scambiate tra la poetessa premio Nobel e Filipowicz, anche lui scrittore


Si conclude tra pochi giorni, con la fine del 2023, il centesimo anniversario dalla nascita di Wisława Szymborska, poetessa, Nobel per la Letteratura nel 1996, con un volume che bene raccoglie tutta la sua ironia, la sagacia, l’acume e l’intelligenza, ma anche lo sguardo sul mondo, la profondità, la sensibilità, mostrando non solo la scrittrice ma la persona dietro alla scrittura, nonché il tempo e il luogo in cui viveva. Il volume si intitola Wisława Szymborska e Kornel Filipowicz – Meglio di tutti al mondo sta il tuo gatto. Lettere 1966-1985, pubblicato da Elliot edizioni (pagine 448, euro 25,00) con la traduzione dal polacco di Giulia Olga Fasoli.

Se Szymborska non ha bisogno di presentazioni, è bene invece dire brevemente due note su Kornel Filipowicz, scrittore, romanziere, sceneggiatore e poeta polacco, noto per la scrittura in forma breve. I due, Szymborska e Filipowicz, intrattennero un legame stretto e si amarono per oltre vent’anni, senza però mai abitare insieme. Questa distanza stimolò perciò un’intensa corrispondenza di lettere in cui si alternano toni divertenti a momenti lirici, elementi del quotidiano (il prezzo della carne, le medicine da prendere, i risultati delle battute di pesca di Filipowicz, ma anche personaggi di fantasia o secondari, come la signora delle pulizie, e alcune buffe schermaglie su piccole cifre di denaro che si devono a vicenda: «Kornel, mi devi 3,75». «Scusami, Wisława, ma ti ho già restituito 25 grosz!»), fino alle considerazioni sulla loro scrittura o su quella degli amici, poeti, scrittori, intellettuali.

Scritte in un lungo arco di tempo (1966-1985), le lettere attraversano alcuni grandi eventi storici come l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 (avvenimento che fu per entrambi particolarmente drammatico) e alcuni piccoli momenti della vita, matra le tante cose e figure, in queste lettere, emerge quella che dà il titolo al libro, ovvero il gatto di Kornel Filipowicz, che dopo la morte del suo padrone diventerà anche protagonista della celebre poesia di Szymborska Il gatto in un appartamento vuoto: «Morire – questo a un gatto non si fa».

Per meglio comprendere il tono delle lettere, per esempio, in Lettera per Striato, Szymborska scrive che «il mondo è senza pietà per i giovani gattini che tendono a fantasticare», e Filipowicz risponde: «La tua lettera a “Striato” è arrivata ieri, gliel’ho letta, ma non gliel’ho data in mano (nella zampa) perché avevo paura che la perdesse da qualche parte o che la nascondesse in modo tale che non la si sarebbe più trovata».

Nel volume, inoltre, sono riprodotti anche i collages, le cartoline e i disegni che spesso accompagnavano queste lettere, mostrando – ancora una volta – un lato meno conosciuto dell’universo della poetessa, che pochi mesi fa è stata anche protagonista di una mostra monografica a Genova proprio sui collage e le opere grafiche: è bene ricordare che Szymborska ha frequentato le avanguardie, era amica di Tadeusz Kantor, pittore, scenografo e regista teatrale polacco, uno dei grandi artefici dell’arte polacca contemporanea, e fin da giovane si è cimentata nel mondo dell’illustrazione, passando dai collages – ovvero quella che per lei era la dimensione più conviviale della creatività – realizzati con diverse combinazioni di parole e immagini.

Questo libro però è soprattutto un dialogo epistolare d’amore, un discorso ininterrotto fra due persone in là con gli anni (all’inizio della corrispondenza Szymborska aveva più di quarant’anni e Filipowicz più di cinquanta) colte nel mezzo della loro vita da un sentimento inaspettato, durato fino alla morte, perché «non si può vivere senza legami», per citare Baumgartner, protagonista dell’ultimo libro di Auster.

Per meglio contestualizzare il mondo in cui si muovevano queste lettere è necessario inoltre «ricordare che si tratta di una realtà precedente ai cellulari e a internet. Persino una telefonata da Zakopane a Cracovia costituiva un’impresa. Le uniche forme per comunicare – è scritto nella prefazione – rimanevano le lettere o i telegrammi e le uniche fonti di informazioni non censurate erano le trasmissioni radio occidentali e la stampa occidentale che non arrivava con regolarità, oppure una conversazione privata con qualcuno».

Come è spiegato nella nota all’edizione polacca, tutta la corrispondenza dei due si trova attualmente, per volere della Premio Nobel, nella Biblioteca Jagellonica a Cracovia e fa parte della fondazione che porta il suo nome. L’edizione italiana del carteggio, altresì, segue la struttura dell’edizione polacca, in cui alle lettere si alternano i commenti in corsivo, fondamentali per ricostruire il contesto dei riferimenti culturali, che comunque talvolta restano indecifrabili, poiché appartenenti al segreto del sentimento custodito dai due protagonisti delle missive.

«Ti bacio, amore, e ricorda le nostre conversazioni, Kornel». E così Wisława: «Desidero tanto che tu sia in buona salute e di buon umore. Il miagolio del tuo gatto attraversa la quiete della notte e arriva fino alla mia strada. Chi sta meglio di tutti al mondo è il tuo gatto, perché sta con te».


(Avvenire, 29 dicembre 2023)

di Mariacristina Pianta


Che cosa significa conversare sull’orizzonte? Non è facile rispondere perché i testi della raccolta non si limitano a descrivere o trattare argomenti significativi, ma cercano di andare oltre, di superare la realtà fenomenica per cogliere il nucleo della vita e delle cose. Le sezioni del libro presentano, in particolare, un elemento comune perché l’inizio del primo verso, in posizione di anafora, si ripete in molte poesie del medesimo gruppo: Capita, La luna lo sa, questo corpo a corpo, Anna, Vincent, Poi, In pagine mai scritte, Per certi versi. Questa tecnica ha l’obiettivo di sottolineare l’importanza di determinati argomenti e situazioni. Trovare aspetti che, analogicamente, si collegano vuol dire scoprire, nelle contraddizioni del nostro tempo e nell’angoscia dell’assurdo, delle coordinate di orientamento. È come se il famoso varco montaliano fosse vicino, quasi tangibile. Pensiamo a I limoni o a La casa dei doganieri, in cui pare di decodificare un messaggio o di dipanare l’aggrovigliata matassa nelle nostre mani. Allo stesso modo Antonella Doria, per mezzo di immagini incisive, affronta problemi, che coinvolgono il nostro io più profondo, ed enuncia tragedie di carattere sociale che si verificano quotidianamente: «Capita a volte / in un agosto come questo / con il cielo azzurro / corpi clandestini in / vortici di verdiblu cristalli / danzano una danza circolare». Sgomento, antitesi tra una natura amena (cielo azzurro) e corpi di migranti alla deriva sono maggiormente sottolineati dall’uso dell’enjambement (in /vortici), dai lemmi danza-danzano e dalla quasi totale assenza di punteggiatura. La parola è essenziale in un simile percorso, segnato da drammi personali e collettivi, perché travalica il suo potenziale espressivo. Come avviene nelle tele di Munch e di Bacon, una forza di notevole impatto cattura l’attenzione e permette di superare un discorso esclusivamente razionale per indurre ad effettuare un’analisi metalinguistica dell’opera.


(Odissea, 24 novembre 2023)


Antonella Doria                                               

Conversazioni sull’orizzonte                                               

Con una nota di Maria Enrica Castiglioni

Book editore pagg. 92 € 16,00

di Rita Bompadre


Traduzione italiana per la poetessa e mistica che sfidò le convenzioni e i pregiudizi della Persia dell’800: lasciò l’islam per la fede baha’i, fu imprigionata e uccisa per rappresaglia.

“Mostra il tuo Sole senza nubi, /scosta il velo dalla Tua bellezza. /Si smarriranno i saggi, /gli stolti rinsaviranno. /I dissennati si ravvedranno, /i sobri perderanno il senno inebriati. /Servi e padroni in un solo abbraccio; /non più servi, non più padroni.”

Questi versi appartengono alla poetessa iraniana Tahereh, nel libro Il tesoro nascosto a cura di Julio Savi e Faezeh Mardani (Jouvence, 2023, pp. 132, € 12.00). L’invocazione profetica della poesia di Tahereh riecheggia nelle pagine, nutrite dalla difesa di un percorso consacrato all’arte, nell’interpretazione mistica della vita, conferma il significato precursore dell’elevazione spirituale della preghiera rivoluzionaria, presenta un’orazione alla rivelazione, nei suoi versi, di un pensiero audacemente innovatore, traduce la voce del coraggio esibito in difesa della propria dignitosa fede. Il talento poetico di Tahereh sovrappone la forza della seduzione, nella lusinga di un’esultante femminilità, rincorre la via appassionata e provocatoria dell’emancipazione, sfida l’oscurità di un opprimente retaggio della mentalità, avvalora l’affascinante e luminosa promessa dell’indipendenza etica ed estetica, affrancata dalla tirannide, redenta dalla condanna remissiva delle convenzioni sociali e dai crudeli pregiudizi nell’Iran del XIX secolo.

La poetessa protegge il suo tesoro nascosto, simbolo di una costante e radicata lotta contro la sottomissione delle donne e le costrizioni severe delle superstizioni, tutela la venerazione della bellezza, assiste l’intensa esperienza di partecipazione all’identità divina del movimento del babismo, sostiene il rinnovamento morale e comunitario dell’Islam attraverso la viva attestazione del senso profondo della benevolenza. L’incontro con il Maestro fondatore della fede Bābi sovverte i canoni prestabiliti dell’esistenza della poetessa, rappresenta l’insegnamento fondamentale dei contenuti delle sue poesie, nell’esortazione a credere nell’attesa di un nuovo tempo, nella preparazione liturgica ed emotiva di una redenzione universale, nella catarsi interiore, nel riscatto della giustizia, nella soppressione della tirannia. Le poesie di Tahereh innalzano il valore metaforico di questi contenuti, edificano la purezza di una riflessione che assolve la sua finalità espressiva nell’assecondare l’amore contro l’odio, nel proteggere la sincerità della resistenza e soccorrere l’ardente verità dell’interiorità contro l’inganno dell’effimero. Tahereh con i suoi vividi testi porta alla luce la magnificenza dello splendore ascetico, nobilita l’entità essenziale della vita virtuosa, indica la sublime tendenza stilistica alla resurrezione della memoria e delle idee, recupera il rilievo intellettuale nella radicale necessità di una educazione che sollecita la parità dei diritti. Lo spirito sensuale e l’intensità dell’immaginario alimentano la grazia dell’incontro e il desiderio dell’amore, fanno da sfondo alla colta e raffinata cultura dei riferimenti celebrativi della scrittura che scorge la concessione dell’armonia, assecondando l’indugio nel sospiro sovrumano e il tormento nel mondo terreno. L’attualità suprema delle poesie di Tahereh coniuga l’autonomia esegetica del coinvolgente linguaggio, precede l’ammaliante devozione nei confronti di suppliche amorevoli e la brillantezza irresistibile dell’anima. “Il tesoro nascosto” è un recupero letterario prezioso, che oltrepassa le teorie apocalittiche del destino della condanna a morte e recupera la tenace perennità del messaggio che continua a esistere nella sconfinata, imperitura sovranità delle parole.


(satisfiction.eu, 24 dicembre 2023)


Nota della Redazione del sito: riguardo alla poetessa iraniana e la traduzione italiana dei suoi versi segnaliamo la trasmissione del 24 dicembre 2023 su RadioTre per la rubrica “Uomini e profeti”, un interessante colloquio con la traduttrice e il traduttore disponibile qui https://www.raiplaysound.it/audio/2023/12/Uomini-e-Profeti-del-24122023-265db120-2f15-4a0f-9f10-f37b322f7fb2.html

di Chiara Zamboni


Il libro di Annarosa Buttarelli tratta un grande tema che attraversa la storia dell’umanità. Non solo le religioni monoteiste lo pongono al centro dei testi sacri, ma, più concretamente, coinvolge la nostra vita quotidiana. È un tema che evidentemente gli esseri umani avvertono oggi come urgente, più che in altri tempi. Per fare due esempi. A casa, mi è stato mandato un altro libro sul male. Inoltre oggi, contemporaneamente a questa presentazione, ce n’è un’altra sullo stesso tema, nella sala dei comboniani.

Davvero c’è un bisogno profondo di trattare questa questione. Perché si è creato questo bisogno? Mi sembra per il fatto che si è rotto un equilibrio sia delle relazioni soggettive più elementari come quella tra donne uomini, sia a livello geopolitico. Siamo abbandonate alle nostre forze in un campo attraversato da forze contrastanti e senza regole. Inoltre, e per lo stesso motivo, c’è una intensificazione della violenza e della crudeltà, sia nelle guerre sia nei femminicidi.

Mi potreste chiedere a questo punto, «Ma il libro di Annarosa non è in particolare sul male. Il titolo parla chiaro, quello che interessa ad Annarosa è come le filosofe hanno trattato bene e male e come hanno cambiato di segno al modo di affrontarli». Eppure nel libro c’è una maggiore attenzione al male, forse perché se ne può parlare senza idealizzarlo e anche perché se ne sente l’urgenza. Comunque un merito del libro è di riuscire a parlare anche del bene senza nessuna idealizzazione.

Posso dire in generale che è un libro non moralistico, non propone valori da perseguire, critica chi pensa di salvare dal male facendo il bene.

Il libro sgombra subito il campo sottraendosi a un dibattito filosofico che attraversa la nostra civiltà. Quello per intenderci che ha trovato nelle categorie linguistiche e ontologiche di Sant’Agostino la sua espressione più nota, per cui il male è il non essere e il bene è l’essere, e ciò che è desiderabile per noi. E si sottrae anche all’altra grande concezione del rapporto tra bene e male come un conflitto tra due entità con forza ontologica propria, per cui bene e male hanno entrambi realtà e sono contrapposti sia in Dio sia nel mondo. Penso in particolare alla religione persiana e ad alcuni filosofi. Il libro si avvicina se mai a una concezione più moderna per cui bene e male dipendono dal giudizio soggettivo.

Riguardo a questo giudizio Annarosa introduce un pensiero originale: è Eva, che ha offerto all’umanità non tanto l’opposizione del bene al male, bensì il discernimento, il saper distinguere l’uno dall’altro assieme al pensare, di cui abbiamo bisogno per fare questo discernimento. Mangiando il frutto della conoscenza, Eva ha insegnato a discernere e dunque a giudicare cosa sia bene e cosa sia male. Ma, aggiunge Annarosa, Eva è una donna e di conseguenza l’effetto del suo dono non è quello di costruire un sistema filosofico o religioso, bensì sapersi orientare concretamente nella vita.

La vita è un percorso. Risulta fondamentale saper discriminare ciò che è bene – ciò che fa bene alla nostra vita – da ciò che è male, cioè ciò che fa male prima di tutto alla nostra vita, ma anche alla vita comune. Facendo così ci muoviamo a vista e affrontiamo quello che accade per quello che accade. Così come accade, senza generalizzare.

In questa prospettiva il libro si presenta come il tentativo – davvero riuscito – di suggerire una serie di pratiche concrete che permettono quel muoversi a vista in questo processo senza cadere nella posizione idealistica di combattere il male con il bene.

Prima di inoltrarmi in alcune delle pratiche (ovviamente, molte altre le trovate nel libro) che Annarosa descrive, quello che emerge dal testo è una concezione assolutamente non dialettica tra bene concreto e male concreto. Non simmetrica. Per me questa è stata una chiave per capire la sua scommessa.

Se da un lato le pratiche del fare il bene e le pratiche di salvaguardarsi dal male vengono valorizzate per il loro essere dei suggerimenti per come comportarsi in contesto, dall’altro vengono inscritte in due mondi paralleli, senza nessun rapporto tra di loro. Senza dialettica reciproca.

Si può leggere questo libro come un diario di bordo, con un insieme di avvistamenti di scogli pericolosi, e proposta di azioni conseguenti.

Un primo scoglio pericoloso è individuato da Annarosa in quell’esperienza che Simone Weil chiama malheur e che in genere viene tradotta con sventura. Si tratta di quando ci capitano addosso degli eventi che tagliano le nostre radici, ci privano di energia, ci espropriano delle nostre possibilità. Rispetto al senso comune, lo spostamento di senso che Weil opera è che questi eventi esproprianti non sono il male. Capitano e dunque sono dell’ordine della necessità. Né bene né male in sé. Ma risultano invece pericolosi per le conseguenze che possono provocare negli esseri umani, che per salvarsi dal dolore di questa costrizione, attaccano gli altri, mettono in atto invidia, rancore. Sterili strategie a scapito altrui. Come i capponi di Renzo, nei Promessi sposi, che «si ingegnavano a beccarsi l’un l’altro, come accade troppo sovente tra compagni di sventura».

Saper distinguere l’evento espropriante dal dolore che se ne prova e dalle reazioni che allora quasi inconsapevolmente si mettono in atto per aggirare questo dolore è una pratica difficile, ma essenziale nella nostra vita.

Un secondo scoglio pericoloso è agire per fare il bene, avendo in mente il bene e non l’azione che si compie. La retorica del bene è vuota, mentre il bene si vede solo nell’azione efficace. Negli atti e non nelle intenzioni. Trovo molto giusta questa focalizzazione del bene visto nelle azioni concrete e solo lì coglibile. L’esempio è quello della parabola evangelica del Samaritano così come la interpreta Françoise Dolto. Il samaritano aiuta il viandante, ferito e spogliato sulla strada dai banditi. Lo affida a un albergatore dando dei soldi, perché abbia quello che serve. Poi se ne va. Non aspetta riconoscenza o altro. Non lo fa per fare il bene, ma perché vede la necessità dell’altro e si mette nei suoi panni: la prossima volta potrebbe capitare a lui su quella strada. Il bene non è nell’intenzione ma nell’azione. Ha a che fare con un agire necessario. Il samaritano si è immaginato al posto di un altro. Lo aiuta, ma senza perdere tempo oltre quello che occorre. Non devia dalla sua strada se non per poco. Il samaritano non aspetta gratitudine. Il debito simbolico che il viandante ha contratto nei suoi confronti può essere saldato facendo per un altro quello che il samaritano ha fatto per lui. Se e quando capiterà l’occasione. Questo significa per Dolto partecipare ad una corrente d’amore, che è cosa ben diversa dall’agire per il bene.

Questa dimensione pragmatica, che sta alla necessità, e ha attenzione al contesto in cui ci si muove è proposta da Annarosa anche rispetto a situazioni che avvertiamo scottanti. In realtà un vero e proprio nervo scoperto del nostro tempo. Che fare rispetto a coloro che intenzionalmente minacciano la nostra integrità, e che dunque rappresentano il male per noi singolarmente? Quale la pratica che lei suggerisce?

L’immagine ricorrente nel testo è ovviamente quella delle donne che subiscono violenza dai compagni, dai mariti, e che porta in troppi casi al femminicidio. A questo tema dedica molte pagine verso la fine del libro. Ma più in generale propone una pratica molto precisa che riguarda anche altri contesti come quello del lavoro. Comunque, dove accade che veniamo minacciate nella nostra integrità.

La pratica consiste in due passi che consistono nel sottrarsi a questa situazione materialmente, andandosene, e nel non cercare di comprendere l’altro che ci minaccia interiormente. Comprenderlo significherebbe infatti sviluppare un sentimento di compassione che in genere viene adoperato dall’altro per rilanciare la propria minaccia e non libera dal vincolo. In questi casi cercare di capire l’altro, mentre si è all’interno del vincolo, destruttura interiormente e allo stesso tempo rilancia dialetticamente la crudeltà dell’altro nella relazione vischiosa e mortifera.

È una pratica che sta molto a cuore ad Annarosa. Paradossalmente, chiedere il perché l’altro ci fa del male e cercare di capirlo ci consegna ancora di più alla violenza che egli agisce su di noi. Rinforza la sua minaccia.

Trovo molto saggia questa pratica che Annarosa suggerisce. Porto un esempio personale in cui ho fatto esattamente così. Riguarda il lavoro. All’università per un anno ho lavorato con un docente universitario. Lo sentivo minaccioso della mia vita interiore. Altri non lo percepivano in questo modo, dunque il vincolo era tra me e lui. Era molto obliquo. All’interno del lavoro universitario mi considerava una pedina da usare sulla scacchiera accademica. Pensava di adoperarmi come testa di ponte per distruggere i suoi nemici filosofi. Riguardo al mio stile di vita, insisteva che rientrassi in famiglia e facessi una vita “normale”. Appena ho potuto mi sono sottratta al rapporto di lavoro con lui. Senza scontrarmi ma anche senza cercare di capire questa dinamica. Senza cercare di comprendere la sua psicologia. Mi sono “messa in salvo”. Il senso dell’integrità di sé è molto più importante dell’aver ragione o dell’esprimere un giudizio morale. Poi, solo quando non c’è stato più nessun rapporto, ho cercato di capire, confrontandomi con altre persone, che avevano lavorato con lui. Quindi trovo sacrosanta la pratica che Annarosa descrive nel libro e su cui giustamente insiste molto.

Descrivo ora un altro piano del libro che si ferma sulle reazioni dell’animo umano sottoposto a organizzazioni del lavoro malate. Direi che conoscere, comprendere e pensare è anche un dono di Eva. Non si tratta dunque solo di proporre pratiche concrete, ma del piano della comprensione della realtà umana e le sue trasformazioni antropologiche. Annarosa prende come guida in questo allargamento al piano dell’organizzazione della società sia La banalità del male sul caso Eichmann di Hannah Arendt sia Lingranaggio siamo noi di Christophe Dejours.

Mi sono occupata a lungo del meccanismo dell’organizzazione della governance tipico del neocapitalismo, perché l’ho visto imposto all’università, trasformandola, dal 2010 in poi.

È un meccanismo per cui ogni lavoratore è coinvolto nel governo dell’istituzione in cui lavora. Viene creata una ragnatela, per cui ognuno è responsabile di una commissione, risponde alla persona gerarchicamente superiore e ha la responsabilità di inferiori. Questo coinvolgimento di tutti fa sì che nessuno possa tenersi fuori dal governare quella piccola realtà, ma allo stesso tempo non si può contrattare il senso generale di quello che si sta facendo e delle finalità dell’organizzazione. Si è presi da un meccanismo le cui linee generali non possono essere discusse. Prima c’era chi governava un’istituzione e chi era governato. Invece ora tutti governano in legami capillari, improduttivi (le commissioni), per cui scompare alla vista chi governa davvero. L’ideologia della trasparenza significa che tutto quello che si fa deve essere mostrato. Ma non viene mostrato chi davvero prende le decisioni. Il sentimento indotto è quello di essere sempre responsabili, con il peso che questo implica, e a fronte dell’effettiva sterilità di tanto lavoro trasparente, perché presto ci si rende conto che le cose avvengono altrove. Tutto questo fa ammalare gli animi.

Annarosa riprende la figura di Eichmann descritta da Arendt e dà delle chiavi di lettura per capire la realtà organizzativa che ho appena descritta. Innanzitutto il fatto che Eichmann era preso da grandi emozioni e non ricordava gli eventi concreti. Mentre ritornare alla storia di una organizzazione del lavoro, alla sua genesi, getta luce su come ne siamo stati coinvolti. Inoltre Eichmann mancava totalmente di empatia. Si rivolgeva ai giudici israeliani che aveva di fronte pensando di portarli dalla sua parte dicendo che anche loro come lui avevano cercato di fare carriera se ora occupavano quel posto. Senza tener conto che era accusato di aver organizzato lo sterminio di milioni di ebrei. Come ebrei erano quei giudici. La mancanza di empatia nelle organizzazioni impedisce di valorizzare i legami sostanziali, autentici, rispetto a quelli formali imposti. Eichmann agiva in modo contraddittorio senza assolutamente rendersene conto. Diceva di essere amico degli ebrei. Ma aveva organizzato alla perfezione i treni verso i campi per il loro sterminio. Le due realtà in lui non stridevano. Nei comportamenti che ho notato nella governance diffuso è il passaggio da una posizione a un’altra senza dover pensare, cioè senza giustificare il passaggio di fronte a sé stessi e agli altri.

Mentre Arendt dice: Eichmann mancava di spazio politico e di pensiero, Annarosa invece dice di lui: mancava di attenzione alla realtà, l’unica forma di bene in atto che possiamo riconoscere.

Su questo arrivo al punto essenziale del libro che si trova nelle pagine dedicate da Annarosa a Iris Murdoch. Il vero bene è l’attenzione alla realtà, il che implica empatia. Attenzione alla realtà è anche accettare le contraddizioni che si vivono, senza nasconderle prima di tutto a sé stessi. E senza coprire l’esperienza vivente con parole finte.

Anche l’attenzione alla realtà è una vera e propria pratica, rimanendo quello delle pratiche il filo conduttore che ho trovato nel libro di Annarosa. 


(www.libreriadelledonne.it, 20 dicembre 2023)

di Ilaria Gaspari


A cinquant’anni dall’incidente in cui la poetessa perse la vita, il ricordo del fratello minore. La risalita dopo la rottura con Max Frisch. «Era rigorosa, severa. Le interviste la mettevano a disagio, ma ne ho ascoltata una in italiano e sembrava meno timida»


Nell’autunno del 1973, cinquant’anni fa, Ingeborg Bachmann moriva in una stanza asettica del reparto Grandi ustionati all’ospedale romano di Sant’Eugenio, per le conseguenze del rogo accidentale innescato dalla brace di una sigaretta. Aveva quarantasette anni e da venti, con varie interruzioni, abitava a Roma: aveva traslocato molte volte, spostandosi dal centro ai Parioli, dove visse per qualche tempo con lo scrittore Max Frisch, poi di nuovo in centro. Alla sua morte, Heinrich Böll dichiarò di «pensare a lei come a una ragazza»: parole che Heinz Bachmann, il fratello di tredici anni più giovane, che Ingeborg adorava, riprende nel libro di ricordi che le ha dedicato (Ingeborg Bachmann, meine Schwester), pubblicato da Piper, storico editore delle opere di lei. Heinz, geologo, ha viaggiato in tutto il mondo e oggi vive a Oxford con la moglie Sheila – c’è nel libro una foto del loro matrimonio, nell’agosto del ’71 a Paddington, in cui sorridono insieme a Ingeborg splendenti di felicità.

Noi che amiamo lopera di sua sorella, non possiamo che esserle grati per averci donato questo ritratto affettuoso.

«Mi fa molto piacere. Forse, mi dico, ho fatto la cosa giusta. Sa, non è stato facile scriverlo, io sono uno scienziato e ho uno stile… da scienziato. Ho cominciato con l’idea di dover essere obiettivo al massimo. Lette le prime pagine, dalla casa editrice mi hanno fatto notare che doveva essere invece il racconto di un’esperienza molto personale. Ho dovuto cambiare completamente stile. Ma ci tenevo a scrivere qualcosa che potesse trasmettere un’immagine completa di mia sorella, raccontarla com’era quando non stava sotto gli occhi del mondo. Era molto nota: in Austria era una celebrità. Non poteva uscire senza essere riconosciuta. Pensi che all’epoca le persone mi fermavano…».

In quanto fratello di Ingeborg?

«Sì! Ora magari non si direbbe, perché sono un vecchio signore. Ma da ragazzo, la nostra somiglianza era così evidente che spesso le persone, incontrandomi la prima volta, mi dicevano: “Oh! tu devi essere il fratello”».

Nelle fotografie della giovinezza vi somigliate molto. È vero che non sappiamo che viso avrebbe avuto lei, se fosse vissuta fino a poter invecchiare… Negli anni, in assenza di Ingeborg, è cambiato il suo modo di leggerla?

«Per me è sempre stato molto importante non solo leggerla, ma cercare di comprendere il suo sforzo di trasmettere le sue idee in un modo nuovo. Negli anni ’50 e ’60 si distingueva davvero, si era inventata un suo stile. Sono cresciuto con le sue parole, che hanno contribuito a modellare il mio pensiero. Ora, più li rileggo, più i suoi testi, che mi hanno reso quello che sono, continuano a rivelarmi aspetti – di lei, di me – che non avevo ancora compreso».

Nel 1962, andò a trovarla a Roma e le scattò una serie di fotografie bellissime che spesso compaiono sulle copertine dei suoi libri. Immaginava che sarebbero diventate così celebri?

«Come fotografo ero un principiante assoluto, e a dirla tutta non è che poi abbia fatto grandi progressi. Ma ho scattato quelle foto con amore. È raro che su oltre settanta scatti la maggior parte sia quasi perfetta. Capita che il soggetto chiuda gli occhi, ad esempio, per una frazione di secondo. Invece sono venute quasi tutte bene. Lei era felice che l’esperimento fosse riuscito, io anche: non ho mai fatto foto tanto belle in vita mia, né prima né dopo. Un colpo di fortuna. Comunque, oltre alla serie scattata da me, rimangono tante fotografie di lei. Nell’archivio Frisch c’è una foto di loro due insieme sulla terrazza di via De’ Notaris [dove vissero insieme, ndr], scattata da Mario Dondero, in cui lei porta un vestito con la gonna a losanghe: ne abbiamo ritrovata un’altra di lei sorridente con lo stesso vestito, sembra proprio una ragazza. È la foto a cui penso quando penso a lei».

Qual era il tratto principale della sua personalità?

«Parecchie persone sono convinte che fosse molto seria, quasi severa. In realtà, anche se certo pensava con una logica limpida, rigorosa, era soprattutto divertente. Amava raccontarci piccole storie buffe. Persino dopo la rottura con Max Frisch… È vero, ha vissuto un periodo cupo, ha sofferto. Ma man mano che si riprendeva dallo shock, i suoi tratti più felici sono riapparsi. Per noi vederla rifiorire è stato bellissimo. Parlo per me e per Isolde, la sorella di mezzo».

Isolde e Ingeborg avevano solo pochi anni di differenza.

«Isolde è in vacanza in Grecia. Ha 95 anni. Viaggia da sola, è molto in forma».

Nellautunno 73, mentre Ingeborg era ricoverata al SantEugenio, il marito di Isolde, Franz, morì in un incidente stradale, lasciandola sola con sei bimbi…

«Una coincidenza tremenda. Per molti anni non sono riuscito a parlare di quel periodo. Oltretutto si era diffuso il sospetto che mia sorella fosse stata uccisa: era completamente assurdo, ma è una cosa che succede, quando muoiono persone famose. Si spargono le voci più incredibili. E accadeva anche prima dei social media».

A proposito: sua sorella era felice di essere famosa? In molti filmati sembra timida.

«Era timida. Le interviste la mettevano a disagio, e credo che la sua reputazione di persona molto seria sia nata anche da questo. Intellettualmente, come dicevo, era seria, sì: ma nella vita di tutti i giorni veniva fuori la sua personalità buffa, aperta. Recentemente ho ritrovato un’intervista in cui parla in italiano. È così diversa rispetto a quelle in tedesco! Sembra molto più felice, a suo agio, spumeggiante».

Ci sono registrazioni in cui legge poesie in un bellissimo italiano: aveva tradotto Ungaretti, era ormai la sua seconda lingua. E nel documentario-intervista girato da Gerda Haller nella sua ultima estate, ride molto. Ha visto il film che le ha dedicato Margarethe von Trotta, Viaggio nel deserto?

«Prima di iniziare la lavorazione la regista mi ha voluto incontrare, abbiamo parlato a lungo. Quando ho visto il film, sono rimasto affascinato. Mostra i suoi due lati. La sua attitudine alla felicità. E la malinconia».

Vicky Krieps, lattrice che linterpreta, mi è parsa molto convincente. Ma non so che effetto possa aver fatto a lei…

«Incredibile. È stato sconvolgente. Il modo di muoversi, la postura… la voce. Mi è sembrato di sentire mia sorella».

Nel film, Ingeborg appare molto sola in un mondo intellettuale ancora dominato dagli uomini.

«Sì. C’è una scena in cui fa un discorso davanti a una platea di soli uomini, anziani, austeri. Mi ha fatto ripensare a una lettera che ci aveva spedito a casa – ce ne mandava di molto divertenti. Diceva: “Sono sempre insieme a questi uomini, a parlare con loro di cose serie, e intanto le loro mogli se ne stanno lì sedute a bere il caffè”».

È stata una pioniera: una poetessa, donna, sulla copertina dello Spiegel nel 54. Ma nella vita non è stata sola: ha avuto molte amiche. Volevo chiederle di Maria Teofili, che a Roma per anni lha aiutata a gestire le faccende pratiche. Era una buona amica, credo…

«Molto. È morta qualche anno fa. L’ho incontrata diverse volte quando sono stato a trovare mia sorella a Roma. E ci ha dato una mano anche all’epoca dell’incidente: quando abbiamo dovuto liberare l’appartamento di Palazzo Sacchetti, con Sheila, lei era lì ad aiutarci. La comunicazione era un po’ difficile, perché io non parlavo italiano. Ma so quanto è stata importante per Ingeborg».

Ho incontrato varie persone che lavevano conosciuta, come Ginevra Bompiani, Moshe Kahn… ma anche chi lha amata attraverso la sua opera. Ogni volta ho la sensazione di un legame speciale, affettuoso. Credo che sia dovuto al fatto che la sua scrittura è toccante in un modo che non può lasciare indifferenti. Capita anche a lei di avere questa percezione?

«Mi piacerebbe che chi la legge potesse comprendere quanto fosse straordinaria non solo sul piano intellettuale, ma anche umano. Non era una persona astratta, era una donna gentile. Chi l’ha conosciuta lo ricorda, solo che il tempo passa e sono sempre meno le persone che hanno avuto l’occasione di frequentarla. Ma spero che la sua immagine viva per sempre».


(Corriere della sera, 18 dicembre 2023)

di Pat Carra


È in libreria Libellule nella rete (ed. Zona 42), il romanzo di fantascienza di Loretta B. Angiori, pseudonimo di Loretta Borrelli (Angiori è l’acronimo delle iniziali delle sue sorelle). Sviluppatrice web e teorica critica della tecnologia, Loretta scrive importanti saggi e tiene corsi nelle accademie sulle arti multimediali. Tra le sue numerose partecipazioni a gruppi politici a cominciare dagli anni ’90, è cofondatrice di Erbacce e prima di Aspirina: dal 2013 è stata l’anima e la maestra digitale delle nostre riviste, e ha ispirato i fumetti La bracciante digitale. In redazione abbiamo imparato a perderci nel suo pensiero labirintico, incline ad aprire finestre su finestre su finestre, più che a tirare conclusioni e trovare facili soluzioni. Spesso ci è apparsa come un’avanguardia troppo in anticipo: affidandoci a occhi chiusi, abbiamo aperto gli occhi.

Libellule nella rete è il suo romanzo di esordio, nato dal bisogno di staccarsi dall’astrazione teorica per riuscire a raccontare il mondo dominato dalle macchine e le trasformazioni tecnologiche intese come sintomi di trasformazioni più vaste: della natura, delle emozioni, dell’espressività, del lavoro, dell’inconscio. La sua passione per la fantascienza, che spazia da Ursula Le Guin a Donna Haraway a Orwell, le ha offerto la chiave.

Il punto di partenza del libro è una critica alle utopie della Silicon Valley e dell’intelligenza artificiale, utopie basate su teorie come l’“utilitarismo radicale” che, mosso da un “altruismo effettivo” sogna di organizzare una società acquiescente oppure, all’opposto, utopie basate su teorie come l’“accelerazionismo effettivo” che spinge per l’automazione totale del lavoro. Dietro queste filosofie ci sono persone reali, potenti gruppi di estrema destra che con il loro progetto anarcocapitalista o millenarista hanno un grande peso nel sistema economico e politico statunitense e anche nel nostro. Senza dimenticare che dall’altra parte del mondo c’è il progetto comunista-capitalista della Cina.

Nel romanzo, Loretta costruisce una società della catastrofe in cui queste utopie hanno vinto su tutta la linea, i redditi e le organizzazioni economiche sono regolamentati, l’IA semplifica il lavoro e le valutazioni dei comportamenti, tutto è automatizzato e sotto controllo, i sistemi di monete e di crediti sono assolutamente trasparenti, quindi blockchain, interoperatività e decentralizzazione dei sistemi e così via.

Le protagoniste sono Rei, una microinfluencer che abita in una metropoli come tante (potrebbe essere Milano), e Chiara, amministratrice di sistema che vive in una comunità autogestita di montagna, Piana di Urlele. Le loro storie si alternano, nei capitoli dispari Rei è raccontata in terza persona, in quelli pari Chiara è l’io narrante. Le due donne sono destinate a incontrarsi e a mettere in discussione molte certezze, in uno spazio-tempo del futuro che è l’essenza stessa del nostro presente: la catastrofe climatica, lo strapotere delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale, la solitudine, la depressione, la sofferenza psichica nel tardocapitalismo della sorveglianza.

In questo universo Rei «si sentiva spesso distrutta e assente, svuotata. Spesso provava una grande noia sfogliando i contenuti della rete, ignorava le interazioni con altri utenti. Le sedute di supporto psicologico non l’aiutavano a identificare le cause del suo malessere». Per questo Rei si rivolgerà, come altri, alle stanze per il supporto emotivo della misteriosa Sight Holding, società apparentemente clandestina.

L’altro mondo, la comunità di Urlele e alcuni spazi periferici e notturni che Rei si trova a frequentare, evocano i gruppi di hacking nati per condividere la conoscenza, il cyberpunk italiano, i centri sociali, i movimenti ambientalisti e anticapitalisti, il femminismo che mette le relazioni al centro del cambiamento. A Urlele appaiono le libellule che per Chiara «sono simbolo del rapporto tra forze a volte divergenti, altre volte convergenti, sempre positive per le trasformazioni. I cambiamenti che sognavamo dovevano stare agli obblighi del mondo che ci circondava, ma spesso desideravamo volare in modo imprevedibile».

Nel romanzo divergono e convergono, appunto, le prese di coscienza che aprono spazi di libertà, riconoscendo dall’interno del sistema i punti di rottura su cui l’azione diventa possibile. La tensione politica sottesa è sempre fortissima e permette, anche a noi che leggiamo con il fiato sospeso, di restare nella rete senza cadere nella rete. In alcune pagine il linguaggio informatico è complicato e viene il dubbio, a chi non ne conosce i codici, che sia tutta una finzione. Si tratta invece di un idioletto, un sistema linguistico comprensibile a una comunità, che potrebbe corrispondere a verità pur restando ermetico ai più. Queste pagine saranno lette in modo differente da esperti o profani, ma poco importa nel flusso narrativo.

Le libellule sono «fuoco al di sotto dell’acqua», creature che mettono in comune desideri e conoscenze: hacker, femministe, filosofi e attivisti, robot chiamati Mer che raccolgono le fragole e capiscono gli alberi, amiche che preparano cene, adolescenti inquieti, una bambina pasticciona e una madre ansiosa, i manifestanti anonimi nella città alluvionata, il libraio che vende manoscritti…

Durante la presentazione alla libreria Anàrres a Milano, Loretta ha citato la celebre frase di Fredric Jameson ripresa da Mark Fisher «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», estendendola al patriarcato. Da quando le donne non hanno più dato credito al realismo capitalista-patriarcale e hanno immaginato e desiderato altro, è iniziato il declino di un potere che sembrava eterno e immutabile. Se questo nuovo mondo possibile è considerato fantascienza, Loretta lo fa suo e dichiara “Io sono fantascienza”.


Domenica 10 dicembre alle ore 12 – Libreria Tuba, Via del Pigneto 39, RomaIncontro con Loretta Borrelli e Elena Giorgiana Mirabelli, modera Barbara Leda Kenny


(Erbacce, 4 dicembre 2023)

di Roberta De Monticelli


È questa settimana in libreria “J’Accuse”, un libro di Francesca Albanese – relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati – in conversazione con Christian Elia (Fuori Scena, RCS) che offre in sette brevi capitoli un glossario per capire che cosa è successo in Palestina e in Israele. Pubblichiamo un estratto della postfazione.


Gaza non c’è più – è solo un ammasso di dolore e rovina. Un’apocalisse è in corso, in tutti i sensi della parola. Una rivelazione, soprattutto. Non solo degli estremi di cui siamo capaci quando i vincoli del diritto e della civiltà sono violati. Ma anche dell’altra faccia della splendida luna di Israele, la faccia che era nell’ombra: la Palestina. Ora l’altra faccia della luna, tremenda, è nella luce della nostra coscienza, a dispetto del taglio totale di elettricità e connessioni imposto – come se solo la tenebra potesse essere testimone di un sacrificio umano così senza limiti e senza senso. E invece mai così visibile, mai così scoperchiata in tutta la sua tragedia, è oggi la storia intera della nascita e della crescita di Israele nella terra che fu la Palestina storica, delle vie che la costruzione di quello stato ha imboccato e sempre più sistematicamente perseguito, del dolore che queste scelte, non inevitabili, hanno causato: dal lato oscuro della luna soprattutto, ma anche dal lato lucente, in uno stillicidio di veleno e morte. Un dolore che oggi giunge al suo insopportabile zenit.

Dice un grande scrittore che un libro deve essere «un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi» (Franz Kafka). Questo J’Accuse dovrebbe essere un’ascia del genere per ciascuno di noi. Che sia almeno uno scalpello sottile, un cesello addirittura, che con la lama del diritto incida nella profondità della memoria, perché possiamo imparare che terribile cosa sia stata la nostra indifferenza fino ad oggi, e come ogni giorno del nostro ignorare la faccia oscura della luna, ogni ora del nostro silenzio, abbia portato un po’ di energia alla bomba atomica del male che ora sta distruggendo la nostra umanità, insieme ai corpi degli innocenti.

Lo scritto che avete in mano discende direttamente dall’ufficio di un «funzionario dell’umanità»: perché tale, nella sua indipendenza che lo solleva al di sopra dei funzionari stipendiati, è una relatrice speciale delle Nazioni Unite, e ben si adatta al suo ruolo questo appellativo che Edmund Husserl riservava agli eredi di Socrate.

Questo J’Accuse è scritto in nome degli ideali e delle corrispondenti norme e istituzioni che la comunità internazionale si era data per prevenire e spegnere le guerre; perché dov’era la selva geopolitica delle potenze sedesse il governo della legge, il diritto internazionale e i suoi organi di garanzia; perché dov’erano le radici di sangue e di terra delle nazioni scendesse il balsamo della ragione, e tutti noi ricordassimo le radici di carta e pensiero piantate in noi per sostenere la nostra umanità al di sopra degli strati di risentimento, dolore, impunità e violenza che ci salgono ormai alla gola.

Forse è ancora possibile. Che il dono dei vincoli di ragione, accolto dalla parte migliore della tradizione umanistica e della filosofia e infine dalla comunità internazionale, prevalga: e sventi questa ulteriore catastrofe del mondo globale di cui l’Europa annunciò, con le sue guerre novecentesche, l’avvento. Perché ciò che separa, nel mondo intero, il sottilissimo strato di civiltà per cui soltanto possiamo dirci umani dal sottostante oceano di stupidità e ferocia che ci minaccia, è solo l’impegno a brandirle, le carte di cui queste radici sono fatte, invece di brandire le armi.

Che vuol dire: rianimarle del nostro soffio, queste carte e questa lettera che solo lo spirito fa viva. Rianimarle del soffio per cui soltanto l’ideale eccede sul reale, e il valore sul fatto – e soprattutto la ricerca, il dubbio, la veglia critica e la trasparenza logica eccedono sul dogma, l’urlo tribale, la furia ideologica. Eccedono, vuol dire: non si lasciano ridurre a. Eccedono, solo per un soffio. Senza questo soffio, la nostra umanità è perduta. Mi pare che a questo bivio siamo, oggi.


(Il manifesto, 1° dicembre 2023)

di Alessandra Sarchi


Il 3 ottobre 2020 inaugurò alla National Gallery di Londra un’imponente mostra dedicata ad Artemisia Gentileschi (Roma, 1593 – Napoli, 1653 circa) a cura di Letizia Treves; era la prima monografica mai dedicata a un’artista donna dalla prestigiosa istituzione londinese. Non era peraltro isolata, numerose altre nel corso degli ultimi trent’anni si erano susseguite e altre ne sarebbero venute, sparse per i musei europei, come ad esempio quella da poco aperta al Palazzo Ducale di Genova a cura di Costantino D’Orazio.


La crescente fortuna critica di questa pittrice che nel 1916, quando Roberto Longhi le dedicò un articolo insieme al padre, il ben più noto Orazio Gentileschi, contava un catalogo che non superava la decina di dipinti, mentre oggi è quasi decuplicato (come il loro prezzo peraltro), è intrecciata a doppio filo a quella del romanzo a lei dedicato da Anna Banti, uscito nel 1947 e ora ripubblicato da Mondadori per la cura di Daniela Brogi che firma un’introduzione e un saggio finale accompagnato da immagini di alcune opere pittoriche, impegnandosi in un corpo a corpo con le due facce di quest’erma bifronte: la biografia romanzata di una pittrice e l’invenzione-rivelazione della scrittrice Anna Banti, nata Lucia Lopresti, coniugata Longhi (Firenze, 1895 – Massa, 1985).

Fin dall’incipit – «Non piangere» – le due voci sono infatti sovrapposte: quel tu poetico che interpella il lettore si rivolge tanto alla scrittrice Anna Banti, che ha perso il primo manoscritto del romanzo nei bombardamenti su Firenze, fra il 3 e il 4 agosto 1944, quanto alla ragazzina di grandissimo talento che nel 1612 dovette sostenere un processo per lo stupro subito da Agostino Tassi, il pittore al quale il padre Orazio l’aveva affidata per migliorare la sua arte.

L’alternanza fra queste due voci, il loro frammentario parlarsi in controcanto fino a fondersi talvolta, insieme alla temporalità mai lineare sempre tesa fra presente e passato, costituiscono alcuni elementi con cui Banti costruisce un romanzo che a pieno titolo Brogi definisce modernista e anticipatore di molti dispositivi narrativi in cui l’io si parcellizza e si sdoppia, nelle acrobazie della biofiction o autofiction che tanto successo hanno goduto in tempi recenti.

«Artemisia è il nome di una pittrice, dunque; è il titolo di un libro; è il simbolo di battaglie contro la violenza sulle donne; è, infine, il nome di una finzione romanzesca. Artemisia però non è un saggio, né un romanzo storico e nemmeno una biografia classica, ma un testo di invenzione in cui si rielaborano documenti d’archivio studiati direttamente, intrecciandoli a competenze storiche, letterarie e critiche», scrive Brogi con una sintesi che è già strumento di lettura tanto del romanzo quanto della figura di Banti, ingiustamente lasciata ai margini del canone letterario. Artemisia non fu un esordio per Banti, ma il romanzo in cui sigillò quella che divenne poi la sua cifra peculiare: «Scrivere di quello che la Storia tace a sé stessa». Utilizzare tutto il bagaglio della sua formazione storico-artistica per attraversare il tempo, restituire voce a una pittrice poco conosciuta come Artemisia o ai garibaldini della spedizione dei Mille in Noi credevamo (1967).

Quanto debba essere stato faticoso e ostile il passaggio dalla storia dell’arte, e dal ruolo di moglie del celebre Roberto Longhi, a quello di scrittrice in proprio si capisce dall’ultimo libro di Banti, Un grido lacerante (1981). Ma è proprio la consapevolezza di come il genere sia decisivo per una donna, nella lotta per l’affermazione di un linguaggio proprio e di una carriera artistica, ciò che Banti trasferisce dalla sua esperienza a quella di Artemisia, rendendola viva ai nostri occhi. E se è vero, come ricorda Brogi, che la vicenda dello stupro viene fornita fin da subito nell’avvertenza al lettore: «Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro», scrive Banti, è altrettanto vero che la scrittrice decide con una efficacissima ellissi di non raccontare nei dettagli stupro e processo, pur avendone lei stessa trascritto le carte nel 1939. Felice scelta stilistica, tanto più apprezzabile se confrontata con la centralità voyeuristica e distorta data alla vicenda nella versione cinematografica di Agnès Merlet, Artemisia. Passione estrema (1997) o nel romanzo di Susan Vreeland, La passione di Artemisia (2002).

Banti muove, viceversa, dalla precisa intenzione di dare una forma al destino e alla vocazione della pittrice che non fosse schiacciata dalla violenza patita: Artemisia infatti non se ne fece schiacciare, ma seppe attraversarla e rielaborarla, e non dovette essere facile per una giovane donna marchiata dalla vergogna e dalla riprovazione sociale. Il dipinto, ora a Pommersfelden, Susanna e i vecchioni, un tema su cui la pittrice tornò più volte, le due versioni della Giuditta e Oloferne, ora agli Uffizi e a Capodimonte, esprimono questo attraversamento della violenza, subita in prima persona e incistata in una società in cui, a quattro secoli di distanza – commenta Brogi – «il paradigma storico culturale e simbolico che equipara prepotenza e virilità è ancora in piedi». Un confronto con i medesimi soggetti trattati da artisti uomini, Caravaggio ad esempio, ci dà la misura di quanto lo sguardo maschile sfumi i contorni della violenza, idealizzando il corpo femminile, mentre Artemisia fa vibrare il sangue, la ripulsa, la paura; nella sua pittura le storie delle eroine bibliche diventano storie quotidiane delle donne.

Banti con acuta cognizione di causa rifugge la prosa d’arte e le descrizioni ecfrastiche, viceversa ricostruisce il lavorio incessante dello sguardo pittorico di Artemisia in brani come questo: «Una bella occasione, questa lucerna, recata a mano da una donna bianca e bionda, che a ogni passo forma un’ombra bizzarra: un’occasione da studiarci allo specchio per esercizio di quella pittura che oggi tanto incontra, di Gherardo Fiammingo». E ci mostra l’asperità di comporre un racconto non risolvibile in dicotomie scontate (il genio e il trauma, la vittima e la riscossa), con mosse metanarrative che mettono in campo l’autrice, spiazzano, e suggeriscono una ricerca di verità superiore: «Trecento anni di maggiore esperienza non mi hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una libertà ideale, quella che l’affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante».

Artemisia troneggia, ora, fra i pittori caravaggeschi; è tempo di riportare anche Anna Banti al posto che le spetta.


(Corriere della Sera, La lettura, 26 novembre 2023)

di Ingeborg Bachmann


Non varcare le nostre labbra, parola che semini il drago.

È vero, l’aria è soffocante,

la luce schiuma di acidi e fermenti,

sulla palude nereggia un velo di zanzare.

Ama le bicchierate la cicuta.

È in mostra una pelle di gatto:

la serpe s’avventa soffiando, lo scorpione inizia la danza.   

Non raggiungere le nostre orecchie,

fama dell’altrui colpa:

parola, muori nella palude

da cui la pozzanghera sgorga.  

Parola, stai al nostro fianco

tenera di pazienza e d’impazienza.

Bisogna

che questa semina abbia fine! 

Non domerà la bestia colui che ne imita il verso.  

Chi rivela segreti d’alcova, rinunzia per sempre all’amore.

La parola bastarda serve al frizzo per immolare uno stolto.

Chi ti richiede un giudizio su questo straniero? 

Se non richiesto lo formuli, prosegui tu il suo cammino

da una nottata all’altra con le sue piaghe ai piedi: va’! e non ritornare.

Parola, sii nostra, libera, chiara, bella.

Certo, dovrà avere fine ogni cautela. 

(Il gambero si ritrae,

L’ala talpa dorme troppo,

l’acqua dolce dissolve

la calce, che pietre ha filato).

Vieni, benevolenza fatta di voci e d’aliti,

questa bocca fortifica

quando la sua fralezza

si inorridisce e inceppa.

Vieni e non ti negare.

poiché in conflitto siamo con tanto male.

Prima che sangue di drago protegga l’avversario

questa mano cadrà dentro il fuoco.

O mia parola, salvami!


(1953)


(in Poesie, di Ingeborg Bachmann, a cura di Teresa Mandalari, Guanda 1978)

di Gabriella Galzio


Lo sguardo alto sul divenire delle civiltà è stato coltivato a lungo dalla studiosa tedesca delle civiltà, nonché filosofa teoretica, Heide Göttner Abendroth che nella seconda metà del ’900 ha fondato i Moderni Studi Matriarcali, portando alla luce intere civiltà, sepolte sotto la dicitura “Preistoria”, e restituendole a pieno titolo alla Storia, che dunque si amplia del suo tratto paleolitico e neolitico rimosso. Queste civiltà matriarcali rimosse sono di natura sostanzialmente diversa dalla nostra che definiamo universale o classica, ma che in realtà è anch’essa relativa e, con la definizione di “patriarcale”, storicamente databile a partire dal 2600 a.e.c (almeno per quanto riguarda l’area mesopotamica e mediterranea). Finalmente, gli studi poderosi di questa ricercatrice giungono in Italia grazie alle Edizioni Mimesis (2023) con il titolo Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa (traduzione di Luisa Vicinelli e Nicoletta Cocchi). L’opera è di tale dirompente innovatività sul piano storiografico da costituire una pietra miliare nel panorama degli studi storici e da meritare di essere adottata come libro di testo nelle scuole superiori e nelle università. L’approccio scientifico, il rigore logico e metodologico che attraversa tutte le 583 pagine del libro ne fanno, infatti, un solido e affidabile strumento didattico. L’autrice stessa, del resto, ha fondato nel 1986 l’International Academy HAGIA che dirige ancora oggi. Il libro, peraltro, scritto con stile limpido, si presta anche alla divulgazione presso un più ampio pubblico e ci apre a un viaggio nella nostra storia più antica alla ricerca di soluzioni per il presente, per costruire – con le parole della teologa Mary Daly – un “futuro arcaico”. Le società matriarcali (“In principio le madri”), infatti, estranee a ogni idea di dominio, erano impostate su valori materni, sul rispetto della diversità e sulla reciprocità, erano società pacifiche ed egualitarie tra i generi e le generazioni.

Va detto che, per ricostruire le fattezze di queste società matriarcali, la studiosa ha condotto la sua quarantennale ricerca muovendosi continuamente tra due piani. Su un piano sincronico antropologico, andando alla ricerca di tutte le società matriarcali sopravvissute, ancora oggi sparse nel mondo (paradigmatico il caso dei Moso della Cina), laddove il frutto di questo studio ampio e diversificato è stato già pubblicato in Italia per i tipi della Venexia con il titolo Le società matriacali. Studi sulle culture indigene del mondo. Su un piano diacronico storico la ricercatrice ha ricostruito la lunga storia delle civiltà matriarcali dal paleolitico all’età del ferro nell’Asia occidentale e in Europa, confluita in quest’ultima recentissima sua opera – Storia delle società matriarcali e nascita del patriarcato – e che costituisce quanto di più all’avanguardia vi sia in questo campo di ricerche. Ora, ciò che risulta prezioso da questi studi approfonditi lungo il duplice asse sincronico diacronico, è che Göttner-Abendroth ha potuto finalmente individuare le caratteristiche fondamentali peculiari delle civiltà matriarcali pur nelle loro molteplici coniugazioni nel tempo e nello spazio.

Economicamente la società matriarcale è una società di compensazione o società in equilibrio (Ausgleichsgesellschaft) in cui le donne amministrano i beni necessari alla vita come terra, case e generi alimentari e attraverso la distribuzione hanno continuamente cura a che vi sia un equilibrio economico. Questa economia non è di accumulazione, bensì di distribuzione, è nello spirito una “economia del dono”; socialmente poggia su strutture di parentela (Verwandtschaftsgesellschaft), entità claniche o tribali caratterizzate da matrilinearità (parentela in linea materna) e matrilocalità (residenza presso la madre), dove vige uguale valore dei generi (egalitarismo di genere); politicamente è una società basata sul consenso, laddove le case dei clan costituiscono la base reale della politica, con una delegazione di uomini inviati come portavoce delle loro tribù presso assemblee più grandi all’esterno; costoro hanno qui la propria sfera d’azione e dignità con vincolo di mandato. Nella maggior parte dei casi ciò sortisce non solo una società egalitaria tra i generi, ma una società egalitaria nel suo complesso; culturalmente poggia su una cultura di tipo sacrale che possiede sistemi religiosi e di visione del mondo complessi, laddove fondamentale nella concezione della vita sulla terra e del cosmo è la fede nella rinascita. Nelle culture matriarcali, infatti, la morte è vissuta come parte di un flusso continuo metamorfico di morte-rinascita e dunque connessa alla vita. Non esistono dei maschili astratti e staccati dalla realtà, ma è una divinità femminile, nelle sue molte apparizioni, a permeare l’immagine del mondo; divinità che viene intesa come immanente e operante nel mondo.

«Oggi – scrive la studiosa nell’introduzione alla sua opera storica – le forme di repressione e di sfruttamento del patriarcato non colpiscono soltanto le donne e i bambini, ma, seppur in modo diverso, anche la maggior parte degli uomini. Molti movimenti internazionali che lottano per un cambiamento radicale e per una società migliore ne contano tanti tra le loro fila. […] La nostra ricerca fornisce allo stesso tempo un importante sostegno alle lotte dei popoli indigeni che rivendicano la propria identità culturale, opponendo una strenua resistenza al colonialismo insito nel patriarcato». Candidata per ben due volte al Premio Nobel per la Pace, Heide Göttner-Abendroth ci consegna con questo trattato storico le prove che la guerra non è connaturata all’essere umano, quanto piuttosto è un prodotto storico, affacciatosi con la fase patriarcale dell’umanità, insieme agli stati e ai loro apparati di coercizione. Che dunque come è cominciata, può anche finire.

Alla luce di questo ampliato quadro storiografico, possiamo anche rintracciare la matrice prima dello scontro brutale tra Israele e Hamas che può essere fatta risalire alla lontanissima Età del bronzo, epoca delle ondate di patriarcalizzazione indoeuropee (già teorizzate da Marija Gimbutas) succedutesi nel Levante, rendendo possibile rintracciare le radici matriarcali dei palestinesi che affondano nella Terra di Canaan (tra Palestina, Libano e Siria), dal momento che i cananei immigrati, pur essendo patrilineari, si erano mescolati alle popolazioni locali matrilineari adottando gran parte della loro cultura. Le popolazioni matriarcali del Levante, situate tra Palestina, Libano e Siria, riuscirono dunque ancora ad assorbire una prima ondata di immigrazione cananea patrilineare, analogamente a quanto accadde in seguito nel Mediterraneo, dove i minoici matriarcali di Creta assorbirono la prima ondata patriarcale achea, dando vita alla cultura minoico-micenea. Ma, come a Creta giunse una seconda e più virulenta ondata achea, l’invasione dorica, così nel Lavante, «il secondo spartiacque si ebbe con l’invasione della Terra di Canaan da parte degli Israeliti. Anche loro erano pastori semiti nomadi, giunti in diverse ondate dai deserti meridionali (metà del II millennio). Aggressivi come gli Accadi di Sumer, si stabilirono nella parte meridionale di Canaan (Antica Palestina)» (p. 419). Guidati da Mosè al fine di raggiungere la “terra promessa”, dall’Egitto portarono con sé una forma di religione monoteistica che imposero alle popolazioni autoctone. «Le donne, in particolare, oppresse e totalmente prive di diritti, erano profondamente devote alla dea Asherah e al culto di Anat e Ba’al. Zelanti verso il loro unico e solo dio, i profeti consideravano “meretricio” il comportamento delle donne e intrapresero contro di loro una lunga e aspra lotta» (p. 420).

Oggi, sotto il monoteismo islamico, apparso storicamente dopo quello ebraico, le donne continuano a gridare “Donna, Vita, Libertà”, pur avendo perso memoria della dea Asherah e delle altre divinità femminili del Vicino e del Medio Oriente. […] Riportare alla memoria 3000 anni di storia avrà un senso se le donne in primis saranno liberate, e si lascerà loro l’opera di mediazione per costruire un percorso di pace tra i popoli, affinché possano condividere pacificamente un territorio comune nel rispetto delle proprie identità culturali e religiose.


Heide Göttner Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa, Mimesis 2023, pagg. 583 euro 28


(Odissea, 19 novembre 2023, pubblicato con il titolo “Il conflitto israelo-palestinese” sul blog: ODISSEA (libertariam.blogspot.com))

di Francesca Borrelli


Morta a ottantasette anni la scrittrice e critica letteraria inglese, aveva vinto il Booker Prize nel 1990 con «Possessione». Ripubblichiamo l’intervista che Francesca Borrelli le fece in occasione del festival di Mantova il 3 settembre del 2003, incontrando l’autrice, notoriamente schiva, a Torino


La scrittrice britannica A.S. Byatt, che vinse il Booker Prize nel 1990 col suo romanzo «Possessione» (pubblicato in Italia da Einaudi, come gli altri suoi romanzi), è morta all’età di 87 anni. Lo ha annunciato il suo editore Penguin Random House. Nata nella città inglese di Sheffield nel 1936 e formatasi all’Università di Cambridge, Byatt ha insegnato alla Central School of Art and Design e allo University College di Londra tra il 1972 e il 1984. Fra i suoi libri (in Italia con Einaudi), «Possessione» – da cui nel 2002 è stato tratto un film con Gwyneth Paltrow -, «Tre storie fantastiche», «Angeli e insetti», «La torre di Babele», «Le storie di Matisse», «La vergine nel giardino», «Natura morta», «Una donna che fischia», «La Cosa nella foresta», «Il libro dei bambini», «Ragnarök», «Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris».

Forse non è governato da un principio razionale il progetto di pubblicare in Italia i libri che compongono la tetralogia ideata da Antonia Byatt in un ordine diverso da quello da lei predisposto. Infatti, la prima volta che ci imbattemmo nella protagonista, Frederica Potter, buona parte delle sue esperienze formative le stavano già alle spalle, e tutto ignoravamo dei suoi trascorsi giovanili, che occupavano circa ottocento pagine di due libri precedenti, ma solo successivamente tradotti. Tuttavia, non c’è dubbio che dopo l’incredibile successo di Possessione, la scommessa di attirare il lettore nella nuova, immane trama che la Byatt andava tessendo si giocasse tutta nella Torre di Babele, il romanzo tradotto per primo, nonostante formasse il terzo quadro della tetralogia: perché è tra quelle pagine che i personaggi acquistano una vivacità e un carattere tali da indurre il desiderio di non abbandonarli più. Nel volume inaugurale, la Vergine nel giardino, dedicato al figlio perduto in un incidente stradale, la scrittura di Antonia Byatt era ancora affaticata dalla sua vocazione saggistica, da una erudizione insufficientemente mascherata, dal bagaglio mai deposto delle troppe reminiscenze letterarie che affollavano la pagina, dove il gusto dell’intreccio e la vitalità dei personaggi guadagnavano a fatica il respiro di una autentica felicità narrativa. Ora che il secondo movimento del quartetto ci viene restituito con il titolo Natura morta (sempre grazie alla appassionata traduzione di Fausto Galuzzi e Anna Nadotti per Einaudi) la consolazione di potere proiettare sulle figure ancora indistinte che lo popolano la luce di cui saranno investiti nel libro seguente – La Torre di Babele, appunto – ci aiuta a motivare la nostra partecipazione alle loro vicende.

Della famiglia Potter, riguardata dalla proverbiale vocazione inglese a sdrammatizzare le avversità della vita, tra le pagine di Natura morta seguiamo soprattutto i tre figli: la materna Stephanie, sposata al pastore di scarsa fede Daniel Orton, è senz’altro la più attraente dei tre, sebbene anche su di lei Antonia Byatt proietti una cerebralità che, tanto per dirne una, la fa «odiare alla maniera di George Eliot» e amare con le riserve di una vocazione intellettuale sacrificata alle incombenze familiari. Il fratello Marcus è un ragazzo disturbato, ma non tanto da staccarsi narrativamente dallo sfondo, se non grazie a quegli impacci ben descritti, di cui cade vittima a fronte di richieste emotivamente troppo cariche. Ma la vera protagonista, qui come in tutta la tetralogia, è Frederica, adolescente per lo più ritratta nell’ambiente del college dove studia, e dove consuma le sue prime, scriteriate avventure sessuali. Se non fosse per una irredimibile povertà di inventiva, Frederica si darebbe alla tessitura di romanzi. Il suo passato l’ha vista calcare le scene del teatro, il presente è ancora filtrato da una ambizione sufficiente a giustificarle l’epiteto di «squalo intellettuale», e il suo futuro reclama uno status sociale per il quale ci vuole un marito: lo individuerà nel bel personaggio di Nigel Reiver, un filibustiere dal quale sarà impegnata a separarsi violentemente nel corso del libro successivo. Studenti e professori di Cambridge ruotano sullo sfondo a animare debolmente il contesto, tra loro il solo dotato di un profilo originale è Raphael Faber, ebreo tedesco umorale e tendenzialmente misantropo le cui barriere difensive Frederica cercherà invano di sfondare. Così va la vita, o quel che di essa filtra tra le mura di un college, mentre la Storia si prepara di lì a poco a registrare la crisi di Suez e l’invasione dell’Ungheria. Finché il capitolo finale del libro, di gran lunga il migliore, spezzerà l’incantesimo investendo anche gli interni della famiglia Potter di una assurda tragedia.

Antonia Byatt è una scrittrice notoriamente schiva, è restia alle interviste e paventa i bagni di folla. Perciò decide di dosare gli impegni e chiede di andarla a incontrare a Torino, dove ieri era di passaggio prima di approdare al Festival di Mantova, che oggi inaugura con lei i suoi appuntamenti letterari.

Proviamo a sorvolare rapidamente lintera architettura di questa sua tetralogia, cominciata venticinque anni fa e appena conclusa con il romanzo titolato The whistling woman (La donna che fischia), uscito questa estate in Inghilterra. Come si è assestato il suo progetto narrativo via via che prendeva corpo, e qual è il bilancio di questa sua fatica distribuita in circa 2000 pagine?

Fin dall’inizio avevo intenzione di scrivere un lungo libro, al quale mi sarei dedicata a piccole dosi, nei ritagli di tempo che mi lasciavano i miei figli, allora molto piccoli. Lo immaginavo come un romanzo destinato a scorrere lungo la mia vita come un fiume, costruito tramite una architettura aperta. E pensavo sarebbe stato un libro sulla contemporaneità. Infatti, il prologo della Vergine nel giardino è ambientato nel `68, ma poi la narrazione torna indietro ai primi anni `50. Quando ho terminato l’ultimo romanzo avevamo passato la soglia del 2000, perciò questa tetralogia ha finito per diventare «storica»: ecco la differenza più importante rispetto al progetto iniziale. La stampa inglese insiste nel domandarsi come mai i nostri scrittori non si occupino del presente. Io avevo intenzione di farlo, ma tutto sommato l’avere composto un grande romanzo storico ora mi sembra un fatto positivo. Un altro elemento stabilito dall’inizio riguarda il contrasto tra scienza e religione. Fin da subito sapevo che alla fine dell’ultimo romanzo avrei inserito una conferenza sui rapporti tra mente e corpo, sollevando domande che oggi sono di estrema attualità. Tutto questo mi è costato un grandissimo lavoro, ho studiato molto, ho scambiato una corrispondenza interessante con alcuni scienziati attenti agli aspetti metaforici del linguaggio e preoccupati dal dibattito sulle analogie tra mente e computer. Avrei preferito che questa tetralogia fosse ancora più lunga, perché – come diceva Tolkien – qualcosa finisce sempre col restare fuori. Quando Henry James cominciò a scrivere Le ali della colomba, disse che nel dare inizio a un romanzo si ha sempre l’ambizione di catturare il mondo intero. A dire il vero, io volevo raccontare solo frammenti di realtà, e forse per questo ho inframezzato la scrittura di alcuni racconti; perché implicano una prospettiva parziale, che permette, tra l’altro, di dedicarsi con più gusto alla scrittura.

Il lettore che segue i libri organizzati intorno alla vita di Frederica Potter si accorge con sollievo che le tentazioni saggistiche dellautrice cedono via via alla sua attitudine narrativa. Fin qui, tra le pagine di Natura morta, Frederica impara di più dalla letteratura che dalla vita. Ma già nella Torre di Babele il rapporto si capovolge, e finalmente le emozioni guadagnano spazio. È daccordo?

Sono d’accordo, più si va avanti, più le passioni prendono il sopravvento sulle idee mutuate dalla letteratura. Frederica risente di una educazione limitante, com’è stata quella della mia generazione. Anch’io mi sono formata prevalentemente sulla letteratura, e quasi solo sugli autori inglesi. Imparavamo interi poemi a memoria, e questo ci insegnava a coltivare l’amore delle parole, mentre ora i giovani preferiscono occuparsi di teoria della critica. Io nasco come saggista, sono vissuta in una enorme soggezione per i nostri grandi scrittori, e poi col tempo ho perso interesse per la teoria letteraria, mentre è cresciuta in me la narratrice. Ora mi sento pienamente realizzata come autrice di romanzi.

Tra le pagine di Natura morta i personaggi si presentano ancora come figure indistinte, debolmente caratterizzate. Mi domando se è voluto, ossia se essendo ancora molto giovani devono scontare lincertezza di una identità non ancora acquista; o se la sua abilità descrittiva sia cresciuta nel tempo, come il frutto di un apprendistato al romanzo maturato via via.

Una parte del progetto prevedeva, in effetti, di accordare il carattere dei personaggi alla loro età, ed è ovvio che la giovinezza comporti identità ancora sul vago. Certo, nella Torre di Babele gli stessi caratteri saranno precisati meglio, anche perché il libro è investito da una vena satirica e questo aiuta a definire i profili. Inoltre, la mia idea prevedeva di presentare gruppi di persone accomunate da uno stesso modo di parlare, dotate di un linguaggio condiviso, e anche questo elemento contribuisce a disegnare le fisonomie con più precisione. Ma c’è anche un diverso aspetto del mio progetto secondo cui Natura morta avrebbe dovuto essere il mio libro biologico, al centro del quale stanno il sesso, la nascita, la morte. Per descrivere tutto questo mi ero proposta di evitare l’uso di metafore, di figure retoriche. Volevo nominare le cose stesse così come si presentano alla percezione. Ma era una pretesa impossibile da realizzare, infatti non ci sono riuscita.

In effetti, specialmente Natura morta risente di una tentazione fenomenologica…

È vero, ma più ancora – dati i miei interessi scientifici – mi è stato maestro Wittgenstein, e soprattutto il poeta americano William Carlos Williams: nessuna idea se non nelle cose – diceva. Inoltre, io sono stata allevata nella letteratura inglese, le cui virtù stanno nella concretezza, nel creare cose piuttosto che astrazioni.

In molti dei suoi libri è evidente come lei si senta a casa non solo nella letteratura, ma anche nella pittura. In Natura morta la narrazione è intervallata da frequenti osservazioni su Van Gogh, nonché da brani delle sue lettere al fratello Theo. Dal suo racconto Zucchero abbiamo appreso che lei passò un lungo periodo di tempo a Amsterdam, mentre suo padre era ricoverato in ospedale, e nel tempo libero andava spesso al museo Van Gogh. Per questo il pittore olandese ha un ruolo protagonista nel suo libro?

No, c’è una ragione che riguarda la struttura del romanzo e poi ce n’è una istintuale; ma i ricordi autobiografici non c’entrano. L’aspetto istintuale sta nel fatto che quando cominciai a scrivere Natura morta vedevo questo romanzo colorato di viola scuro. Allora pensai che mi sarebbe stato necessario un colore complementare, non potevo andare avanti a scrivere un libro investito di una tonalità così buia. E mentre riflettevo sul colore di cui avevo bisogno, vidi davanti a me La sedia gialla di Van Gogh. Era proprio lui il pittore che faceva al mio caso, perché non cerca di connettere religiosamente la pittura ai concetti, va diritto alle cose come appaiono. Anch’io cerco di procedere così nel libro, volevo fosse un romanzo domestico, fatto di sedie, oggetti, interni di case, bambini, e volevo guardasse alla natura fattuale di quel che accade: come fa Van Gogh, e questa è la ragione strutturale per cui l’ho scelto.

Torniamo ai personaggi, e parliamo di due figure che si fanno strada lentamente, per poi acquistare una speciale vivacità narrativa: il pastore Daniel Orton, che piomberà nella tragedia dopo la morte di sua moglie Stephanie; e Nigel Reiver, il violento marito di Frederica. Non trova che siano tra i comprimari più interessanti?

In effetti ho la tendenza a creare personaggi maschili positivi. Fin dall’inizio della tetralogia intendevo dipingere Daniel Orton come un uomo buono. Non era ancora interessante nella Vergine nel giardino, ma lo diventa qui, in Natura morta, anche se la disperazione per la morte di Stephanie lo rende un cattivo padre. Se la caverà meglio nel libro successivo, La Torre di Babele, quando il suo nuovo lavoro consisterà nel prestare soccorso telefonico. Per un uomo provato come lui è più facile essere d’aiuto se le persone che glielo chiedono gli sono estranee. Quanto a Nigel Reiver, in un romanzo strettamente femminista dovrebbe essere un uomo del tutto negativo. Ma a me piace, ha una influenza positiva su Frederica, ha ragione di pretendere da lei più di quel che lei gli dà, la aiuta a trasformarsi in una persona responsabile, così come il figlio l’aveva trasformata nella madre in cui stentava a riconoscersi. E quando firmeranno il divorzio, tutto questo le impedirà di sentirsi una vittima. Il motivo per cui Frederica sceglie Nigel sta nel fatto che, diversamente dagli altri uomini con cui era andata a letto negli anni di Cambridge, lui ha una fisicità spontanea, è l’unico che ci sa fare col sesso. E lei, che è l’incarnazione del conflitto tra le ragioni del corpo e quelle della mente, fa lo sbaglio di pensare che risolverà i problemi del corpo… col corpo.

In non pochi passaggi la voce narrante irrompe nellintreccio. È un espediente usato da molti scrittori, ma soprattutto qui, in Natura morta, linterruzione arriva spesso in modo brusco, a esplicitare intenzioni poi abbandonate, o cambiamenti di idee dellautore. Tanto che viene da chiedersi non solo se lei intenda prendere le distanze dai suoi personaggi, o ricordare che siamo allinterno di una finzione, ma se lei desideri scoraggiare, almeno a tratti, ogni possibile meccanismo di identificazione…

Questa domanda implica una risposta sincera, che mi è particolarmente difficile dare. Perché quando ero una giovane narratrice quel che desideravo era proprio creare un incidente tecnico che comportasse nel lettore lo stesso shock di un incidente reale. Tra il momento in cui concepii questa idea e il tempo che mi ci volle a realizzarla, mio figlio venne investito per la strada e morì. Talvolta non riuscivo a scrivere affatto, ma quando ce la facevo la condizione era che ricordassi a me stessa di essere all’interno di un artificio. Anche il fatto di inventare un incidente capitato a uno dei miei personaggi, dal momento che sapevo cosa significava nella realtà, mi sembrava una impresa insormontabile. Così introdussi questa voce narrante, per tenere me stessa a distanza da quella disgrazia. Per scusarmi di avere scritto un libro e tenermelo lontano, attribuendolo a un altro narratore.

Cosa dobbiamo aspettarci dal romanzo conclusivo della tetralogia?

La protagonista, che è sempre Frederica, riuscirà a conciliare in sé la donna che si permette di fischiettare, che è capace di svolgere il suo ruolo di madre e che mette su una famiglia: a modo suo naturalmente, ossia in maniera un po’ improbabile. La volevo protagonista di una commedia di stampo shakespeariano, non di un dramma. Ora il mio editore francese è preoccupato, ha una idea molto elevata di Frederica e pensa che se una donna fischia questo la rende volgare. Crede che il titolo rimandi a qualcosa di comico, infatti ha ragione, è proprio così. E ci sarà un happy ending, per Frederica come per tutti i personaggi, salvo la figura di un religioso visionario al quale farò fare una fine tragica.


(Il manifesto, 18 novembre 2023)

di Franca Fortunato


Se è vero che la guerra, con le dovute eccezioni, non ha un volto di donna, come scrive la scrittrice bielorussa Svetlana Aleksievič, è certo, invece, che la lotta e la resistenza ha il volto di tante donne. Donne libere e consapevoli, unite contro il dominio e la violenza degli uomini sul loro corpo. Sono (siamo) le figlie e le nipoti di Delia, la protagonista del film geniale di Paola Cortellesi C’è ancora domani. Un domani che, grazie alle femministe, per noi donne è divenuto il nostro oggi, un tempo di libertà femminile ma non di libertà maschile per tutti quegli uomini, troppi, che non accettano di perdere il dominio e il controllo sul corpo e la vita delle donne. Da qui il loro odio verso le donne e la paura della libertà femminile che generano violenza, stupri, molestie fino al femminicidio. Loro sono gli eredi di Ivano, il marito di Delia, che, figlio degno di suo padre, sin dalla prima scena del film dà alla moglie, che lo saluta a letto, un sonoro ceffone in faccia perché si è svegliata tardi. Donne libere e consapevoli sono le afghane. È di loro che voglio parlare, dopo aver letto il libro Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani di Lucia Capuzzi, Viviana Daloiso e Antonella Mariani, tre giornaliste dell’“Avvenire” che raccolgono le lettere al giornale inviate da Kabul e le testimonianze e interviste a donne che, fuggite dopo il ritorno dei talebani, vivono in esilio. Tutte chiedono alla comunità internazionale, ai mass media e a tutte/i noi di non dimenticarle, di non lasciarle sole e di accogliere «quante/i fuggono dal Paese perché non possono più rimanere», come quelle/i fatti morire nel naufragio di Cutro. Si sentono “tradite”, in particolare dagli Stati Uniti. È per non dimenticarle che nasce il libro e io ne scrivo. Chi è fuggita parla con nostalgia del suo Paese dove sogna un giorno di tornare. Chi è rimasta parla con rabbia e indignazione dei divieti imposti dai talebani, ma non rinuncia ai sogni, alla volontà di vivere, di lottare e resistere. «Prima ci hanno intimato che studiassimo solo in casa e non lavorassimo più, poi hanno detto che il velo non bastava ed era obbligatorio il burqa, poi ci hanno impedito di andare nel bazar e fare la spesa, di passeggiare, di frequentare i centri sportivi e le piscine prima riservate a noi. È proibito cantare. Ridere è un peccato. Non ci ammazzano tutte perché serviamo per partorire. Naturalmente figli maschi. Una donna se esce deve essere accompagnata da un maschio, mai da sola.» Ma loro sono donne resilienti. C’è chi, espulsa dall’università, continua a studiare online e insegna di nascosto alle altre ragazze. L’associazione di donne Rawa, col ritorno dei talebani, è tornata con le scuole segrete. «Insegniamo a poche persone nella stanza dove la famiglia vive e dorme. Teniamo la voce bassa, siamo pronte a fare sparire in fretta i pochi libri e quaderni che portiamo con noi e fingere di stare leggendo il Corano o insegnando uno dei pochi mestieri permessi (sarta)». C’è chi con la figlia prepara in casa biscotti e torte di compleanno e le vende on line perché «c’è ancora chi festeggia, e chi viene festeggiato, nelle città. Di nascosto», e intanto sogna il giorno in cui avrà un suo negozio e «ci saranno negozi ovunque, donne ovunque che lavorano, libere». C’è chi sogna ancora di diventare pilota e chi «durante la notte, in segreto, continua a scrivere canzoni perché l’arte non può essere repressa e soffocata». Fuori «si vedono solo maschi», città senza donne. Dopo le manifestazioni contro i divieti, represse con la forza, le donne hanno fatto della casa un luogo di libertà, di lotta e di resistenza, e parlano. Altro che “stai zitta”. Per loro, c’è da credere, “C’è ancora un domani”. Non dimentichiamole.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 18 novembre 2023)

di redazione Il Fatto quotidiano


L’economia è politica (192 pp, 16,50 euro, ed Fuoriscena) è il nuovo libro il primo in italiano di Clara E. Mattei, economista, professoressa alla New School for Social Research di NewYork. Questo ultimo lavoro ribalta il racconto consueto delleconomia da cui siamo intossicati e rivela, ripercorrendo una lunga storia che dal fascismo arriva fino ai giorni nostri, quanta e che politica si nasconde dietro le scelte economiche. I tempi sono ormai maturi per smascherare le falsità insite in questa visione. Questo libro, accompagnato dai commenti di tre importanti economisti internazionali Thomas Piketty, Branko Milanović e Adam Tooze introduce una nuova prospettiva emancipatrice, capace di rivelare la trama nascosta dietro le questioni economiche centrali nella discussione pubblica: dallausterità allinflazione, dalla disoccupazione alla crescita, dalla concorrenza al debito al rapporto tra Stato e mercato, e moltissimo altro. Con precisione e incisività lautrice spiega come il potere politico abbia costruito nel tempo un sistema profondamente antidemocratico, destinato scientemente ad arricchire pochi privilegiati, impoverendo per converso la maggioranza della popolazione e rendendo i cittadini sempre più sudditi. La conoscenza è il primo passo per immaginare un mondo diverso e per muoversi affinché esso diventi possibile.

Mattei – collaboratrice del Fatto Quotidiano – è autrice di The Capital Order, inserito dal Financial Times tra le dieci pubblicazioni più influenti dell’anno a tema economico, edito in Italia da Einaudi con il titolo di Operazione austerità ma con lo stesso sottotitolo: Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo. Nell’ottobre 2023 ha ricevuto l’Herbert Baxter Adams Prize, conferitogli dalla American Historical Association. Qui sotto un estratto dell’introduzione del nuovo libro pubblicato da ilfattoquotidiano.it.


Siamo a Bruxelles, è l’autunno del 1920. Uomini politici ed economisti provenienti da tutta Europa si siedono attorno ai tavoli di lavoro, sono riuniti per la prima conferenza economica internazionale. I toni formali e gli abiti eleganti non riescono a mascherare la tensione che si respira nell’aria. Le loro dichiarazioni lasciano trapelare un senso di accerchiamento, addirittura di angoscia, per quello che considerano un disordine inaccettabile, un caos sociale che sta portando l’economia capitalistica sull’orlo del baratro. Mentre costruivano un pacchetto di provvedimenti improntati alla più dolorosa austerità, i tecnocrati riuniti a Bruxelles erano ben consapevoli del fatto che il vento tirasse da tutt’altra parte. Indurre i cittadini a piegarsi all’ordine del capitale era più facile a dirsi che a farsi. Lo choc della guerra mondiale aveva scatenato nello spirito della gente comune un senso di rivalsa rispetto alle ingiustizie. La Grande Guerra aveva sprigionato una consapevolezza nuova: era emerso chiaramente quanto i lavoratori fossero il motore della macchina economica. L’inflazione montante di quegli anni non faceva che infervorare gli animi e acuire quel senso diffuso di fallimento del vecchio sistema capitalistico.

Alla pari dei suoi colleghi, il professor Luigi Einaudi ne era terrorizzato, sapendo che, ben lungi dall’essere un problema esclusivamente economico, l’instabilità monetaria era una questione intrinsecamente politica. Non per nulla, egli definiva l’inflazione come ciò che «pareva muovere nel profondo la società intiera e preparare alla rivoluzione sociale». Per di più, ne attribuiva la colpa proprio a quei lavoratori che, avendo ottenuto maggiori salari, erano incapaci di controllarsi e indulgevano in quel comportamento scialacquatore comprovato dagli «aumenti cospicui dei consumi non necessari di bevande alcoliche, dolci, cioccolata, biscotti». Ecco denunciata l’immoralità alla base del disequilibrio tra domanda e offerta, che andava disciplinata a qualunque costo, anche quello di sostenere il regime fascista di Benito Mussolini. Fu infatti proprio il Duce a garantire una sufficiente dose di austerità economica, caratterizzata da tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, riduzione dei salari e incremento dei tassi di interesse, che gli consentì di guadagnarsi il plauso degli esperti economici di tutto il mondo, anche di liberali come lo stesso Einaudi. Oggi i loro discepoli non la vedono certo diversamente.

La storia si ripete. Balzo in avanti di cento anni, siamo a Washington DC nel marzo del 2022. L’economia globale è scossa da un’altra ondata di inflazione monetaria. Gli esperti della Federal Reserve (Fed) si riuniscono a porte chiuse per alzare i tassi di interesse. Li alzeranno per più di un anno. La maggioranza di noi sente queste notizie alla radio o alla tv con distrazione mista a rassegnazione. Ci paiono scenari lontani, decisioni “economiche”, quindi tecniche, che non ci riguardano direttamente e rispetto alle quali non possiamo fare granché. Ma è davvero così? Oppure questa capacità di “depoliticizzare” l’economia, ossia la capacità di allontanare la nostra partecipazione dalle decisioni economiche, è proprio la chiave del successo di un sistema che ci lega le mani e ci toglie la voce? Questo libro è animato anzitutto da un intento: provare ad abbattere quel diffuso luogo comune secondo il quale le decisioni delle istituzioni economiche (dalla Fed alla Banca Centrale Europea al Tesoro), cioè le scelte che danno forma alla nostra economia, siano “neutrali” o al servizio “del bene comune”.

La “naturalizzazione” del capitalismo e la nostra ormai acquisita abitudine di delegare molte decisioni fondamentali agli esperti senza intrometterci troppo nei loro affari sono espressione della perniciosa depoliticizzazione dell’economia. Gli economisti di professione, la televisione, i social, i giornali perpetuano quotidianamente l’accettazione e la diffusione di narrazioni che mascherano il funzionamento del nostro sistema economico invece di spiegarlo. È ora di evadere da questa prigione. Mentre scrivo, ci sono moltissime donne e uomini che combattono per una società diversa, credendoci con tale abnegazione da rischiare la propria vita. Il mio è un minuscolo contributo, ed è l’esempio dei miei due prozii che continua a essere per me una fonte di ispirazione inesauribile.

In queste ultime righe introduttive voglio brevemente ricordare i fratelli di mio nonno Camillo, che intrapresero una risoluta battaglia contro l’oppressione fascista. Teresa Mattei, con il nome di battaglia di Chicci, fu la più giovane donna a sedere all’Assemblea costituente. Si deve a lei l’inserimento delle parole «di fatto» nell’articolo 3 della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Spirito libero, Teresa non ebbe paura di allontanarsi dal Partito comunista quando esso tradì i suoi ideali, e di affrontare la violenza delle SS quando, durante la Resistenza, approfittarono del suo corpo mentre portava messaggi partigiani. Suo fratello, Gianfranco Mattei, giovane professore di Chimica e gappista, fu catturato il 1° febbraio 1944 mentre costruiva bombe contro i fascisti. Dopo due giorni di sevizie continue, Gianfranco si impiccò con la sua cintura pur di non tradire i suoi compagni. Le ultime parole del mio prozio, scritte sul retro di un assegno consegnato di nascosto al compagno di cella, sono state per i suoi genitori: «Siate forti, sapendo che lo sono stato anch’io». Per essere forti ci servono strumenti forti. E allora proviamoci.


(Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2023)

di Alessandra Pigliaru


È un volume che raccoglie conversazioni con Lea Melandri, Luisa Muraro, Adriana Cavarero e saggi di Rossana Rossanda quello curato da Elvira Roncalli dal titolo Il futuro è aperto. Storia e prospettive del femminismo italiano (Prospero editore, pp. 312, euro 18). Il progetto editoriale, pubblicato in lingua inglese circa un anno fa da Roncalli, docente di filosofa negli Stati Uniti al Carroll College, Helena, Montana, viene ora reso disponibile anche qui. Comprensibile l’intenzione, più che legittima da parte di Roncalli che in altre sedi si è occupata di filosofia europea novecentesca e contemporanea, di apparecchiare un testo che sia di ragionamento e soprattutto stimolo. Ne risulta un libro utile nella sua agilità, per certi versi audace nella vicinanza di femministe e teoriche diverse fra loro che mostra tuttavia quanto sia stato articolato il movimento delle donne in Italia, la rivoluzione che è stata il femminismo e le sue pratiche politiche, i fili inscindibili che – anche chi femminista non è stata – ha intessuto.

Infine quanto, pur nella eterogeneità, si possa considerare viva e orientante nella sua parzialità la mappa che Il futuro è aperto contiene e intende consegnare, nelle mani di chi desideri leggere ciò che hanno avuto da dire quattro protagoniste, a diversi livelli, della discussione pubblica. Esplorare la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, prende consistenza intorno allo squasso diventato un taglio che in quegli anni si andava determinando, con pratiche politiche diverse a partire dalla esperienza, che non è parola neutra perché il femminismo, a meno che non sia una gabbia teorica, scintillante eppure disabitata, è una esperienza che anzitutto si incontra e che chi è arrivata prima di noi ha attraversato. Di questo danno conto anzitutto le tre intervistate che hanno fatto germinare scoperte e scelte in un momento storico tanto complesso quanto propizio: il movimento studentesco e il Sessantotto, la nascita dei primi collettivi, il separatismo, l’università, puntellando di ricerche, libri (utile prima delle interviste, raccolte singolarmente e in momenti diversi, è la breve nota bio-bibliografica dedicata a ciascuna), contaminazioni soprattutto nella relazione con altre donne.

Il volume si apre a partire dalla memoria del corpo con cui esordisce Melandri in risposta alla prima domanda di Roncalli; la differenza sessuale come verità soggettiva, intorno a cui si concentra Muraro; l’unicità incarnata materialmente relazionale, con cui risponde Cavarero. Nell’ultima parte del libro vengono ospitati tre scritti di Rossana Rossanda, i primi due sono del 1987, uno contenuto nella rivista Memoria e l’altro sul manifesto, così come il terzo che nel 1996 sempre su questo giornale. Sono tre testi che sigillano e illuminano il volume, e che intercettano qualche momento del rapporto di Rossana Rossanda con il femminismo, segnato da confronti inaggirabili.

Nel libro di Elvira Roncalli a essere presente è anche il suo sguardo, anche lei cioè – che insieme a Silvia Benso ha di recente curato il volume Contemporary Italian Women Philosophers: Stretching the Art of Thinking – dice come sia arrivata al femminismo. In molti passaggi viene convocata Carla Lonzi, per esempio. Ma la sensazione più intensa dopo averlo letto è che il futuro è stato davvero aperto. E lo può essere ancora.


(il manifesto, 15 novembre 2023)

di Laura Iamurri*


Desiderata, invocata, da tempo attesa, la nuova edizione dei testi di Carla Lonzi ha finalmente preso avvio, e ha suscitato un’eco straordinaria. Il primo a tornare in libreria è, e non poteva essere altrimenti, Sputiamo su Hegel e altri scritti, uno dei testi fondativi del femminismo italiano, dirompente e urticante fin dal titolo; il volume esce a cura di Annarosa Buttarelli per “La tartaruga”, la collana della Nave di Teseo diretta da Claudia Durastanti che riprende nome e insegna della casa editrice di libri scritti da donne fondata da Laura Lepetit nel 1975: una collocazione particolarmente felice, che riannoda alcuni fili dispersi del movimento delle donne.

Altrettanto felice è la scelta del Violarosso di Carla Accardi in copertina, che “tradisce” il colore dei “Libretti verdi” di Rivolta Femminile, ma che appare anche come un festoso invito alla lettura. Perché la ripubblicazione dei testi di Lonzi è sempre una festa, lo è per tutto il pubblico delle lettrici e dei lettori ma in particolar modo per le persone più giovani che hanno avuto molte difficoltà, in questi ultimi anni, a reperirli e che si sono scambiate copie cartacee o file pdf. Se la necessità di questa nuova edizione emergeva già in maniera evidente dalle richieste di prestito delle biblioteche (Sputiamo su Hegel è il libro più richiesto in assoluto alla Biblioteca delle Donne di Bologna), l’esaurimento della prima tiratura in un tempo brevissimo ne ha dimostrato anche l’urgenza: uscito in libreria il 5 settembre, nei giorni immediatamente successivi il libro era già introvabile e già in ristampa.

Sputiamo su Hegel è il primo testo teorico nel quale Lonzi ha sviluppato le premesse esposte in maniera apodittica nel Manifesto di Rivolta Femminile scritto nei primi mesi del 1970. È anche il testo che, sempre nel 1970, ha inaugurato le pubblicazioni della casa editrice Scritti di Rivolta Femminile. Qualche anno dopo, nel 1974, fu riedito insieme ad altri testi scritti dalla sola Lonzi (La donna clitoridea e la donna vaginale), o insieme a Carla Accardi ed Elvira Banotti (il Manifesto) o ancora elaborati con le compagne di Rivolta e firmati collettivamente (Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschileSessualità femminile e aborto, entrambi 1971, Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, 1972), ed è questa raccolta che viene ripubblicata ora. È in questi testi che si ritrova, insieme alla magnifica scrittura di Lonzi, tutta la spietata radicalità del suo pensiero, che scarta da ogni aspirazione paritaria (“l’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei diritti”) a favore dell’affermazione della alterità delle donne, della non assimilabilità delle donne agli uomini e dunque della loro estraneità al patriarcato, alla sua storia e alla sua cultura. “La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia”, scrive Lonzi, e questa assenza è ciò che permette di osservare con crudele disincanto la realtà (“Abbiamo guardato per 4000 anni: adesso abbiamo visto!”, si legge nel Manifesto): dunque è l’intera struttura patriarcale ad apparire come uno strumento generalizzato di oppressione e assoggettamento. La cultura politica marxista assimilata in gioventù serve a Lonzi per capire che nessuna rivoluzione ha mai risolto la questione femminile: “il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale”; anche gli obiettivi di altri movimenti femministi – la contraccezione, il divorzio, l’aborto – sono interpretati non come strumenti di autodeterminazione femminile ma al contrario come sistemi di controllo al servizio e a conferma dell’ordinamento sociale patriarcale.

Scrive Lonzi nella Premessa a Sputiamo su Hegel e altri scritti che “il rischio di questi scritti è che vengano presi come punti fermi teorici”: in effetti il suo pensiero negli anni successivi evolve, si modifica, per certi versi si radicalizza ulteriormente, ma questi testi restituiscono la prima fase, quella dello “sdegno” per l’inferiorizzazione delle donne a tutti i livelli e in tutti i contesti, della individuazione della sessualità come snodo cruciale, dell’attacco ad alzo zero alla cultura patriarcale con la sola, residuale, apertura agli artisti per una “affinità caratteriale” che sta “nella coincidenza immediata tra il fare e il senso del fare”. In questo credito agli artisti filtra naturalmente il passato di Lonzi, segnato prima dalla formazione storico-artistica con Roberto Longhi a Firenze, e poi soprattutto dagli anni di attività professionale come critica d’arte: anni importanti, nei quali era maturata una severa analisi politica sul ruolo e la funzione della critica. Alla metà degli anni sessanta, a fronte di un contesto artistico in rapido mutamento, Lonzi aveva presentato sulla rivista “marcatré” una forma inedita di critica, che abbandonava l’esercizio solitario del giudizio a favore di una attività da svolgere con l’artista, cioè di fatto una conversazione registrata e poi trascritta con cura, nel rispetto delle parole effettivamente pronunciate e degli argomenti – talvolta in apparenza marginali – trattati in quello che sulle pagine stampate appariva alla fine come un discorso a due più che come una intervista, e che inaugurava una sorta di critica d’arte in forma di colloquio, un dialogo alla pari. È questa orizzontalità della relazione, questa modalità all’insegna dell’ascolto reciproco, che Lonzi porta in seguito all’interno dei piccoli gruppi di autocoscienza, laboratorio imprescindibile del femminismo in Italia.

Il pensiero di Lonzi conserva intatto il suo carattere dirompente, la sua capacità di interrogare e mettere in crisi chi legge sul doppio piano della singolarità e delle relazioni; e tuttavia ovviamente mostra anche la sua distanza dalla nostra contemporaneità, non fosse altro per lo strenuo binarismo uomo/donna e per la risoluta messa da parte della questione di classe. Sono differenze importanti rispetto alle istanze degli attuali movimenti femministi, formate su una pluralità di letture ed elaborate intorno ai concetti di intersezionalità, di inclusività, di messa in discussione del binarismo di genere.

Questo punto in particolare appare oggi cruciale, e ci si può chiedere se i testi di Lonzi non rischino di apparire anacronistici, ancorati come sono a una struttura delle definizioni e delle relazioni di genere divenuta ormai inattuale. E tuttavia la curiosità e l’entusiasmo che Lonzi suscita nelle giovani generazioni ci dicono qualcosa di diverso: il ruolo centrale che la sessualità, e la sessualità femminile in special modo, assume nel pensiero di Lonzi non cessa di essere un fatto politico perché lì si apre uno spazio di libertà, di consapevolezza e di rivendicazione del piacere che può essere diversamente interpretato in relazione alla propria singolare identità di genere.

La questione di genere non è del resto l’unico punto di possibile frizione rispetto alle istanze degli attuali movimenti femministi, formate su una pluralità di letture ed elaborate intorno ai concetti di intersezionalità e di inclusività.

Per questa ragione la proposta di Annarosa Buttarelli di pubblicare Sputiamo su Hegel, e gli altri testi che seguiranno, senza accompagnamento critico ha suscitato qualche perplessità; mi è capitato di parlarne con artiste, giovani studiose, intellettuali di varia formazione, e io stessa mi sono interrogata sull’opportunità di questa scelta: in fondo, si potrebbe obiettare, una breve prefazione che permetta di contestualizzare il testo non è una lettura obbligatoria, chi non ha interesse può saltarla a piè pari e chi vuole invece avere qualche informazione in più la trova lì, nello stesso volume. E però l’argomento di Buttarelli non è eludibile: i testi di Lonzi sono tutti “testi di trasformazione”, sostiene la curatrice dell’intero progetto di riedizione nella sua brevissima nota, e come tali non sopportano “commenti, spiegazioni, interpretazioni che spegnerebbero la loro forza travolgente”. Non c’è dubbio che ci sia una forza sorgiva nella radicalità di Lonzi capace di sradicare secoli di un ordine che appariva “naturale” solo perché non era mai stato davvero messo in discussione, e non c’è dubbio che questa forza sia capace di investire con tanta più energia quanto più arriva in maniera diretta e senza mediazioni. Esiste anche, oggi, una bibliografia ampia e diversificata su Lonzi, sul suo pensiero e sui suoi scritti che permette senz’altro di dotarsi di eccellenti strumenti di lettura, separati dalla materia prima e bruciante degli scritti.

La situazione è in effetti oggi molto diversa rispetto agli anni intorno al 2010, quando Sandro D’Alessandro, con la sua et al. edizioni, intraprese la prima ripubblicazione dei testi della critica d’arte e teorica femminista. Allora davvero Lonzi era una figura scivolata in una specie di semiclandestinità e i suoi testi, nella edizione originale di Rivolta Femminile, erano reperibili quasi solo presso la Libreria delle Donne di Milano. Tra 2010 e 2011 uscirono Sputiamo su Hegel e altri scrittiAutoritrattoVai pure e Taci, anzi parla, con l’aggiunta nel 2012 della corposa raccolta degli Scritti sull’arte, mai riuniti da Lonzi in vita ma rintracciati e radunati da Lara Conte e Vanessa Martini insieme a chi scrive. Nei prossimi mesi, saranno gli stessi libri a tornare in circolazione nella nuova bella edizione di “La tartaruga”, con l’aggiunta della raccolta postuma di poesie Scacco ragionato (uscito a cura di Marta Lonzi e Anna Jaquinta per Scritti di Rivolta Femminile, nel 1985 e mai più ristampato) e con l’esclusione invece, almeno per il momento, degli Scritti sull’arte.

L’edizione dell’inizio degli anni dieci appare oggi tutto sommato dimenticata: la fine della casa editrice ha fatto sì che i testi andassero esauriti in poco tempo e che non ci fosse la possibilità di ristamparli, e così è capitato anche di leggere, nelle numerose recensioni che hanno celebrato il ritorno di Sputiamo su Hegel e altri scritti nelle librerie, della prima ripubblicazione di Lonzi dopo cinquant’anni. Dispiace, questa smemoratezza, non solo perché non rende giustizia a un editore coraggioso e impegnato quale è stato D’Alessandro, ma anche perché quella prima rimessa in circolazione dei testi ha reso possibile, negli anni immediatamente successivi, il moltiplicarsi di corsi universitari nelle diverse discipline della filosofia, della letteratura, della storia dell’arte, che hanno a loro volta generato letture appassionate e studi approfonditi. Di fatto, quella sfortunata edizione è all’origine dell’attuale “Lonzi renaissance”, e delle traduzioni di alcuni suoi testi in varie lingue che ne sono una delle manifestazioni più evidenti; ed era davvero paradossale che, mentre diventavano disponibili in altri paesi, i testi di Lonzi non fossero più reperibili in Italia. Ora finalmente, con l’edizione dei “La tartaruga”, si apre una nuova stagione di letture e di studi, di riflessione e di politica. Carla Lonzi è tornata.


(L’Indice, n° 11/2023, 2 novembre 2023)


*Laura Iamurri insegna storia dell’arte contemporanea all’Università Roma 3 laura.iamurri@uniroma3.it

di Franca Fortunato


Fare i conti con la storia della propria madre e con la relazione con lei, cercando di sciogliere alcuni nodi dolorosi che si porta dentro dall’infanzia e dall’adolescenza, è quello che fa la giovane scrittrice italo-nigeriana Sabrina Efionayi con il suo libro autobiografico Addio, a domani edito da Einaudi. Scrive per raccontare per la prima volta della madre, di cui non aveva mai parlato a nessuno perché si vergognava di lei. Durante la scrittura si accorge di non riuscire a parlare in prima persona e dire “io” ma dice: lei-Sabrina, tale è il dolore. Parla con la madre e le ricorda episodi della loro vita insieme, le confessa sensazioni e sentimenti non detti, le dice quello che ha capito da figlia della sua storia e di sé stessa. Non lo fa con acredine o risentimento ma con gratitudine e comprensione. La storia di Gladys, la madre, è uguale a quella di tante giovani africane. Nigeriana, figlia di una famiglia povera, ha diciotto anni quando una donna si presenta al suo villaggio e se la porta via con la promessa di un lavoro “vero” e invece la prostituisce e la lega a sé con un debito che sembra non estinguersi mai. La figlia non la biasima per aver creduto che avrebbe «trovato un lavoro vero che non avesse lo scopo» di umiliarla e denigrarla. Le riconosce di aver «sempre lottato» per la sua dignità e «fino alle lacrime e al sangue per restare viva» e capisce che non avevano niente di cui vergognarsi, la madre era solo una vittima. Le confessa che quando a undici anni le ha raccontato la sua storia senza mai usare la parola “prostituzione” ma “sofferenze”, si è sentita “sporca” e ha temuto che un giorno sarebbe toccato anche a lei perché una volta ha sentito una persona dire che «tutte le nere fanno così perché a loro piace». Nata dall’amore per un ragazzo nigeriano da cui la madre si era sentita rispettata e amata e che scompare dopo la sua nascita, viene affidata dalla madre alla vicina di casa, Antonietta, che vive con la famiglia del fratello. «Libero mia figlia», le dice. Col tempo le due donne comprendono che «della bambina avrebbero potuto occuparsene insieme», in un rapporto di fiducia e gratitudine reciproca. Di questo Sabrina è grata a entrambe. Non si è mai sentita una bambina abbandonata e quando diceva di essere adottata la madre la riprendeva dicendole: «No, non dire così. Tu non sei adottata. È vero che hai due mamme, ma non sei una bambina adottata». Sabrina le confessa che a quel punto non aveva più le parole per dirsi. «Avevi detto che non dovevo dire di essere adottata, e allora le parole hanno iniziato a mancarmi. Non le avevo le parole giuste e tu non me le hai date». Di una cosa è sicura, dell’amore di entrambe le mamme e del suo per loro. Quando la madre si libera dalla prostituzione e si trasferisce a Firenze, chiede solo che sua figlia passi con lei i mesi estivi. Ogni volta chiede fiducia ad Antonietta che teme non gliela riporti più. Anche Sabrina lo teme, ma non lo dice. La porta più volte in Nigeria e lì la figlia sente l’appartenenza a quella identità a lungo rinnegata, «come qualcosa di cui vergognarsi». Ma, se in Nigeria le veniva detto che era «troppo italiana» per i suoi comportamenti, in Italia le veniva detto «di non esserlo abbastanza» per il colore della pelle. Alle medie scopre «di essere nera, nera davvero» e crescendo comprende con dolore cosa vuol dire non avere la cittadinanza italiana. Al primo anno di università si deve iscrivere come studentessa extracomunitaria. A un certo punto si ribella alla madre, si allontana da lei, tornata in Nigeria, sposatasi e divenuta madre di una bambina. La incontra un’ultima volta e non riesce «a dare un nome» a ciò che prova. Ha bisogno di tempo per capire (capirsi). Nell’attesa le dice addio, a domani.


(Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io, donna”, 11 novembre 2023)

di Franco Cardini e Marina Montesano


Pubblichiamo alcuni estratti da Donne sacre. Sacerdotesse e maghe, mistiche e seduttrici (il Mulino) di Franco Cardini e Marina Montesano. Un incontro con miti, simboli, magie, archetipi che si muovono nei millenni e un succedersi di vicende e di figure femminili fuori dal comune.


Non c’è uomo, a parte Adamo, che non sia figlio di una donna: che non abbia albergato per mesi nel buio, caldo, sicuro ricettacolo del suo ventre; che non si sia attaccato ai suoi seni in cerca di vita; che – lo capisse, lo volesse o no – per tutta la sua esistenza non l’abbia poi cercata al fondo di tutte le donne che ha incontrato e che ha amato, o che ha finito per odiare, o che magari ha violentato e ucciso. Lei, il grande archetipo che Mircea Eliade e Carl Gustav Jung hanno cercato di farci comprendere. La Madre amata in tutti i modi possibili, da Edipo a Giovanni evangelista. Quella ch’è anche Sposa e Sorella, come l’amante edenica del Cantico dei Cantici: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! […] Tutta bella sei tu, amata mia – e in te non vi è difetto. Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata».

L’essere umano vive, caccia, si accoppia, si riproduce, soffre, ha paura, uccide e muore da molti millenni: anche se soltanto da sì e no sei o settemila anni ha imparato a narrare le sue gesta, o almeno a lasciar traccia cosciente di quel che è stato o che ha voluto essere o che ha desiderato di far credere ai suoi posteri di essere stato. E magari molto, troppo spesso, ha dovuto, potuto o perfino voluto far a meno di una figura paterna. Ma della madre, di quella no. Senza quel ventre, senza quel seno, senza quegli occhi che lo guardavano, senza quelle mani che lo proteggevano e lo accarezzavano, non sarebbe stato nulla. Altro che «riposo del guerriero», come vaneggiava il povero, troppo grande Nietzsche che non a caso finì anche lui toccato dalla follia al pari di Attis oppure come Agave, madre e dilaniatrice di Penteo. C’è sempre una madre, nel destino di ognuno. Anche i più terribili tiranni degli ultimi duecento anni, anche Napoleone, Adolf Hitler, Josif Stalin, magari hanno dimenticato o disprezzato oppure odiato il padre, ma hanno mantenuto un ricordo pieno di tenerezza e di timor filiale per la madre. Che almeno in un caso ha finito anche col diventare regina. Anzi addirittura imperatrice, Madame Mère.

È tempo di affrontare il cuore di questo grande archetipo, che nella cultura moderna «secolarizzata» continua a conservare i tratti che gli hanno prestato Sandro Botticelli e Raffaello Sanzio. Ma che conosce, a sua volta, qualche precedente: nella storia, nel mito, nell’intricato e fascinoso mondo dei simboli. Passeremo dalle dee-madri della preistoria e dell’antichità alle figlie del sole e della luna fino a giungere al «nodo» della bambina di Nazareth divenuta Stella Maris e Regina Angelorum: esamineremo quindi – in una sequenza che fatalmente introdurrà a continui confronti liberamente evocati fra tempi e spazi diversi – quelle «donne sacre» che sono (o sono state) tali in quanto interlocutrici di Dio, quelle in grado di parlare con i morti, le fate che si comportano come donne e le donne che si presentano come fate: e così via, fino alle martiri di una libertà ancora da conquistare e alle eroine di una libertà conquistata. Questa è una storia senza fine perché, per definizione, essa non finisce mai: dalla sacralità antica e premoderna alla sacralizzazione moderna e postmoderna, in una prospettiva alla quale non si può proporre né tanto meno imporre un fine. Rien que la Femme. […]

Non abbiamo cercato, nelle nostre protagoniste, solo il primato dell’eccellenza: ma qualcosa d’inesprimibile, un quid maius. Come quando, tra millanta bottiglie piene d’acqua, di zucchero e di acini d’uva spremuta, se ne stappa una in apparenza come le altre: e si scopre che è vino. Quella speciale caratteristica che ti commuove, ti turba, ti fa tremare dinanzi a un paesaggio boscoso, a un picco innevato, a un cielo pieno di stelle, a un mare in tempesta o arcanamente sereno, a qualcuno che parlandoti, o cantando, o guardandoti in silenzio, sa riempirti di fuoco e di ghiaccio. È questo il «sacro»: un luogo, un albero, un fiore, una pietra, un suono, un essere umano o qualcuno che gli somiglia ma c’è dell’altro… Il sacro è una forza silenziosa e sottile ma sconvolgente: qualcosa di totalmente diverso, di «altro», rispetto all’umano; una forza divina e mostruosa al tempo stesso. Può essere anche santo, quindi pros- simo al divino e al suo modello; al contrario, però, accade che si presenti come terribile e feroce. […]

Nella contemporaneità del Novecento e degli Anni zero (ossia i nostri) le donne hanno raggiunto nella società ruoli ch’erano in passato loro preclusi; oggi si discute persino di un sacerdozio femminile nella Chiesa, già una realtà in quella anglicana, nella quale dal 2019 le donne ordinate preti sono state più degli uomini, e aumentano anche i loro ruoli dirigenziali. Può darsi che questo abbia «normalizzato» le donne, che le abbia private di quell’aura di maghe, sacerdotesse, mistiche, veggenti che le ha circondate, o per meglio dire che ha circondato alcune fra loro. Peraltro nella società contemporanea, non solo in quella occidentale, cresce il ruolo delle donne; un ruolo che si esplica a diversi livelli della società e della cultura. Ovunque ci si volga, figure femminili appaiono ormai in ogni settore della vita civile: al punto da poter affermare che il carisma «laico» ha sostituito il sacro, o ne è la figura «mutante». Ma in uno stato di grazia, cioè d’accezione, non a causa di uno sviluppo «naturale». In termini sinteticamente weberiani, si potrebbe forse azzardare la formula della donna sacra ch’è tale, rispetto alla donna di pur segnalate e riconosciute qualità, allorché in lei si manifesti e da lei promani un carisma capace di battere decisamente le qualità dell’istituzione. […]

Insomma, l’ultimo secolo si tinge di rosa, si sarebbe detto un tempo: senonché il rosa non è più il colore d’eccezione per le donne, e persino Barbie diviene discusso simbolo dell’emancipazione. Eroine o comunque figure che definiscono molti dei cambiamenti della contemporaneità: sono loro a raccogliere, in un’epoca desacralizzata, l’eredità delle donne sacre?


(Avvenire 10 novembre 2023)