L´autrice di “Persepolis” sul nuovo numero di “MicroMega” che esce domani
Ci sono ragazze in minigonna e uomini senza barba e non tutti sono terroristi fanatici. L´opinione pubblica occidentale è troppo spesso preda di luoghi comuni sull´Islam. Quando l´Iraq nel 1980 attaccò l´Iran l´Occidente sostenne Saddam
Noi iraniani eravamo infatti visti come il Male e così dovevamo essere vinti
Marjane Satrapi

Nell´opinione pubblica occidentale si crede che con il termine «musulmano» si possa definire per intero la cultura di un paese. Non si percepisce che l´«islam» è invece solo una delle diverse componenti che costituiscono l´universo culturale di una nazione. Tutti i musulmani hanno la barba lunga, tutti sono dei fanatici e dei terroristi. Tutte le donne sono velate.
L´idea è che, se si è musulmani, non si possa essere niente altro che questo. «Islamico», però, non significa nulla, come non significa nulla «cristiano». In Occidente non ci si rende conto che, considerando la religione islamica come un elemento esclusivo – e totalizzante – si finisce per intendere l´islam esattamente nello stesso modo in cui lo intende bin Laden. In Occidente è inconcepibile che possano esistere donne che, pur essendo musulmane, portino la minigonna; risulta inconcepibile che un uomo musulmano non abbia molte mogli. E inconcepibile, insomma, che possa esistere un musulmano «secolarizzato». Il messaggio che ne consegue è pericolosissimo: i musulmani non sono esseri umani. Diventano una nozione astratta.
Questa visione che l´Occidente ha dell´islam è il segno di una crisi democratica delle stesse società occidentali. Se i musulmani sono percepiti come «non umani», diventa più semplice fare di loro quello che si vuole. Questo è estremamente pericoloso, perché cadono i limiti etici. Le conseguenze le vediamo, e le abbiamo viste. Quando, nel 1980, l´Iraq attaccò l´Iran, tutte le nazioni occidentali, per otto anni, sostennero Saddam Hussein, perché noi iraniani eravamo il Male. I tedeschi arrivarono a vendere a Saddam delle armi chimiche che poi furono effettivamente usate contro di noi. Ci sono molte persone, uomini e donne, che ancora soffrono a causa degli effetti a lungo termine delle armi chimiche.
Nel nostro caso, nessuno si è seriamente posto il problema dell´uso delle armi di distruzione di massa. Per noi poteva non essere presa sul serio la Convenzione di Ginevra. Noi «iraniani» eravamo una nozione astratta. Le azioni dei terroristi kamikaze, d´altra parte, contribuiscono a rafforzare l´idea che i musulmani non sono «come noi». Il musulmano appare talmente diverso da non avere neanche quell´istinto di sopravvivenza che hanno le forme viventi più elementari. I musulmani amano farsi esplodere, e amano uccidere altre persone.
La rivoluzione islamica in Iran non è il risultato di un improvviso impazzimento collettivo, e non è il frutto di una nostra presunta «barbarie». Di ogni fenomeno bisogna ricostruire le ragioni. Il perché. Quello che ho cercato di fare nel mio Persepolis è capire, appunto, perché il mio paese è diventato quello che è adesso. L´informazione in Occidente ci abitua a guardare solo alle conseguenze, dimenticando le cause. Ma se noi non andiamo al «perché» dei fenomeni non riusciremo neanche a fermare gli atti terroristici, ammesso che si sia veramente interessati a fermarli. Spiegare il «perché», però, impone di considerare gli altri a partire da un´analisi razionale, senza accontentarsi, all´opposto, di risolvere tutto ricorrendo, con un salto logico, alla follia e al non umano. Il monoteismo è all´origine di molti dei mali del nostro mondo perché offre la base per ogni dottrina totalizzante, ed è l´origine di ogni modo di pensare «in una sola direzione». O si è da una parte, o dall´altra; e se si è dall´altra, si è al di fuori di tutto.
In Occidente si crede che gli iraniani abbiano improvvisamente fatto la rivoluzione nel 1979, quasi che non avessero niente altro da fare. E stupefacente la rapidità con la quale, da una nozione astratta, si sia stati capaci di passare di colpo ad un´altra nozione astratta. Se prima eravamo la nazione delle Mille e una notte, la nazione dei tappeti volanti, di Soraja, nel 1979, di colpo, siamo diventati dei terroristi. Nel volgere di un attimo, tutto è cambiato. I tappeti volanti sono diventati missili e Soraja è diventata una donna isterica. L´opinione pubblica occidentale non sa, però, che gli iraniani hanno fatto, nello scorso secolo, tre grandi rivoluzioni. Nel 1906 c´è stata la rivoluzione per la monarchia costituzionale. Nel 1951 l´Iran ha nazionalizzato il petrolio, con Mossadeq primo ministro. Finché, nel 1953, sulla base di un accordo di spartizione del petrolio iraniano tra gli americani e gli inglesi, Mossadeq non è stato pugnalato alle spalle.
La rivoluzione del 1979 non era affatto, all´origine, una rivoluzione islamica. Io sono contraria alla rivoluzione islamica. I miei genitori, che hanno fatto la rivoluzione del 1979, non volevano affatto la rivoluzione islamica. Le ragioni della rivoluzione erano ben altre. Nel periodo dello scià non avevamo libertà di parola, e c´era un terribile sistema di controllo dei servizi segreti. A quel tempo, se io fossi andata a scuola a dire che lo scià era un fesso, sarei state espulsa immediatamente. La rivoluzione maturò con la crescita in Iran di una classe media. Era venuto il tempo per noi, allora, di porci questa domanda: dov´è la nostra libertà?
La rivoluzione divenne antioccidentale per altre ragioni. Gli europei, a mio avviso molto più che gli americani, hanno dimenticato quanto male hanno fatto nel mondo. Gli europei, ad esempio, sono convinti che gli «americani» hanno la responsabilità di aver sterminato gli indiani: ma gli «americani» non sono alieni scesi dal cielo. Gli «americani» erano europei. Negli ultimi duecento anni l´Europa è stata straordinariamente attiva in conquiste e violenze. E i popoli, benché non abbiano una vera memoria storica, hanno però una sorta di memoria genetica. L´essere umano dimentica, ma non perdona. Secondo me dovrebbe essere il contrario: si dovrebbe perdonare, ma non dimenticare. Tuttavia, non è questa la natura dell´essere umano. Così, in Iran, molta gente odia gli inglesi, ma non saprebbe dire perché. Per queste ragioni, nell´Iran di allora, la rivoluzione prese un orientamento antioccidentale. Se l´America e la Gran Bretagna non avessero orchestrato il colpo di Stato nel 1953, l´Iran avrebbe esportato la democrazia nella regione, e non, ventisei anni dopo, la rivoluzione islamica. Dopo l´Iran tutti gli altri paesi avrebbero nazionalizzato il petrolio, sarebbe stato l´inizio della democrazia nella regione mediorientale. Questo processo però è stato reciso sul nascere.
In un paese dove metà delle persone non sanno né leggere né scrivere, come era l´Iran nel 1979, far nascere la democrazia era impossibile. Lo scià volle modernizzare la società troppo velocemente. Togliamo il velo e diventeremo moderni! Apriamo casinò, e diventeremo moderni! Il paradosso era che le donne iraniane potevano portare minigonne vertiginose, ma dovevano rimanere vergini fino al matrimonio. Senza rivoluzione sessuale, la minigonna non significa niente. Se una ragazza perdeva la sua verginità, il padre poteva ucciderla. La modernizzazione dell´Iran voluta dallo scià è stata, dunque, estremamente superficiale.
Quando gli islamici presero il potere, si capì subito che stavamo entrando in un´altra dittatura. Ma fu lo scoppio della guerra con l´Iraq a dare il contributo decisivo al rafforzamento della dittatura. Con una guerra ai confini, non è possibile sostenerne un´altra dentro casa. Otto anni di guerra e un milione di morti: la popolazione era completamente esausta e incapace di reagire. Gli attentati dei gruppi di estrema sinistra finirono per dare al regime la giustificazione per un´ulteriore repressione. Non si deve dimenticare che l´Iran e l´Afghanistan confinavano con l´Urss, che l´opposizione in questi due paesi era di sinistra, e che gli americani non volevano che noi diventassimo comunisti.
Ecco perché è sbagliato credere che la gente sia divenuta folle in un giorno. In Iran abbiamo un 15 per cento di esaltati: ma questi non mancano neanche in Europa, dove non è difficile trovare un 15 per cento di fascisti. Basti pensare a quanti sono quelli che in Francia votano per Le Pen. Anche in Italia i fascisti hanno preso il potere nello stesso modo. In ogni angolo del mondo, si trovano percentuali di questo genere. Il nostro problema è che questa minoranza di folli ha le armi, ha il potere. La nostra costituzione è fatta, inoltre, in modo tale che impedisce qualsiasi cambiamento attraverso il voto politico.
Ma su un punto voglio essere chiara. Io non sono tra quelli che dicono che gli occidentali sono responsabili di tutto quello che è successo in Iran. Questa tesi è insostenibile. L´Europa dovrebbe però prendersi una volta per tutte la responsabilità di riconoscere quello che ha fatto nel mondo. Semplicemente riconoscerlo. Invece, la musica è un´altra: noi siamo la civiltà e voi orientali siete i barbari. E questo è troppo estremo.
Non confondo gli europei con i loro governi. Amo gli europei, ho sposato un europeo. L´Europa ha inventato la democrazia, che amo. Non sono neanche tra quelli che dicono che non c´è differenza tra i «dittatori fascisti» e i «fascisti democratici». C´è una grande differenza tra George Bush e un mullah, anche se Bush usa la stessa terminologia dei mullah. Se io vado in America e dico che Bush è un fesso, nessuno mi arresta; ma se faccio la stessa cosa in Iran, mi impiccano. Non sono antieuropea e sono estremamente contenta di vivere in Europa.

 

Monica Capuani

Al 40 di Brushfield Street, proprio di fronte al vivacissimo Spitalfield Market, nell’East End di Londra, c’è una vecchia casa di mattoni rossi e, al piano terra, un negozio con l’insegna “Verde’s”. In un’epoca remota apparteneva a un importatore di arance e Jeanette Winterson, il cui romanzo d’esordio si intitolava Non ci sono solo le arance, non ha saputo resistere. Ha ristrutturato la casa, dove vive quando è in città, e riaperto il negozio, che vende verdure biologiche e delicatessen dalla Francia e dall’Italia. Saliamo al piano di sopra, dove il fuoco è acceso nel caminetto. E li si svolge la nostra conversazione su Il custode del faro, che Mondadori pubblica in Italia in questi giorni. Minuta, gli occhi febbrili e i riccioli ribelli, anni fa Jeanette Winterson fece una tumultuosa comparsa al Festiva letteratu ra di Mantova e tenne, davanti al pubblico stregato dalla forza dei suo eloquio e della sua gestualità, un’autentica “predica”. Raccontò che, abbandonata dalla madre, era stata adottata nel villaggio di Accrington, vicino Manchester, da due “folli di Dio” che l’avevano destinata alla vita della Chiesa. Una storia simile a quella di Silver, la piccola orfanella narrata in quest’ultimo romanzo e affidata al vecchio Pew, il custode dei faro cieco. Nata nel ’59 come l’autrice, è un personaggio dickensiano con l’ossessione di raccontare storie, come fa la gente di mare per sopravvivere alla noia della bonaccia o al furore delle tempeste.

Come mai questo interesse per una storia di mare?

Mi sono resa conto che tutti i miei libri finiscono con l’acqua, di un fiume o dei mare, e quest’elemento è potente anche a livello onirico e simbolico per me, l’idea che tra qui e New York c’è solo la vastità dell’oceano mi piace. Chissà com’era navigare all’epoca delle navi a vapore: giorni e giorn in mare, in balia dei nulla, poi all’improvviso, in lontananza, la luce d’un faro. In questo romanzo volevo raccontare il viaggio che ciascuno di noi fa grazie alla vita. E il faro funzionava come perfetta metafora di speranza, guida, consolazione, monito.
L’immagine del faro non può non richiamare Virginia Woolf… Uno dei miei fari nel mondo della letteratura. Quando ero a Oxford a studiare, i miei professori dicevano che nell’800 c’erano quattro donne scrittrici: Jane Austen. Emily e Charlotte Brontè e George Eliot. Io ero disperata: “Solo quattro?”, mi ripetevo. Una donna che, come me, voleva scrivere non aveva un grande passato dietro di sé. Un secolo dopo, Virginia Woolf aprì una porta che era sempre stata chiusa: fu la prima a sperimentare davvero con le parole e a crearsi nel mondo maschile delle lettere uno spazio tutto per sé, difendendolo con le unghie e i denti. L’ossessione di raccontare storie che ha Silver è anche la sua…
Sono cresciuta ascoltando storie. Vivevo con una famiglia povera e analfabeta nel nord dell’Inghilterra rurale. L’istruzione non stava a cuore a nessuno, ma c’era una tradizione orale di storie della Bibbia e non solo. Questo mi ha insegnato a memorizzare quei racconti e anche a considerare una storia come un talismano che puoi portare in tasca e raccontare a te stesso quando ne hai bisogno. Un grande conforto negli anni dell’infanzia, perché ero una bambina solitaria. E’ grazie a questo se sono sopravvissuta, avvolgendomi in questa calda coperta di storie. E ho sempre pensato che se fossi riuscita a raccontare me stessa in quel modo avrei conquistato la libertà. Perché se sei una storia puoi sempre cambiare il tuo destino, puoi essere Aladino, Huckleberry Finn o Robinson Crusoe, Heathcliff. La vita, invece, ha un finale già scritto.

I libri, quindi, erano un passo verso la libertà?

Sì, una porta che conduceva in un altro mondo. Non avevo una guida e procedevo divorando libri scaffale dopo scaffale. nella biblioteca dei mio paese. Erano come un sentiero solido sotto i miei piedi, la terra che sosteneva i miei passi. La mia ancora di salvezza. La miccia per la mia immaginazione, Ancora oggi quello che amo di più del leggere un libro è che e un atto privato e incontrollabile. Ci sei tu e c’è il libro, nessuno può sapere cosa stia accadendo dentro di te mentre sei li che leggi quelle pagine, nessuno può interferire in quello spazio privato. Forse è l’ultima vera libertà, questa storia d’amore tra lettore e scrittore. E quest’ultimo si deve esporre, senza paura di spendere delle parti di sé. Frida Kahlo ha affermato con i suoi quadri che non c’è separazione tra l’artista e la sua opera. Sono gli uomini che separano continuamente la sfera pubblica da quella privata. Come il personaggio di Babel Dark nel mio libro, che vive una doppia vita con una moglie che odia e un’amante che lo fa impazzire di gioia e di emozione. Una fonte di ispirazione, così almeno crede lui, per Jeckyll/Hyde di Robert Louis Stevenson. Rampollo di una famiglia di ingegneri responsabili della costruzione della maggior parte dei fari d’Inghilterra…

Anche in questo romanzo lei parla d’amore con spudoratezza, senza timore di essere bollata di “sentimentalismo”.

È vero. Le due parole più difficili da pronunciare oggi sono “ti amo”. A dire “ti odio” ci riesce chiunque, e si dice sempre di più. Ma dire “ti amo” è una cosa così enorme, così complessa, così esigente, e che ci rende così vulnerabili che pronunciare quelle due parole diventa un’impresa eroica. C’è chi dice: “Oh Dio, un altro libro sull’amore!”. L’amore è un argomento così enorme che non dovrebbe esistere libro che non lo affronti.
Che lo si abbia o meno, l’amore è il tema sul quale abbiamo bisogno di discutere in continuazione. E per quanto affermi di aver voglia di sicurezza e conforto, l’essere umano per natura ama il rischio e le emozioni forti. È questa la grande nevrosi: cercare di trasformare in qualcosa di rassicurante un’emozione che per costituzione è l’esatto contrario. La cosa migliore è accettare questa realtà, Invece di ripeterci come un mantra: “Non devo lasciarmi ferire”, dovremmo augurarci il contrario. Tanto accadrà in ogni caso.

Quindi “tanto vale vivere”…

Certo. La nostra stessa identità è un paese sconfinato che impieghiamo una vita intera a esplorare. Ogni tanto arriva qualcuno che ci porta in un territorio selvaggio di noi dove non eravamo mai stati e che non sapevamo esistesse. E il viaggio più intenso ed esotico che si possa fare. Freud, che l’aveva già capito all’inizio del secolo scorso, ha cercato di tracciare una carta geografica e di scrivere una guida a quel paese inaccessibile e ancora inesplorato. La scienza, però, ha il limite di invecchiare continuamente. L’arte, invece, vive in un eterno presente. Calvino nelle Città invisibili dice che dobbiamo capire la differenza tra ciò che è “inferno” e ciò che non lo è, per consentire a quest’ultimo di esistere e durare. L’uomo non è solo una creatura che mangia, dorme e lavora. È un essere che sogna e ama. Quel fragile, sottile, delicato mondo di emozioni ed esperienze va riconosciuto e alimentato. Il mio compito, come artista, è quello di proteggere quel mondo e dargli spazio: in ogni opera d’arte, c’è sempre qualcuno che ama, che esulta e che piange.

Massimo Bacigalupo

Di Anne Tyler si sa che ha 63 anni, che ha scritto decine di romanzi ambientati per lo più a Baltimora, che ha studiato russo alla Columbia University e lavorato come biblio tecaria, che ha sposato un medico Iraniano e tirato su una famiglia. Si sa che non si presta a interviste e presentazioni, dichiarandosi timida, dicendo che esponendosi alle gaffes delle occasioni pubbliche
brucia l’energia e l’attenzione per scrivere. E in effetti davanti a un romanzo come Un matrimonio da dilettanti (trad. Laura Pignatti, Guanda, pp. 306, € 15,00) qualsiasi spiegazione sarebbe ridondante.
È un’opera costruita con scioltezza e perfezione, che segue i casi dei due protagonisti, Michael Anton e la moglie Pauline, dal giorno del loro incontro da ventenni nel 1941, su un arco di sessant’anni, chiudendosi nell’autunno 2001. un bello scorcio di Novecento raccontato in sedici capitoli, di cui l’ultimo breve una sorta di Edipo a Colono, con il banale Michael che zoppicante come sempre per la sua “ferita di guerra” si avvia verso la casa divisa per decenni con Pauline, nel frattempo separata (dal trentesimo anniversario, 26 settembre 1972) e morta in un incidente balordo.
Anne Tyler possiede l’arte di evocare un mondo a tre (quattro?) dimensioni con la massima economia. Ha detto di aver provato piacere a immaginare una giornata del 1941, quando Michael sta aiutando la madre nella bottega di alimentari nella Baltimora etnica, a pensare quali fossero le marche dei prodotti in vendita (sapone Woodbury) e delle automobili che sgusciano per strada (Chrysler Airstream). Ma a differenza di connazionali come John Updike e Philip Roth, che ci inondano di dettagli uggiosi facendo sfoggio di virtuosismo, la saggia Tyler usa pochi tratti sempre significativi, non si parla addosso (Roth), non è fatua né preziosa (Updike). Guarda il suo oggetto, quella istantanea del 1941, ed entra nelle teste dei personaggi.
La tecnica è il racconto in terza persona, ma il punto di vista cambia lievemente di capitolo in capitolo, spostandosi da lui a lei a uno o l’altro dei figli. Gli eventi sono pochi quanto la vita è lunga. Un matrimonio precipitoso, da “dilettanti”, caratteri male assortiti che continuamente si danno sui nervi a vicenda. Il lavoro di Michael nel negozio di alimentari della madre, poi sostituito da un altro negozio in un quartiere più agiato, con prodotti più ricercati: lavoro che dà da vivere alla famiglia. Il nervosismo e l’insoddisfazione dell’impulsiva Pauline, che dopo aver avuto tre figli, Lindy, George e Karen, ha un flirt sbadato con una conoscenza occasionale, scoperto subito da Michael che non le rinfaccia la bugia con cui ha cercato di nascondere la visita peraltro innocente nella casa dell’altro. La sbandata all’epoca di On the Road della figlia maggiore Lindy, che ancora adolescente scompare da un giorno all’altro e non dà più notizie di sé, rivelando di essere della stessa stoffa ostinata e impulsiva dei genitori.
Come in un testo teatrale, la vicenda è narrata attraverso una serie di giornate e scene, e gli eventi sono visti indirettamente. Non sappiamo molto dello stato di mente della fuggiasca Lindy (“Sputava parole come ‘borghesia’ e ‘domestico’ quasi fossero bestemmie”), ma vediamo come i genitori e fratelli reagiscono o ignorano il semplice fatto che quella notte non è tornata a casa.
“La domenica di solito cenavano prestissimo, ma nessuno aveva avuto voglia di mangiare in attesa di chiamare la polizia. Dopo che i due poliziotti se ne furono andati, però, la madre disse: ‘Io sto morendo di fame!’ e il padre: ‘Anch’io. Che ne dite se preparo dei panini con il formaggio fuso?’ Era la sua unica specialità, in cui si prodigava solo un paio di volte all’anno. Così andarono tutti in cucina, dove lui estrasse la grande griglia quadrata e un mattone gigante di formaggio; in pochi minuti nella stanza si diffuse un profumo delizioso di burro fuso che diede subito a Karen una sensazione di festa, anche se sentiva ancora quel peso allo stomaco e con un orecchio continuava ad ascoltare se dalla porta veniva qualche rumore. (‘Secondo me vostra figlia tornerà a casa questa sera con la coda tra le gambe’ aveva pronosticato il poliziotto più vecchio.) Eppure si sentì invadere da una strana sensazione di festa. Forse era il sollievo di avere di nuovo la casa tutta per loro – quei due testoni se n’erano finalmente andati, la radio del più anziano finalmente taceva. E il resto della famiglia sembrava pensare la stessa cosa. Suo padre faceva il buffone davanti ai fornelli brandendo la spatola e imitando un accento da chef francese. La madre si era tranquillizzata e a tratti perfino rideva. Suo fratello se ne stava stravaccato su una sedia in cucina, stranamente partecipe della vita familiare”. Un momento di massima tensione (“il mistero principale delle nostre vite” definirà la sparizione di Lindy il fratello George verso la fine), eppure le reazioni dei sentimenti procedono imprevedibili per la tangente, una cosa dopo l’altra, e il punto di vista in questo caso è quello abbastanza distaccato della sorella minore Karen. Dettagli significativi di un episodio emergono a volte solo più tardi nella narrazione.
Così i personaggi sono sempre calati nella Vita, sono suoi fenomeni ed espressioni e Anne Tyler è una discendente di Tolstoj e Proust, e sicuramente sa qualcosa dell’élan vital dello spirito del mondo (qualche suo scritto sfiora il tema del misticismo). Ma, ed è straordinario, non ci dice mai nulla del senso di tutto ciò, lo presenta alla nostra attenzione e compassione. È un mondo registrato-inventato che lei così raffigura con precisione cristallina, come una Jane Austn ha raffigurato il suo mondo, o Hemingway il suo (e Hemingway sosteneva appunto che l’arte del narratore stesse nel portarci là dove egli era stato).
Ma oltre all’America di Pearl Harbor e dell’11 settembre, egualmente immutata davanti a questi eventi così come la vita personale muta e insieme non muta davanti alle catastrofi familiari, Tyler ci mostra un’umanità non limitata dallo spazio e dal tempo, giacché i suoi personaggi banali, prigionieri di vite che sarebbe facile liquidare come prive di interesse, respirano degli stessi pensieri e turbamenti interpersonali che ritroviamo ogni giorno vicino a noi. E soprattutto Tyler si è data uno stile trasparente che riesce a non sembrare più stile, a lasciare agire i suoi Michael e Pauline, a dargli anche dignità senza mai stonare. Sono piccole realizzazioni, ma a ben pensarci è raro incontrare oggi un’opera di tale semplice e commovente perfezione. Tanto che non sappiamo nemmeno di esserne commossi.

Giuliana Sgrena

È l’utopia il filo che percorre tutto il libro di Nella Ginatempo, come si può intuire dal titolo della pubblicazione: Un mondo di pace è possibile. Una “utopia concreta” la definisce Ginatempo quando individua nella scelta della non violenza il primo passo per disarmare la violenza, la violenza dell’impero. Il libro è una raccolta di riflessioni critiche lungo il filo rosso della “guerra globale”: dalla prima alla seconda guerra del Golfo passando per i Balcani e l’Afghanistan (1991-2004). L’autrice insiste sul passaggio dalla guerra fredda a quella globale: “intesa come scenario mondiale in cui sono potenzialmente coinvolti tutti i continenti, compresa l’Europa e anche l’Onu che aveva giuridicamente bandito la guerra” (e anche l’ Italia lo ha fatto nella Costituzione). Ginatempo analizza le fasi dalla caduta del muro nel 1989, alla fine del bipolarismo e all’affermarsi dell’unilateralismo della superpotenza americana che ha fatto della guerra lo “strumento di dominio”. Alla quale si contrappone il movimento contro la guerra: “no alla guerra senza se e senza ma”, quindi a tutte le guerre. “È nato qualcosa di nuovo. È difficile riconoscerlo per chi ne sta fuori. Ma è facile riconoscerlo per chi lo sognava da più di vent’anni …. Ma io sento che si realizza un sogno: lo sviluppo tumultuoso di un soggetto rivoluzionario mondiale“, scriveva Ginatempo nel novembre del 2002 al Forum sociale di Firenze.

 

Stefania Giorgi
Lungo le rive dello Scamandro (i salottini illuminati dai bagliori del focolare catodico dei tiggì), lontano dal Palazzo di Priamo (la Casa Bianca, Downing Streett…), in mezzo a bombe, minacce, bugie e videotape (la guerra infinita di Bush&Co.), la Cassandra di Pat Carra osserva e commenta (con il suo stile inconfondibile) fendendo e diradando il fumo (delle bombe e delle bugie sulle bombe). Veggente non votata alla solitudine della testimonianza senza ascolto, ma alla condivisione con altre donne come lei capaci di «visioni» sulla nuda verità della guerra e dell’economia della guerra; dotata di capacità profetica non per dono divino, ma per la sua perizia, tutta terrena, di legare corpo/esperienza/lingua e svelare così il backstage di quel che accade. Niente paura, però, non pensate a lutti, disperazione, pianti e alti lai. Tremila anni dopo la guerra di Troia per la presunta love story di Elena, il destino toccato in sorte alla sua omonima antenata – la sacerdotessa che pre-vedeva le sciagure, condannata da Apollo a non essere ascoltata e per questo perennemente sull’orlo di una crisi di nervi per non dire di pazzia – la Cassandra di Pat Carra ha imparato la lezione. L’antidoto che usa per smascherare il gioco mortale, pazzo e insensato di guerre «umanitarie» e «preventive» è quello di rintracciare «un tratto umoristico in ogni pazzia. Chi sa riconoscerlo e usarlo ha vinto» (come scrive Christa Wolf della sua Cassandra). Così da Kabul a Baghdad, Pat Carra continua a lanciare quelle che lei stessa aveva definito, durante la guerra in Kosovo, «bombe di riso». Sberleffi sussultori, sghignazzi irriverenti, sorrisi liberatori. Resistente, ignifuga, irresistibile, la sua è una «Cassandra che ride». Che poi sarebbe il titolo del suo ultimo libro (Baldini Castoldi Dalai, € 12,90) dal quale estraiamo alcuni quadretti di china. Un piccolo assaggio di una cura ricostituente di senso che consigliamo per tutti.

vignetta

Unicopli

Anna Paini

Marco Deriu nel rendere conto delle interviste condotte nell’arco di due anni a Carpi (Modena), con un gruppo di padri e di figli adolescenti (1) “ipotizza l’esistenza di un conflitto intergenerazionale nel maschile, un conflitto non diretto e non esplicito, che si presenta piuttosto nella forma, più sottile ma anche più profonda, di ampi e significativi blocchi comunicativi tra la generazione degli uomini adulti e quella dei giovani e degli adolescenti”. Il conflitto quindi assume forme diverse rispetto a quello che aveva segnato le generazioni precedenti, non passa attraverso gesti di rottura, di ribellione aperta quanto piuttosto attraverso il blocco della comunicazione. Emerge una rinuncia all’autorità da parte dei padri che vogliono affrancarsi dal modello maschile genitoriale dei propri padri e contemporaneamente un non riconoscimento di autorevolezza da parte dei figli nei loro confronti; emergono grosse “difficoltà a confrontarsi con l’aspetto conflittuale delle relazioni” da parte degli adulti e viene meno “la funzione di contenere, di limitare, di orientare, di dare misure, limiti, sponde”, generando una impasse nei rapporti. Nelle pagine conclusive Marco si chiede se una via d’uscita da questo vicolo cieco possa essere quella di proporre nuovi modelli e chiarisce che sente piuttosto la necessità di fornire riferimenti chiari.

Ho apprezzato La fragilità dei padri fondamentalmente per due ragioni:
Innanzitutto per il taglio metodologico. Marco Deriu esplicita di voler evitare di “incasellare le diversità dei padri in una serie di tipologie stereotipate”, ossia di non voler confinare i percorsi biografici in tipologie predefinite, che risulterebbero inadeguate alla lettura di un fenomeno molto articolato.
Tengo a evidenziare questo aspetto perché spesso mi sono confrontata con saggi su temi a me più vicini, quali per esempio l’immigrazione, dove si opta per riproporre “nuove” tipologie che possono sembrare più ordinatrici, ma che appiattiscono la complessità della realtà presa in esame.
L’approccio di Marco è senz’altro più produttivo in quanto largo spazio viene dato ai racconti dei propri interlocutori (padri e figli intervistati) e in primo piano vi è la loro esperienza e la loro relazione (“far emergere la complessità dei punti di vista degli uni e degli altri, mostrare anche la compresenza di elementi contraddittori e di tensioni differenti che possono attraversare la stessa persona”) senza che questo nasconda l’intervento interpretativo dell’autore.
La seconda ragione riguarda l’aiuto che queste interpretazioni mi hanno dato per affrontare un altro contesto intergenerazionale con cui mi sono confrontata, quello di ragazze adolescenti, nello specifico di giovani immigrate. Ho letto La fragilità dei padri mentre ero impegnata in una scuola superiore di Reggio Emilia in una prima ricerca su studentesse straniere, soprattutto di provenienza maghrebina, alcune a Reggio da molto tempo (qualcuna nata qui), altre invece appena arrivate; una ricerca che avrei presentato nell’ambito di un ciclo di incontri, proposto nel corso del 2004 dalla provincia di Reggio Emilia, dal titolo Arrivare non basta. Complessità e fatiche dell’immigrazione familiare. Alcuni passaggi del libro di Marco mi hanno offerto chiavi di lettura per restituire il materiale raccolto svincolato da schemi, cui troppo spesso affidiamo il senso della nostra interpretazione, che contrappongono le scelte individuali a quelle famigliari.
Dalle testimonianze delle più grandi emerge la capacità di muoversi tra più mondi culturali, di rivendicare un’identità complessa, di essere delle mediatrici tra il contesto scolastico ed extra-famigliare in generale e quello famigliare. Posizione ben diversa da quella di chi ritiene che queste ragazze posseggano due insiemi di regole cui fare ricorso a seconda dei contesti. I loro racconti parlano invece un linguaggio di permeabilià che apre uno spazio di negoziazione. Alcune sono riuscite a mediare tra le richieste famigliari che imponevano loro un fidanzamento e matrimonio concordato e la voglia di continuare a studiare, ben consapevoli di non voler interrompere i rapporti di scambio con la propria famiglia, cui assegnano un alto valore.
Questi racconti presentano situazioni che potrebbero sembrare contraddittorie, ma iniziare a leggerle come attraversate da conflitti che non scelgono gesti di rottura o di sfida ma altre strade, che non sono nemmeno quelle del blocco comunicativo, è stato produttivo. Le riflessioni proposte da Marco Deriu sono quindi state utili per interrogarmi sui rischi insiti nel leggere questi gesti, questi comportamenti attraverso schemi che non funzionano più nemmeno per gli adolescenti “nativi”.
Forse bisognerebbe iniziare a riflettere seriamente sui modelli genitoriali a cui si rifanno le adolescenti straniere, senza liquidare o etichettare certi comportamenti come mancanza di autonomia individuale. Si potrebbe piuttosto considerarli come risposte di ragazze che riconoscono e danno valore all’autorità rappresentata dall’esperienza nella differenza generazionale, e che valorizzano la dimensione verticale (assente invece nel rapporto padri-figli delle testimonianze proposte da Marco), e che nello stesso tempo sono consapevoli della differenza tra le loro vite e quelle delle loro madri e si pongono come mediatrici tra contesti culturali diversi, ma senza optare per gesti di sfida emancipatoria.
In una situazione di crisi dei rapporti intergenerazionali forse abbiamo qualcosa da imparare dall’esperienza di giovani donne che negoziano con la propria famiglia svincolate dalla contrapposizione indipendenza/dipendenza.

A fine lettura mi sono resa conto che la riflessione proposta in La fragilità dei padri non coincideva con la mia esperienza di madre di una figlia, esperienza che ha fatto proprio un altro percorso di relazione, che ha scommesso sul tenere insieme la valorizzazione dell’autorità femminile con un rapporto dialogante.
Per questi motivi ritengo che il libro di Marco Deriu offra spunti di riflessione e produca interrogativi vantaggiosi anche per chi non può essere compresa in una genealogia maschile.

(1) le interviste fanno parte di una ricerca qualitativa svolta a Carpi (Mo) per conto del Centro per le Famiglie del Comune e del Free entry Punto d’ascolto per adolescenti dell’Ausl di Modena – Distretto di Carpi.

Donatella Massara

Non avevo mai letto un libro di Bianca Pitzorno; ne conoscevo però la bravura. La Bambinaia francese quando era arrivato in libreria mi aveva fatto venire voglia di leggerlo perché se la sua autrice aveva dedicato energie per un libro così, certamente voleva dirci qualcosa.

L’autrice ha risposto all’invito che le aveva rivolto Liliana Rampello a presentare il suo romanzo al Circolo della Rosa, ho avuto così modo di sapere che fra le protagoniste del suo romanzo si dipana la genealogia femminile.
Poi c’è altro. E’ il dialogo con la letteratura non solamente femminile che Bianca Pitzorno intrattiene in questo romanzo, autorizzandosi e autorizzandoci a discutere e rinterpretare. In questa perlustrazione l’autrice segue la suggestione che ha guidato Jean Rhys in Il Grande mare dei Sargassi, storia di Berta, la moglie creola e pazza che nel romanzo di Charlotte Brontë impedisce le prime nozze di Jane Eyre. L’autrice invece si rivolge a Sophie, la bambinaia d’Adele la bimba affidata alle cure di Jane Eyre. Inseguendo le tracce che la Brontë sparge la legge come protagonista del suo romanzo, ne racconta la storia, la ricolloca nell’infanzia, a Parigi, la insegue fino all’incontro con Jane Eyre. A queste pagine che sono le più intriganti del romanzo, arriviamo dopo tre quarti di narrazione dove un accurato affresco storico ci porta nella vita delle donne e degli uomini che fanno parte dell’universo di Sophie, come delle giovanette e dei giovanetti che partecipano agli anni della sua crescita.
Il romanzo mi è piaciuto perché è sia un gioco letterario, avventuroso e educativo sia un raffinato esercizio d’introduzione all’immaginario femminile. Al centro di questa convergenza di motivi, anche molto soggettivi, l’autrice ci dice che il romanzo di Ch. Brontë mantiene la grandezza del capolavoro; è ancora perfettamente leggibile e in grado di tenere sveglia l’attenzione e tanto più avviene quando ci accorgiamo in quale coinvolgimento Bianca Pitzorno è stata catturata; scopriamo che Jane Eyre, fra i suoi tanti meriti, esibisce anche rigide angolature per esempio il giudizio negativo con cui il mondo inglese guardava al popolo francese che aveva vissuto la Rivoluzione del ’79 e il periodo napoleonico. Adele nel romanzo di Brontë assomma su di sé le caratteristiche di questo mondo francese, giudicate con gli occhi disapprovanti delle inglesi. Jane Eyre alla riprovazione accompagna la mancanza di tenerezza verso la bambina. L’istitutrice e il suo tormentato amore per il padrone non sono privi di conseguenza, dunque, verso la bambina e la sua bambinaia che osservano e giudicano.
La scrittrice si prende le sue rivincite, dunque, dopo avere raccontato la crescita dei protagonisti e le vicende storiche a cui assistono.
Bianca Pitzorno con questo romanzo ci lascia lo spazio libero per provare piacere con la sua fertile immaginazione, per metterci alla prova con la storia delle donne e degli uomini, giovani e non giovani, protagoniste/i della fine dell’ancien régime e per rientrare nella letteratura delle grandi narrazioni femminili sfidandoci a diventarne le interlocutrici.

Letizia Artoni

Manuela Dviri, autrice di Vita nella terra di latte e miele, è oggi una giornalista israeliana, ma è nata a Padova nel 1949 da famiglia ebraica e sionista. Nella metà degli anni sessanta decide di trasferirsi in Israele, dopo aver sposato Abraham Dviri un ragazzo israeliano “dall’aria tranquilla e buona, ma con le spalle muscolose e le mani forti” conosciuto sulla nave che la stava portando insieme ad altri ragazzi e ragazze da Napoli a Haifa.
Erano i figli e le figlie di agiate famiglie ebree italiane che partivano per il “classico” viaggio in Israele, entusiasti di poter conoscere questo paese “nuovo, giovane, fresco, tutto rivolto verso il futuro, la speranza”.
Qui l’aspettano tempi difficili, ma il coraggio non le manca. Sposata e giovane madre, con pochi soldi e il marito spesso al fronte, riesce a finire gli studi – l’ha promesso alla madre preoccupata di vederla partire con un uomo praticamente sconosciuto – e col tempo a vivere una buona vita. Il marito, ebreo ortodosso, è un avvocato divorzista, lei lavora presso un istituto di ricerca scientifica, i figli sono diventati grandi, la situazione politica non è ancora l’inferno di oggi.
Così fino alla morte del figlio più piccolo, Yoni, ucciso nel 1998 in Libano, dove era stato inviato con altri militari a difesa di un piccolo villaggio di confine…”Mamma” – mi aveva detto – “il comandante ci ha fatto vedere il villaggio di notte, tutte le luci erano accese, e ci ha detto che i bambini lì dormivano tranquilli grazie a noi”. Una scelta convinta quella di Yoni, una morte inutile, ingiustificata per lei che da quel momento, incapace di accettarla come semplice casualità, si impegna a chiederne conto e a testimoniare nel maggior numero di luoghi possibili l’assurdità di questa guerra e la necessità della pace.
E’ un libro corale. La scrittura non è sempre uguale. Si passa dal racconto, ai monologhi, ad alcune parti della pièce teatrale che Silvano Piccardi ha scritto insieme a lei e che Ottavia Piccolo sta interpretando. Alcune di queste testimonianze sono più vicine a noi per esperienza e sensibilità, come quella di Margherita, l’amica d’infanzia, quando ci racconta che cosa è stata per lei la morte di Yoni, altre sottolineano invece la diversità delle vite e del sentire, dell’autrice in primo luogo, e il fatto che per quanto informati, la distanza che ci separa è enorme. Il racconto, molto articolato, l’accorcia.
Andare di persona, come hanno fatto alcuni dei protagonisti, è forse il modo migliore per poter capire un po’ di più e meglio.

Liliana Rampello

“Clandestino” di Eliette Abécassis parla di un incontro, di un attimo che cambia tutta la vita, dello sguardo che solo questa contemporaneità mescolata di geografie e storie lontano-vicine può rendere quasi miracolo concreto. Un uomo, una donna, un binario; colori cupi e bagnati, un’atmosfera parigina alla Simenon, ma con lo sguardo di una donna che sa d’amore, non solo dell’ambiguità dell’anima umana.
E’ il racconto di un legame che fa saltare senza scampo ogni certezza, che si slancia nell’impossibile, nell’inaccettato. Sentimenti e sfondo di delicata rarefazione, per frugare nell’intimità, nella soglia rivendicata come dicibile fra la morte e la vita, come già l’autrice aveva raccontato in due diversi e altrettanto brevi romanzi, Ripudiata (Tropea 2001) e Mio padre (Tropea 2003). Che sia una trilogia? Non importa, il centro è sempre la relazione, il suo ineludibile nodo, che così si dispiega sapientemente in diverse figure. Qui fra una donna e un uomo che imparano a riconoscersi, in Ripudiata Nathan che abbandona Rachel perché sterile, nonostante il matrimonio combinato avesse fatto scoprire la profondità di una passione impossibile da negare, in Mio padre un fratello taciuto che con la sua comparsa fa deflagrare tutti i ricordi di Héléna, la sorella che racconta del padre, di una devozione messa violentemente alla prova della memoria, di una realtà che costringe a cambiare di segno un passato ormai spoglio di ogni innocenza.
Una scrittura che sa intonare il lamento, la preghiera, la passione, la scoperta.

Elisabetta Cicchi

Il libro di Azar Nafisi è uno di quei testi che ti incoraggiano a credere che nonostante le aberrazioni della nostra epoca esista in fondo ad ogni essere umano un nocciolo intatto di pura bellezza, una sorgente di energia libera e limpida. L’autrice scrive il racconto delle proprie esperienze di docente di letteratura inglese all’Università di Teheran alla vigilia, e durante i primi mesi, della rivoluzione Khomeinista. Il libro si intitola Leggere Lolita a Teheran perciò, già prima di leggerlo, soffermandomi sul titolo, mi sono interrogata sulle vicende di censura che il testo di Nabokov ha dovuto affrontare prima di venire alla luce, e su come dovesse essere difficile, se non addirittura pericoloso, tenerlo tra le mani nella terra della Repubblica dell’Islam.
Leggere Lolita Teheran è stato, per me, una finestra aperta su una realtà quasi sconosciuta, ed è stato motivo di gioia. L’Iran di cui ci parla questa donna è una terra lontana, complessa, strangolata dall’odio e dall’ottundimento della ragione, eppure lì, come in tanti altri paesi più o meno scopertamente soffocati, resta vivo il bisogno di vedere, di sentire, di comprendere. Non è un caso che la Adelphi, che lo pubblica in Italia, abbia scelto una foto di copertina come questa: una donna seduta che sta leggendo un grosso libro tenuto con una mano, l’unica parte visibile del suo corpo, altrimenti completamente coperto da un velo nero.
E’ un libro in cui si parla fondamentalmente di letteratura, ma in cui si parla anche fondamentalmente di libertà e di prigionia. Che non è per forza la prigione dei dissidenti, delle ragazze che vengono sorprese con una ciocca di capelli che scivola fuori dal velo o con le unghie laccate di rosso. Queste, se vogliamo, sono le metafore visive delle prigioni vere, sono i muri e le sbarre costruite con le prigioni che noi abbiamo nella testa quando siamo arrabbiati, quando siamo spaventati, quando abbiamo voglia di vendetta e la ragione e il cuore vengono azzittiti, dimenticati. Ed è solo l’arte che può arrivare dietro quelle sbarre che si serrano sempre di più, prima di tutto nel nostro cervello, dentro di noi, nel profondo di noi.
La Nafisi si rende conto che giorno dopo giorno si allungano le liste dei libri proibiti, che i suoi concittadini devono sottostare sempre più ad inaccettabili regole restrittive di ordine sociale e culturale, che i suoi studenti non possono più agire da liberi pensatori, che il pensiero e la creatività sono i primi ribelli del regime e per questo vanno annientati. Nel tentativo di combattere tutto ciò, durante le sue lezioni, cerca di stimolare i suoi studenti e chiede loro: Tu cosa pensi di James? Tu cosa pensi di Humbert? E l’assale la disperazione quando alcuni tra loro, anche i più brillanti, rispondono condannando l’uno o l’altro, o tutti e due, perché quello che hanno scritto, o le azioni che compiono sono “immorali”. I giovani studenti non ragionano più, hanno assunto come loro pensiero i dettami del partito. Non c’è più il bello ma solo il giusto, ed è giusto solo quello che lo è per il partito, secondo la morale del partito.
Eppure, per uno studente che si perde ce n’è un altro, o un’altra, che si sveglia. E questo succede proprio grazie agli immorali protagonisti occidentali di quei romanzi in lingua inglese, la lingua del nemico americano; però, non è per via dell’immoralità dei protagonisti, o della novità di una cultura più liberale che si aprono gli occhi, ma grazie all’arte. Prendiamo Jane Austen, a cui viene dedicato un capitolo intero, chi la condannerebbe per immoralità?
C’è di più, perché proprio il soffocamento intellettuale che sconvolge il suo amato paese spinge lei e un gruppo di studentesse a un genere di intimità altrimenti impensabile; in casa Nafisi si svolgono delle riunioni segrete in cui liberamente si leggono e si commentano i testi proibiti per amore dell’arte rivelatrice che giace nelle pagine dei libri.
All’inizio del primo capitolo del racconto Azar Nafisi scrive: “[…] ciò che cerchiamo nella letteratura non è la realtà, ma un’epifania della verità.” Questo racchiude già il valore del libro stesso; passando per i romanzi, passando per le poetiche degli scrittori non si raggiunge una legge, non si coglie un comandamento, ma una scintilla, un momento di significato che noi soli, in prima persona dobbiamo e possiamo cogliere per poter vedere quello che non è scritto chiaro e tondo, ma si rivela pian piano e ci rende liberi di pensare, di gioire, liberi di volare via da qualsiasi territorio soffocato, strozzato, dentro e fuori di noi.

Fernanda Rosso Chioso

Forse il modo migliore per parlare di Alda Merini sarebbe prendere qui e là le sue poesie e presentarle l’una dopo l’altra, perché le loro “risonanze nuove”, come lei scrive, ci muovano all’emozione e al pensiero. Dico questo perché molto mi colpisce la lettura dei suoi versi. Una lingua lirica che traduce in parole il profondo dello spirito, del pensiero, che è insieme “carne” vera e propria, carne dell’esperienza (… “i miei poveri versi / sono brandelli di carne”…).
Carne, profondo, anima, cuore, parole queste, e molte altre ancora, insondabili e ampie, che perdono il loro carattere abusato e ridiventano dirette e ‘primigenie’, quasi ricreassero il loro legame con l’esistenza, in questa poesia. La quale poesia prende i suoi suoni in un “profondo” che lascia trasparire il carattere di un’esperienza esistenziale estrema.
[…]
Nulla vale la durata di una vita
ma se mi alzo e divoro
con un urlo il mio tempo di respiro,
lo faccio solo pensando alla tua sorte,
mia dolce chiara bella creatura,
mia vita e morte,
mia trionfale aperta poesia
che mi scagli al profondo
perché ti dia le risonanze nuove”.
[…]

Per la stanza del “Paradiso” scelgo di proporre La carne degli angeli, una raccolta di componimenti in prosa e versi pubblicata nel 2003 da Frassinelli (prezzo 8 euro).
“Si dice che la creazione del Paradiso fosse la favola di un ignoto amore che a un certo punto sprigionò le ali dalla crosta terrestre, e così, raffreddandosi la terra, comparvero, al di là delle credenze bibliche, i primi voli degli angeli”. Così esordisce la raccolta, presentandoci questi esseri favolosi e però sorti, ai primordi del mondo, dalla crosta della terra, ali dunque della nostra stessa sostanza e però anche di un desiderio amoroso che fa sì che essi possano essere via via “angeli offesi”, “angeli di luce”, “angeli morti”, e altre figurazioni ancora (“… pulviscolo amoroso e traccia del respiro divino, polmone del desiderio, fiore che cresce nella carne, fiore che si identifica con l’io e si pone al centro dell’amore …” per non citare che un breve passaggio). Essi appaiono come figure di un limite-passaggio: della carne dei nostri corpi (la “putredine” di morte), del nostro amore umano, e insieme della conoscenza amorosa, con tutte le sconfitte, perversioni, accecamenti, (“i molti erronei vicoli della nostra demenza”), anche sino allo spegnimento dell’amore (“La verità di Satana non è la verità di Dio ma è l’amore spento”).
Possono darci insomma, queste figure degli angeli, l’intuizione di un limite che è passaggio di conoscenza sconvolgente e che ha a che fare con la nostra carnale umanità. Così l’amore dell’adolescenza forse più di ogni altro amore ce lo ricorda:
“Ci sono donne e uomini che sognano l’amore.
Essi lo sognano in figura di un angelo, di una carezza estrema.
Ma alcuni lo incontrano in modo perverso. Anche un demone sulla terra può diventare un angelo e confiscare per un attimo tutti i beni di una fanciulla, tutta la poesia della vita.
Mi ricordo del periodo dell’adolescenza, in cui la curiosità del sesso diventava la curiosità della parola.
…Mi ricordo dell’adolescenza, questa fiaccola d’usignolo che scaturiva nei miei seni acerbi e la grande voglia di incontrare l’amore come prima forma di spiritualità, prima forma di viaggio.
E la voglia di lasciare la casa paterna per andare incontro alla suggestione del limite.
In quel limite un angelo aveva deposto l’uovo della conoscenza divina”.
Fra i testi, illustrazioni di Mimmo Paladino. Sulla quarta di copertina una fotografia di Alda Merini, un bel volto, con un guizzo infantile e ironico negli occhi e nel sorriso.

Fernanda Rosso Chioso

Storia di una disperazione femminile, che non trova parole ma solo gesti, significativi ma incomprensibili alla mente maschile (che pure li percepisce con inquietudine e poi con angoscia), infine estremi. Simenon intuisce il discrimine tragico tra i due mondi e le due forme di pensiero sulla vita, del capitano Lannec e di sua moglie Mathilde Pitard. Un discrimine inquinato per di più dalla diversa appartenenza sociale, tenuto conto che nella vita e nella cultura della famiglia di Mathilde campeggia in sottofondo, ‘patriarcale’ ed esiziale, la “vecchia Pitard”.
Scritto nel 1932 e apparso a stampa nel 1935. Si legge tutto d’un fiato.

da Una città

Quando il pensiero non è dominato dalla paura e dalla diffidenza, ma ispirato dalla compassione e illuminato dalla saggezza, allora possono nascere libri come questo.

L’edizione originale è del 1988 e apparve in Italia nel 1990, con il titolo Sopravvivere allo sviluppo. A quell’epoca non ebbe molta fortuna, fu pubblicato da una casa editrice piuttosto marginale che doveva aveva qualche problema di distribuzione. Mi ricordo l’impressione di sorprendente contrasto fra la superba statura intellettuale dell’autrice, il brillante livello politico del contenuto, e la pochezza della veste, combinata con la scarsa reperibilità dell’edizione. Ecco il mondo alla rovescia, pensai: era come se ci avessero regalato un prezioso gioiello avvolto in carta di giornale.

Ora, a distanza di dodici anni, questo primo, importante saggio di Vandana Shiva viene ripubblicato con le dovute revisioni, che però sono poca cosa, quasi che il tempo sia rimasto fermo, se non tornato indietro. Viene pubblicato in veste più accurata da un editore tutt’altro che settoriale, Utet, e con un titolo che gli rende finalmente giustizia: Terra madre: sopravvivere allo sviluppo. A parte alcuni dati numerici, è rimasto sostanzialmente immutato, poiché nell’arco di questi ultimi anni, di fronte al confermarsi di quelle valutazioni, c’è più che mai bisogno delle idee e della lucida visione di cui è testimonianza.

All’inizio degli anni ’80, il nome di Vandana Shiva cominciò a circolare anche in Europa associato a quello del movimento “Chipko”. Chipko era nato come movimento di difesa e autodifesa collettiva di gruppi di donne indiane abitanti delle regioni montuose himalayane e legate alle foreste da una sorta di simbiosi, in un tipo di economia completamente diverso da quello dominante, l’economia di sussistenza. Grazie alla quale le popolazioni delle zone rurali e di montagna si garantivano una sopravvivenza dignitosa senza essere opulenta, e soprattutto sostenibile per i secoli dei secoli. Quelle donne dunque diedero vita a un movimento perché volevano evitare che gli alberi e le foreste, da cui traevano collettivamente sostentamento tutte le famiglie, venissero tagliati dalle imprese multinazionali pronte a disboscare per fare spazio a coltivazioni di eucalipti e altre essenze con la mira di profitti a breve termine. Due economie si scontravano; di queste, una chiedeva di essere lasciata sopravvivere in pace senza dar fastidio a nessuno e l’altra divorava sempre più territori e risorse, pretendendo di imporre se stessa come unica economia possibile. Che quest’ultima pretesa fosse, anzi sia una forma inaccettabile di violenza, è uno dei temi principali che Vandana Shiva discute nella sua opera. Ma si tratta anche del confronto fra due visioni del mondo. Perciò quelle donne, portatrici di una visione ispirata al valore del principio femminile presente anche nell’antica tradizione cosmologica indiana, cominciarono a legarsi agli alberi, nell’intento di fermare le motoseghe, cioè la distruzione delle proprie fonti di sostentamento sostenibile e anche la distruzione dei propri tesori di conoscenza e sapere, da noi definiti allora “alternativi”.

Vandana Shiva è nata in India nel 1952. Dotata di un eccezionale intelletto, si recò a studiare fisica nucleare negli Stati Uniti; dopo la laurea si dedicò a un dottorato di ricerca sulle particelle subatomiche. A quel tempo pensava, come scrisse in seguito, che avrebbe trascorso ogni giorno della propria vita in compagnia delle particelle nucleari. Invece, dopo aver fatto un’esperienza molto istruttiva su quel che combina l’industria del nucleare nel mondo e soprattutto nei confronti della popolazione, a un certo punto voltò le spalle a una brillante carriera nel programma di energia nucleare del suo paese, poiché si era resa conto “che la gente era tenuta all’oscuro delle ripercussioni dei sistemi nucleari sui sistemi viventi”. Si dedicò quindi alla ricerca indipendente nell’ambito della scienza, della tecnologia e della politica ambientale. Nel 1982 fondò un istituto indipendente, la Fondazione di Ricerca per la Scienza, la Tecnologia e l’Ecologia (Rsft), per una ricerca di qualità volta ad affrontare le più importanti questioni sociali-ecologiche dei giorni nostri. In questo campo collaborava strettamente con le comunità locali e i movimenti sociali, soprattutto dell’India, in cui le donne erano (e sono) protagoniste, e infatti quando anni dopo (1993) le fu conferito il cosiddetto premio Nobel alternativo, il Right Livelihood Award, che vuol dire “per il Retto modo di vivere” (e viene consegnato nella stessa sede del premio Nobel, ma il giorno prima). Lei lo consegnò a sua volta alle donne delle montagne che avevano dato vita a “Chipko”.

Il libro Terra madre è rilevante a più livelli. Sul piano politico immediato, è un articolato intervento sulla politica economica della cooperazione allo sviluppo, una dura denuncia nei confronti della Rivoluzione Verde, che viene fatta passare come soluzione al problema della fame nel mondo. L’intervento è particolarmente significativo poiché è una risposta che proviene da un’esponente dei/delle diretti/e interessati/e, una portavoce di gruppi rurali del Sud del mondo. La sua posizione è argomentata in base a fatti molto concreti, per esempio l’impoverimento reale che la popolazione rurale (nella fattispecie quella indiana) ha subìto in seguito alla Rivoluzione Verde che, al di là delle dichiarazioni filantropiche dei suoi promotori, per gli agricoltori e coloro che praticano l’economia di sussistenza nelle zone forestali è invece qualcosa da cui occorre difendersi. Per sopravvivere, appunto, allo “sviluppo”. Per questo introduce una parola di nuovo conio, entrata a partire dagli anni Sessanta nel lessico comune: la parola “malsviluppo”, in inglese maldevelopment (così come anche in francese), un ibrido da lei usato nel senso di “sviluppo sbagliato”, pur contenendo volutamente (come scrive Marinella Correggia, la traduttrice) un accenno alla sua natura di “sbagliato perché maschile” (in inglese male).

Un altro motivo per il quale questolibro merita attenzione è quello della visibilità che esso rende al lavoro e al sapere delle donne indiane rurali e soprattutto al loro impegno e alla loro tenacia nel difendere e sostenere le condizioni per una sopravvivenza autonoma e dignitosa. Le persone che in quel movimento hanno agito e agiscono, lottano e fanno poesia per difendere le foreste e i propri stili di vita dall’assimilazione a un’economia e a una visione del mondo con pretese di validità universale, vengono citate per nome e cognome, da vere protagoniste, vengono messe insomma individualmente sul dovuto piano di importanza, e considerate altrettanto degne di attenzione di chi, come l’autrice, ha assunto una posizione di leader. Anzi, più degne: con una modestia tipica degli spiriti illuminati, Vandana Shiva tira indietro se stessa per lasciare che lo sguardo si posi sulle singole donne (e, se del caso, uomini) del movimento.

E’ altresì un contributo interessante sul piano filosofico, poiché mette in discussione le pretese di validità e di superiorità di una scienza che in definitiva è solo un tipo particolare di scienza: la scienza meccanicistica e cartesiana. Una fra le tante possibili. Parallelamente, un’economia particolare, l’economia del capitalismo industriale, pretende di avere valore unico e universale e tenta, con le buone e con le cattive, di imporsi come l’economia tout court; la visione scientifica particolare e limitata del meccanicismo pretende di dominare anche screditando gli altri tipi e modi di sapere esistenti e relega così un’infinita gamma e ricchezza di conoscenze disponibili in posizioni subordinate, marginali e reiette. E’ di importanza fondamentale (e non finisce di stupirci) il fatto che al giorno d’oggi la scienza più astratta di tutte, la fisica quantistica, quella che ha raggiunto il più alto grado di distacco matematico e teorico dalla concretezza terra terra del vivere quotidiano, quella che più di ogni altra ha portato alle estreme conseguenze il volo di un pensiero distaccato dalla “vita”, riduzionista (poiché riduce la sostanza di cui siamo fatti a nient’altro che…formule e numeri), abbia finora reso giustizia in misura massima, fra le scienze naturali, alla grandiosa complessità della vita e della natura, nel rispetto del nostro sentire “l’universo come dimora”. (Per approfondire questo concetto si potrebbe leggere per esempio Il cosmo intelligente di P.C. Davies, un professore di fisica che si occupa di comprendere l’universo e anche di esporre ciò che ha compreso in modo da trasmetterlo a persone non addette ai lavori). Scrive Vandana Shiva nella prefazione a un altro dei suoi libri, Tomorrow’s Biodiversity, del 2000 (ed. it. Campi di battaglia: biodiversità e agricoltura industriale, Edizioni Ambiente, 2001): “Dal punto di vista filosofico, posso dire che la mia formazione da fisico quantistico mi ha aiutata molto a occuparmi di questioni così complesse. Mentre la fisica classica di Cartesio e Newton descriveva un mondo formato da entità atomizzate, isolate e immutabili, la teoria dei quanti ha riformulato il mondo definendolo un insieme di sistemi interagenti, inseparabili e in costante cambiamento, dotato di potenzialità inestimabili piuttosto che di proprietà e fenomeni fissi.

Sono queste caratteristiche di “inseparabilità” e “indeterminatezza” che ispirano il mio approccio ai sistemi naturali e all’impatto umano sull’ambiente. (…) Attraverso la lente della biodiversità il mondo si rivela molto differente e reclama un cambiamento nei modelli tecnologici e di mercato dominanti. Un passo necessario verso la sostenibilità.”

Non è un caso né una bizzarria perciò se la scienziata nucleare, nelle prime righe dell’Introduzione al suo primo libro, attacca parlando male dell’Illuminismo e della teoria del progresso, e nel terzo capitolo, Le donne nella natura, ci espone con attenzione e rispetto, cioè senza tacciarli di superstizione, alcuni fondamenti dell’antica visione cosmologica indiana, le tradizioni popolari ed esoteriche: il sakti, il principio femminile e creativo dell’universo, e il prakrti, la natura. In uno dei suoi scritti successivi, senza alcun bisogno di abbandonare il rigore del metodo scientifico, ma anzi proprio in virtù di esso, V. Shiva arriverà a fare piazza pulita di un altro dei nostri polverosi pregiudizi sulla mentalità indiana, da noi considerata retrograda a causa del rispetto per le vacche sacre. Neanche più la vacca sacra occidentale del pregiudizio contro le vacche sacre ci lascia adorare!

Affrontando la questione centrale della democrazia alimentare, infatti, in un altro dei suoi libri intitolato appunto Vacche sacre e mucche pazze: il furto delle riserve alimentari globali (ed. DeriveApprodi), Vandana Shiva riesce a rendere al massimo l’idea: “La mucca pazza, frutto di incroci transpecifici, è un “cyborg” secondo la femminista Donna Haraway, che aggiunge: “Preferirei essere un cyborg che una dea”. In India, la vacca è Lakshmi, dea della prosperità, e il suo letame è adorato come Lakshmi perché rinnova la fertilità della terra, nutrendola in modo naturale. La vacca è sacra perché è al centro della sostenibilità della civiltà agricola. La vacca come dea e cosmo simboleggia la cura, la compassione, la sostenibilità, l’equità. Dal punto di vista sia delle persone che delle vacche, io invece preferirei essere una vacca sacra più che una mucca pazza”.

Considerando le situazioni nell’ottica della relazione, come suggerisce la visione di un universo interconnesso, la domanda è sempre: come si configurano i rapporti di potere? Partendo dalla considerazione dei rapporti di potere, la terza linea parallela individuata dall’autrice è quella del patriarcato. L’instaurazione di un nesso concettuale fra scienza, economia politica e patriarcato, e cioè il nesso rappresentato dal tema della volontà di dominio unico, è apprezzabile come uno dei risultati fondamentali di questo libro. In altre parole: contiene una riflessione sul rapporto sviluppo-tecnologia-donne e sul rapporto scienza-natura-genere che riprende e approfondisce quella di Carolyn Merchant (La morte della natura, Garzanti, 1988) e quella di Evelyn Fox Keller. Il seguito della riflessione si può leggere nella raccolta di testi intitolata, con termine assai significativo, Monocolture della mente: biodiversità, biotecnologia e agricoltura “scientifica” (Bollati Boringhieri, 1995).

L’andamento del ragionare è piuttosto circolare, alcuni lo trovano ripetitivo; io invece lo definirei meditativo, poiché torna e ritorna sullo stesso punto però ogni volta da un’angolatura, secondo una sfaccettatura un po’ diversa, girando in tondo come il falco che scruta dall’alto la preda planando in cerchi lenti sulla campagna per buttarsi infine in picchiata, come i pensieri di Shiva che catturano fulminei il punto della questione, illuminandolo.

Purtroppo, questo libro non è stato riproposto per il suo valore storico ma per la insuperata attualità dei suoi temi. Oggi lo “sviluppo” incombe con ancor più temibili minacce sulla gente dell’India che vive di agricoltura e di sussistenza: lo denuncia per esempio la scrittrice Arundhati Roy (autrice del romanzo Il dio delle piccole cose e del saggio La fine delle illusioni), ricordando in un recente intervento che dal 1947 ad oggi, in India, secondo stime ufficiali ci sono stati circa 56 milioni di sfollati senza risarcimento per cause ambientali. Altro che politica dello sviluppo.

Vandana Shiva nel frattempo ha pubblicato una serie di altri saggi tutti interessantissimi ed è stata insignita di una considerevole quantità di premi e riconoscimenti in vari Paesi e a livello internazionale per l’approfondimento del paradigma ecologico e per avere unito la ricerca all’azione.

E’ stata fra coloro che hanno promosso il Social Forum Mondiale di Porto Alegre ed è “una delle voci di maggior prestigio sulle tematiche più controverse della globalizzazione”. Credo che nessuno comunque si azzardi a definirla una contestatrice no-global.

Zina Borgini

Ho scoperto per caso questa autrice inglese che non conoscevo, e devo dire che i due libri che cito mi hanno distolto per alcuni giorni da impegni e appuntamenti per poter galleggiare nell’atmosfera incredibilmente fantastica che lei, da grande maestra, fa vivere nei suoi romanzi, e sono stati giorni buoni e densi di immersione totale, in cui mi sono letta 1000 pagine con incalzante e curiosa attrazione
Sarah Waters ha 39 anni. Ha sostenuto un dottorato all’università con una tesi sulla letteratura lesbica, la sua ricerca non si è limitata a interrogare la conoscenza di tipo classico, ma si è ampiamente arricchita con materiale storico cercato nel passato, materiale attinente a questa tematica ma rimasto sotterraneo, canzonette lascive dei sobborghi londinesi, libri antichi scovati da rigattieri, tante stampe porno erotiche del XIX secolo.
Ha scritto tre romanzi. Il primo, uscito nel 1998, Tipping the velvet non è stato tradotto in italiano ma in patria, in pochissimo tempo, è diventato un bestseller tanto che la BBC ne ha fatto un serial di tre episodi mandati in onda in prima serata, con la regia della stessa Waters e di Andrew Dasvis, uno dei più bravi registi inglesi.
I tre filmati hanno avuto un successo strepitoso, sono arrivati in Italia e riprogrammati da Gay tv e da Arcilesbica.
Il secondo libro è intitolato Affinità (1999) e il terzo Ladra (2000.)
E, proprio ripensando alla loro lettura che voglio “mettere becco” come dice bene la nostra Lilli Rampello e consigliare questa scrittrice inconsueta che riesce ad essere moderna pur collocando i suoi personaggi in epoca vittoriana, nei sobborghi londinesi abitati dai più miseri, ladri, mendicanti e imbroglioni, o nella periferica campagna con le sue brume mattutine, il giallore del Tamigi che la percorre, i castelli di nobili decadenti o nei luoghi di tortura fisici e psicologici come i carceri o i manicomi.
E’ tanto abile nelle descrizioni dei suoi personaggi, da renderli vibranti mentre leggi e quando non leggi da restarti accanto come compagni ipnotici. Racconta situazioni esageratamente fantastiche e intrighi sorprendenti che con destrezza di scrittura diventano verità possibili, ha la grande capacità di spezzare il confine delicato tra la realtà effettiva e l’incredibile misterioso. Tutto può accadere nel capitolo seguente con colpi di scena preannunciati e la lettura scorre mossa da curioso stupore.
Si sente che ha letto Dickens e Elisabet Braddon, che ama Jeanette Winterson e Angela Carter, ma la sua scrittura è un tenere conto ristabilito per la particolarità e la ricchezza con cui sa essere avvincente, maliziosa, cupa a volte anche cattiva.
Il rapporto amoroso tra due donne è il filo che lega tutti e tre i romanzi: quello innocente e magico che con il tempo si modifica in modo esacerbato per divenire quasi orgiastico della protagonista di Tipping the velvet, ci svela che le parole queer, transgender, drag queen-king, non sono altro che catalogazioni moderne per definire comportamenti antichi come l’essere umano; quello più virtuale e menzognero descritto in Affinità, segnato dall’isteria e dalla depressione di una protagonista, ci racconta che anche nel XIX secolo quelle malattie si curavano come oggi con la psicoterapia, con i rimedi farmaceutici dell’epoca, oppure con la scelta di tamponare i vuoti esistenziali dedicandosi a forme di volontariato; quello felicemente approdato in Ladra ci consegna due giovani orfane, una ladruncola che abita nei bassifondi della sottocultura vittoriana, l’altra un’ereditiera succube dello zio dispotico, ma entrambe riusciranno a liberarsi dalle loro catene quando, come la maggior parte delle giovani donne d’oggi, guadagneranno l’indipendenza economica.
I tre romanzi hanno in comune anche un racconto ambientato nel passato che può essere fatto solo da una donna dei nostri tempi, libera dal senso di colpa e che ha nel suo cuore un museo di tesori antichi e un amore sviscerato per i romanzi gotici vittoriani.
Consiglio a tutte/i di conoscerla, perché ho la presunzione di pensare che Sarah Waters affascini con i suoi foschi intrighi quella parte misteriosa della sessualità che c’è in ogni essere umano e che, ogni tanto, ha bisogno di essere nutrita con una buona lettura.
Sarah Waters sarà a Milano a giugno e sta preparando un nuovo libro ambientato negli anni quaranta.

Giulia Siviero

Camminò sul brodo della vita, senza timore, “nuda e scalza e a mani e vuote”. Come una creatura dal cuore selvaggio che seppe entrare “nel tessuto proibito della vita”. Il figlio disse di lei che era un incrocio tra una tigre e un cervo. Clarice Lispector fu allo stesso tempo pietosa e spietata, presente e “altrove”, come solo chi non ha timore di sporgersi può essere. Lo fu attraverso gli occhi delle donne cui diede corpo, nei romanzi e nei racconti per i quali è considerata la più grande scrittrice brasiliana del Novecento. E lo fu nella vita, penetrando nei segreti dell’anima per ritrovare un luogo che andasse oltre l’individualità: “È fino a me dove vado. E da me esco per vedere. Vedere cosa? Vedere ciò che esiste”. Perché, aderire totalmente e immediatamente al reale è, per lei, “il massimo della spiritualità, l’unico modo in cui lo spirito può vivere”. Attraverso non le “ruote giganti” dell’esistenza, ma quelle minute, impercettibili: “gatti che entrano dalla finestra, capelli che cadono in primavera”. Ecco perché, ne La passione secondo G.H., forse il suo capolavoro, è nella visione di uno scarafaggio che scopre la trascendenza. Ecco perché, nell’ingoiare la materia biancastra (come il latte materno?) che ne fuoriesce dal corpo, scavalca la vita singolare.
Ponendosi fuori dalla misura umana e di fronte a ciò che non ha forma, consapevole che ciascuno incarna per un momento, per il tempo di una vita, quel flusso che sta prima, ancor prima dell’inizio. Ma la nientificazione dell’io, la perdita di sé (percorso mistico?) in cui Clarice Lispector ci trascina, non è mai mortifera attrazione per il nulla, bensì vertiginosa e amorevole consapevolezza di appartenere alla radice della vita. E che l’ha fatta sentire in vita sempre, “poco importa se propriamente io – scrive – non la cosa che ho deciso di chiamare convenzionalmente io. Io ero sempre stata in vita”. L’estraneità, la dissidenza, il torcere ciò che si è irrigidito, il disprezzo di un mondo “tutto uguale”, sono il cuore selvaggio di Clarice. Che pulsa anche nelle lettere, irrinunciabili, de La vita che non si ferma (Archinto, pp. 98, € 17,00). La vita che non si ferma fu la sua che, nomade a seguito del marito diplomatico, visse sempre altrove: “Tutto è senza radici”, confessa. la vita che non si ferma fu la sua, che non si arrese mai a una de-finizione, finzione e fine allo stesso tempo: “Giuro su Dio – scrive alla sorella minore – che se ci fosse un cielo, una persona che si è sacrificata per codardia verrà punita e andrà all’inferno. Chissà se una vita tiepida non venga punita per il suo stesso tepore. Prendi per te ciò che ti appartiene, e ciò che ti appartiene è tutto quel che la tua vita esige. Sembra una morale amorale. Ma quel che davvero è immorale è avere desistito da te stessa”. Ciò che Clarice Lispector ci offre sono un mondo e un linguaggio che rompono le regole del simbolico e fanno esplodere la sintassi. Ciò che ci offre è la possibilità di stare sulla soglia, tessere una trama che si riverbera nelle forme altre. Nessun prato è mai stato verde per Clarice. E nessun cielo azzurro. Perché lì, sul bordo della vita, un prato non è mai verde. Un cielo, mai azzurro.

Elisabetta Cicchi

Nel 1998 Einaudi pubblica con il titolo Trilogia della città di K tre racconti di Agota Kristof, Il Grande Quaderno, La Prova e La Terza Menzogna, i quali erano stati pubblicati per la prima volta da Seuil rispettivamente nel 1986, 1988 e 1991. L’autrice nasce in Ungheria nel 1930, nel 1956, anno della rivolta popolare e della conseguente violenta repressione sovietica, lascia la sua terra e si rifugia in Svizzera.
La Kristof sperimenta sia l’annichilimento e la scarnificazione della vita causati dalla guerra, sia il silenzio a cui è costretto uno straniero in una terra straniera; arriva in Svizzera senza sapere una parola di francese, vive lì muta e, quando inizia a parlare, la lingua che usa è per forza di cose semplice, sia nella sintassi che nel vocabolario. A mio giudizio, è proprio su questo suo vissuto che la Kristof costruisce la “trilogie des jumeaux”, come la chiama lei. Il primo racconto è costituito dalle pagine del Grande Quaderno nel quale i due bambini protagonisti, due gemelli lasciati in custodia presso la nonna durante la guerra, con l’intento di proseguire da autodidatti la propria istruzione, annotano tutto quello che succede loro. Non solo i due bambini decidono di scrivere per allenarsi alla “composizione” ma decidono di farlo secondo un criterio preciso, e cioè quello di: descrivere solo “quello che è, quello che vediamo, che udiamo, che facciamo” perché “le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare di usarle e attenersi a una descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, e cioè alla descrizione fedele dei fatti.” È con questo stratagemma che l’autrice ci presenta la sua poetica e ci procura un testo asciutto e scarno, un testo autonomo, che sta tutto in se stesso, levigato e compatto come un sasso. La Trilogia della città di K è scarno e amorale, è violento come un pugno nello stomaco e complesso come un enigma. Questo libro, attraverso gli occhi di due bambini, testimonia del mondo in guerra, tanto disumanizzato e crudele ormai da aver reso ordinari gli eventi più mostruosi.

Anna Paini

Mi sono avvicinata ad Alki Zei, scrittrice molto nota in Grecia per i suoi libri per l’infanzia e l’adolescenza, e al suo La fidanzata di Achille (1987), romanzo invece destinato al mondo degli adulti, tramite amici greci che me ne hanno consigliato la lettura alla vigilia di un viaggio.
La narrazione si fa subito avvincente perché l’autrice riesce a intrecciare il racconto biografico a un percorso collettivo, il sé e il noi restituendoci una storia ricca, che vede come protagonista Dafne/Elena in un arco temporale che va dagli anni Trenta e Quaranta quando Dafne quindicenne entra nella Resistenza greca agli anni Settanta che vedono Elena esule. Uno dei fili conduttori tra i tanti temi del romanzo, alcuni più esplicitati altri presenti in filigrana, resta quello dell’incontro della protagonista con l’altro, altra da sé nel proprio paese (Grecia) e là dove vive l’esperienza di profuga (Mosca) e di esule (Parigi).
Il romanzo si apre su un set cinematografico a Parigi dove la protagonista ha trovato lavoro come comparsa con altri amici greci fuoriusciti; il piano del presente si alterna e si mescola con quello dei ricordi, dalla terza persona dell’oggi si passa all’io narrante della memoria. Momenti della storia greca ed europea sono rievocati in questo viaggio che sostanzialmente è l’itinerario interiore di una donna che cerca di prendere in mano i fili della propria vita e di riannodarli, di dare un senso, un ordine che le appartenga e non lasciarli in balia degli eventi politici.
Diventata madre di Dafnula, Elena resta sempre l’eterna “fidanzata di Achille”. A lungo anche lei vive di e per questi ricordi e nostalgie, ma arriva a rendersi conto che non le corrispondono più. Con parole leggere ma incisive Alki Zei dà conto di una capacità femminile di valorizzare il quotidiano, le cose semplici sacrificate a un perenne eroismo.
Alcuni dei tanti personaggi che popolano il libro, ciascuno, ciascuna nella sua singolarità, restano indimenticabili. Penso per esempio alla figura del dissidente Michail Grigorievic, cacciato dall’Università e recluso in una piccola cittadina perché si rifiutava di bocciare ottimi studenti: “Non ho mai accettato di insozzare il nome di maestro”. La bravura di Alki Zei emerge anche quando ricorre a rapide ed efficaci pennellate per introdurre le tensioni presenti tra i profughi greci: “Da molti giorni le poche famiglie che vivono in questa casa si sono divise in due schieramenti: le une sotto la buganvillea, le altre sotto il pergolato”.
E’ un romanzo che racconta anche di noi. Esule a Parigi, Elena non accetta i vestiti in buono stato ma fuori moda che un’amica parigina, attaccata a un’immagine di esule bisognoso, le offre e inutilmente spiega il motivo del suo rifiuto: “Noi in Grecia ci vestiamo bene”. Un giorno, sempre alle prese con la stessa questione, Elena aggiunge: “gli Spartani prima di andare in battaglia si lavavano i capelli e si vestivano a festa”, e questo richiamo storico fa breccia nella sua interlocutrice; allora le torna in mente il commento di un caro amico e compagno: “Con gli stranieri perché ti capiscano, devi sempre mettere nel discorso anche una colonna del Partenone”. Anche questo modo un po’ ironico di mostrare come noi raccontiamo gli altri è un motivo in più che mi ha fatto apprezzare Alki Zei.
Ottima la traduzione, trovo invece poca corrispondenza tra immagine di copertina e testo (almeno nell’edizione che mi è capitata tra le mani).

Luisa Muraro

Ho incontrato la poetessa Anne Sexton (1928-1974) mentre scrivevo Il Dio delle donne, per alcune sue poesie della raccolta che s’intitola The Awful Rowing Toward God (Il tremendo remare verso Dio). Le trovai in un’antologia pubblicata dall’editore Crocetti di Milano e curata da Rosaria Lo Russo, Antonello Satta Centanin, Edoardo Zuccato, L’estrosa abbondanza. Più recentemente, presso Le Lettere di Firenze, Rosaria Lo Russo ha curato l’antologia intitolata Poesie su Dio.
Anne Sexton non compare nel mio libro, perché non l’avevo sufficientemente dentro. Adesso? Sì, sicuramente la citerei per quei versi di lei che gioca a poker con Dio: lei ha una scala reale all’asso ma Lui, ridendo, cala cinque assi e vince, lei è arrabbiata ma sente un canto di giubilo, un Rejoice-Chorus, allora ride anche lei, ride il mare, ride l’isola – dov’era approdata a furia di remare – e ride l’assurdo (“The Island laughs. The Absurd laughs”). In effetti, l’idea che vivere sia come giocare a poker con un baro con la B maiuscola, spiegherebbe molte cose, tra cui anche che la faccenda può finire bene, come in questa poesia, The Rowing Endeth (Finito di remare).
E la vita di Anne Sexton? Tirò avanti con l’aiuto di molta chimica (“I like them more than I like me”, dice riferendosi alle pasticche), della scrittura, dell’affetto fedele di un marito e di alcune amiche, dell’amore che aveva per le due figlie, di cui però non sapeva prendersi cura, e finì con un suicidio, esattamente trent’anni fa, all’età di quarantasei anni, qualche anno in più della sua compagna Sylvia Plath.
Di Anne Sexton in quanto protagonista di una biografia ho avuto notizia l’estate scorsa, in un grosso saggio di Juliet Mitchell, Pazzi e Meduse. Ripensare l’isteria alla luce della relazione tra fratelli e sorelle (tradotto da Ester Dornetti e pubblicato dalla Tartaruga). Ho scoperto così che Anne Sexton, una ricca casalinga di Boston, oltre che donna di notevole bellezza, a ventott’anni, dopo il secondo parto, finì in un reparto psichiatrico da dove la fece uscire quello che sarebbe diventato il suo primo psicanalista, il dottor Martin Orne, il quale ha l’ulteriore merito di aver messo la sua paziente sulla strada della creazione artistica. Ho scoperto inoltre che la sua storia è stata ricostruita in un’accurata biografia voluta da una delle figlie, autrice Diane Wood Middlebrook, ANNE SEXTON. UNA VITA (tr. it. di Claudia Rusconi e Gloria Gordigiani, Le Lettere, Firenze 1998), biografia che racconta, insieme, un pezzo interessantissimo del farsi del femminismo negli Usa, tra gli anni Sessanta e Settanta, quando la gender theory non era nata e la presa di coscienza ha significato dare parola ad un’esperienza femminile accettata come tale.
Leggere una biografia è come indossare l’abito di un altro, qualcuno ha detto. Quella di Anne è un abito suntuoso. C’è l’odio-amore per la madre, la perdita traumatica di una zia amica e complice, l’innamoramento, la vita domestica, la maternità, il senso d’inadeguatezza, la sofferenza che diventa insopportabile, la scoperta di sé nella relazione analitica, la presa di coscienza attraverso la scrittura, il successo, il contraccolpo e, ancora sempre di nuovo, il senso d’inadeguatezza, i tentativi di suicidio, l’ospedale psichiatrico, la dipendenza dalle persone e dai farmaci, le amiche che le stanno vicine, il bisogno coatto di piacere, il bisogno di essere amata, la madre che muore di cancro, le figlie che diventano grandi, il marito che non ce la fa più, il divorzio, la solitudine nella casa da cui gli altri sono andati via… La biografa c’informa che la sua protagonista indossò, per morire, una vecchia pelliccia della madre, e commenta la sua fine con una strana immagine: “Alla sua famiglia, frantumata dal divorzio, la morte della Sexton sembrò la fine di un lungo assedio”. Così la commenta, per parte sua, Juliet Mitchell in Pazzi e Meduse: “L’isterico non può ammettere che la morte sia assoluta: questo rifiuto ad accettare l’assenza di significato della morte è manifesto nel suicidio della poetessa Anne Sexton (un’isterica conclamata)”. Ma quest’assenza di significato, chiedo, è vera per tutti? è vera anche per le poetesse? Anne Sexton ha tentato che non lo fosse e a me pare, sarò anch’io un’isterica, che ci sia riuscita… “There is hope. There is hope everywhere. I bite it”, canta in Snow: “C’è speranza. C’è speranza ovunque. Io l’addento”. “My death the same”, la mia morte tale e quale, scrive a commento della storia di Giona, il personaggio biblico mangiato e poi sputato dalla balena, in una poesia che s’intitola Making a Living (Guadagnarsi da vivere).

Serena Fuart

Quando l’ho comprato pensavo fosse un giallo, sarebbe stato il primo che leggevo ambientato nella mia città.
Ma subito, fin dalle prime pagine, ho intuito che del giallo c’era solo la struttura che la scrittrice triestina, Giuliana Iaschi, ha usato come sfondo per dar voce a qualcosa che portava dentro di sé.
Scivolai allora lentamente nella lettura lasciandomi immediatamente coinvolgere dalle descrizioni della città, forti ed evocatrici dell’antropologia, della cultura e tradizione del posto.
Mi sono sentita sprofondare dentro il cuore di Trieste, questo bizzarro luogo, percepito dagli abitanti come stato a se stante, fuori dall’Italia e dal mondo, città nei cui confini si rinchiudono l’inizio e la fine della storia dell’umanità.
Mai come in quelle descrizioni ho sentito così forti le barriere psicologiche e fisiche della mia città d’origine, dentro cui si consumano esperienze e vite, tutto come all’interno di un mondo dentro un mondo, dove al di fuori nessuno può capire mentre all’interno è davvero tutto quasi scontato.
Aspettando il delitto entravo nella trama, nella triste storia d’amore di due persone comuni, così sofferenti e così tangibili, sembrava quasi dovessi incontrarli per strada. Mi lasciavo coinvolgere dal loro dolore che sentivo, provavo come fosse sulla mia pelle, sembrava scrutassi le loro vite dalla finestra di un bus. Solo dopo essermi imbattuta nella loro realtà, solo allora, tra le righe del romanzo, si insinua un misterioso delitto, che, coinvolgendo inaspettatamente i due protagonisti, segna definitivamente il loro destino. Ma a quel punto di quel delitto me ne importava ormai poco. Piuttosto mi coinvolgeva il logorarsi del loro rapporto che un enigmatico quanto lontano omicidio turbava ulteriormente.
L’originalità che obiettivamente colpisce è il capovolgimento dello sfondo di quello che si può definire un romanzo giallo: il delitto non è il cuore del romanzo ma ne è lo sfondo e il romanzo diviene così una sorta di finestra sulla vita: affacciandomi, ho sentito fino in fondo la sensazione di imprevedibilità dell’esistenza che l’autrice vuole comunicare.
La misteriosa morte di un antiquario triestino coinvolge inaspettatamente Gigliola e Roberto, due amanti da anni, ex compagni di studi, ora professionisti affermati. Hanno condiviso tutto, la passione sembra essere ancora forte, hanno tante, troppe cose in comune. L’omicidio di via Malcanton non li riguarderebbe affatto se tra i sospettati non vi fosse Antonia, paziente di Roberto, suo terapeuta da anni, che da anni ama e seduce affascinandolo e coinvolgendolo. Questo delitto non farà altro che alimentare una passione da sempre esistita e tenuta forzatamente a bada, unendo tragicamente il medico alla sua paziente.
Roberto non riuscirà a far prevalere il senso di realtà: ai suoi occhi Antonia cesserà di essere portatrice di un disagio profondo, di una sofferenza incurabile, l’attrazione cieca lo porterà a vedere tutti i lati enigmatici di chi, come lei, sa di avere un destino segnato. Antonia, pur non sapendosi districare tra i cavilli legali non chiederà l’aiuto del suo terapeuta ma lo riceverà prontamente.
E Gigliola, negando volutamente a se stessa una realtà che intuiva ogni giorno di più, aiuterà il suo compagno finché l’evidenza spezzerà l’ultimo filo di speranza di recuperarne l’ amore.
La passione forte e distruttrice supererà i confini professionali e annienterà ogni germoglio d’amore e di vita, trascinando Antonia verso la sua fine. Gigliola lascerà Roberto, e lui, ritrovatosi in una forzata e pietosa solitudine, non potrà impedirsi di fare i conti con il suo fallimento di uomo e medico.
Il mistero del delitto troverà in quel momento la sua soluzione, in un clima di amarezza e consapevolezza del vuoto profondo che accompagna la nostra esistenza e segna la fine di tutte le cose
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Natalia Robusti

Due mondi – e io vengo dall’altro” – scrive Cristina Campo.
Come se i mondi evocati fossero ben più di due, e uno di questi fosse tutto suo; il mondo terzo di colei che guarda l’uno e l’altro con perfetta, eguale, iper-reale limpidezza di sguardo. È il mondo di Cristina (Vittoria Guerrini il suo vero nome) che scrive con perfetta, unica – quasi sovrannaturale – limpidezza di voce.
D’altra parte è lei stessa, nel prologo al suo libro Gli imperdonabili, edito da Adelphi, a scriverlo: “Pure, con diversi pretesti e sotto vari colori, mi sembra che il libro ripeta da un capo all’altro un unico discorso (…) un piccolo tentativo di dissidenza dal gioco delle forze, ‘una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile’“.
E dopo tanti anni, anni in cui il visibile è divenuto onnipresente oltre che onnipotente, provo lo stesso conforto nel leggere questo libro, o meglio, nell’averlo tra le mani; perché io, in questo mondo, non ho mai finito di leggerlo.
In tutto avrò letto poco più della metà delle sue pagine, a caso qua e là. E’ però consumato come se l’avessi fatto decine di volte, ed è spesso sottolineato.
Ogni tanto ci riprovo: apro una pagina a caso e ogni volta rimango incollata alle prime frasi lette, incapace di separarmene, di avanzare e leggere oltre.
Rimango ancorata a quello che dice e a come lo scrive: “Non è il sogno a fermarci e tanto meno il risveglio; è il ‘non licet’ della pienezza sovrabbondante, la quasi mortale felicità dello sguardo senza possesso.”
La sensazione è che proprio lì, dove io arrivo con il fiato corto, come al termine di una salita, lì dove poteva esserci una pausa, una sosta se non proprio la conclusione di qualcosa, da quel punto preciso Cristina Campo parte, inizia, e lo fa con una rapidità, accuratezza e determinazione inesorabili.
E’ una dimensione verticale in cui anziché alla caduta nell’abisso poetico (mi viene in mente solo un’altra voce capace di questo effetto: Marina Cvetaeva) la parola procede a un’ascesa repentina, quasi istantanea: due parole, tre al massimo.
La cosa stupefacente è che non si tratta di versi, aforismi o poesie, ma di brani in prosa; a volte veri e propri saggi brevi.
C’è una furia fanciullesca tenuta con una briglia cortissima, nelle sue parole, una fede incrollabile eppure capace di tentennare al minimo scarto incontrato, non certo per cambiare direzione, piuttosto per fissarla in maniera più nitida: “niente di più immobile di una freccia in volo.
Il risultato è che a ogni possibile intoppo, a ogni ostacolo, la parola e il pensiero che si muovono all’interno del testo si fanno più affilati, dettagliati e precisi. Direi acuminati.
Ed è ancora lei, nel citare un poeta di cui non fa il nome, a illuminare sotto un cono di luce bianca, abbagliante, il tentativo incessante di una vita dedicata a una sola, irraggiungibile meta: “Sottrarsi al gioco delle circostanze affinché nulla ci raggiunga, fuorché l’inevitabile.”
Le circostanze sono vuoto scialacquio di tempo, inutile sotterfugio che a nulla conduce. Inevitabile è la perdita. Impossibile – sembra – sottrarsi ad essa. Conviene dunque, in attesa che ci raggiunga, concentrarsi su questo e questo soltanto.
Cristina Campo parte da qui.
Oltrepassa le leggi della necessità, dell’ovvietà e anche della ragione combattendole sul loro stesso piano, sull’identico loro terreno, con una serie inarrestabile di parole che, come postulati matematici, avanzano in funzione della proprietà transitiva, ed enunciano una sola, ipnotica e conclusiva formula: è dato ciò che è dato ed è aggiunto ciò che è tolto.
La bellezza – l’amore, la quiete, la passione – è guardata, abbracciata e lasciata due volte, al di là di ogni ragionevole dubbio: nell’attimo della sua apparizione e nell’attimo della sua perdita: “Sono, in realtà, occhi eroici. Hanno guardato la bellezza e non ne sono fuggiti. Hanno riconosciuto la sua perdita sulla terra, e in grazia di ciò l’hanno guadagnata alla mente.
E se in questo nucleo sta la sua presunta, imperdonabile e proclamata colpa – poiché per non essere perdonati occorre innanzitutto essere colpevoli di qualcosa – l’accusa si ribalta in difesa.
In difesa degli occhi, ancor prima che della voce; dei suoi occhi di bambina sana e intatta, che guardava dalla finestra di casa decine di persone storpiate dalla malattia, ospiti del reparto di ortopedia dell’Ospedale Rizzoli di Bologna in cui la sua famiglia viveva; dei suoi occhi di bambina intatta eppure ammalata, sin dal grembo materno, per un grave difetto cardiaco.
In difesa – soprattutto – di quanto i suoi occhi sapevano e potevano vedere: quel “guadagno” della bellezza su questa terra che, a prescindere da qualsiasi perdita, subìta o prossima, è in ogni modo – in ogni mondo – grazia, “pienezza sovrabbondante”, possibilità di perdono… “La bellezza, innanzi tutto (…) l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto.
La potenza della bellezza, dunque, è affiancata alla bellezza della bontà; e questo in una donna intransigente (si capisce bene in certe parti del libro) e immagino anche sprezzante, che si esprimeva con parole perfette e compiute, comunque gentili e aggraziate, attenta com’era, nel modulare le proprie parole, a un uso limitato della forza, là dove se ne avverte una notevole, determinante e consistente presenza.
Era difatti – come ho letto nella sua recente biografia – una donna per molti aspetti tormentata, che sapeva tuttavia restare calma nel momento della calamità…
E non faccio fatica a crederlo: Finalmente il ciclone! – credo si sarà detta, perchè lei, consapevole, ne era l’occhio.
Inutile sottolineare ulteriormente che tutta una vita così vissuta non poteva che portare le sue conseguenze, ma è impossibile ignorare ciò che nel leggere questo libro si sente in sottofondo tra le pagine: il ritmo inarrestabile e tachicardico del suo cuore.
Il microrombo – labile tuono in lontananza – di un respiro che stenta a stare dietro al passo, e il passo che invece di fermarsi in quel punto, in quel luogo a maggior ragione di approdo, non si ferma, ma da lì spicca un balzo, incurante delle ammonizioni.
In nome della legge prima, sia di Cristina che di Vittoria: “che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?