Nadia Fusini
Ci sono vari tipi di eremiti – stiliti, reclusi, pellegrini; tra gli altri, gli eremiti-poeti, che si isolano nella poesia, o meglio, che vanno verso la poesia come nel deserto, per ascoltare la voce autentica dell´Essere. Un poeta così è Elizabeth Bishop.
In un saggio che le dedicai ormai dieci anni fa – da molto tempo, confesso, le sono devota – le riconobbi la virtù della «reticenza»; ora sfoglio la nuova edizione, quasi completa, delle sue poesie uscita da Adelphi col titolo Miracolo a colazione (pagg. 288, euro 27,00) e l´occhio mi cade su un verso di Ai magazzini del pesce, splendido componimento in cui Elizabeth Bishop si paragona a una foca e come lei si qualifica «a believer in total immersion»; una creatura «credente nell´immersione totale». Per l´appunto.
Schiva, solitaria, timidissima, Elizabeth nasce ed è presto orfana di padre, la cui precoce morte la priva anche della madre, che per il dolore impazzisce. Morirà in un ospedale psichiatrico nel 1934, lo stesso anno in cui Elizabeth a New York conosce Marianne Moore, sua madrina poetica. Elizabeth ha ventitré anni e ha già scelto la poesia come la sua «chosen art»: avrebbe anche potuto scegliere la pittura, ma scelse la poesia. Però, poi, tentò di fare con le parole quel che si fa per lo più col pennello: descrizioni precise, dettagliate, incantate e incantevoli, di luoghi, animali, oggetti: un iceberg, una barca, un distributore…
Cominciò con «la carta geografica», dove lasciò emergere tra le terre e le acque e i continenti l´ombra di Terranova e il Labrador e la Norvegia. Poi proseguì con Parigi, quando nell´estate del ‘35 venne in Europa. Poi tra il ‘36 e il ‘37 fu la volta della Florida. Finché partì per il viaggio più lungo, in Brasile, dove restò per sedici anni, dal novembre 1951 al 1967, e scrisse Brasile e Arrivo a Santos. Tutti questi luoghi provò a dipingere in poesie dove le parole vogliono sollecitare l´occhio affinché veda, e spesso, per rappresentare un luogo, lo evocano attraverso un quadro, un´immagine; come accade in La grande crosta, o in Poesia. In Poesia Elizabeth è ormai tornata nel suo nord, dove l´aria è pulita e fredda; è a casa, ma è una casa ritrovata per l´appunto in un dipinto grande più o meno come un dollaro, e grazie a dei versi, che se parlano all´anima è perché stimolano l´emozione in virtù della sobrietà, rispettando il medium di ogni autentica meditazione, il silenzio.
Il viaggio la ricongiunge alla propria solitudine e la poesia al proprio silenzio. Elizabeth viaggia e scrive come chi non possiede nulla e di nulla si impossessa; semplicemente interroga.
Si capisce che le piace osservare spassionatamente quel che la circonda, non le piace abbellire alcunché a suon di metafore; vuole semmai raggiungere il paesaggio, o l´animale, o l´oggetto che ha di fronte, nel rispetto di una sola aura, quella del riserbo. Ma come si fa a toccare, senza afferrare? A comprendere, senza prendere? Lei lo sa fare. E´ la sua grandezza.
E´ anche la ragione per cui rimane sempre nuda. La sua modestia è tale che lei «si limita» a descrivere. Ma è chiaro che sa quali complessi legami la realtà intrattiene tra profondità e apparenza.
Ha la pulpilla di Vermeer, il cristallino di Vuillard. E legge Darwin. Se ha degli antenati in poesia sono i Metafisici del Seicento inglese. O Hopkins. C´è chi ha fatto il nome di Emily Dickinson. Più vicino, c´è Marianne Moore; con lei condivide il culto della precisione, l´eleganza ironica, ma su un registro espressivo del tutto diverso. E c´è Robert Lowell, da cui tutto la divide, eppure rispetta. Ma a ben vedere, è unica e sola. A conferma di quanto dichiarò proprio a Lowell: «Quando scriverai il mio epitaffio, dì che sono stata la persona più sola al mondo».
Tre teste e tre paia di mani hanno compiuto il Miracolo a colazione, una performance traduttoria che a me ha strappato più volte l´applauso. Anche perché quando ho visto che ben in tre traduttori di grande rispetto (Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica) s´erano dedicati all´impresa, come avranno fatto a spartirsi la Bishop? ho pensato; e perché non mi dicono chi ha tradotto cosa? Poi leggendo ho capito che i tre traduttori si erano in effetti sciolti in uno, anzi si erano fatti una; erano diventati Elizabeth Bishop. Lo confesso: non credevo che si potesse andare tanto vicino al miracolo dell´incarnazione in italiano della lingua poetica di questa grandissima artista.
Certo, a volte avrei scelto diversamente… E´ naturale: la lingua della traduzione non ha la perentoria stabilità dell´originale, si potrebbe sempre fare in un altro modo… Ma ripeto, qui la Bishop rinasce italiana. Ed è un´emozione vera, come vera e nuova e viva è la lingua inventata per l´occasione: una lingua a fronte, che specchia in modo spavaldo e libero l´originale; gli sta a fronte e gli tiene testa e dimostra come la traduzione sia davvero fedele, quando è attiva, e non passiva. A volte i traduttori chiamano fedeltà la supina, rigida aderenza a un dettato, mentre la vera fedeltà si misura sull´audacia, sulla capacità, da parte del traduttore, di attraversare la metamorfosi che nel passaggio da una lingua all´altra si impone. E´ una graticola. Ci si può bruciare. Ci si può lasciare le penne. Ma se riesce…
L´autrice di “Leggere Lolita a Teheran” racconta il suo rientro in Iran durante la rivoluzione khomeinista. Le speranze tradite, la repressione e la censura sulla sua amata letteratura occidentale. E spiega perché resta insopprimibile il bisogno umano di sognare leggendo i grandi capolavori
La storia che voglio raccontarvi comincia all´aeroporto di Teheran, decine di anni fa, quando i miei mi mandarono in Inghilterra per proseguire gli studi. I parenti e gli amici presenti quel giorno si ricorderanno di me come di una ragazzina viziata, che correva in giro per l´aeroporto gridando che non voleva partire. Dal momento in cui mi afferrarono, mi misero sull´aereo e il portellone si chiuse, l´idea di tornare a casa, in Iran, diventò un´ossessione costante che mi tormentava giorno e notte. Fu questa la prima lezione vera e propria sulla caducità e sull´imprevedibilità della vita. L´unico mezzo per ritrovare la mia Teheran perduta erano i ricordi e qualche libro di poesia che avevo portato con me. Nelle sere di sconforto, in quella cittadina umida e grigia chiamata Lancaster, mi raggomitolavo sotto le coperte con la borsa dell´acqua calda, e aprivo a caso uno dei tre libri che tenevo sempre sul comodino: Hafiz, Rumi e una poetessa iraniana moderna, Forugh Farrokhzad. Leggevo fino a tarda notte, un´abitudine che non ho perso, e mi addormentavo solo quando le parole mi avvolgevano, simili agli aromi di un vecchio negozio di spezie, facendo riemergere la mia lontana ma non dimenticata Teheran.
Allora non sapevo che stavo costruendo una nuova casa, un mondo portatile che nessuno avrebbe avuto il potere di strapparmi mai più. E mi adattai alla nuova casa leggendo e studiando Charles Dickens, Jane Austen, le Bront e William Shakespeare, che incontrai con un brivido di puro piacere il primissimo giorno di scuola. Più tardi, ovviamente, avrei cominciato a scoprire l´America attraverso lo stesso prodigio dell´immaginazione: i libri di Francis Scott Fitzgerald, Saul Bellow, Mark Twain, Henry James, Philip Roth, Emily Dickinson, William Carlos Williams e Ralph Ellison.
Che fossi in Inghilterra o in America, comunque, al centro della mia esistenza c´era sempre l´idea del ritorno.
Il mio Iran perduto si imponeva in tutti i momenti della mia vita e arrivai persino a trasferirmi per un semestre nel New Mexico solo perché laggiù le montagne e le notti stellate mi ricordavano quelle della mia infanzia. Alla fine dell´estate del 1979, due giorni dopo la discussione della tesi, eccomi dunque a bordo di un aereo diretto a Teheran via Parigi.
Ma appena atterrai all´aeroporto di Teheran, capii senza ombra di dubbio che la casa di un tempo non era più casa. E, in effetti, sono convinta che la propria abitazione non dovrebbe mai essere “troppo casa”, vale a dire troppo confortevole e perfetta. Mi viene sempre in mente l´affermazione di Adorno secondo cui «la forma più elevata della morale è non sentirsi a casa a casa propria».
Quindi devo essere grata alla Repubblica islamica dell´Iran per avermi spronata a pormi delle domande, per avere modificato la mia concezione di casa, e per tante altre cose.
Casa mia non era più casa anche in un altro senso; non tanto perché mi aveva destabilizzata e costretta a cercare nuove definizioni, ma soprattutto perché aveva fatto in modo che le sue stesse definizioni entrassero in me, trasformandomi in un´entità “aliena”. Nel nome del Paese, della religione e delle tradizioni che pure erano miei, si era stabilito infatti un nuovo regime, pronto a dichiarare che il mio aspetto e le mie azioni, ciò in cui credevo e quello che desideravo come essere umano, come donna, scrittrice e insegnante era sostanzialmente estraneo a questa casa.
Nell´autunno del 1979 insegnavo Huckleberry Finn e Il grande Gatsby in aule spaziose al secondo piano dell´Università di Teheran, senza rendermi conto della straordinaria ironia della situazione: giù in cortile c´erano studenti islamici e di sinistra che gridavano: «A morte l´America!» e, poco più in là, l´ambasciata degli Stati Uniti era assediata da un gruppo di universitari che dicevano di «seguire la via dell´imam». Il loro imam era Khomeini, che aveva intrapreso una guerra in nome dell´Islam contro l´Occidente pagano e le sue miriadi di agenti infiltrati. Non era solo una guerra religiosa. Il fondamentalismo che predicava era basato tanto sulla religione quanto sulle ideologie estremiste – comuniste e fasciste – dell´Occidente. Allo stesso modo, i suoi obiettivi non erano solo politici; con l´appoggio dei radicali di sinistra condusse una sanguinosa crociata contro l´»imperialismo» occidentale, a favore dei diritti delle donne e delle minoranze, della libertà culturale e dell´individuo. Questa volta mi accorsi di avere perso la connessione con l´altra casa, l´America di cui avevo letto in Henry James, Richard Wright, William Faulkner e Eudora Welty.
In un adattamento russo dell´Amleto distribuito in Iran, Ofelia fu eliminata dalla maggioranza delle scene; nell´Otello di sir Laurence Olivier, la parte di Desdemona fu tagliata nella maggior parte del film e anche il suicidio di Otello fu espunto perché, secondo i censori, avrebbe rattristato e demoralizzato le masse! In Iran le masse erano una strana categoria, perché parevano soffrire di più assistendo alla morte di un personaggio immaginario sullo schermo che non subendo fustigazioni e lapidazioni di persona. E, mentre a scuola le studentesse venivano rimproverate se ridevano apertamente o se correvano in cortile, se avevano le stringhe delle scarpe colorate o se portavano braccialetti variopinti, nei cartoni animati di Braccio di Ferro fu eliminata Olivia da quasi tutte le scene perché la relazione fra i due personaggi era illecita.
Il risultato fu che i cittadini iraniani, uomini e donne, cominciarono inevitabilmente ad avvertire la presenza e l´invadenza dello Stato in ogni momento della loro quotidianità. Lo Stato non si limitava a punire i criminali che minacciavano la vita e la sicurezza della popolazione, ma controllava le persone, comminando pene detentive e frustate se solo si aveva lo smalto sulle unghie, le scarpe della Reebok o il rossetto sulle labbra; vigilava su ragazze e ragazzi che apparivano insieme in pubblico. In breve, ciò che fu messo sotto accusa e «sotto sequestro» furono i diritti individuali e civili degli iraniani.
Anni dopo, la fatwa dell´ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie non volle stabilire un confine tra l´Islam e l´Occidente, come dissero alcuni, ma fu una reazione ai pericoli rappresentati per una mentalità totalitaristica – che non può tollerare alcuna forma di ironia, ambiguità e irriverenza – dalla fervida fantasia di un individuo. Come affermò Carlos Fuentes, l´ayatollah aveva emesso una fatwa che, attraverso lo scrittore, colpiva la stessa forma democratica del romanzo. Questa racchiude una molteplicità di voci, con prospettive diverse e talvolta opposte, in uno scambio critico in cui una non elimina l´altra. Poteva esserci una sovversione più pericolosa di questa democrazia di voci? E, in questo senso, lo straordinario patrimonio della letteratura americana continuò a ricordarmi in quegli anni quanto la democrazia vera dipenda da quella che potremmo chiamare «immaginazione democratica».
Invece, secondo i “guardiani della moralità” della Repubblica islamica, libri come Lolita o Madame Bovary erano moralmente corrotti; davano il cattivo esempio ai lettori e li spingevano a commettere azioni immorali. Come tutti i totalitaristi, questi burocrati non riuscivano a distinguere la realtà dalla fantasia, e pretendevano di imporre la propria versione della verità sia sulla vita sia sulla finzione letteraria. Eppure, non leggiamo Lolita per saperne di più sulla pedofilia, così come non decidiamo di andare a vivere sugli alberi dopo avere letto Il barone rampante di Calvino. Non leggiamo per trasformare le grandi opere letterarie in repliche semplicistiche della nostra realtà, ma per il sensuale, puro e semplice piacere di leggere. La ricompensa sta nella scoperta dei tanti livelli nascosti all´interno di queste opere, che non si limitano a rispecchiare la realtà, ma rivelano uno spettro molteplice di verità, andando così contro l´atteggiamento di qualsiasi mentalità totalitaria.
In Iran, invece, i governanti imposero sulle nostre vite e sulla nostra realtà i fantasmi della loro stessa fantasia. Le mie studentesse non potevano godersi i piccoli piaceri della vita che una di loro, Yassi, definiva “proscritti”, quelli così facilmente disponibili per gli altri, come la carezza del sole sulla pelle o del vento tra i capelli. La semplice azione di uscire di casa ogni giorno diventava una tormentosa e colpevole menzogna, perché eravamo obbligate a metterci il velo e ad assumere l´immagine fasulla che lo Stato aveva concepito per noi.
Per negare e sfuggire a quell´immagine a noi estranea, a quella falsità forzata che partiva dall´aspetto esteriore e permeava ogni sfaccettatura della nostra vita, dovevamo ricreare noi stesse e recuperare l´identità che ci era stata sottratta, resistendo all´oppressore con le nostre risorse creative e rifiutando di adottare il suo linguaggio. In Iran la resistenza era diventata sinonimo di confronto non violento, da attuare sia attraverso richieste politiche, sia con il rifiuto dell´omologazione, insistendo invece sul senso di integrità dell´individuo. In altre parole, chiedevamo di essere rispettate e riconosciute per quelle che eravamo e rifiutavamo di diventare gli spettri in cui il regime voleva trasformarci.
Con l´andare del tempo, inesorabilmente, le regole stesse che erano state messe a punto per tenere a bada i cittadini diventarono le armi con cui gli iraniani esprimevano il proprio dissenso. Dal momento che la Rivoluzione aveva trasformato le vie di Teheran e di altre città nel teatro di una guerra culturale, in cui i funzionari dello Stato non punivano i cittadini per la detenzione di pistole o granate ma per altre armi, anche più potenti (una ciocca di capelli, un nastro colorato, occhiali da sole alla moda), il regime aveva politicizzato non solo un gruppo ristretto di dissidenti ma tutti gli iraniani. Eravamo piene di energie, non tanto perché la politica fosse connaturata in noi, quanto per il desiderio di conservare la nostra integrità individuale di donne, scrittrici, insegnanti, in breve, di cittadine comuni che volevano vivere la propria vita.
Meno di dieci anni dopo la morte dell´ayatollah Khomeini i rivoluzionari “illuminati” (gli ex giovani veterani della guerra e della Rivoluzione) cominciarono a chiedere maggiori libertà e diritti politici. La scomparsa dell´ayatollah li aveva lasciati soli a fronteggiare la rabbia che provavano per i tanti sogni mai avverati e i tanti desideri mai espressi. Così, gli stessi ex rivoluzionari che nel 1979 avevano condannato ogni forma di modernità e democrazia, adesso dovevano guardare dentro se stessi e mettere in dubbio la propria ideologia. Porsi domande divenne una priorità perché sapevano di essere diventati un gruppo isolato all´interno della popolazione iraniana ed erano consapevoli che i loro ideali avevano perso in fretta credibilità.
Attualmente le forze più potenti in grado di cambiare il panorama sociale dell´Iran sono le donne e le generazioni più giovani, quelle stesse che, secondo le speranze degli islamisti, avrebbero dovuto riaccendere l´ardore politico da tempo perduto dai loro genitori. I membri di questa generazione, invece, hanno rifiutato di conformarsi alle regole autoritarie imposte loro; gli studenti iraniani hanno occupato le prime file nella lotta per le libertà sociali, culturali e politiche. Questi giovani sono perfettamente consapevoli di quanto la libertà politica dipenda dalla salvaguardia dei diritti e degli spazi individuali. Hanno sfidato i controlli morali inventandosi modi creativi per resistere alle norme imposte nell´abbigliamento, tenendosi per mano, ridendo apertamente e guardando film proibiti. Nei primi anni del nuovo secolo i “guardiani della moralità” si sono dovuti ritirare dalle vie di Teheran. E, in un certo senso, fa sorridere che molti giovani iraniani, vale a dire i figli di quelli che un tempo si erano schierati contro Il grande Gatsby, si siano messi a leggere Heinrich Bll, Milan Kundera e Francis Scott Fitzgerald, oltre ad Hannah Arendt e Karl Popper.
Una cosa che mi sono sempre chiesta è perché nelle peggiori condizioni politiche e sociali, durante guerre e rivoluzioni, nelle prigioni e nei campi di concentramento, la maggior parte delle vittime si accosti alle opere di fantasia… Ricordo che circa dieci anni fa incontrai una mia ex studentessa, da poco scarcerata. Mi raccontò che lei e una compagna di cella, di nome Razieh, anche lei mia ex allieva, si facevano forza ricordando insieme le discussioni fatte in classe o gli autori che avevano letto, da Henry James a Francis Scott Fitzgerald. La mia studentessa mi disse poi che Razieh era stata uccisa poco prima che lei fosse rilasciata. Da allora continuo a pensare ai luoghi che hanno attraversato queste opere letterarie, dalle biblioteche e dalle aule scolastiche alle celle buie delle prigioni. Sappiamo bene che la fantasia non può salvarci dalle torture e dalle violenze dei regimi tirannici, né dalle banalità e dalle crudeltà della vita.
James, l´autore preferito di Razieh, non l´ha salvata dalla morte; eppure c´è un senso di trionfo nella scelta fatta da questa ragazza quando ogni possibilità di scelta sembrava esserle stata tolta. Come molti prima di lei, Razieh aveva conservato il diritto di decidere come comportarsi di fronte a una fine spietata e immediata. Rifiutò di piegarsi al comportamento disumano e degradante impostole dai carcerieri, mantenendo vivo il ricordo delle esperienze che le avevano dato più gioia in tutta la vita. Di fronte alla morte, aveva celebrato ciò che attribuiva dignità e significato alla vita, ciò che più rispondeva al suo senso della bellezza, del ricordo, dell´armonia e dell´originalità: in altre parole, una grande opera della fantasia. Il suo personale mondo portatile.
Si potrebbe pensare che opere del genere acquistino grande significato in un Paese mutilato delle libertà fondamentali, ma che non siano granché rilevanti in uno Stato libero e democratico. Quanto sono importanti Fitzgerald, Twain e Flannery O´Connor, vi chiederete, per la vita nel mondo occidentale?
Risponderò semplicemente con un passo di Huckleberry Finn, in cui Huck deve decidere se lasciare andare Jim. Huck sa che a catechismo «t´imparavano che la gente che si comporta come ti sei comportato tu», cioè liberando uno schiavo, «finisce tra le fiamme dell´inferno». Eppure il suo cuore si ribella alle minacce di queste autorità “morali”. Si vede davanti Jim «di giorno e di notte, certe volte al chiaro di luna, certe volte durante un temporale, e intanto scendevamo il fiume parlando, cantando, ridendo. Ma non riuscivo a trovare qualcosa che mi faceva arrabbiare con lui, se mai il contrario». Nel momento in cui si ricorda dell´amicizia e dell´affetto di Jim e non lo percepisce più come uno schiavo, ma come un essere umano, decide: «Va bene, andrò all´inferno».
Nella letteratura americana Huck ha molti improbabili compagni di viaggio: le donne garbate e distinte di Henry James, quelle inquiete e tormentate di Zora Neale Hurston e di Toni Morrison, i sognatori, come il Gatsby di Fitzgerald; e tutti loro decidono che preferirebbero rinunciare al paradiso e rischiare l´inferno pur di ascoltare la voce del cuore e della coscienza. Tutti mostrano una toccante mescolanza di coraggio e vulnerabilità che sfida le risposte facili, le formule rigide e le soluzioni semplicistiche. Quanti di noi oggi rinuncerebbero al paradiso promesso dal catechismo per il tipo di inferno che alla fine Huck sceglie per se stesso?
Come ci ricorda Saul Bellow nel Dicembre del professor Corde, una cultura che ha perso la poesia e l´anima è una cultura che corre incontro alla morte. E la morte non sempre arriva sotto le sembianze di dittatori che appartengono a Paesi lontani; vive fra noi, sotto forme diverse, spacciandosi per un´amica. Confondere discorsi frammentari con pensieri profondi, politica con etica, reality show con intrattenimento creativo; dimenticare il valore dei sogni; perdere la capacità di immaginare una morte violenta in Darfur, Afganistan o Iraq; assistere agli omicidi in tv come a una notizia di poco conto: non sono forse tutti indizi del fatto che oggi più che mai ci servono il coraggio e l´integrità, la fede, l´immaginazione e i sogni che questi libri hanno infuso in noi? Non è forse il momento giusto per preoccuparsi, come fa l´eroe di Bellow, di quello che accade se un Paese perde la poesia e l´anima?
Abbiamo bisogno di scrivere tutto ciò. Di raccontare quello che accade a noi e agli altri mentre lottiamo per salvare noi stessi dalla disperazione, per ricordarci che i tiranni di ogni sorta non possono sottrarci il nostro bene più prezioso. Possono mettersi sulla nostra strada fanatici di ogni genere; possono condannarci, ucciderci e mutilarci nel nome del progresso o di Dio. Ma non possono privarci degli ideali. Non possono portarci via la nostra umanità.
Calvino una volta disse: «Possiamo liberare noi stessi solo se liberiamo gli altri, perché questa è la condizione sine qua non per la propria liberazione. Ci devono essere la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo». Poi aggiunse un´affermazione molto semplice che, per me, è l´essenza di tutto: «Dev´esserci anche la bellezza».
Solo in queste condizioni, nell´insistenza prettamente umana sulla bellezza, nelle idee rivelatrici, nei particolari della nostra storia, di ciò che temiamo, di quello che desideriamo, fiorisce la fantasia.
Troppo spesso ci capita di definirci creature pratiche, animali politici. Ma in noi alberga un impulso molto più grande, la tendenza verso quello che chiamerei semplicemente l´universale. Ed è proprio su questo terreno comune che ci avviciniamo a quello che realmente ci lega: cultura, storia, lingua. Perché è qui, in quella che a me piace chiamare “la Repubblica dell´Immaginazione”, che riveliamo davvero la nostra natura di esseri umani.
Negli appunti di Juan Goytisolo titolati Hya, Ella, Elle, un doloroso collage di ricordi in presa diretta, pubblicati da Fennec di Casablanca, in una edizione trilingue, araba, spagnola e francese. Protagonista di queste pagine la sua compagna, Monique Lange, biografa di Cocteau e di Edith Piaf, sceneggiatrice per Rossellini e De Seta, di cui le edizioni Cargo ora ripubblicano I pescigatto
Marco Dotti
Scritti nell’ottobre del 1996, all’indomani della scomparsa di Monique Lange, sua complice e compagna di vita, gli appunti di Juan Goytisolo titolati Hya, Ella, Elle sono un doloroso collage di ricordi in presa diretta, che appaiono ora, a dieci anni di distanza, per le edizioni Fennec di Casablanca, in un’agile, ma raffinata edizione trilingue in arabo, spagnolo e francese. Una scelta non casuale perché, ben più della Parigi delle chiacchiere spese nei bistrot, a fare da sfondo agli incontri felici, ai sogni, alle inevitabili, ma non meno laceranti, incomprensioni di questa bizzarra coppia di amanti fu sempre e soltanto il “crogiuolo estraniante” del Marocco, con le sue lingue, la sua luce e il vento che taglia con rabbia la costa atlantica di Rabat. La “solitudine e l’egoismo” che la scrittura richiede, al pari di quelle incomprensioni, pesano ancora oggi, più di ogni altra cosa, nel dialogo straziante che Goytisolo riattiva con la sua “lei assente”. Nata, nella Parigi dei primi anni Venti, da una famiglia altoborghese che vantava legami di parentela illustri – tra gli altri Henri Bergson e Emmanuel Berl – figlia di un giornalista di cui ha ripercorso la storia e i rapporti in uno dei suoi ultimi lavori titolato Les cahiers déchirés, dopo l’infanzia passata in Indocina Monique Lange iniziò a lavorare come segretaria di redazione presso la casa editrice Gallimard. Fu proprio lì che, nel 1955, conobbe Goytisolo, giovane esiliato dalla Spagna franchista. Ne nacque una passione che, ben presto, li avrebbe portati al matrimonio. Al di là delle circostanze private, il loro incontro fu mediato, e in qualche misura favorito, da un “terzo” incomodo d’eccezione: Jean Genet. Proprio Genet, che era allora tra i migliori amici della Lange, avrebbe in seguito segnato l’esperienza artistica e di vita di Juan Goytisolo, lasciando nella sua opera tracce e ferite la cui eco ancora si fa sentire. Nelle Settimane del giardino – tradotto da Glauco Felici per Einaudi un paio di anni or sono -, libro che attiene alla produzione tarda e più sperimentale dello scrittore catalano, tra le vicende che fanno da sfondo alla ricerca dell’identità perduta del suo alter ego, il poeta omosessuale Eusebio, appaiono, più di una volta l’ombra di Genet e della sua tomba (Genet riposa in Marocco, in un cimitero sconsacrato, nei pressi di Tangeri, città d’adozione di Goytisolo). Infine, Genet riappare, direttamente nel cuore del romanzo, nelle vesti di un insolito marabutto, un uomo toccato dalla grazia, che ai più “appariva degno di ogni commiserazione”. Peccatore e pederasta, se durante la sua vita esibiva ostentatamente in pubblico ogni sorta di infrazione ai codici della legge e della religione, dopo la sua morte, come un santo “toccato dalla luce” e da quella particolare forma di benedizione che si è soliti definire col termine baraka, divenne oggetto di venerazione. “Le donne, allora, andavano sulla sua tomba, per riceverne il dono della fertilità”. Al di là degli aspetti romanzati, la presenza di Genet si rivela inestricabile persino dagli aspetti più intimi della vicenda della coppia; ma, non di meno, con la sua “carica di omosessualità eversiva” (a cui Goytisolo, empiamente, allude parlando di baraka) egli si rivelò in grado di segnare gran parte della sfera privata della vita di entrambi, e di Monique Lange in particolare. Biografa di Cocteau e di Edith Piaf, sceneggiatrice per Rossellini e Vittorio De Seta, scrittrice e militante della sinistra, nel 1959, quattro anni dopo il matrimonio con Goytisolo,Monique Lange diede infatti alle stampe Les poissons-chats, un romanzo breve di diretta ispirazione “genetiana ” in cui viene descritta la sofferta e ambigua educazione sentimentale della giovane Anne. Incapace di mettersi in relazione con compagni che non sanno darle l’unica cosa di cui avrebbe bisogno – “Bernard mi insegnava tutto. Parigi, la pittura, il flamenco, Monteverdi, la danza, gli alberi. M’insegnava tutto, tranne l’amore” – , Anne riceve la propria iniziazione sentimentale da una coppia di omosessuali, i “pescigatto ” che danno il titolo al volume, i quali la introducono nella loro “vita artificiale”, ma sono i soli capaci di strapparla da un’infelicità ricorrente, “con quel loro modo di fare frivolo, spensierato, tenero e con la loro capacità di prendersi in giro”. Apparso da Einaudi nel 1960, e ben presto finito fuori catalogo, I pescigatto viene ora riproposto, nella nuova traduzione di Sara Levi, con una nota di René de Ceccaty, dalle edizioni Cargo (pagine 90, euro 8). Una iniziativa intelligente, non solo come omaggio alla Lange, ma anche per quanto emerge dalla forza diretta del testo: il rapporto straziante, quasi melanconico, di una giovane donna che cerca di prendere coscienza del proprio corpo, e solo in parte vi riesce. Una coscienza di sé che passa, tragicamente, anche per il travaglio di un aborto clandestino resosi necessario dopo la sua prima esperienza, manco a dirlo incauta e frustrante, con un uomo ripugnante e privo di sentimenti. “Cominciò allora per me”, confessa la protagonista, “quell’orribile e affannosa ricerca, che quasi tutte le donne conoscono, di qualcuno disposto a farmi abortire. Non volevo dirlo a nessuno. Cercai nell’elenco telefonico quei nomi di ginecologi che mi sembravano più umani. Fu atroce”. Alla fine, ad aiutarla fu un indifferente ragazzo dagli occhi azzurri. Freddo, silenzioso, non chiese nulla, fissò un appuntamento, “mi addormentò e mi liberò”. Una esperienza descritta anche da Violette Leduc nella Bastarda, libro che andrebbe letto in controluce con quello della Lange, proprio perché capace di rendere a pieno quella particolare dimensione della solitudine che genera “un dolore secco e una infelicità che ti entra nelle ossa”. Anche nel caso della Lange abbiamo a che fare con una donna che, per riprendere le parole con le quali Simone de Beauvoir introduceva La bastarda, “scende in ciò che è più segreto in lei, e si racconta con sincerità inaudita, come se non ci fosse nessuno ad ascoltarla”. Nella foto in alto Jean Genet. Sotto, Juan Goytisolo
da Liberazione
“In che modo elaborare un rifiuto della guerra non neutro ma sessuato, cioè segnato dalla complessità di approcci con cui la soggettività femminile e l’esperienza femminile del mondo si sono espresse e si esprimono sulla guerra?”.
E’, questo, l’interrogativo che ha orientato il percorso di ricerca delle dieci autrici – e un autore – del testo La guerra non ci dà pace. Donne e guerre contemporanee, curato da Carla Colombelli (edizioni Seb 27, pp. 240, euro 12,50).
Un interrogativo che non è più possibile eludere, nel momento in cui, accanto all’immagine della donna estranea alla guerra, assente dai combattimenti, madre-moglie-sorella-figlia-vittima da proteggere, si stagliano quelle – non certo nuove, ma rese più visibili dai media – delle donne in armi, soldate, terroriste, kamikaze. Rappresentazioni, le une e le altre, stereotipate, che rendono difficile leggere la realtà complessa della presenza-assenza delle donne negli scenari bellici, non riducibile all’estraneità. Non solo: le nuove, diverse modalità con cui la guerra viene combattuta, facendo venir meno la linea del fronte e la divisione tra combattenti e non combattenti, coinvolgono la popolazione civile, costituita, oltre che da anziani e bambini, dalle donne, appunto. E le donne, i loro diritti, la loro libertà, sono diventati pretesto, giustificazione ideologica per alcune delle guerre
più recenti, prima fra tutte quella in Afghanistan. E’ indispensabile decostruire i ruoli e gli stereotipi, giocati sull’ambiguità tra estraneità e partecipazione, che alle donne sono stati attribuiti e che, più o meno consapevolmente, esse hanno ricoperto, per far emergere la molteplicità delle loro posizioni, ma, soprattutto, per restituire autorevolezza alle loro parole sulla pace, spesso non udibili e relegate nella sfera dell’impolitico dai discorsi dominanti.
Carla Colombelli, con le autrici e l’autore che hanno collaborato al progetto, individua un importante nodo problematico nella strutturazione e colonizzazione dell’immaginario individuale e collettivo da parte della guerra: essa, che lo vogliamo o meno, entra prepotentemente nella nostra realtà quotidiana, informando di sé valori, ruoli, comportamenti, sentimenti, forme del vivere sociale e dell’agire politico. E’ importante che i discorsi sulla guerra, articolati secondo il punto di vista dei due generi, entrino nelle aule scolastiche.
E che rendano evidente la messa in ombra della presenza femminile nella storia.
E’ un’ottica che va oltre l’egemonia maschile nel campo dei saperi – come della politica – e si apre al riconoscimento dell’Altro, delle differenze, della molteplicità. “C’è un filo di autorità femminile – è una frase di Luisa Muraro, citata nel libro – che percorre la storia politica dell’occidente.
Intendo: autorità di donne dotate di indipendenza simbolica dal sistema del potere. Questo filo corre dall’antichità fino ai nostri giorni”.
La ricca bibliografia curata da Luisa Peisino costituisce, certamente, una parte molto importante di questo lavoro: è posta, contrariamente alle consuetudini, all’inizio del testo, e incita immediatamente il lettore e la lettrice ad approfondire l’argomento. Cristina Giudice indica l’esistenza di uno sguardo femminile sulla guerra molto particolare: quello di artiste che si sono interrogate sui conflitti contemporanei. L’autrice utilizza categorie proprie del pensiero femminista, che consentono di mettere in luce, nelle opere presentate, la pratica del “partire da sé”, l’attenzione
per le differenze di genere e per gli stereotipi con cui queste vengono irrigidite e, soprattutto, per i corpi sessuati, per il loro utilizzo, sfruttamento e strazio nella materialità della guerra e nella sua
costruzione simbolica. Molto utili, come punti di partenza per l’elaborazione di progetti a scuola, i due saggi di Emma Schiavon, dedicati, rispettivamente, alla rielaborazione del pensiero di due studiose, Jean Bethke Elshtain e Rada Ivekovic, sulle connessioni tra genere, guerra, nazionalismo e cittadinanza, e all’analisi dei testi giornalistici allo scoppio della guerra del Golfo, riguardanti gli accaparramenti alimentari in Italia.
Emerge “come un discorso mediatico fortemente segnato dagli stereotipi di genere abbia inciso in modo molto profondo, proprio perché inavvertito, sull’auto-rappresentaione delle italiane e degli italiani”. Anche il contributo di Graziella Gaballo, orientato alla decostruzione di ruoli e stereotipi, insiti nei discorsi sulla guerra e, specialmente, nel linguaggio della guerra, si presta allo stesso scopo. Da segnalare anche gli interventi di Carla Bausone e Grazia Corrente, sul pensiero di Virginia Woolf, Simone Weil e Etty Hillesum; di Giorgio Belli, sulle auto-rappresentazioni dell’identità maschile nei film Apocalypse Now e Full metal jacket; di Enrica Panero, Laura Poli, Laura Porceddu, sulla storia delle Donne in Nero, arricchiti dagli appunti di Franca Maglietta.
Il libro si rivolge, in particolare, ad insegnanti di scuola media e superiore, propone percorsi didattici. Ma è interessante per chiunque voglia approfondire la propria conoscenza dell’elaborazione teorica e delle pratiche femminili sui conflitti e contro la guerra e per chi intenda, come si diceva, “dare al rifiuto della guerra un carattere sessuato”.
Pubblicata da Donzelli “Hannah Arendt. La vita, le parole”, la biografia della filosofa tedesca che, insieme a quelle della scrittrice Colette e della psicoanalista Melanie Klein, compone il trittico dedicato da Julia Kristeva al “genio femminile”.
Simona Forti
Atutta prima, sembra un’inedita Kristeva l’autrice di Hannah Arendt. La vita, le parole. (Il volume, uscito per le edizioni Fayard nel `99 e ora tradotto da Donzelli – pp. VI-296, € 23, traduzione di Monica Guerra -, è parte di una trilogia intitolata “Il genio femminile”, dedicata ad Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette). Insolito, infatti, è il tocco leggero e chiaro della scrittura con cui l’intellettuale di origine bulgara e di cultura francese dipana il racconto biografico. Ironico e paradossale può apparire l’intento del libro: esporre il pensiero di Hannah Arendt – così esplicitamente avverso alla psicoanalisi – a una sorta di sguardo “analitico”. Il risultato, per quanto teoreticamente discutibile, è comunque molto interessante. Credo, infatti, che sebbene vogliano tenersene lontano, le opere arendtiane si prestino più di quanto si possa credere a questo tipo di lettura. Il messaggio che Kristeva tacitamente invia ai suoi lettori richiama innanzitutto l’esemplarità dell’esistenza di Hannah Arendt: una vita femminile che riesce a rendere “produttivi” i paradossi del secolo che attraversa. E il gioco di specchi tra la vita di chi racconta e la vita raccontata, che senza dubbio trapela tra le righe, riesce a tenersi distante da ogni fastidioso narcisismo. Con grande finezza vengono ritratti tutti i segni della “differenza” arendtiana: il suo essere una donna, costantemente immersa in ambienti quasi esclusivamente maschili; il suo essere ebrea, ma non praticante e non sionista, studiosa appassionata di teologia cristiana e filosofia tedesca.
Per Kristeva, insomma, tutto nella vita di Hammah Arendt, dalle opere alle scelte personali, parla dal punto prospettico di un’irriducibile estraneità. Non soltanto gioca un ruolo centrale l’esilio, che la vede a Parigi negli anni Trenta e poi a New York dal 1940. Ogni episodio della sua esistenza, persino i lineamenti somatici così precocemente invecchiati, reca tracce di una lotta, la lotta tipica di chi è costretto a strapparsi da ciò che è familiare: luoghi, abitudini, lingua.
Ecco allora che la differenza tra il semiotico e il simbolico – nucleo teorico della riflessione kristeviana – trova nel dedalo dei segni offerti dall'”universo-Arendt” una possibilità d’applicazione particolarmente promettente. Questo fa del testo non un volume di semplice “esegesi” arendtiana, che si aggiungerebbe a una produzione ormai sterminata, ma un godibile esempio di come possono interagire tra loro, in maniera intelligente e misurata, narrazione e psicoanalisi, analisi testuale e critica filosofica. Alla fine, Julia Kristeva riesce davvero a trasformare la biografia di Hannah Arendt nella testimonianza di un percorso tortuoso, sofferto, contraddittorio quanto si vuole, ma “riuscito”, in quanto capace di rispondere alla chiamata del proprio daimon. Il “demone” arendtiano chiedeva già tirannicamente alla giovane ebrea di cultura tedesca di spendere l’esistenza nella ricerca del senso, nell’interminabile inseguimento di una verità: la radicale finitezza del mondo umano intessuta da una pluralità irriducibile.
In controtendenza rispetto a tante recenti interpretazioni “iperpolitiche” della filosofia arendtiana, l’autrice francese ritiene che l’interrogativo che assorbe, affatica e appassiona Hannah Arendt – dalla tesi di dottorato su Agostino a La vita della mente – sia in fondo uno solo: che cos’è diventata la vita umana; che cosa resta di essa dopo il crollo dei sistemi di riferimento normativi? Se ancora la vita ci appare il “bene ultimo”, come pensarla a partire dal fatto incontrovertibile che ciò che ha accomunato e accomuna tutti gli “animali totalitari” – quelli del passato e quelli latenti – è esattamente la pulsione a renderla superflua e a distruggerla nella sua singolarità? Sarebbe infatti questa la minaccia a fronte della quale The Human Condition, l’opera del `58, intona un inno all’unicità della vita spesa nell’azione e nella narrazione (bios), di contro a una vita biologicamente riproducubile (zoe). E’ la disperazione prodotta dalla storia del secolo, a far scommettere Hannah Arendt su un agire politico pensato come espressione e prolungamento del “miracolo della natalità”. “Donna senza figli – ci dice Julia Kristeva – la Arendt ci lascia in eredità una versione moderna (e secolarizzata?) del legame giudaico-cristiano con l’amore per la vita, attraverso il suo canto reiterato del `miracolo della nascita’, dove si coniugano la casualità dell’inizio e la libertà degli uomini di amarsi, pensare e giudicare”. E’ perché ci sono nascite – frutto della libertà di donne e di uomini, prima che prodotti delle combinazioni genetiche – che esiste la possibilità di essere liberi. La nostra libertà, infatti, – commenta Kristeva – non è soltanto una costruzione psichica, è la conseguenza dell’inizio come esperienza della rinnovabilità del senso.
Proseguendo in modo assai eterodosso il discorso arendtiano – in questo caso portandolo al limite del tradimento – l’autrice francese ribadisce qui la propria visione dello psichismo materno come luogo di passaggio dalla zoe al bios. Più in generale, presenta il legame con la madre – o meglio, l’incontro primario col femminile – come radice, nel singolo, della possibilità di “amore per il qualunque”, condizione, in ognuno, dell’apertura verso il prossimo, verso la sua stessa fragilità. E questo varrà, conclude Kristeva, almeno fino a quando la tecnica non avrà eliminato, oltre alla novità della nascita, anche la minaccia della morte. Fino ad allora, l’unico modo per la vita umana di trascendere la propria “naturalità” sarà riposto nell’immortalità della narrazione, o nella possibilità istantanea, da parte della vita singolare, di essere “riconosciuta” dal gioco plurale delle parole e degli sguardi altrui.
Proprio sull'”enigmatica essenza” del chi arendtiano si concentrano le pagine più belle e penetranti del libro. Altamente problematica appare a Kristeva la sottovalutazione dell’espressività del corpo e della psiche nella “rivelazione” dell’identità del singolo che agisce. Per eccesso di coerenza con gli assunti della filosofia heideggeriana, Hannah Arendt si precluderebbe così la strada per una compiuta decostruzione della soggettività metafisica. Come sostenere, infatti, che la psiche è abitata in ognuno dalle stesse e identiche pulsioni? Come ignorare che anche a livello del Dna il corpo biologico è altissimamente individualizzato? Certo rifiutarsi di riconoscere la singolarità della psiche e del corpo è un gesto intenzionalmente provocatorio, la cui forza dovrebbe servire a marcare la differenza tra un soggetto che può essere tale solo se e quando agisce in mezzo agli altri e un individuo che diviene inevitabilmente un oggetto ogni volta che è preso nella rete delle funzioni sociali e dei determinismi biologici.
La nettezza di questa separazione sembra attenuarsi nell’ultima opera di Hannah Arendt, La vita della mente. La parte dedicata al Pensare, soprattutto, riuscirebbe a ridare al processo del pensiero il carattere di un’esperienza incarnata e sensibile. Tuttavia una nuova insidia teorica si ripresenta nella sezione su Volere. E’ chiara, e per Kristeva anche condivisibile, la scelta nietzscheana della filosofa di contrastare una volontà, che in virtù del senso di impotenza verso il passato, si trasforma in risentimento, a sua volta foriero di appetito di vendetta e sete di dominio. Se, per sospendere l’accanimento contro il tempo, la risposta di Nietzsche è l’oblio, quella arendtiana è il perdono. Tuttavia, come è possibile per “qualcuno” perdonare, se si trova privato della sua interiorità psichica? E’ ancora una volta il medesimo desiderio arendtiano di negare la profondità della psiche a rilanciare una libertà del tutto svincolata dalla volontà e abbandonata alla dinamica plurale dell'”io posso”. Ma, si chiede polemicamente Julia Kristeva, il potere politico, quand’anche separato dal dominio, può davvero fare a meno dell’intenzionalità della volontà? Nella sua ricerca di un fondamento non soggettivistico della politica – polemico tanto nei confronti del marxismo quanto dell’esistenzialismo francese – Hannah Arendt non solo non risolve, ma nemmeno affronta queste aporie.
Secondo l’autrice francese, auspicare il perdono al posto della vendetta risentita, puntare sul legame della promessa invece che sul controllo del dominio, significa lasciar emergere, filosoficamente, le risonanze cristiane della formazione giovanile. E insieme a questa eredità, mai esplicitamente ammessa da Arendt, verrebbe alla luce la negazione – in senso propriamente analitico – su cui regge l’intero edificio arendtiano. Hannah Arendt avrebbe avuto bisogno, per continuare a vivere, ad agire e a pensare, di “attaccarsi” alla possibilità che da qualche parte – al di là forse delle singole persone concrete – e in qualche modo – al di fuori delle parentesi totalitarie – il “senso comune” rimanga “sano”. Era questa già la tesi di Lyotard che Kristeva sviluppa rintracciandone i segni palesi. “Non è la lingua tedesca che è impazzita!”; perché Hannah Arendt ripete così spesso e ansiosamente questa affermazione? Come ad esempio nella bellissima intervista con Gaus (confronta Archivio Arendt 2. Feltrinelli, 2003). Perché, per quanto abbia genialmente ripensato alla vita come alla possibilità del miracolo dell’inizio, Hannah Arendt non è riuscita ad ammettere fino in fondo che in ogni cosa – sia essa la lingua, l’umanità, la madre, il padre, ogni singolo, persino l’essere – è racchiusa la sua possibilità di non essere. Resta, tuttavia, l’unica filosofa, non a caso una donna, che ci ha offerto un pensiero dell’inizio come possibilità per ciascuno di rilanciare la questione del senso della propria vita.
Libri, saggi, diari, un sentiero di lettura nel mondo arabo che sta cambiando. Un mutamento, talvolta contraddittorio, che porta un segno femminile
Il rapporto con la modernità, l’occidente, l’ortodossia misogina nei testi di autrici come Nawal al-Saadawi, Fatema Mernissi, Suad Amiry, Hoda Barakat
Francesca M. Corrao
Negli ultimi dieci anni il Cairo ha cambiato aspetto. Oggi la città appare molto più pulita, un nuovo parco pieno di palme collega la storica moschea università di Al-Azhar con la cittadella, e la celebre rocca militare da cui Muhammad Ali guidò la rivolta per liberare l’Egitto dalla presenza francese, è stata restaurata. Come un grande fiume ogni sera la gente si affolla per le strade e lungo le vie illuminate donne di tutte le età vanno in giro a bordo di automobili lussuose o di semplici utilitarie. Questo è il segnale di un grande cambiamento: sino a non molti anni fa le donne che andavano a cena fuori o al cinema senza essere accompagnate da padri, mariti o fratelli, erano poche, e sicuramente «estremiste». Adesso un numero crescente di donne lavora, e ha quindi conquistato l’indipendenza economica e di conseguenza un certo margine di libertà. A differenza di prima può accadere che una professionista, se non ha trovato un compagno adeguato, scelga di vivere da sola: questo tuttavia avviene solo nei quartieri più «progrediti», dove le donne non corrono il rischio di essere stigmatizzate dalla comunità del vicinato, come accadrebbe nelle periferie, in cui le tradizioni arcaiche si sposano con i rigurgiti misogini degli integralisti, in barba a ogni dichiarazione di uguaglianza espressa nel Corano. Questa ricchezza di posizioni, però, tende a non essere percepita in occidente, dove si parla del mondo arabo senza sfumature, e quasi solo per metterne in evidenza il volto deteriore. Per capire la complessa eredità culturale dell’Egitto moderno può essere utile leggere un libro di qualche decennio fa, da poco pubblicato anche in Italia, Diario di un procuratore di campagna di Tawfiq al Hakim (Edizioni Nottetempo). L’opera apre infatti uno spiraglio su un mondo lontano e ci permette di sbirciare dietro i veli della vita di provincia. Attraverso l’ironico racconto di un procuratore di una piccola città sul Delta scopriamo una società chiusa ancora assorta nelle tradizioni antiche. L’autore racconta le indagini svolte per svelare gli assassini di un uomo apparentemente innocuo; a turbare la scena – come spesso nelle storie egiziane – appare, per scomparire presto, una splendida ragazza, e intorno alla sua figura si accendono mille enigmi e fantasie. Lo svolgimento delle ricerche rivela tante piccole scene, descritte con esilarante sagacia, di un mondo diviso tra la rigidità dei funzionari, inefficienti e corrotti, e la schiacciante prepotenza dei signorotti locali, sullo sfondo della misera vita dei contadini che si trascinano da una millenaria povertà verso un sistema moderno ma sempre più repressivo. Ma il romanzo è anche una occasione per denunciare l’insofferenza dell’autore per un lavoro cui è costretto per necessità mentre la sua mente da letterato lo porterebbe altrove, a Parigi in un ambiente artistico e trasgressivo che meglio risponde alla sua indole. Ironico e poco clemente, lo scrittore descrive i faticosi tentativi di un Egitto che stenta a imitare il mondo occidentale.
Da quando al-Hakim scrisse il suo Diario, però, molte cose sono cambiate. Oggi le università hanno aperto i battenti in tante zone che prima sembravano culturalmente ed economicamente ferme ai primi anni del Novecento. La città di Minya, per esempio, è diventata un importante centro di affari e di ricerche avanzate. Il cuore della resistenza fondamentalista non ha cambiato sede ma volto. Si muove verso una svolta democratica? È difficile a dirsi, anche se proprio la maggiore presenza delle donne potrebbe fare molto per cambiare l’atmosfera generale. Per il momento, però, la situazione si presenta controversa: se all’università le studentesse sono la maggioranza assoluta, non si può fare a meno di notare che siano quasi tutte velate: un velo tuttavia, che sembra rappresentare – più che una dichiarazione di castità – quasi un vezzo, un modo di dichiararsi diverse dalla cultura occidentale. In giro infatti non si vedono burqa’ o chador, ma fazzoletti decorati con ogni tipo di ninnolo e gioiello e magari indossati sopra un paio di jeans accuratamente sdruciti.
Su queste contraddizioni che segnano la situazione femminile nel mondo arabo esistono oggi diversi testi, dalla recentissima antologia Parola di donna, corpo di donna (curata da Valentina Colombo per gli Oscar Mondadori) all’ultimo libro della marocchina Fatema Mernissi, Karawan. Dal deserto al web (Giunti), che racconta attraverso numerose testimonianze l’aiuto che la tecnologia, se utilizzata saggiamente, può fornire anche nelle località più sperdute. La coraggiosa scrittrice, come tante altre intellettuali attive anche in Medio Oriente, ha creato una Ong per aiutare le donne a vendere i loro prodotti mettendoli direttamente online, nella convinzione che la vera sfida oggi consista nell’emancipare le donne dall’ignoranza e dalla sudditanza economica.
Da decenni, del resto, le organizzazioni non governative si moltiplicano in tutto il territorio. Tra le pioniere fu, di nuovo in Egitto, la scrittrice e medico Nawal al-Saadawi (autrice fra l’altro di Firdaus. Storia di una donna egiziana, edito nel 2001 ancora da Giunti) che organizzò una struttura per molti versi simile ai nostri consultori per insegnare alle donne analfabete le più elementari cure sanitarie. Ostacolata in ogni modo, prima dal governo e poi dai fondamentalisti, la scrittrice fu nel 2001 accusata di aver affermato che il pellegrinaggio alla Mecca era un costume pagano. In realtà al-Saadawi aveva voluto sottolineare l’atteggiamento di apertura dell’Islam ricordando che la religione sin dagli inizi aveva saputo accogliere usi e culture preesistenti che bene si accordavano con la nuova fede, ma un giudice del tribunale shara’itico accusò prontamente la scrittrice del reato di apostasia condannandola a divorziare dal marito (un musulmano non può essere coniugato con un’apostata). Solo la pronta reazione di alcuni intellettuali egiziani e una valanga di e-mail da ogni parte del mondo sono riuscite a convincere il presidente Mubarak a intervenire salvando la scrittrice dalle grinfie dei «calunniatori».
Che le donne siano le rappresentanti di questi nuovi fermenti del mondo arabo è dimostrato anche dalla loro presenza attiva a incontri e convegni internazionali, come quello su «Intellettuali e potere» che si è tenuto alla fine del 2005 presso l’università del Cairo. Sono state numerose le studiose che hanno presentato analisi fondate su una conoscenza seria dei testi critici occidentali e orientali, sulla base del presupposto che, come dice il poeta marocchino Muhammad Bennis, l’apertura verso le altre culture è in primo luogo una questione di ospitalità, di accoglienza. Voce di spicco nell’incontro è stato, fra gli altri, il poeta palestinese Murid al-Barghuti (autore di Ho visto Ramallah, uscito nel 2005 per Illisso edizioni), che ha ricordato gli intellettuali arabi costretti al silenzio in patria o alla fuga all’estero, dove rimangono spesso chiusi dietro un muro di indifferenza e che ha messo in evidenza come il problema della libertà e del potere non riguarda solo «gli altri» ma ogni essere umano, richiamando alla presa di coscienza individuale e alla necessità di sviluppare un forte senso di responsabilità.
Un comportamento esemplare in questo senso viene dal testo autobiografico di Suad Amiry – Sharon e mia suocera, edito nel 2003 da Feltrinelli – che racconta la sua esperienza di affermata architetta rientrata da Londra in Palestina per contribuire alla crescita della nuova Autorità palestinese. Nell’esilarante resoconto della sua vita quotidiana dà prova di come, da donna comune, è costretta a trovare soluzioni geniali per sopravvivere nell’inferno quotidiano, schiacciata tra le esigenze della suocera e le ordinanze di Sharon. Il materiale non manca, tanto che nel 2005 Amiry ha pubblicato un altro libro (Se questa è vita. Vivere a Ramallah in tempo di occupazione, Feltrinelli). Ma queste testimonianze di ordinaria follia si trovano in gran numero anche in Domani andrà peggio. Lettere da Palestina e Israele, 2001-2005 (Fusi Orari, pp. 240, euro 15), la raccolta di articoli di Amira Haas, una coraggiosa giornalista israeliana che si batte per la difesa del buon senso, al duro prezzo di essere invisa a molti. Incontrare l’altro è un’impresa difficile e dolorosa, scriveva Arnold Toynbee, e questa amara verità è ben nota agli arabi da oltre due secoli. Colonizzati prima e successivamente devastati da guerre fratricide sapientemente alimentate da interessi stranieri. Molti intellettuali ne parlano con amarezza, alcuni con ironia, altri invece si nutrono di questo orrore per sublimarlo in opere tra il surreale e il metafisico: fra questi, saggi critici (Adonis, La musica della balena azzurra, Guanda; Fatema Mernissi, Islam e democrazia, Giunti), poesie (Adonis, In onore del chiaro e dello scuro, Archivi del Novecento) e anche bei romanzi, come quello della libanese Hoda Barakat, L’uomo che arava le acque (Ponte alle grazie), dove si narra con straordinaria sensibilità lo smarrimento dell’uomo e il disintegrarsi dell’essenza della cultura materiale in Medio Oriente sotto i colpi di mortaio della guerra civile libanese.
Tuttavia non ci si rassegna e le attività culturali – mostre, festival, film, concerti, opere teatrali, dibattiti, presentazioni di libri – a Beirut come al Cairo si sono moltiplicate rispetto a pochi anni fa, grazie anche alle scelte di politici contestati. Un esempio viene dal pittore Farouk Husni, ministro della cultura egiziano da oltre un decennio, che continua ad aprire spazi culturali anche agli artisti dell’opposizione, senza badare troppo alle polemiche. Obiettivo di Husni è di dimostrare che le attività governative non emarginano gli intellettuali scomodi, accogliendo in questo senso l’invito più volte reiterato del Nobel per la letteratura Nagib Mahfuz: anche nelle più recenti interviste in occasione del suo anniversario, il più amato scrittore arabo non ha perso infatti la sua grinta e ha incoraggiato i giovani a darsi da fare per frenare l’avanzata oscurantista.
In questa direzione del resto vengono organizzate iniziative dedicate ai fautori di una cultura aperta e moderna. Prossimamente è previsto un omaggio a Muhammad `Afifi Matar, poeta filosofo scomodo, vittima spesso dei suoi modi «passionari». A settanta anni il Consiglio superiore della cultura riconosce finalmente i meriti di questo amante di Empedocle e cancella così il ricordo dei giorni di carcere negli anni Novanta (si era dichiarato contrario all’intervento militare dell’Egitto in Iraq, ed era «scivolato» sul pugno di un poliziotto rompendosi il naso). Anche allora il tam tam degli intellettuali arabi e occidentali, dentro e fuori dall’Egitto, lo hanno salvato dal carcere; ha vinto la solidarietà e così anche il diritto alla libertà di opinione.
Fra le altre figure della cultura egiziana, il cui valore viene adesso riconosciuto spicca anche il nome del poeta `Abd al-Mu’ti al-Higazi che, rientrato da un decennio dall’esilio volontario in Francia, cura oggi una rubrica sul più diffuso giornale egiziano, al-Ahram; e da lì parla liberamente dei fatti del giorno senza risparmiare i suoi strali all’amico di un tempo, il ministro della cultura per l’appunto. Ad al-Higazi il Consiglio superiore della cultura ha recentemente dedicato una giornata di studi convocando i massimi esperti di poesia a parlare della sua produzione. A guidare i lavori Gabir Asfour, il grande critico letterario prestato all’amministrazione pubblica per gestire un’operazione culturale faraonica: lanciare la cultura araba nel mondo e tradurre migliaia di libri dalle lingue occidentali in arabo ogni anno. Tra i presenti la vera responsabile del progetto, la dinamica e colta Shuhra Muhammad al-‘Alim; che ama scherzosamente dire di sé che è più brava di Shehrazad perché è riuscita a dare alle stampe mille e un libro in un anno invece che in tre come la celebre eroina dei racconti orientali.
Attualmente Shuhra Muhammad al-‘Alim sta promuovendo la traduzione di racconti italiani in collaborazione con la facoltà di lingue dell’università di `Ayn Shams e il ministero degli affari esteri. Un’altra iniziativa in questo senso è stata promossa dal poeta Hasan Teleb che, assieme ai docenti di italiano dell’università di Helwan, sta traducendo un’antologia dei poeti italiani del Novecento. Il problema è l’assenza di coordinamento tra gli intellettuali italiani e quelli arabi. Ancora oggi, sebbene fioriscano meritevoli iniziative in cui gli intellettuali arabi sono invitati a partecipare a incontri e scambi in Italia, si riscontra che troppo spesso i nomi sono sempre gli stessi oppure non sono significativi; e lo stesso accade in Oriente. Si tratta di un vecchio problema: già all’inizio del secolo scorso al Cairo la poetessa Mayyi Ziyada traduceva poeti italiani assolutamente ignoti, e lo stesso facevano negli anni Cinquanta a Beirut i redattori della rivista «Shi’r» che pubblicavano accanto ai testi di Montale (che, come poi Mahfuz, ha avuto la fortuna di ricevere il Nobel) i versi di illustri sconosciuti. Senza sparare a zero sul passato, sarebbe auspicabile che oggi, nei paesi di lingua araba, come in Italia, non si ripetessero gli stessi errori.
Claudio Magris
Erasmo da Rotterdam includerebbe certamente le madri argentine di Plaza de Mayo nel suo Elogio della follia e non solo perché, quando hanno iniziato la loro incredibile, indomabile battaglia per i loro figli e per tutte le trentamila persone fatte sparire durante la dittatura militare, le chiamavano «las locas», le pazze. Umanista razionale, Erasmo celebrava non già le oscure pulsioni irrazionali né i deliri totalitari delle idee assolute, bensì l’autentica ragione ossia la pienezza della comprensione, che include i concetti come i sentimenti e le passioni. Questa ragione si oppone sia all’irrazionalità viscerale sia al gretto calcolo falsamente realista che considera immutabile la realtà del momento e si piega a essa. La vera ragione, che non si arrende alle cose, è sempre «follia» – come il cristianesimo per San Paolo – agli occhi di chi si inchina al male ritenendolo inevitabile; ad esempio, agli occhi dei pretesi realisti che, nel settembre o nell’ottobre del 1989, pensavano che il muro di Berlino dovesse continuare per chissà quanti anni. Le madri di Plaza de Mayo costituiscono un esempio straordinario non solo di coraggio, umanità e libertà, ma anche di grandioso e razionale realismo politico, come documentano l’eccellente libro di Daniela Padoan e altre testimonianze della loro vicenda. L’esempio di una «follia» che è chiara, intrepida e amorosa intelligenza delle cose, posta al servizio dell’universale umano. Dopo il golpe del 24 marzo 1976, che instaura la dittatura militare in Argentina, veri e presunti oppositori – circa 30.000 – vennero fatti sparire, talora insieme agli avvocati che li assistevano, in un’orgia di criminalità e nell’eclissi di ogni certezza del diritto, che colpiva pure persone inizialmente non avverse a un governo autoritario.
La storia di quelle infamie, di quelle torture, di quelle eliminazioni, di quelle complicità con gli aguzzini è nota ed era stata denunciata allora, con particolare forza, da Giangiacomo Foà sul «Corriere ». Non c’è che da scegliere. Il segretario di Stato americano Kissinger esorta la giunta militare a «portare presto a termine il lavoro» e non si preoccupa dei diritti umani «citati fuori contesto». La Chiesa, come spesso in tali situazioni, mostra due volti: quello indegnamente neutrale o compiacente di una parte della gerarchia – compreso il nunzio apostolico monsignor Laghi – e di certi cappellani più benevoli con i torturatori che con i torturati, e quello dell’impavida carità cristiana di altri sacerdoti, fra i quali ad esempio padre Longueville e padre de Dios Murias o i vescovi Angelelli o Ponce de Léon, vittime dell’efferata violenza contro cui avevano levata alta la voce, come monsignor Romero o i sei gesuiti a San Salvador, forse ora dimenticati nelle beatificazioni ecclesiastiche, ma – come il baccello sepolto nella fiaba di Andersen – non certo dimenticati da Dio.
Tutto questo è storia, nota anche se rimossa o scordata. La resistenza delle madri non nasce quale movimento politico, bensì da un’elementare universalità umana; si tratta di donne di diversa estrazione sociale, ma perlopiù modesta, cresciute e formatesi tradizionalmente nei valori familiari, nel rispetto dell’autorità e nel desiderio di un normale ordine sociale che permetta una normale vita quotidiana. Quando i loro figli iniziano a sparire, in un’assenza e in un’incertezza più angosciose della morte, il loro amore materno non si piega e non si rassegna; non si limita alle lacrime ma trova gli artigli ed esse iniziano la loro ricerca, la loro lotta indomabile. Come Antigone, si ribellano alla legge iniqua (o meglio alla selvaggia anarchia, perché ogni violenta tirannide è caos e disordine) che nega i fondamentali valori umani.
Nelle testimonianze – e, prima ancora, nella prassi – di queste donne la maternità non rimane allo stadio di strazio viscerale, di lutto privato. Queste donne scoprono che la loro tragedia personale è un tassello di una criminale tragedia collettiva; che non solo il figlio dell’una o dell’altra, ma migliaia di persone sono state fatte delittuosamente sparire. L’immediato sentimento materno si universalizza, diviene chiaro concetto della responsabilità più generale. Ognuno di quegli scomparsi diventa allora il loro figlio, così come ogni vittima è realmente il fratello di ognuno di noi, perché sempre si tratta del nostro destino comune e tanto peggio per chi, prigioniero di un’ottusa aridità o di una confusa pappa sentimentale, non se ne accorge e non si accorge dunque di lavorare alla propria rovina. Quando si è portato un figlio in grembo – dice una delle madri, Hebe Bonafini – lo si porta per sempre. Queste donne non la danno vinta alla morte, smontano la sua falsa aureola di potenza invincibile; i loro figli – ripetono – sono vivi, continuano a far parte della storia del mondo e quei trentamila sono tutti figli di ognuna di loro.
Come Antigone, anch’esse arrivano spontaneamente all’azione politica dall’universalità dei valori e dei sentimenti umani violata dalla politica, dalla perversione della polis , della vita comune. E svolgono un lavoro politico di un’incredibile lucidità, concretezza, efficacia, che non fanno pensare ad alcun patetico mammismo, bensì alla logica di Clausewitz o all’astuzia degli eroi brechtiani. A ogni mossa della repressione rispondono con una tattica flessibile e inventiva; se la polizia vieta loro di radunarsi, obbediscono all’invito di circolare e così inizia la loro leggendaria marcia; se punta contro di esse i fucili, gridano allegramente in coro «Fuoco!». La censura viene aggirata da una geniale guerriglia pacifica e inafferrabile: diffondono nel Paese ignaro le notizie dei crimini del regime, scrivendole sulle banconote che circolano ovunque o su fogli infilati nei messali o inframmezzandole, in riunioni di massa, nella recitazione ad alta voce di preghiere che nessuno osa interrompere; intimoriscono assassini e complici con le loro pubbliche, corali denunce.
Dopo le madri di Plaza de Mayo è impossibile ripetere le patacche sulle donne magari più capaci di passione e sentimento degli uomini, ma meno dotate di logica o meno portate all’universalità del concetto: è la loro azione politica che rivela una straordinaria razionalità, una chiara visione generale capace di tradursi in corretta prassi, mentre in questa vicenda sono spesso gli uomini – i padri, i mariti – a rivelarsi timorosi, succubi degli eventi, prigionieri di stati d’animo coatti e pronti a infiammarsi per il campionato mondiale di calcio più che a inventare creative e razionali forme di lotta per i loro figli. Antigone non solo ama, ma anche ragiona meglio di Creonte.
Nei momenti più drammatici della loro protesta le madri furono ascoltate da pochi – perfino Giovanni Paolo II, cui pure la devozione a Maria avrebbe dovuto aprire gli occhi, le ricevette con un’aridità che non è fra i momenti migliori della sua vita. Uno dei pochi a dimostrarsi realmente sensibile, oltre al console italiano Enrico Calamai, fu Pertini, il quale fra l’altro inchiodò i generali, dicendo che essi mentivano – e non potevano far altro – ma nel loro cuore avrebbero preferito difendere il loro onore di soldati sul campo di battaglia anziché infierire su oppositori inermi, e togliendo così loro ogni possibilità di risposta, giacché non potevano ammettere né di mentire né di preferire la tortura di indifesi al rischio della battaglia.
Queste madri ora sono nonne, molte di esse gagliarde nonagenarie; hanno marciato ogni giovedì come allora ma, libere da ogni spirito vendicativo, senza guardare al passato bensì alla vita, prendendo iniziative di ogni genere e rispondendo a necessità di oggi, aggiornandosi tecnologicamente, rifiutando ogni ideologia populista e indigenista e ogni confuso terzomondismo; a conferma della loro distanza da ogni visceralità, criticano il disegno di strappare ai genitori adottivi, ai quali erano stati affidati senza saperlo, alcuni orfani di vittime del regime. Vivono in amicizia e in allegria; se l’età a poco a poco le pensiona, hanno lasciato il segno. È proprio vero che, come sta scritto nel Vangelo, chi si preoccupa di salvare la propria vita la perde e chi è pronto a perderla la salva e salvare l’anima salva pure la vitalità. Di queste madri, nonne, figlie, amiche ci sarà sempre bisogno, perché, dice un verso di Brecht, il grembo da cui è nato il male che esse hanno combattuto è sempre e dovunque fecondo.
I libri: Daniela Padoan, «Le pazze. Un incontro con le madri di Plaza de Mayo», Bompiani, pagine 423, 9,50;
«Non un passo indietro! Storia delle Madres de Plaza de Mayo» (pagine 190) e «Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti del laboratorio di scrittura delle Madres de Plaza de Mayo» (a cura di D. Padoan, pagine 91) entrambi pubblicati dalle Ediciones Associación Madres de Plaza de Mayo;
Piera Oria, «Dalla casa alla piazza», ed. Cuec, pagine 128, 11,50
Rosanna Fiocchetto
Uno dei motivi di felicità e di buon auspicio per questo 2006 è per me la pubblicazione in italiano (Il Dito e la Luna, Milano, pp.149, 12 euro) di “Virgil, non” (1985) di Monique Wittig: un libro che ho tanto amato da tradurlo, sebbene io non sia una traduttrice professionista, spinta da quella che Wittig ha chiamato “passione attiva”. Mi sono innamorata di questo libro per la sua poesia, per il suo coraggio, per la sua lucidità provocatoria, per il suo umorismo dissacrante. E’ una riscrittura lesbica, ironica e polemica, visionaria e combattiva, della “Divina Commedia” dantesca: parla dell’inferno in terra in cui le “anime dannate” sono i corpi vivi delle donne, del limbo in cui le “schiave fuggiasche” possono trovare scampo nell’illusione della libertà, di un paradiso tanto difficile da raggiungere quanto esaltante nella sua utopia.
Ma anche la stampa in Italia di quest’opera cosi’ dirompente e “scandalosa” sembrava essere un’utopia: un’utopia realizzata grazie a due complici e cospiratrici, l’editrice Francesca Polo e Margherita Giacobino, direttrice della collana “Officine T – Parole in corso”, che hanno contribuito in modo sostanziale a portare sotto gli occhi di nuove lettrici questa “Profana Commedia” in cui “a nessuna è negato l’ingresso nella città celeste”, con un bellissimo modo di ricordare Wittig a tre anni dalla sua morte. A loro dedico un brano del testo nel quale un girone infernale si tramuta in cerchio di sorellanza: “Qui non ho bisogno di fare domande. E non devo neppure temere gli insulti che generalmente le accompagnano. Qui al contrario vengo invitata ad entrare nel cerchio e a sedervi in compagnia di Manastabal, la mia guida, per prendere conoscenza dei fatti. Qui le lamentele vengono esposte liberamente, non vanno suggerite a creature che si comportano come se le avessimo inventate. Qui al contrario si è pronte a sventare il meccanismo e ad uscire dalla trappola. Si hanno pugni per tutte quelle degli altri cerchi dell’inferno che non ne hanno, e si è pronte ad usarli…”.
Renata Dionigi
Non è facile raccontare questo ironico “poliziesco al femminile” senza nominare alcune circostanze che possano invogliarne la lettura ma che ovviamente tolgono il piacere dell’esito finale, davvero più che sorprendente.
Dirò solo che c’è stato un omicidio e che nella casa del delitto gli uomini della legge cercano indizi per scoprire il colpevole. Accanto a loro, relegate in cucina, le mogli, due donne che si conoscono appena, in maniera sommessa iniziano un’indagine parallela osservando piccoli dettagli, intuendo situazioni che fanno parte del loro quotidiano e della loro esperienza, cercando di immaginare e di capire ciò che può aver causato un gesto così estremo.
Ciò che colpisce nel breve romanzo è la capacità dell’autrice di rappresentare la differenza tra i sessi, una diversa modalità di agire tra donne e uomini davanti a un avvenimento inconsueto per entrambi. Le donne infatti, seppur in tono dimesso, si mostrano più libere nell’interpretazione degli indizi e seguono un’idea di giustizia che non corrisponde a quella socialmente riconosciuta, ma che tra di loro si sentono tranquillamente di legittimare. Gli uomini invece, occupati come sono a mostrare la loro efficienza e affermare l’importanza del loro ruolo alla comunità perdono di vista, nonostante l’atteggiamento di consumati detective, l’essenza dell’indagine e, irridono con paternalistico sarcasmo i particolari donneschi che le mogli osservano e che loro considerano “inezie”.
“Inezie” è il pezzo di teatro da cui è stato tratto questo racconto recitato con successo dalla stessa autrice nel 1916 e pubblicato in Italia, insieme a due altri testi americani, dalla casa editrice “La Tartaruga” negli anni ’80.
Sabina Baral
“Vertigo; verse. L’una, poi l’altra. L’una e l’altra. Queste parole negli anni si presentano congiunte, a un livello molto profondo. Volgere una frase nel mezzo della mia instabilità. Attraverso l’atto del versificare, trasformare la mia instabilità, il mio senso di vertigine, in qualcosa di valore”.
Mi colpisce subito l’accostamento tra i due termini, vertigo e verse. La scrittura come terapia, come strumento di elaborazione e di armonizzazione dell’esistenza, capace di lenire i mali dell’anima e gli strappi della vita.
L’autrice, oggi docente universitaria e saggista di successo, ripercorre la sua biografia e il suo percorso di emancipazione tramite una scrittura limpida, a tratti audace, quasi in contrasto con la complessa matassa di ricordi che la parola si trova a dipanare. Figlia di immigrati italiani di origine proletaria nell’America degli anni Cinquanta, Louise DeSalvo ci narra del suo travaglio esistenziale segnato dall’esperienza della guerra, dalla depressione della madre e dal suicidio della sorella. Accanto a tutto questo il rapporto conflittuale col padre e la propria classe sociale di appartenenza, la scoperta del sesso e dell’amore, l’incontro con donne significative che rappresenteranno un punto di riferimento essenziale in una vita segnata da momenti di profonda vulnerabilità e fragilità. Fra queste la stessa Virginia Woolf, che DeSalvo studia con passione e con la quale si confronta costantemente sia come intellettuale che come donna.
Ne risulta un libro denso, di stile, a tratti arguto, dove la curiosità per la realtà circostante e la profonda passione per la parola scritta rappresenteranno una possibilità di riscatto per la protagonista. Consapevole delle numerose limitazioni imposte alle donne, DeSalvo troverà, grazie alla letteratura e al suo potenziale creativo, una via di salvezza da una vita sacrificata alla frustrazione, alla depressione e alla paura.
Vale la pena leggerlo, in primis per l’autenticità e l’onesta con cui è scritto. Ancora una volta, al centro, una donna capace di sfidare le convenzioni, che ogni tanto valica il limite entro cui la si vorrebbe circoscrivere e che sa porsi in ascolto della sua verità più profonda. Instancabile nel tentativo, a tratti disperato, di coniugare pensiero e vita.
Amelia Sciascia
Desidero segnalare questo bel libro. Una bellissima scrittura. Un
racconto sorprendente. Il ritmo serrato e coinvolgente di un giallo. Chi avrebbe potuto supporre che un homo-philosophicus potesse scrivere pagine tanto belle sull’amore, la sensualità, l’androginìa, l’amicizia, la sorellanza! Ci sono notazioni sulla Fede e sui bizantinismi della gerarchia cattolica che mi hanno ricordato il migliore Sciascia de “Dalle parti degli infedeli”, ma con una scrittura più lieve, che si beve d’un sorso pur lasciandone assaporare a lungo il gusto.
Luciano Sartirana
Ho letto (tutto d’un fiato, va che è un piacere) PENSANDO MARGHERA, di Antonella Saccarola, ed. Alcione, 10 euro.
E’ un testo composto da 14 interviste a persone che, con le loro esistenze e il loro essere attivi nella zona fra Venezia, Mestre e Porto Marghera, costituiscono importanti punti di riferimento: operatori sociali e istituzionali, sindacalisti, sacerdoti, ambientalisti, intellettuali… operai ed ex-operai e abitanti…
Il contesto è quello di un polo industriale – il Petrolchimico di Marghera – creato dal nulla nel 1917 e che dal nulla ha generato una città e un tessuto sociale al suo servizio. Sfruttamento intensivo degli impianti, decine di migliaia di lavoratori, inquinamento “libero” dell’acqua e dell’aria, incidenti (l’ultimo il 28 novembre 2002, l’Italia non se n’è accorta ma si è rischiata una strage) e morti atroci da PVC… tangenti e silenzio… declino, dismissione industriale, nocività riconosciuta solo da poco tempo ma evidente da sempre… incertezza e dibattito sul futuro…
E, fin qui, questo libro potrebbe interessare chi è di quelle parti, chi ha seguito le lotte e i processi come sindacato o come associazione ambientale, chi guarda al di là della nostra politichetta per parlare di Kyoto… che già non sarebbe male.
Ma, da qui, arriva ciò che questo libro ha di più bello e stimolante: un suggerimento di metodo e di interpretazione (quindi: di azione) per capire la storia e la politica vera, dalla parte delle persone che vivono e lavorano in un luogo. Qualsiasi luogo, perché il modo di raccontare qui Marghera può essere utilizzato per raccontare qualsiasi altro posto.
In prima battuta, perché le persone non sono leggibili o classificabili solo in relazione a un problema, ma anche e soprattutto al modo di affrontarlo; ai punti di vista diversi di vivere una situazione (dai preti-operai degli anni ’70 al sindacalista “costruttivo” verso la produzione… fino alle donne, che come altrove sembrano assenti dal racconto ma esistono e sviluppano una presenza del tutto differente) fino al fatto che un tessuto sociale ha una dinamica capace di andare anche al di là di ciò che politica classica ed economia vedono e decidono per esso.
Che ci fa un attore e regista teatrale siciliano in un posto simile, per esempio? Che cosa può dire un docente tedesco di filosofia nostalgico di illuminismo (un vero illuminismo moderno) in un posto simile? Eppure sono saperi che girano, te li ritrovi nei discorsi della gente e nelle serate insieme a teatro, nei progetti di bilancio partecipato, nel molto verde attorno a ogni casa di Marghera (lo credereste? no grattacieli, orto per tutti… e fiori e pomodori ci sono), nelle molte associazioni culturali che vanta questo territorio, che parlino di Petrolchimico o di tutt’altro.
Insomma: Antonella Saccarola ci propone un modo di leggere la realtà vicino alla realtà, libero da opinioni pregresse o precostituite, eticamente teso alla necessità di un progetto collettivo che guardi alle differenze. A Marghera e in molti altri luoghi, specie quelli dove la politica appare solo urlo per portarsi a casa la vacca rimasta, o pretesto per chiudersi in una casa sempre più paurosa degli altri.
Antonella Saccarola è una giovane ricercatrice, insegnante alle scuole medie, drammaturga sociale (ha scritto TANGENZIALE, una pièce sulla tangenziale di Mestre; e INDIGENA, sulla memoria di un Veneto che cambia e fatica a ricordare).
Pino Ferraro
Nives è il nome di una donna. Sulla sua traccia si svolgono le pagine dell’ultimo libro di Erri De Luca. Sulla traccia di Nives, (Mondadori, pp. 120, euro 14,00), intenso, come sempre. Tagliente, come il vento in altura. E’ prepotente, «il vento in alta quota è il padrone del tempo». Ti zittisce e chiude. Come le nevi, di cui Nives è nome. L’origine latina sottintende ad nives. Madonna delle Nevi. Una via di Napoli si chiama così, stretta e tortuosa, va dal mare a salire. L’origine del nome importa poco al libro che fa cordata con altre parole, di etimo vissuto, di un tempo rimasto indietro senza poter passare. E non passa, se non lo si libera, perché del tempo non ci si libera. Aspetta sempre che la storia gli dia la sua verità. Invece è ancora chiuso in carcere. Quello in cui sono detenuti ancora gli anni del nostro dopoguerra. E del sogno ad occhi aperti di tante strade e volti. C’era la vita che volevamo. E un paradosso, quanto più si va in alto sulla terra più diventa freddo e più si è soli. Ci si separa. Si parla ad una voce sola o, forse, si ascolta una voce che ti fa ripensare. Qui è la voce di Nives la voce interiore. In un passaggio Erri confessa, non ha mai avuto il panico della metafora bianca davanti alla pagina da scrivere, perché già scritta, il suo è un trascrivere, un lavoro antico fatto ancora a mano. Una foto, nel libro, lo ritrae mentre trascrive note sotto il Dhaulagiri. Un dialogo di due voci o piuttosto un monologo di una voce che trova nell’altra il suo appoggio, la traccia del proprio voler dire. Nives Meroi è tra le pochissime donne al mondo che hanno conosciuto quote di esistenza superiori a cinquemila. I metri non c’entrano. C’entra l’esistenza. C’entra la relazione d’amore a quelle quote. Le voci di lontano. Seguire, perdersi, urlarsi e tacere a quelle quote. E intendersi. Insieme al suo compagno, Romano, che nel libro si vede di lontano, mentre arrampica.
E poi i miracoli. «Sono frequenti, ordinari. Reggono continuamente la vita e quando quella smette è perché ha smesso di spedire una carica pilota che faccia da guida al miracolo. Si muore quando non si chiede più. Il verbo della vita è chiedere, avere una domanda, lanciare il punto interrogativo verso l’alto, annuvolato o sgombro. Chiedere per forzare la solitudine, a bassa voce mandare lontano la richiesta, perché il soffio e non il grido va lontano. Chiedere perché non chiedere è la resa». Chiedere non è volere. Nemmeno è fare domande. E «se proprio è necessario far risalire i miracoli alla divinità, allora è una che non può evitare il maremoto nell’Oceano Indiano, ma può accorrere sul posto per strappare un rimasuglio di vite, inventare eccezioni. Sono giochi di prestigio di un artista da circo che fa spalancare la bocca ai bambini. Sono loro gli intenditori dei miracoli, quelli che li vedono apparire più spesso. Per scorgerli conta essere disposti a meravigliarsi».
Il miracolo è l’eccezione. Non quella che conferma la regola. Quella che la sconvolge e supera. Il miracolo è sempre eccezionale. Napoli è un luogo d’eccezione. Non è strano che compaia in questo giro di pensieri del libro. Un luogo d’eccezione, qualche volta eccezionale. Qui sulle nevi, in compagnia di Nives, chi parla torna con la mente a Ischia, all’adolescenza, alla casa paterna e al distacco da quella casa. Alle scelte giunte fino alla decisione resa abitudine di strappare al mattino un’ora non concessa come apertura di giornata e leggere. In ebraico. In cima. In solitudine. Per sentirsi poi parlare dentro. E mischiare le voci del testo e della casa, quelle delle strade e dei fogli. «Sono uno che scrive, perciò sto in disparte». Ci sono libri che si leggono e si commentano. Si criticano, prendendo posizioni, lamentando mancanze e plaudendo a conferme. Ci sono poi libri che si ascoltano. Si può ascoltare quando non c’è vento. «E questa notte è fortunata, non c’è vento», dice la voce di Nives. Un libro che non si può ascoltare se c’è vento. Ma che solleva vento. Lo avverti e fai fatica a tenerti lontano. C’è rumore di richiesta. Si alza spesso il vento. Cala di colpo quando arrivano struggenti i momenti in cui si legge del padre e di Napoli. Degli alpini e delle manifestazioni. Delle carceri in cui si sta chiusi, in cui restano chiusi. Gli anni settanta, (chissà perché si continua a chiamarli di piombo), gli ottanta, il processo “Calabresi”, le aule di tribunale e la storia insabbiata ancora nell’invenzione della cronaca. Le carceri. «Vengo alle montagne e assaggio un freddo differente, che si scioglie a valle, alla fine del viaggio. Vengo da un maltempo non scaduto. Qui salgo le arie aperte per potermi separare dall’aria dei rinchiusi, la loro ora di cammino nei cortili budello con le graticole sopra la testa. Le più lunghe prigioni per motivi politici di tutta la storia d’Italia, questo è il record della mia generazione. Non vengo sulla traccia per dimenticare. Un prigioniero mi ha scritto: respira anche per me. Non lo so fare, non ho polmoni sgombri». Nives: «No, così non puoi salire». Bisogna lasciare dietro ciò che pesa e frena, quando davanti a te c’è qualcosa, vuole tutto. Qui si alza e tira forte il vento. Non si può non alzare al rumore del presente che si vive, a non volere il peso del passato.
L’amnistia del tempo passato. Non per la remissione o per l’oblio, ma per andare avanti. Per liberare il tempo, non per liberarsene. Per liberare. Smetto di ascoltare, leggo. Un corrente fredda porta l’amnistia. Un’altra più pressante porta a ripensare alla prigione. Al carcere. Li distinguo. Forse non sono la stessa cosa. Riduzione della pena? perdono? Risarcimento? o non piuttosto restituzione. Di persone. Di vita. Non più carceri, ma altro. Non vado oltre per non uscire troppo dalla traccia di Nives. Per quanto la “restituzione” la ritrovo come nascita di vita nella pagina che mi strapperebbe ancora dall’ascolto. Allora faccio smettere il vento. «Durante gli anni rivoluzionari erano rare le nascite tra le nostre file. Quando ne capitava una mi stupivo: che avvenire darà un rivoluzionario al figlio? Poi ho visto compagne partorire in prigione, crescere bimbi là dentro. Poi doverli salutare, affidati all’esterno. Per quanto fosse penoso, altra pena aggiunta, quella era vita nuova, indipendente, che proseguiva fuori. I rivoluzionari devono fare figli, molti, devono seminare di là dai recintiin cui finiranno sepolti».
Acido solforico, l’ultimo romanzo della scrittrice belga, immagina un programma in cui i concorrenti vivono sotto l’occhio delle telecamere l’esperienza dei lager nazisti. Criticato per la sua crudeltà, il testo propone una tesi in fondo ovvia: l’umanità dei reclusi è lo specchio di chi sta fuori
Norma Rangeri
In Italia i reality sono in calo di ascolti, ma in compenso il loro linguaggio ha pervaso ogni angolo del palinsesto diventandone la nuova grammatica. Il format che tanto scandalo e stupore provocò al suo apparire ora è moneta corrente. Nel lacrimoso conformismo della tv in mutande si mima la vita, anzi la sopravvivenza. Si gioca con la reclusione (la casa del Grande Fratello, l’isola deserta), si mette in scena la lotta per non morire di anonimato ed è normale ascoltare frasi come “faccio i complimenti a chi è sopravvissuto al televoto”. Invece “cari telespettatori, grazie al vostro televoto, il condannato a morte di oggi è…” ancora non è andato in onda. Per il momento è solo fantatelevisione, solo un’idea scritta da Amélie Nothomb all’inizio del suo ultimo romanzo Acido Solforico (tradotto da Monica Capuani per Voland, pp. 131, euro 13), quando immagina il momento in cui l’attuale pornografia del quotidiano cede il passo allo “spettacolo della sofferenza”. Best seller nelle classifiche francesi, il libro di Nothomb rigurgita le scorie del reality, traduce in discorso sociale la polvere sottile respirata a ogni ora e latitudine. Se in tv si nasce, si ama, si divorzia perché non si deve anche morire?
Prodotto inventato nei laboratori olandesi, il reality è un format nato sull’albero della vecchia Europa, come già avvenne per altre pandemie, quando la televisione era solo un prototipo e la Germania offriva altre reclusioni di massa. La new age dell’iperaggressività nel game di sopravvivenza ha avuto un grande successo negli Usa, patria di Fear Factor (guerra a chi mangia più vermi e scarafaggi), Extreme Makeover (interventi di chirurgia plastica), e dove i telespettatori hanno dato un duro colpo al presidente Bush, battuto negli ascolti proprio dal reality Simple life della Fox (la vita di ricchi rampolli tra le vacche in una fattoria dell’Arkansans). La guerra di sopravvivenza allude al combattimento: “guerra et circenses”, corpo a corpo fino alla vittoria. Se nel mondo gli uomini si massacrano con guerre e terrorismo, nel piccolo schermo si mima una lotta incruenta dove si spara con il turpiloquio e si gode a ogni eliminazione del concorrente-rivale.
L’autrice di Acido Solforico racconta con stile ferrigno la storia di “Concentramento”, un programma estremo, sceneggiato nei minimi particolari. Sul modello dei campi nazisti, le persone vengono catturate per strada (“l’unico criterio era l’appartenenza al genere umano”), blindate sui camion e scaricate nel lager. Indossano una divisa e un numero, i loro documenti vengono bruciati perché il nome diventa un’arma identitaria troppo pericolosa, un incitamento alla sovversione. Kapò (i nostri attuali conduttori), torture, lavori forzati e morte sicura per chi non è più abile al lavoro. Unica differenza con il lager nazista: le telecamere che riprendono ogni angolo del campo. È la tv che si scrive morendo. Più si soffre più si risulta telegenici. Ma nessuna illusione: cinismo e sadismo hanno superato da tempo il filo spinato e ci fanno compagnia in salotto.
Acido Solforico è un romanzo che ha fatto storcere il naso, criticato per la scrittura sporca e ripetitiva, accusato di esagerare con il paragone nazista. Come se nell’epoca in cui un grande ceto medio planetario impara la normalità dalla televisione, l’escamotage del paradosso nazista fosse un delitto di lesa maestà. La tesi del romanzo è persino banale: l’umanità dei reclusi è lo specchio di chi sta fuori. Noi spettatori – ancor di più se con l’alibi dello sguardo intelligente – siamo i killer, gli apprendisti stregoni che alimentano la carneficina “perché spesso un programma televisivo è l’unico argomento di conversazione tra le persone”. I veri kapò sono al di qua dello schermo (“alcuni lettori scrissero per chiedere se anche i prigionieri venissero pagati per essere uccisi”). Alcune scene sembrano rubate a Truman show (“nella sala dai novantacinque schermi, gli organizzatori guardavano la scena rapiti”), si allude al grande occhio della modernità descritto dal Panopticon di Jeremy Bentham, il filosofo inglese che inventa il modello di carcere laborioso dove da una torre al centro di una costruzione ad anello una sola persona può sorvegliare tutti i detenuti.
Fagocitato dall’ansia della visibilità l’homo videns ha perso la sua ombra. La pubblicizzazione del privato – come da tempo sostiene Umberto Galimberti citando il Sant’Agostino di “in interiore homine habitat veritas” – è “l’arma più efficace impiegata nelle società conformiste per togliere agli individui il loro tratto discreto, singolare”. Un tratto che solo una persona, la protagonista del romanzo, riesce a salvaguardare, e che le consentirà, alla fine, di distruggere il meccanismo di “Concentramento”. Ma intanto la sensazione di claustrofobia è insopportabile, sembra una situazione senza via d’uscita perché l’auditel vertiginoso alimenta lo show e “Concentramento” fa registrare il più alto indice di ascolto (il cento per cento) mai raggiunto. Quando l’eroina del campo (così bella e angelica da risultare la beniamina del pubblico: quale vittima sacrificale migliore?) dà scacco matto al meccanismo mediatico chiedendo di essere televotata a morte (“spettatori votate per me stasera!”), il romanzo regala il colpo di scena con l’happy end.
La scrittrice rifà il verso al dibattito odierno: editoriali scandalizzati, politici imbelli, telespettatori incapaci di spegnere il video. La tragedia si svolge in un’atmosfera di pubblica impotenza. L’autoreferenzialità del congegno mediatico è apparentemente inattaccabile. Certo oggi ai telespettatori non si affida il compito di decidere chi, in quella settimana, deve essere mandato a morte. E chi viene escluso dai nostri reality non trova il boia ma la luce delle telecamere che lo accolgono nei salotti della domenica pomeriggio, dove, in fondo, ad essere uccisa è solo l’anima.
Natalia Aspesi
Una crociera nel mediterraneo di Edith Wharton Traduzione di Marina Premoli Archinto Pagg. 203 Euro 14,50 «Darei qualunque cosa per fare una crociera nel Mediterraneo», confidò Edith Wharton all’ amico James van Allen, un attraente vedovo di una ricchissima Astor, un gentiluomo di 42 anni che sapeva come illanguidire le signore. Infatti: «Non c’ è bisogno di tanto, io affitto uno yacht e tu vieni con me». Detto fatto: naturalmente Edith portava con sé il marito Edward e per ragioni di bon ton la coppia volle a tutti i costi pagare la metà delle spese, che corrispondeva alla rendita di un intero anno per entrambi (che ovviamente non lavoravano). Era per la futura e impaziente scrittrice una magnifica distrazione dalla vita mondana di Newport e soprattutto da quella matrimoniale, disastrosa pare sul piano dell’ intimità: si era sposata a 23 anni senza sapere in che cosa consistessero i cosiddetti doveri coniugali, e, dice uno dei suoi biografi, Eleanor Dwight, quando lo aveva scoperto, non le erano piaciuti per niente. Era il 1888, Edith aveva 26 anni e finalmente lei il marito e van Allen si imbarcarono ad Algeri sullo yacht Vanadis: la crociera finì ad Ancona, con tappe a Malta, Siracusa, Messina, Taormina, Palermo e Girgenti, e poi le Cicladi, Rodi, le coste dell’ Asia Minore, Monte Athos, Atene, le isole Ionie, la costa dalmata, Spalato, Ragusa, Cattaro. Dal 18 febbraio al 7 maggio tenne un diario minuzioso, ma non al punto di nominare i suoi compagni di viaggio: come se non contassero, quei due uomini che la scortavano, presa dal suo entusiasmo, dalla sua energia, dalla sua ironia, ma anche dal retroterra di una cultura personale che non poteva condividere con loro, tutto quello che lei sapeva e loro no, di arte, storia, architettura, ma anche piante, fiori, usanze. Quel prezioso diario fu uno di quegli scritti che restano nel cassetto (le sue prime poesie furono pubblicate l’ anno dopo), e se ne persero le tracce fino a quando Claudine Lesage, una studiosa che stava facendo ricerche su Conrad a Hyères, in Francia, dove la scrittrice americana aveva abitato attorno al 1919 dedicandosi alla sua passione per il giardinaggio elaborato, si vide consegnare dalla bibliotecaria del paese un manoscritto battuto a macchina in inglese: era appunto The cruise of the Vanadis che si credeva perduto. Con una bella copertina di Gianfranco Pardi, Una crociera nel Mediterraneo viene adesso pubblicato anche in Italia e si immagina la felicità dei tanti whartoniani di casa nostra, che magari solo al cinema, hanno lacrimato sugli amori eleganti e infelici negli indimenticabili L’ età dell’ innocenza di Martin Scorsese e La casa della gioia di Terence Davis. Si sente in questo diario di bordo non solo il piacere del viaggio, della scoperta, il desiderio di annotare un’ esperienza per riviverla per sempre, ma anche la ricerca della scrittura, come un esercizio per prepararsi davvero a una professione che le avrebbe dato la fama e consentito una vita di incontri affascinanti, a cominciare dall’ amicizia con Henry James e Bernard Berenson. A rivedere la vita di questa signora che riuscì a divorziare dal fastidioso marito solo nel 1913 (l’ opulenta e ipocrita società americana disprezzava le divorziate), avendo sue brevi storie d’ amore, fa impressione il suo continuo spostarsi, dagli Stati Uniti all’ Europa, da Parigi a New York, dalla Toscana al Massachusetts, dall’ Inghilterra al Marocco. Può darsi che il diario della sua crociera sul Vanadis non abbia interessato gli editori che ancora non avevano scoperto il talento letterario di questa signora ricca e mondana, può darsi che la stessa Warthon, ancora insicura, non fosse del tutto convinta del suo lavoro. Infatti non era ancora uscito un suo romanzo quando sette anni dopo, a 32 anni, riuscì a pubblicare il resoconto di un viaggio italiano, A tuscan Shrine; dieci anni dopo, nel pieno del successo di La casa della gioia, uscì un’ altra raccolta di appunti di viaggio, Italian backgronds.
Laura Colombo
Il libro di Daniela Padoan Le pazze. Un incontro con le Madri di Piazza de Mayo (Milano, Bompiani 2005), che recentemente ha ricevuto il premio letterario “Nino Martoglio”, è un racconto a più voci, dove l’autrice opera un paziente lavoro di tessitura della storia di un gruppo di donne straordinarie, basandosi su una serie di testimonianze che lei stessa ha raccolto nel corso degli ultimi anni, durante i viaggi in Italia delle Madri e in un suo recente viaggio a Buenos Aires. La storia delle Madri si intreccia con la storia del loro paese, l’Argentina degli anni bui dei regimi militari e dei governi che formalmente si dichiaravano democratici, che Daniela Padoan tratteggia in modo preciso e circostanziato, accostando il rigore scientifico della sua ricerca storica alla viva voce delle testimonianze.
Si tratta di un libro particolare, che rompe i confini della “grande storia” mettendoci di fronte al mondo interno di queste donne, che – nella condizione di estrema necessità della dittatura e della scomparsa dei figli – si intreccia e si misura con il mondo esterno.
La polifonia, cifra caratteristica di questo libro, è giocata su diversi livelli.
Il primo è la viva trama di relazioni tra l’autrice e le Madri nella zona apparentemente neutra dell’intervista, dove due voci differenti dialogano nel desiderio di far emergere il percorso di coscienza individuale e politica delle Madri, attraverso le diverse tappe in si ricostruisce l’affiorare della loro lotta sempre più dirompente. Il fitto scambio tra l’autrice e le Madri alla ricerca di “parole che contengono verità”, l’incalzare delle domande per andare a fondo sulla loro concezione della politica e sulle loro pratiche, diventa così il tramite, il luogo privilegiato della comunicazione, reso tale dalla scelta di Daniela Padoan di esserci fino in fondo nella relazione con loro. L’autrice sceglie di stare dalla parte delle Madri, senza tuttavia tesserne aprioristicamente le lodi. Tratteggia con maestria il quadro di quello che possiamo definire un vero e proprio laboratorio politico lasciando parlare la progettualità delle Madri, evidenziando in che modo la loro rappresentazione del possibile e del desiderio ha fatto germogliare semi di libertà nel cuore della necessità più cruda.
I frammenti intimi che vengono così recuperati, le riflessioni che le Madri riescono a porre con capacità e profondità, sono resoconti dal basso, descrizioni dall’interno di esperienze concrete, analisi estranee al sistema interpretativo dominante: così il quadro storico si arricchisce, si illumina di una prospettiva inedita, che altro non è se non il rovesciamento e il tramonto del paradigma vittimistico. In questo modo, percorsi che potrebbero essere interpretati come inessenziali, esperienze relegate ai “margini”, spesso anche da chi ne è protagonista, paradossalmente diventano il centro della Storia, il punto prospettico da cui leggere il presente e trarre la forza per una lotta sempre rinnovata.
Il livello più manifesto della polifonia che anima il libro è però la coralità della voce delle Madri, un prodursi di voci singole e pur tendenti a costituire un’espressione collettiva, armoniosa e multiforme. Le loro parole ci rivelano una crescita interiore, una modificazione rivoluzionaria, resa possibile dalla radicalità della loro mossa politica: un’estrema contestazione dell’abuso dei militari e una tenace difesa dei valori che avevano imparato a riconoscere nella propria interiorità, dopo averli osservati nei figli. “Non ero abituata a essere autonoma, ma ci sono situazioni in cui di colpo apprendi tutto quello che il dolore ti costringe a imparare, e allora scompaiono la paura, l’inesperienza e la timidezza” . Ecco che, proprio nella situazione di grande sofferenza rappresentata dalla scomparsa dei figli, e nella fortissima contraddizione sociale imposta dal regime, si è sviluppata una coscienza che ha permesso alle Madri di mutare quella condizione avversa, pur attraversandola pienamente. Proprio questa capacità di trasformarsi ha consentito loro di affrontare in modo attivo una contraddizione a un tempo individuale e collettiva: “non gli avremmo mostrato che ci stavano facendo soffrire; gli avremmo mostrato, invece, che eravamo disposte a lottare contro tutto e contro tutti. […] all’inizio andavamo in piazza per una necessità personale, ma poco a poco abbiamo capito che la lotta individuale non aveva senso, e che lottare solo per il proprio figlio non faceva crescere niente. Diventammo un gruppo di un’ottantina di madri. Parlavamo di quello che ci era successo durante la settimana, di quello che potevamo fare, se era riapparso qualcuno, e iniziammo a sentire che la piazza ci apparteneva. […] è stato in quel nostro camminare a braccetto, una accanto all’altra, parlandoci e conoscendoci, che abbiamo costruito il nostro pensiero” .
Il lavoro politico delle Madri non ha permesso solo una loro modificazione soggettiva, ma anche la creazione di una diffusa coscienza di lotta che è stata un trampolino di lancio verso la vita e una possibile trasformazione della società, la riappropriazione di una verità, seppur dolorosa. “Fu terribile renderci conto che tutto era così perverso, ma ciò che ci diede forza era che potevamo vederlo e provarlo, anche per le altre: perché le madri che non lo vedevano con i propri occhi, non lo potevano credere […] c’erano molte madri che non vedevano, non credevano. Per questo è stato giusto uscire di casa, scoprire tante cose, rompersi la testa contro i muri, e alla fine trovare le prove per poter raccontare, per poter dire la verità, anche quando era così dolorosa” .
Le Madri hanno operato l’invenzione di pratiche politiche di lotta generatrici di libertà, capaci di rendersi evidenti, chiare, leggibili da chiunque, al di là di dichiarazioni e speculazioni. Sono pratiche che Daniela Padoan definisce di “spiazzamento”, perché nate da un’intenzionalità tendente a scostarsi dalla collocazione che l’ordine simbolico attribuisce a ciascun attore sociale: “il nostro non era coraggio, era decisione, chiarezza su quello che volevamo. Il coraggio è un’altra cosa. Per noi è essenziale agire, non solo pensare; siamo convinte di quello che facciamo e di quello che vogliamo, ed è questo a darci forza. […] Noi avevamo la nostra pazzia e i militari il loro ordine, che cercavano disperatamente di mantenere. A disarmarli, era proprio il nostro modo di scardinare quello che per loro era normale. […] Essere lì in piazza a dire al mondo e alla società argentina, così indaffarata a ignorare quello che succedeva, che non tutto era così normale come volevano farci credere” . Sono pratiche che coinvolgono appieno le Madri e immettono sulla scena pubblica la loro forza, l’originalità delle loro invenzioni. Pratiche costantemente vissute ed elaborate per far fronte di volta in volta alle differenti situazioni politiche e sociali; infatti, non solo nel momento della dittatura, ma anche nei periodi in cui era stata ripristinata la democrazia formale, le Madri si sono esposte al rischio della verità, per creare le condizioni di possibilità di un protagonismo sociale al di là della condizione di isolamento in cui il regime, con la forza, teneva gli individui, e al di là della condizione di ripiegamento su una quotidianità normalizzata e poco consapevole che la democrazia, con mezzi più ambigui, perseguiva. Perciò hanno rifiutato di accettare la dichiarazione di morte dei figli, che avrebbe messo la parola fine a un’esperienza di vita e libertà attraverso un grottesco risarcimento economico . Ed è per questo che negli ultimi anni le troviamo accanto alle lotte degli operai che occupano le fabbriche chiuse in seguito alla crisi del 2001, e, ancora, grazie alla loro sapienza nel comprendere e abitare il presente, vediamo il loro impegno nell’Università popolare delle Madri, essendo per loro centrale lo sviluppo della consapevolezza e dell’educazione.
Si tocca qui un punto che ci offre una riflessione sul presente, sul nostro esserci, sulle forme della politica. Il modo in cui le Madri abitano la loro vita e la politica, è quello della responsabilità assunta in prima persona, anche nel momento in cui sostengono altre lotte, altre pratiche. Le Madri sono accanto alle nuove forme di auto-organizzazione, alle inedite relazioni sociali nate in questi ultimi anni per arginare i disastri delle politiche neoliberiste perché ritengono necessario “creare un nuovo modo di fare politica, legato alla responsabilità che ti chiama in causa in prima persona”. Non si tratta di ripetere ciò che le Madri hanno fatto, ma di sapersi giocare ed essere in grado di inventare la propria vita e la politica in uno spazio sociale condiviso e partecipato. Questo le donne e gli uomini del movimento dei piqueteros lo sanno, ed è evidente in alcune loro testimonianze dirette.
Le pagine di questo libro distillano i fatti restituendoceli nel loro senso più puro; qui i movimenti, le idee, le emozioni, le conseguenze di un’ostinazione si mescolano, e arrivano al lettore carichi di una forza arcana e affascinante.
Daniela Padoan ci accompagna abilmente in un viaggio che, attraverso diverse fasi, ha portato le Madri a un ribaltamento (dal silenzio alla parola, dal privato alla scena pubblica, dall’annientamento del dolore a un protagonismo autentico). Un viaggio necessariamente destrutturante, che ci interroga sulla questione essenziale del senso che ha per noi la politica nella sua accezione più ampia, che comprende la vita di tutti e ciascuno.
La storia di una vocazione politica dedicata a un fallimento pressoché totale narrata da una protagonista comunque esemplare
Di grande intensità emotiva le pagine sulla guerra e sulla Lombardia industriosa
I ricordi iniziano con l´infanzia a Pola e si chiudono con la radiazione dal Pci
Il lavoro nel partito, tra le sezioni di strada e il porta a porta per raccogliere tessere
Alberto Asor Rosa
Dalla copertina del libro che ho appena finito di leggere (La ragazza del secolo scorso, Einaudi, pagg. 389, euro 18), una bella, anzi bellissima signora dai capelli tutti bianchi mi guarda con aria malinconica e un po´ perplessa. Mi guarda? No, guarda un po´ di lato qualcosa che sta appena fuori della cornice della foto: alla sua sinistra, si direbbe. E´ «la ragazza del secolo scorso», Rossana Rossanda, diventata la signora di oggi – e di ieri.
Delle sue memorie – poiché di questo si tratta – si potrebbe dire sbrigativamente (penso che molti lo faranno) che sono la storia di una grande signora che è stata una grande comunista (o anche viceversa, non importa). Qualcosa di vero c´è in ambedue le definizioni, e anche nel loro accostamento.
Ma a me pare che la questione sia più complessa e che l´immagine che Rossanda proponga di sé sia più problematica e persino più dolorosa: la storia di una vocazione politica destinata ad un fallimento pressoché totale («nessuna delle mie idee aveva funzionato, troppo presto o troppo tardi che fosse»), e che tuttavia non smette di sentirsi intimamente, cocciutamente, esemplare («c´è una punta di vero in quel che le mie amiche chiamano, dandomi grandissimo fastidio, delirio di onnipotenza, come se fra senso di colpa per non fare abbastanza contro un mondo inaccettabile e volontà di dominarlo il margine fosse sottilissimo»). Ma vediamo.
I ricordi iniziano con la nascita a Pola, da poco ricongiunta all´Italia, negli anni Venti del secolo scorso, e si chiudono con la vicenda della radiazione, sua e di altri, dal Pci nell´autunno 1969, per aver osato fondare il Manifesto (su questo non casuale troncamento della narrazione tornerò più avanti).
Il racconto corre sempre (sottolineerei l´avverbio) lungo tre contemporanei e paralleli piani di sequenza: sullo sfondo c´è l´Italia che cambia, con le sue complessità, anomalie e debolezze (un paese, pensa e dice più volte Rossanda, cui sono congeniti il «lasciar perdere» e il «rinviare», non meno tra i progressisti che tra i conservatori); in primo piano, la storia pubblica della protagonista, la sua militanza, i suoi atti politici, le sue scelte di schieramento; in mezzo, la sua storia segreta (interiore, intendo, non privata), il suo mutare nel tempo, la sua «educazione sentimentale» (come recita lo strillo editoriale sull´ultima di copertina) ovvero, come io preferirei definirlo, il lato umano delle cose.
I tre piani di sequenza, ripeto, ci sono sempre ma distribuiti nel racconto con un diverso equilibrio fra loro. E´ ovvio che nella prima parte, l´infanzia e l´adolescenza, prevalga quello di mezzo, verso la fine, quando la protagonista entra a far parte del gruppo dirigente centrale del Partito, s´imponga più decisamente il primo. Di grande intensità anche emotiva le pagine sull´Italia della grande guerra e sulla Lombardia, povera, industriosa e operaia degli anni della ricostruzione.
Pare a me che un libro così non si legga principalmente per sapere come sono andate le cose e perché. Da questo punto di vista, le domande che Rossanda racconta di aver ricevuto qua e là nel corso della sua vita («perché hai fatto questo?», «perché non l´hai fatto?», «perché lo hai fatto troppo tardi?») non solo non ricevono risposta, ma potrebbero anche aumentare di numero (ognuno di noi avrebbe da fargliene almeno una). Il libro di Rossanda è profondamente critico e problematico, e in taluni punti perfino impietoso (si leggano le pagine sulla sublime correttezza di Pietro Ingrao, la quale ad una lettura più politica potrebbe apparire irresolutezza e ingenuità), ma assolutamente, radicalmente antirevisionistico. A sé e ai suoi, alla sua «parte», insomma, Rossanda nulla risparmia, ma nulla concede all´avversario, a colui che sta dall´altra parte, al (mi verrebbe voglia di scrivere) «nemico di classe».
Fra questi due estremi – l´autocritica severa e al medesimo tempo l´autodifesa appassionata di una vocazione politica che coincide irrevocabilmente con una scelta di vita – si muove l´occhio attento, scrutatore perplesso e malinconico di questa protagonista, che aveva tutte le condizioni per fare tante altre cose più piacevoli e meno fastidiose e ha scelto di fare questa, difficile, esaltante, spiacevole e… ingrata, e ancora oggi non se n´è pentita.
Sorprende (ma non tanto) che nel libro ci sia una descrizione assai limitata delle «giustificazioni ideologiche» della scelta comunista. Sì, s´intuisce, si sa, quale tipo di marxismo la Rossanda abbia frequentato e amato. Ma quel che lei vuole raccontarci non è come e perché lei abbia imparato a «pensare comunista»: quel che lei vuole raccontarci è perché lei ha «vissuto comunista», e perciò è entrata in quel partito, ci ha lavorato dentro, ne è diventata dirigente e ha cercato, sia pure vanamente, di cambiarlo. Insomma, la «serietà comunista», il sogno condiviso, la molteplicità dei destini che, grazie a quel contenitore, fra errori, ritardi, deformazioni, pure s´incontravano e si fondevano. Non, dunque – almeno non in primo luogo, – il partito delle segreterie federali o di Botteghe Oscure, ma quello dei «seminterrati» e delle sezioni di strada, il partito di «quelli che passavano di reparto in reparto o di casa in casa, a fine lavoro, a raccogliere i bollini del tesseramento» e che, così semplicemente facendo, «configuravano una società altra dentro a questa». Il partito di massa, l´identità collettiva, che a lungo andare (pensava, insieme a tanti altri Rossanda) avrebbe cambiato l´intollerabile stato di cose esistente, senza irragionevoli rotture rivoluzionarie, ma anche senza cedimenti opportunistici e sbandate verso la sfera seducente e onnivora del potere.
Forse è per questo (e spero di non dirle cosa sgradita) che il ritratto del dirigente comunista più pacificato e accettabile, più risolto anche di fronte alle sue enormi contraddizioni e al suo pesante passato, è proprio quello di Palmiro Togliatti, «cortese, conversevole e lontano, con voce uguale e sorriso breve, lo sguardo acuto», una sorta di padre saggio e accorto, poco incline alla benevolenza, ma almeno assai attento: «Quanto lo avrei criticato negli anni ‘70 lo rivaluto oggi, una volta accettato che il suo obiettivo non fu di rovesciare lo stato di cose esistenti, ma di garantire la legittimità del conflitto».
La legittimità del conflitto e… e, naturalmente, direbbe Rossanda, la sua traduzione in linea politica in una direzione di marcia che, rinnovandosi, mantenesse viva la sintonia, che pure c´era stata (anni 1943-1956) fra Pci e sistema Italia. Ecco perché la storia, – anzi, in questo caso, la Storia, – qui finisce con gli anni Sessanta: e non solo perché con la radiazione la vicenda di Rossanda nel Partito si esaurisce; ma soprattutto perché negli anni ‘60, in presenza di una ribellione studentesca straordinaria e di un imponente movimento di massa operaio, il Pci rinunciò (e fu per sempre) a tessere la tela che aveva cominciato: «Sono quegli anni che spiegano l´oggi. Non era semplice, ma non fu tentato nulla, pensato nulla, neanche un passo avanti in quell´ambito keynesiano dove pure Pci e Cgil erano cresciuti e che sarebbe stato anch´esso travolto».
Fino allo sfacelo di oggi.
In un quadro così complesso Rossanda non si sottrae neanche all´arduo problema sul cosa, in politica, abbia significato per lei essere donna. Non certo una militanza femminista o pre-femminista: per lei, per le donne della sua generazione, l´attività politica ha significato essenzialmente lottare per essere riconosciute all´altezza dei dirigenti uomini, ed essere come loro. Tuttavia…
Tuttavia – e Rossanda lo accenna più volte – non fu mai la stessa cosa: «Non sfuggivo al femminile… Quell´impulso di fuggire davanti alla decisione del fare o no il corteo proibito fu un avviso che non mi ha impedito di fare scelte drastiche, ma si ripete ogni volta che non sono in gioco io sola – sento uno scarto, un esitare, un ritirarmi… La materia di cui sono fatta ha questa grana. Combattiva ma seconda…».
Forse, più semplicemente, l´essere donna in politica ha significato per lei vivere, capire e soprattutto ricordare il lato umano delle cose, la ferita lancinante della perdita, la tenerezza degli affetti, più che la vanità infinita dei giochi di potere.
Tutto questo – e molt´altro – fuso in una prosa lucida, fluente, appassionata, inarrestabile: una specie di canto sospeso, che a me ha ricordato certe composizioni lunghe e profonde, distese senza fine a mezz´aria, fra terra e cielo, di Luigi Nono. Scrive Rossanda nelle ultime tre righe del libro a proposito del lavoro da lei intrapreso presso le nuove generazioni studentesche e operaie dopo la radiazione dal Pci: «Speravamo di essere il ponte fra quelle idee giovani e la saggezza della vecchia sinistra, che aveva avuto le sue ore di gloria. Non funzionò. Ma questa è un´altra storia». Neanche quello funzionò? Beh, sì, forse sì: ma quel canto, anche se la Storia non funziona, tutti possono intenderlo, e continua.
Nel volume curato da Sebastiano Vassalli per la Bur, l’opera del poeta e il carteggio integrale con Sibilla Aleramo
Per rileggere la sua biografia senza falsi pudori, le chiavi vanno cercate nel ruolo della famiglia, che lo volle in manicomio, e nella sifilide che per circa trent’anni gli avvelenò il sangue portandolo lentamente alla morte
Attilio Lolini
Con il suo primo libro su Dino Campana, uscito sotto il titolo La notte della cometa (Einaudi) Sebastiano Vassalli suscitò polemiche e discussioni a non finire, aprendo così il caso relativo all’autore dei Canti orfici; un caso che oggi pare chiudersi definitivamente grazie al volume in cui sono raccolte tutte le sue opere, anch’esso curato da Vassalli e titolato Dino Campana. Un po’ del mio sangue (Bur, pagine 300, E. 9). Al suo interno si trovano, oltre ai Canti, le Poesie sparse, Il Canto proletario italo-francese (che rimane la più bella poesia patriottica della grande guerra), il carteggio completo con la scrittrice Sibilla Aleramo e, soprattutto, una introduzione seguita da una nota biografica che fa piena luce sulla vita del poeta avvolta da un velo di menzogne: fu, in parte, lo stesso Campana a alimentarle, quando in manicomio, per levarsi di torno gli orrendi familiari e lo psichiatra Pariani, suo torturatore e biografo di «geni» folli, raccontò storie a non finire, alcune delle quali decisamente incredibili, e tuttavia prese sul serio dalla critica ufficiale del tempo. La vita di Campana è tutta riassunta in un verso di Walt Whitman che lui stesso mise, come epigrafe, al suo capolavoro: «Essi erano tutti stracciati e coperti dal sangue del fanciullo»: essi -scrive Vassalli – furono i compaesani, i letterati dell’epoca, gli psichiatri e soprattutto i genitori, in modo particolare la madre, che tentarono almeno due volte (riuscendoci) di togliersi dai piedi il figlio «matto». Quando raggiunse la maggiore età lo fecero rinchiudere in manicomio perché ci restasse fino alla morte e, una volta dimesso, lo «spedirono» come un pacco a Buenos Aires, con un passaporto che non gli consentiva il rientro. Ma Campana, dopo un mese, era di ritorno e vide riaprirsi le porte del manicomio di Castel Pulci. Quanto ai suoi compaesani, non fecero che perseguitarlo e così pure i letterati dell’epoca che, specie nel contesto del caffè le Giubbe Rosse, lo trattavano come un pezzente. C’erano tra loro Marinetti, con il suo insulso futurismo, il superbo Prezzolini, il superficiale Soffici e il superuomo Giovanni Papini. Gli psichiatri del manicomio di Castel Pulci, poi, usarono Campana per i loro esperimenti punitivi con l’elettricità: quando il poeta si definisce «l’uomo elettrico» si riferisce appunto alle «terapie» che lo «friggevano». Ogni tanto arrivava la madre, crudele e piagnucolosa, a controllare la salute del figlio e a verificare come questi avesse trovato, finalmente, il posto giusto dove stare.
Pur non avendo goduto, da vivo, di nessun riconoscimento, Dino Campana resta, tra i poeti italiani, uno dei più letti, amati e ristampati del `900: nei suoi versi – scrive Vassalli – c’è qualcosa che dovette scandalizzare i suoi contemporanei, comunicando loro un’idea di grandezza e di forza di cui non sapevano farsi una ragione. Parole semplici e semplici impressioni, messe là in modo apparentemente casuale.
Come poteva questa poesia, si chiedevano i più avvertiti e gelosi letterati del tempo, avere così tanto potere evocativo, una tale suggestione, una siffatta armonia? E risposero affermando che non si trattava di una scrittura seria, confortati dallo stesso Campana che provvedeva a avvalorare l’arcigna tesi, dicendo che i suoi versi sarebbero apparsi a qualcuno «robetta da fiera». Pochissimi, se si esclude Emilio Cecchi, lo capirono e il «Mat Campena» – come lo chiamavano a Marradi – diventato adulto, si avviò, inesorabilmente, verso Castel Pulci.
Nel 1915 contrasse una vera malattia: aveva il viso semiparalizzato, conseguenza di un male probabilmente trasmesso da una (o da più) di quelle «troie» con gli occhi ferrigni di cui parla nelle sue poesie. Negata dalla famiglia, che non intendeva compromettere la sua rispettabilità ammettendo un morbo tanto infamante, la malattia di Campana era in effetti la silifide, ma venne spacciata per una nefrite, nonostante i sintomi inequivocabili descritti in molte lettere. Da 1915 al 1932, anno della morte, la storia del poeta coincide con il decorso della sua malattia, che gli distrusse il sistema nervoso e gli avvelenò il sangue in maniera lenta ma inesorabile. Per rileggere, senza falsi pudori, la sua biografia Vassalli dice che proprio nella famiglia e nella sifilide vanno ricercate le chiavi. Era il 1915 e aveva trent’anni quando contrasse la malattia, e sebbene non ci siano cartelle cliniche a attestarla, tuttavia essa è accertata dal carteggio con Sibilla Aleramo, che ne venne contagiata e dovette curarsene per quasi un anno. L’incontro tra i due avvenne, nel 1916, sotto il segno della follia e dell’ossessione: per il poeta Sibilla Aleramo fu l’unico amore della vita, mentre per lei rappresentò una specie di incubo: lui la inseguiva, la perseguitava e lei fuggiva. Riuscì a liberarsi di Campana soltanto a ottantadue anni, quando pubblicò il suo carteggio con lui, che il libro curato da Sebastiano Vassalli riproduce integralmente per la prima volta. Se ne deduce che il rapporto amoroso che legò Campana alla Aleramo fu ben diverso da quello descritto dalle biografie ufficiali e dagli sdolcinati film sulla sua vita: un rapporto violento, fitto di liti e di sfuriate ma dotato di una sua grandezza.
Per colmo di sventura, contribuirono a nuocergli anche coloro che pure gli volevano bene: l’editore Vallecchi nel 1928 ripubblicò i Canti orfici ripulendoli da tutto ciò che gli pareva potesse risultare sconveniente all’immagine di un poeta che si profilava tra i grandi del suo tempo; per parte sua, Enrico Falqui, quando pubblicò gli inediti, si convinse di doverli correggere e sfumare.
Ricostruita da Vassalli dopo un lavoro durato quasi un trentennio, la breve e terribile vita del poeta marradese riacquista la sua «dignità» contro l’opinione di coloro che ritenevano fosse afflitto da una specie di romantica follia. Disse Campana allo «psichiatra» Pariani: «Mi chiamo Dino, come Dino mi chiamo Edison. Posso vivere anche senza mangiare, sono elettrico…»
Letizia Tomassone
La forza che viene dal sapere di avercela fatta e’ quella nota di gioia che Mary Daly ci regala con il suo ultimo libro: Quintessenza. Realizzare il futuro arcaico (Venexia, pp. 284, euro 19). Se infatti i suoi testi dagli anni ’70 in poi erano osservatori privilegiati per esprimere la “rabbia selvaggia” delle donne per la miseria, la cancellazione in cui vivono nel mondo patriarcale, e se molti suoi testi sono stati occasioni per rendere visibile, nominandola, la violenza contro le donne e la loro oppressione fisica e simbolica, questo volume edito con coraggio, in Italia, da Luciana Percovich, mostra come la “rabbia” puo’ diventare consapevolezza e possibilita’ di vita piu’ intensa, e dar luogo al “salto nel futuro arcaico”. Scrive Daly: “Quando una Cercatrice Vede, Nomina e Agisce Vegliarda-mente i suoi Momenti/Movimenti nel Tempo, la sua conoscenza della Quarta Dimensione e’ ravvivata e lei Stessa diventa piu’ Viva. Si riempie di Ginergia (l’energia femminile, ndr) ed e’ mossa dalla Brama di Balzare in avanti. E’ spinta a Volare oltre nel Futuro Arcaico per Irrompere nella Quinta Dimensione, dove/quando puo’ essere Presente in modo sempre piu’ consapevole partecipando alla Danza Abbagliante dell’Universo – l’Armonia Cosmica, la Quintessenza”. Parole che rivelano da subito come Daly lavori profondamente sul linguaggio per svelarne dimensioni occultate e ribaltarne i significati. Svelando come la cultura patriarcale abbia spesso rovesciato in negativo termini che esprimevano forza e liberta’ femminile, come “Vegliarde”, “Donne Selvagge”, “Ammaliatrici”… * Mary Daly era gia’ nota in Italia soprattutto per questo lavoro sul linguaggio e sul nominare la realta’ e Dio. Con saggi come La Chiesa e il secondo sesso (Rizzoli, ’82) e Al di la’ di Dio Padre (Editori Riuniti, ’91), gli unici tradotti in italiano e purtroppo ormai fuori catalogo. Centrale per la ricerca delle teologhe femministe e’ la sua affermazione che il “nominare Dio” al femminile (per esempio come Madre) non sposta i rapporti simbolici e materiali tra donne e uomini se questo nome resta un sostantivo. Il nominare che trasforma le relazioni e’ una “dinamica dell’essere” e puo’ essere espresso solo con un verbo. “Nell’idea di Mary Daly l’essere e’ apertura, rilancio, movimento squilibrante e la’ dove si mostra la differenza di essere donne e uomini come squilibrio, e se ne da’ testimonianza, si partecipa di tale movimento – scrive Chiara Zamboni in Parole non consumate, Liguori 2001 -. Altrimenti il linguaggio puo’ dire la differenza sessuale come costruzione storica, puo’ usare i generi grammaticali femminili, e introdurre la parola “Dea” nel cristianesimo, ma se non c’e’ una esposizione dinamica della nostra compromissione, il linguaggio rimane statico, solo sostantivo e non verbo, scollegato dal movimento dell’essere. C’e’ parola di verita’ e di vita la’ dove c’e’ esposizione di noi, la’ dove simbolico e testimonianza sono legate”. Ma il lavoro di Daly sul linguaggio e’ continuato con un suo praticare in modo sempre piu’ vorticoso parole ri-dette, fino ad arrivare alla compilazione, con Jane Caputi, di un Dizionario (il Websters’ First New Intergalactic Wickedary of the English Language, ’87). La qualita’ di Quintessenza non sta quindi nel suo linguaggio, linguaggio sperimentato e praticato con radicalita’ fin dagli anni ’80, ma dalla visione dell’incontro con le “Compagne del Futuro Arcaico”. Naturalmente il Futuro puo’ essere Arcaico solo se richiama una “brama” intensa di realizzare del nuovo e se dice qualcosa non solo di cio’ che vogliamo costruire, ma di cio’ che ci precede. Anzi, in un certo senso, e’ proprio perche’ c’e’ stato un passato “fuori dal patriarcato” che ci e’ possibile incontrare un “futuro libero”. * Quintessenza racconta dell’incontro fra le donne dell’Era Biofila e Mary Daly, la quale viaggia tra il 2048, in cui loro vivono, e la vecchia realta’ datata 1998. L’incontro costituisce il presente che fonda il futuro e trasmette forza alle Viaggiatrici nell’era necrofila, cioe’ nel patriarcato. Ed e’ narrato a due voci. Quella di Daly che nel ’98 denuncia l’oppressione delle donne attraverso le violenze, le guerre, le spiritualita’ patriarcali, le biotecnologie e le tecniche di procreazione assistita, cioe’ tutte quelle cose che distruggono la differenza e l’armonia della vita e fanno avvizzire la nostra mente e la nostra immaginazione. E quella di Anonima che, nata all’inizio dell'”Era Biofila”, e’ piena di curiosita’ per queste antenate costrette a sviluppare la loro resistenza e la loro “Indocilita’” in una situazione cosi’ violenta e triste. Anonima arrivare ad evocare Mary Daly per incontrarla. E’ dunque in gioco il desiderio. Il desiderio di realizzare la propria integrita’ spinge Daly al “Salto nella Quinta Dimensione”, e il desiderio di capire spinge Anonima a creare le condizioni perche’ il “Qui” diventi luogo di incontro. Quello raccontato in Quintessenza e’ un incontro profondo tra generazioni, mosso dal desiderio reciproco. Daly lo sa, ed esprime anche la frustrazione che accompagna questo tipo di incontro nell’era patriarcale, quando a ogni generazione bisogna ricominciare daccapo, perche’ la “Memoria della Donne Selvagge” e’ continuamente cancellata. E “nominare connessioni, in modo che potessimo continuare a fare le nostre analisi piu’ in profondita’ e raggiungere la radice dei problemi” e’ esattamente il compito che Daly assegna al suo lavoro. Connessioni tra passato e futuro per il qui del presente. Nell’era necrofila, scrive Daly, “divenne difficile per molte nominare le connessioni tra la crescente oppressione delle donne da parte dei movimenti e dei regimi fondamentalisti sparsi nel mondo e la violazione e la distruzione delle donne e della natura da parte dell’impero nectec (di tecnologia necrofila, ndr)”. L’opera del patriarcato necrofilo appare infatti in Quintessenza come un’opera continua di cancellazione della “Vita” e dell’esistenza delle donne e le donne, nella loro “Giusta Rabbia”, possono superare queste cancellazioni “Spiraleggiando Via”. Nel “Continente Ritrovato”, un luogo di armonia e sincronia con natura e animali che e’ anche, pero’, l’immagine di quella Quinta Dimensione o Quinta regione che diventa il centro di espansione della “Presenza” delle creature “Biofile”. * Il testo di Daly, impregnato di spiritualita’, e’ quindi profondamente politico. Le Antenate del Futuro sono per noi risorsa e occasione di ricordare che il mondo e’ altro dalla violenza e manipolazione di corpi, anime e menti, e che ogni forza empatica degli umani (delle donne) con gli altri esseri viventi puo’ trasformare la realta’ e farci fare un balzo nello “Stato di Grazia Naturale”. “Man mano che le Capricciose Donne Vagabonde si radicano sempre di piu’ nello Stato di Grazia Naturale, riconosciamo la consapevolezza delle sincronicita’/Sin-crone-citta’ come un segno che stiamo entrando in armonia con le altre creature Elementali, stiamo cioe’ scoprendo la Quintessenza, che e’ l’Integrita’ Supremamente Armoniosa dell’Universo e Fonte di Estasi”.
Fra le due guerre Rituali crudeli, ipocrisie sociali e disperate rivalità femminili in un breve romanzo di Irène Némirovsky, pubblicato in Francia nel 1930 e da poco uscito per Adelphi
Daniela Padoan
Nel decennio che seguì la Rivoluzione d’Ottobre, Parigi ospitò numerosi intellettuali russi in esilio, come Vladimir Nabokov, Nina Berberova e Marina Cvetaeva. Fra questi, Irène Némirovsky, ebrea di origine ucraina, nata a Kiev nel 1903 e destinata a morire, non ancora quarantenne, ad Auschwitz. Dopo un soggiorno in Finlandia e in Svezia, la famiglia Némirovsky si trasferì in Francia, dove il padre, ricco finanziere rovinato dai rovesci della storia, riuscì a ristabilire i propri affari. La giovane Irène, che parlava il russo, il polacco, l’inglese, il finnico e l’yiddish, studiò letteratura alla Sorbona e iniziò a pubblicare novelle sotto pseudonimo. Appena ventiseienne, diede alle stampe il suo primo romanzo David Golden, in cui ritraeva impietosamente il milieu ebraico degli affari. L’anno successivo, andando più a fondo sullo stesso tema, scrisse Il ballo (da poco pubblicato per Adelphi, traduzione di Margherita Belardetti, pp. 83, euro 7), un piccolo gioiello di ferocia in cui la rivalità tra madre e figlia, l’ipocrisia sociale e la ricchezza da parvenu della famiglia danno origine a una folgorante vendetta adolescenziale. Quando i tedeschi, tra il maggio e il giugno del 1940, invasero la Francia, Irène, che nel frattempo si era sposata con un banchiere ebreo e che con lui si era fatta battezzare, venne abbandonata da quasi tutti coloro che prima avevano ricercato la sua compagnia e ammirato il suo lavoro: come molte altre intellettuali assimilate, di fronte al montare del nazismo era tornata ad essere semplicemente un’ebrea. Nell’ottobre di quello stesso anno, con l’introduzione delle leggi razziali, fu costretta a portare la stella gialla e le fu vietato di pubblicare opere con il proprio nome, mentre il marito dovette cessare di esercitare la sua professione. Angustiata dalle difficoltà economiche e dalla preoccupazione per l’incolumità delle sue due bambine, Irène si trasferì in un villaggio della Borgogna dove, nel luglio 1942, venne arrestata dalla gendarmeria francese, internata nel campo di Pithiviers e deportata ad Auschwitz. A nulla valsero le suppliche del suo editore, Albin Michel, all’ambasciatore tedesco a Parigi e al maresciallo Pétain, capo del regime fantoccio di Vichy, né le proteste del marito, che pochi mesi più tardi seguì la sua stessa sorte. Le due figlie, Denise ed Elisabeth, riuscirono a salvarsi, nascoste di convento in convento da una donna cattolica; in una valigia gelosamente conservata durante i continui spostamenti, insieme alle foto di famiglia c’era il taccuino che conteneva gli scritti della madre, vergato con una grafia sempre più minuta man mano che la carta si faceva introvabile. Si trattava dei primi due libri che avrebbero dovuto comporre l’affresco in cinque parti di un paese invaso e di una società disgregata, pubblicati in Francia nel 2004 con il titolo di Suite française (la traduzione italiana, sempre per Adelphi, uscirà a settembre) e accolti come un evento letterario, tanto da ottenere, a titolo postumo, il Prix Renaudot.
Alla luce degli eventi che si sarebbero rapidamente succeduti, Il ballo assume toni profetici. Scritto l’anno prima del grande crollo in Borsa e quattro anni prima dell’avvento del nazismo, è il romanzo di un massacro, in cui, anche se non accade quasi nulla, niente si salva. Resta un vuoto assordante: quello degli invitati che non arrivano, devastando ogni sogno di ascesa mondana, e quello di un’insanabile frattura familiare, tanto più tragica nel suo essere ammantata di vacuità.
La protagonista, Antoinette, è una ragazzina di quattordici anni, lunga e magra, il volto smunto, apparentemente sottomessa al dispotismo capriccioso di una madre che non vuole essere spodestata dal territorio della giovinezza. Il padre, Alfred Kampf, si è sollevato da un’esistenza di stenti, dopo aver lavorato come impiegato e prima ancora come usciere in livrea blu alla Banca di Parigi, grazie a un geniale colpo in Borsa. La madre, Rosine, esacerbata da anni di vita matrimoniale «passata a rammendare i calzini» in un appartamentino buio dietro all’Opéra-Comique vede finalmente possibile la sua rivincita e, dopo aver spinto il marito a trasferirsi in un grande appartamento bianco dai mobili dorati, si fa tingere i capelli di un bell’oro splendente. D’improvviso tornano i desideri soffocati in una non voluta maturità, e la donna, che vede la propria bellezza sparire, specularmente alla figlia si strugge nell’attesa di un amante giovane e focoso, e di tutti quei lussi che la povertà le ha negato. L’occasione, quasi il timbro apposto a suggellare il raggiunto successo, viatico ai sogni romantici e mondani, è una sontuosa festa da ballo. Duecento inviti da spedire. La madre, il padre e la figlia seduti al tavolo del salone a scrivere gli indirizzi sui cartoncini, sentendosi spiati dai domestici, davanti ai quali il padre si sforza di non togliersi la giacca, la madre di non alzare la voce, la figlia di non piangere: per il decoro, di cui proprio i camerieri – più che i signori Kampf, che ora, davanti alla servitù, si danno del voi – sono i cerimonieri. La lista degli invitati, piena di cancellature e che, per errore, contiene anche l’indirizzo del tappezziere, sembra presa dalla cerchia in cui è cresciuto il singolare imbroglione immortalato da Thomas Mann nelle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull: una signora non più invitata in società da quando è stata coinvolta «in quella faccenda… sai, le famose partouze del Bois de Boulogne, due anni fa»; la signora d’Arrachon, vista da qualcuno, anni prima, in una casa chiusa di Marsiglia, «ma il matrimonio l’ha ripulita, riceve gente assai distinta»; Abraham e Rebecca Birnbaum, che dopo aver comprato il titolo sono diventati il conte e la contessa du Poirier; e, infine, la signorina Isabelle, una vecchia e malevola zitella cugina dei Kampf, invitata solo perché il resto della famiglia possa rodersi venendo a sapere del successo avuto da Rosine in società. Che i più presentabili tra gli invitati diano forfait è già messo nel conto: «Ci vuole metodo, mia cara: per il primo ricevimento gente a non finire, soltanto al secondo o al terzo si fa una cernita» assicura Kampf, che ha dovuto imparare dai suoi trascorsi. «Se qualcuno non viene, lo inviterai di nuovo la prossima volta, e poi ancora la volta dopo… Per farsi strada bisogna seguire i precetti del Vangelo: se ti danno uno schiaffo, tu porgi l’altra guancia. Il bel mondo è la migliore scuola di umiltà cristiana».
Antoinette non ha mai partecipato a un ballo, ma le immagini dei corpi allacciati nelle danze, della musica sfrenata, del fruscio degli abiti, delle parole d’amore bisbigliate nei salottini appartati eccitano la sua immaginazione adolescenziale. Quando scopre che la madre ha previsto di mandarla a letto, come sempre, alle nove, la implora di lasciarla prender parte alla festa, almeno per un’ora, ma il rifiuto di Rosine è irrevocabile: «Sappi, mia cara, che io comincio soltanto adesso a vivere, capisci, io, e che non ho intenzione di avere tra i piedi una figlia da marito». Mai Antoinette aveva visto negli occhi della madre quello sguardo freddo di donna, di nemica. E dentro di sé sente crescere un odio disperato, rivolto contro la madre, contro tutti gli innamorati che passeggiano abbracciati al crepuscolo, contro quelle gioie sensuali che non conosce ma di cui le sue membra impuberi chiedono dolorosamente soddisfazione: «Un odio da zitella a quattordici anni?».
Proprio mentre la sua istitutrice amoreggia sul ponte Alexandre III, Antoinette, non vista, anziché spedire gli inviti li getta nella Senna. Il giorno della festa, la madre, «rutilante, scintillante come un reliquiario», attenderà inutilmente gli ospiti. Un’attesa terribile, come di un vetro in cui si propaghi lentamente un’incrinatura, fino a crollare in un fragore di schegge; e la figlia ad assistere, muta, non vista, al via vai imbarazzato dei camerieri, allo sciogliersi del ghiaccio nei secchielli da champagne, al continuo attaccare le danze dei musicisti per ogni squillo dei fornitori alla porta di servizio, al disfarsi dell’acconciatura materna, fino al prorompere del reciproco risentimento dei coniugi Kampf, in un fiotto di insulti rabbiosi. Solo allora Antoinette uscirà dal suo nascondiglio, per andare, silenziosa, ad abbracciare la madre. «Povera mamma…». «Ah, mi resti solo tu, bambina mia…».
Un finale che ricorda un altro crudele rituale mancato di accettazione e di ascesa sociale, in una disperata ricerca dello stigma dell’aristocrazia, quando la vecchia maîtresse di Le confessioni di Max Tivoli di Andrew Sean Greer, nel 1914, invita a un ballo i suoi antichi clienti, tutti arricchiti in Borsa grazie alla frequentazione del suo salotto, dove era facile captare informazioni riservate sui titoli. Aveva comprato una elegante dimora bianca per la quale aveva speso fino all’ultimo soldo, e non per la pace dei suoi ultimi anni, ma proprio al solo scopo di dare «un ricevimento con un Vanderbilt, e vederlo voltarsi verso di me e dirmi: “Signora, è stato un piacere”». Ma al ricevimento arrivano gli uomini, senza le mogli, mentre inutilmente l’orchestra attacca il Danubio blu perché le coppie si lancino nelle danze.
Balli, entrambi, falliti, sul baratro delle due guerre; a fare da specchio ai balli riusciti, resi sabba del grottesco da un vorticare di abiti rossi, perle, cappelli a cilindro, denti d’oro occhieggianti da ghigni rapaci di industriali e militari immortalati nei quadri del dadaista Georg Grosz, costretto a lasciare l’Austria all’ascesa del nazismo. Balli che mettono in scena quello «spirito piccolo borghese di cui Hitler è stato la più pura incarnazione», come dirà Hermann Broch (viennese di origine ebraica, anch’egli costretto all’esilio dall’avvento del nazismo) parlando della dissoluzione di una borghesia che, affondando profondamente nella colpa etica, rese possibile la catastrofe. Apolitici, indifferenti, incolpevoli. Persino chi, di lì a poco, sarebbe finito tra le vittime. In questo è lo splendore lucido della Nèmirovsky, e il suo lascito.