Leonetta Bentivolglio

Joyce Carol Oates, forse la massima romanziera americana vivente, torna a esplorare le dimensioni impietose del danno e della pena. Da oltre un quarantennio questa scrittrice nata nel ‘ 38, ostinatamente ricorrente tra i candidati al Nobel, sembra accanirsi in un’ immersione nel dolore di gente comune, condizionata dall’ accrescimento dei bisogni nella società del consumo, sullo sfondo di quella provincia sterminata che è l’ America. Offrendo interni famigliari, o destini individuali, colti in passaggi cruciali o devastanti, là dove una violenza efferata frantuma un equilibrio, o dove emerge un bagaglio di memorie rimosse. Scorre in questo clima anche il suo ultimo romanzo, La madre che mi manca, appena uscito in Italia. La madre è Gwen, vedova di fervida vocazione materna, trionfalmente aderente alle più convenzionali aspettative di ciò che s’ intende per “buona madre”. Ma il fato non perdona nelle storie della Oates, che traspongono in sfere mitiche vicende famigliari. Gwen viene uccisa da un balordo, massacrata in un delitto senza senso. Ed è una morte che stravolge la vita di Nikki, la più indocile e “diversa” tra le sue due figlie. Giornalista dalla chioma punk e dagli amori instabili, Nikki ridisegna nel lutto la propria mappa interna. Fantastica su Gwen, ne rivive il passato, la affranca dalla sua maschera di rispettabilità. Compie un bizzarro itinerario iniziatico, denso di metamorfosi e costellato di incontri inattesi. Di continuo, in questo viaggio conturbante e imponente (mezzo migliaio di pagine), pare affiorare dietro al volto di Nikki la stessa Oates, riflessa nella sua protagonista come in una parte di sé, o in una se stessa più giovane. «E’ vero», conferma la scrittrice, «molti aspetti mi accomunano a Nikki, e innanzitutto il fatto che siamo entrambe figlie di madri eccezionalmente calde, generose e altruiste, inseribili nella categoria delle cosiddette madri “tradizionali”. Tutte e due siamo state antitetiche a nostra madre, situazione per molti versi ironica e implicitamente problematica. Inoltre Nikki è una giornalista che si tuffa avidamente in ogni nuovo incarico, per poi allontanarsene e dimenticarlo. Un po’ come accade a uno scrittore con i suoi libri». Il personaggio di Gwen ha molto in comune con sua madre? «Somiglia alla mia defunta madre, Carolina Oates, sia fisicamente che in termini di personalità e di rapporti col prossimo. Appartengono entrambe al genere di donne volonterose e abili nel “fare di tutto” per parenti e vicini, molto amate ma spesso sottovalutate in vita. Nella società contemporanea americana, soprattutto in certi ambienti, si è attribuita sempre meno importanza al “mero” ruolo di madre». Nikki tende a identificarsi con la madre dopo averla persa. Va a casa sua, ne adotta il gatto, ne prova le ricette… Anche lei ha vissuto quest’ immedesimazione? «Non sono andata a stare a casa dei miei dopo la loro morte, ma vivo circondata da cose e oggetti che loro hanno “creato”. Ho ancora i manufatti di mia madre e i vestiti che cucì per me, e conservo i lavori artistici di mio padre, come una lampada di vetro colorato. Così mi sembra di abitare dentro qualcosa del loro mondo perduto. Sono certa che questo meccanismo coinvolge di frequente chi ha perso i genitori». A volte, in La madre che mi manca, lei usa intere pagine di maiuscole, come nel lungo periodo, molto aggressivo sul piano grafico, fitto dei “PERCHE’ ?” gridati da Nikke dopo l’ omicidio. «Volevo riflettere l’ ansia ossessiva provocata in lei dalla perdita della madre, evento che considera insensato e anche ironico. Quella di Gwen è una morte quasi accidentale, che non sarebbe potuta avvenire in nessun altro momento e in nessun’ altra circostanza. Gwen era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sono state la sua generosità e la sua mancanza di sospetti a consegnarla al suo assassino. Quanto a mia madre, lei morì per cause naturali, ma in modo repentino, per un infarto, e fu per me un fulmine a ciel sereno». Il paese di Mount Ephraim, dove si svolgeva un suo precedente romanzo, Una famiglia americana, è lo stesso in cui ora ha ambientato La madre che mi manca. Perché tornare sul “luogo del delitto”? «Quella di Mount Ephraim è la parte nord-occidentale dello Stato di New York, e io sono nata in quella zona, a Lockport. Naturale che sia portata a farne il set delle mie storie. Vivevo in una famiglia unitissima, i miei erano ottimi genitori e si conduceva la tipica vita di fattoria, col lavoro in campagna e il tempo per girovagare ed esplorare in solitudine. Nessuno, nei dintorni, era molto abbiente, perciò non posso dire che la nostra fosse una famiglia povera, a paragone delle altre. Eravamo gente comune per quell’ epoca e quel territorio, dove ho trascorso un’ infanzia serena e “normale”». Eppure sangue e violenza dilagano nei suoi romanzi, mescolandosi all’ amore e al desiderio in tragedie contemporanee che intrecciano Eros e Thanatos. «La tragedia è una forma d’ arte che mi ha sempre attratto. I miei libri coinvolgono passioni particolarmente intense, dunque è inevitabile che implichino un legame fortissimo tra Eros e Thanatos. Però ci sono forme meno estreme d’ amore, come gli affetti familiari e l’ amicizia, su cui scrivo altrettanto spesso. Il desiderio struggente di Blonde (è il titolo del libro della Oates su Marilyn Monroe, ndr) era di opporsi alla morte attraverso l’ essere amata e amabile. Sognava di suscitare un amore così potente da salvarla dall’ oblio». A dispetto delle sue storie laceranti, lei non ama definirti pessimista. «Perché le mie storie parlano non solo di dolore e morte, ma anche del confronto umano con la violenza, col dolore e con la morte, e del modo in cui persone comuni possono trionfare in condizioni difficili. Credo che la mia fiducia nella forza dell’ essere umano e nella sua capacità di ripresa sfugga ai critici, che nella loro fretta di valutare un romanzo in meri termini di trama leggono velocemente e superficialmente. L’ arte tragica punta a esaltare l’ essenza umana, non a sminuirla. Come ci si può mettere alla prova se non in circostanze estreme? Ci sono molti individui che diventano eroi in situazioni di emergenza, e io voglio focalizzare questo comportamento. Come nel romanzo Una famiglia americana, dove una famiglia “perfetta” è aggredita dall’ esterno e messa alla prova». E’ d’ accordo con l’ idea che la sua opera tenda a formare una controstoria dell’ America, segnalandone la deriva spirituale e culturale in contrasto con le illusioni dell’ American Dream? «Molti scrittori e artisti americani interrogano, esplorano, rifiutano e forse ridefiniscono il Sogno Americano, tema dal quale sono attratta potentemente in tutta la mia fiction». Campeggiano nei suoi romanzi famiglie sbandate, disunite, sconvolte da incidenti e rivelazioni pericolose. Pensa che la famiglia tradizionale oggi sia molto in crisi in America? «Più che di crisi parlerei di un’ evoluzione naturale e in corso da decenni. Perché una donna dovrebbe sposarsi giovane, avere dodici figli e obbedire alle norme antiquate e insensate imposte dalla Chiesa? “Tradizione” è solo un’ altra parola per indicare un certo tipo di oppressione vigente in passato. Sarebbe stupido volerla rispettare». Il suo prossimo romanzo? «Sarà la storia di un’ altra famiglia “in crisi”. Il titolo è The Grave Digger’ s Daughter (La figlia del becchino), ed è un’ avventura epica americana».

Mirella Caveggia

Intelligenza vivacissima, ispirazioni sulfuree e surreali, un’inestinguibile e ineguagliabile produzione striata di venature truculente: questo e tutto il resto sprizza da Amélie Nothomb, scrittrice belga francofona non ancora quarantenne, pluripremiata e nota in tutto il mondo. Passata dai grandi cappelli, i gonnelloni e tout le bazar della prima gioventù ad una eleganza in nero che richiama stile, originalità e raffinatezza, l’autrice di Igiene dell’assassino e del recentissimo Diario di rondine (Voland) incontra il pubblico torinese. L’occasione l’ha fornita una messa in scena del suo Cosmetica del nemico rielaborata da Stefania Bertola e Michele Di Mauro per Mas Juvarra e il Festival delle Colline Torinesi.
La rapidità e la brevità dei movimenti, i lievi cenni del capo, la grazia compunta dei gesti rivelano in lei l’influenza nipponica. Figlia di un ambasciatore belga, nata a Kobe in Giappone, e cresciuta «per ragioni diplomatiche» in Estremo Oriente, Amélie a diciannove anni progettava di fare l’interprete, cosa che per due anni ha fatto, e di scegliersi un fidanzato, fatto anche quello, un giapponese. Ma una settimana prima di incunearsi nel rigido sistema familiare nipponico («Sei troppo espressiva – le aveva detto la futura suocera – non sarai mai una vera signora»), la ragazza di buona famiglia prende coscienza dell’attività «noiosa e terrificante» che la incolla nell’ombra, e della necessità di scongiurare il matrimonio. Decisa a buttare tutto all’aria per intraprendere il mestiere di scrittrice, scappa in Belgio. Accolta male nel suo ambiente alto borghese, l’irrequieta e volitiva Amélie investe nella sfida i risparmi di due anni. «Se non va – si ripromette – torno in Giappone e lo sposo». Intende naturalmente il fidanzato, che passato dall’incredulità ad un’attesa paziente, si trasformerà in pochi anni in un signore grasso e poco attraente (come sarà rivelato nel suo prossimo libro, ma è un segreto). Tutto va per il meglio. L’aspirante romanziera scrive e pubblica nel ’92 la sua prima opera narrativa, Igiene dell’assassino. Il successo, folgorante, rivela un sicuro talento narrativo, uno stile ricco di humour dall’impronta persuasiva, energica ed elegante – Cicerone è il suo modello – e una capacità comunicativa che si presta anche al teatro e al cinema. Segue un’attività di scrittura frenetica, esercitata giorno e notte, che fino ad oggi non ha mai interrotto il suo ritmo inaudito: 61 libri finora, di cui 15 pubblicati. E che inventiva nei titoli: Sabotaggio d’amore, Metafisica dei tubi, Acido solforico…
Un flusso di tale portata, quasi un delirio grafomane, non rischia di indurre momenti di stanchezza all’autore e alla scrittura, mademoiselle Nothomb? O madame? «Mademoiselle, prego». Con quel cappellino nero, sembra una monella che gioca alle signore. «È una fatica fisica, certo, ma non è mai tedio. La prova è che continuo con quel ritmo». Cosa ne fa delle pagine escluse? Ci ritorna? «Mai, le chiudo in una scatola di cartone e le abbandono. Anche alla discrezione dei ladri, che sono venuti quattro volte nel mio appartamento e non hanno voluto i manoscritti». Un successo a piene mani e qui ne abbiamo la prova. Ma pare che in Belgio lo abbia oscurato un’eclissi. In quale paese i suoi libri vanno meglio? «È noto che nessuno è profeta nella sua terra. Non che in Belgio non funzioni, va meno bene. A vedere le cifre, la Francia è il paese che vende di più i miei libri; ma Spagna e l’Italia sono i paesi dove sono più amati». Lei ha esordito giovanissima. Spirito stravagante, curiosità inesausta, autoderisione, temerarietà. Questi tratti sono cambiati? Il tempo le ha messo le pantofole? «Oh, non direi, anzi. Ho l’impressione di essere peggiorata. Mi sforzo di essere all’avanguardia rispetto a me stessa e questo mi spinge ad andare sempre più avanti. Vedrete che razza di vecchia signora sarò». Lei ha lavorato in un’impresa giapponese, come ha raccontato in Stupore e tremori. Che esperienza ne ha tratto? «Disastrosa, ma fondamentale, di quelle che insegnano tante cose. Assunta per approfondire la conoscenza del giapponese, due settimane dopo mi è stato proibito di parlare in quella lingua. Incomprensibile: molto contrariata ho taciuto, non ho mai più detto una parola. Credo che quello che li ha spaesati è stata la mia volontà di un’integrazione piena e i giapponesi pretendono che lo straniero rimanga tale».
Una fantasia che rompe gli argini, governata da un gustoso rigore dialettico, una scrittura preziosa che qualche detrattore ha definito pedante e pretenziosa («La gente non è mai contenta», ribatte soave), visioni allucinanti e gonfiate a dismisura: le sue trame potrebbero attirare l’attenzione di Peter Greenaway «È incantevole, lo adoro, sarebbe il massimo del riconoscimento». Si riconosce una vena di cinismo e di crudeltà? «Osservo un mondo cinico, ma non credo di parteciparvi. Nel quotidiano ne sono completamente slegata. Definirei il mio stile “paranoico” perché quando mi volgo al mio lato lirico, quello autentico in cui credo, avverto uno stridore che prelude a suggerimenti crudeli che non mi appartengono, ma sono sempre in agguato». Forse è l’urgenza del lato oscuro, notturno che accompagna molti artisti a cui lei va incontro alle quattro del mattino quando si accinge a lavorare ancora in piena oscurità o quando mangia frutti mezzi andati che la fanno vomitare. Comunque le sue bizzarrie le hanno dato ragione. Lei è molto popolare. Un esempio da seguire? «Per carità, mai. Quando vedo che nei questionari di orientamento scolastico sono citata, mi pare la fine del mondo. Il mio consiglio ai giovani è: non fate come me». Ma i giovani accorsi alla Cavallerizza Reale per vedere Cosmetica del nemico, hanno applaudito con entusiasmo l’autrice presente e gli interpreti (Michele di Mauro e Graziano Piazza) di uno spettacolo pieno di spirito che sparpaglia particolari raccapriccianti, li ricompone in chiave psicoanalitica, per assestare un inatteso colpo di maglio finale.

L’ascesa delle intellettuali è un fenomeno di enorme portata, il cui impatto sull’assetto del paese è tanto più rilevante, perché non è più limitato alle élite
Dopo secoli in cui la letteratura persiana è stata dominata da opere di poesia «al maschile», ora è l’epoca della prosa scritta dalle donne Alternando spesso impegno politico e letterario, le scrittrici sono le protagoniste di una nouvelle vague che riesce con successo a sfidare il regime
Anna Vanzan

L’Iran è tornato a occupare stabilmente le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, dopo i clamori alla fine degli anni Settanta, quando si era imposto all’attenzione internazionale come il paese che aveva rovesciato un governo oppressivo ma «laico» per mortificarsi sotto l’egida di una rigida teocrazia islamica. Fra l’ascesa dello sciismo – dal 1501 la religione di stato in Iran – come componente politica nel mondo arabo orientale e la querelle internazionale che pone la Repubblica Islamica d’Iran sul banco degli accusati per la sua determinazione a conseguire l’energia nucleare, l’interesse globale per il «paese degli ayatollah» è enormemente cresciuto negli ultimi due anni. Le vicende iraniane interne ci giungono sull’onda delle dichiarazioni del suo presidente, Mahmud Ahmadinejad, che mentre dà in escandescenze contro Israele, infligge quotidiane umiliazioni alla popolazione e alla società civile, vessando in particolare le componenti più propositive e a lui contrarie: donne, giovani, intellettuali.
Dietro l’egemonia degli «inturbantati»
Al tempo stesso, chi non si accontenta delle semplificazioni della maggioranza dei media (che continuano a proporre trite immagini di un paese stretto tra chador e crisi economica) segue con interesse misto a stupore le molteplici attività delle organizzazioni non governative che si muovono sull’altopiano e che operano in ambiti diversi, dall’archeologia all’ambientalismo, dalle questioni femminili/femministe alla difesa dei diritti dei bambini. E non manca di sorprendersi di fronte al fervore della scena culturale iraniana animata da mostre di pittura e scultura, festival cinematografici, manifestazioni letterarie. Come è possibile conciliare l’egemonia politico-sociale degli «inturbantati» e l’attività delle (tante) donne come il premio nobel per la pace Shirin Ebadi, oppure la repressione di universitari (docenti e studenti) con le librerie iraniane traboccanti di nuovi titoli? Da tempo si parla dell’Iran come di un paese schizofrenico, definizione che ha sostituito quella secolare, attribuita dall’Occidente, di un paese ipocrita, dove la gente si comporta in un modo nella vita pubblica e al contrario nel privato. Poco si conosce invece dell’attività culturale degli iraniani, se non di riflesso, quando casi di intellettuali perseguitati dal regime salgono alla ribalta internazionale.
Vale la pena allora sottolineare come negli anni successivi alla rivoluzione il livello di istruzione sia cresciuto in modo esponenziale: attualmente la giovanissima popolazione (due terzi degli iraniani hanno meno di trent’anni) è composta da uomini e donne che hanno un livello di istruzione medio-alta e che seguono con grande interesse quanto il mercato editoriale propone: un fattore, questo, che ha naturalmente stimolato la produttività degli scrittori.
Da tempo immemorabile la letteratura costituisce un’arena privilegiata del dibattito culturale e sociale iraniano e gli scrittori sono impegnati nel denunciare le ineguaglianze, l’oppressione politica e l’ipocrisia di una parte della classe dei religiosi: già Hafez, il poeta iraniano per eccellenza vissuto nel XIV secolo, era un fustigatore della doppiezza dei sedicenti religiosi.
Il trionfo del racconto breve
Anche oggi la letteratura soddisfa la duplice esigenza di scrittori e lettori che sentono la necessità di esprimere le loro insoddisfazioni rispetto sia alla generale mancanza di libertà sia nei confronti di quella grande fetta di società iraniana che non sa o non vuole adeguarsi alle istanze della modernità e al bisogno di riforme.
Adeguandosi ovviamente ai tempi, gli autori iraniani pongono oggi minore attenzione ai canoni retorici, mentre attribuiscono grande importanza ai contenuti e adottano di preferenza la forma del racconto breve, divenuto veicolo privilegiato per esprimere sentimenti e idee, mezzo duttile che ben si presta alla pubblicazione su riviste o addirittura sul web. La letteratura degli iraniani insomma si modifica per superare le difficoltà, per sfuggire all’occhio sempre vigile del censore, nascondendo significati pericolosi sotto strati di simboli e di allegorie. È una letteratura in lingua persiana concepita per un pubblico di lettori persiani, per la maggior parte fiction di una certa qualità, assai lontana dalle celebri «Lolite» che non si leggono a Tehran, ma che sono viceversa scritte in inglese e confezionate per essere lette a Parigi e a New York, dove diventano best seller (e dove la prosa letteraria cede il passo a quell’aspetto socio-scandalistico dell’Iran che tanto piace in Occidente).
Nel complesso, tuttavia, la situazione editoriale iraniana è tutt’altro che rosea: gli editori privati, cui sono stati tagliati i fondi governativi e che sono i più vessati dalla censura per le loro scelte ritenute spregiudicate dal regime, sopravvivono con grande difficoltà, ma riescono comunque a resistere. In questa nuova produzione letteraria iraniana straordinario è il numero delle donne, che anche in questo settore hanno superato, per numero e abbondanza di produzione, i colleghi maschi, così come le studentesse universitarie sono ormai più numerose dei loro compagni.
L’ascesa delle scrittrici e delle intellettuali è un fenomeno di enorme portata il cui impatto sull’assetto sociopolitico e culturale del paese è sempre più rilevante, anche perché non è più limitato alle élites. L’alto grado di istruzione raggiunto dalle donne, l’accessibilità (per costi e distribuzione) della produzione letteraria e la voglia di cambiamento delle giovani donne fanno sì che questa letteratura abbia una diffusione relativamente ampia, diventando strumento di riflessione, discussione e lotta.
Non sono poche, fra l’altro, le scrittrici che alternano impegno politico e letterario: è questo il caso, per esempio, di Noushin Ahmadi Khorasani, autrice di racconti brevi, ma anche animatrice di riviste femministe, ora passate on line, sempre presente non soltanto nelle manifestazioni di piazza, ma ovunque occorra perorare la causa delle donne. Per aggirare l’ostacolo rappresentato dagli editori, spesso restii a pubblicare libri che potrebbero incorrere nelle maglie della censura, Noushin ha inaugurato una sua casa editrice, che si affianca alle circa cinquecento sigle editoriali dirette da donne nel paese (anche se solo circa la metà di queste è veramente attiva).
Coniuga impegno civile e attività editoriale anche la storica Ziba Jalali Naini, collaboratrice di «Esprit» e dei parigini «Cahiers de l’Orient», che in Iran dirige la rivista «Godfeglu» (Dialoghi) e una casa editrice orientata soprattutto alla pubblicazione di testi socio-filosofici. La studiosa è inoltre da tempo impegnata in un progetto di riscrittura dei testi didattici che negli anni successivi alla Rivoluzione sono stati modificati per persuadere le giovani generazioni del ruolo subalterno e domestico delle donne.
Luoghi di incontro
Diversi sono i dispositivi adottati dalle scrittrici per mascherare (ma forse «velare» sarebbe il termine più appropriato) la loro protesta. Alcune – da Azardokht Bahrami a Tahere Alavi – elaborano storie dove le donne sono volutamente descritte anche «in negativo», per sottolineare come i mali della società iraniana non siano tutti attribuibili agli uomini. Altre, come Farkhonde Aqai e Fereshte Sari, preferiscono invece celare la loro denuncia utilizzando tecniche narrative particolari: così la prima avvolge le sue trame in atmosfere misteriose tipiche del genere giallo, mentre la seconda impiega un linguaggio simbolico e allusivo, che dà alle sue narrazioni un tono sottilmente inquietante.
Dopo secoli in cui la letteratura persiana è stata dominata da opere di poesia «al maschile», ora è l’epoca della prosa scritta dalle donne. Così, paradossalmente, oggi sono gli scrittori a cogliere qualche idea dalle loro colleghe: di recente per esempio è uscita un’antologia di racconti di un gruppo di autori che ricalca una analoga operazione condotta con successo tempo fa da sette scrittrici. In un quadro complessivamente repressivo qual è quello iraniano, la scrittura potrebbe in ogni caso apparire come un lavoro pericoloso (oltre che poco remunerativo). Eppure ci sono autori che hanno abbandonato carriere meno rischiose per dedicarsi alla penna: è questo il caso, fra gli altri, di Amir Hossein Cheheltan, ex ingegnere elettronico, che è oggi fra gli scrittori iraniani più noti e più prolifici. E sebbene periodicamente molti di questi scrittori e scrittrici abbiano dovuto scontrarsi con i rigori della censura, sperimentando in alcuni casi anche il carcere, nessuno desiste. Se l’arena politica è occupata dalle forze oltranziste, proprio il campo letterario e artistico diventa un luogo tanto più prezioso di scambio di idee e di confronto.
In uno spazio librario di Tehran, per esempio, si è festeggiato lo scorso autunno il premio internazionale «Publishers’ Freedom Prize» vinto nel 2006 da Shahla Lahiji, la prima donna editore in Iran. La sua casa editrice, Roushangaran, nata nel 1983, si occupa da oltre vent’anni di temi legati al mondo femminile, e in generale allo sviluppo del pensiero democratico. Significativamente uno degli interventi alla manifestazione era intitolato «Perché il silenzio» e polemicamente rilevava come i media iraniani non avessero dato nessuna notizia dell’importante riconoscimento internazionale ottenuto dall’instancabile editrice, ennesima dimostrazione dei risultati conseguiti, nonostante le evidenti difficoltà, dalla società civile.
Allo stesso modo, le gallerie d’arte in cui espongono artiste e artisti iraniani diventano luoghi dove si incontrano persone che condividono non solo l’amore per l’arte, ma anche e soprattutto una visione comune di vita in cui le relazioni sociali possano svolgersi serenamente e senza controlli da parte del potere politico. Alcune esposizioni, del resto, rappresentano un chiaro espediente per parlare di problemi sociali: ne è un esempio il premio fotografico intitolato a Kaveh Golestan, un giornalista iraniano ucciso da una mina in Iraq nel 2003, mentre lavorava per la Bbc: non a caso molte delle foto segnalate nelle recenti edizioni del premio – dai volti insanguinati degli studenti picchiati mentre protestano davanti alle università a una coppia giovanissima che si abbraccia in un parco cittadino (cosa non consentita se non c’è un vincolo coniugale fra i due) – rappresentano palesemente un atto di protesta e di denuncia nei confronti del regime.
Una lunga convivenza con la dittatura
Ovviamente non tutto il paese partecipa di questa vivacità intellettuale. Sono soprattutto le grandi città, e in primis Tehran, che coagulano fermenti e aspirazioni, mentre l’Iran rurale resta ancora in gran parte lontano dagli stimoli culturali in cui si coniugano creatività e impegno sociale. Sono numerose le cittadine prive non solo di gallerie d’arte ma pure di librerie, così come la percentuale di lettori e di libri letti è molto disuguale.
Eppure, nonostante le continue delusioni politiche, una grande spinta vitale si avverte in Iran, una spinta che ha le sue radici nella lunghissima storia del paese. Gli iraniani hanno maturato un’esperienza millenaria di adattamento a condizioni avverse: dalla conquista araba, avvenuta nell’VIII secolo, essi sono stati soggetti a una infinita serie di dinastie straniere, perlopiù turche, finché negli anni Venti sono stati dominati dalla brevissima dinastia dei Pahlavi, iraniani sì, ma pur sempre autocrati e dispotici. Poi è arrivata la teocrazia. Usi da secoli a convivere tra una dittatura e l’altra, gli iraniani hanno imparato così a compensare il mancato affermarsi di un progetto democratico con una sempre rinnovata creatività in campo artistico e culturale, una creatività di cui purtroppo l’Occidente coglie, colpevolmente, poco o nulla. A parte il cinema (che peraltro riscuote consensi soprattutto di critica ai grandi festival internazionali, rimanendo tuttavia poi confinato in brevi apparizioni in sale d’essai), la letteratura, come la pittura e la scultura, vengono ancora una volta esiliate in spazi eccessivamente angusti dal grande gioco dei mercanti e mercati internazionali.

Anna Ruggieri

Nelle mani giuste si intitola l’ultimo libro del giudice-scrittore Giancarlo Di Cataldo. Si tratta, nel libro, di mani equivoche, solo apparentemente affidabili. Viceversa, nelle mani giuste, quelle di donne diversissime tra di loro, è stata affidata la brillante operazione culturale curata dalle scrittrici palermitane Eleonora Chiavetta e Silvana Fernandez, pubblicata dalla casa editrice Rubbettino ed intitolata Storie d’aria, di terra, d’acqua e di fuoco.
Le donne parlano di loro e degli altri partendo da preconcetti di ostilità, o di vera e propria guerra, ma scegliendo con determinazione la via della pace.
Il percorso narrativo ha la civiltà della scelta letteraria con i quattro elementi fondamentali del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra.
Le scrittrici sono italiane e straniere e, tra quest’ultime, gli stessi nomi richiamano la loro nazionalità: Wajiha Al Huwayder (Arabia Saudita), Erendiz Atasu (Turchia), Susan Bashier (Egitto), Judith Chernaik (Stati Uniti), Asma Gherib (Marocco), Judy Light Ayyildiz (Stati Uniti), Susan Khawàtmi (Siria), Karen King-Aribisala (Guyana), Esti Lidar (Israele), Mine Servgi Ozdamar (Turchia), Haneen Omar (Iraq).
I quattro elementi (aria, terra, acqua e fuoco) sono metafora e sono simbolo. Ma ciascuno dei quattro elementi può essere simbolo di più cose.
La poesia ermetica di Francesca Traìna apre il capitolo iniziale nella raccolta di Storie d’aria, e molti racconti sono “intimistici”, epigoni in prosa dello stesso genere letterario.
Ma altre storie seguono percorsi narrativi di memorie personali o collettive che non andavano comunque disperse.
Marinella Fiume, inaspettatamente, richiama le parole del Vangelo e i versi di Cecco Angiolieri raccontando di Antonio Nicoloso, il “padrone del fuoco”, che scese all’interno dell’Etna.
Silvana Fernandez scrive un racconto drammatico in cui scompare chi aveva pianificato un delitto e si salva invece chi avrebbe dovuto fuggire da una famiglia prigione. “Quelle frasi e quel gesto erano senza possibilità di perdono”, aveva detto poco prima la vittima predestinata
La mancanza d’aria, che era stata la terribile conseguenza di un delitto, può aver anche modificato il corso della storia, come avviene nel racconto di Beatrice Agnello.
Storia, non inconsueta, di sopraffazione familiare è quella di Margherita Giacobino, tanto che “L’inferno della convivenza ed altre storie” avrebbe potuto intitolarsi la raccolta di racconti contenuti nell’antologia.
Terribile è il racconto di una strage vista con gli occhi di una bambina rimasta senza parenti.
Ma il motivo ricorrente, o meglio prevalente, di Storie d’aria, di terra, d’acqua e di fuoco è purtroppo uno solo: l’obbligo di convivere con altri, per necessità o per incauta scelta, è una dannazione. Quanto tempo ancora impiegheranno le donne per capire e, soprattutto, mettere in pratica l’insuperato proverbio secondo il quale è meglio stare sole che male accompagnate?
Forse per questo motivo l’invincibile motivo ricorrente della scrittura femminile è il ripiegamento intimistico tra recriminazioni familiari (e coniugali) e storie di liberazione e di rinascita.

Letizia Artoni

Il Suad Amiry è un’architetta palestinese, scrittrice per caso, che vive a Ramallah dove dirige il centro Riwaq per la salvaguardia del patrimonio architettonico di quell’area. NIENTE SESSO IN CITTA’ è la sua terza ‘fatica’ (così almeno lei la definisce) dopo il bel ‘Sharon e mia suocera’ e ‘Se questa è vita’.
L’età che avanza, l’esistenza del CRIMINE (Committee of Ramallah Indipendent Menopausal Inner Network Enterprise), la vittoria di Hamas alle ultime elezioni nel gennaio del 2006, e con questa, la sconfitta di ciò in cui lei e le altre della generazione dell’Olp hanno creduto, sono i temi e le ragioni che la fanno scrivere. Dalle conversazioni che una volta al mese il gruppo si scambia sul terrazzo del Darna Restaurant, il locale più ‘in’ di Ramallah , nascono le confessioni che compongono il libro.

‘Dell’infanzia e dell’avvicinarsi della maturità’ dice l’autrice ‘ecco di che cosa volevano parlare le mie amiche, ed è stato dunque in tale direzione che mi sono lasciata portare senza potere né volere opporre resistenza’ ‘…da tempo contemplavo la possibilità di scrivere delle mie amiche, poiché in loro si esprime in parte ciò che sono e in parte ciò che mi sarebbe piaciuto, ma non sono riuscita ad essere’.

Di infanzie diverse, a Boston, Ankara, Nicosia, Beirut – ‘che a tutte ha dato molto senza ricevere in cambio’ – Damasco, Il Cairo, Alessandria d’Egitto, Parigi ecc. e di una maturità più simile, di questo raccontano le loro storie, ma anche della Palestina e della sua assenza – oggi dopo Hamas anche ‘climaterica’ – che è poi ciò che le ha fatte incontrare. Donne speciali, colte, appassionate e complici, dai bei nomi (Fadia, Maya, Aida, Jamileh, Ola, Rana, Lena, Reem, Ann), racconti personali e politici che spaziano in un arco di tempo che va dalla seconda guerra mondiale ai nostri giorni, un primo tirare le somme dettato da eventi interni (la menopausa) ed esterni (la vittoria di Hamas) casualmente coincidenti, in un’alternanza di scoperte adolescenziali, gioie e dolori vissuti con coraggio e un invidiabile senso dell’umorismo.

Renata Sarfati

L’autrice, studiosa di storia contemporanea e molto apprezzata in Israele, insegna all’Università ebraica di Gerusalemme. Questo libro intenso e appassionato è fondamentale per comprendere la società israeliana di oggi. Attraverso l’analisi del dibattito politico del paese negli ultimi quarant’anni, dimostra come le catastrofi della storia ebraica siano state trasformate in eroismo, vittoria e redenzione, creando in qualche modo un’ossessione per la morte e il martirio.
Con la morte negli anni 20 di Trumpeldor, primo eroe della comunità ebraica in Palestina, evento che servì da modello alla rivolta del ghetto di Varsavia nel 1943, ebbe inizio la costruzione dell’ideologia dell’ “ebreo nuovo”, che doveva morire per difendere la patria, in contrapposizione alle masse ebree della diaspora, pronte a morire come agnelli.Quando, negli anni Quaranta, la comunità di immigrati in Palestina dovette confrontarsi con la Shoah, fu esaltato il coraggio dei pochi che osarono ribellarsi ai nazisti perché lo stato aveva bisogno di eroi e non di vittime, escludendo i veri portatori di quella memoria, i sopravvissuti.
Col processo Eichman il paese si trovò per la prima volta a doversi confrontare con l’enormità di quanto accadde agli ebrei d’Europa. Questo processo sollevò un immenso dibattito critico, laico, avviato soprattutto da Hannah Arendt, sul comportamento delle persone, sia vittime sia persecutori, in situazioni estreme. Il dibattito, che si diffuse non solo in Israele ma in tutta Europa, è ampiamente trattato dell’autrice che considera questo libro dedicato in larga misura alla Arendt. Il paese elaborò questo trauma con la costruzione del ricordo e della dimenticanza della Shoah basata sull’organizzazione di una memoria didascalica fatta di rituali. Zertal esamina poi l’evolversi di questo discorso dal punto di vista della costruzione della potenza militare d’Israele e della giustificazione dell’occupazione israeliana di un territorio occupato da un altro popolo.
“Come in passato, gli avvenimenti dell’oggi sembrano mostrare che il processo di sacralizzazione della Shoah … ha trasformato un rifugio, un focolare, in una patria in un tempio e in un altare perpetuo”, conclude Zertal nella sua introduzione.

Federica Sossi

“E loro, i tre venerabili anziani di casa, me lo dicevano sempre negli anni dell’infanzia, durante il caffè delle donne: “Da grande sarai la nostra cantora”. Poi un giorno il vecchio Yakob mi chiamò nella sua stanza, e gli feci una promessa. Un giuramento solenne davanti alla sua Madonna dell’icona. Ed è per questo che oggi vi racconto la sua storia. Che poi è anche la mia. Ma pure la vostra”.
Già, di che è la storia?
Termina così il libro di Gabriella Ghermandi, con una storia da raccontare che è una storia di tutti, del vecchio Yakob, di Mahlet, la protagonista-narratrice di Regina di fiori e di perle, e nostra, di noi lettori che in quell’istante terminiamo di leggere il suo libro e di un altro “noi”, per nulla nascosto nell’ultima parola di questa storia in realtà già raccontata dall’autrice. In quel “vostra”, infatti, nella vostra storia, si racchiude un “noi” lettori/italiani che attraverso la storia di Mahlet come lei ci mettiamo in ascolto delle storie dei talian soldato che hanno occupato il suo paese, della resistenza etiope e dell’arma sconosciuta usata dagli italiani per batterla, quella “nebbiolina quasi invisibile che si adagiava nelle valli, nei crepacci, nelle gole, e ammazzava i nostri uomini bruciandoli da dentro, dai polmoni” (p. 144).
Uno strano modo di terminare, rimandando a una storia che dovrà essere raccontata e che noi lettori già conosciamo. E’ così che il tempo dell’Etiopia occupata dagli italiani si snoda, attraverso dei nodi su un primo nodo: la storia di Yakob, e poi le storie che si annodano alla sua e che Mahlet, diventata adulta, continua ad ascoltare per poterci poi raccontare la “nostra storia”. Ma anche queste storie ascoltate sono già plurali, contengono storie d’altri, perché tutti hanno una storia, come dice di aver compreso dai racconti della madre una delle donne ascoltata da Mahlet.
Così, questa storia che è di tutti è una strana storia, immediatamente soggettiva e collettiva, singolare e plurale, storia dei soggetti e storia di un popolo, o di due popoli, storia di Yakob, di Mahlet, storia del passato e del presente dello spazio da loro abitato, e storia dell’Etiopia e dell’Italia ai tempi della sua impresa coloniale nella terra di Mahlet.

Serena Fuart

Chi segue la televisione con un occhio critico non può che restare soddisfatto del libro di Norma Rangeri, Chi l’ha vista?, che, con stile ironico, racconta il piccolo schermo dagli anni 90 ad oggi.
La tv: un mondo che non rispecchia la realtà, che purtroppo è preso come punto di riferimento da troppe persone. Un mondo costruito, finto, artificiale, che pretende di far passare per vero quello che vero non è.
Il testo fa una panoramica completa di quello che è il sistema televisivo. Molti sono i punti interessanti su cui si può riflettere.
Uno di questi, secondo me, è la pornografia che caratterizza i programmi. Pornografia intesa non solo come esposizione di corpi nudi femminili, ma come esibizione senza censura di sentimenti e dolore. Inoltre, le parole di Norma Rangeri fanno luce su come forze politiche, favoritismi e concorrenza degli ascolti influenzino i programmi, decidendone contenuti, notizie da far passare e da censurare.
Il testo è suddiviso in tre parti. La prima, La tv in mutande, è dedicata ai programmi di intrattenimento sottolineando la bassa qualità che li caratterizza e non risparmiando i commenti su nessuno dei vip!
La seconda parte, Zapping, si sofferma sui rapporti che la tv intrattiene con la religione, la guerra, l’horror. Si focalizza su come il piccolo schermo affronta queste tematiche, con che pesi e misure.
La terza parte, Primum auditel, deinde informare, è dedicata ai rapporti tra poteri governativi e tv. Una sezione, quest’ultima, che mi ha lasciato sconvolta, perchè davvero non immaginavo un tale intreccio.
Chi l’ha vista? fa aprire gli occhi sui meccanismi sottostanti ai palinsesti, con una forza capace di disincantare chiunque creda al piccolo schermo.

Barbara Nogara

E’ il mese d’aprile a Torino: Mario abbandona la casa coniugale e lascia soli suo moglie Olga di trentotto anni e i due figli, Gianni e Ilaria di dieci e sette anni. La vita di Olga è sempre stata serena, scandita dai ritmi domestici: sapeva scrivere e aveva lavorato per poco tempo in una casa editrice, ma per desiderio del marito si era sempre dedicata completamente alla casa e alla famiglia.
Il dolore della separazione è per Olga lancinante e l’avvicina alla paranoia: la casa non le sembra più sua, passa dall’igienismo maniacale alla trascuratezza e deve badare al contempo ai due figli e al cane. Mario non si fa vivo, non risponde al cellulare e i suoi colleghi di lavoro negano ogni notizia: Olga lo cerca disperatamente per trovare un aiuto. Mario vive ormai con una ragazza molto giovane e non pensa a tornare a casa.
Intanto a Torino comincia l’agosto con il suo caldo torrido, dove tutto è difficile, e la paranoia di Olga aumenta: si guasta il telefono, muore l’affezionato cane, si blocca la porta di casa, il figlio si ammala; il condominio si svuota, tranne che per la presenza di Carrano, un violoncellista che si innamora di Olga e con discrezione si occupa di lei e dei suoi figli. Ma Olga è soprattutto impegnata a guarire la sua paranoia con un rigido autocontrollo e alla fine vince con un’apertura verso la vita impensabile sino a poco prima. Smette di amare Mario, quando si fa vivo per interposta persona lo incontra con indifferenza e gli permette con la sua nuova moglie, così ama chiamarla, di vedere i bambini tutti i fine settimana. Olga riprende a lavorare come traduttrice. E’ bella e viene invitata da amici, gli uomini la corteggiano, ma non ha voglia di ricominciare daccapo e sarà poi con Carrano, già amante occasionale e amico, che ricostruirà la sua vita.
Elena Ferrante, grande scrittrice napoletana, descrive con mirabile bravura la paranoia di Olga e i rapporti con i figli piccoli di donna abbandonata, e la sua prosa ha una secchezza aspra e risentita, che le conferisce originalità e vigore.

Letizia Artoni

Mildred Nilsson, pastore della canonica di Poikkijarvi viene trovata morta, appesa alla balconata dell’organo della chiesa sotto il simbolo lappone del sole.
Una lupa dalle zampe gialle si aggira con il proprio branco nelle foreste circostanti, fiera.

Una rivoluzione quella portata dalla minuscola Mildred nella comunità di Jukkasjarvi: un gruppo femminile di studi biblici, la sua casa diventata rifugio per le donne maltrattate, una fondazione per la protezione della lupa a discapito del circolo della caccia. Una donna scomoda, odiata da molti, per lo più mariti, incompresa da tanti , ‘intelligente, ma come se nascondesse in sé un ritardato mentale’ pensa il pastore Stefan che vorrebbe la sua canonica, ‘glielo dico chiaro e tondo: odiava gli uomini’ dice all’investigatrice il guardaboschi che ha visto messa in discussione l’esclusiva appartenenza sessuale del circolo di cui è presidente.

Secondo libro di Asa Larsson, ex avvocato fiscalista e autrice della fortunata serie che ha per protagonista Rebecka Martinson, qui tra i boschi della propria infanzia a leccarsi le ferite del caso precedente in un indesiderato ritorno a casa. Piccoli miracoli, i suoi libri, come ha detto qualcuno, viaggi nell’animo umano, nel conflitto fra i sessi e nella natura incontrastata come in ‘Tempesta solare’ che l’ha incoronata regina del giallo scandinavo e che è ora anche film.

Anna Maria Diciommo

Caro Gramsci,
sono stata invitata a dirti perché mi piaci.
Ecco, trovo incantevole la passione che metti nei tuoi pensieri, l’amore che hai per essere fedele al filo conduttore che ti passa per la testa. Mi piace il desiderio che traspare ovunque quando ti soffermi sviscerando e raccontando ogni sfumatura di ogni parte del tuo scrivere. Come cerchi e tieni insieme ogni contesto, tutti i risvolti e livelli di lettura presenti ovunque nelle tue riflessioni, perché potrebbero sfuggire o non essere abbastanza chiari. Passare attraverso il tuo pensiero mi lascia piena di tante “quistioni”. Mentre percorro la lettura dentro di me incomincia a vivere oltre al tuo modo di ragionare anche la struttura ogni pensiero e la vita. TU Gramsci scandagli con passione e competenza tutto quanto conosci. Lo fai da maestro per convincermi e come compagno di percorso, usando un gran lodevolissimo linguaggio (veramente volevo scrivere gradevolissimo e va bene così). Procedendo lungo la lettura mi accorgo che il farlo è diventato un atto meditativo. Imparo a capire come si possa andare in profondità, mi stupisco perché sono capace di cogliere l’essenziale, e sono felice di assaporare una moltitudine di sfumature.
Ti trovo candido e ammirevole quando mi sai comunicare la tua anima anche se non capisco il titolo che è stato dato all’antologia che mi è stata consigliata. Certo è una frase che si trova in un tuo testo. Perché il mondo dovrebbe apparirmi terribile con la presenza di una creatura passionalmente deliziosa come te? “Nel mondo grande e terribile”, a me non piace molto. Questo mondo mi ha permesso di conoscerti. Certo stare al mondo costa caro, a te è costato parecchio. Sei stato allontanato dalla tua donna e anche vilipeso, per secondi fini?… Eppure tu non hai avuto un momento di stizza per questa profonda ingiustizia e per questo mi trovi completamente dalla tua parte.
Appunto sono al dunque: ho il rammarico di non averti sentito pronunciare l’Altra che trapela pochissimo in questo magnifico contesto. Tu sei un grande, vuoi sempre e comunque arrivare al cuore dei tuoi lettori, fai di tutto per convincerli come padre di pensieri nuovi ma ti sei fermato troppo
presto, subito dopo aver detto che solo per il contatto con i “semplici” una filosofia “si fa “vita”” (pag. 244). Dici solo questo, e le donne? Con la vita le donne c’entrano. Certo la tua compagna era altrove,
per cui con chi potevi confrontarti se non ti era possibile parlare e ascoltare l’altra metà dell’umanità? Secondo me te l’hanno allontanata con questo proposito.
Quando ti avvicini al terreno del pensiero femminile fai subito una virata e torni “agli strati colti dell’umanità” (pag. 245). Dici anche “rendere politicamente possibile un progresso intellettuale di
massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali”, ma non ti rendi conto che in questa zona bassa ci sono anch’io? E quando mi nomini? Ho aspettato ma non mi trovo, eppure avresti semplificato la Vita nominandomi e passando attraverso i miei pensieri, ci avresti dato una mano e forse saremmo già in un mondo in cui il paradiso è la porta accanto perchè la volontà è sufficiente a spalancarLa. Come esprimeresti questo pensiero? Vedi, stranamente sono io a stuzzicare te. Mi dispiace non averti trovato anche dove avrei voluto. Forse sei nato troppo presto, per darci una mano. Eppure un esempio illustre ha preso posizione. Pensa un po’ che per venire al mondo ha chiesto il consenso assenso di Maria. Ha voluto il suo Sì, dopo che un Angelo si è inginocchiato davanti a LEI. Nella sua breve vita era circondato dall’alone femminile, amava la loro compagnia, aveva per loro parole affettuose, piene di vita e resurrezione. Figurati gli andavano bene anche le puttane perché i suoi occhi trasformano
e rigenerano ogni vita, grazie all’amore e la compassione. Ti sei ingrippato con il concetto di “massa” che a me dà fastidio, ti sarebbe stato utile avere la presenza di donne per non scambiare la tartaruga con
il suo guscio. Avresti beneficiato di pareri e competenze complementari. Cerco d’immaginare questa realtà: i tuoi doni messi al servizio del sapere quotidiano. Mi sembra un potenziale straordinario. Grazie comunque. Baci

 Perché i suoi personaggi sono donne sofferenti? Eva.

Cara Eva, il dolore di Delia, Olga, Leda è il frutto di una delusione. Ciò che si aspettavano dalla vita – sono donne che hanno cercato di rompere con la tradizione delle loro madri e delle loro nonne – non arriva. Arrivano invece vecchi fantasmi, gli stessi con cui hanno dovuto fare i conti le donne del passato. La differenza è che loro non li subiscono passivamente. Si battono invece con tutte le loro energie e ce la fanno. Non vincono, ma semplicemente vengono a patti con le proprie aspettative e così trovano nuovi equilibri. Io non le sento come donne sofferenti, ma come donne combattenti.

 

Sono semplicemente innamorata della sua scrittura, non ho curiosità sulla sua persona perché io conosco di lei quel che mi interessa: quello che risuona fra noi attraverso le parole dei suoi racconti. Io so che è donna perché nelle sue pagine sente, soffre e si tortura una donna; un uomo al massimo è in grado di capirle quelle pagine, non credo di scriverle, neppure quel camaleonte di Tolstoj che con la Karenina non ha fatto un cattivo lavoro. Io vorrei sapere: cosa legge, cosa le piace leggere? La conosce Paula Fox di “Quello che rimane”? È una scrittrice che mi piace quanto Lei, nelle sue storie c’è un’analoga, terribile, picevolissima suspence; la traduce in italiano, benissimo, un uomo: ecco al massimo capirei che lei fosse quell’uomo e che fosse rimasto intrappolato nelle sue atmosfere, un po’ alla “Zelig”. Saluti grati Cristiana
Cara Cristiana, la ringrazio per le parole incoraggianti. Mi ha colpito soprattutto una sua formula: “quello che risuona tra noi”. Anche a me piacciono i libri per quello che di loro risuona tra noi. Mentre scrivevo “La figlia oscura”, leggevo un vecchio racconto, “Olivia”, pubblicato da Einaudi nel 1959 e tradotto da Carlo Fruttero. Il racconto è uscito anonimo nel 1949, dalla Hogarth Press di Londra. Anche se non sappiamo niente di chi l’ha scritto, a me pare che abbia pagine di buona risonanza e glielo consiglio. Quanto a “Quello che rimane” di Paula Fox, la ringrazio per l’accostamento ma è troppo generosa. “Quello che rimane” è un libro che amo per la sua intensità narrativa. Dalla sua ricchezza di senso mi sento molto lontana.

 

Carissima Elena Ferrante, ho letto “I giorni dell’abbandono” e potrei dire che lei è donna in quanto ci si sente proprio così quando si viene abbandonate da quegli esseri senza cuore che sono gli uomini, tuttavia potrebbe essere anche un uomo perché ce ne sarà pure uno consapevole del male che fa e penso al grande Tolstoj della “Sonata a Kreutzer”: complimenti in ogni caso, ci sveli se vuole l’enigma o sennò l’arte è superiore in ogni caso
sua Mariateresa Gabriele

Cara Mariateresa, la ringrazio per aver letto “I giorni dell’abbandono”. Non credo che l’arte, come lei dice, possa prescindere dall’artefice. Credo anzi che chi scrive finisca, che lo voglia o no, interamente nella sua scrittura. L’autore c’è sempre ed è nel testo, che perciò ha tutto il necessario per risolvere gli enigmi che contano. Quelli che non contano è inutile porseli.

 

Cari amici di Fahreneit, vi scrivo per segnalarvi una circostanza quanto meno singolare, in relazione alla protagonista Leda dell’ultimo libro di Elena Ferrante, “La figlia oscura”, che ancora non ho letto, ma che mi sarà presto regalato. Ebbene, io vivo a Napoli, mi chiamo Leda, sono laureata in inglese (insegno e traduco), sono divorziata da alcuni anni e ho due figli, ormai adolescenti. Mi è sorto un dubbio, la misteriosa Elena (che secondo la mitologia è figlia di Leda ) è forse qualcuno che mi conosce? Con simpatia e stima, Leda
Cara Leda, che dirle? Chi scrive un racconto spera che le lettrici e i lettori trovino motivo di identificazione non solo nei dati anagrafici dei personaggi. Quando avrà letto il libro, mi scriva e mi dica se le affinità con la mia Leda hanno varcato la soglia del nome. Ci tengo, visto che lei è una lettrice che promette di dare molta soddisfazione. In poche parole tra parentesi ha fatto un’osservazione per me importante. Ho scelto il nome Leda non casualmente. Leda – lo sanno soprattutto gli studenti di liceo e i pittori – è la ragazza a cui Zeus si unisce sotto forma di cigno. Ma se le lettrici e i lettori interessati vanno a vedere, per loro divertimento, nel terzo libro della Biblioteca di Apollodoro (è un volume Mondadori, Fondazione Lorenzo Valla), scoprono che, in una versione meno nota del mito, Leda è al centro di una complicata, moderna vicenda di maternità. La vicenda è la seguente. Zeus si sarebbe unito in forma di cigno non a Leda ma a Nemesi, che per sfuggirgli si era mutata in oca. “Dall’unione” sintetizza Apollodoro “Nemesi partorì un uovo che un pastore trovò nei boschi e portò in dono a Leda; Leda lo custodì in un’urna e, a tempo debito, nacque Elena che lei allevò come sua figlia”. Questa Leda e questa Elena, la sua figlianon figlia, mi hanno suggerito i nomi di due dei personaggi della “Figlia oscura”. Se leggerà, vedrà.

 

Di Elena Ferrante ho letto “L’amore molesto”, “I giorni dell’abbandono”, “La frantumaglia”. Diversi per struttura ideativa e composizione tecnica, dei due romanzi ho amato moltissimo “I giorni dell’abbandono”, per la scrittura spigolosa e appuntita. Scarnificare la lingua significa, per la Ferrante, scarnificare i concetti dove ridurre all’osso non equivale, tuttavia, ad una semplificazione ma ai risultati di una accurata analisi introspettiva, che lascia sospese per la riflessione le questioni di fondo: la solitudine, l’elaborazione del dolore, l’amore. In questo esercizio di feroce, inesausta ricerca di senso, la scrittura scolpisce stati d’animo e sentimenti, esibendone contraddizioni e ambiguità. Alcune domande: cosa legge Elena Ferrante? Quale il suo rapporto con i classici, la tragedia greca in particolare? Cosa pensa del rapporto letturascuola? Grazie Roberta Costantini
Cara Roberta, la ringrazio per le buone parole. Sono stata una lettrice accanita e ho scritto parecchio sul mondo classico da ragazza, per mio piacere e per motivi di studio. Nei tragici, specialmente in Sofocle, trovo sempre qualcosa, anche poche parole, che mi accendono la fantasia. Quanto al rapporto della scuola con la lettura so poco o niente. Dal mio osservatorio di madre posso dire che conta molto la sensibilità degli insegnanti. Un insegnante che non ama la lettura comunicherà quel disamore anche se si rappresenta, davanti ai suoi alunni, come un accanito lettore.

 

Gentile Scrittrice Elena Ferrante, non ho letto i suoi libri, pertanto immagino che la sua scrittura sia importante, piacevole e valida, dai films che ho visto che mi sono piaciuti, oltre che per la validità di detti films, per le problematiche che sollevano. Raramente ho letto analisi così profonde sui sentimenti e l’interiorità di noi donne. La nostra sofferenza interiore viene congedata con una frase offensiva :”Isteria”. Su ciò che provoca l’isteria, silenzio assoluto. La ringrazio per aver illuminato il nostro sottosuolo che, sono sicura, ci aiuterà a crescere e a farci rispettare. Io mi riconosco in ciò che lei porta in superficie. Anch’io, quando i miei figlioli (un maschio 48enne una femmina 42enne), se ne sono andati per la loro strada, ho incominciato a vivere e ad apprezzare l’azzurro del cielo. Lo stesso è stato quando ho preso coscienza che l’amore per mio marito non aveva ragione di essere. Al pari di Olga, dopo il dolore e il precipitare nell’abisso della sofferenza, ho compiuto i primi passi nell’autostima. Mi dispiace un po’ che lei abbia deciso di non palesarsi, qualcuno ha insinuato che dietro al suo anonimato ci sia un uomo, Goffredo Fofi. Sono fermamente convinta che quando ci si può guardare negli occhi tutto diventa più tangibile. La mia stima, sugli argomenti che lei tratta, non cambierà qualsiasi sia la sua corporalità. Ora che fahrenheit ha attirato la mia attenzione su di lei, leggerò i suoi scritti, in definitiva è ciò che conta. Cordiali saluti
Il corpo è tutto quello che abbiamo e non bisogna sottovalutarlo. I film che ha visto sono appunto, letteralmente, un “dare corpo” a ciò che c’è nella scrittura dei libri. Sono convinta, però, che una pagina abbia in potenza più corpo di un film. Bisogna attivare tutte le nostre risorse corporali di scrittori e di lettori per farla funzionare. Scrivere e leggere è un grande investimento di corporalità. Nella scritturalettura, nel comporre segni e nel decifrarli, c’è un coinvolgimento del corpo che gareggia solo con la scrittura della musica.

 

Grazie Elena, con i tuoi libri, soprattutto l’ultimo, sei riuscita a chiarire, a colmare, anche solo per un attimo, facendoci sentire meno sole, i vuoti delle vite di noi donne, madri, figlie e lavoratrici di questo tempo ingrato. Anche il mio compagno ha amato molto il tuo libro che ci ha dato spunto per riflettere ancora una volta su aspetti a volte confusi, altre incoffessabili dell’esistenza. Elisabetta
Cara Elisabetta, la ringrazio per il verbo “colmare”, è bello se usato per dire un effetto della lettura. Un libro per me deve provare a incanalare materia viva, magmatica, e perciò non facilmente riducibile alle parole e a quel genere, fondamentale per la nostre esistenze, che è la confessione.

 

Cosa pensa Elena Ferrante di questioni sociali come l’eutanasia? Che posizione ha sul caso Welby? E, più in generale, non pensa che per un intellettuale (quindi anche per uno scrittore) sia importante (se non addirittura un dovere) la partecipazione al dibattito pubblico sui grandi temi della vita civile? Roberta, Genova
Cara Roberta, penso che quando restare in vita è puro dolore o, peggio ancora, è la negazione di tutto ciò che consideriamo vita umana, il colpo di grazia – potente espressione di generosità, se preso nella sua lettera – vada sancito come un diritto fondamentale. Le devo dire però che esprimermi così, in poche parole schematiche, su un tema delicatissimo mi pare frivolo. L’ho fatto in questa occasione, non lo farò più. Bisogna sicuramente partecipare alla vita pubblica, ma non ricorrendo a formule d’occasione oggi su un argomento, domani su un altro.

 

Tutti i suoi libri, compreso l’ultimo, sono caratterizzati dal tema dell’abbandono, dei distacco, della separazione. È una sua ferita personale? Oppure ritiene che l’incapacità di stare insieme, di vivere un progetto comune, sia un tema forte, rappresentativo del nostro tempo? Dario Martella (Roma)
Caro Dario, io aderisco all’idea che bisogna scrivere di ciò che ci ha segnato a fondo. Tanto meglio, poi, se il racconto delle nostre ferite più insanabili cattura un po’ di quello che una volta si chiamava ampollosamente lo spirito del tempo.

 

Cara Elena Ferrante, siamo stati invitati a non fare domande sul tema della sua identità, ma la tentazione è forte. Aggiro il problema domandandoLe quale dei suoi tre romanzi è più autobiografico. In quale dei suoi personaggi (forse nell’ultimo, bellissimo, di Leda) si riconosce di più? Alberta
Cara Alberta, sento Delia, Olga e Leda, personaggi di finzione, come donne molto diverse tra loro, ma mi sento vicina a tutt’e tre, nel senso che ho con loro un rapporto intenso di verità. Credo che, nella finzione, si finga molto meno che nella realtà. Nella finzione diciamo, riconosciamo, di noi, ciò che per convenienza nella realtà tacciamo, ignoriamo.

 

Elena Ferrante, non so quanti anni abbia, né dove viva. Ma posso chiederle, secondo la sua esperienza, cosa sta succedendo alla mia (nostra?) città? A cosa si deve questa esplosione di violenza? E come si può arginare questo degrado? Alice Santosuosso (Napoli)
Niente di più e niente di meno di ciò che succede da decenni: un intreccio sempre più vasto e articolato tra illegalità e legalità. Il fatto nuovo non è l’esplosione di violenza, ma come Napoli, coi suoi problemi annosi, sia attraversata dal mondo e stia dilagando per il mondo.

 

Cara Elena Ferrante che bella opportunità, questa che ci viene offerta dalla sua casa editrice: scriverle e ascoltare per radio le sue risposte. Ne approfitto all’istante, perché un filo invisibile ci lega in un progetto narrativo che lei risolve con le parole io invece con le immagini. Le molecole sospese, quelle che danno agli artisti la possibilità della percezione devono essersi appoggiate, su di noi o almeno su certi temi, allo stesso modo. Tempo fa, quando la mia esperienza di mamma supplente si apriva nel suo pieno processo di responsabilità trasformando la mia solidarietà in impegno effettivo, ho sentito il bisogno di raccontare. Fare da madre e non essere madre, sentirsi divisa fra volontà e paura, sola e nessuna categoria d’appartenenza. Mi guardavo attorno e ripescavo nella memoria la mia infanzia e il rapporto con mia madre. Cercavo immagini per dare una struttura narrativa, che solo ora dopo “La figlia oscura” mi appare chiara, alle logiche scenografiche che giorno per giorno si componevano sui fogli. Tutto è partito dalle foto, dalle fotografie in bianco e nero che si facevano al mare. Sulla sabbia ho composto le scene. Bambine sedute in pose anni ’50, Barby sepolte fra palette e secchielli, Barby mamme grandi e colorate come totem di plastica, bambine che avanzano, bambine che suonano piani di sabbia. Piani, primi piani, programmi d’azione. Per un anno intero non ho fatto altro, moltissimi disegni, un po’ in tutte le tecniche, lavori illustrativi, graficamente passabili ma artisticamente imbarazzanti perché raccontavano il mio disagio. Produrre immagini come terapia per riprovare a crescere. Figlie oscure senza mamme e mamme bambole nascoste nella sabbia. L’altro giorno ho riaperto la cartella e ho capito che quei lavori erano il mio modo di affrontare il tema della maternità e tutte quelle mie bambole (sepolte nella sabbia, mamme o amiche, sorelle) sono come i personaggi del suo libro. La bambola, Leda, Elena, Nina, Marta, Bianca …. Con infinita stima, Miriam
Cara Miriam non credo che sul piano artistico ci sia mai qualcosa di imbarazzante. È lei, persona privata, che dopo la fase dell’espressione artistica, si ritrova con se stessa, con la sua normalità, e ha un’impressione di impudicizia. In questo la capisco e la sento vicina. Sono interessata a questo suo manipolare bambole e sabbia. Se vuole, mi invii qualche foto. So poco della simbologia delle bambole, ma mi sono convinta che esse non sono solo la miniaturizzazione dell’essere figlie. Le bambole ci sintetizzano come donne, in tutti i ruoli che il patriarcato ci ha assegnato. Se le ricorda le bambolesuore della futura monaca di Monza? A me interessava raccontare come reagisce oggi una donna colta, “nuova”, a stratificazioni simboliche di lunga data.

 

Gentile signora Ferrante, le scrivo dopo aver letto l’intervista che ha concesso a Repubblica. Di suo, sinora, ho letto solo “I giorni dell’abbandono”, scegliendo in una fase successiva di vedere il film. E come spesso capita, il passaggio da una arte all’altra mi ha lasciata insoddisfatta… nonostante la buona riuscita della pellicola, mi sono sentita orfana della sua scrittura. Come tutti, ignoro il suo vero nome, e persino il suo sesso. E ammetto che ne sono felice. Non è solo che in questo modo lei si è garantita la libertà di tutelare la sua intimità, riuscendo ancora di più a scavare nelle sue storie, come ha spiegato. Questa sua scelta garantisce anche noi lettori, ai quali lei parla da “autore assoluto”, facendo cambiato quello che c’è da cambiare quello che hanno fatto Battisti e Mina… Sgomberato il campo dal carico oneroso dell’immagine, rimane per noi “solo” quello che lei scrive. “Solo” su questo dobbiamo concentrarci. Ed è davvero tanto in un mondo nel quale immagini e notorietà schiacciano contenuti e identità. Mentre leggevo “I giorni dell’abbandono” (libro di cui mi sono ritrovata un paio di mesi fa a parlare con una collega, reduce dal naufragio del matrimonio per adulterio di lui, e con una donna ovviamente più giovane) anche la sua scrittura mi è sembrata “assoluta”. A volte difficile e dura, in quel suo essere tesa e analitica, ma sempre e solo “assoluta”. Se lei è una donna, in lei l’emotività non si trasforma in piagnisteo sentimentalista. Se lei è un uomo, è riuscito a comprendere e a descrivere senza fuorvianti pietismi sessisti. Per me, mamma di una bimba di tre anni, moglie a volte schiacciata da una routine stressante, figlia Cassandra incompresa, giornalista non in carriera, donna ormai sopra i quaranta ma alla perenne ricerca di equilibrio e identità, sono state particolarmente importanti le riflessioni sul periodo in cui la protagonista svezzava i figli, sull’odore delle pappe e del latte che si appiccica alle carni, al punto da esserne una opprimente emanazione. Le sono grata per quello che ha scritto, per tante ragioni, troppo lunghe e noiose perché le spieghi. E in realtà non credo neanche che ce ne sia bisogno che lei sia donna o uomo, solo figlia/o o anche madre/padre. Della sua intervista ho amato particolarmente la parte finale, quella relativa a Napoli. Non so se realmente lei sia nata/o nel capoluogo campano, o se l’abbia deliberatamente eletto a terra madre per una scelta di campo. Ma da meridionale sono originaria di Bari apprezzo il grande rispetto verso quella terra e le sue “emergenze”. Nei giorni in cui tenevamo la triste contabilità dei morti ammazzati, si sparava e uccideva anche a Milano e nell’hinterland, e nessuno si è sognato di parlare di emergenza per quegli omicidi. Una ventina di anni fa ero negli Stati Uniti conobbi un giovane palermitano. Insegnavo italiano agli studenti di un college, e invitai quel ragazzo a parlare con loro di Palermo, e quindi anche della mafia. “La mafia non è una accolita di siciliani ignoranti con la coppola e la lupara. È una multinazionale, che fa affari e muove capitali al sud come al nord come al centro, come all’estero” raccontò ai miei studenti. Non so cosa sia restato in quei giovani americani di quella “lezione”. So che ci penso ogni volta che mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita, e soprattutto gli arresti di latitanti eccellenti invadono le nostre cronache. Perché pochi riescono a parlare del nostro sud ma dovrei dire di tutti i “sud” resistendo alla tentazione di dipingere se stessi con sfumature bucoliche in un folkioristico quadretto sudista che certifichi apertura mentale e non convenzionalismo (“amo il sud, e quindi sono di ampie vedute”). E anche per questo dalla sua intervista ho ricevuto in modo più urgente l’impulso a leggere il libro di Saviano… Per il resto, la ringrazio per averci regalato, negli attimi sospesi dei suoi romanzi, parole ricche di senso e contenuto. Mafalda Caccavo
Cara Mafalda, la ringrazio molto per la sua lettera. Mi piace questo suo ragionare col “se” e col doppio pronome. Io credo che bisognerebbe fare così con tutti gli autori di libri. Non penso tuttavia che sia possibile un “autore assoluto”. Di assoluto a questo mondo non c’è niente, nemmeno nel fondo più fondo della nostra biologia. Naturalmente la differenza sessuale è decisiva e io so che i miei libri non possono essere che femminili. Ma so anche che non è concepibile un’assolutezza femminile (o maschile). Siamo vortici di detriti, trombe d’aria che trascinano frammenti di provenienza storica la più diversa. Questo ci fa meno male incoerenti, complessi, non riducibili a uno schema senza che molto, moltissimo, resti fuori. I racconti tanto più sono efficaci, quanto più sono parapetti da cui si può guardare quello che resta fuori.

Fu tra i pochi ad avere la possibilità di guardare le cose da entrambi i lati della frattura in cui le sue eroine finivano per sparire Ang Lee
A soli ventitré anni l’autrice cinese aveva già scritto il suo capolavoro: “La storia del giogo d’oro” esce ora da Rizzoli, tradotto per la prima volta. È una trasfigurazione dei drammatici contrasti famigliari tra i quali Zhang Ailing è cresciuta: sua madre, infatti, ancora prima di pretendere il divorzio fuggì in Inghilterra dal marito diviso tra l’oppio e le sue concubine
Tommaso Pincio

Una scrittrice leggendaria, così viene solitamente definita Zhang Ailing. È sufficiente una scorsa veloce ai suoi ritratti fotografici per farsi un’idea del perché. Le studiate posture che è solita assumere davanti all’obiettivo sono chiaramente quelle di una donna fin troppo consapevole della sua naturale eleganza. Ma è altrettanto palese che, malgrado il modo impeccabile di acconciarsi, in Zhang Ailing c’è qualcosa che non va. Lo sguardo punta quasi sempre altrove, il sorriso è sempre solo accennato e tirato, l’espressione del volto, velata da un’ombra appena percettibile di diffidenza, la fa sembrare distante. Dà l’impressione di una persona che per qualche ragione si è prematuramente indurita, e ciò non fa che accrescerne il fascino.
Infanzia e prima giovinezza furono tutt’altro che facili. Zhang Ailing nacque all’inizio dei ruggenti anni Venti del secolo scorso in una Shanghai che somigliava ogni giorno di più a una città occidentale. Aveva antenati importanti. Suo nonno paterno era figlio di un influente statista della corte dei Qing. Sua madre proveniva invece da una ricca famiglia dello Hubei, una regione della Cina centrale. In casa tirava però una brutta aria; quando la piccola Zhang aveva appena cinque anni e si chiamava ancora Ying – in Cina i nomi non sono per tutta la vita -, sua madre partì per l’Inghilterra non tollerando la passione del marito per oppio e concubine. Fece ritorno quattro anni più tardi, ma le reiterate e mai mantenute promesse del marito di cambiare registro resero inevitabile il divorzio.
Dalla vita al romanzo
Nonostante la forte opposizione paterna, la madre fece in modo che la piccola Zhang frequentasse una delle più prestigiose scuole occidentali per ragazze di Shanghai, e le diede un nome inglese, Eileen, che trascritto in cinese sarebbe diventato poi Ailing. Fu proprio durante il liceo che la giovane rivelò il suo eccezionale talento letterario. Nel 1939 lo scoppio della guerra le impedì di completare gli studi a Londra come sperava. Fu obbligata a optare per l’università di Hong Kong dove ottenne comunque importanti riconoscimenti e condusse una vita ricca di stimoli. Ma con una madre fuggita a Singapore e un padre tirannico e perso tra i fumi dell’oppio, Zhang Ailing non poteva che guardare con sfiducia alle relazioni di coppia; questo suo cupo pessimismo la porterà fin da subito a scrivere amare storie d’amore.
A soli ventitré anni, la ragazza aveva già partorito il suo capolavoro nonché uno dei racconti più belli della letteratura cinese in assoluto. La storia del giogo d’oro (pubblicato ora per la prima volta in Italia da Rizzoli, traduzione, note e postfazione di Alessandra Cristina Lavagnino, pp. 139, Euro 8,60) è chiaramente una trasfigurazione dei drammatici contrasti famigliari tra i quali l’autrice è cresciuta. Vi si narra di come la bella Qiqiao, resa sempre più perfida dalle circostanze e soprattutto dalla sua insofferenza, trascini se stessa e chi le è accanto verso una infelicità senza rimedio.
In principio Qiqiao è una modesta ragazza di campagna disposta a sposare un uomo gravemente malato e a fargli da balia pur di entrare in una ricca famiglia di Shanghai. La giovane è convinta che dopo qualche anno di sacrificio otterrà quel che lei vuole, la ricchezza. Qiqiao fatica però a integrarsi in un ambiente sociale che non le appartiene. I modi bruschi e la mancanza di tatto sono poco graditi in una famiglia dove vigono ancora i complessi rituali gerarchici della Cina tradizionale.
Qiqiao si convince così che in casa nessuno la comprende né apprezza i suoi sacrifici di donna sposata a un mezzo invalido. “Chi mai mi è stato grato? Chi mi ha reso la metà di quel che ho fatto?” – si domanda. Cerca di sedare la rabbia fumando oppio, ma è troppo inquieta perché un simile rimedio possa bastare a placarla. Trascorre quindi il suo tempo facendo dispetti e seminando veleno, in un’infinità di piccole vendette domestiche su chiunque ritenga responsabile delle sue sofferenze, e siccome la felicità altrui è per lei fonte di dolore, presto o tardi tutti i membri della famiglia vengono individuati come responsabili. Con la morte del marito, giunge il momento in cui Qiqiao capisce di non avere più alcuna speranza di ottenere quel per cui si è sacrificata. Ora non le rimane altro che vivere per fare del male al prossimo. Dai semplici dispetti passa a ordire morbose e crudeli trame ai danni dei figli affinché non possano mai affrancarsi dalla sua nefasta influenza.
Il lento scivolare di Qiqiao verso la più lucida e nera delle follie copre un arco di decenni che Zhang Ailing condensa però in cento pagine scarse. In più di un’occasione, il passaggio da un paragrafo all’altro segna un salto di anni nell’esistenza di questa indimenticabile dark lady. Tuttavia il racconto mantiene una pacata e strana continuità. Nonostante il racconto inghiotta grosse fette di tempo in poche righe, la scrittura rimane comunque composta e attenta ai dettagli più minimi, quasi si apprestasse a descrizioni destinate a protrarsi per pagine e pagine. È un contrasto efficace e che rende con estrema vivezza il perverso percorso che porta Qiqiao a bruciare la propria esistenza in un’insensata e grande vendetta, fatta di minuscole perfidie quotidiane. Che passino dieci anni o un giorno, per lei non fa differenza. A parte qualche ruga in più, Qiqiao è sempre uguale a se stessa, sempre chiusa in casa ad accanirsi sugli altri, sempre prigioniera del proprio rancore.
Desolazione, una parola chiave
Con La storia del giogo d’oro e altre novelle di tenore analogo, la giovane scrittrice conosce un immediato successo. Siamo nei primi anni Quaranta: la guerra dilaga, Hong Kong cade nelle mani dei giapponesi, lo scontro tra la Cina millenaria e la modernità occidentale si fa intenso. Cresciuta con un padre tenacemente ancorato alle tradizione e una madre cosmopolita, Zhang Ailing è l’interprete perfetta delle ansie del periodo. “Un giorno la nostra civiltà, magari sublimata oppure svanita, apparterrà comunque al passato. E se la parola che uso più sovente è ‘desolazione’ è a causa di questa diffusa minaccia che grava come sfondo sui nostri pensieri”.
Nel 1944 la scrittrice sposa Hu Lancheng, un uomo del quale è fortemente innamorata malgrado sia considerato un traditore per via delle sue simpatie verso i giapponesi. Il destino sembra però voler dare ad Ailing una ragione in più per non fidarsi dell’amore. Lancheng si concede una scappatella dietro l’altra e dopo soli tre anni il matrimonio finisce. Tracce di questa relazione si ritrovano nel racconto di amore e spionaggio Lust, Caution che il regista Ang Lee sta per portare sul grande schermo, tornando così a realizzare un film di ambientazione cinese dopo tante pellicole americane come Hulk e I segreti di Brokeback Mountain (il racconto verrà pubblicato in Italia il prossimo anno sempre da Rizzoli).
L’avvento della Repubblica Popolare trova Zhang Ailing ancora nella sua amata Shanghai, ma la nuova Cina di Mao si attaglia decisamente poco al marcato individualismo della donna. Dopo un breve periodo a Hong Kong, durante il quale un ente governativo americano le commissiona due romanzi da usare come propaganda anti-comunista, nel 1955 lascia per sempre la madrepatria ed emigra negli Stati Uniti. A New York incontra e sposa lo sceneggiatore Ferdinand Reyer che di lì a pochi anni rimarrà paralizzato in seguito a un infarto.
All’inizio degli anni Settanta, dopo la morte del secondo marito, si stabilisce a Los Angeles alternando l’attività di scrittrice a quella di sceneggiatrice per il cinema di Hong Kong. Riscrive inoltre in inglese i suoi racconti di gioventù e al contempo si dedica alla traduzione di uno dei più importanti romanzi della letteratura cinese, Haishangua liezhuan, un imponente affresco del quartiere del piacere di Shanghai, scritto sul finire dell’Ottocento da Han Bangqing. Attraverso le storie di varie prostitute e dei loro clienti, l’autore – egli stesso assiduo frequentatore di bordelli – scandaglia la complessa natura di un mondo regolato dalla simulazione, dove il desiderare e l’essere desiderati è più una schermaglia da palcoscenico che un’avventura di autentica passione.
Laddove Anna Karenina, Emma Bovary e le altre eroine dell’Ottocento europeo sono reali e credibili perché la loro passione rimane schiacciata tra i doveri coniugali e l’adulterio, le prostitute di Han Bangqing sono state invece addestrate a incarnare l’ideale femminino dell’incostanza. Il loro lavoro è quello di ricordare agli uomini la volubilità dei sentimenti amorosi, il che ne fa, sotto certi aspetti, personaggi più reali e credibili delle loro colleghe europee. Queste donne e i loro commerci sono inoltre l’anima di Shanghai. Chiamata spesso la “puttana d’Oriente”, la città ha un peso determinante nel confronto tra realtà e desiderio. Coi suoi mille volti, Shanghai appare misteriosa e seducente. Può tuttavia rivelarsi fatale e pericolosa non soltanto per le centinaia di sprovvedute ragazze che, accorse dalle campagne, precipitano in un abisso senza ritorno, ma per chiunque. Lo stesso Han Bangqing era un immigrato rimasto irretito dalla magia lussuriosa di questo mondo a parte della Cina dove denaro, amore, potere, corpi umani e beni materiali possono costituire merce di scambio di un unico grande commercio. Del resto, vorrà pur dire qualcosa se ancora oggi l’espressione inglese Shanghai woman è sinonimo di prostituta.
Come nota Zhang, lo stile è tutt’altro che sensuale, ed è proprio questa qualità a rendere il romanzo unico nel suo genere nonché una sorta di anticipazione di quel realismo psicologico che nei decenni diverrà uno dei segni prevalenti della narrativa; qualcuno ha perfino parlato di un Ulysses cinese. Ciò nonostante il libro non ha mai conosciuto una grande diffusione, forse per via del fatto che molte parti sono scritte in dialetto e dunque incomprensibili per gran parte dei cinesi. Zhang Ailing cerca di porvi rimedio traducendo queste parti in mandarino, nel frattempo si dedica a un progetto ancora più ambizioso, tradurlo anche in inglese. L’impresa non è sicuramente di poco conto, considerata anche la ragguardevole mole del libro. Nel 1982 due dei sessantaquattro capitoli appaiono su una rivista letteraria di Hong Kong. Poi più nulla. Zhang Ailing muore senza dare più notizie della traduzione che viene così data per incompiuta e perduta per sempre.
Qualche anno dopo, rovistando tra le sue carte spunta un manoscritto che necessita di essere rivisto. Se ne prendono cura in molti, prima fra tutti Eva Hung, e nel settembre dello scorso anno il romanzo approda finalmente nelle librerie americane con il titolo The sing-song girls of Shanghai (Columbia University Press, pp. 554, $ 29,50).
L’angelo caduto della letteratura cinese
Com’è facile immaginare, nella Cina maoista l’opera di Zhang Ailing fu giudicata incompatibile con gli ideali “rivoluzionari”, rimanendo così bandita per lungo tempo. Ma i tempi cambiano in ogni angolo del pianeta; nel 1984 venne ristampata proprio La storia del giogo d’oro e fu un successo immediato. In fondo, non avrebbe potuto essere altrimenti: la Cina di fine millennio era un paese dove vivevano anime contrapposte, simile alla Shanghai di Zhang Ailing, la prima città moderna del “paese di mezzo”. Il regista Ang Lee ritiene che “la lingua di Zhang Ailing, affilata come la lama di un coltello, abbia aperto una enorme frattura nella cultura cinese tra il patriarcato classico e la nostra inquieta modernità. Fu una dei pochi, all’epoca, ad avere la possibilità di guardare le cose da entrambi i lati di questa frattura in cui le eroine dei suoi racconti finivano spesso per sparire. Zhang Ailing è l’angelo caduto della letteratura cinese”.
Questa riscoperta lasciò però indifferente la diretta interessata, ormai sempre più chiusa in se stessa. Trascorrerà la parte finale della sua vita lontano da tutto e tutti, in una reclusione tanto estrema da farle guadagnare l’epiteto di Greta Garbo della letteratura cinese. Diventata una leggenda, Zhang Ailing venne trovata morta l’8 settembre 1995 nel suo appartamento di Los Angeles. Dopo la cremazione senza alcun rito funebre, le sue ceneri vennero sparse nell’Oceano Pacifico poiché queste erano le sue ultime volontà. Su un quotidiano apparve il seguente necrologio: “Non ci sono superstiti”.

“Non mi limito a esprimere me stessa: creo me stessa”. Così Susan Sontag, una delle più grandi intellettuali americane del Ventesimo secolo, parla del rapporto con il suo diario inedito. Dei fogli trovati dopo la morte, questa è una selezione del periodo tra il ´58 e il ´67. Ricordi, ritratti da Sartre a Mailer, ma anche confessioni su omosessualità, amori, cadute e quelli che chiama i “luoghi morti” del sentimento
La vita interiore si oscura, tremola e comincia a spegnersi se si cerca di tenersi stretti a qualcosa
Sola, sola, sola Ho il cervello stanco e il cuore che fa male Dov´è la pace, il centro?

Susan Sotang

29 dicembre 1958, ParigiSt. Germain des Prés. Non proprio lo stesso che il Greenwich Village. Tanto per cominciare, a Parigi gli espatriati (americani, italiani, inglesi, sudamericani, tedeschi) hanno un ruolo diverso, sono più preoccupati della loro identità rispetto ai provinciali (per esempio i ragazzi di Chicago, della West Coast, del Sud) che si trasferiscono a New York, dove non c´è nessuna incrinatura nell´identità nazionale, o incapacità di identificazione. Stessa lingua. Si può sempre tornare a casa. E, in ogni caso, gli abitanti del Village sono perlopiù Newyorchesi – esuli interni, se non addirittura cittadini.La routine dei caffè. Dopo il lavoro, o dopo aver cercato di scrivere o dipingere, si va in un caffè in cerca di gente che si conosce. Preferibilmente con qualcuno, o quanto meno dopo aver preso un appuntamento preciso… Bisognerebbe andare in vari caffè – in media quattro – nella stessa serata.A New York (Greenwich Village), poi, si ha in comune la commedia dell´essere ebrei. Anche questo manca nella boheme di qui. Non così heimlich. Nel Greenwich Village, gli italiani – lo sfondo proletario su cui gli ebrei sradicati e i provinciali mettono in scena il loro virtuosismo intellettuale e sessuale – sono pittoreschi ma piuttosto innocui. Qui, arabi turbolenti e predatori. […]I ratés, gli intellettuali falliti (scrittori, artisti, presunti studiosi). Le persone come Sam Wolfenstein [matematico, ndr], con l´andatura zoppicante, la cartella, i giorni vuoti, l´ossessione per i film, la taccagneria e l´orrido nido familiare da cui fuggire, mi terrorizzano. […]Harriet [Sohmers, scrittrice e modella per artisti]. Splendido fiore della boheme americana. New York. Ebrea. Appartamenti di famiglia dalle parti della 70ma e dell´80ma strada. Padre di ceto medio nel commercio (non un professionista). Zie comuniste. Anche per lei passeggera infatuazione per il Partito Comunista. Cameriera negra. New York High School, New York University, college sperimentale con pretese artistiche, San Francisco, appartamento nel Greenwich Village. Precoci esperienze sessuali, negri inclusi. Omosessualità. Scrive racconti. Promiscuità sessuale. Parigi. Vive con un pittore. Il padre si trasferisce a Miami. Frequenti viaggi per tornare in America. Lavori notturni da espatriata. La scrittura si dirada.30 dicembreLa mia relazione con Harriet mi turba. Io vorrei che non fosse pensata, premeditata, ma l´ombra delle sue aspettative rispetto a ciò che dovrebbe essere una “storia” sconvolge il mio equilibrio, mi fa annaspare. Lei con le sue insoddisfazioni romantiche, io con i miei bisogni e i miei desideri romantici… Un dono inatteso: che è bella. La ricordavo decisamente non bella, piuttosto volgare e poco attraente. È tutto fuorché questo. E per me la bellezza fisica è enormemente, quasi morbosamente, importante.Sul Tenere un Diario. Superficiale intendere il diario solo come il ricettacolo dei propri pensieri privati, segreti – come se fosse un confidente sordo, muto e analfabeta. Nel diario non mi limito a esprimere me stessa più apertamente di quanto potrei farei con un´altra persona; creo me stessa.Il diario è un mezzo per darmi un senso d´identità. Mi rappresenta come emotivamente e spiritualmente indipendente. Perciò (purtroppo) non registra semplicemente la mia vita concreta, quotidiana ma piuttosto – in molti casi – ne offre una alternativa.C´è spesso una contraddizione tra il modo in cui ci comportiamo con una persona e ciò che in un diario diciamo di provare per quella persona. Ma questo non significa che quello che facciamo è superficiale, e che solo quello che confessiamo a noi stessi è profondo. Le confessioni, e naturalmente intendo le confessioni sincere, possono essere più superficiali delle azioni. Sto pensando adesso a quello che oggi (quando sono andata al 122 Bd. St-G per controllare la sua posta) ho letto su di me nel diario di H. – quel giudizio secco, sleale e ingeneroso su di me in cui dice in conclusione che non le piaccio veramente ma che la passione che io provo per lei è accettabile e opportuna. Dio sa se fa male, e sono indignata e umiliata. Raramente sappiamo ciò che gli altri pensano di noi (o, meglio, che pensano di pensare di noi…) Mi sento in colpa per aver letto quello che non era destinato ai miei occhi? No. Tra le principali funzioni (sociali) di un diario c´è proprio quella di essere letto furtivamente da altre persone, quelle persone (come i genitori e gli amanti) sui quali si è stati crudelmente sinceri solo nel diario. E H. lo leggerà mai, questo? […]Scrivere. È corruttore scrivere con l´intento di moralizzare, di elevare i principi morali degli altri.Nulla mi impedisce di essere una scrittrice se non la pigrizia. Una buona scrittrice.Perché scrivere è importante? È soprattutto questione di egotismo, suppongo. Perché voglio essere quella persona, uno scrittore, e non perché ho qualcosa da dire. E tuttavia perché non anche quello? Rafforzando un po´ il mio ego – come attraverso il fait accompli offerto da questo diario – conquisterò la certezza di avere anche io (io) qualcosa da dire, qualcosa che dovrebbe essere detta.Il mio “io” è gracile, cauto, troppo sano di mente. I buoni scrittori sono egotisti sfrenati, fino al punto della fatuità. Gli uomini sani di mente, i critici, li correggono – ma la loro sanità mentale è parassitica e vive della fatuità creativa del genio.2 gennaio, 7.30 a. m.Mio povero, piccolo ego, come ti senti oggi?Non benissimo, temo – piuttosto ammaccato, dolorante, traumatizzato. Calde ondate di vergogna, e tutto il resto. Non mi ero illusa pensando che fosse innamorata di me, ma ero convinta di piacerle. […]Stasera (ieri sera!) a casa di Paul ho veramente parlato in francese. Per ore e ore con lui e con i suoi gentilissimi genitori. Molto divertente!!19 febbraio.Ieri (nel tardo pomeriggio) sono andata al mio primo cocktail party parigino, a casa di Jean Wahl, in disgustosa compagnia di Allan Bloom. Wahl [filosofo] è stato all´altezza delle mie aspettative: un vecchietto esile e minuto, simile a un uccellino, con i capelli bianchi e una bocca larga e sottile, piuttosto bello, come lo sarà Jean-Louis Barrault [attore] a 65 anni, ma terribilmente distrait e sciatto. Abito nero cascante con tre larghi buchi sul fondo dei pantaloni attraverso cui si vedevano le mutande (bianche), e tornava allora da una conferenza pomeridiana – su Claudel – tenuta alla Sorbonne. Ha una moglie tunisina alta e attraente (con il viso rotondo e i capelli neri) che ha la metà dei suoi anni, tra i 35 e i 40, direi, e tre o quattro figli abbastanza piccoli. C´erano anche Giorgio de Santillana [storico della scienza]; due artisti giapponesi; delle vecchie signore rinsecchite con cappelli di pelliccia; un redattore di Preuves; bambini di taglia media che sembravano usciti da un Balthus, in costumi da Mardi Gras; un uomo che assomigliava a Jean-Paul Sartre, ma più brutto e zoppicante, ed era Jean-Paul Sartre; e tantissime altre persone i cui nomi non mi dicono niente. Ho parlato con Wahl, con de Santillana e (inevitabilmente) con Bloom. L´appartamento – è in rue Peletier – è fantastico – le pareti sono interamente coperte da disegni, schizzi e dipinti fatti dai bambini e da amici artisti – ci sono mobili nordafricani scuri e intagliati, diecimila libri, tovaglie spesse, fiori, quadri, giocattoli, frutta – un disordine davvero bello, ho pensato.28 febIeri sera alla Sorbonne ho sentito Simone de Beauvoir parlare sul tema “il romanzo, è ancora possibile?”. È magra, tesa, scura di capelli e molto attraente per la sua età, ma ha una voce sgradevole, qualcosa a che fare con il tono alto e la rapidità nervosa con cui parla. Nel tardo pomeriggio ho letto Riflessi in un occhio d´oro di Carson McCullers. Furbo, davvero stringato e “scritto”, ma non mi convincono le motivazioni dettate da apatia, catatonia, empatia animale… (In un romanzo, voglio dire!)Inizio 1959, New York CityLa bruttezza di New York. Ma mi piace qui, mi piace persino Commentary [rivista a cui collaborava]. A NY la sensualità si trasforma completamente in sessualità – nessun oggetto che susciti la reazione dei sensi, non un bel fiume, belle case o persone. Odori terribili per strada, e sporcizia… Niente, se non il mangiare, forse, e la frenesia del letto. […]Adeguarsi alla città piuttosto che far sì che la città corrisponda meglio a se stessi.12 marzo, 4.15 p. m.Sono malridotta. Lo scrivo qui; lo scrivo lentamente e guardo la mia scrittura che sembra OK. Due vodka martini con Martin Greenberg [direttore di Commentary]. La testa mi pesa. Il fumo ha un sapore acre. Tony e un tipo dal volto molliccio (Mike Harrington) stanno parlando dello Stanford-Binets. Kleist è meraviglioso. Nietzsche. Nietzsche.19 novL´arrivo dell´orgasmo ha cambiato la mia vita. Mi sento liberata, ma non è questo il modo giusto di dirlo. Più importante: mi ha limitato, ha chiuso delle possibilità, ha reso chiare e nette le alternative. Non sono più illimitata, e cioè un niente.La sessualità è il paradigma. Prima, la mia sessualità era orizzontale, una linea infinita suddivisibile all´infinito. Ora è verticale; sale e ricade, oppure niente. […]L´orgasmo mi fa concentrare. Ho una gran voglia di scrivere. L´arrivo dell´orgasmo non è la salvezza ma, qualcosa di più, la nascita del mio ego. Non posso scrivere finché non trovo il mio ego. L´unico tipo di scrittore che potrei essere è il tipo che si espone… Scrivere è spendersi, giocarsi d´azzardo. Ma fino ad ora non mi era piaciuto nemmeno il suono del mio nome. Per scrivere, devo amare il mio nome. Gli scrittori sono innamorati di se stessi… e i libri che scrivono nascono da quell´incontro e da quella violenza.20 nov. (3 a. m.)Con nessuno sono mai stata così esigente come lo sono con la [drammaturga cubano-americana Maria] I[rene Fornés]. Sono gelosa di chiunque veda, sto male ogni minuto che è lontana da me. Ma non quando sono io a lasciarla, e so che lei c´è. Il mio amore vuole incorporarla totalmente, mangiarla. Il mio amore è egoista. […]Oggi dopo il lavoro ha incontrato Inez al San Remo. C´era anche Ann Morrisett [giornalista e drammaturga]. Dopo, al Cedar Bar. È tornata a casa alle 12.00; io dormivo… Si è messa a letto, mi ha raccontato le conversazioni della serata, alle 2.00 mi ha chiesto di spegnere la luce, si è addormentata. Io ero paralizzata, muta, gonfia di lacrime. Io fumavo, lei dormiva. […]24 dic.Il mio desiderio di scrivere è connesso alla mia omosessualità. Ho bisogno di quell´identità come di un´arma, da contrapporre all´arma che la società usa contro di me.Ciò non giustifica la mia omosessualità. Ma mi accorderebbe – lo sento – una certa licenza.Solo adesso mi sto rendendo conto di quanto mi sento in colpa d´essere omosessuale. Con H. ero convinta che la cosa non mi turbasse, ma mentivo a me stessa. Ho fatto in modo che gli altri (per esempio Annette [Michelson, studiosa di cinema]) credessero che il mio vizio fosse H., e che se non fosse per lei non sarei omosessuale, o almeno non prevalentemente. […]Essere omosessuale mi fa sentire più vulnerabile.28 dicFino ad ora avevo pensato che le sole persone che potessi conoscere a fondo, o amare veramente, fossero doppi o versioni del mio io infelice. (Le mie propensioni intellettuali e sessuali sono sempre state incestuose) Ora conosco e amo qualcuno che non è come me – e cioè non un´ebrea, non un´intellettuale newyorchese – senza nessuna perdita di intimità. Sono sempre consapevole del fatto che I. è straniera, dell´assenza di un background comune – e ne provo un gran sollievo.1960(frontespizio privo d´indicazione di data)Cogito ergo estFeb.Quante volte ho raccontato che Pearl Kazin ha avuto una storia importante con Dylan Thomas? Che a Norman Mailer piacciono le orge? Che [F. O.] Matthiessen era omosessuale? Tutte cose di pubblico dominio, certo, ma chi diamine sono io per andare a raccontare in giro le abitudini sessuali degli altri?Quante volte mi sono biasimata per quest´abitudine, che è solo un po´ meno offensiva di quella di riempirsi la bocca con i nomi di persone famose (quante volte ho parlato di Allen Ginsberg l´anno scorso quando lavoravo per Commentary?) o di quella di criticare gli altri quando sono invitata a farlo… Ho sempre tradito la fiducia degli altri. Non c´è da stupirsi se sono sempre stata così severa e scrupolosa nell´usare la parola “amico”!Sabato:sveglia alle 7Museo alle 10.30I. arriva all´1caffè e pranzo al Museo3.00 “Mancia competente”4.30-5.15 caffè con I.; parliamolei mi accompagna in taxi fino alla 118ma stradaprendo David [Rieff, il figlio della Sontag, che allora aveva sette anni]lascio I. nella 79ma strada – va a casa di Alfred [Chester, scrittore e critico letterario]do da mangiare a D; e lo metto a lettoA. telefona per convincermi ad andare al partyLeggo il Listener – chiamo Jack, Harriet – Esco alle 9.30Taxi fino alla 14ma strada – compro i biglietti per il film di [Kenneth] Anger – Pirandello party – me ne vado – Times SquareFilm con la Bardot – a casa alle 4Domenica:sveglia alle 7.00 – rabbiachiamo A. alle 9.00Jack viene a prenderci alle 9.15colazione da Rumpelmayerpasseggiata a Central ParkHotel Pierre con Jack, Ann e due amici (Jack e Harriet)taxi fino a casa di Alfredpranzo con I. e A. da BocceI. e io andiamo al Commonsparliamotorniamo da Alfred alle 6.45I. chiama Ann – andiamo tutti downtown, I. va da Ann, A., David e io al Frank´s Pizza. […]andiamo a prendere I. alle 8 in Hudson Stret – andiamo al cinema alla Carnegie Hall Playhouse10.30 – taxi fino a casa – messo D. a letto – I. vuole mangiare – sesso – senza parlare – dormire. […]Domenica:depressione, stanchezzaprendo la benzedrina alle 5.00taxi fino a Washington Square alle 6.00 per incontrare A.cena da Frank´spoi caffé al Reggio8 marzo (mezzogiorno)Attraverso la benzedrina, l´impatto sempre più penetrante di Irene, il Dr. Puroshottam [studioso indù] la settimana scorsa, le lezioni di oggi sull´etica di Spinoza, la lunga meditazione su Kant cominciata a ottobre, l´idea di ieri sulla differenza tra “la verità che” e “la verità su”.Non c´è stasi. Restare immobili è tradire la verità; la vita interiore si oscura, tremola e comincia a spegnersi, non appena si cerca di tenersi stretti a qualcosa. È come cercare di servirsi di questo respiro per il prossimo, o pretendere che la cena di stasera funzioni anche per mercoledì prossimo… La verità corre sulla freccia del tempo.8 agosto Lunedì mattina.Devo aiutare I. a scrivere. E se scrivo anche io, metterò fine all´inutilità di starmene seduta così a fissarla e a implorala di amarmi ancora. […]Fa male allora amare. È come accettare di farsi scorticare sapendo che in qualunque momento l´altra persona può andarsene via con la tua pelle.14 agostoNON DOVREI CERCARE DI FARE L´AMOREQUANDO SONO STANCA.DOVREI SEMPRE SAPERE QUANDO SONOSTANCA. MA NON LO SO.MENTO A ME STESSA. NON CONOSCOI MIEI VERI SENTIMENTI.(Ancora?!)3/12/61Prendere coscienza dei “luoghi morti” del sentimento – Parlare senza provare niente. (Cosa molto diversa dall´antica avversione che provavo per me stessa quando parlavo senza sapere niente.)Uno scrittore deve essere quattro persone:1) il pazzo, l´obsédé1) l´imbecille1) lo stilista1) il critico1) fornisce il materiale1) lo lascia venir fuori1) è il gusto1) è l´intelligenzaun grande scrittore li ha tutti e 4 – ma si può comunque essere un buono scrittore solo con 1) e 2); sono i più importanti.9 dic. 1961La paura di invecchiare viene nel momento in cui si riconosce di non vivere la vita che si desidera. Equivale alla sensazione di abusare del presente.(Senza indicazione di data)Il ghigno di Mary McCarthy – capelli grigi – abito stampato blu e rosso, fuori moda. Pettegolezzi da circolo femminile. Lei è Il gruppo. È gentile con il marito. […]Scrivo per definire me stessa – un atto di auto-creazione – parte di un processo di divenire – in un dialogo con me stessa, con gli scrittori vivi e morti che ammiro, con i lettori ideali.Perché mi dà piacere (un´”attività”)Non so per certo a cosa serva il mio lavoroSalvezza personale – Lettere a un giovane poeta di Rilke3 sett. 1962Sono seduta sull´erba vicino al fiume. David gioca a palla con un uomo e un bambino portoricani.Sola, sola, sola. Il fantoccio di un ventriloquo senza ventriloquo. Ho il cervello stanco e il cuore che fa male. Dov´è la pace, il centro?Ci sono sette tipi d´erba qui dove sono stesa. Soffioni, scoiattoli, piccoli fiori gialli. […]Voglio essere capace di stare sola, e di trovarlo stimolante – non una semplice attesa.Hyppolyte dice, benedetta la mente che ha qualcosa di cui occuparsi al di là delle proprie insoddisfazioni.Ho sognato Nat[han] Blazer ieri notte. Veniva a prendere in prestito un mio vestito nero, un vestito bellissimo, per la sua ragazza che doveva indossarlo a una festa. Io cercavo di aiutarlo a trovarlo. Lui si stendeva su un letto a una piazza e io mi sedevo accanto a lui e gli accarezzavo la faccia. Aveva la pelle bianca tranne che per alcune chiazze di barba nera, simile a muschio. Gli chiedevo come mai la sua faccia fosse diventata così bianca e gli dicevo che doveva prendere un po´ di sole. Volevo che mi amasse ma lui non ha voluto.@_CITTA´ nero dx:12 sett. 1962La prematura arrendevolezza, la disponibilità tali da fare in modo che non si arrivi mai alla caparbietà di fondo spiegano per l´80% il mio famigerato bisogno di flirtare, di sedurre16/10/62Sentimentalità. L´inerzia delle emozioni.Non sono leggere, briose. – Io sono sentimentale. Mi aggrappo ai miei stati emotivi.O sono loro ad aggrapparsi a me?27 luglio 1964Arte = un modo per entrare in contatto con la propria follia.Il mio bisogno di liberarmene, una volta arrivata alla fine.Un testo appena dattiloscritto, nel momento stesso in cui è finito, comincia a puzzare. È un corpo morto – deve essere seppellito – imbalsamato, a caratteri di stampa. Corro a impostare il dattiloscritto, non appena è finito, anche se sono le quattro del mattino.Il crimine più grande: giudicare.Il difetto più grande: la mancanza di generosità.(su un foglio di carta sciolto, probabilmente del 1964)Starò bene entro le 7.00 di stamattina.M. [Mildred Jacobsen, madre della Sontag] non rispondeva quando ero bambina. Il castigo peggiore – e la frustrazione per eccellenza.Era sempre “fuori servizio” – anche quando non era arrabbiata. (Il bere era un sintomo di ciò.) Ma io continuavo a provare.Ora è lo stesso con I. Ancora più straziante perché per quattro anni lei mi ha risposto. Perciò so che ne è capace. […]I miei difetti:- biasimare gli altri per i miei stessi vizi*- trasformare le amicizie in storie d´amore- pretendere che l´amore includa (ed escluda) tutto*ma forse ciò diviene più ossessivo ed evidente – raggiunge un climax, quando la cosa in me si sta deteriorando, spezzando, crollando – ad esempio, la mia indignazione per gli atteggiamenti schizzinosi di Susan [Taubes] e Eva [Kollisch].NB: il mio ostentato appetito – il mio vero bisogno – di mangiare cibi esotici e “disgustosi” = un bisogno di affermare il mio rifiuto di essere schizzinosa. Una contromossa.17 nov. 1964Quando mi sono accorta di essere invidiata, mi sono astenuta dal criticare – per paura che le mie ragioni fossero poco chiare, e il mio giudizio non del tutto imparziale. Sono stata benevola. Sono stata malevola solo con gli sconosciuti, con le persone che mi erano indifferenti.Sembra nobile.Ma, in tal modo, ho salvato i miei “superiori”, coloro che ammiravo, dalla mia avversione, dalla mia aggressione.Ho riservato le critiche solo per chi era “sotto” di me, per coloro che non rispettavo… ho usato il mio potere di critica per confermare lo status quo. […]tutte le capitali si assomigliano tra loro più di quanto assomiglino al resto delle città del loro paese (la gente di NY assomiglia più a quella di Parigi che a quella di St Paul) […](Senza indicazione di data, probabilmente 1964)L´estasi intellettuale cui ho avuto accesso sin dalla prima infanzia. Ma l´estasi è estasi.Il “bisogno” intellettuale simile al bisogno sessuale. 6085 copie di Contro l´interpretazione sono state venduterestano 1915 copie della prima tiratura. […][George] Balanchine, l´ultimo dei geni modernisti.26/3/65la pittura recente (Pop, Op) – fredda; la minima consistenza possibile – colori chiariil bisogno di avere la tela, perché non è possibile far galleggiare i colori nello spazio […]ciò che si prova davanti a un quadro o a un oggetto di Jasper Johns potrebbe assomigliare a ciò che si prova per le Supremes […]La Pop Art è arte Beatle […]Un altro testo chiave: Ortega, La disumanizzazione dell´arteOgni epoca ha la sua fascia anagrafica rappresentativa – per noi è la giovinezza – lo spirito del tempo è essere distaccati, disumanizzati, gioco… sensazioni… apolitici. […]Jasper Johns – Duchamp dipinto da Monet20 aprileIl mio sguardo è poco raffinato, insensibile, è questo il mio problema con la pittura.Un altro progetto: Webern, Boulez, Stockhausen. Comprare dischi, leggere, lavorare un po´. Sono stata molto pigra. […]Non concedere interviste fino a quando non potrò essere chiara, autorevole e diretta come Lillian [Hellman] sulla Paris Review.20 maggio, Edisto Beach, South Carolina”l´oggetto arrogante” (Johns)non si impara con l´esperienza – perché la sostanza delle cose cambia continuamentenon c´è una superficie neutra – una cosa è neutra solo rispetto a qualcos´altro (un´intenzione? Un´attesa?) Robbe-GrilletL´uso che Rauschenberg fa della carta di giornale, dei pneumatici.Johns: scopa, gruccia.L´unica trasformazione che mi interessa è la trasformazione totale – per quanto infinitesimale. Voglio che l´incontro con una persona o un´opera d´arte cambi tutto.4 luglio, Bled (Jugoslavia)Mailer: come essere puri ed essere una stella del cinemaIn ogni importante scrittore americano moderno si avverte una lotta con la lingua – la lingua è il tuo nemico, il suo funzionamento non ti è naturale. (Completamente diverso in Inghilterra, dove la lingua è data per scontata). Devi soggiogarla, reinventarla.16 luglio, ParigiNon ho imparato a mobilitare la rabbia (compio azioni militanti, senza sentimenti militanti)17 sett. (su un aereo diretto a New York)Sartre: “Quando le persone hanno opinioni così diverse, come fanno anche solo ad andare a vedere un film insieme?”Beauvoir: “Sorridere allo stesso modo a nemici e amici significa ridurre ciò in cui si crede allo stato di mere opinioni, e tutti gli intellettuali, sia di destra che di sinistra, alla loro comune condizione borghese.”8 nov.Per 2/3 di Private Potato Patch di Greta Garbo volevo essere la Garbo (l´ho studiata, volevo assimilarla, imparare i suoi gesti, sentire quel che sentiva lei) – poi, verso la fine, ho cominciato a desiderarla, a pensare a lei in termini sessuali, a volerla possedere. Il desiderio ha preso il posto dell´ammirazione – mentre si avvicinava la fine e avrei smesso di vederla. La sequenza della mia omosessualità? […]Il piacere più grande negli ultimi due anni me l´ha dato la musica pop (i Beatles, Dionne Warwick, le Supremes) e quella di Al Carmines [attore, compositore, regista] […] Un problema: l´esilità della mia scrittura – è scarna, frase per frase – troppo architettonica, discorsiva.(metà novembre)Mailer dice di volere che i suoi scritti cambino la coscienza del suo tempo. Lo stesso voleva DHL[awrence], ovviamente.Io non voglio che i miei lo facciano – almeno non rispetto a un particolare punto di vista, visione, o messaggio che cerco di comunicare.Io non sono.I testi sono oggetti. Voglio che abbiano effetto sui lettori – ma in ogni modo possibile. Non c´è un modo giusto di considerare quello che ho scritto.Io non “dico qualcosa”. Permetto a quel “qualcosa” di avere una voce, un´esistenza indipendente (un´esistenza indipendente dalla mia).24 nov.Lillian [Hellman] si identificava con Becky Sharp – ha sempre voluto essere una strega, tormentare gli altri.Io non sono mai riuscita ad andare oltre l´ammirazione e l´invidia per la Becky capace di lanciare il dizionario in faccia alla sdolcinata direttrice della scuola. Tutti quegli sforzi per manipolare gli uomini non sono mai riuscita a capirli.Analisi: due o tre cataratte mi sono cadute dagli occhi. Altre cento da eliminare?Vengo ogni notte verso le 2.00 o le 3.00. Il mio amante è il N. Y. Times.(Senza indicazione di data, fine 1965)La sgradevolezza del riscontro – le reazioni degli altri, ammirate o ostili, alle mie opere. Non voglio reagirvi. Sono abbastanza critica (e so meglio degli altri quel che è sbagliato).Mi piace sentirmi ottusa. È così che so che al mondo c´è qualcosa di più importante di me stessa. […]la mia formazione intellettuale:a) Knopf +M[odern] L[ibrary]a) P[artisan] R[eview] (Trilling, Rahv, Fiedler, Chase)a) University of ChicagoP & A attraverso Schwab-MckeonBurkea) la “sociologia” dell´Europa centralegli intellettuali ebrei tedeschi rifugiatiStrauss, Arendt, Scholem, Marcuse, Gourevitch, [Jacob] Taubes, ecc.(Marx, Freud, Spengler, Nietzsche, WeberDilthey, Simmel, Mannheim, Adorno, ecc.)a) Il Wittgenstein di Harvarda) i francesi – Artaud, Barthes, Cioran, Sartrea) storia della religionea) I. – Mailer, anti-intellettualismoa) Arte, storia dell´arteJasper [Johns][John] Cage[William S.] Burroughsrisultato finale: Franco-ebraico-cageiana?4 gennaio 1966La situazione della pittura è difficile: simile a quella della scienza. Tutti sono consapevoli del “problema”, delle cose su cui bisogna lavorare. Attraverso le sue opere, ogni artista contemporaneo produce “un libro bianco” su questo o quel problema, e i critici giudicano se i problemi scelti sono interessanti o banali. (L´approccio alla Barbara Rose). Così Rosalind Kraus ritiene che le torce, le lattine di birra, ecc. di Jasper siano la soluzione o l´esplorazione di un problema periferico (banale) della scultura di oggi: cosa fare del piedistallo…[…]Jasper va bene per me. (Ma solo per un po´) Ti fa sembrare naturale, buono e giusto essere pazzi. E muti. Mettere tutto in dubbio. Perché è pazzo. […](Senza indicazione di data, tardo inverno 1966)NYC con la sua intellighenzia, il suo consenso liberale, è, in relazione al resto degli USA, come il Vaticano nel bel mezzo dell´Italia, un minuscolo stato privato con ricchezze e poteri immensi, ma separato. […]Duchamp ha detto due cose contraddittorie:1) che un´opera d´arte ha un (breve) arco di vita e1) che il suo valore può essere stabilito solo dalla posterità.Un punto di vista: l´arte è un linguaggio, non semplicemente ciò che è.È il punto di vista “conservatore”?I quadri “neri” di Ad Reihardt sono come i romanzi di Robbe-Grillet: un´idea tracciata su un reticolato. Si “capiscono” troppo facilmente. In un certo senso ciò è “romantico” (romanticismo inteso come concentrazione su una parte piuttosto che sul tutto). […]L´espressione di sé e un´idea limitante, limitante se è centrale. (L´arte come espressione di sé è molto limitante) Dall´espressione di sé non si può mai arrivare a giustificare, in modo autentico, genuino, e non meramente opportunistico, la gentilezzaMa se si parte dalla gentilezza, si può far spazio alla maggior parte delle cose che si attribuiscono all´espressione di sé (attraverso l´idea della gentilezza verso se stessi). […]1 giugnoUna delle mie emozioni più forti e più dispiegate: il disprezzo. Disprezzo per gli altri, disprezzo per me stessa.Sono impaziente (sprezzante) con la gente che non sa come proteggersi, come rivendicare le proprie ragioni.La mia mente = King Kong. Aggressiva, fa a pezzi la gente. Per la maggior parte del tempo la tengo in gabbia – e mi mangio le unghie.27 giugno, ParigiQuando i provos mettono in scena “happenings” notturni nelle strade di Amsterdam, c´è un rischio. Provocano la polizia, “dicono” qualcosa, cercano di far succedere qualcosa. (Più libertà, ecc.)Gli happenings a NY non solo sono apolitici. Non rischiano niente. Sono spiritosi esercizi di irrazionalità – del tutto prudenti.Se solo il mio romanzo potesse avere la velocità – e la portata e l´importanza – degli ultimi due film di Godard. L´ulcera del Vietnam, il rumore degli spari – 6 agosto, LondraPeter Brook: molto intenso, occhi azzurro chiaro – calvizie incipiente – porta maglioni neri a collo alto – stretta di mano calda e generosa – volto carnoso, sensualeHa studiato con Jane Harp (famosa signora della Little Review negli anni ’20) quando, alla fine della sua vita, viveva a Hampstead; un´allieva di Gurdjieff; le sue domeniche pomeriggioun uomo a caccia di idee […]Grotowski:sui trentacinque annisimile a Caligari o al mago di Mario e il magonessuno sa niente della sua vita sessualenon ha mai fatto il criticoper qualche tempo ha studiato Yoga in India in sua compagnia, nessuno parla di problemi personali9 agostoHo il Romanzo… credo! Grazie a Brook e a Grotowski, gli ultimi pezzi sono andati a posto.8 ott.Jap [Jasper Johns], a proposito delle opere di un giovane pittore che ha visto oggi pomeriggio. “I quadri sono molto belli. Ma è tutto qui.”L´autorevolezza di Jasper, la sua eleganza. Non è mai turbato, contrito, in colpa. Una sicurezza assoluta. Perciò, anche se si mette le dita nel naso o mangia in un Automat, resta elegante. […]Le uniche persone che dovrebbero interessarsi all´arte (o alle varie arti) sono quelle che la praticano – o lo hanno fatto – o aspirano a farlo. L´idea di un “pubblico” è completamente sbagliata. Il pubblico di un artista è fatto dai suoi pari.(Senza indicazione di data, fine 1966)Joe [Chaikin] mi ha chiesto stasera come mi sento quando, arrivata, per esempio, a tre quarti di quello che sto scrivendo, scopro che è mediocre, inferiore. Gli ho risposto che mi sento bene e tiro avanti fino alla fine. Mi libero di quello che è mediocre in me. (Immagine escrementizia che uso per la mia scrittura.) È lì. Voglio liberarmene. Non posso negarlo attraverso un atto della volontà. (Oppure sì?) Posso solo consentirgli di avere una voce, farlo venir fuori. E poi fare qualcos´altro.Quanto meno, so che non ci sarà bisogno di rifare quello.22 feb 1967, 3 a. m.Sto finendo la recensione di [Histoire d´] O che si è trasformata in un saggio di 35 pagine. È ok. Eppure, non credo a una parola di quello che dico.È interessante, forse valida – ma non so quanto “vera”.6 aprilegruppi di San FranciscoThe Grateful DeadNitty Gritty Dirt BandThe Great SocietyJefferson AirplaneThe Only Alternative + his OtherPossibilities The Myddle Class+The Mothers of Invention (Los Angeles?)The Byrds (Los Angeles)Country Joe + the FishThe Quicksilver Messenger ServiceBig Brother + the Holding CompanyThe TurtlesThe MiraclesThe Sparrows + the CharlatansIn California uno sconosciuto è un (potenziale) amico fino a quando non dimostra il contrario; a NY, uno sconosciuto è un nemico fino a quando non dimostra il contrario. Si consuma un sacco di energia a NY a causa di questa ipotesi. […]La vita ideale: fare solo cose indispensabili.Due modi d´essere: santo o ladro.L´immagine che ho di me stessa da quando avevo 3 o 4 anni: il genio-idiota. Permetto a uno di compensare l´altro. Sviluppo relazioni per soddisfare ora l´uno ora l´altro. […]Sartre (cf. Les Mots), l´unica altra persona che conosco che aveva la “certezza” del genio. Che ha vissuto una vita già postuma, sin dall´infanzia. (L´infanzia di un uomo famoso.) Una sorta di suicidio – , con l´”opera”di genio che sai che farai da adulto come pietra tombale. La più gloriosa pietra tombale possibile.Sartre era bruttissimo – e lo sapeva. Perciò non ha dovuto sviluppare l´”idiota” per ripagare gli altri del fatto che era “il genio”. La Natura si era occupata del problema al suo posto. Non ha dovuto inventare una causa di fallimento o di rifiuto da parte degli altri. Come ho dovuto fare io, rendendomi “stupida” nelle relazioni private. (Per “stupida” intendo anche “cieca.”) Copyright © The Estate of SusanSontag 2006. Reprinted with the permission of The Wylie Agency (UK) Ltd(traduzione di Paolo Dilonardo)

Marco Innocenti

Veronica Buckley, Cristina regina di Svezia (Mondadori, pagg. 408, € 19,00).

Nel buio inverno del Nord,l’8 dicembre 1626, nasce una bambina. È Cristina, la futura regina di Svezia. Le levatrici, in un primo tempo, la dichiarano maschio: primo segno di un’ambiguità che condizionerà tutta la sua vita e ne farà una figura originale e chiacchierata. Scoperto l’errore, il padre di Cristina, re Gustavo Adolfo il Grande, si mostra felice: “Questa bambina non sarà da meno di un maschio”.E quando il re cade in battaglia contro gli Imperiali, nel 1632, Cristina eredita a soli sei anni il trono di Svezia.
Sovrana effettiva dal 1644, a 18 anni, Cristina si rivela una giovane regina anomala: veste come un uomo, porta la spada, mangia e bestemmia come un soldato, ama i cannoni, la caccia, cavalli e i cani. Scarpe basse e abiti essenziali, rinuncia alla propria femminilità. I capelli sono biondi gli occhi azzurri ma il naso lungo arcuato, la voce aspra e il carattere sanguigno ne fanno una donna temuta più che amata. Curiosa e intelligente, prova un forte amore per l’antichità classica, coltiva le arti le scienze, attirando alla Corte svedese letterati, scienziati, pittori, filosofi, tra quali spicca Cartesio. Si rifiuta di sposarsi (“Non sono fatta per il matrimonio”), alterna amanti maschili femminili, porta il Paese in guerra, abbellisce Stoccolma, mostrando alcune delle facce di una donna che sa stupire.
Irrequieta, tormentata, sempre alla ricerca di qualcosa che non trova, nel 1654 abdica in favore del cugino Carlo Gustavo, e, abbandonando la fede luterana, si converte al cattolicesimo. A 28 anni si rimette in gioco. La regina ribelle rinuncia al trono per la libertà. È giovane ha tutto il mondo davanti sé. Vuole essere se stessa, inseguire il senso della vita, viaggiare, rinnovarsi, cercare nella religione cattolica una nuova verità. Si sbarazza della opaca Svezia e inizia una nuova vita a Roma, dove frequenta il Papa e i cardinali, e vive nuovi amori nel cuore pulsante della cultura europea.
Volubile e annoiata, tenta un improbabile rilancio politico, puntando, con l’appoggio francese, a diventare regina di Napoli: una delle terre di sole e di mare che alimentano la sua fantasia. Non ha fortuna, ma forse è questo il suo destino, una storia di promesse non mantenute e di forza frustrata dalle debolezze: l’avventura umana di una bambina non amata, di una donna irrequieta alla ricerca dell’impossibile, vissuta nell’ingombrante ombra del suo grande padre, considerata, di volta in volta, lesbica, prostituta ed ermafrodito, ma capace di infrangere ogni convenzione per affermare il diritto a seguire le proprie inclinazioni.
Personaggio di grande, imperfetta bellezza, spesso un crocevia di religione, potere, politica sesso, Cristina una donna che si impone in un mondo di uomini ma che sconta la sua ambiguità, fatta su misura per il barocco, l’irregolare perla che dà il suo nome quel periodo storico vibrante, sensuale, violento e sinistro.
Morta a Roma il 19 aprile 1689, l’esuberante stella del Nord che si era paragonata al sole, rinchiusa nell’oscurità di una bara nella basilica di San Pietro. Di lei Veronica Buckley, storica neozelandese, racconta la vita, pirotecnica, abbagliante, provocatoria.

presentazione di Clara Jourdan

Ringrazio Pia Mazziotti per avermi invitata a questo incontro che mi ha dato l’occasione di leggere ancora una volta L’arte della gioia, che avevo già letto nelle edizioni precedenti (1994 e 1998): è veramente un’opera che a ogni rilettura offre nuove emozioni e nuovi suggerimenti di riflessione. E così voglio dire qualcosa di questo libro a partire dalla mia esperienza di lettura, io sono una donna che legge e ama la scrittura femminile, in particolare il romanzo. Sono anche venditrice di libri, alla Libreria delle donne di Milano, ma mi sento più che altro una lettrice. Ricordo che quando ho letto quel piccolo libro rosso appena pubblicato da Stampa Alternativa (che poi ho saputo essere solo la prima parte del romanzo) l’ho subito consigliato e regalato alle amiche. Lo trovavo coinvolgente e agghiacciante, poetico e brutale, erotico e divertente. Le avventure e le scoperte di quella bambina e poi adolescente alla ricerca di una via d’uscita dal “destino” e disposta a tutto con una spregiudicatezza insieme sconcertante e toccante, mi avevano conquistato. Al punto che quando poi uscì il romanzo completo, rimasi un pochino delusa dal seguito, meno scoppiettante e più ponderoso.
Invece, rileggendo adesso L’arte della gioia, ho trovato tutto il libro estremamente interessante, una miniera di pensiero femminile sul mondo, sulle donne, gli uomini, le relazioni umane, la vita, la storia… Anche il cambiamento di registro dopo la prima parte, mi pare che risponda al percorso narrativo, perché Modesta, la protagonista, da ragazza che era è diventata una donna adulta. Comunque non voglio entrare in un discorso di critica letteraria, non è il mio campo.
Tra le chiavi di lettura possibili del romanzo, che sono sicuramente molte, vorrei scegliere quella del pensiero, in particolare come pensiero politico, anche perché tutto il libro è permeato da una forte passione politica. Ha ragione Angelo Pellegrino a dire nell’introduzione a L’arte della gioia (da lui curato) che Goliarda Sapienza si faceva chiaramente torto a definirsi scrittrice ideologica. È riduttivo, in effetti, così come è chiaramente riduttivo il sottotitolo “romanzo anticlericale”, poi tolto nell’ultima edizione. Però vorrei riscattare il senso di queste definizioni intendendole oltre che come consapevolezza dell’importanza delle idee, soprattutto come espressione di un preciso desiderio di nominare la realtà. Un desiderio che ho trovato realizzato anche nel libro da poco ripubblicato (Rizzoli) L’università di Rebibbia, dove effettivamente il mondo carcerario ci appare in modo nuovo rispetto alle letture correnti di quella realtà. E questo per me è fare politica attraverso la scrittura. Perciò io intendo e apprezzo Goliarda Sapienza come una scrittrice politica, che va oltre le ideologie, anche oltre le proprie ideologie, che pure ci sono. Infatti se è innegabile che L’arte della gioia sia ideologico, c’è molto molto più di questo, come pensiero politico. Vorrei mostrarlo brevemente in due aspetti per me notevoli del romanzo.
Uno è lo sguardo sulla storia. Che L’arte della gioia voglia essere anche un percorso nella storia del Novecento si capisce dalla data di nascita della protagonista, nata appunto il 1° gennaio del 1900: la storia d’Italia attraverso la storia di vita di una donna. Ma quello che mi ha molto colpita è il modo con cui L’arte della gioia ci parla di quella storia del Novecento che si trova sui libri di storia (cioè non tanto la cosiddetta vita quotidiana ma proprio gli avvenimenti e i personaggi più noti): ce ne parla attraverso un punto di vista femminile, un punto di vista che si sente che è di una donna. Un punto di vista che pervade tutto il romanzo, si trova espresso un po’ in tutti i dialoghi e i racconti dei fatti, non solo nelle parole della protagonista e degli altri personaggi femminili. E che ci fa entrare nella storia direttamente: non ci sono lunghe narrazioni degli avvenimenti, spesso basta una frase, un dettaglio, per aprire un squarcio in profondità sul Novecento, che ci fa capire l’essenziale, sulle guerre, sul fascismo, e soprattutto sulla storia del pensiero e delle pratiche politiche, sul mondo dei rivoluzionari e degli antifascisti (tra cui viene nominata anche la madre dell’autrice, Maria Giudice). Cito, per fare solo un esempio, un frammento di un dialogo tra Modesta e l’amico Carlo che le ha raccontato della “compagna Montessori”: “La rivoluzione con fiabe! È bello, però”, dice Modesta. E lui: “Certo, principessa. Ma prima ci sono problemi leggermente più seri da risolvere: la disoccupazione, la fame…” E lei: “Mi pare di capire che la Montessori fa rientrare la fiaba in questi problemi seri. La fiaba, insieme al pane, è il cibo dei bambini, ed è importante che il cibo sia diverso” (p. 189 dell’edizione 1998). Come si vede da questo frammento, nel romanzo viene messa in scena sia l’interpretazione maschile corrente delle politica, delle questioni cruciali del Novecento, del rapporto tra i sessi anche come contributo femminile alla politica degli uomini, sia lo spostamento operato da una donna che si mette in gioco a partire da sé.
Inoltre, questo scambio tra una donna e un uomo sulle cose più importanti, mostra l’altro aspetto che volevo evidenziare nel romanzo: L’arte della gioia fa emergere l’essere donna come un essere in relazione. Infatti il percorso di vita della protagonista si snoda attraverso le sue relazioni, più o meno riuscite, più o meno felici ma sempre vissute con intensità. Cioè tutto quello che succede e le succede, passa sempre attraverso le relazioni. Relazioni con donne e relazioni con uomini. E in particolare tante forme diverse di relazioni tra donne. Nel percorso della vita di Modesta incontriamo tutte le tipiche esperienze femminili, dallo studio al lavoro, dallo stupro all’aborto, dall’amore per le donne all’amore per gli uomini, dalla maternità alla politica ecc. e c’è posto per tutti i sentimenti, compresa la misoginia femminile, e per tutti i comportamenti, compreso l’omicidio premeditato. È quindi una storia di vita che si può intendere come una rappresentazione dell’infinito universo femminile. Non della bontà femminile. Un universo con al centro il desiderio femminile e che si rivela sempre più, man mano si va avanti nel romanzo, essere costituito da relazioni. Le relazioni che costellano l’esistenza della protagonista continuano a vivere in lei anche quando l’altra persona non c’è più. Fino alla fine Modesta si misurerà con le donne e gli uomini su cui si è appoggiata per pensare, per agire e per sentire. È vero che queste relazioni inizialmente si potrebbero definire strumentali, perché vengono cercate e usate per raggiungere degli scopi, ma proprio il bisogno estremo in cui Modesta si trova, lo stato di necessità che la porta a mettersi in relazione fa sì che le relazioni diventino la sua vita e la trasformino profondamente, cessando quindi di essere strumentali.
Per finire, posso non essere d’accordo con alcune cose che scrive Goliarda Sapienza, con alcune sue idee e giudizi, ma in questa rappresentazione di una donna come un essere in relazione mi sono riconosciuta, ho trovato qualcosa di molto vero di me. E ho sentito l’autrice vicina alla politica delle donne come la intendo io.

Sul calendario della prima edizione di questo Festival tentato dalla rivoluzionaria scelta di affidarsi alla qualità dei partecipanti a dispetto della quantità di pubblico, prosegue stasera con la lettura di Nathan Englander, e domani con quella di Jeffrey Eugenides. I1 primo luglio sarà la volta di Jonathan Franzen e il 2 è stato chiamato a chiudere la manifestazione David Foster Wallace. Intervistata, come gli altri autori, da Antonio Monda, Zadie Smith ha intrattenuto il pubblico, il 25 sera, alternando brevi racconti sui suoi romanzi tradotti, Denti bianchi e Della bellezza (Mondadori) a flash su di sé, sulle sue passioni, sulle sue idiosincrasie. Questi sono frammenti sparsi di quel che ha detto. «Uno dei piaceri che ho provato nella scrittura è quello di travestirmi, mi dà una grande libertà, per esempio, calarmi in panni maschili per poi tornare in quelli di una donna.» E, ancora, «mi è difficile pensare che scrittori e artisti utilizzino la loro opera per esprimere l’essenza della femminilità piuttosto che quella della mascolinità. Quanto a me, mi sento una femminista, proprio perché ho sempre trovato difficile mettermi in relazione con ciò che riguarda la femminilità. A mio parere, la scrittura femminile ha una componente di passività, di autoillusione, e entrambe non tornano utili a chi intende dedicarsi a elaborare romanzi.»
«Condivido quel che ha detto una volta Iris Murdoch, ossia che il più grande nemico dell’eccellenza nell’arte è costituito dalle fantasie personali, dai sogni di grandezza, dagli ideali su di sé che ci impediscono di accorgerci di quel che abbiamo intorno. Ed è soprattutto alle donne che viene impedito di vedersi come sono.» Interrogata sul fatto che nelle prime righe di Denti bianchi si leggono locuzioni che rimandano al rapporto con la religione, ha raccontato come i suoi genitori le abbiano fatto respirare una «religiosa convinzione atea». E a proposito del suo guardare a Edward Morgan Forster in Della Bellezza ha negato di avere chissà quale predilezione per lui: «è una passione che mi ha, eventualmente, imbarazzato. Del resto un po’ tutto il mio ultimo libro è seminato di negazioni per gli amori di una vita, è un romanzo pieno di peccatucci nascosti e Forster è uno di questi peccatucci.» L’ironia è forse la virtù che l’ha resa più gradita al pubblico della serata, per esempio quando ha espresso la sua adesione alla teoria per la quale, secondo lei, spesso si diventa scrittori dopo avere fallito in qualche altra aspirazione. «Per quel che mi riguarda, sarei voluta diventare ballerina di tip tap, ma era un obiettivo superiore alle mie possibilità.»

Marco Belpoliti

È “enigma” la parola-chiave del libro autobiografico sul ritrovamento di sé, sull’arte e sul buddismo, al quale la Niccolai si convertì negli anni ottanta sino a farsi monaca: Da Magritte a Hopper a Hockney, anche il pensiero visivo cela un’esperienza spirituale.

Nel 1980, a quarantasei anni, Giulia Niccolai ha avuto un ictus, un’esperienza dolorosa da cui ha faticato a riprendersi, ma che è anche stata, con ogni probabilità, il punto di svolta della sua vita. Racconta di aver impiegato quattro, cinque anni per tornare alla piena normalità, per quanto il trauma le abbia lasciato degli strascichi. In quel periodo era appena tornata a Milano dopo gli anni di “Tam Tam”, la rivista di poesia diretta da Adriano Spatola, e traduce per mantenersi Gertrude Stein per le edizioni di Rosellina Archinto, un lavoro difficile anche per una bilingue come lei. Appena uscita dall’ospedale ha telefonato alla persona che seguiva in casa editrice il libro per dirle che non ce l’avrebbe fatta a consegnarlo per la data stabilita. Questa donna, racconta, le dice “Vado a sentire una conferenza di un Lama tibetano, vuoi venire?”. Siamo nel giungo del 1985 e l’appuntamento è a una fermata del metro. Giulia l’aspetta ma lei non arriva: Ha l’indirizzo e decide di andarci da sola. Entra nella sala e si siede in fondo. Il Lama sta parlando della ruota del tempo e mentre sviluppa la sua esposizione con voce pacata, Giulia prova la sensazione che il Maestro stia rispondendo via via alle domande che formula nella mente: attimo per attimo ecco la soluzione ai quesiti: Lascia la sala con l’impressione che lui le abbia letto nel pensiero: La sensazione è quella di essere tornata di colpo a casa dopo essere rimasta nella Legione straniera per cinquant’anni. Nel 1990, dopo un discreto apprendimento come buddista, Giulia Niccolai si è fatta monaca e a preso i voti in India. Adesso le due sponde della sua vita non sono più l’Italia e l’America, dice, come le era accaduto in precedenza – figlia di un italiano e di un’americana, ha scritto poesia per quarant’anni in entrambe le lingue, mescolandole e fondendole – bensì l’Oriente e l’Occidente.
A dire il vero, più che due sponde la sua figura topologica sembra il quadrato, i cui lati sono disposte a coppie, in quanto le cose più curiose della sua opera poetica e letteraria (ma anche della sua personalità, probabilmente) riguardano le relazioni tra le diagonali, La parola chiave del suo libro Le due sponde (Archinto pp. 282, Euro 12,OO) dedicato per eccellenza alla pittura e insieme alla sua vita, al Buddismo tibetano e al pensiero visivo, è enigma. Una parola manganelliana per eccellenza che figura nel titolo di due quadri di De Chirico che Giulia esamina e discute, non solo ricorrendo alla sua cultura, alla sensibilità visiva (è stata eccellente fotografa professionista intorno ai vent’anni, mestiere interrotto di colpo), ma soprattutto alla sua esperienza spirituale. L’enigma, era per Manganelli, il cuore di ogni classico, ovvero ciò che si occulta nel fondo della letteratura e che non si può ridurre a nessuna lettura filologica o critica: qualcosa di pulsante, di vivo, di misterioso qualcosa che interroga, come le linee intere e spezzate degli Yi Jing, dove possiamo leggere, se lo vogliamo, i sublimi mutamenti, il nostro destino. Una sera per strada, a Milano, Giulia vede passare un nuovo modello di tram che reca il numero 14: le figure illuminate all’interno delle carrozze, dietro grandi finestrini quadrati, le danno un tuffo al cuore. Ecco transitare l’essenza muta dei quadri di Hopper: Un’altra volta in America, immersa nella luce di Los Angeles, comprende all’improvviso cosa voleva dipingere David Hockney con le sue piscine: la pittura come specchio. Una delle grandi qualità di Hockney – scrive nel suo libro di note, appunti, riflessioni, piccole storie personali, illustrazioni di istanti, epifanie del pensiero – è di essere sempre consapevole dell’inautentico e dell’artificiale.
Come definire questo volume? Una riflessione sull’arte? Un diario di letture e viaggi? Un manuale di meditazione? Un’autobiografia? Senza dubbio è il libro di una poetessa: lo si capisce dallo stile, dal modo in cui è scritto, ma anche dal modo in cui è “pensato”; A un certo punto, nelle bellissime pagine su Hockney, cita una frase di Hannah Arent: “Le opere d’arte sono: cose del pensiero”. La “cosa”, per Giulia Niccolai, non è oggetto, bensì un contenuto del pensiero: un’esperienza spirituale. Su questa strada la poetessa probabilmente è andata più avanti dello stesso Manganelli, che dopo aver conosciuto l’enigma in modo concreto (“la cosa”) nel corso del suo viaggio in India (Esperimento con l’India, Adelphi) se ne è ritratto, l’ha fuggito, per poi ritrovarselo davanti, di colpo, negli ultimi mesi di vita. Giulia si è invece buttata dentro l’enigma, lo ha seguito sino in India, ne ha fatto la sua stessa “cosa”. Nel sottotitolo del libro è scritto Spazio/Tempo: indica le due sponde, insieme a Oriente/Occidente. Il tema del libro è infatti l’incontro con l’Eterno, tema spirituale per eccellenza (ma anche tema scientifico, come ci ha mostra la fisica atomica del ventesimo secolo, Wolfgang Pauli con il suo Psiche e natura, Adelphi). L’eternità come abolizione del tempo, argomento che la poesia insegue da secoli, e su cui ci si arrovella non meno della religione della scienza. Con la sua esperienza del mondo visivo Giulia Niccolai ha fatto un passo ulteriore, in quella direzione, alleggerendo ancora il suo fardello. Di meditazione in meditazione (ma si dovrebbe dire di poesia in poesia), tutto e diventato più aereo e sottile. Rispetto a Esoterico bigliardo (Archinto 2001) Le due sponde appare come il libro dell’infanzia del pensiero. La “cosa” a cui si sta pian piano avvicinando è infatti il passato remoto cui sembra indirizzarla la visione della pittura, i quadri di Megritte e Hopper, di De Chirico e Jim Dine, di Carracci e di Antonello da Messina le servono per questo. L’origine è davanti a noi: invecchiando si avanza retrocedendo.
Le pagine più belle del libro, pagine che cadono all’improvviso, come colpi di luce – la luce che come fotografa, poetessa e donna, Giulia Niccolai dimostra di amare fortemente – sono quelle in cui il mondo visto, diventa un mondo vissuto, esperienza di un attimo, illuminazione, rivelazione, enigma, appunto. Il capitolo dedicato a Duchamp è poi un sorprendente autoritratto. Di cosa hai vissuto? chiede Pierre Cabanne nella celebre intervista a Duchamp: Non lo so proprio, risponde l’artista. Cabanne insiste, e Duchamp gli dice: avevo dei Brancusi in soffitta, ho chiamato Roché e glieli ho venduti. Allora, continua, gli affitti costavano poco a New York, e conclude: “Vivere è più una questione di quanto uno spende pittosto di quanto una guadagna: bisogna sapere quanto ci serve per vivere”.
Henri -Pierre Roché, il mitico autore di Jules e Jim e di Le due Inglesi e il Continente, pubblicati a settant’anni suonati, sosteneva che l’opera migliore di Duchamp è stata l’uso che egli ha fatto del suo tempo.
Giulia Niccolai appartiene a quella genia di artisti, non solo perché è stata una poetessa della neoavanguardia, non solo per le belle e sorprendenti poesie che ha pubblicato (il suo Harry’s Bar del 1980, è uno dei migliori libri di poesia del dopoguerra) non solo per questo ultimo libro, ma anche dell’uso che ha fatto negli ultimi venticinque anni del proprio tempo: la meditazione. Si è fatta buddista e monaca non solo per ritrovare se stessa, la propria pace interiore, per liberarsi dall’Io, ma anche per essere fino in fondo un’artista. Una astuzia, o una ingenuità, la sua? Entrambe le cose, credo.

Ilaria Maria Sala

Il Dio dell’ Asia. Religione e politica in oriente (Il Saggiatore, pag.352, € 17,00)

CLe religioni, le idee viaggiano. A volte si fermano, assorbono qualcosa di locale e riprendono il viaggio vestite a nuovo. Oppure, dopo tanto cammino può capitare che si smarriscano, che si stemperino in quello che le circonda fino a scomparire. Per poi ricominciare in modo inaspettato, in certi casi, o restarsene mute ad aspettare ricercatori pazienti che vorranno scavare nella storia. Macao, una piccola città aggrappata alla costa meridionale cinese, rimasta sotto controllo portoghese per più di quattrocento anni, è stata in crocevia di uomini e vicende. Oggi, per trovare mille racconti inimmaginabili basta sollevare una pietra, oppure guardarsi intorno con attenzione per osservare la vitalità sempre sorprendente di questa curiosa appendice cinese, dove Europa e Asia si sono incontrate, e dove amano raccontare di aver vissuto in perfetta armonia.
Nel museo di storia è esposta la bellezza dell’incontro tra civiltà riassunte entrambe in modo schematico e semplicistico e con toni ottimistici, quasi a voler allontanare qualsiasi problematica negativa (…). Le belle chiese rimaste sono frequentate da tutti, per quanto i cattolici rappresentino solo il 3 per cento del totale, in questa cittadina di mezzo milione di abitanti. Una cifra davvero modesta, anche in considerazione del fatto che la maggior parte delle scuole è tuttora gestita da cattolici, con nomi quali Escola de Nos Senhora de Fatima e Escola do Santissimo Rosario. Come sottolinea il vescovo di Macao, José Lai “non battezziamo i ragazzini anche quando lo desiderano, perchè diciamo loro che c’è bisogno del consenso dei genitori, oppure che abbiano raggiunto un’età più matura. Diamo un’istruzione a tutti, quello si, ancora prima di impegnarci nell’evangelizzazione. La maggior parte delle famiglie qui è buddhista o segue credenze cinesi pagane, come faceva la mia stessa famiglia, prima che ci convertissimo tutti, grazie all’opera di mia sorella maggiore quando noi fratelli eravamo ancora bambini …” racconta, muovendosi per la diocesi di Macao deserta con un leggero sorriso sulle labbra. “Abbiamo un problema di personale nuovo, al momento” ammette. “I cattolici di Macao non sono molti e diversi sono già anziani, per cui adesso stiamo cercando personale nuovo, da fuori Macao. Per i giovani l’incentivo ad avvicinarsi alla chiesa è scarso, per ora; è una cosa alla quale dobbiamo lavorare di più. Oggi ci sono talmente tante opportunità di lavorare nel casinò, che dedicarsi alla vita religiosa non è proprio una priorità.” La diocesi di Macao in passato fu importantissima, perchè è da qui che venne lanciata l’evangelizzazione dell’Asia intera: arrivati a Macao da Roma e da tutta l’Europa cattolica, dopo essersi riposati e aver ricevuto le istruzioni necessarie, i missionari proseguivano verso le coste del Giappone o si recavano in Cina a portare il loro messaggio. Fu da qui, poi, in epoca più moderna, che si diede protezione ai cattolici di Timor Est, nel corso dei difficilissimi anni della dittatura indonesiana.
E Macao è tuttora fiera di aver accolto profughi vietnamiti e cinesi, in fuga dalla Rivoluzione comunista e, negli anni Sessanta, dalla Rivoluzione culturale. Oggi, invece, la maggior parte della popolazione, per quanto educata dalla Chiesa, non considera il cristianesimo un elemento fondamentale, per quanto tutti si rechino a messa il giorno di Natale, per esempio o per quanto migliaia di persone partecipino alle processioni religiose che sono divenute tradizionali anche qui con tanto di statue di Gesù o della Vergine, trasportate a braccia fra canti e preghiere. Dopo essersi impegnata così a lungo per altri cattolici lontani, ora la diocesi di Macao è costretta a chiedere rinforzi all’esterno, anche se il vescovo Lai non ne è turbato più di tanto. Mostra con evidente orgoglio le sale riunione dove si trovano i ritratti a olio dei papi, e quelli sempre a olio, dei vescovi di Macao, a cominciare dal primo, don Belchior Carneiro Leitao, giunto in città nel 1576. Eppure, sebbene per il momento le fortune della chiesa cattolica appaiono in declino, non si deve per questo pensare che l’intera città sia improvvisamente indifferente alla religione o che il declino sia generalizzato, dato che le spiegazioni di natura religiosa a fenomeni che appaiono misteriosi sono sempre le prime ad affiorare. Infatti, quando, nel 2003, il Guangdong e la vicina Hong Kong vennero martoriati dall’epidemia di Sars, che solo nella Cina del sud provocò più di cinquecento vittime, a Macao non fu registrato nemmeno un caso. “L’unica persona che contrasse la Sars era un uomo di Zhuhai, di passaggio in città, che era venuto a Macao sapendo di essere ammalato, perchè sperava che qui sarebbe stato curato meglio che in Cina. Guarì, e si trattava comunque di un caso importato” racconta Ricardo Pinto. “E molti hanno deciso che la nostra immunità, nella città dedicata a Dio, e battezzata Cidade do nome de Deus, sia stata il miracolo del cielo”.

Il segno femminile del Novecento. Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette raccontate da Julia Kristeva. Tre biografie in una trilogia, in via di pubblicazione in Italia da Donzelli, alla ricerca delle tracce dell’esistenza che diventano pensiero e scrittura
Paola Bono

Una giornata intensa per Julia Kristeva, il primo martedì di primavera che l’altroieri l’ha vista a Roma in occasione del premio Amelia Rosselli, assegnato al suo volume su Hannah Arendt e alla casa editrice Donzelli che l’ha pubblicato l’anno scorso, dopo quello su Colette apparso nel 2004 – una trilogia che si completerà con il libro su Melanie Klein, in uscita a settembre 2006. L’abbiamo incontrata in mattinata prima della sua visita alla Casa internazionale delle donne, e poi di nuovo alla Sala S. Rita, dove nel pomeriggio – accolta da Mariella Gramaglia a nome del Comune di Roma, che organizza il premio Rosselli – ha parlato della sua concezione del «genio femminile», cui si intitola la trilogia, discutendone con Nadia Fusini, Federica Giardini, Pietro Montani, e Elisabetta Rasy. Quelli della trilogia sono libri complessi che alternano e intrecciano diverse modalità di narrazione e analisi, ripercorrendo la vita e il pensiero di tre donne straordinarie che hanno segnato il Novecento, mentre vi si iscrive anche tutto il portato del multiforme percorso intellettuale di Julia Kristeva. Accanto alla riflessione su temi filosofici di continuata rilevanza, e personalmente toccanti per lei, nata nella Bulgaria stalinista, accanto alla critica linguistico-letteraria sottilmente esercitata nel confronto attento con il testo, è fortemente presente – come costante che non riguarda soltanto Melanie Klein e il suo contributo – la teorizzazione psicoanalitica, con pagine che innovativamente riesaminano alcuni punti nodali delle elaborazioni freudiane. Sarebbe dunque riduttivo definirli semplicemente delle «biografie», ma certo sono anche questo.

La scrittura biografica, da alcuni decenni al centro di un acceso dibattito interdisciplinare, è stata spesso paragonata a un passo a due – incontro di due soggettività, possibile gioco di rispecchiamento e di individuazione. Qual è stato nella sua esperienza di scrittura il suo rapporto con queste tre donne tanto diverse? Quali i ritmi, le mosse, gli esiti del passo a due danzato con loro?

In Italia si ha di me un’immagine di studiosa di semiotica interessanta alla forma più che alla vita; ma da tempo nel mio lavoro cerco di sottolineare l’importanza del dato esperienziale, di rendere parlante l’esperienza di scrittori e scrittrici nel loro situarsi nella Storia. Per scrivere la trilogia non ho svolto ricerhe d’archivio originali, mi sono servita di biografie esistenti e insieme di una lettura attenta dei testi di Arendt, Klein e Colette, per fare quello che davvero mi premeva, e cioè ripercorrere la loro traiettoria di pensiero. Nella polifonia di vita e opere di questi libri per così dire bifronti, forse ho scelto – mi hanno detto – donne che mi somigliano; un’osservazione che mi onora e mi lusinga, sebbene mi senta lontana dalla loro grandezza e dal loro coraggio. Certamente è stata una frequentazione assidua, che ora che si è conclusa mi lascia l’impressione di aver condiviso le loro vite in una prossimità sororale. Mi hanno insegnato molto: Arendt mi ha aiutato a capire meglio e diversamente il mondo politico, Klein a penetrare più a fondo il rapporto tra sessualità e vita del pensiero, e Colette… Colette indica la strada della gioia che non si arrende alla malinconia, è una maestra del piacere di vivere.

In che modo a suo parere, i dati biografici hanno inciso nello sviluppo del «genio» di queste donne?

Assai diversamente, come diverse sono state le loro vite. Per esempio, nel caso di Arendt, è stata sottovalutata secondo me la rilevanza del suo essere ebrea in Germania, subito prima e all’avvento del nazismo. La sua era una famiglia integrata, non religiosa, e la loro ebraicità non era centrale nella loro vita; ma a scuola questa specificità veniva in primo piano in episodi di minuto antisemitismo. Racconta Hannah Arendt che sua madre regolarmente scriveva protestando vibratamente, e lei, Hannah, veniva sospesa per un po’ (il che, allora, le faceva anche piacere…). Ebrea di famiglia integrata, dunque, ma cosciente di un antisemitismo mai del tutto assopito, che si sarebbe poi tragicamente affermato; innamorata della cultura tedesca, della lingua e della filosofia tedesca cui continua a fare riferimento anche quando è costretta a lasciare la Germania. E poi è stata fondamentale la relazione amorosa con Heidegger , di cui si è molto scritto. Ritengo osceno ridurla al solo aspetto di relazione sessuale, sebbene sia stata anche questo; in essa Arendt ha messo in opera una rara capacità di mantenere il rapporto del pensiero nella diversità di posizioni, la capacità di essere, come scrive lei stessa «fedele e infedele». Ha saputo prendere da Heidegger, ma più in generale dalla cultura tedesca ed europea, quel che le appariva essenziale, sapendolo trasformare in pensiero politico – assai modesta, non si definiva una filosofa, ma una «giornalista politica», che però ci ha lasciato intuizioni e riflessioni ancora vitali e feconde. E’ stata capace di capire subito che l’imperialismo e l’antisemitismo sono inerenti alla cultura europea, ma che in essa ci sono anche gli antidoti, e bisogna dunque trovarli e farli agire. Ha colto prima di chiunque i punti di contatto tra stalinismo e nazismo, la loro essenza totalitaria di negazione del pensiero singolare, di «banalizzazione» dell’umano che porta alla banalizzazione del male.

Nella trilogia torna più volte l’accento sulla singolarità – singolarità delle «protagoniste» di ogni volume, ma anche singolarità di ciascuna donna; e insieme il riferimento a una comune differenza nella quale solo si mostrano la creatività e la specificità delle donne. Come prende forma nel genio singolare di Arendt, Klein, Colette, questa comune differenza?

L’insistenza sulla singolarità è un dato fondante della cultura europea, che la caratterizza e distingue, e che credo si debba al suo essere incrocio di civiltà – greca, ebraica, cristiana. Dovremmo essere più fieri della nostra cultura, senza naturalmente dimenticare che ha anche grandi colpe storiche, con il colonialismo per esempio; ma saperne vedere e rivalutare e affermare gli elementi positivi di attenzione all’umano singolare. Un tratto comune di Arendt, Klein e Colette, un tratto che si lega al loro genio femminile, è che tale singolarità non diventa mai egotismo, è sempre desiderosa e capace di condivisione. Penso all’atteggiamento di Hannah Arendt verso la filosofia, quando definisce Platone, Kant e Heidegger esponenti della «tribù malinconica» dei filosofi chiusi nella loro torre a lamentarsi in discorsi esoterici che non si sforzano davvero di comunicare; a lei interesseva invece produrre un pensiero singolare che potesse però essere condiviso. Questa attenzione al legame, insieme all’insistenza sul tempo della nascita e della rinascita, e alla preoccupazione di salvaguardare la vita del pensiero, situato al cuore della vita, mi sembrano rintracciabili in tutte e tre, aspetti variamente declinati di una comune differenza.

Anche in questa trilogia, come già in precedenza nel suo lavoro, lei indaga il femminile e più ancora – direi – il materno, mettendo in gioco la complessità dei suoi molteplici aspetti. Centro dell’abiezione per la minaccia con/fusionale che in esso si incarna; aurora del legame con l’altro perché luogo di un amore unico nel suo essere amore per il «qualunque» che viene; «presa» a cui sottrarsi in una dinamica di libertà che passa attraverso il matricidio. Sono riconciliabili questi aspetti, e come?

E’ vero, la riflessione sul materno e sulla maternità è centrale nel mio lavoro, credo ve ne sia grande bisogno e che troppo poco si sia elaborato in proposito. In particolare mi interessa mettere in evidenza la difficoltà della vocazione e della funzione materna, spesso dimenticata o rifiutata in nome di una diversa realizzazione di sé; oppure avviene, oggi con molta evidenza, che la maternità venga mercificata, falsamente idealizzata in immagine commerciale con le infinite pubblicità di bimbi rosei e ridenti. Come psicoanalista mi trovo davanti alla fatica della maternità, alla crisi del sé che si vive nel rapporto con la propria creatura, rapporto fatto di tenerezza esorbitante e di esorbitante violenza, in cui convivono volontà di possesso e dipendenza. Poi la madre riesce a sublimare, lascia libero il figlio, la figlia, offrendo loro il dono del linguaggio, che si sostituisce al contatto corporeo. Qui sono in dissidio con Freud, secondo il quale la donna sarebbe incapace di sublimazione; credo che Freud non abbia guardato abbastanza le madri. Certo ci sono anche grandi scacchi della funzione materna, e credo che anche problemi sociali di grande importanza – le rivolte nelle periferie, la tossicomania, i suicidi di adolescenti – siano in parte legate a questi scacchi. Le madri sono lasciate sole, e non ci si rende conto che è un problema di civiltà capire il ruolo chiave della maternità e sostenere le madri nel loro difficile e fondamentale compito.

Lei delinea tre fasi della «battaglia delle donne per la loro emancipazione» nei tempi moderni: la rivendicazione dei diritti politici con il suffragismo; l’affermarsi di una «uguaglianza ontologica», l’uscita dalla secondarietà di una coscienza sempre trascesa dalla coscienza dell’uomo, con Simone de Beauvoir; la ricerca della differenza tra i due sessi, sulla scia del maggio ’68 e della psicoanalisi. Ma questa linearità progressiva si spezza se pensiamo che già alla fine della prima fase, senza disconoscere la lotta per il voto e sottolineando la centralità dell’elemento economico, Virginia Woolf aveva messo in primo piano la differenza, sia in Una stanza tutta per sé che ne Le tre ghinee . Eppure Woolf né sottovalutava l’esemplarità – al tempo stesso eccezionale e diversamente ripetibile – delle molte donne di cui rintraccia il contributo nella storia, né essenzializza la differenza in riduttive costanti biologiche. Non crede che assumerne l’insegnamento – come ha fatto il pensiero della differenza sessuale italiano – possa indicare una strada diversa per una risignificazione del rapporto tra uguaglianza e differenza, e anche per un altro modo di coniugare libertà di ognuna e di tutte?

Sono una grande ammiratrice di Virginia Woolf, e avrebbe facilmente potuto essere lei una delle protagoniste della mia trilogia. Non è stato così sia perché per una volta ho voluto sfuggire alla lingua inglese – sia Hannah Arendt che Melanie Klein, sebbene entrambe tedesche, hanno scritto in inglese – sia perché con Colette avevo l’occasione di mostrare una donna che, malgrado difficoltà e tradimenti, sa sfuggire alla depressione, mettendo al centro della sua vita e della sua opera la gioia di vivere. Però è vero che si tratta di una linearità artificiale, che ha senso soltanto se pensiamo al femminismo nella sua forma di movimento di massa; vi sono avventure intellettuali che spezzano questa linearità, e mettono in evidenza la complessità di intuizioni e proposte dove non vi è progressione ma compresenza. Sto lavorando ora su Teresa d’Avila, una donna depressiva e malata, una suora nella Spagna del XVI secolo, che però diventa una donna politica, conduce una battaglia contro la gerarchia della chiesa per riformare il Carmelo, e sa dire alle sue sorelle – nel XVI secolo! – che possono giocare a scacchi in convento per dare scacco matto a Dio.