Maria Teresa Carbone
Rileggendo a distanza di qualche settimana, e a Nobel assegnato, l’intervista rilasciata alla rivista francese «Lire» da Horace Engdahl, segretario perpetuo dell’Accademia svedese, sui criteri che governano l’assegnazione del più celebre fra i premi letterari, non si può fare a meno di notare come il ferreo precetto di segretezza cui i giurati si devono attenere, sia stato – nel caso di Doris Lessing – pienamente rispettato. Nulla è sfuggito all’esterno di quei «dibattiti del giovedì, focosi e argomentati», di cui parla Engdahl: il nome dell’autrice del Taccuino d’oro non compare in nessuna delle liste che come ogni anno, in un gioco rituale, agenzie di stampa, siti di scommesse e blog di tutto il mondo hanno pubblicato nella speranza di indovinare chi sarebbe stato il prescelto. E mentre di certo gli accademici di Stoccolma esultano, contenti di essere riusciti ancora una volta a mettere in scacco i vari profeti del Nobel, è interessante analizzare il riconoscimento a Doris Lessing – e in genere i meccanismi del premio svedese – anche alla luce di questo «effetto sorpresa». Che di sorprendente, per la verità, non ha molto, come ha implicitamente ammesso Elfriede Jelinek, Nobel per la letteratura nel 2004 la quale, dopo essersi rallegrata per il premio alla collega, si è dichiarata a sua volta stupita: «Avrei pensato che lo avesse ricevuto da un pezzo» ha detto la scrittrice austriaca, aggiungendo – candida o perfida? – di non avere più letto niente della Lessing dopo Il taccuino d’oro («una delle opere femministe più importanti della letteratura») ma di essere pronta adesso a riparare. Se davvero Jelinek deciderà di recuperare il tempo, e i libri, perduti, e si prenderà la briga di consultare, magari sul sito stesso del Nobel, la bibliografia di Doris Lessing, scoprirà che l’impresa che la attende è impegnativa: dal lontano 1962, l’anno in cui uscì appunto l’opera che sarebbe stata il livre de chevet di una intera generazione di lettori e soprattutto di lettrici, Lessing ha pubblicato una cinquantina di titoli, più di un libro l’anno – ancora romanzi realistici (spesso di notevole successo internazionale) come La buona terrorista, ma anche saghe di fantascienza, racconti, saggi, drammi, e soprattutto i due testi autobiografici, Sotto la pelle e Camminando nell’ombra, in cui – già molto anziana – ha ripercorso i primi decenni di una vita per tanti versi davvero «spericolata». Non solo per la decisione, inusuale per una donna nata all’indomani della prima guerra mondiale, di lasciare marito e figli per dedicarsi alla scrittura, ma per la consuetudine radicata, e fieramente mantenuta ancora oggi, di puntare lo sguardo sulla «esperienza femminile» (come recita la motivazione del Nobel), quella propria e quella altrui, sottraendosi a pregiudizi e a stereotipi. Assegnandole il premio con anni, o decenni, di ritardo rispetto al periodo in cui i suoi libri più celebri hanno saputo restituire l’atmosfera di un’epoca – il Sessantotto, le lotte femministe – che oggi sembra lontana, gli accademici svedesi hanno probabilmente voluto sottolineare il valore di quella «letteratura di testimonianza» di cui Engdahl parlava nell’intervista a «Lire». Ancora una volta, si potrebbe commentare, un premio politically correct, e poco attento alla scrittura e allo stile. Un commento al quale Lessing, che ha reagito alla notizia del Nobel con il suo solito ironico pragmatismo («la gente che non ha mai sentito parlare di me adesso andrà a comprare i miei libri: è una bella cosa, guadagnerò un po’ di soldi»), resterebbe con ogni probabilità del tutto indifferente.
Ancora un Nobel politically correct. Premiando l’autrice del «Taccuino d’oro», l’Accademia di Svezia ha voluto riconoscere «lo scetticismo e la passione» con cui Doris Lessing ha raccontato l’epopea dell’esperienza femminile. Nell’arco di oltre mezzo secolo ha scritto diverse decine di opere tra narrativa e saggistica
Maria Antonietta Saracino
In esergo, sulla pagina bianca che precede l’inizio del suo primo romanzo, una frase anonima recita: «È dai falliti e dagli sconfitti di una civiltà che se ne possono meglio giudicare le debolezze». Era il 1949. Con il manoscritto di quel romanzo, L’erba canta, sotto il braccio, studi da autodidatta, una esperienza di lavoro come centralinista, due matrimoni falliti e tre figli alle spalle, Doris Lessing – nata Tyler in Persia, nel 1919 – lasciava la Rhodesia del sud, oggi Zimbabwe, nella quale aveva trascorso trent’anni, per approdare a Londra dove tuttora vive. Si lasciava dietro i due figli avuti dal primo marito (il terzo figlio lo avrebbe portato con sé) e i ricordi della famiglia di origine – emigrata in quella parte di mondo dopo la prima guerra mondiale – impoverita e sconfitta: il padre mutilato di una gamba per colpa di una mina, la madre delusa da una vita che non aveva scelto.
Scetticismo e passione
Insieme agli anni trascorsi in una fattoria nel veld, Lessing lasciava anche la fase dell’impegno politico, cui proprio in Rhodesia si era intensamente dedicata. Dell’Africa, osservatorio privilegiato di alcune delle più grandi follie dei nostri tempi (colonialismo, razzismo, violenza, guerre), dirà che è stata il più grande dono che la vita le abbia fatto, a quel mondo insistentemente tornando in tanti suoi romanzi. Con lo stesso sguardo lucido e attento, che da allora costantemente la accompagna e che proprio in quel contesto aveva preso forma, osserverà la vita delle donne, raccontata fin dal primo romanzo, e nei molti che sarebbero seguiti, senza enfasi o retorica. Sarà questo sguardo, grazie al quale intere generazioni si sono riconosciute nei suoi libri, a fornire la motivazione di questo Nobel per la letteratura, che in Lessing vede «l’autrice di un’epopea dell’esperienza femminile che con scetticismo, passione e forza visionaria ha sottoposto una civiltà divisa a un attento scrutinio».
Da L’erba canta (La Tartaruga), apparso a Londra nel 1950, a oggi, Doris Lessing ha presentato pressoché ogni anno un’opera di narrativa. Alla sua prosa lineare e solida, che richiama quella dei grandi narratori ottocenteschi, ha consegnato una ininterrotta serie di romanzi, ma anche di racconti brevi e novelle, tre opere teatrali e numerosi saggi e scritti di viaggio, tutti con un preciso taglio politico. È ad esempio a seguito della pubblicazione di uno di questi, Going Home, nel 1957, che verrà dichiarata persona non grata in Rhodesia, dove tornerà solo dopo l’indipendenza, nel 1981, esperienza questa riportata nel volume Sorriso africano. Quattro visite nello Zimbabwe, del 1992. E sarà tra i primi a scrivere con occhio fortemente critico della presenza occidentale in Afghanistan, dove si recò al seguito di un programma umanitario, in un prezioso libretto intitolato non a caso The Wind Blows Away Our Words, «Il vento soffia via le nostre parole», del 1987. Di politica e follia umana parlerà ancora nelle Massey Lectures, che tenne in Canada nel 1985, pubblicate con il titolo di Prisons We Choose To Live Inside (Le prigioni che abbiamo dentro. Cinque lezioni sulla libertà, Minimum Fax).
Ma soprattutto ha scritto di donne, guadagnandosi la mai accettata quanto superficiale etichetta di «scrittrice femminista», dando voce lungo un arco di oltre cinquant’anni ai più importanti momenti dell’esperienza femminile: dalla Mary Turner dell’Erba canta, nella quale traspone il personaggio di sua madre, sopraffatta da un’Africa che non capisce e che le fa paura, alla figura di Anna Wulf del Taccuino d’oro (1962), libro-culto di una generazione, dalle figure femminili che affollano i cinque corposi volumi della serie I figli della violenza, apparsi tra il 1966 e il ’75, a quelle, forse più inquietanti, del ciclo di fantascienza Canopus in Argos cui approda dopo un avvicinamento alla filosofia sufi. Ma anche la Harriet del Quinto figlio, del 1988, quintessenza della sposa felice, la cui vita viene sconvolta dalla nascita di un figlio difficile, un diverso, la cui esistenza ricadrà interamente sulle spalle della madre. O il personaggio della «brava terrorista», che dà il titolo all’omonimo romanzo e che si interroga sulla doppia vita di chi, dietro una esistenza apparentemente «normale», aveva scelto la militanza armata.
A Lessing si deve il merito di averci saputo rimandare lo sguardo sul mondo di una bambina di tre anni, lei stessa, nello struggente Sotto la pelle, primo di due volumi di una autobiografia che Lessing diede alle stampe nel 1994, a settantatré anni, rivendicando il diritto di raccontare la propria storia per impedire ad altri di farlo per lei. Il racconto è durissimo: il mondo non capisce i bambini e li condanna a un dolore che li accompagnerà nella vita adulta. Così è stato per lei, che – con la memoria di allora, vivida e impietosa – rivela il suo nocciolo di rancore verso la famiglia. Verso la madre, innanzitutto, tutta presa da se stessa, descritta con immutato risentimento a decenni dalla sua morte: a lei Lessing dedica nel 1986 una biografia dal titolo Impertinent Daughters. My Mother’s life, apparsa in italiano con il titolo Mia madre (Bollati Boringhieri). Di lei parla estesamente e ancora con acredine nei volumi della sua autobiografia, Sotto la pelle appunto e Camminando nell’ombra. Ma è dura anche nei confronti del padre, ritratto nella figura di Dick Turner, il colonizzatore povero e perdente dell’Erba canta, travolto dal sogno di una realizzazione economica che non arriverà mai.
Il valore della vecchiaia
Impietosa nei confronti della retorica della maternità, la smaschera parlando delle maternità sue, mai del tutto accettate. Che le hanno insegnato, dice, come l’affetto verso i bambini nulla abbia a che vedere, nella donna, con l’esperienza fisica dell’essere madre. Così è stato per lei che, non ancora trentenne, in Rhodesia, si fece sterilizzare. All’altro estremo della parabola umana, a Lessing si devono straordinari personaggi di donne anziane, come la indomita barbona del Diario di Jane Somers che non si lascia accudire per non consentire agli altri di sentirsi con la coscienza a posto. Un personaggio di grande forza che Judith Malina del Living Theatre ha portato sulle scene teatrali in un celebre monologo.
Le sue donne anziane rivendicano il diritto all’amore e all’erotismo, come accade alla protagonista sessantacinquenne di Amare, ancora, del 1996, turbata e incredula davanti a una ondata di emozioni che, per la prima volta dopo tanto tempo, ricomincia a provare quando si scopre innamorata di un uomo assai più giovane di lei. Sul tema dell’amore tra una donna anziana e un ragazzo poco più che adolescente, Doris Lessing torna, nel 2003, con il lungo racconto Le nonne, che dà il titolo all’omonimo volume (Feltrinelli), presentato dalla scrittrice al Festivaletteratura di Mantova del 2004.
Ideologie inaffidabili
Fragile nel fisico ma estremamente lucida, Doris Lessing si è presentata in quella occasione pronta a ragionare sul presente e sul passato, sulla stupidità degli uomini e sulla inaffidabilità delle ideologie, il suo costante pensiero di questi anni. Perché «in my extreme old age», ha detto, «mi rendo conto di aver vissuto momenti della storia che sembravano immortali. Ho visto il nazismo di Hitler e il fascismo di Mussolini, che sembravano destinati a durare mille anni. E il comunismo dell’Unione Sovietica, che si credeva non sarebbe finito mai. Ebbene tutto questo oggi non esiste più. E allora perché mi dovrei fidare delle ideologie?». Si è detta stanca, Doris Lessing, di vivere in un mondo che sembra avere perduto ogni centro di gravità; dove le donne di molti paesi occidentali non vogliono più fare figli, i giovani non trovano lavoro né casa, dove vecchi e bambini vivono una insostenibile condizione di incertezza.
Ma oggi, e ormai da tempo, è il pensiero della guerra a tormentarla, anzi delle molte guerre che il mondo si ostina a ignorare. Ne ha viste davvero tante, lei, nata nel 1919, prima fra tutte la Grande Guerra, il cui ricordo ha ossessionato la sua giovinezza. «La stupidità degli uomini è tale che nonostante tutto quello che abbiamo vissuto, non siamo riusciti a imparare dall’esperienza. La guerra porta solo distruzione e morte, e sono i più indifesi a pagarne il prezzo». Su questa mostruosità, aveva concluso la scrittrice in quella occasione, tutti dovremmo riflettere, se vogliamo che davvero le cose comincino a cambiare.
Il film di Ozon è ispirato alla vita di Marie Correlli autrice di fine ´800 poi dimenticata
Jane Austen diventa un personaggio privo delle doti per cui è diventata famosa
Mariolina Venezia
In questi giorni escono nelle sale a distanza di una settimana due film incentrati sul personaggio di due scrittrici: Angel, di François Ozon, ispirato all´inglese Marie Correlli, e Becoming Jane-Una donna contro, di Julian Jarrod, su Jane Austen, nei cinema da domani.
Raccontano entrambi gli inizi, le scelte esistenziali, le occasioni, che portano due ragazze qualunque, alla fine del Settecento Jane Austen, agli inizi del Novecento la Correlli, alias Angel, a diventare una un monumento della letteratura, l´altra una scrittrice molto famosa in vita, ma presto dimenticata.
Due donne molto diverse, schiva e riservata una, sfrontata l´altra, ma con qualcosa in comune: la letteratura, per entrambe, supplisce alla vita. La rimpiazza, la completa e a volte la fagocita. In un´epoca di realtà virtuale l´argomento è, se non nuovo, attuale. I due film lo trattano con diversa sensibilità.
“Qualora una donna sia dotata di fine intelletto, di spirito e di arguzia, dovrà custodire queste doti come un segreto”, viene detto alla giovane Jane Austen nel film di Jarrold. Ma a far tesoro dell´avvertimento sembra soprattutto il film, nel quale il personaggio della scrittrice è descritto senza che si ritrovi molto delle doti suddette, della leggiadra ironia e dell´allegra impertinenza di cui brillano i suoi romanzi. Sembrerebbe che il cinema, arte della superficie, sia poco adatto a descrivere i “paesaggi interiori misteriosi”, cui pure nel film si fa accenno, e se in The Hours la raffinata Virginia Woolf viene descritta come una sciattona col nasone, qui, per mostrare sullo schermo la libertà mentale di Jane Austen, si sente il bisogno di farle maneggiare come un maschio il bastone da cricket, o prendere l´iniziativa di baciare un uomo, chiedendogli poi per giunta se è stata brava. Proprio la scrittrice di “Orgoglio e pregiudizio” che nei suoi romanzi ha esplorato le superfici con elusiva grandezza, qui rischia di essere banalizzata nella sua scelta esistenziale. Non volendo scendere a patti con la vita, e accettare che “l´affetto è desiderabile, i soldi indispensabili”, votandosi allo zitellaggio, sintetizza così la sua nascente filosofia: “E´ la verità, ma va presa con un sorriso”.
Alla verità la scrittrice Angel, raccontata da Ozon, non è interessata. Preferisce ciò che è bello. “Odio Norley” – dice, riferendosi al suo paese – La gente lì è tutta cattiva e stupida”. E poi, parlando di sé: “Niente di quanto dico mi sembra reale, e forse un giorno smetterò io stessa di crederci”. Realizza, scrivendo, tutti i suoi sogni, e alla fine si rende conto di non aver vissuto. Ma l´affettuosa perfidia in technicolor con cui Ozon descrive il suo personaggio odioso e tenero, furbo e ingenuo, arrivista e puro, carnefice ma soprattutto vittima, con la sua sfacciata fragilità, mi sembra avere molto più a che fare con i paradossali e crudeli territori della letteratura, dove le cose si rovesciano e non sono mai come sembrano. “Non è forte come crediamo noi”, dice il marito Esmé nell´affidare Angel alla sorella prima di partire per la guerra. Quel marito pittore che forse non l´ha amata, ma l´ha capita più di chiunque, e sa darle l´unica verità di un amplesso anche brutale, che si contrappone alle sue romanticherie.
Angel diventa scandalosa, non perché prende anche lei l´iniziativa di baciare un uomo, ma perché ha il coraggio di dire che è fiera del suo romanzo, di credere caparbiamente nei suoi sogni e in ciò che scrive, a torto o a ragione, di spiattellare il suo sentimentalismo, ma anche il suo pacifismo. Niente è meno controllabile di una donna che ha il coraggio di sbagliare.
Che sia una libertine come Colette, o una grande zitella come Jane Austen, Emily Bronte, Emily Dickinson, capaci nel chiuso delle loro stanze di infinite audacie stilistiche e sentimentali, di fondamentalismi e libertà, ci sono state in tutte le epoche donne irriducibili, forse proprio perché abituate ad avere a che fare col materiale illimitato dell´immaginazione. La letteratura è territorio del diavolo, diceva Flannery O´Connor. Capace di consolare, di compensare, di ammortizzare l´attrito con la vita, ma anche di comprenderla meglio, a patto di non allontanarsene troppo, per poi scoprire di non aver vissuto. Questo lo sa, e se non lo sa lo scopre, chiunque ci abbia a che fare.
Carlo Formenti
E per la prima volta in un unico volume, i cinque romanzi del ciclo fantasy di Earthsea, creato da Ursula Le Guin, reggono il confronto con Il Signore degli anelli, il capolavoro di Tolkien. Ambientata in un mondo immaginario quasi interamente ricoperto dall’ oceano, da cui emergono centinaia di isole e arcipelaghi, la saga offre gli ingredienti tipici della letteratura fantastica: maghi e streghe, guerrieri e draghi, re e principesse, sortilegi ed imprese eroiche; ma che si elevano da livello medio del genere per lo spessore psicologico dei personaggi, l’ accuratezza con cui vengono descritte le differenze culturali e l’ attenzione per i particolari della vita quotidiana. Come se l’ autrice fosse riuscita a operare una sintesi fra il talento scientifico del padre antropologo e il talento artistico della madre scrittrice. Del resto questo miscuglio di fedeltà ai canoni del genere, sofisticazione culturale e abilità narrativa, è lo stesso che ha decretato il successo della Le Guin in quanto autrice di fantascienza (genere per cui è più conosciuta e che le ha regalato prestigiosi riconoscimenti). Nella versione fantasy, tuttavia, la peculiare impronta ideologica della scrittrice (che si professa femminista, ecologista, anarchica e pacifista) assume una tonalità particolare. Mentre nelle opere di fantascienza lo sforzo di trasmettere determinati valori politici e culturali appesantisce a volte la narrazione, nei romanzi fantastici le stesse idee si «incarnano» in personaggi che assumono un rilievo «archetipico». Quest’ aura mitica, paradossalmente associata alle fin troppo umane emozioni dei personaggi, è probabilmente uno dei motivi che rendono i lavori della scrittrice americana graditi sia agli adolescenti che agli adulti. Alla saga di Earthsea – da cui il regista Goro Miyazaki ha da poco tratto un film d’ animazione – la scrittrice le ha dedicato più di trent’ anni; essa si dipana attorno alle gesta di Ged, un giovane pastore che diventa mago e risale la gerarchia del suo nuovo status fino a divenire l’ uomo più potente del pianeta, per poi vedersi costretto a rientrare nella più assoluta normalità, dopo aver esaurito il proprio talento nella immane impresa di ristabilire l’ equilibrio fra mondo dei vivi e dei morti. Il libro di Ursula Le Guin, «La leggenda di Eearthsea», editrice Nord, pagine 832, 19,90
Grace Paley La struttura profonda di tutto ciò che scriveva era quella ebraica del midrash: un viaggio attraverso i significati Annie Napier Raccontare, per lei, come per Sheherazade, era un modo di lottare contro l’onnipresenza della morte
Alessandro Portelli
A fine agosto, senza che in tanti se ne accorgessero, non solo l’America ma noi tutti abbiamo perso due grandi narratrici: Grace Paley, grande maestra del racconto, dell’ascolto, della voce e dell’interrogarsi, era relativamente famosa, anche se molto meno di quanto avrebbe meritato. L’altra la conoscevano solo la sua famiglia, i suoi vicini e io, che qualche volta l’ho nominata su questo giornale: si chiamava Annie Napier, era di Harlan, Kentucky, manteneva la famiglia guidando lo scuolabus sulle strade contorte di quelle montagne; ascoltava, raccontava, suonava, cantava. Non taceva mai. Un’amica che le ha conosciute entrambe mi diceva: peccato che Grace e Annie non si siano mai incontrate, si sarebbero volute bene. Grace era la città, la strada, i palazzi affollati; ed era la Palestina, il Nicaragua, il Vietnam. Annie era le montagne, gli alberi, le valli strette, la solitudine; il suo corpo era segnato e scavato come la sua terra ferita. E anche lei odiava la guerra. Pochi giorni prima che morisse Grace Paley era uscita una sua intervista sulla Repubblica. Parlava del suo ultimo libro, una raccolta di saggi e articoli messi insieme in tanti anni, tradotta con un intelligente titolo italiano: L’importanza di non capire tutto. Proprio perché era convinta che restasse sempre qualcosa di non ancora capito, Grace Paley non ha mai smesso di provarci, di interrogarsi, di indagare. La struttura profonda sottostante a tutto ciò che scriveva era quella ebraica del midrash: lo svolgersi inesauribile delle implicazioni di ciascuna parola, un viaggio attraverso i significati con destinazione ignota e affascinante. Spiegava il mondo guardando le donne (e di sguincio gli uomini) tanto sulle panchine e nelle cucine dei quartieri popolari di New York quanto nei villaggi del Vietnam e del Nicaragua. In ogni scambio di domande e risposte che comparivano nei suoi testi erano in gioco il quotidiano e l’universale. Pacifista indomabile, femminista ironica, socialista investigativa, ebrea profondamente errante, carica di curiosità e di amori, se tutta la sinistra le somigliasse di più saremmo assai migliori e staremmo assai meglio.
Annie Napier l’avevano operata ai polmoni due anni fa. Ogni volta che ci incontravamo si ripeteva la stessa scena: io seduto sul divano sdrucito di lato sotto la finestra, lei su quello davanti alla televisione che nessuno guardava, con in una mano una tazza di velenoso caffè kentuckiano e nell’altra una sigaretta dopo l’altra. In mezzo a noi, sempre acceso, quasi sempre dimenticato e sempre in ascolto, il registratore. E da lei a me e da me a lei di ritorno, la voce: “Allora, a quei tempi, non avevamo la Tv, né la radio, e la sera quando faceva buio toccava rientrare in casa perché fuori uscivano i serpenti. Così la sera ci chiudevamo in casa e accendevamo il fuoco e mamma e papà si mettevano lì e raccontavano storie di quando erano piccoli. E storie che i loro genitori avevano raccontato di quando erano piccoli loro. È così che è cominciato tutto questo raccontare storie.” Raccontare storie, per Annie come per Grace, era un modo di spiegare il mondo, e di spiegarci quanto fosse inesplicabile.
Il significato di una storia non si esaurisce mai, come il midrash; ogni racconto genera altri racconti, ogni racconto risponde alle domande del precedente e apre domande per quelli che verranno; ed entrare dentro ogni racconto, per semplice che sembri, significa inoltrarsi dentro un infinito di possibilità, in un “giardino dei sentieri che si biforcano” ad ogni parola, ad ogni sillaba. Come per Sheherazade, per Annie raccontare era un modo di lottare contro l’onnipresenza della morte: “Vedi, appena nasce un bambino ha già il mondo intero schierato contro, almeno così era quando sono nata io. Prima di tutto, la casa era tanto fredda che ci voleva fortuna solo per sopravvivere. Quasi tutti erano denutriti e sottopeso. Ma una volta che eri riuscito a fare arrivare fin qui quelle povere creature, le cominciavano a curare coi rimedi casalinghi – tè di cacca di pecora, infuso di erba gattaia – c’è mancato poco che ammazzassero mia sorella Becky. Negli anni ’50, qui girava il tifo, portato dall’inondazione, c’è morto il bambino di mio zio. Ora che arrivavi a due anni, avevi già dovuto superare la scommessa della sopravvivenza.”
Quando arrivavo io piantava tutto e mi guidava ad ascoltare altri narratori: suo zio Plennie, che si portava nella gamba il piombo di una battaglia fra minatori e guardie padronali nel 1941; Will Gent, che raccontava forse con una dose di immaginazione gli orrori del suo Vietnam; James L. Turner, che ricordava ancora i suoi antenati schiavi nella stessa valle dove era cresciuta lei; Lewis Bianchi, imprenditore di pompe funebri con flebili memorie di antenati italiani, che ci spiegava come si fa a rendere presentabili i cadaveri dei minatori morti in miniera o uccisi dalla pneumoconios. Da una tappa all’altra, il suo flusso di racconto non si fermava. Appendevo il microfono allo specchietto, e via. E raccontava di quando anche lei aveva sconfitto, per sé e per la sua bambina, la scommessa della sopravvivenza contro il medico incompetente e ubriaco e contro la sua stessa famiglia, che per motivi religiosi non voleva facesse il cesareo; o quando, agli avvocati delle miniere secondo cui le inondazioni che avevano distrutto le case dei suoi vicini erano un “atto di Dio”, lei aveva risposto “la pioggia sarà pure un atto di Dio, ma non è stato Dio a mandare quei bulldozer a demolire le colline”; o quando il marito era rimasto invalido per un incidente sul lavoro, e lei era andata in fabbrica e al tempo stesso aveva tirato su due figlie, quattro nipoti e adesso cominciava con una bisnipote. Ma era stanca. Raccontava di sopravvivenza e intanto, sempre più pelle e ossa, con quelle incessanti sigarette nei polmoni distrutti, si lasciava ulteriormente distruggere, come se non ce la facesse più.
Triste il paese, triste il mondo, che perde i suoi narratori e soprattutto le sue narratrici. La scommessa per la sopravvivenza oggi, nel fragore incessante della comunicazione, è la scommessa contro il silenzio profondo, il silenzio di chi sente e non ascolta, parla e non dice, dice e non è ascoltato. Grace Paley e Annie Napier erano due prove viventi della fiducia nella possibilità della parola, della propria parola intrisa di parole altrui ascoltate, interiorizzate, restituite in mille forme mutevoli. Credo di essere stato utile ad Annie, perché la stavo a sentire. Anche per Grace Paley, raccontare non era mai un’attività solitaria, un’attività che si riduceva a scrivere chiusi nella propria stanza per lettori lontani e sconosciuti: raccontare voleva dire sempre offrirsi a chi voleva sentire, guardarsi in faccia, muoversi e smuovere. Un suo racconto parla di una bambina ebrea, Shirley Abramowitz, che ha una voce “capace di staccare le etichette”, una voce talmente insopprimibile che le chiedono di fare l’angelo annunciatore nella recita di Natale – e lei, insieme alla sua famiglia, accettano e ne sono orgogliosi, perché non si può imporre a una simile voce di tacere. “Vedi – dice un suo personaggio – per un ebreo ‘chiudi il becco’ è un’espressione terribile, una parolaccia, come un peccato, perché all’inizio, se ricordo correttamente, era la parola.”
Una tipica notte di tregenda nella sua casa isolata in cima alla montagna, Annie mi chiese, “ci credi ai fantasmi?” “No”, dissi io. E lei: “neanch’io. Comunque: ce n’è uno che tutte le sere passeggia dalla veranda alla cucina”. Non ci credo, ma è vero: l’essenza dell’immaginazione. Esiste una relazione fra l’immaterialità e la presenza della voce, e l’immaterialità e la presenza dei fantasmi. Mi viene voglia di immaginarmi Grace e Annie che passeggiano tutte le sere dalla veranda alla cucina, sotto forma di voce – di voci che abbiamo ascoltato, che abbiamo fissato nei libri e nei nastri, e soprattutto voci che continuano a risuonarci nella memoria.
Nel suo ultimo romanzo, «Più forte di me», da poco uscito per Feltrinelli, Rossana Campo mette in scena un’eroina che cerca di placare nell’alcol il suo desiderio di felicità sullo sfondo di una città ostile
Anna Grazia D’Oria
Che Rossana Campo non sia una scrittrice di metafore, lo conferma anche il suo ultimo romanzo, Più forte di me, uscito di recente per Feltrinelli (pp. 276, euro 16), ancora una volta pienamente calato nella realtà delle situazioni e scritto in una ossessiva presa diretta. Referente privilegiata è sempre la donna, l’io narrante che sotto nomi diversi, con identità di volta in volta differenti ma sempre in qualche modo affini, il lettore ha imparato a conoscere nei libri precedenti della scrittrice genovese dal fortunato esordio di In principio erano le mutande, uscito nell’ormai lontano 1992, ai più recenti Duro come l’amore e L’uomo che non ho sposato.
Qui tuttavia il discorso si presenta più ampio, non più solo un monologo interiore, lo specchio di una situazione femminile che si dilata all’inverosimile. Se pure il romanzo ruota intorno all’assunto secondo cui «dentro ogni ragazza vive una zingara», costante delle altre opere di Rossana Campo, in Più forte di me il coinvolgimento sociale è più ampio, quasi a delineare uno squarcio nascosto della metropoli contemporanea. Così attuale e concreta nella descrizione delle vie, dei quartieri, dell’atmosfera, Parigi potrebbe in realtà essere Roma, o un’altra grande città dell’occidente. Chi sta ai margini vive la stessa storia, sente gli stessi problemi; angosce, sofferenze, miserie, scandite da una domanda fissa, semplice e dura, ricorrente nelle pagine: «vivere per cosa? per chi?».
Più o meno grandi, ma comunque totalizzanti, i disagi vengono esorcizzati nell’alcol. La protagonista infatti affronta il tradimento del marito rifugiandosi nel bere e automaticamente si ritrova a vivere dentro una dimensione diversa: suoi compagni di strada diventano gli emarginati e i senzatetto, la casa è l’ospedale per non morire e la clinica per disintossicarsi, di qui passa il cammino faticoso per riemergere.
Per essere vivi, pensa la donna, «non basta poter respirare». Continuamente inseguita e affannosamente rincorsa, ma di rado vissuta, la felicità è una «gran puttana». E tuttavia, a costo di cercarla in fondo a una bottiglia o nel corpo che vibra nel rapporto sessuale, vivere desiderando la felicità, e anzi proclamando «il coraggio di essere felici», è una costante delle eroine di Rossana Campo e anche dei personaggi che ruotano intorno alla protagonista di questo suo utimo libro, personaggi che hanno alle spalle storie diverse, e però convergenti nell’annullamento di sé attraverso l’alcol.
Così, quando la disperazione aumenta, il desiderio di amare (che coincide con l’amore stesso) appare ancora più forte, sembra tutto nella vita. Non a caso i vari personaggi che affollano le pagine di Più forte di me e che sono tutti, senza eccezioni, figure «eccentriche», discoste dalla «normalità» (tanto che le pagine più intense del libro sono ambientate nella clinica dell’Olivier dove l’ottica consueta si capovolge e una banda di matti disperati ubriaconi finalmente trova la volontà di vivere), esprimono un desiderio comune: «Vogliamo un po’ d’attenzione, vogliamo essere amati e sentire un po’ di calore. Per sopravvivere abbiamo bisogno di questo».
Questo calore, questa solidarietà, questa amicizia, si riveleranno più forti del sesso (che è precario), più forti dell’alcol (che è ingannatore). In questo libro sconsolato, l’autrice può dunque avanzare una ricetta, un messaggio: per salvarsi in una società dura che annulla tutto, il segreto è il dialogo, la solidarietà, la condivisione. Solo questa deve essere la vera felicità, dice alla fine Rossana Campo con serietà, rinunciando all’ironia che traspare invece in tutte le pagine e che non risparmia né le donne né tanto meno gli uomini, descritti quasi tutti come imbelli, manichini, egoisti (con qualche eccezione: Fred, l’amico gay, spiritoso, equilibrato, disponibile; il medico Alain che cura bruscamente anche l’anima, Thierry, l’edicolante generoso).
Un’ironia che l’autrice sembra rivolgere anche a se stessa e perfino alla sua scrittura: «Libri e libri, parole e parole, ah quanto le disprezzo tutte le palle inventate che riempiono la maggior parte dei libri che stanno ammucchiati sui banconi delle librerie. Libri e libri su tutti gli scaffali e i tavoli puliti e spolverati, tutti lì in fila come soldatini a cercare di farsi leggere le loro cazzate che non fanno troppo male a nessuno, né a chi le scrive né a chi le legge, tutta quella roba che non c’entra niente con la mia vita». Sono parole che Rossana Campo mette in bocca alla sua protagonista che – guarda caso, in un gioco di specchi fra finzione e autobiografia – fa la scrittrice di mestiere. Proprio come l’autrice che, facendo mostra di non prendere sul serio il proprio lavoro, fa dire ancora alla protagonista: «Scrivo per ridurre un po’ la mia pazzia sul tavolo dove taglio le cipolle».
Le cipolle fanno piangere, ma questo non è per fortuna un libro strappalacrime. È anzi un libro molto serio, come lo è la scrittura – e Rossana Campo lo sa bene – quando si fa testimonianza.
All’Auditorium il recital della performer Usa che non risparmia critiche alla guerra in Iraq e all’ipod
Mario Gamba
Come voce recitante, come lettrice poetica, pochi la battono in musicalità. Lo si nota all’inizio del suo nuovo spettacolo, Homeland, nel quasi-buio della Sala Sinopoli dell’Auditorium romano. Laurie Anderson ancora sola con la sua voce e la tastiera appena sfiorata per creare un ambiente sonoro evocativo e struggente. Conosce il segreto di far balenare quietamente appena una nota nella parte vocale del “recitato con musica”: una nota che sembra prolungarsi, lasciare un ricordo, dare un carattere. Oggi in questa particolare arte è più matura, meno manierata (se mai lo è stata), meno conciliante. Pur sempre lirica.
Quando questa lettura diventa recitativo vero e proprio e immediatamente canto, il passaggio è lieve e fascinoso. E intanto l’hanno raggiunta sul palco i tre musicisti che collaborano con lei alla realizzazione di questo poema-concerto per una volta senza video, tutto giocato sul testo e sulla musica. Sono Okkyung Lee, grandiosa violoncellista al centro delle più importanti avventure di musica “sperimentale”, con Butch Morris, con Assif Tsahar, qui, diciamolo, abbastanza sprecata. Poi, Skuli Sverrisson al basso elettrico e Peter Scherer alle tastiere.
Deliziosa “antiamericana” questa Laurie Anderson. Subito dopo un “preludio” che accenna agli Uccelli di Aristofane per raccontare l’inizio della memoria nella storia dell’umanità – e c’è già tutto il suo pensiero austero: viviamo in tempi bui perché non ricordiamo le cose importanti, fondative, la Costituzione per esempio, che forse qualcuno “ha scritto con inchiostro invisibile” -, il suo testo raffinato parla di uomini “vestiti per uccidere” che dicono di sé “di sicuro abbiamo ragione” e c’è chi grida “benvenuti benvenuti” e c’è la voce di qualche coscienza critica che aggiunge “benvenuti nella notte americana”. Sono senza dubbio i soldati Usa mandati in Iraq che viaggiano in lungo e in largo al suono di un inno che fa più o meno così: “Dammi un ipod/voglio ascoltare un rap… perché sono un tipo cattivo/lascia che ti spedisca dritto all’inferno”.
Dalla critica dell’ipod alla critica della civiltà dell’immagine, per cui “le cose non sono più le cose”, il passo è breve. Non si poteva sperare che Anderson si fermasse per una volta a osservare la tragedia di un presente assai vicino: lei ha come sempre nella testa che tutto il male venga da un mondo di consumi e di agi e che ci dev’essere stato un tempo, da rimpiangere, in cui la naturalezza del vivere non generasse mostri. Una vera apocalittica adorniana, rimpianti a parte (il maestro francofortese non si dilettava in ciò). Lo spettacolo si snoda attraverso le “stazioni” dell’orrore della vita americana non solo di oggi, non solo per le guerre e il folle progetto di dominio mondiale. L’Anderson di sempre, insomma.
Ma il testo, che ha una continuità anche se lascia campo alle canzoni (con relative parole) a loro modo “chiuse”, è davvero garbato e inventivo. Polemico e persino predicatorio: “Non c’è posto per la libertà quando la guerra non accenna a finire”. Dal punto di vista musicale c’è un’altra bellissima prerogativa di Laurie Anderson vocalista da mettere in rilievo. È quando prende l’avvio di un’aria partendo da un suono basso, ma sembra un suono naturale corporeo non una nota, non dura nemmeno un secondo, e poi l’aria è tutta cantata nel registro acuto. Sensuale. L’orchestrazione stavolta è più ambiziosa ma anche più pesante: quando gli “ostinati” gentili di tutti quanti lasciano il posto a certi unisoni enfatici violino-violoncello-tastiera. E invece le nenie intellettuali e politiche di Laurie non andrebbero disturbate.
Nadia Fusini e Liliana Rampello
Autrici di due libri che, in modi diversi, fanno i conti con la difficoltà
di raccontare Virginia Woolf, non semplici biografie ma testi
che si misurano con la scrittura della vita come avventura dell’anima.
A Mantova, nel corso del Festivaletteratura 2006, Nadia Fusini e Liliana Rampello hanno dialogato tra di loro mettendo a confronto i loro percorsi. Abbiamo trascritto questo scambio che vi proponiamo come inusuale testo critico ma anche come testimonianza
della relazione tra due appassionate lettrici.
LILIANA RAMPELLO – Nadia Fusini è anche una traduttrice di Virginia Woolf, della Woolf ci ha restituito finalmente la lingua dei suoi romanzi. Entrambe siamo state sicuramente molto colpite dalla capacità e possibilità che i suoi testi ci davano di entrare in viva relazione con una donna che non abbiamo considerato alle nostre spalle ma in qualche modo capace di camminare ancora accanto a noi, e noi di fianco a lei. Io ho incontrato i testi della Woolf in un percorso stravagante rispetto a quelli tradizionali perché stavo studiando Walter Benjamin quando mi sono imbattuta nei suoi testi. Poi l’ho incontrata ovviamente tra le donne. Nel movimento delle donne la sua presenza – soprattutto per i testi dichiaratamente politici, cioè Una stanza tutta per sé e Le tre ghinee – erano stati ripresi e riletti come momento inaugurale di un pensiero che, più che della differenza femminile, definirei della libertà femminile. Ero molto incuriosita da questi testi ma la lettura dei suoi romanzi, soprattutto nelle traduzione allora esistenti, mi annoiava mortalmente e non capivo come mai si parlasse tanto della scrittrice. In realtà, mi sono appassionata molto prima della Woolf delle lettere, dei diari, dei saggi. Solo dopo aver fatto questo passaggio nella sua opera non narrativa sono riuscita a capire che cosa diavolo aveva fatto nei suoi romanzi. Ovvero come avesse una posizione di libertà che non veniva semplicemente tematizzata nel suo lavoro ma fosse proprio una postura della sua esistenza ed un coraggio, un incredibile coraggio proprio nella capacità di porsi rispetto alla grande tradizione della letteratura inglese che conosceva molto bene. Ho capito che rispetto alla grande avventura del pensiero maschile, che lei ammirava, esprimeva la capacità di “scappare”, deviare, scartare. Con una libertà che, a mio avviso, le ha permesso di inventare un pensiero che non aveva trovato fino a quel momento una voce. In lei c’è la una posizione decisissima e consapevole – ma anche dolorosa – la capacità di essere libera, di rendere se stessa libera. La seconda cosa che mi aveva incuriosito moltissimo – perché è un altro grande tema per chiunque si occupi di letteratura – è il fatto che il suo programma di poetica, il suo programma di lavoro artistico, si poteva riassumere in pochissime frasi da lei spesso ripetute però assolutamente difficili da afferrare. Vale a dire: l’affermazione esplicita di voler “scrivere la vita” e “pensare le cose come sono”. Se noi riflettiamo su queste due frasi, su queste due affermazioni, la questione può apparire quasi banale. In realtà “scrivere la vita” diventa un programma di enorme difficoltà formale perché il problema grande, essendo lei una grande scrittrice, è come si fa ad acchiappare la vita quotidiana, come si fa a tradurre in forma, rendere esattamente e precisamente quella cosa che sfugge, cioè quello che ci sta attraversando e in ogni momento stiamo vivendo e che afferrare è particolarmente ed estremamente complesso. Questo mi ha interessato molto perché non solo è appassionante vedere come lei ha risolto questo problema, ma anche perché implica una fortissima e importante meditazione che in qualche modo la pone in una posizione diversa dalla sua epoca e anche dagli autori della sua epoca. Questo “scrivere la vita” a mio parere attraversa l’intera opera di Virginia Woolf. Non solo il suo diario, apparentemente il registro più facile per scrivere la vita. Non solo le biografie – come si fa a scrivere la vita di un altro, di un’altra? – certamente le lettere. Le lettere sono squarci di vita continuamente riportati attraverso una delle cose che lei adorava, la conversazione. Le sue lettere sono vibranti di conversazione, sono divertentissime, recuperano un’intera epoca, restituiscono il piacere che lei aveva avuto nelle sue giornate, nella sua vita quotidiana. Ancora, ovviamente, “scrivere la vita” è un problema che riguarda i suoi romanzi quindi l’invenzione di una forma e di un linguaggio. Anche “pensare le cose come sono” implica un enorme coraggio, è un’enorme sfida. Che cosa vuol dire “pensare le cose come sono”, visto che il lavoro che fa Virginia Woolf, sia artisticamente sia come grande pensatrice e saggista, non è a mio parere la decostruzione del pensiero degli altri? Negli ultimi anni siamo stati subissati dalle decostruzioni. Lei non decostruisce assolutamente niente, lei si sposta e parla dal luogo in cui ha deciso di mettersi. Ed è in questo gesto che c’è un movimento di libertà, qualcosa attraverso il quale una donna ci fa vedere che c’è bisogno di conoscere e anche di ammirare la cultura, le tradizioni e le loro grandi invenzioni, ma che, per trovare la propria voce, non si può stare chiusi dentro una cultura e una tradizione. Bisogna operare un grande spostamento, uno spostamento che fa sì che lei veda qualcosa che prima non era stato visto. Questo significa allora “pensare le cose come sono”, pensarle a partire da ciò che io sono e non da ciò che gli altri dicono che io posso essere o devo essere. Infine, non mi piaceva, mi muovevo con poco agio, nelle interpretazioni di Virginia Woolf che in gran parte il Novecento ci ha consegnato: una donna malinconica, depressa, con una malinconia che, alla luce del suo suicidio, in qualche modo oscurava l’intera grandezza della sua opera. Opera che io invece avevo letto come quella di un donna che amava la vita e che per questo voleva scriverne. L’opera di una donna che era riuscita comunque a trasformare tutto ciò che le capitava nella forza di una risata, nella forza di uno sberleffo, nella forza di una gioia di vivere continuamente ritrovata. Il mio incontro con Virginia Woolf è stato questo, e nel percorso ovviamente ho incontrato Nadia Fusini, cui sono grata per il regalo che ci ha fatto con le sue traduzioni, e anche con un’interpretazione con cui non sempre concordo. Ma questo fa parte della lettura che liberamente si vuol dare di una grandissima scrittrice.
NADIA FUSINI – Incontro qui per la prima volta Liliana Rampello, ma l’ ho sentita subito amica proprio perché condivideva con me la passione, l’ascolto, l’attenzione e un certo modo dell’attenzione nei confronti appunto di questa scrittrice che anche io amo molto e a cui riconosco delle qualità che sono qualità letterarie. La Woolf certamente non l’abbiamo scoperta noi, sta nel Pantheon dei grandi scrittori del Novecento, però mi pare che anche nel modo in cui la guarda Liliana ci sia un valore in più, c’è un valore aggiunto che è lo stesso che io le riconosco. Siccome insegno letteratura inglese è chiaro che non potevo non incontrare questa scrittrice. Però il mio modo di ascoltarla non è certamente di tipo universitario o accademico: lei mi ha imposto un modo più intimo, non tanto valutativo – di una tecnica, di una capacità, di una abilità. A mio avviso, se si legge con attenzione Virginia Woolf, è lei ad imporre il modo in cui noi dobbiamo ascoltarla. Anche per me l’incontro risale a molto tempo fa ed è continuato nel tempo. Sono stata lettrice fin da ragazzina perché m’erano stati regalati i suoi libri, poi la lettura mi ha in qualche modo chiesto di risponderle ed io non potevo che risponderle scrivendo. In un certo senso è lei che mi ha fatto scrittrice, per rispondere alla sua parola non potevo che ampliare quella risonanza e cercare attraverso la parola, la parola scritta, di mettermi in sintonia con lei. E’ una scrittura quella della Woolf fortemente evocativa e con dei tratti anche profondamente simbolici, nel senso che richiede che a simbolo risponda simbolo, cioè che ci si intoni a lei in una stessa ricerca. Poi forse l’incontro più intimo, più profondo è stato quello di tradurla. Avevo già tradotto altri scrittori e altri poeti, ma tradurre la Woolf è stata davvero un’esperienza di grande intimità. Perché tradurre è entrare un po’ nella testa dell’autore, nel meccanismo creativo della lingua. Non basta conoscere l’inglese per tradurre la Woolf, occorre entrare in quella lingua che lei ha creato. E lei l’ha creata a partire da una lingua che esiste ma scavandoci dentro, facendo accadere in questa lingua qualcosa che non tutti sanno fare accadere. E poi l’ho insegnata, la insegno e davvero ho capito quanto lei possa farsi tramite di una scoperta. Per dei giovani ragazzi e giovani ragazze che l’avvicinano quello che lei scrive, l’esperienza che ci racconta possano diventare modi di pensare a se stessi, alla vita stessa. La Woolf ha una strana capacità di offrirsi come medium per una interrogazione anche sul sé e a mio avviso questo è uno dei motivi profondi per cui è stata una scrittrice così amata dalle donne. Naturalmente per me restano indimenticabili i seminari su di lei che facevamo negli anni Settanta nel “Centro culturale V.Woolf ” di Roma: in quel centro di cultura femminista la Woolf è stata per me veramente un tramite di incontri molto importanti. Ha ragione Liliana di ricordare che c’è un certo volto canonizzato dalla definizione letteraria della Woolf che ho cercato di sfatare: traducendo ho cercato di recuperare tutto l’aspetto sperimentale della sua scrittura, elemento che veniva opacizzato nelle precedenti traduzioni. Non perché fossero fatte male – non è questo il punto – ma c’era un’idea della scrittrice donna, cui si attribuiva una carattere sensibile, sognante, che poi agiva come filtro. Faccio un esempio: se la Woolf in quel meraviglioso romanzo che è Al faro scrive che la signora Ramsey sta con i suoi “children”, veniva tradotto i suoi “piccini”, ma tradurre “figli” è meglio. Ci sono tanti casi di questo genere dove chiaramente una certa idea della scrittura di una donna faceva velo su quello che lei stava facendo sulla lingua, quello che stava inventando. Quindi tradurla per me è stato importante. Una tappa nel mio rapporto con la Woolf è stato certamente questo ultimo libro che ho scritto Possiedo la mia anima, che non definirei una biografia romanzata perché io non invento nulla, è una biografia narrata. Anche qui, ho fatto la scelta di non scrivere una di quelle biografie che vanno bene per gli statisti, per gli uomini d’azione, persone la cui vita si è realizzata in grandi fatti. Per lo più la biografia di uno scrittore, ma in particolare la biografia della Woolf, non registra grandi azioni, gesta clamorose. Quindi quella che racconto è più una vita, intanto che si fa continuamente parola – e anche questo un problema in un certo senso per il biografo – e in più, appunto, una vita interiore. Giustamente, lo ricordava anche Liliana, i Diari sono una miniera fantastica per chi voglia avvicinare la Woolf, non sono scritti in una chiave confessionale o sentimentale: sono la registrazione quotidiana di tutto quello che le passa per il cervello, per il cuore. Come qualcuno che sia sempre sveglio e vigile a registrare la vita. Virginia Woolf è una donna che fa della propria vita, di se stessa, una cavia perché le interessa analizzare l’atto del vivere. Vivere è un verbo, vita è un sostantivo. In realtà lei sente molto più l’aspetto del verbo, cioè dell’azione.
LILIANA RAMPELLO – Hai detto che nel proporre ai tuoi studenti la Woolf trovi una risposta positiva perché in qualche modo i suoi testi permettono a una persona giovane di pensare a se stessa: io penso che questo sia vero perché il suo pensare differentemente da un uomo implica che lei capovolge la gerarchia del verbo stesso “pensare”. Per lei pensare non significa che ci deve essere in prima battuta un “Io” in senso filosofico forte, il Logos, la ragione. Lei mette sempre al primo posto le emozioni e quindi mettendo le emozioni al centro della possibilità di pensare, in un’altra forma, in un altro modo, ci permette di capire che il sentire, questa cosa così grande che è il sentire, non è un po’ di più o un po’ di meno del pensare. E’ un altro modo di pensare, un’altra forma del pensiero. Questo probabilmente nel rapporto vivo tra una persona giovane e il testo permette l’emergere della questione dell’emozione e credo sia una questione centrale.
NADIA FUSINI – Assolutamente, e devo dire che a me personalmente piace molto questo pensiero, a me piace il “pensiero sensibile”, forse perché sono una donna. Sì, penso che questo c’entri. A me che piace anche molto insegnare, insegnare a leggere, intendo, e leggere la Woolf è comprendere come nei suoi romanzi passi l’aspetto del pensiero. Io amo i libri, amo la letteratura non come intrattenimento. Leggere non mi serve a divertirmi, mi serve a svegliarmi. Devo trovare uno scrittore che sia capace di accendere quel tipo di attenzione, quel tipo di sguardo sulla realtà e ho potuto verificare che, quando lo trovo, anche i miei studenti capiscono e seguono. In fondo io penso che tutti, uomini e donne, bambini e vecchi, ricchi e poveri, vogliamo un’esperienza significativa, vogliamo tutti che la nostra vita non sia banale, stupida, ripetitiva, oziosa. E chi ci sollecita in qualche modo a cogliere questo aspetto dell’esperienza, beh! ci fa davvero piacere incontrarlo. Per me è stato sicuramente l’incontro con con Woolf è stato di questo tipo.
LILIANA RAMPELLO – Vorrei fare un altro esempio: nella Signora Dalloway la Woolf mette in scena una donna comune. Si tratta di una signora che dà una festa, come si può cercare lì la famosa avventura dell’ Io?Pensate a come Balzac chiude meravigliosamente Papà Goriot: Rastignac guarda Parigi e dice “e ora, a noi due”. Per quanto ne so, questo si trova difficilmente in un romanzo scritto da una donna: non c’è nessun eroismo, nessuna protagonista che si fa eroe della propria vita. Ci sono piuttosto protagoniste che conoscono l’etica della vita quotidiana. Il fatto che siano donne, e che siano donne comuni che fanno cose comuni, consente loro, per via, appunto, di quella centralità del sentire come forma diversa del pensiero, di farci accedere all’idea che il miracolo della vita sta nella sua quotidianità, che non è da cercare altrove. Non è che la Woolf ignori che c’è sempre un altro e un oltre, ma questo lei lo riporta, lo lega, ne fa carne dei suoi personaggi. Allora, di nuovo: non è un caso che sia una donna a dirlo, a farlo, e a proporlo come arte.
NADIA FUSINI – Pensate a uno scrittore sperimentale come Joyce: anche lui fa quest’operazione di raccontarci la vita assolutamente quotidiana di un personaggio che lui chiama l’uomo medio sensuale cioè Bloom. E poi c’è Stephen, cioè l’intellettuale: due personaggi, le due metà dell’uomo “intero”. Si incontrano, passeggiano per Dublino. Cosa deve fare Joyce per costruire il senso che pensa di dover dare a tutto questo? Ci mette dietro Ulisse, in modo che l’insignificanza venga per così dire elevata e inserita in un codice di significati altissimo: allora noi dobbiamo capire a un certo che Stephen è Telemaco, Bloom è Ulisse: così tutta la struttura acquista significato. Perché, come disse T.S. Elliot, c’è l’ordine del mito che lo sostiene. La Woolf ci da una donna comune, una donna che fa una festa, anche qui le unità di luogo di tempo e di azione sono perfettamente rispettate – e non è che non ci siano all’interno del testo dei forti richiami mitici, anche se bisogna veramente cercarli tanto sono nascosti. Se lei non si serve di un richiamo esplicito al mito è perché in fondo non ha un’idea gerarchica dei significati. Lei davvero si apre alla vita come se fosse una grande avventura anonima, che riguarda tutti. Ora, questo è un grande tema letterario, molti scrittori in qualche modo sentono che il grande compito, il dovere di uno scrittore è dare vita, è dare parola a chi non ce l’ha. Ecco, Virginia Woolf lo fa, tenta di farlo veramente: dare parola a chi non ha parola, a chi non ha lasciato tracce e in particolare a chi non ha lasciato tracce di parola.
Nadia Fusini
Possiedo la mia anima
Il segreto di Virginia Woolf
Mondatori, 2006
347 pagine, 17 euro
Liliana Rampello
Il canto del mondo reale
Virginia Woolf, la vita
nella scrittura
Il saggiatore, 2005
224 pagine, 16,50 euro
Il demone della quantità ha portato la scrittrice americana a produrre dodici romanzi solo in questo secolo: sul set dell’ultimo tradotto da Mondadori, «La madre che mi manca», una famiglia convenzionale turbata dall’omicidio di un balordo
Caterina Ricciardi
«Controllo imposto sulla passione»: così Joyce Carol Oates descrive il suo metodo di scrittura. Una prima stesura di getto e poi la revisione, fino a raggiungere il risultato immaginato. Di solito l’opera, così completata, resterà chiusa in un cassetto per diversi mesi, persino un anno, in attesa che lieviti per l’ultimo ritocco prima della pubblicazione. Molto prolifica – dal 1963 ha al suo attivo un centinaio di titoli fra romanzi, racconti, saggi – Oates lavora dunque contemporaneamente su più fronti (inclusi l’insegnamento a Princeton, e le consulenze sul pugilato, sport del quale è esperta e a cui ha dedicato un libro), muovendosi su un territorio ormai familiare ai suoi lettori.
L’ambientazione è in genere perimetrata – e di recente in modo più sistematico – nella zona settentrionale dello Stato di New York, fra Rochester, Buffalo e Niagara Falls, sulle rive del Lago Ontario, al confine col Canada, luoghi che conosce dalla nascita (a Lockport nel 1938, da famiglia modesta di origini irlandesi), densi di memorie di storia coloniale, su cui va sovrapponendo una sua saga ossessiva intesa a scavare, spesso impietosamente, negli ultimi quattro decenni del secolo scorso.
Momenti e situazioni ordinari o cruciali di quella che allora si mostrava come una ormai non più perfetta famiglia-società americana prendono corpo nelle sue pagine offrendo un panorama sofferto, poco edificante nell’esposizione delle fenomenologie grottesche che l’America sembra avere coltivato inconsapevolmente nel profondo delle proprie viscere.
Alla narrativa di Joyce Carol Oates non è estraneo un elemento «gotico», rielaborato da una tradizione che viene dal sud degli Stati Uniti e ha come suoi rappresentanti principali Poe, Faulkner, Flannery O’Connor; ma la scrittrice la situa in un’area del paese e in un tempo molto diversi. E diversa è anche l’elaborazione della materia che il mondo offre all’artista: la crisi dell’individuo di fronte alle complessità della fine del secolo, la dialettica fra una sorta di nuovo determinismo, riconosciuto ai livelli più elementari dell’esistenza, e gli spazi della libertà e della volontà umana, secondo temi propri all’etica calvinista. Si apre così, alla Oates, il sipario appropriato per una lettura tragica della vita americana in un’era che, a partire dagli anni ’50, scivola via via nelle maglie di allucinati scompensi. Sono elementi, questi, ricercati nelle variegate mediocrità della provincia, nei conflitti di razza e di religione, nel proletariato urbano (come nel celebre Them, sulla Detroit del 1968), nei clan del potere e della politica, (descritti in Acqua nera, dove si parla del pantano in cui nel 1969 finì Ted Kennedy), o del cinema (come in Blonde), nel mondo accademico, nei residui di una cultura rurale, nei paradisi artificiali dei ricchi, nello sconquasso doloso del sistema ecologico. In questi contesti prende a dominare una precisa metafisica di attrazione-repulsione verso la violenza, sia privata – quella che si consuma all’interno delle famiglie – sia del corpo sociale e istituzionale.
L’importante, per Joyce Carol Oates è obbedire all’impulso, a quella sorta di chiamata che impone di scrivere, descrivere, rappresentare la realtà così come le circola con prepotenza nelle vene, nella testa, nei sogni, fino a che quel vissuto pubblico pretende di tornare alla luce ricomposto nelle pagine di un libro o di una rivista (si contano circa settecento suoi racconti, alcuni memorabili). Così, una operazione di scrematura si rende indispensabile: lo ammette persino la stessa scrittrice che, però, pur correndo per il Nobel, guarda serenamente al busillis quantità-qualità. In Italia la Oates è una scoperta relativamente recente per il mercato editoriale, forse anche sulla spinta di Blonde, quel romanzo-documento fiume su Marilyn Monroe, pubblicato da Bompiani nel 2000. Negli anni ’90 e/o (con Un’educazione sentimentale, Marya, Notturno) e Tropea (Zombie, Perché sono uomini) avevano cominciato a pescare in un canone già trentennale, mentre ora è la Mondadori e essersi impegnata nel tenere il passo con gli appuntamenti orditi dalla mano esperta e veloce della scrittrice americana. Ecco dunque apparire con ritmo più serrato: Bruttona e la lingua lunga (2002), L’età di mezzo (2003), Mike Tyson (2003), Un giorno ti porterò laggiù (2004), Tu non mi conosci (2006, racconti), il piccolo capolavoro Bestie (2002), e quello che possiede lo slancio per essere un libro ben più grande, Le cascate (2006). Mentre negli Stati Uniti esce il dodicesimo romanzo che la Oates ha scritto in questo secolo, The Gravedigger’s Daughter, in Italia si pubblica l’ottavo, La madre che mi manca (traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani, Mondadori, pp. 454, euro 19,00), romanzo non privo di cedimenti e dedicato a Caroline Oates. Ambientato nel 2004 a Mt. Ephraim, già sfondo del più solido Una famiglia americana (Tropea 2003), il libro mette in scena il ritratto di una famiglia qualsiasi, nella quale si rispecchia quella facciata tranquilla e pulita del tessuto culturale americano che pare appena ritoccata – nell’era di Bush – sul ricordo dell’immagine che quella facciata mostrava nei lontani anni di metà secolo. Assieme a un contorno di figure stereotipe, qui entrano in scena una figlia un po’ punk e ribelle, un’altra, la maggiore, più posata e borghesemente integrata nei resti del benessere della «Grande Società», un padre introverso, difficile, destinato a morire, e una madre – il cuore del racconto – cresciuta nei caldi anni ’60 senza stranamente percepirne gli smottamenti. È su questo contesto che si proietta il gesto abnorme di un’altra America: il ruolo della vittima è giocato da Gwen, la madre che poi mancherà, oggetto di un omicidio barbaramente perpetrato da un balordo, un senza casa, in un paese in cui il terrore sembra endogeno e non viene solo dagli aerei kamikaze in cielo. È forse questo che Joyce Carol Oates voleva lasciare intendere?
Abile nell’abbandonare subito l’andamento da romanzo giallo (un genere che peraltro pratica sotto gli pseudonimi di Rosamond Smith e Lauren Kelly), Oates piega la narrazione verso due direzioni distinte: quella del romance, la più debole, e quella della ricerca da parte di Nikki, la figlia punk, del vero volto di Gwen, una ricerca che va a compensare il senso della grave perdita subìta. Anche Nikki, alla quale viene cancellato il vacuo trucco del gusto proprio del nuovo secolo, conquista in questa ricerca una precisazione della sua identità, per quanto convenzionale.
Che Oates voglia consegnarci così anche il volto di una America un po’ retró? Quella, per esempio, delle case a schiera, del buon pane fatto in casa, della luna di miele in Florida, della «country music» e della collezione di libri di sacra storia patria in casa? In verità, questa America, così come compare nella Madre che mi manca, è un po’ vecchia, e anche i giovani vi appaiono datati: è una America che non sembra sapere più come ricorrere alla sua grande, eterna risorsa: rinnovare stagionalmente la sua pelle di serpente, come sosteneva D. H. Lawrence negli anni ’20 del ‘900. Ed è forse questa, allora, la «madre» che viene a mancare. A meno che Joyce Carol Oates, come talora accade, trascinata dalla «passione», o dalla nostalgia autobiografica, questa volta non si smarrisca nella sua stessa topografia.
Grete Weil, Mia sorella Antigone, a cura di Karin Birge Büch, Marco Castellari e Andrea Gilardoni. Traduzione di Marco Castellari, Mimesis Edizioni 2007
Il romanzo “Mia sorella Antigone” della scrittrice tedesca Grete Weil (1906-1999), dopo più di due decenni dalla prima edizione italiana, viene riproposto in una nuova traduzione con testo a fronte. Si tratta di un romanzo con una forte impronta autobiografica, in cui si intrecciano ricordi e la percezione del presente degli anni settanta in Germania Ovest – anni scossi dal terrorismo della Rote Armee Fraktion (RAF).
Chi legge accompagna per un giorno una donna anziana. È un giorno segnato da una perdita recente: il cane è sparito senza lasciare tracce e ha riaperto quello che la narratrice sente come una “ferita” e che lei chiama anche “mein Mordkomplex”, l’idea “che ci sia di mezzo sempre un omicidio”. Perché questi termini forti? La risposta è che non si tratta di una donna anziana qualsiasi, ma di una donna tedesca di origine ebraica sfuggita alla Shoah in un nascondiglio di Amsterdam. Suo marito però (come il marito di Grete Weil) è stato deportato e assassinato dai nazisti a Mauthausen nel 1941. Il dolore del ricordo di quegli anni passati sotto i nazisti si fa acuto proprio a causa dell’inspiegabile scomparsa del cane e prende nel corso della giornata la forma di una resa dei conti con le proprie azioni, e omissioni, di quegli anni.
Emerge allora una domanda urgente e inquietante: perché io, ebrea, non mi sono opposta ai decreti nazisti, perché, al contrario, ho assistito gli assassini lavorando nel Consiglio ebraico di Amsterdam, centro amministrativo e logistico della deportazione degli ebrei olandesi? Viene così riformulato in modo radicale il problema della ‘collaborazione’ delle vittime, un problema che aveva posto per la prima volta Hannah Arendt, nel 1963, con il suo libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”. L’interrogazione del passato e la presa di coscienza della responsabilità individuale è inseparabilmente collegata a una variazione sul tema Antigone. Grete Weil rielabora, mettendolo in discussione, il mito di Antigone e propone una Antigone nuova, insolita, portabandiera di un agire autonomo e libero dai tradizionali modelli prefabbricati o stereotipati che pure portano il suo nome.
Karin Birge Büch
Antonio Monda
NEW YORK – Il libro del sale, di Monique Truong, è un romanzo raffinato e appassionante che esce ora da Giunti (pagg. 325, euro 14,50) a quattro anni dalla pubblicazione americana, con un successo sorprendente per una autrice che sino a quel momento si era distinta come abile avvocato presso uno dei più prestigiosi studi legali di New York. La Truong, nata a Saigon nel pieno della guerra del Viet-Nam, si è trasferita negli Stati Uniti nel 1975, a sette anni, e da allora si è interrogata sul senso di appartenenza rispetto al suo paese di origine e alla terra di adozione nella quale ha trovato l’ amore (è sposata con un disegnatore di animazione dalle origini slovene e siciliane). Il romanzo, che racconta le vicende di un cuoco vietnamita al servizio di Gertrude Stein ed Alice Toklas nella Parigi della Festa mobile, affronta in maniera indiretta proprio il tema dell’ identità culturale, e pone al centro della storia il dilemma di Binh, il giovane cuoco di ventisei anni, il quale, dopo essere stato ripudiato dal padre, e quindi espulso dal proprio paese con l’ accusa di omosessualità, è indeciso se partire per gli Stati Uniti o rimanere nella vitalissima Parigi di quegli anni, dove ha instaurato un rapporto controverso, ma certamente intenso, con due donne assolutamente fuori dal comune. La vicenda, raccontata come se fosse un diario, si svolge andando avanti e indietro nel tempo, con lunghe divagazioni sulla preparazione di piatti raffinati. L’ attaccamento della Truong alla Francia e al cibo francese è evidente anche dal luogo in cui ha scelto di incontrarmi, il ristorante Balthazar di Soho, una replica esatta di un bistro parigino. “Mi chiedo ogni giorno cosa sarei diventata se fossi rimasta in Viet-Nam” racconta “e mi chiedo quanto sia giusto continuare a pensare al passato. Ritengo che la grande conquista di ogni esistenza sia quella di non perdere mai le proprie radici ed essere pronti ad abbracciare quello che offre il futuro”. E’ mai tornata in Viet-Nam? “Pochi giorni fa sono tornata dal primo viaggio che ho fatto nel mio paese da quando ci siamo trasferiti in America. Sono voluta andare per tre settimane insieme a mia madre, ed è stata un’ esperienza estremamente forte”. Quando lei è andata via dal Viet-Nam, la città in cui viveva si chiamava Saigon. Ora si chiama Ho Chi Minh City. “Le posso dire che mi ha colpito il fatto che gli abitanti continuano a chiamarla con il vecchio nome, e persino il codice dell’ areoporto è ancora SGN. Ma ovviamente i cambiamenti sono enormi, anche se devo dirle che sono arrivata con ricordi molto frammentari, legati soprattutto alla casa in cui vivevamo, nella quale non siamo andate”. Cosa ricorda dell’ arrivo negli Stati Uniti? “Arrivammo come rifugiati, mio padre riuscì a trovare lavoro presso la compagnia petrolifera Shell, per cui lavorava anche in Viet-Nam. I compagni di classe mi consideravano una nemica, o quantomeno figlia di nemici. E ricordo che con una buona dose di ignoranza mi chiamavano la giapponese”. Il suo romanzo affronta il tema della appartenenza. “E della scelta. Ogni momento di ogni esistenza pone una questione che rimanda alla consapevolezza di chi siamo, come cambiamo, cosa perdiamo… L’ idea iniziale nasce dalla lettura, del tutto casuale, del libro di ricette di Alice Toklas. Stavo cercando di imparare il modo di cucinare un brownie di cui sono molto golosa, e qualcuno mi aveva detto che la ricetta originale era proprio della Toklas. Il libro fu una rivelazione: estremamente divertente, pieno di aneddoti, soprattutto, c’ è un intero capitolo dedicato alla servitù in Francia. Si parla esplicitamente di due donne di servizio indocinesi che lavoravano nell’ appartamento in cui vivevano la Toklas e la Stein al 27 di rue de Fleurus. In quel momento dentro di me è scattato qualcosa”. Lei è un’ ammiratrice di Gertrude Stein e Alice Toklas? “Devo confessarle che non sono particolarmente legata al loro mondo né alle loro opere, e mi piace essere arrivata al loro universo creativo in modo così anomalo, dalla cucina”. Quali sono gli elementi autobiografici del suo romanzo? “La difficoltà nell’ esprimermi in un linguaggio non mio. Il fatto di essere silenziosa e timida come il protagonista, e di sentirmi al servizio”. Cosa intende? “E’ quello che provavo quando lavoravo come avvocato: avevo raggiunto una posizione di una certa autorevolezza, ma mi sentivo sempre precaria, e alle dipendenze di una società interessata ai risultati”. Il passaggio dalla giurisprudenza alla scrittura è anomalo, specie per chi non scrive legal thriller… “Ho praticato la legge per trovarmi tra le mani un lavoro sicuro. Ma ho capito in breve tempo che non ero affatto felice, e il lavoro non era sicuro. A quel punto ho deciso di seguire la mia passione”. E’ vero che all’ inizio Il libro del sale era un racconto? “Si, e il racconto è diventato, con qualche piccola variante, il secondo capitolo del romanzo. Dopo averlo scritto ho avuto la sensazione che avesse le potenzialità per qualcosa di più grande. Devo ringraziare la mia sconsideratezza: se solo mi fossi soffermata a pensare che mi avventuravo in un romanzo storico, ambientato a Parigi, con protagonisti dei personaggi realmente esistiti, probabilmente la paura mi avrebbe paralizzato. Il titolo del libro è molto evocativo: come mai parla di sale? “L’ ho scelto con l’ augurio che suggerisca una lettura a due diversi livelli: il sale è un elemento fondamentale della cucina, presente in ogni cultura. Ma è soprattutto un riferimento alla Bibbia. Penso al sale della terra, e all’ episodio di Lot, trasformata in una statua di sale nel momento in cui si volta indietro. Mi ha sempre colpito la condanna della nostalgia operata dalla cultura giudaico-cristiana, e la tentazione di Lot è qualcosa che provo perennemente”.
Antonella Fiori
Il mondo salvato dalle donne? Forse. Almeno da quelle che non si sottomettono e, pur pagando prezzi altissimi, fanno saltare un sistema di potere che si regge proprio sul loro annientamento: fisico e psicologico. Silvana La Spina, catanese trapiantata a Milano, accantona la ricchezza barocca della sua scrittura (da L’amante del Paradiso a La creata Antonia) per narrare con una veemenza che sa di urgenza la storia dello “sbirro femmina”: Maria Laura, ispettrice di polizia, ex alcolista, ex moglie sadizzata con figlio in coma all’ospedale dopo un incidente, che deve scoprire cosa sta dietro l’omicidio di un prete accusato di pedofilia a Catania. Una storia che potrebbe avere un seguito e che in questo primo episodio fila via veloce raccontando la “rise and fall”, la caduta e risalita di una donna che, mentre scopre i motivi di un delitto, svela il volto di una città retta da un sistema medievale dove l’alfa e l’omega della violenza sono i rapporti tra uomo e donna. Chi è lo sbirro femmina? Una donna che guarda, osserva e quindi giudica, in una società dove le donne non devono guardare e osservare. E dove domina il detto: comandare è meglio di fottere. Il marito di Maria Laura, ma anche altri uomini che lei descrive, dietro la galanteria disprezzano le donne. Quanto c’è di reale, oggi? Tutto. In certi quartieri la vita è quella. Come accade nel romanzo, l’incesto non si deve sapere. L’impotenza è una vergogna. Catania, dominata da arabi e spagnoli, è la città sessuata per eccellenza. C’è il tema del macho e specularmente la paura del fallimento raccontata benissimo da Brancati nel Bell’Antonio. Il prete che viene ucciso è accusato di essere “iarruso”, un pedofilo che va coi ragazzini. L’omosessualità è l’altra ossessione. Il maschio ha il problema di sapere fino a che punto è maschio. E come può saperlo? Solo violentando le donne. L’impianto del romanzo è sull'”inaudito” disamore di una femmina che si emancipa dal marito che l’ha umiliata e tradita… Il disamore a cui approda Maria Laura è una presa d’atto che la fa diventare adulta e libera. Anche se questo vuol dire restare soli. Il giallo è un pretesto. Nel suo caso per raccontare un potere mafioso tutt’uno con quello maschile. E la responsabilità delle donne? Si dice che Catania sia nata come bordello. Una città con donne schiave, distrutta dalla prepotenza che loro stesse alimentano. Il problema delle donne, non solo in Sicilia, è che vogliono sentirsi vive. Vogliono la loro soap opera personale e sono disposte a subire tutto. Il figlio di Maria Laura e il rampollo della famiglia mafiosa, che nel libro sono amici e vittime, lasciano intravedere una speranza? Almeno nel romanzo volevo aprire uno spiraglio. In realtà l’unica soluzione per farcela, e lo dice una che l’ha fatto, è andarsene via.
Silvana La Spina, Uno sbirro femmina, Mondadori, 16,50 euro, esce il 2 maggio
Oggi e domani a Siena un convegno dedicato alla scrittrice canadese, nota per le sue storie, dotate di grande raffinatezza stilistica, le cui proporzioni non raggiungono mai quelle di un romanzo. Qui accanto anticipiamo la premessa scritta da Alice Munro per il suo ultimo libro, che la Einaudi pubblicherà in novembre con il titolo “La vista da Castle Rock” per la traduzione di Susanna Basso Due giornate all’Università di Siena, introdotte
Carlo Pagetti
Molti considerano Alice Munro la maggior autrice vivente di racconti, degna di essere paragonata a Cecov, a Flaubert, e anche, per rimanere nella tradizione novecentesca delle grandi scrittrici anglofone, a Katherine Mansfield e a Elizabeth Bowen. All’interno di una cultura qual è quella del Canada, che fa del multiculturalismo la sua bandiera, e in cui artisti anglo-canadesi e franco-canadesi sono in grado di raggiungere esiti letterari assai diversi, spesso di prim’ordine, Alice Munro si presenta in modo quasi dimesso, con l’aspetto mite e pacato di una ormai anziana signora, nata nel 1931 e a lungo vissuta in una delle zone rurali dell’Ontario, sul Lago Huron, a sud-ovest della grande metropoli di Toronto. In realtà, come insegnano anche i suoi racconti, non bisogna mai fidarsi delle apparenze.
Personaggi più volte ripresi
Nel corso degli anni (la sua prima raccolta risale al 1968) Munro ha portato a un livello di straordinaria raffinatezza stilistica il suo discorso narrativo, che non raggiunge mai le proporzioni di un romanzo corposo, ma si ramifica in racconti non privi di una robusta intelaiatura e talvolta collegati tra loro. Così, nella raccolta In fuga (Runaway 2004), recentemente pubblicata da Einaudi, almeno tre racconti ruotano attorno al personaggio di Juliet, ragazza di belle speranze in viaggio verso la costa del Pacifico, alla ricerca di un saldo legame sentimentale, che poi rincontriamo nei panni di una giovane donna, già disillusa e incapace di ristabilire un legame profondo con i genitori ormai anziani, e poi ancora madre di una ragazza che diventa, a sua volta adulta, e preferisce evitarla per “scomparire” nella vastità del Canada, condannandola alla solitudine.
Poiché quest’ultima storia, che è intitolata “Silenzio”, è raccontata dal punto di vista di Juliet, tormentata dai dubbi e dai sensi di colpa, i lettori non sapranno mai le motivazioni autentiche che hanno spinto la figlia ad andarsene. “Quello che mi interessa riguardo a una storia è sempre ciò che non è semplice”, ha commentato l’autrice in un’intervista del 2005.
Tradotta in Italia solo a partire dal 1994, quando La Tartaruga diede alle stampe La danza delle ombre felici con la postfazione di Oriana Palusci, Alice Munro è stata valorizzata negli ultimi anni da alcune belle edizioni einaudiane delle sue raccolte di racconti, ma rimane una scrittrice difficile da cogliere nella complessità del suo linguaggio, fortemente allusivo e a tratti ironico, certamente carico di temi “universali” (la solitudine dell’esistenza e la casualità talvolta crudele degli eventi, l’incertezza dei legami familiari e l’incombere della malattia e della morte), ma anche ricco di riferimenti al paesaggio e alla cultura canadesi.
Certamente nei racconti di Munro non troviamo i vasti orizzonti o le sperimentazioni romanzesche della quasi coetanea Margaret Atwood, che spazia dalla ricostruzione storica alla distopia avveniristica, dal tema della condizione urbana a quello della wilderness; oppure le proiezioni verso l’alterità etnica e geografica di Michael Ondaatje, che può ambientare tutto un romanzo (Lo spettro di Anil) nello Sri Lanka lacerato dalla guerra civile. È pur vero che l’ultima raccolta, The View from Castle Rock (che la Einaudi pubblicherà a fine anno) intende scavare nel territorio a metà tra finzione e storia familiare della Scozia rurale, e che proprio le radici scozzesi del passato di Munro contribuiscono a spiegare la voluta ambiguità di certe situazioni narrative, in cui, ad esempio, le figure femminili che popolano le sue vicende appaiono vittime, ma talvolta vittime consenzienti o perfino complici, di un mondo ancora sostanzialmente patriarcale. Non a caso, le ondate dei coloni europei, massicce fin dall’Ottocento, portavano oltre Atlantico anche gruppi di contadini scozzesi poveri e maltrattati nel loro paese a causa della supremazia inglese, pronti a trasformarsi nelle avanguardie dell’Impero britannico e a scontrarsi con le popolazioni locali per il possesso della terra, come successe nella seconda metà del XIX secolo nel Manitoba. Su questi eventi fondativi della nazione canadese (la lotta tra gli scozzesi e i Métis cattolici e francofoni, nati dall’unione degli esploratori francesi con le donne native) si è soffermata in diverse occasioni Margaret Laurence, un’altra grande romanziera anglo-canadese, morta prematuramente nel 1987, ma assai poco ha da dire Alice Munro, che di solito introduce personaggi di origine anglosassone e situazioni collocate nel secondo dopoguerra. Piuttosto, i suoi racconti vivono dell’atmosfera rarefatta dei piccoli incidenti quotidiani, associati alla vita monotona della provincia, mentre i protagonisti più consapevoli – soprattutto figure femminili – socchiudono appena una porta, intravedendo nello spiraglio che si è aperto, l’orrore del vuoto e l’angoscia delle occasioni fallite.
Spesso i racconti di Munro hanno inizio nel passato e rimangono in bilico tra un tempo ancora più lontano e l’irregolare procedere verso un incerto presente, che è anche quello dell’autrice e dei suoi lettori. La discontinuità temporale è forte come quella spaziale: non a caso, Munro ha sottolineato che le sue figure femminili “invecchiano” assieme a lei, ricordando alla maniera di Virginia Woolf anche alcune situazioni autobiografiche non del tutto gradevoli: avendo cominciato a scrivere verso i vent’anni nel periodo in cui stava per sposarsi, ha dovuto fare a lungo i conti con obblighi familiari e sociali che intralciavano la sua creatività, ed è riuscita a pubblicare la prima raccolta di racconti solo a trentasette anni.
D’altra parte, il “femminismo” di Munro non è militante, essendo piuttosto basato sulla rivendicazione di una energia intellettuale che permette alle donne di sopravvivere in un universo ostile e insidioso. I personaggi femminili più intensi della Munro hanno una capacità di riflettere e di meditare sulla loro sorte da cui non ricaveranno certo la felicità o la pace interiore, bensì la forza di strappare dal caos della vita un brandello di verità, di provare un momento illuminante di epifania. Forse, più che a Joyce, bisognerebbe pensare ai moments of being di Virginia Woolf, o comunque a un’ispirazione profondamente meta-narrativa, dal momento che le figure femminili di Munro si rispecchiano nella loro creatrice, come lei – un po’ ironicamente – si riflette nella loro condizione subalterna. La stessa Alice Munro ha insistito sul fatto che un racconto nasce dentro di lei da un accumulo progressivo di dettagli, in modo tale che la struttura narrativa si complica e viene resa più arbitraria e impalpabile. Così, nella short story “In fuga”, che dà il titolo alla omonima raccolta, ci troviamo in un primo tempo di fronte a una coppia di giovani sposi, Carla e Clark, che accudiscono ai cavalli in una malandata fattoria dell’Ontario, ed è subito chiaro che il legame tra i due non è affatto paritario, poi la vicenda si complica con l’entrata in scena di una donna più anziana ed esperta, Sylvia, che è forse attratta da Carla e vorrebbe aiutarla a fuggire a Toronto, mentre un ulteriore elemento di disturbo, apparentemente marginale, è dato dalla scomparsa della capretta Flora, a cui Carla è affezionata. Il seguito di “In fuga” suggerisce – più che mostrare – il fallimento dell'”alleanza” tra le due figure femminili e la minaccia di una violenza maschile che sembra aleggiare sulla conclusione del racconto, senza materializzarsi.
Esclusa qualsiasi tonalità patetica o melodrammatica, il linguaggio terso e raffinato della scrittrice canadese si fissa su figure, paesaggi, oggetti, bagnandoli di una luce quasi spettrale (ghost è un termine che torna spesso in Munro), eppure nitida e, per così dire, “naturale”.
Varianti sul tema del mistero
A questo effetto a metà tra lo straniamento e la quotidianità contribuisce il senso dello spazio canadese, fatto soprattutto di territori disabitati o scarsamente popolati, privo di una identità rigida e circoscritta, essendo esso stesso modellato, nella sua estensione, per conferire identità a chi è come costretto – o costretta – a spostarsi continuamente (“in fuga”, appunto), senza mai potersi riconoscere in un centro solido, istituzionale, affettivo. Anzi, un paradossale, seppure evanescente equilibrio narrativo viene raggiunto quando il centro e il vuoto (a livello geografico, ma anche interiore, emotivo) finiscono per identificarsi, talvolta – come succede a Juliet, la Giulietta senza il suo Romeo, che abbiamo incontrato nella trama di “In fuga” – nel ricordo lancinante di un percorso personale in cui i fallimenti sono stati superiori agli attimi di felicità, senza perciò annullare questi ultimi.
“Sento che le cose sono molto misteriose – ha detto Munro – anche in quelle che noi chiamiamo esistenze del tutto normali, e che esse non possono essere spiegate facilmente; tuttavia è proprio questa qualità della vita a essere straordinaria.”
Una brillante raccolta di saggi di Nora Ephron sulle paure e i disastri estetici dell´età
Se un uomo è considerato vecchio sui 70 anni, una donna è già “matura” intorno ai 40
Natalia Apesi
Da sempre, persino da quando si è orgogliosi per le sbandierate pari opportunità, gli anni, implacabili, se ne fregano di ogni correttezza politica e ideologica e continuano ad essere soggetti a quella differenza di genere su cui si discute dottamente e inutilmente da decenni. Infatti nella tradizionale zucca maschile e quindi nella società, un uomo comincia ad essere considerato vecchio dopo i 70, a meno che sia un premier o un artista o Casanova, nel qual caso il fatto non sussiste neppure dopo il decesso per decrepitezza.
Una donna invece è già sospettosamente matura verso i 40, causa la natura matrigna (teoria ampiamente smentita persino dalla scienza), in pio ricordo dei secoli in cui, stremata dai parti e dagli aborti, schiantava quasi contenta prima della menopausa. Quindi Philiph Roth ha 73 anni quando scrive il suo funereo Everyman (Einaudi, pagg.123, euro 13,50), un romanzo venato di autobiografia su “vita e morte del corpo maschile”, con gli ultimi bagliori di rabbiosa ingordigia sessuale; mentre Nora Ephron ne ha 64 quando dedica ai disastri estetici dell´età, ma anche ai primi presagi di morte, la sua ultima raccolta di saggi mondani, intitolata mondanamente Il collo mi fa impazzire (Feltrinelli, pagg. 131, euro 10).
L´invecchiare, pur deprecato, sollecita i vecchi scrittori che su ogni acciacco, pacemaker, ruga o smemoratezza trovano spunto per nuovi romanzi o saggi o pamphlet: talvolta briosi e arguti (avere 80 anni è l´evento più divertente e ricco e sexy che possa capitare), talvolta toccaferro, tanto che chi legge si sveglia di notte immerso nei terrori di quel che lo aspetta. Rispetto agli uomini che si accorgono di essere vecchi in piena vecchiaia, le donne sono costrette a percepirsi matusalemme almeno un decennio o anche due prima, per esempio leggendo i giornali: «Anziana vedova di 52 anni scippa motorino». «Malgrado si avvicini ai 50 anni Sharon Stone è miracolosamente considerata piacente».
A settant´anni Gianni Vattimo si frega le mani contento e scrive a quattro mani con Giorgio Paterlini l´autobiografia Se fossi Dio, in cui dice: «Sconfitto in tutti i luoghi del mondo, non mi sono mai sentito così libero. Senza paura, senza mediazioni, senza ricatti possibili, senza creare dolore a mia madre, a Giampiero. Senza chiese, senza partiti». A 54 anni Simone de Beauvoir termina il terzo volume della sua monumentale autobiografia, La forza delle cose, terrorizzando le sue appassionate lettrici: «Rivedo la siepe di noccioli che il vento cullava e le promesse di cui ardeva il mio cuore quando contemplavo ai miei piedi questa miniera d´oro: tutta una vita da vivere. Le promesse sono state mantenute. Eppure volgendo uno sguardo incredulo su quella credula adolescente, posso rendermi conto, stupita, fino a che punto sono stata defraudata».
Meste, torniamo al collo di Nora Ephron ed anche al nostro di ilari signore in età, con cui si può convivere solo se, trovandosi sbadatamente davanti a uno specchio, si è abili nel distogliere velocemente lo sguardo. La crudele Ephron elenca gli orrori: «Ci sono colli da gallina, colli da tacchino, colli da elefante. Ci sono colli con bargigli e colli con pieghe sul punto di diventare bargigli. Ci sono colli magri e colli grassi, colli flosci e colli grinzosi, colli cerchiati e colli rugosi, colli fibrosi e colli cadenti, colli flaccidi e colli ricoperti di macchie. E ci sono colli che sono una stupefacente combinazione di quanto sopra».
Una tragedia solo femminile? No, ovviamente, ma chissà come i colli devastati degli uomini non comportano né disperazioni, né spavento, né anatemi, né libri. Li si osserva come tremule installazioni, come vizza body art, come il particolare geniale di un autoritratto del narcisista ottantacinquenne Lucien Freud (del resto adorato da amanti ventenni), insomma se non con entusiasmo, almeno senza fastidio.
Se il collo di Nora Ephron sia un´apocalisse come sostiene lei non possiamo saperlo perché saggiamente sul retro del libro la sua fotografia ci mostra una simpatica signora dalla spessa frangetta, dagli occhi ridenti, che solleva il collo alto del maglione sopra il naso, come una provvidenziale jibab laica. Qualunque sia il suo stato attuale, in ogni caso sempre tenuto nascosto anche con sciarpe alla Katherine Hepburn settantacinquenne in Sul lago dorato, Ephron può permettersi di deprecarlo pubblicamente trasformandolo in un articolo di Vogue e poi in un libro, perché si tratta di un collo prezioso, un collo di successo, un collo ricco, un collo che ha vissuto benissimo i suoi anni migliori ed è stato molto amato e naturalmente anche molto tradito; il collo fresco di una ragazza stagista alla Casa Bianca ai tempi di J. F. Kennedy e che a 22 era già geniale giornalista del New York Post e poi di Esquire: il collo ancora liscio e saldo di una giovane signora incinta del secondo figlio, quando il secondo amatissimo marito, il celebre e seducente giornalista Carl Bernstein del Watergate (interpretato nel film Tutti gli uomini del presidente dedicato al caso da Dustin Hoffman), la tradì pubblicamente con Margaret Jay, moglie dell´ambasciatore inglese a Washington, e dalla Ephron sapientemente definita «una giraffa con piedi enormi».
Ma non tutto il male viene per nuocere, come si dice, e infatti da quella che lei definisce «la mia peggiore catastrofe romantica» nacque il suo primo romanzo di grande successo, Heartburn, pubblicato in Italia da Longanesi una ventina di anni fa, col titolo Bruciacuore, e diventato un film melenso con Maryl Streep e Jack Nicholson. Da quel momento, e mentre il suo collo lentamente ma inesorabilmente si afflosciava, ha sceneggiato, o diretto, o prodotto film fatti per riempire le sale soprattutto di signore avide di lacrime d´amore, come Harry ti presento Sally, Insonnia d´amore, C´è posta per te e Vita da strega con Nicole Kidman.
Ephron non ha lasciato nulla di intentato per arginare i disastri del tempo, tintura dei capelli, fondotinta, correttore attorno agli occhi, iniezioni di botulino, collagene e restylane nelle rughe e nelle grinze, ma «per il collo non c´è niente da fare. Il collo ti tradisce sempre. La nostra faccia è una bugia e il nostro collo è la verità». Precipizio senza rimedio? Sì, a meno che. «Se andate da un chirurgo plastico e gli dite, vorrei dare solo una sistematina al collo, lui vi risponderà chiaro e tondo che non può farlo senza intervenire anche sulla faccia. E non sta mentendo».
Ma la pur disperata Ephron preferisce «strizzare gli occhi davanti a questa povera faccia e a questo collo riflessi nello specchio che trovarmi di fronte a un´estranea che ha una somiglianza sospetta con una pelle di tamburo». Tanto a che servirebbe? La ressa di bellissime ragazze che riempiono televisioni e giornali appositi è tale da scoraggiare qualsiasi tentativo di contenere i guasti del tempo.
Soprattutto perché sono proprio quelle bellissime che a vent´anni già ricorrono al primo di decine di bisturi, a mostrarne i disastri: quelle impressionanti labbrone gommose tutte uguali delle protagoniste di Vallettopoli (anche di alcuni uomini), quei bignè impovvisamente spuntati sugli zigomi di attrici trasformate in capi Sioux, quella un tempo meravigliosa Taylor di Beautiful ora irriconoscibile, quella Sharon Stone che col lifting è passata da seduttrice malvagia a casalinga attonita.
Resta il fatto che se coraggiosamente Nora Ephron si tiene il suo collo (ma forse anche per questo l´ultimo capitolo, intitolato “Pensa all´alternativa”, pare una malinconica resa all´idea della morte), la televisione si riempie di magnifiche fiction, come Nip/Tuck, che hanno per protagonisti scatenati e fascinosi chirurghi plastici. Ormai il bisogno di non essere più sé stessi ma qualcun altro magicamente creato dai nuovi tecnocrati della bellezza e della giovinezza artificiali, intrappola sempre più anche gli uomini, che pure sarebbero tuttora avvantaggiati dalle opportunità dispari dell´età. E per esempio la copertina di maggio del mensile italiano Vogue Uomo è dedicata al dottor Sherrell J. Aston, “the aesthetic magician of the star system” (i Vogue italiani prediligono l´inglese, più chic).
Il medico ultrasessantenne e ovviamente ben conservato posa in marsina nera, panciotto, camicia con bottoncini da sera, cravattino bianchi, nella sua camera operatoria circondato da uno staff di bellissimi ambosessi più numerosi di quelli del pur geniale dottor House. E´ Aston, sono i chirurghi estetici (o cosmetici, come si dice adesso) i nuovi massimi divi dalle parcelle impressionanti. Quindi nella rivista apoteosi professionale e privata dell´inciuffettato luminare, con articoli colti e fotografie di immensi guardaroba con migliaia di camicie, moglie di nome Muffie per forza stupenda e pietrificata nella giovinezza senza scampo, appartamento tipo Versailles a New York. Molti suoi clienti sono uomini, celebrità della finanza, dell´industria, dello spettacolo, della cultura, da tutto il mondo.
Forse anche Nora Ephron cederà a tanto prestigio? Ci aspettiamo il seguito di Il collo mi fa impazzire: questa volta per la sua meraviglia.
Umberto Galimberti
Ogni tanto le case editrici, invece di pubblicare libri per fare fatturato, non si sa per quale incidente, pubblicano cultura. Non quella dei dotti con le note a piè di pagina, ma quella abissale e originaria da cui sono nate le religioni, le opere d’arte, la letteratura che scruta l’anima, sconfinando fin dove è possibile, ai limiti del delirio e dentro il delirio, rendendoci in tutta evidenza tutte quelle immagini e figurazioni che noi abbozziamo nei sogni e al mattino cancelliamo per riprendere la nostra vita ordinaria. Ma cos’è la vita ordinaria se non un sistema di regole messo in atto per tacitare l’anima? Cos’è il nostro affaccendarci quotidiano se non un macchina micidiale che mettiamo in moto per non vedere nulla e non sentire nulla di quanto ci circonda e, circondandoci, ci inquieta? Siamo così estranei alle possibilità espressive della nostra anima, che non appena questa si mette a parlare, in quei momenti di incantamento da cui tutti si affrettano a risvegliarci, subito ci riprendiamo per il terrore di restare prigionieri del delirio? E allora è solo per chi non ha paura di perdersi nei propri deliri ed, entrandovi, vuole incominciare quel dialogo tra sé e le proprie impressioni deformate, sensazioni allucinate, germi di ideazione abortiti sul nascere, e poi, non si sa per quale incantesimo, risorti in forme strane e insospettate, che Marosia Castaldi scrive il suo romanzo di 720 pagine, come oggi non si usa più, con un “Indice” dai titoli quasi tutti uguali, come vogliono i tratti ossessivi della mente quando inutilmente tentano di controllare i deliri, per descrivere quel che succede in una notte, la notte della morte della madre, in un piccolo quartiere dove accadono le cose che accadono in tutti i quartieri, se non si hanno gli occhi di Marosia Castaldi che, da piccoli gesti e abituali situazioni, trae spunti per scandagliare tutti gli abissi dell’anima e le figurazioni che da quegli abissi nascono. Chi legge questo libro può avere l’impressione di entrare nel mondo della follia. E di fatto ci entra. Non la follia nota agli psichiatri che conoscono solo il deragliamento della ragione, ma la follia che “precede” la stessa distinzione che siamo soliti fare tra ragione e follia. Il luogo di questa follia è da rintracciare là dove la coscienza umana si è emancipata da quella condizione animale o divina che l’umanità ha sempre avvertito come suo fondo, e da cui, pur sapendosi in qualche modo uscita, ancora si difende temendone la sempre possibile irruzione. A conoscere questa follia non è la psicologia, la psichiatria o la psicoanalisi, ma la letteratura che, nell’edificare il cosmo della narrazione, il solo che gli uomini possono abitare, sa da quale fondo l’ha liberato e perciò non chiude l’abisso del caos, non ignora la terribile apertura verso la fonte opaca e buia che chiama in causa il fondamento stesso della razionalità, perché sa che è da quel mondo che vengono le parole che poi la narrazione ordina in maniera non oracolare e non enigmatica. L’inquietudine che genera la lettura di questo libro è la stessa che ci ha pervaso quando abbiamo assistito agli ultimi film di Pasolini: Porcile, Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove la dissacrazione era la denuncia della perdita della dimensione tragica dell’uomo colto nel conflitto tra la radice antica del suo abitare e lo sradicamento, di cui non ha neppure consapevolezza. Con il suo romanzo, Marosia Castaldi ci porta in questo luogo, e chiede al lettore, a cui non aveva mai pensato durante la scrittura, di essere con lei nel giorno successivo a quella notte, perché quel giorno, come ogni giorno, sorge dall’insolito. E guai a chi, acquietato tra le solite cose, teme di gettare nell’insolito almeno uno sguardo.
Silvana Mazzocchi
Un giallo magistralmente costruito, un linguaggio ricco e sofisticato e uno scenario storico ricostruito con abilità e rigore. La donna del Père Lachaise, il secondo romanzo firmato da Claude Izner, nom de plume dietro al quale si celano due sorelle, Liliane Korb e Laurence Lefèvre, ambedue libraie a Parigi (una bouquiniste sul lungo Senna e l’ altra titolare di un locale sulla rive gauche), conferma il talento già dimostrato con Il mistero du Rue des Saints-Pères, storia d’ esordio per le autrici e per il loro personaggio chiave, l’ investigatore Victor Legris, anche lui libraio, evocata in ogni dettaglio in una cornice suggestiva e ricca di trasformazioni sociali e di fermenti culturali. Parigi 1890: da poco più di un anno la Tour Eiffel, simbolo ardito di resurrezione, calamita su di sé entusiasmi e critiche, specchio di una società divisa tra progresso e tradizione. Nella sua libreria di Rue des Saints Pèrese, Victor Legris viene a sapere dalla cameriera Denise che la sua ex amante, Odette, è scomparsa mentre si trovava nel cimitero di Père Lachaise accanto alla tomba del marito. La donna, dedita alle pratiche esoteriche e allo spiritismo secondo una tendenza all’ epoca molto in voga , ha lasciato come traccia solo un foulard di seta rossa. Chi può aver fatto sparire la donna? L’ investigatore libraio non crede alle chiacchiere da salotto su improbabili fantasmi e cerca la soluzione del giallo tra i vicoli della città. Incontra nobili vecchio stampo e intellettuali senza reddito e finisce a suo rischio e pericolo coinvolto in una catena di morti misteriose. La donna del Père Lachaise è un romanzo elegante, colto e raffinato e Victor Legris è un investigatore intelligente e ironico. Mentre la Parigi di fine secolo, città fascinosa, brillante e contraddittoria, regala a chi legge atmosfere di qualità. La donna del Père Lachaise di Claude Izner Nord Traduzione di Chiara Salina Pagg. 322 euro 16,60
Viola Papetti
Le numerose signore della fiction in lingua inglese, mostri d’invenzione e di stile, vantano in genere biografie di scarna semplicità. Scrivono in tinello con Jane Austen, e in genere hanno evitato l’università e solo casualmente letto i Grandi Classici: In gioventù hanno fatto le commesse, le modelle, le giornaliste, le reporter di guerra: In tarda età, quasi tutte vivono a lungo con il terzo o quarto marito, corteggiate dalle case editricie da una schiera di affettuosi eredi, hanno accumulato una panoplia di premi e magari scrivono il loro capolavoro.
Al momento la più sorprendente è Paula Fox, che esce da Fazi, dopo già tre romanzi tradotti, con l’autobiografia Il vestito della festa (“Le strade” prefazione di Melania G: Mazzucco, traduzione di Gioia Guerzoni, pp. 247, Euro 13,00). Borrowed Finery, titolo originale ben diverso dea quello italiano, significa “Bei vestiti in prestito” o “Lusso in prestito”. Paula è nata a New York nel 1923, unica figlia della fascinosa Elsie De Sola, attrice , e Paul Fox, attore e sceneggiatore. La madre aveva imposto l’adozione immediata della piccola, in una specie di follia narcisistica che l’accompagnò per tutta la vita. Il padre, bello e inerme di fronte alla moglie, compare a tratti nei ricordi della figlia, una figura fuggevole ma anche affettuosa, non temuta come invece erano le ostili e rare comparse di Elsie. C’era materia a sufficienza per un’autobiografia romanzata o un romanzo autobiografico. Ma verità e memoria non si trovano come
minerali puri negli anfratti della psiche. La Paula di oggi si curva materna sulla bambina abbandonata di allora, in continua trasferta da un rifugio provvisorio all’altro, con la smunta borsa che vaga con lei, il terrore profondo che cementa la sua esistenza, la rassegnazione agli altri e ai luoghi diversi freddamente subiti, da New York a Cuba, al convitto di Montreal, a San Francisco. L’imponenza dell’infanzia dilaga e copre il presente della signora Fox: Quel presente della bambina era “un momento senza fine” di contro al suo presente attuale “che non ha futuro”. Gli affetti e il vuoto di affetti ingannano la narratrice, giocano sulle sue proiezioni; il controllo degli e venti è difficile e ci vuole la fermezza di una lunga esperienza. “Qualche ora richiede un tremendo sforzo di comprensione, le persone sono mutate
dalle circostanze, non dal tempo. Un periodo più lungo mi fa impazzire. È potere! Procede per trenta anni, come in questo caso!
Le prime novanta pagine sono il cuore di questa autobiografia che, come spesso le autobiografie femminili, nasce dalla nostalgia e dalla disperazione di un grande amore scomparso. La Paula bambina e la Paula ottuagenaria raccontano, contaminandosi a vicenda, il primo amore: lo zio Elwood. Quei momenti unici di allora tornano nella scrittura di oggi: la mano di lei nella mano di lui, l’anellino che le regala “sùbito” appena trovato, le dolci abitudini comuni, la premura coniugale che la bambina adotta nei confronti dell’uomo solitario nella casa che è abitata quasi esclusivamente da loro due. “Mi sentivo come la protagonista di una fiaba”. E come in una fiaba la strega compare nella duplice forma della nonna e della madre: L’idillio è spezzato. “Il distacco fu l’amputazione”.
Se la nonna impersona la squallida necessità familiare, priva di eros, l’esotica madre è incombente minaccia, una luna nera, la maledizione dell’odio madre-figlia, misterioso e violento. “D’un tratto mia madre mi lanciò addosso il bicchiere e quello che conteneva. Acqua e pezzi di ghiaccio mi scivolarono sul vestito”: Era la bellezza che quella bambina le rubava? L’amore del padre? L’unicità indispensabile all’implacabile Narciso che la possedeva? La figlia adulta non se lo chiede, ma annota l’effetto che quel rifiuto totale della madre aveva avuto su di lei, ” ..tra le altre conseguenze mia madre non mi sembrava né maschio né femmina, solo una presenza neutra da ingraziarsi, sempre invano”. Un dio, la cui presenza negativa si propaga per contagio. La foto di Paula in copertina, a tre anni, una bambolina sorridente passivamente in posa sul quel prato, fa pensare a una segreta volontà di emulazione, come quando davanti allo specchio provò a truccarsi come la madre. L’emulazione era forse il danno che Elsie temeva di più e che occorreva frenare tagliando con ferocia il cordone ombelicale, rinnegando la continuità del materno, anzi l’essenza del materno stesso.
Dopo una giovinezza di incontri brevi e speziati alla Altman, la giovane Paula partorisce in solitudine una bambinae la dà immediatamente in adozione. Si pente quasi subito, ma è troppo tardi. Dopo la morte di Elsie, quella bambina diventa Linda Carroll, psicoterapista con accesso agli archivi, scrive a Paula e finalmente si incontrano: “Andammo in un hotel dove trascorremmo quattro giorni insieme, sempre in albergo come amanti”. E così, con una storia d’amore appena incominciata si chiude l’autobiografia di Paula.
Da un’intervista sappiamo che anche Linda, risposata più volte, ha avuto una figlia data in affidamento, la ben nota Courtney Love. La ragazzaccia Courtney, ha avuto una bambina, Frances. Non sappiamo se il contagio della maternità negatab continua. “È disturbata, è fantasiosa. Ha qualcosa di mia madre”- chiude nonna Paula.
L’osservazione della Manhattan anni ’50 e i viaggi mentali nella Dublino senza tempo costituiscono lo sfondo al quale si alimenta la vena solitaria di Maeve Brennan. I suoi racconti, originariamente scritti per il “New Yorker”, escono ora dalla Rizzoli con il titolo “Il principio dell’amore”
Caterina Ricciardi
“Tutto ciò che dobbiamo affrontare nel futuro è ciò che è accaduto in passato. È insopportabile”. Così scrisse una volta Maeve Brennan a William Maxwell, noto redattore del “New Yorker”. Purtroppo, non sappiamo molto di quanto è accaduto nel passato, quello più intimo e famigliare, di Maeve, sappiamo però del suo futuro. Era nata nel 1917 a Dublino. Il padre, Robert, aveva partecipato alla rivolta della Pasqua “di sangue” 1916, oggetto di un’accorata elegia di W. B. Yeats: è l’ora in cui in Irlanda nasce “una terribile bellezza”. In quell’occasione Brennan fu fra coloro che non pagarono con la morte la causa dell’irredentismo. Visse fuori e dentro la galera, mentre nasceva e muoveva i primi passi la figlia Maeve, che il padre patriota volle battezzare col nome di una grande regina dell’Irlanda celtica: la guerriera che gareggia con Cuchulain, celebrata, ancora da Yeats, nella gloriosa giovinezza (come Maud Gonne “bella e terribile”) e nella vecchiaia, quando lei si vede spogliata della sua straordinaria bellezza. Strano destino per quella nuova figlia Brennan dell’Irlanda quasi libera, una figlia che, come talora accade, forse avrebbe in qualche modo tradito la terra natale.
Giunto a Washington nel 1934 come primo ambasciatore della Repubblica d’Irlanda, Brennan e la famiglia sarebbero tornati in patria una decina di anni dopo. Maeve e un fratello restarono invece in America, l’ottocentesca sponda d’esilio politico o di diaspore dell’affamato popolo dell’Isola di Smeraldo. Pare che lei si sia recata qualche volta in visita alla casa abbandonata: lo confermano le opere che ha lasciato, oggi riscoperte con ammirazione. Ma per saperne di più su quei ritorni, sarà opportuno leggere la biografia di Angela Bourke: Maeve Brennan. Homesick at the New Yorker (2004). È, infatti, sulle pagine del “New Yorker” che, bellissima (si pensi a una triste Audrey Hepburn) colta, inquieta, eccentrica, sagace, dotata di scrittura limpida, asciutta, quasi lirica, Maeve cominciò a raccontare la sua visione del mondo lungo due vene precise: l’osservazione arguta e disinvolta della Manhattan degli anni ’50 (nella rubrica “The Talk of the Town”), e quei suoi viaggi mentali, esperiti sotto forma di racconti, nella Dublino di tempi indefiniti (come se nulla mutasse mai da quelle parti: l’atavica “paralisi” constatata da Joyce). E sono alcune di queste storie che oggi riaffiorano anche in italiano in una fluida traduzione di Ada Arduini: Il principio dell’amore (Rizzoli, 2006, pp. 245, Euro 9,80) poco dopo l’uscita di un romanzo breve, tremendo, chiamato La visitatrice (Rizzoli, 2005, pp. 109, Euro 7,20).
In vita (è scomparsa nel 1993), Brennan pubblicò pochi volumi: The Long-Winded Lady, i pezzi su New York, e i racconti di In and Out of Never-Never Land, e Christmas Eve. Sono questi gli anni del suo tirare un po’ le fila della sua esistenza, mentre ancora, ormai alcolizzata e depressa (anche a causa di un matrimonio sbagliato), offriva qualcosa di tanto in tanto alle pagine del “New Yorker”. Accadde fino al 1981. Poi il buio: stanze d’alberghetti, l’allucinato vagabondaggio cittadino, labirinti di New York/Dublino, l’ospedale/ospizio della fine. Una vita smarrita, sciupata, nell’inconsapevole (cieca) ricerca di una casa, o non casa. Il dattiloscritto La visitatrice, rinvenuto nel 1997 negli archivi di una università dell’Indiana, è pubblicato nel 2000. Sembra doversi affidare agli anni ’40, quando Maeve è sulla soglia dei trent’anni, e di una scelta di vita. E forse quella datazione filologica spiegherebbe molte cose di lei e dei suoi ritratti irlandesi.
Poche scrittrici, pur penetranti, raggiungono l’acuto di dolore e di mistero che trasmette al lettore la mano di questo talento sotterraneo, vissuto decorativamente nello sfondo della patinatura molto visibile e rispettata di un’influente rivista. Vengono in mente Djuna Barnes, Viginia Woolf. Nessun grido nelle sue pagine, nessun lamento da parte delle sue creature, solo silenzi, rassegnazione, incomprensioni, mute ribellioni, eloquenti pentimenti.
I sei racconti del Principio dell’amore ruotano – in uno scorrere ampio del tempo ma distillato a puntate fra Wexford (la città del padre) e Dublino – su due matrimoni infelici. Tuttavia, le sorgenti dell’infelicità si perdono nel mistero dell’anima, mentre l’occhio preferisce volgersi a piccoli insignificanti particolari, quasi “metafisici”: le pietre scure di case di periferia in vicoli ciechi, i tappeti e le porcellane dei salotti, il linoleum, le cucine, camere da letto ambiguamente inviolate, troppo ordinate, le finestre, i giardinetti di lei (donna/moglie/madre/nutrice spenta) dove, nella chiusura di mura e recinti, regna sempre un giallo laburno, albero rigoglioso, allegro, ma dai semi velenosi; e le strade dublinesi di lui (Grafton Street, St. Stephen’s Green), il marito ambizioso e deluso (per nulla moyen sensuel), padre assente, morto dentro, come lei, cui sempre sopravvive rimpiangendo l’occasione (la vita) di un amore non consumato. Rose e Delia, le protagoniste, scompaiono nel nulla di una pietra tombale, respinte dal mondo, da se stesse, dai matriarcali contesti originari, bigottamente cattolici, possessivi, gelosi, sempre padroni dei figli/fratelli maschi che vanno sventati a nozze, e che le “madri” pretendono indietro dalla forca liberatrice e giustiziera della morte.
Più sottilmente personale, forse, il percorso della Visitatrice. Anastasia che, sedicenne ha seguito la madre vilipesa a Parigi, lasciando il marito (unica aperta ribellione nel piccolo mondo di Brennan), torna a Dublino, a casa, dalla nonna, sei anni dopo e dopo la scomparsa di Mary. Non ha altro rifugio, desidera ritrovarsi – non più esule – solo nell’affetto della casa dell’infanzia e della nonna, la quale però ora non la vuole più. La figlia prodiga è solo un’ospite, deve rimpatriare altrove. La signora King non ha perdono. Non le perdona il tradimento, l’abbandono del padre, la sua perdita del figlio cui rimprovera ancora, dopo la morte di crepacuore (o di contrizione?), il matrimonio sbagliato, il taglio ombelicale, l’offesa a lei, madre/nonna, unica donna eletta nella vita di un uomo. E così l’amata casa di una Dublino più alta (nel quartiere Ranelagh degli stessi Brennan), con le sue ossessive finestre sul fuori, resta una mappa studiata nei dettagli (compreso il perenne giardino), ripercorsa con passi minuti di bambina, casa impossibile da riconquistare perché è Anastasia che se n’è una volta espulsa. Nessuna assoluzione è prescrittibile, nessun appello o ritorno, solo il fuori, e il primo albergo di Maeve Brennan in questo testo degli anni ’40. Resta il cancello chiuso della casa, soglia e chiusura, dal quale, infine, Anastasia, spettralmente discinta, intonando una nenia, rivendica, alla matriarca di gelo, la sua esistenza e resistenza dublinese. Ogni nuova lettura, ogni nuova voce, fa sprofondare nei misteri di un alfabeto (materno/paterno) che bisogna imparare poco a poco a declinare. Finché mette le giuste radici.
Maeve Brennan era così minuta, così piccola, che – scrive lei da qualche parte – se si fosse suicidata con un colpo in una strada di New York la si sarebbe potuta infilare in una “cassetta per le elemosine”. Così minuta, come le sue opere, eppure, in quel qualcosa che ha voluto sussurrare, così grande, così terribile.
Giuliana Bruno
I luoghi sono come le persone: è l’emozione a farceli incontrare. Si desidera un luogo così come si desidera un essere amato. Quando ci avviciniamo a un paesaggio sconosciuto col desiderio di farlo nostro, proviamo lo stesso sciame di emozioni che scopriamo di fronte a chi ci cattura con l’intelligenza dei sensi. Di un luogo ci si può letteralmente innamorare. E poiché i luoghi raccolgono le nostre memorie e i nostri desideri profondi, potremmo dire che si viaggia per scoprire la propria geografia interiore. Fu così, con amorosa trepidazione, che, lasciando giovanissima Napoli con una Fulbright, mi avvicinai a New York. Nella metropoli cosmopolita, una vera e propria isola sulle coste degli Stati Uniti, mi sentii stranamente subito a casa. Era come se l’avessi riconosciuta pur senza averla mai vista. La riconoscevo, questa cosmopoli marittima, perché quel suo paesaggio liquido, di movimenti e migrazioni, di connessioni e commistioni, ce l’avevo in me. Non poteva che nascere lì la mia idea di geografia emozionale, un’idea che mi portavo dentro e che mi spingeva intimamente, nella vita come nella ricerca, a legare movimento ed emozione. Il sorprendente viaggio di scoperta di una città di flussi e quell’itinerario di riscoperta che è il reinventarsi scrittrice in una lingua straniera mi hanno letteralmente trascinata nell’impresa. La lingua inglese evidenziava questo mio “trasporto”, ricordandomi la matrice latina del nodo tra motion e emotion. Avevo studiato molto latino a Napoli, ma solo riguardando con gli occhi di chi se ne è andato, ho potuto riconoscere che l’emovere latino, da cui deriva la nostra “emozione”, indicava esso stesso un andarsene: un vero e proprio “uscire da sé”. Questa emozione mi ha spinta a guardare a fondo negli scritti di viaggio. Continuavo a trovare sul mio ibrido cammino antiche “lady traveler”, che avevano perlustrato l’universo per portare nel mondo qualcosa di sé. Scoprivo che era capitato a tanti viaggiatori (dell’anima) prima di me di sentire la spinta interna, la trasformazione intima, il trasporto dell’emozione. Ciò che si muove smuove. L’ho imparato soprattutto da Madeleine de Scudéry, la letterata parigina che nel lontano 1654 disegnò la Carte du pays de Tendre, la mappa del tenero, dando forma tangibile alle atmosfere dell’animo. Il mondo esterno esprime un paesaggio interiore e le emozioni implicano un vero e proprio moto. Sono una topografia ricca di imprevedibili itinerari. Uscire da sé significa immergersi nel flusso e riflusso di questa psicogeografia personale e tuttavia sociale. Così il mio Atlante delle emozioni, scritto in inglese come diario di bordo di un viaggio interiore en plein air, ha preso esso stesso a viaggiare nel mondo (destino di un atlante!) ed è ritornato in Italia facendomi riscoprire aspetti molto teneri della mia personale geografia emozionale. Nell’andare lontano succede infatti di ritrovarsi. E di riavvicinarsi.*docente a Harvard. Ha scritto Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (Bruno Mondadori Editore, Milano 2006)
Una coppia anziana attende le notizie del giorno, consapevole che saranno cattive. Gli attentati si susseguono, come gli omicidi politici. Un racconto della scrittrice canadese che sembra sospeso in un tempo indefinito, ma che si rivela anche una sottile riflessione sulla storia.
E’ mattina. La notte è finita, per ora, è il momento delle brutte notizie. Penso alle brutte notizie come a un enorme uccello con le ali di corvo e la faccia della mia insegnante di quarta elementare, chignon striminzito, denti rancidi, viso arcigno e grinzoso, labbra contratte e compagnia bella, che vola per il mondo al riparo delle tenebre, compiaciuto del suo ruolo di latore di brutte nuove, portando un cestino di uova marce e sapendo esattamente – mentre sorge il sole – dove deporle. Sulla sottoscritta, tanto per dirne una. A casa nostra le brutte notizie arrivano sotto forma di giornale delle brutte notizie. Tig lo porta di sopra. Il vero nome di Tig è Gilbert. Impossibile spiegare i nomignoli a chi parla un’ altra lingua, non che abbia molte occasioni di farlo. «Hanno appena ucciso il leader del consiglio di governo provvisorio» annuncia Tig. Non che sia impermeabile alle brutte notizie: al contrario. è spigoloso, ha meno grasso corporeo di me e perciò minore capacità di assorbire, attutire, trasformare le calorie delle brutte notizie – che contengono calorie, eccome, ti fanno salire la pressione sanguigna – nella sostanza del proprio corpo. Io ci riesco, lui no. Vuole passare le brutte notizie il più presto che può – togliersele dalle mani, come una patata bollente. Le brutte notizie lo scottano. Sono ancora a letto. Non del tutto sveglia. Mi crogiolavo un po’ . Fino a ora mi godevo la mattina. «Non prima di colazione» dico. Non aggiungo: «Sai che non sopporto certe cose all’ inizio della giornata». L’ ho aggiunto in passato; ha fatto effetto solo di quando in quando. Dopo tanto tempo insieme, abbiamo entrambi la testa piena di piccoli ammonimenti, consigli utili – simpatie e antipatie, preferenze e tabù. Non venirmi alle spalle a quel modo mentre leggo. Non usare i miei coltelli da cucina. Non lasciare le cose in giro. L’ uno crede che l’ altra debba rispettare questa serie di reiterate istruzioni per l’ uso, ma esse si neutralizzano a vicenda: se Tig deve rispettare il mio bisogno di crogiolarmi dimentica di tutto, immune da brutte notizie, fino alla prima tazza di caffè, io non dovrei forse rispettare il suo bisogno di vomitare le catastrofi, in modo da sbarazzarsene? «Oh. Mi dispiace» dice. Mi lancia un’ occhiata di rimprovero. Perché devo scontentarlo così? Non so forse che se non può dare le brutte notizie, a me e subito, una ghiandola verde bile delle brutte notizie, o vescica che sia, gli scoppierà dentro e gli verrà la peritonite dell’ anima? Allora sarei io a dispiacermi. Ha ragione, mi dispiacerebbe. Non mi rimarrebbe nessuno di cui saper leggere i pensieri. «Ora mi alzo» dico, sperando così di confortarlo. «Scendo subito». «Ora» e «subito» non hanno lo stesso significato che avevano prima. Tutto richiede più tempo di una volta. Ma con i gesti di tutti i giorni me la cavo ancora, sfilare la camicia da notte, mettere il vestito da giorno, allacciare le scarpe, lubrificare il viso, scegliere le pillole di vitamine. Il leader, penso. Il consiglio di governo provvisorio. Ucciso da loro. Tra un anno non ricorderò quale leader, quale consiglio di governo provvisorio, quali loro. Ma certe notizie si moltiplicano. Tutto è provvisorio, nessuno riesce più a governare, e ci sono un sacco di «loro», troppi. Vogliono sempre uccidere i leader. Spinti dalle migliori intenzioni, o almeno così sostengono. Anche i leader hanno le migliori intenzioni. I leader sono sotto i riflettori, gli assassini prendono la mira nell’ oscurità; hanno partita facile. Quanto agli altri leader, i leader dei paesi guida, come vengono chiamati, in realtà non guidano più niente, si agitano e basta; glielo vedi negli occhi, cerchiati di bianco come quelli dei bovini in preda al panico. Non si può guidare se non si è seguiti da nessuno. La gente alza le mani, ma poi se le mette in tasca. Vuole solo tirare avanti. I leader continuano a dire: «Abbiamo bisogno di una leadership forte», poi se la filano alla chetichella a sbirciare le previsioni elettorali. Sono brutte notizie, e ce ne sono troppe: non lo sopportano. Ma ci sono già state brutte notizie, e noi ce la siamo cavata. è quello che si dice delle cose che risalgono a prima della propria nascita, o di quando ci si succhiava ancora il pollice. Amo questa formula: Noi ce la siamo cavata. Non significa niente quando si tratta di avvenimenti a cui non eri presente personalmente, come se fossi entrato in un club chiamato Noi e ti fossi appuntato un distintivo di plastica con su scritto Noi per potervi accedere. Comunque, Noi ce la siamo cavata è fortificante. Evoca una marcia o un corteo, cavalli che si impennano, costumi laceri e infangati dopo l’ assedio o la battaglia o l’ occupazione nemica o il massacro di draghi o i quarant’ anni nel deserto. Magari con un leader barbuto che alza il suo stendardo e punta avanti. Il leader avrebbe già ricevuto le brutte notizie. Le ha afferrate, le ha capite, sapeva cosa fare. Attaccare dal fianco! Avventarsi alla gola! Lasciare l’ Egitto, cavolo! Cose del genere. «Dove sei?» grida Tig su per le scale. «Il caffè è pronto». «Eccomi» grido in risposta. Lo usiamo un sacco, questo walkie-talkie aereo. La comunicazione non ci ha abbandonato, non ancora. Non ancora non si sente, come la h di honour. è il non ancora muto. Non lo diciamo ad alta voce. Ecco i tempi verbali che ormai ci definiscono: il passato, una volta; il futuro, non ancora. Viviamo nella piccola finestra tra l’ uno e l’ altro, lo spazio che solo di recente siamo arrivati a considerare un’ ancora e che in realtà non è più piccolo di qualsiasi finestra altrui. è vero, abbiamo qualche acciacco – un ginocchio qui, un occhio là – ma per ora si tratta solo di inezie. Ci divertiamo ancora, purché ci concentriamo su una cosa per volta. Ricordo quando prendevo in giro nostra figlia, tempo fa, quando era adolescente. Facevo finta di essere vecchia. Andavo a sbattere contro le pareti, facevo cadere le posate, fingevo di avere vuoti di memoria. Non è più tanto uno scherzo. * * * La cucina, quando ci arrivo, odora di pane tostato e caffè: non c’ è da stupirsi, perché è quello che sta preparando Tig. L’ odore mi avviluppa come una coperta, rimane lì mentre mangio il vero pane tostato e bevo il vero caffè. Là, sul tavolo, ci sono le brutte notizie. «è da un po’ che il frigorifero fa un rumore» dico. Non prestiamo abbastanza attenzione ai nostri elettrodomestici. Nessuno dei due. Attaccata al frigorifero c’ è una foto di nostra figlia scattata parecchi anni fa; brilla su di noi come la luce di una stella che si allontana. è tutta presa dalla sua vita, altrove. «Guarda il giornale» dice Tig. Ci sono delle foto. Le brutte notizie sono peggiori con le foto? Io credo di sì. Le foto ti costringono a guardare, che tu lo voglia o no. C’ è l’ auto bruciata, una delle tante ormai, con il suo telaio scheletrico di metallo contorto. Dentro è rannicchiata un’ ombra carbonizzata. Nelle foto come questa ci sono sempre delle scarpe vuote. Sono le scarpe a farmi effetto. Triste, quell’ innocente compito quotidiano – infilarsi le scarpe nella ferma convinzione di andare da qualche parte. Le brutte notizie non ci piacciono, ma ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di venirle a sapere, caso mai debbano capitarci. Un branco di cervi che pascola pacificamente a testa bassa nel prato. Poi bau, bau – cani selvatici nel bosco. Testa alta, orecchie avanti. Prepararsi a fuggire! Oppure, la difesa del bue muschiato: lupi in avvicinamento è la notizia. Svelti – formare un cerchio! Le femmine e i piccoli al centro! Sbuffare e grattare il terreno! Prepararsi a incornare il nemico! «Non si fermeranno» dice Tig. «è un bel guaio» replico io. « E la polizia dov’ era?» Quando Dio distribuì i cervelli, si diceva una volta, alcuni di cui potremmo fare il nome erano gli ultimi della lista. «Se vogliono davvero ucciderti, ti uccidono» dice Tig. è fatalista per queste cose. Non sono d’ accordo, e passiamo un piacevole quarto d’ ora a evocare i nostri testimoni morti. Lui suggerisce l’ arciduca Ferdinando e John Kennedy; io propongo la regina Vittoria (otto tentativi falliti) e Stalin, che riuscì a non farsi assassinare praticando lui stesso l’ assassinio indiscriminato. Un tempo, magari questa sarebbe stata una discussione. Adesso è un passatempo, come il gin rummy. «Siamo fortunati» commenta Tig. So cosa intende. Intende noi due, seduti qui in cucina, ancora. Nessuno dei due se n’ è andato. Non ancora. «Sì, è vero» dico io. « Attento al pane – sta bruciando». Ecco. Abbiamo fronteggiato le brutte notizie, le abbiamo prese per le corna, e stiamo bene. Non siamo feriti, non perdiamo sangue, non siamo bruciacchiati. Abbiamo tutte le nostre scarpe. Il sole splende, gli uccelli cantano, non c’ è motivo per non sentirsi piuttosto bene. Il più delle volte le brutte notizie vengono talmente da lontano – le esplosioni, le fuoriuscite di petrolio, i genocidi, le carestie. Ci saranno altre notizie, in seguito. Ci sono sempre. Ce ne preoccuperemo al momento. Alcuni anni fa – quando? – io e Tig andammo nel sud della Francia, in un posto chiamato Glanum. Era una vacanza per modo di dire. In realtà volevamo vedere la casa di cura in cui Van Gogh aveva dipinto gli iris, e la vedemmo. Glanum fu una deviazione. Non ci ho pensato per anni, ma adesso mi ritrovo laggiù, tanto tempo fa, a Glanum, prima che venisse distrutta nel terzo secolo, prima che si riducesse a qualche rovina che si può visitare solo a pagamento. Ci sono ville spaziose, a Glanum; ci sono terme pubbliche, anfiteatri, templi, i tipi di edificio che i romani erigevano ovunque andassero, per potersi sentire civili e a casa. Glanum è molto amena; molti alti ufficiali militari in pensione si stabiliscono lì. è abbastanza multiculturale, abbastanza varia: a noi piace la novità, l’ esotico, ma non tanto quanto a Roma. Siamo un po’ provinciali, qui. Eppure, abbiamo divinità di tutte le provenienze, oltre a quelle ufficiali, si capisce. Per esempio, abbiamo un piccolo tempio dedicato a Cibele decorato con due orecchie, per indicare la parte del corpo che ci si potrebbe tagliare in suo onore. Gli uomini ci scherzano sopra: siete fortunati a cavarvela con le orecchie, dicono. Meglio un uomo senza orecchie che nessun uomo. Ci sono case greche più vecchie mescolate a quelle romane, ed è rimasta ancora qualche usanza greca. I celti vengono in città; alcuni indossano tunica e mantello come i nostri e parlano un latino decente. I nostri rapporti con loro sono abbastanza amichevoli, ora che hanno rinunciato ai loro modi da cacciatori di teste. Tig ha certi doveri di ospitalità, e io una volta ho invitato un’ importante celta a cena. Era un rischio sociale, ma di lieve entità: il nostro ospite si è comportato abbastanza normalmente e si è ubriacato giusto quel tanto che richiedevano le usanze. Aveva strani capelli – rossi e ricciuti – e portava la sua torque in bronzo da cerimonia, ma non era più violento di qualche altra persona di cui potrei fare il nome, sebbene esibisse una cortesia davvero inquietante. Sto facendo colazione nel salottino con l’ affresco di Pomona e gli Zefiri. Il pittore non era di prim’ ordine – Pomona è leggermente strabica e ha i seni enormi, ma qui non si possono sempre avere cose di prim’ ordine. Cosa starei mangiando? Pane, miele, fichi essiccati. La frutta fresca non è ancora di stagione. Niente caffè, sfortunatamente; non credo che sia stato ancora inventato. Bevo un po’ di latte di giumenta fermentato, per favorire la digestione. Una schiava fedele ha portato la colazione su un vassoio d’ argento. Ci sono schiavi capaci, in questa tenuta, fanno bene il loro lavoro: sono silenziosi, discreti, efficienti. Non vogliono essere venduti, naturalmente: fare lo schiavo in casa è meglio che lavorare alla cava. Arriva Tig con un rotolo. Tig è il diminutivo di Tigri, un nomignolo che gli è stato affibbiato dalle truppe che comandava un tempo. Solo pochi intimi lo chiamano Tig. Aggrotta le sopracciglia. «Brutte notizie?» chiedo. «I barbari ci stanno invadendo» dice. «Hanno attraversato il Reno». «Non prima di colazione» faccio io. Sa che non riesco a parlare di questioni importanti subito dopo essermi alzata. Ma sono stata troppo brusca: vedo la sua aria ferita e mi addolcisco. «Attraversano continuamente il Reno. Prima o poi si stancheranno. Le nostre legioni li sconfiggeranno. Lo hanno sempre fatto». «Non lo so» dice Tig. «Non avremmo dovuto ammettere tanti barbari nell’ esercito. Non è gente di cui fidarsi». Ha trascorso anche lui un lungo periodo nell’ esercito, perciò la sua preoccupazione è fondata. D’ altra parte, è sua opinione che Roma stia andando a catafascio, e ho notato che quasi tutti gli uomini in pensione la vedono così: il mondo non può proprio funzionare senza i loro servigi. Non è che si sentano inutili; si sentono inutilizzati. «Per favore, siediti» dico. «Ti mando a prendere un bel pezzo di pane e miele, con i fichi». Tig si siede. Non gli offro il latte di giumenta, anche se gli farebbe bene. Sa che so che non gli piace. Odia essere tormentato a proposito della sua salute, che ultimamente gli sta dando qualche problema. Oh, lascia le cose come stanno, lo prego muta. «Hai sentito?» dico. «Hanno trovato una testa appena mozzata appesa accanto al vecchio pozzo votivo celtico». Un lavoratore della cava che è scappato nel bosco, cosa che sono stati avvertiti di non fare… lo sa il cielo. «Credi che stiano tornando al paganesimo? I celti?» «In realtà ci odiano» risponde Tig. «E quell’ arco commemorativo non è d’ aiuto. è una mossa tutt’ altro che diplomatica – i celti sconfitti, le loro teste calpestate dai piedi dei romani. Non hai visto come ci fissano il collo? Gli piacerebbe conficcarci un coltello. Ma adesso sono rammolliti, si sono abituati ai lussi. Non come i barbari del Nord. I celti sanno che se affondiamo, affonderanno con noi». Prende solo un boccone del pane squisito. Poi si alza, va su e giù per la stanza. Sembra eccitato. «Vado alle terme» dice. «A sentire le notizie». Pettegolezzi e voci, penso. Prodigi, presagi; uccelli in volo, viscere di pecora. Non sai mai se una notizia sia vera finché non ti si scaglia addosso. Finché non ti è sopra. Finché non allunghi il braccio e non c’ è più respiro. Finché non gridi nel buio, vagando per le stanze vuote, con addosso la tua camicia da notte bianca. «Ce la caveremo» dico. Tig non dice niente. è una giornata talmente bella. L’ aria profuma di timo, gli alberi da frutto sono in fiore. Ma questo non significa nulla per i barbari; anzi, loro nelle belle giornate preferiscono invadere. C’ è maggiore visibilità per i saccheggi e i massacri. Questi sono gli stessi barbari che – ho sentito dire – riempiono di vittime gabbie di vimini e le incendiano in sacrificio ai loro dèi. Comunque, sono molto lontani. Ammesso che riescano ad attraversare il Reno, ammesso che non vengano uccisi a migliaia, ammesso che il fiume non giunga a tingersi del rosso del loro sangue, ci vorrà molto tempo prima che arrivino qui. Non accadrà durante la nostra vita, forse. Glanum non è in pericolo, non ancora.
Traduzione di Raffaella Belletti © 2006 O. W. Toad LTD, Moral Desorder © 2006 Ponte alle Grazie