Il novecento differente di Maria Rosa Cutrufelli

Ida Dominijanni

C’è un’estraneità femminile dalla Storia che la generazione femminista degli anni settanta ha sfidato, rileggendola e reinterpretandola. Non esclusione o marginalità o minorità, ma presenza differenziale: differente modo di abitarla, giudicarla, raccontarla. Non sempre abbiamo vinto la sfida: spesso la Storia torna a sfilarcisi di mano, le parole mancano, il giudizio recalcitra, la lateralità ci seduce. Talvolta invece la differenza gioca e vince. In D’amore e d’odio, l’ultimo suo romanzo (Frassinelli, pp. 465, € 18,00), Maria Rosa Cutrufelli accetta la sfida più alta per una scrittrice, quella del romanzo storico, gioca e vince. Non è la prima volta: già nel romanzo precedente, La donna che visse per un sogno, ricostruendo la vita di Olympe de Gouges l’autrice si era misurata con l’impronta femminile nella Storia. Stavolta però la prova è più ardua, la storia essendo quella che noi e le nostre madri, nonne, figlie, abbiamo direttamente vissuto, o che direttamente ci è stata raccontata: il nostro Novecento, in sette quadri, sette tempi, sette protagoniste, sette voci narranti. Voci femminili e maschili, perché non c’è separatezza femminile – anche se spesso tocca alle donne separarsi, dagli amanti, dalle radici, dalle illusioni politiche, mai per ripiegare però, bensì per prendere il largo, quasi a ribaltare il mito di Ulisse e Penelope, e rilanciare la scommessa con la vita. Il Novecento, scrisse una volta Angelo Putino, si aprì con una mutazione della specie: donne dappertutto, nelle strade, nelle fabbriche, nelle scuole, dove prima non erano; cambia il panorama, comincia, appunto, un’altra Storia.
Non ci sarà più riparo dagli eventi mainstream: le donne li abitano e li muovono, e il loro sguardo non è più corto ma più lungo, penetra la Storia con le storie, la politica con la quotidianità, le ideologie con i sentimenti, l’utopia con la trasformazione di sé. Cutrufelli rilegge il secolo con questo stesso sguardo, si mette sulle tracce di questa mutazione.
Sette tempi: 1917, la Grande guerra; 1922, il fascismo; 1946, la Repubblica e la ricostruzione; 1972, la rivoluzione senza la Rivoluzione; 1989, il nuovo ritmo del mondo senza Muro; 1994, le disillusioni del Progresso; 1999, l’addio al secolo che non smetterà di non passare. Sette protagoniste: Nora ed Elvira, due sorelle nella Torino operaia e socialista degli anni dieci e venti, e poi le loro figlie, nipoti e pronipoti, Isa, Leni, Carolina, Sara, Delina. Non si pensi però a un romanzo familiare: nulla di più lontano. Non è il sangue ma la Storia a decidere le continuità e gli strappi, gli incontri e le separazioni, i trasferimenti e i ritrovamenti. La guerra decide il destino di Nora, il fascismo quello di Elvira, il ’68 e il ’77 quello di Leni e della sua amica Miriam, l’89 quello di Carolina; ma niente è automatico, e mai un personaggio scade nel prototipo o nell’idealtipo. C’è la Storia infatti, e c’è il caso, o per meglio dire non c’è Storia senza il caso, e non c’è azione soggettiva se non a questo incrocio fra Storia e caso. “Tutte le cose – si legge a un certo punto in uno dei brevi intermezzi tra i sette quadri – sono depositi di infinite possibilità.
Ogni cosa contiene il fantasma di ciò che non è e invece poteva essere, la fantasia di ciò che forse sarà o al contrario non sarà mai e che non dimeno lascia una traccia luminosa di sé”: le eroine del romanzo danno forma alla loro esistenza muovendosi fra queste eventualità e prendendosi il rischio della libertà, negli anni venti sotto il fascismo come negli anni settanta in democrazia. Sostenuta da una mole evidente di lavoro d’archivio, la narrazione corre non solo nel tempo ma anche nello spazio: la genealogia di Cutrufelli si distende lungo tutta la penisola, da Torino a Siracusa e da Roma a Bologna, non senza qualche incursione in quella America di cui solo chi viene dal Sud, come l’autrice che è siciliana conosce la familiarità costruita nel corso del tempo dalla rotta dell’ emigrazione transoceanica. Fatti e luoghi sono narrati con la stessa precisa ed evocativa puntualità: i corpi massacrati che arrivano dal fronte all’ospedale di Borca di Cadore come i corpi che si dispongono al consumo nella Roma povera ma bella del secondo dopoguerra; le mosse circospette della clandestinità sotto il regime come l’autoreclusione dei militanti “duri” degli anni settanta. Talvolta infatti le stesse cose ritornano, diverse, di generazione in generazione: il libro è anche una genealogia politica della sinistra italiana, della sua grandezza e dei suoi tic, della sua centralità in un paese che senza di essa non sarebbe mai diventato un paese e tuttora rischia di perdere se stesso.
Ritorna anche e si trasforma, di generazione in generazione, l’amicizia fra donne, che salda ciascuna delle storie raccontate e tesse come un filo invisibile e tenace la trama della Storia più grande. All’origine della genealogia c’è una coppia di sorelle, la prima voce narrante è di un’amica a un’amica e racconta di un’altra amica; il quarto tempo, Bologna 1972, è la storia di un’amicizia fra due donne; il quinto, Berlino 1989, quella di un amore fra due donne. Le figure maschili sono molte e di rilievo, ma di decennio in decennio si allenta il legame con loro delle protagoniste, dall’amore coniugale eternizzato all’amore disilluso di chi scopre che tutto si è condiviso “tranne il senso della vita”, allo spostamento del desiderio dall’altro all’altra che avviene senza traumi, come un impercettibile scivolamento perfino autorizzato dalle madri. Siamo alla fine degli anni ottanta, il secolo delle donne ha macinato molta libertà. Ma di nuovo, sbaglierebbe chi pensasse a un romanzo agiografico, o a uno spostamento dalle magnifiche sorti e progressive della sinistra a quelle femministe: la lezione del Novecento sta nell’averle dichiarate chiuse per tutti e per tutte, e l’autrice lo sa. Nella chiusa, magistrale, del romanzo, di nuovo le stesse cose ritornano: nell’odore del naufragio di una nave di immigrati, Delina rivive l’odore dell’internamento nel campo di concentramento di Ferramonti (una perla storica del libro, con pagine di rara pregnanza). “D’un tratto era dentro il mio naso, acre come allora: sapeva di fatica e di rabbia, di speranza e umiliazione, di pazzia, di vita che sbatte contro un filo spinato. E adesso arrivava a folate da ogni angolo del Mediterraneo, dalle coste dell’Africa, dai Balcani, dalle rotte asiatiche.. . Non ci lascerà in pace, l’odore del vecchio secolo”. Non ci lascerà in pace, no. Ma ci ha lasciato molti doni.

A.H.: “Non è un ‘film di Hitchcock’…Era una storia di vecchio tipo, piuttosto demodé….una storia che manca di umorismo” – F.T.: “In ogni caso ha il pregio della semplicità. Una giovane donna (Joan Fontaine) sposa un bellissimo Lord (Laurence Olivier), tormentato dal ricordo della prima moglie Rebecca, morta in circostanze misteriose. Nella grande dimora di Manderley, la nuova sposa non si sente all’altezza della situazione e teme di sfigurare nel suo nuovo ruolo; si lascia dominare, poi atterrire dalla governante, la signora Danvers, legata al ricordo di Rebecca. Un’inchiesta tardiva sulla morte di Rebecca, l’incendio di Manderley e la morte dell’incendiaria, la signora Danvers, porranno fine ai tormenti della protagonista”. Sono battute tratte da Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, libro mille volte ristampato tanto è bello, in cui leggiamo la facile trama di un racconto cosiddetto demodé… Rebecca la prima moglie.
L’autrice del romanzo, appena uscito dal Saggiatore con una nuova traduzione, è l’inglese Daphne Du Maurier, scrittrice prolifica, nata a Londra nel 1907 da una nobile famiglia di origine francese, morta nel 1989, e vissuta, lontana dalla mondanità, quasi sempre nell’amata Cornovaglia, dove inventava e spesso ambientava storie di ogni genere, storico, gotico, biografico, suspence. Una penna dai molti registri e dall’indubitabile talento (non è un caso che ben nove dei suoi numerosi testi abbiano conosciuto la trasposizione cinematografica, e proprio di recente una fiction televisiva – Rebecca, appunto), troppo spesso catalogata fra le minori, graziosamente dette “popolari”. In realtà la Du Maurier arriva al grande pubblico perché è capace di raccontare una storia, di delineare con precisione psicologica i personaggi, di creare un’atmosfera che radica il suo naturalismo nel perturbante, di tenere con avido fiato in gola il suo lettore fino all’ultima riga. Se prendiamo proprio Rebecca la prima moglie, pubblicato nel 1938, dimenticando sia il bel film, del 1940, sia la mediocre fiction di poche settimane fa, ci troviamo tra le mani pagine che sulla semplicità della fabula costruiscono un intreccio di lenti ma continui e imprevedibili colpi di scena, basato tecnicamente sull’inversione della temporalità (si comincia dalla fine della storia, con un sogno-incubo, e la storia finisce con un altro sogno-incubo), su una voce narrante unica, quella della protagonista, che non ha mai un nome proprio (è sempre e solo “la seconda signora de Winter”), su una scena affollata da molti protagonisti, tra cui indubitabilmente la grande dimora, Manderley, che da ambiente-sfondo diventa vero e proprio personaggio con un’anima sempre mutevole, gioiosa, carezzevole, bellissima, ma anche spettrale, immobile, piena di ombre, avvolgente come un’oscura ragnatela viva e parlante. Specchio e riflesso di un’altra specularità, quella tra la nuova signora, che era in precedenza una giovanissima dama di compagnia, e la vecchia governante, che ferocemente venera la sua prima e unica signora, Rebecca, ed è una vera, perfida antagonista, in un libro che racconta l’amore tra un uomo e una donna, ma anche, sebbene in via allusiva, quello tra due donne. E ancora racconta la paura, il terrore che il sentimento di una donna può incutere al sentimento di un’altra, la distruzione che ne può seguire.
Lo sguardo dell’autrice sulle relazioni umane è dunque affilatissimo, mai possiamo decidere tra personaggi a tutto tondo, semplicemente buoni o cattivi: è buono il signor de Winter, che, non amato, insultato nel suo onore, diventa un assassino? È buona la seconda signora de Winter che per amore del principe azzurro accetta fatalmente la sua confessione e se ne fa complice? E’ cattiva la signora Danvers, vittima di un amore che non può dire nemmeno a se stessa, e può sopravvivere, si anima, solo e sempre girando attorno alla propria ossessione, a una stanza, un letto, una camicia da notte, una spazzola per capelli irrigidite dal soffio sinistro della morte? Sì e no, ed è questa la grandezza di un’invenzione capace di vedere con occhio distante e lucido gli esseri umani nella loro complessità, di non idealizzare le donne “buone” né immiserire per banale misoginia i comportamenti di quelle “cattive”, e facendo valere questa sua postura mentale anche nei confronti degli uomini, complici e avversari, mantenendo e rappresentando una differenza fra i sessi che non li impicca mai a un unico chiodo, il già detto e pensato. In questo sguardo si rinnova con la Du Maurier un filone inglese di lunga tradizione, quello delle governanti, alla Jane Eyre della Brönte, degli amori che portano incendi che parlano il silenzio della follia o l’amore lesbico, di uomini che alla fine non possono che scendere da cavallo. Una mescolanza di sentimenti e azioni che riguardano i sessi e le classi sociali, in cui la venatura “rosa”, spesso attribuita alla scrittrice, si rivela del tutto fuorviante, perché lei sa mettere in scena, piuttosto, rapporti crudeli ma veri, con la forza di una teatralità appresa forse dai suoi genitori, entrambi attori.
Questa tonalità di scrittura della Du Maurier è ancora più eclatante nei suoi racconti, ad esempio in quelli raccolti sotto il titolo Gli uccelli e altri racconti (il Saggiatore 2008), notevoli tutti per ragioni diverse, la prima delle quali può essere riassunta dalle parole con cui, in una recente intervista, Nadine Gordimer definisce l’essenza stessa di questa forma rispetto al romanzo, il suo essere completa come “un uovo”, senza tappe e passaggi dunque, tanto da poter essere tenuta “completamente in una mano”. Se il primo, Gli uccelli, è di nuovo forse il più famoso – per essere diventato un altro film di Hitchcock nel 1963 -, è indubbio che la grande sfida vinta dalla Du Maurier è quella di aver raccontato in 35 scarne paginette la massima concitazione in un quadro perfettamente immobile: una piccola fattoria abitata da una normale famigliola in una penisola qualunque, la vita di una piccola comunità sconvolta da un evento inspiegabile e inspiegato, l’attacco di migliaia di uccelli, tanto imprevedibile da diventare l’architrave di un perfetto meccanismo a suspence. E’ la rivolta della natura contro l’uomo che, immaginata già nel 1953, fa di questa autrice, non a caso così abile nell’osservazione attenta e precisa della realtà, un’anticipatrice di temi e problemi attuali dispiegati con innegabile maestria. La stessa che leggiamo ne Il vecchio, dieci sole pagine di un’inquietudine affilata che nascono da un’altra forma di inversione, l’attribuzione a una coppia di cigni di sentimenti che fino all’ultimo pensiamo appartenere a una coppia di umani. Alle donne, poi, nulla viene perdonato, la superficiale marchesa de Il piccolo fotografo pagherà la sua sventata e vanesia avventura con l’ometto storpio, l’amante passeggero e adorante, non con qualche soldo, come pensava, ma con la presenza persecutrice della sorella di lui, per sempre; la vita dell’appagato vedovo de Il melo sarà sopraffatta e perduta dal persistere della presenza insopportabile della moglie morta in quell’albero che gli toglie la vista serena del giardino, dei suoi frutti che sembrano volerlo seppellire per bruttezza e quantità, e che una volta abbattuto, lo farà sprofondare nella neve e nell’oscurità, per sempre. Questa temporalità algida e portatrice di morte torna di nuovo in Baciami ancora, sconosciuto, la cui sensuale e silenziosa protagonista, che promette amore e avventura, uccide invece senza pietà né spiegazioni.
A me pare che questo basti per ricominciare a leggere Daphne Du Maurier, appassionandoci alle sue atmosfere vertiginose, alla magia della sua immaginazione, in cui tutto può all’improvviso trascorrere dalla normalità apparente all’angoscia più minacciosa, basti insomma a rimetterla, finita la lettura, nello scaffale degno di lei, quello delle grandi scrittrici.

Intorno a una serie di lunghi monologhi l’autrice e criminologa svizzera imbastisce il suo romanzo d’esordio uscito per Nottetempo nella nuova collana “il pesanervi” che, sotto il segno di Antonin Artaud, riprende il nome di una storica serie degli anni Sessanta

Edda Melon

A lungo il perturbante, l’inquietante familiarità che sorprende e terrorizza, e che tutti conosciamo per esperienza, è stato associato ai racconti del genere cosiddetto fantastico, dove, sulle orme di Freud, lo si poteva osservare e interpretare quasi in vitro. In seguito, letterati, filosofi, psicoanalisti, studiose femministe, hanno cominciato a interrogarsi sulla sostanza di quello che potremmo chiamare il perturbante contemporaneo, di ciò che non ha nome, per dirla con Giorgio Rimondi, che insieme ad Annarosa Buttarelli ha dato vita a un variegato gruppo di lavoro (Rimondi, Lo straniero che è in noi. Sulle tracce dell'”Unheimliche”, Cuec 2006; Buttarelli – Rimondi, Dove non c’è nome. Nuovi contributi sul perturbante, Scuola di cultura contemporanea 2007).
In questo orizzonte si può leggere il primo romanzo di Catherine Lovey (nata in Svizzera nel 1967), giornalista e criminologa, che ha per titolo L’interdetto (nottetempo, traduzione di Lucia Regola, pp. 124, euro 9). La struttura è di una pulizia abbagliante: una serie di lunghi monologhi – come verbali di sedute registrate – rivolti a uno psicoanalista totalmente silenzioso da parte di un uomo sospettato di aver ucciso la moglie. Raggiunto sei mesi prima dalla notizia della sparizione della donna mentre è in viaggio d’affari a Londra, per non perdere la firma di un contratto importante da cui fa dipendere la sua carriera, non anticipa il rientro né telefona alla vicina che, nell’emergenza, ha preso in custodia i suoi tre bambini. Il suo eloquio è monocorde, ossessivo. Non una parola sulla moglie, ma solo timore di perdere il lavoro e autocommiserazione per la fatica di doversi occupare dei figli (bambini, bambine, chi lo sa? strano rapporto con il femminile). Nessun sentimento, nessuna emozione, ma un’angoscia crescente che l’uomo sembra provare di fronte allo “straniero” che è in lui. Che sia colpevole o vittima, è difficile per il lettore stare dalla sua parte. La sua stessa esistenza – che ci ricorda altri personaggi della letteratura oltre che delle cronache, quelli di Dürrenmatt per esempio, o di Carrère (L’avversario, La settimana bianca) – è per noi fonte di un malessere che le pagine del breve romanzo portano a livelli insostenibili, senza remissione.
Non a caso il libro della Lovey ha inaugurato, nelle edizioni nottetempo di Ginevra Bompiani e Roberta Einaudi, una collana che riprende nel nome, “Il pesanervi”, una storica collana degli anni Sessanta. All’insegna della parola inventata da Antonin Artaud nel 1925 – il pesanervi appunto – e adottata da una giovanissima Bompiani nella casa editrice del padre, la pubblicazione in controtendenza di questi “Capolavori della letteratura fantastica”, durò all’incirca quattro anni, per un totale di diciassette titoli, con una grafica di copertina firmata da Franco Ricci, ottime traduzioni e prefazioni illuminanti. Dal Golem di Meyrink all’Eva futura di Villiers de l’Isle-Adam, dal Monaco di M. G. Lewis raccontato da Artaud all’Invenzione di Morel di Bioy Casares, si trattò per i lettori italiani di un rapido corso di aggiornamento su un’intera zona letteraria della modernità. Siamo situati esattamente tra la pubblicazione del saggio di Roger Caillois Nel cuore del fantastico (1965), e l’Introduzione alla letteratura fantastica di Tzvetan Todorov (1970), quando questa letteratura di avventure, di fantasmi, di fantascienza, nera o gotica, stava per diventare popolare ma anche per varcare le soglie dell’università e fornire materia per la teoria.
A quarant’anni di distanza, quale potrebbe essere allora la posta in gioco dei nuovi Pesanervi? Per intanto, la collana sembra voler saggiare diverse direzioni, aggiungendo opportunamente, al fantastico, il poliziesco e il noir. I primi quattro libri hanno un aspetto allegro e invitante, un formato maneggevole, un’illustrazione sempre diversa firmata da Jean Blanchaert, nome celebre nell’arte contemporanea, e una cura impeccabile. A differenza della prima serie che metteva in catalogo unicamente grandi nomi di autori al maschile, qui la proporzione è di tre autrici contro uno. Vero è che la maestria femminile nell’arte della detection psicologica è assodata, e viceversa nel campo del racconto fantastico il canone è piuttosto avaro di scritti di donne. Ma anche qui, vanno citati i lavori di alcune studiose italiane che hanno avanzato l’ipotesi di modelli differenti, meno inquietanti, dell’immaginario femminile (Eleonora Chiti, Monica Farnetti, Ute Treder, La perturbante, Morlacchi 2003).
In attesa di saperne di più, possiamo apprezzare due gialli pesanervi di stampo classico. Miss Pym, di Josephine Tey, tradotto da Rosanna Pelà, era già circolato vent’anni fa nella Tartaruga Nera, ed è un gradito ritorno. L’ambiente dove la Tey immerge la sua deliziosa Lucy Pym, signorina di mezza età esperta (ma non troppo) di psicologia, è un college femminile di Educazione fisica, immerso nella campagna inglese, frequentato da uno stuolo di fanciulle fresche ed esuberanti, che si preparano sia a una vita lavorativa sia, in alternativa, a una carriera di moglie. Quando la morte farà irruzione nell’atmosfera festosa di fine anno, Miss Pym sarà costretta a rivedere molte delle sue prime impressioni su allieve e insegnanti. Là dove un detective sarebbe soddisfatto di aver risolto il caso, la lettrice continuerà a rimuginare sui misteri del cuore.
Più recente e complesso il libro di Batya Gur, Un delitto letterario (traduzione di Elisa Carandina), ambientato nel dipartimento di Letteratura dell’Università di Gerusalemme. L’autrice, già nota in Italia, è stata docente di letteratura e articolista sul quotidiano Ha’aretz. Gli ingredienti del giallo universitario ci sono tutti, dalle piccole vanità alle rivalità professionali all’adulterio, ma la prolungata ricerca del colpevole non annoia mai e svela alla fine risvolti abbastanza sorprendenti, che affondano nelle vicende europee del secolo scorso. Oltre che agli appassionati del giallo e dei comportamenti accademici, può piacere ai veri studiosi di poesia, con pagine e pagine di abilissime analisi testuali.

La Némirovsky nella Kiev benestante
Bossi Fedrigotti Isabella

I cani e i lupi, che esce ora da Adelphi (pagine 270, 18,50) è l’ ultimo romanzo pubblicato in vita di Irène Némirovsky, un attimo prima che le leggi razziali glielo proibissero. E, mentre il suo più famoso, Suite francese, grazie al quale la scrittrice è stata riscoperta tre anni fa, racconta in chiave indirettamente autobiografica le peripezie di un gruppo di persone in fuga attraverso la Francia occupata dai nazisti, questo narra, in chiave altrettanto indirettamente autobiografica, le vicende di una bambina e poi di una ragazza ebrea nata in una città dell’ Ucraina e poi rifugiata a Parigi. È dunque, questo, il romanzo del suo passato, delle radici ebraiche, che hanno segnato la sua esistenza e il suo destino. La famiglia, come del resto, suggerisce il nome, veniva da Nemirov, nel cuore yiddish dell’ Ucraina di antica tradizione chassidica. Lei stessa era nata e aveva trascorso l’ infanzia a Kiev, non nella città bassa dei bottegai e prestasoldi, bensì in quella alta, dove ricchi russi ed ebrei vivevano fianco a fianco, perché suo padre, Leon, dopo essere stato un prospero commerciante, si era trasformato in banchiere, uno dei più potenti e temuti di tutta la Russia, tanto che a un certo punto si trasferì, assieme ai suoi, nella capitale, Pietroburgo. Della madre si sa solo che era mondanissima, poco interessata alla figlia e che arrivava, per potersi abbassare l’ età a suo piacimento, a negarne perfino l’ esistenza. Però si apprendono molti più dettagli su di lei leggendo un altro romanzo indirettamente autobiografico di Irene, Jezabel, tragica storia di una donna forsennatamente impegnata a sembrare giovane, al punto da nascondere l’ identità della figlia facendola passare per una parente accolta per carità in casa. Ada, la protagonista de I cani e i lupi, la madre semplicemente non ce l’ ha, bensì soltanto il padre che, in quanto modesto bottegaio, vive nella parte bassa di una città ucraina, in poche stanze squallide sopra il misero negozietto, dove gli scarafaggi, segno di benessere, vengono lasciati passeggiare indisturbati, e dove le finestre vengono pulite solo una volta all’ anno perché la grassa domestica russa ha ben altro da fare dietro la sporca tenda della cucina, e cioè mormorare preghiere segnandosi ripetutamente alla maniera ortodossa oppure ricevendo i suoi numerosi amanti. Da quelle stanze Ada, assieme al cuginetto Ben, ascolta i rumori sinistri dei pogrom che, periodicamente, sconvolgono il quartiere: le strilla, le fughe in strada, gli schianti dei vetri infranti e delle porte abbattute, il ruggire delle fiamme. Ed è proprio uno di questi pogrom che porterà i due bambinetti, sorpresi in strada dalle violenze, a cercare rifugio nella città alta, tra le sontuose ville, in casa di un famoso banchiere, cugino alla lontana del misero bottegaio. Difficilissimo, poi, tornare giù in basso, alla normalità sporca e fredda, lontano dal lusso caldo e luminoso della dimora dei parenti. Né consola più di tanto il fatto che costoro sono impegnati a far fiorire almeno un poco i commerci dello squattrinato cugino: anche perché arriva presto il tempo della precipitosa partenza del banchiere per la Francia, dove si stabilirà con tutti i suoi soldi. Allo scoppio della rivoluzione russa, toccò emigrare anche alla famiglia Némirovsky, particolarmente invisa ai bolscevichi, prima in Finlandia, poi in Svezia e infine in Francia, a Parigi, dove Irène si iscrisse alla Sorbona e cominciò, diciottenne, a scrivere. Il suo primo romanzo, David Golder, è del 1929, e segnò l’ inizio della sua fortunata carriera letteraria. Fortunata ma breve: undici anni dopo, infatti, quando a suo marito (ebreo e banchiere esattamente come il suocero) fu proibito di andare al lavoro e a lei di pubblicare, i due si nascosero in campagna, a Issy-l’ Eveque, assieme alle figlie. Nel ‘ 42 furono arrestati entrambi e deportati ad Auschwitz dove morirono a pochi mesi di distanza. Si salvarono le bambine, nascoste in casa della domestica che, quando uscivano – ricorda, ormai anziana, la maggiore – sempre si raccomandava di nascondere nello scialle il gran naso di famiglia. Perché due persone colte, abbienti, informate sugli avvenimenti non avevano pensato di scappare, come molti altri avevano fatto, in America per esempio? Perché – è sempre la figlia che ricorda – troppe case Irene era già stata costretta ad abbandonare nella sua non tanto lunga vita. Nel romanzo, i cani e i lupi non stanno tanto a indicare i buoni e i cattivi, perché a turno gli uni e gli altri sono buoni o cattivi, bensì gli inseguiti e gli inseguitori. Cani sono, dunque, i benestanti inquilini della città alta che fuggono, sì, dai rivolgimenti politici ma, ancora di più, dalla miseria che loro stessi in passato avevano ben conosciuto, incarnata, orribilmente visibile e tangibile, da quei cugini magri e laceri e da tutti quelli come loro, la cui povertà risulta notoriamente contagiosa: dalla minaccia, dunque, di potere, un giorno, ricadere indietro nell’ antica condizione di ebrei pezzenti. Inseguitori sono Ada, Ben e un’ ambiziosa zia che, sospinti dall’ illusione di una vita migliore, dalla voglia febbrile di bellezza ed eleganza, si trasformano in lupi gettati sulle tracce dei parenti ricchi, per cui a loro volta espatriano e si sistemano, sia pure in modo più che modesto, in Francia, a Parigi, dove ben presto andranno famelicamente in cerca della bella casa dei parenti banchieri. È Ada la guida del branco, la più ostinata nell’ inseguimento, perché innamorata, fin dai tempi di quel pogrom che l’ aveva costretta a cercare riparo nella città alta, di Harry, figlio del banchiere, che ha i tratti così simili a quelli di lei: gli stessi capelli scuri e ricci, lo stesso viso stretto, la stessa espressione triste e il naso lungo. E sarà lei, assieme al cugino Ben, a sua volta lupo affamato, a portarlo alla rovina. Il romanzo, pieno di passione e di nostalgia, evoca con forza e immediatezza il perduto mondo ebraico russo, nonché quello francese dell’ emigrazione, anche più duro e difficile, perché la comunità vi è considerata più straniera ancora di quanto non lo fosse in Ucraina. A suo tempo venne accusato di antisemitismo, e non è escluso che la scrittrice, peraltro firma importante di due riviste tendenzialmente antisemite, incarnasse una figura peraltro ben presente nella tradizione, quella dell’ ebreo che irride se stesso. Più probabile però – il libro, come tutti i libri, parla del suo autore, in questo caso della sua ansia, dei suoi timori se non della sua disperazione – che Irène Némirovsky, sentendosi braccata assieme al marito e alle figlie, abbia tentato anche la strada dell’ autodisprezzo per ingraziarsi un qualche potente che avrebbe eventualmente potuto intercedere per loro.

 Il cuore del Grande paese Ristampato il libro d’ esordio della McCullers. Era una specie di bambina prodigio e scrisse all’ inizio cose piuttosto stravaganti. La scrittrice (1917- 1967) che adorava i deformi è tutta da riscoprire. La sua apparenza androgina affascinò fotografi come Dahl-Wolfe e Richard Avedon A Brooklyn andò a vivere in una specie di comune e divenne amica di Auden e Britten

Nadia Fusini
Quando scrive Il cuore è un cacciatore solitario (che ora riappare nella collana Stile Libero di Einaudi, traduzione di Irene Brin, introduzione di Goffredo Fofi, pagg. 368, euro 11,80), Carson McCullers ha appena ventitré anni. E da questo punto di vista, puramente anagrafico, il risultato è straordinario. Apre attese di capolavori a venire. Tanto che la promessa della casa editrice Einaudi di iniziare con questo romanzo giovanile la pubblicazione di tutta l’ opera della scrittrice americana, nata nel 1917, morta nel 1967, ci fa molto piacere. Non abbiamo dubbi che McCullers sia una scrittrice notevole; anche se non concordiamo del tutto con l’ affermazione esagerata, strillata in quarta di copertina, che con questo romanzo, e con i romanzi di Flannery O’ Connor, sia cambiato il corso della letteratura americana. Ma se l’ invito è a ragionare della letteratura americana a partire da questo romanzo, volentieri lo accettiamo. Perché non c’ è paese che più dell’ America si identifichi con la propria letteratura. O diciamo meglio, non c’ è paese che la letteratura, e dunque i suoi scrittori abbiano servito meglio, vegliando sulla sua coscienza, criticandolo con spirito libero, e insieme amandolo senza riserve. D’ altra parte, il paese ha ricambiato i suoi scrittori. Ditemi di un altro luogo al mondo dove con le più varie forme di fondazioni si sostenga chi voglia dedicarsi alla letteratura. McCullers stessa godette di lunghi periodi passati a Yaddo, una colonia per scrittori a Saratoga Springs, dove visse e scrisse e riposò e incontrò altri come lei. Amici e nemici importanti. Per Carson McCullers, Yaddo e le varie forme pubbliche di sostegno al suo ruolo furono fondamentali. Non soltanto per ragioni economiche, ma perché le servirono a costruire la propria identità intorno al gesto in cui si manifestava la sua passione. In ogni altro senso, l’ identità di Carson è ambigua; nasce donna, ma non si identifica alla propria identità di genere, le piacciono gli uomini, ma ama soprattutto le donne, e rimane fondamentalmente fino alla fine, se non una bambina, una adolescente. Adora i deformi, i ritardati, gli anormali; insomma, i capricci della natura, quelli che chiama “freaks”. Spiega: la maggior parte della gente passa la vita nel terrore di avere esperienze traumatiche, il freak convive con il trauma fin dalla nascita. Quanto a sé, in molti modi accentua la sua apparenza androgina, che affascinò fotografi come Louise Dahl-Wolfe e Richard Avedon. Sta di fatto che già nel cuore si accampa con ruolo di protagonista e potenza allegorica il sordomuto Jack Singer. Ma vi compare anche il sentimento autentico della fatica e della sofferenza dei poveri e dei diseredati, il marxista bianco Blount, il medico nero Copeland. Dalla casa in cui era nata, a Columbus, in Georgia, che apparteneva alla nonna materna, e affacciava sulla strada che portava alle fabbriche del cotone, fin da bambina Carson vedeva passare mattina e sera gli operai che andavano e tornavano dal lavoro. Fu allora che nacquero in lei certe tendenze diciamo così “operaiste”? O se non altro, una fortissima simpatia proletaria? Il motivo autobiografico è sempre presente, in ogni suo scritto. E se non è autobiografico il motivo, sono ricordi veri il caldo, la fiamma della luce estiva, la noia, la monotonia, la pena delle piccole città meridionali, dove l’ anima imputridisce nella noia. Chi vive lì, sogna incantato la neve – sogno che con lei un altro scrittore sudista condivide (oppure, la copia?) Truman Capote. Lula Carson Smith – così nasce Carson – è un Wunderkind, un prodigio. I genitori l’ assecondano nelle sue fantasie di eccellenza: immagina di diventare una grande pianista e i genitori le comprano il piano. Cambia idea, e il padre subito provvede a comperare una macchina da scrivere. Ora che ha la macchina da scrivere, Carson si lancia nella carriera letteraria senza timori e scrive un racconto, Il fuoco della vita, con due personaggi; uno è Gesù, l’ altro è Nietzsche. E comincia un romanzo, su un musicista di jazz di New York, il quale vende l’ anima al diavolo. Non ha mai visto New York, ma inventa a ruota libera. Inventa, ad esempio, che per la metropolitana si compri un biglietto dal conducente, più o meno come per salire sul bus. L’ agente letterario, a cui l’ ha spedito, meravigliato le rimanda il manoscritto e le fa presente l’ incongruenza, ma lei non si scompone. E si dedica a un secondo romanzo; questa volta imita D.H.Lawrence. Siccome va pazza per Eugenie O’ Neill, scrive tre drammi uno dopo l’ altro, e li inzeppa di tutto quello che le viene in mente: incesto, pazzia, delitti. Situa la prima scena direttamente in un cimitero, nell’ ultima, tra le suppellettili, impone un catafalco. Poi un giorno legge l’ autobiografia di Isadora Duncan. E subito plagiata proclama a chiare lettere in famiglia che lei non si sposerà. Non vuole mariti, ma amanti. E spiega ai genitori adoranti che deve partire: con tutto quello che ha in testa non si può fermare a Columbus, Georgia; deve andare “abroad”. All’ estero. Arriva a New York. E si trova a vivere a Brooklyn in una specie di comune, i cui pilastri fondanti sono per l’ appunto lei e l’ amico George Davis, mondanissimo editor di Harper Bazaar. A questa “vie de Bohème” si aggregano W.H.Auden, Benjamin Britten e Louis MacNiece. E partecipano Leonard Bernstein, Virgil Thomson, Salvador Dalì, Denis de Rougement, Truman Capote, Anais Nin, artiste dello spogliarello ecc.ecc. E’ una fuga? un’ evasione? E’ in realtà il modo concreto in cui Carson sperimenta alive uno dei grandi temi della letteratura americana: flight, escape sono, in effetti, due termini senza i quali non si potrebbe descrivere la civiltà di quel paese. Dalla fuga dall’ Europa dei pilgrim fathers sono nati gli Stati Uniti d’ America; dall’ evasione verso gli spazi sconfinati del West nascono i valori americani della frontiera, che conosciamo grazie ai western. La verità è che l’ azione di fuggire per salvarsi, implicita nei termini flight e escape, riguarda nella sua essenza l’ individuo americano, la sua coscienza puritana. Per tale individuo nell’ orizzonte della fuga si apre la via della salvezza; come a dire, la fuga non è diserzione, è conquista di nuovi spazi e territori, anche interiori. E la salvezza personale si realizza con la testimonianza qui e ora, in questo mondo, della necessità della giustizia. Intesa come il problema dell’ essere giusti. E giustificati nelle proprie opere dalla propria coscienza. Questo vale anche per i personaggi del Cuore, che all’ inizio si chiamava Il muto. Così avrebbe voluto intitolarlo Carson, ma il suo editore fu più bravo e trovò un titolo che è una delle ragioni del successo, nel “cuore” e nella “solitudine” indicando le due realtà a cui la sensibilità della giovanissima scrittrice rimarrà per sempre fedele. Insieme al senso doloroso di una disumana verità, che la ragazzina bianca del romanzo condivide con il mondo degli “schiavi” neri liberati nei fatti, ma ancora perseguitati per antico pregiudizio: non esiste l’ eguaglianza. Carson McCullers è bianca e cresce in uno stato del Sud profondamente tormentato dall’ ingiustizia della schiavitù. E ne patisce la colpa. Richard Wright, lo scrittore nero che ha appena pubblicato il romanzo autobiografico Native Son (da noi tradotto con Paura), le tributò un grande onore, quando le riconobbe che aveva saputo rappresentare la condizione esistenziale e le ragioni dei neri. Parlò di “grande umanità”. Ma del resto, la letteratura americana questo esercizio lo sa fare, quando è davvero grande; si veda la fuga insieme di Huck il bianco e Jim il nero nel più meraviglioso romanzo americano su questo tema, Huckleberry Finn. Quel che colpisce, nel caso di McCullers (come nel caso di Truman Capote, che le fu prima amico, poi nemico), è la piega particolare che tale sensibilità, che potremmo definire sudista, sudista abolizionista, sudista progressista, ma pur sempre sudista, prende. E cioè, come essa tramuti in un’ attitudine queer, in tutte le accezioni del termine, le più antiche e le più moderne. Intendo dire che lo scrittore, in entrambe le incarnazioni offerte da Capote e McCullers, dimostra un feticismo della devianza che lo stringe in morbosa, appassionata empatia con ogni genere di devianza dalla normalità. E’ il lato Dostoevskij della sua personalità. O il lato Arbus dell’ attrazione per l’ irregolare. Nel caso particolare di Carson McCullers coloro che l’ amarono testimoniano come nel corso degli anni si fece smodata la richiesta di attenzione, come crescesse l’ avidità di piaceri, che non sapeva cogliere, se non in modo per l’ appunto smodato. E autodistruttivo. Se amò in modo appassionato il mondo del cinema e del teatro, fu anche per questo aspetto: avrebbe voluto essere una star. Avrebbe voluto essere una queen. E in un certo senso lo fu, queen e queer. Ma fu soprattutto un eroe della scrittura. Che affermò con sicurezza che non c’ è niente di umano, che lo scrittore possa allontanare da sé: se esiste al mondo un uomo umiliato, perseguitato, oltraggiato, ecco, allora ci deve essere uno scrittore che sappia identificarsi con lui, e ricrearlo. E dargli la parola. Anche, soprattutto, quando sia muto. Perché per lo scrittore la parola salva.

Liliana Rampello

“Considerare il feto come un essere umano è un atteggiamento metafisico” affermava Simone de Beauvoir nel 1974, due anni dopo aver accettato la presidenza dell’associazione femminista francese “Choisir”, che lottava per la depenalizzazione dell’aborto, ed essersi autodenunciata al processo di Bobigny fra le 343 salopes, donnacce, che dichiaravano pubblicamente di aver abortito. Anche l’Italia ha visto negli anni migliaia di donne in piazza per la 194, per ottenerla e per difenderla, anche in Italia c’erano donne che non avrebbero voluto una legge, ma piuttosto la depenalizzazione di un reato, con accesso gratuito alle strutture pubbliche di assistenza.
Di nuovo, dopo più di trent’anni? Sembra di ricominciare, ma le cose non tornano mai identiche e oggi l’attacco alla libertà femminile in tutti i suoi aspetti è invasivo, invadente, prepotente. Viene da istituzioni e uomini ormai privi di vera autorità ma grondanti autoritarismo, incapaci di stare al livello di molte parole femminili sensate e pensate, scritte e dette, che molti fanno finta di non conoscere o fraintendono malignamente. Mi sembra di assistere a un misero spettacolo: il grande animale morente, il patriarcato, che dà gli ultimi colpi di coda, violenti e incontrollati. Alcune lo avevano detto anni fa (1996), in un foglio intitolato Sottosopra, il patriarcato è finito, ricordando anche che la donna, secondo Kristeva, “non ha di che ridere quando crolla l’ordine simbolico”.
Parto di qui per parlare di un testo importante, Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, che ritorna in libreria nel centenario della nascita della sua autrice e per i cinquant’anni della casa editrice, il Saggiatore, che lo ha fatto conoscere in Italia e lo propone ancora oggi, giustamente, fra i suoi classici. Per questa occasione una nuova introduzione è stata affidata a Julia Kristeva, che in Francia presiede alle celebrazioni in onore dell’autrice, e a me è stata affidata la postfazione, che ho scelto di scrivere come un racconto della ricezione italiana del testo, lasciando parlare le molte protagoniste della nostra storia politica, per capire quanto, come, e se la de Beauvoir avesse inciso nella loro formazione personale e nella loro militanza, in partiti o gruppi. Mi hanno aiutata in molte, con ricordi e riflessioni, e le voglio nominare tutte per dare un’idea della grande maglia di scambi che si possono così leggere come in un palinsensto: Luciana Castellina, Carla Mosca, Miriam Mafai, Marisa Rodano, Margherita Repetto, Rossana Rossanda, Paola Gaiotti de Biase, Luciana Viviani, Letizia Paolozzi, Letizia Bianchi, Daniela Pellegrini, Lia Cigarini, Luisa Boccia, Laura Lepetit, Luisa Muraro, Marisa Forcina, Franca Fossati, Carla Pasquinelli, Mariella Gramaglia, Federica Giardini (ricordo infine, con grande affetto, la disponibilità di Giglia Tedesco, mancata proprio nei giorni in cui scrivevo). Queste voci “vive” mi hanno permesso poi di inserire nell’intarsio altre pensatrici, altri testi, i molti elementi di una discussione appassionante che arriva all’oggi, da Luce Irigaray a Judith Butler.
L’elenco non è inutile, mancano gli uomini, e non a caso o per scelta aprioristica. Fin dal momento della sua uscita in Francia, nel 1949, il libro ha fatto scandalo mentre raggiungeva vere e proprie vette di vendita, e la reazione maschile non si era fatta aspettare, per lo più espressa in ingiurie e sarcasmi di tutti i tipi, virago, nevrotica, repressa, frigida, ninfomane, lesbica, priapica, e per di più misogina. Il libro suscitava le ire dei cattolici e dei marxisti o, quando andava bene, se ne sottolineava la secondarietà dell’autrice rispetto al suo compagno, Sartre. I tre capitoli, “La madre”, “Iniziazione sessuale”, “La lesbica”, pubblicati in anteprima su “Les Temps Modernes”, avevano scatenato un uragano. Sarebbero bastate le prime 15 pagine dedicate alla madre, a scatenarlo, visto che lì sono condensati i pensieri in difesa della libertà dell’aborto, si nega l’esistenza stessa dell’istinto materno, si considera alienante la funzione materna. In Italia Arnoldo Mondadori compra subito i diritti del libro, ma non lo pubblica… Nel 1956 un editto vaticano lo mette all’indice (intervento persino più comprensibile della misera censura sulla scena di un film), il clima culturale non è favorevole e sarà Alberto Mondadori, una volta fondata nel 1958 la sua casa editrice, il Saggiatore, a pubblicarlo nel 1961, nella collana “Cultura”, di fianco a Levi-Strauss e a De Martino, consacrandolo fra i libri di studio. Dopo di che, praticamente, silenzio stampa, dunque avevo ben poco materiale serio per far parlare gli uomini, a parlare mi è sembrato piuttosto il loro silenzio, la loro indifferenza. Né mi pareva interessante seguire le discussioni disciplinari che man mano ovviamente hanno coinvolto gli studi accademici. Ben più importante infatti è un altro dato, ovvero che Il secondo sesso, nonostante la vastità dell’impianto e la sua problematicità filosofica, abbia sempre incontrato un pubblico di donne comuni che lo hanno letto con passione, lo hanno usato per capire e capirsi, se ne sono servite nelle loro lotte private e pubbliche. In questo sicuramente gioca tutta la seconda parte del libro, vero e proprio viaggio tra le esperienze vissute dalle donne, raccontate con limpida e impietosa precisione in una lingua che si piega sulle piccole verità per dire finalmente chi è la donna, per sottrarla a un destino biologico che la inchioda e le nega l’accesso alla storia – la frase più celebre e conosciuta, la più discussa, è “donna non si nasce, lo si diventa”- una lingua che parla diretta al cervello e al cuore femminili. Ovunque nel mondo, a milioni, le donne leggeranno questo testo che si fa capire anche da quelle che non si destreggiano con abilità fra questioni filosofiche quali immanenza e trascendenza. C’è una verità dell’autrice, che si sente a pelle, ovvero che per scrivere questo libro, lei, la grande intellettuale solitaria, ha dovuto chiedersi cosa significa dire: “io sono una donna”, e questo, semplicemente questo, “l’andare scoprendo le sue idee man mano”, apre il suo libro alla lettura di qualsiasi mente. E alla discussione di quante, negli anni a seguire, prendendo coscienza di sé, a lei si sono riferite, con lei consentendo o mettendola radicalmente in discussione. Per un decennio persino mettendola in soffitta. Eppure Simone de Beauvoir ricompare sempre e sempre con una sua specifica vitalità, in ragione di almeno due mosse, il richiamo continuo ad assumersi la responsabilità del proprio destino e del mondo comune, e la coraggiosa libertà con cui ha spaziato tra tutti i saperi per riattraversarli, decostruirli diremmo oggi, e raccontarli alla luce di uno sguardo differente. Affrontare il suo lavoro diventa allora questione di nuove possibili interpretazioni di un libro-monumento del pensiero del Novecento, di farlo reagire di fronte all’irruzione del pensiero della differenza, di metterlo in tensione radicale con l’idea di parità e uguaglianza, di marcarne i limiti, di metterne in luce le contraddizioni, non dimenticando mai che “la separazione dei sessi non è fondata su alcuna natura, su alcuna essenza”, come lei ci ha insegnato.
Celebrarla o liquidarla? si chiedeva Maria Serena Palieri sull”Unità” dell’8 gennaio, sfogliando per noi i giornali italiani nel giorno del centenario. Poche pagine, voli in superficie, a guardar bene. Una forte tentazione alla liquidazione di una pensatrice e di un testo che evidentemente può ancora fare scandalo. E pensare che anni fa Rosi Braidotti con gioia aveva affermato in proposito che “la transizione dal blasfemo al banale dà la misura del progresso compiuto”, e la stessa Simone, molto prima, nella Forza delle cose, aveva rilevato non solo che la verità al suo libro l’avevano conferita le donne, ma che era merito loro se non scandalizzava più. Forse non è così vero, forse è meglio leggere o rileggere Il secondo sesso per capire quanto è davvero scandaloso che qualcuno ancora pensi di poter parlare al posto di una donna.


Costretta a firmare i suoi esordi efferati con uno pseudonimo maschile, l’autrice di “Grotesque”, appena tradotto da Neri Pozza e ispirato a un caso che suscitò scalpore negli anni ’90, attinge sia alle ossessioni del moderno Sol levante per le donne criminali, sia alla tradizione datata all’inizio dell’era Meiji, quando spopolavano racconti tratti dalla realtà ma letterariamente esagerati e abbelliti
Tommaso Pincio

Oniyome è giapponese. Vuol dire “moglie demoniaca”, più o meno. L’espressione è diventata assai popolare quando un trentenne della prefettura di Fukuoka ha aperto un blog per raccontare quel che lo attende ogni sera, rientrando dal lavoro. Cose così: non ha neppure varcato la soglia di casa che quel demone della sua dolce mogliettina gli impone di uscire di nuovo per andare a comprare qualcosa in un discount in capo al mondo. Fuori diluvia e lui è bagnato fradicio.
A lei non interessa, deve andare lo stesso. Portata a termine la missione, l’uomo si siede a tavola e il demone del focolare gli sbatte davanti gli avanzi della figlia di due anni. Lui mangia in silenzio, stando pure attento a non starnutire perché se lo sente sua moglie, stanotte gli tocca anche dormire in cucina. Il demone non si vuole certo beccare il raffreddore per causa sua. Tra un boccone e l’altro, salta fuori che è arrivato in città il Cirque du Soleil. La demoniaca metà ha bisogno che domani lui compri tre biglietti. Tre? Sì, uno è per lei, gli altri due per i suoi genitori. Lui resta a casa a badare alla bambina.
Dalla una vena antica
In breve tempo, quel che doveva essere un semplice sfogo si rivela una miniera d’oro. Dopo soli quattro mesi di confessioni, Kazuma – questo il nickname scelto dallo sventurato marito – si vede piovere dal cielo un premio di oltre un milione di yen per l’impressionante quantità di contatti che il blog riceve ogni giorno. In buona parte si tratta di sodali, uomini che si riconoscono in lui. Ma ci sono anche molte rappresentanti del sesso opposto, donne che si esaltano alle gesta della moglie demone. Il successo è tale che il blog diventa prima un libro, poi un serial televisivo, poi un videogioco e naturalmente un manga. Soldi e fama hanno forse cambiato la vita di Kazuma? Neanche per sogno. È sua moglie che gestisce le finanze, per cui di tutti quei soldi non ha finora visto un centesimo. Per giunta, la necessità di trovare nuovi spunti per il blog gli impone di non sottrarsi alle vessazioni domestiche. La vecchia storia del serpente che si morde la coda.
E visto che parliamo di donne e serpenti, tanto vale citare quel che dice in proposito il regista Shinya Tsukamoto: “Quando penso a una donna, la immagino con un serpente che le vive dentro”. Anche questa è una vecchia storia. Le emancipate e spietate eroine che furoreggiano nell’immaginario pop giapponese non sono una novità postmoderna. Da sempre, infatti, il desiderio di una donna dolce e sottomessa si accompagna al suo contrario. L’idea che la bellezza femminile possa assumere connotati demoniaci e soggiogare l’uomo fino ad annientarlo ha ascendenze lontane. In un famoso racconto di Kyoka Izumi datato 1900, un monaco pellegrino si imbatte in una sorta di donna vampiro che trasforma gli uomini in animali succhiandogli il seme anziché il sangue. Non meno celebre è il romanzo breve di Tanizaki Junichiro dove un giovane rimane per sempre stregato dalla vista di una ragazza di straordinaria avvenenza che acconcia il cranio mozzato di un samurai. Ma la cosa più interessante è che queste femmine fatali, benché frutto di morbose fantasie maschili, si rifanno tutte, per un verso o per l’altro, a un personaggio inventato da una donna vissuta mille anni fa, Murasaki Shibuku, dama della Corte imperiale.
Nella sua Storia di Genji, da molti considerato il primo romanzo in assoluto della letteratura mondiale, un ruolo importante è occupato dalla dama di Rokujo. Costei è talmente gelosa e forte di carattere da riuscire a trasformarsi in spirito e prendere possesso del corpo delle rivali per annientarle. Il fascino perverso della sua furia distruttrice ha attraversato i secoli ispirando racconti e drammi teatrali. Per lungo tempo, però, solo agli uomini è stato concesso di dar vita alle epigoni della dama di Rokujo, giacché dopo il XII secolo le donne furono di fatto bandite dalle letteratura. Tornarono a far sentire la propria voce solo agli inizi del Novecento quando un gruppo di attiviste fondò Seito, una rivista letteraria tutta al femminile il cui motto era: “In principio era la donna”. Nell’editoriale, Hiratsuka Raicho scriveva: “Sono una donna nuova. In quanto donne nuove noi insistiamo da sempre sul fatto che anche le donne sono esseri umani”.
Una lampante verità che ha avuto non pochi problemi a essere accettata. Famoso è il caso di Kitagawa Kiyoko che nel 1965 si rifiutò di licenziarsi perché incinta. Il capo l’apostrofò dicendole che persino i cani crescono i loro piccoli. Se avesse lasciato il figlio all’asilo per recarsi al lavoro, si sarebbe dimostrata pertanto inferiore a un cane. Questa impeccabile quanto aberrante logica sopravvive ancora, tant’è che una sentenza emessa nel luglio 2000 dalla corte distrettuale di Osaka per una causa intentata da un gruppo di lavoratrici recita così: “La divisione del lavoro in categorie maschili e femminili viola l’art. 14 della Costituzione ma non è in conflitto con l’usanza comune. Di conseguenza non si vede la necessità di discutere il problema in ambito giuridico”. Una versione sessista del famigerato comma 22, in pratica.
Il blog di Kazuma, senza volerlo, ha messo in discussione il conservatorismo maschile facendo della moglie tirannica e prepotente un’icona da femminismo pop. In seguito al suo successo, molte riviste hanno creato rubriche dove casalinghe demoniache raccontano come riescono ad avere la meglio sul consorte. Il tutto viene presentato sempre in chiave scherzosa, ma tradisce un risentimento profondo e in buona parte giustificato.
C’è poco da ridere, invece, in uno dei romanzi più venduti e discussi degli ultimi anni, Le quattro casalinghe di Tokyo. Tutto prende le mosse nel momento in cui la giovane e graziosa Yayoi, madre e moglie esemplare, in un impeto di rabbia strozza il marito tornato a casa ubriaco dopo aver dilapidato i risparmi per darsi alla pazza gioia con una ragazza cinese abbordata in un bar. Non sapendo come fare per sbarazzarsi del corpo, Yayoi chiede aiuto a una collega la quale coinvolge a sua volta un’altra amica, anch’essa assai logorata da una situazione famigliare complicata. Le donne scoprono che non è poi così impossibile smaltire un cadavere e pensano bene di ripetere l’impresa a scopo di lucro. Per farla breve, mettono in piedi un’impresa per l’eliminazione di morti ammazzati.
Detta così può sembrare una vicenda ai limiti dell’assurdo. Il romanzo, però, è scritto con crudo realismo e mostra un Giappone lontano anni luce da quella società opulenta e sicura che solitamente si immagina. Le casalinghe demoni che descrive sono operaie costrette a fare il turno di notte in uno stabilimento dove si preparano colazioni preconfezionate. Sono logorate da una sistema che chiede tutto e concede pochissimo, soprattutto alle donne, considerate, a seconda dei casi, macchine da figli, mano d’opera a costo ridotto, carne di cui approfittare alla prima occasione.
Kirino Natsuo, autrice del romanzo, è oggi una best-seller ma ha iniziato la sua carriera con uno pseudonimo maschile per evitare di essere censurata. Può sembrare incredibile ma è così. Invitata alla radio per parlare della sua opera, ha dovuto affrontare le ire del conduttore che trovava assurdamente intollerabile l’idea di una casalinga che uccide il proprio marito. Tanto per dare un’idea del clima con cui la scrittrice ha fatto i conti.
Benché il numero di donne assassine non sia per nulla superiore alla media, i giapponesi sono ossessionati dalla criminalità femminile. Ma anche questa è una vecchia storia. Intorno al 1870, all’inizio della cosiddetta era Meiji, su giornali e riviste cominciarono ad apparire racconti ispirati a fatti di cronaca ma ricchi di esagerazioni e abbellimenti letterari. Protagoniste erano quasi sempre donne di bassa estrazione sociale che, volenti o nolenti, finivano per delinquere. Il profilo di queste eroine criminali era sempre lo stesso: sfrenata lascivia, temperamento violento, grande avidità. Venivano chiamate dokufu, donne velenose, e divennero subito una potente e duratura icona dell’immaginario popolare che ha esercitato un’enorme influenza sulla definizione della sessualità femminile lungo tutto il XX secolo.
Da un fatto di cronaca
La condizione femminile è una spia fondamentale della civiltà di un popolo. Non sorprende dunque che la “donna velenosa” abbia preso forma quando il Giappone si aprì all’Occidente iniziando un periodo di profondi e tormentati cambiamenti. Un analogo discorso può essere fatto per la criminalità. Sovente le trasgressioni di chi è emarginato o discriminato vengono avvertite come una minaccia alla sicurezza generale, assurgendo così a simbolo di paure sociali che riguardano sfere ben più ampie della mera criminalità. Basti pensare a quel sta accadendo oggi in Italia: all’isteria collettiva di cui sono vittime i rom.
Alla maniera dei racconti di donne velenose che spopolavano sui giornali dell’era Meiji, i romanzi di Kirino Natsuo prendono spesso spunto da fatti di cronaca. “Se compito della legge è porre dei limiti alle emozioni umane, quello della letteratura è raccontare ciò che la legge non riesce a contenere” afferma la scrittrice. L’ultimo, Grotesque, (Neri Pozza, bella traduzione di Gianluca Coci, pp. 924, €22) è ispirato a un caso che suscitò molto scalpore nella seconda metà degli anni Novanta: l’omicidio di una trentanovenne dalla doppia vita. Di giorno ricercatrice per un’importante azienda, di notte puttana di strada. Il suo corpo fu trovato in un appartamento abbandonato di Shibuya, a Tokyo. Tutti si domandarono cosa avesse spinto una donna con un buono impiego a degradarsi in quel modo. Nel romanzo, Kirino raddoppia la posta. Le donne diventano due. Non potrebbero essere più diverse tra loro. Una è dotata di una bellezza quasi sovrannaturale che le spiana la strada in ogni situazione, l’altra è bruttina e sgraziata e riesca a spuntarla solo grazie a un’ottusa caparbietà. Ciò nonostante il loro destino si compie alla stessa triste e violenta maniera: si prostituiscono e finiscono per restare uccise in modo feroce.
Nate non solo per servire
Non ci troviamo davanti a donne velenose in senso stretto né a mogli demoniache, bensì a due femmine “grottesche” ovverosia persone che a forza di scontrarsi con le convenzioni sociali scoprono che l’unico modo concesso loro di acquisire un surrogato di libertà è quello di trasformarsi in qualcosa di mostruoso e perverso. Il critico di un quotidiano inglese ha paragonato la tragica caduta di queste donne alla saga dei fratelli Karamazov. L’accostamento potrà apparire eccessivo, ma è un fatto che Grotesque è romanzo ambizioso e di ampio respiro, un libro dalla voce rabbiosa che è al contempo un’indagine meticolosa della psiche femminile e un atto di accusa nei confronti di una società che ancora oggi fatica ad accettare l’idea che le donne non sono nate soltanto per servire.

Liliana Rampello

Libro di straordinaria ironia, temevo che l’autrice non riuscisse a reggere fino alla fine il tono spassoso della sua stessa invenzione e invece vince con magnifica leggerezza la scommessa. Sally è una giovinetta di inusuale bellezza, chiunque la vede resta a bocca aperta e definitivamente rapito da lei, ma ha il difetto di una mente semplice, così semplice da sfiorare l’idiozia e i suoi pensieri non possono esprimere altro che questo limite. Che fare di una donna così? Prima i genitori, poi il padre rimasto vedovo, poi il marito che la sposa appena la vede, in due settimane, hanno un unico sogno e incubo: tenerla nascosta, per gelosia e insieme vergogna. Attorno a lei, che appare sempre come una visione di ineffabile beatitudine, scoppiettano così mille piccole avventure che la vedono inerme di fronte alla volontà altrui, inesperta e disponibile, buona d’animo ma anche cocciuta, devota agli insegnamenti della Bibbia e stralunata di fronte al desiderio maschile che si accende in sua presenza, sostanzialmente scocciandola. Come si fa a convivere e insieme nascondere una pietra che brilla di una luce così rara? La von Arnim la mette nel cuore di un racconto esilarante e nei nostri cuori, perché alla fine la più semplice, la più “idiota” dei possibili protagonisti, la facile preda di tutti gli altri personaggi, disegnati con altrettanta abilità, avrà la meglio, avrà la vita così come può e sa immaginarla, a scapito di un mondo, con le sue diverse classi sociali, che al solo guardarla va del tutto sottosopra e perde la bussola.
Ma intanto, in sua compagnia noi passiamo ore divertentissime.

Liliana Rampello

Piccole cose importanti, perché riguardano le relazioni e il linguaggio. Gloria Origgi si è andata cercando attraverso un lessico famigliare che disegna un universo borghese, figure di un interno milanese, attraverso le parole che si usavano in casa. Non ha trovato solo qualcosa per sé, padre, madre, sorella e tanti altri, che fioriscono in immagini delicate, ironiche e autoironiche, ma qualcosa che funziona come un piccolo detonatore anche per la memoria nostra. La si ascolta e si può fare lo stesso esercizio, per analogie e differenze, e quella sua personale lingua, che definisce, scopre, si inarca verso il passato e ritorna nel suo presente, accende anche il nostro ricordo. Ho sorriso spesso, leggendola, insinuandomi in una distanza che da lei è passata a me. E’ un libro che riposa, nel senso buono del termine, risveglia l’addormentato, i fou rire più nascosti e che ogni tanto per fortuna riesplodono inaspettati, tra noi “trombone” e “sciabalente”, fra le nostre cose “sgangherate” e “velleitarie”. Nel linguaggio ci sono i sogni, e Gloria Origgi lo sa.

Serena Fuart
La terra friulana nei primi anni del novecento, terra povera dove si viveva di agricoltura. Pochi privilegiati possedevano grandi proprietà terriere, in cui potevano lavorare i paesani o come agricoltori o come servitori nelle loro case.
Qui nacque e visse Teresina Boschin.
Una vita al servizio dei padroni senza per questo mai sentirsi serva. Una vita attraversata da due guerre, viste con occhi inesperti ma non ingenui. Questa, in breve, l’esistenza della protagonista realmente vissuta e nata a Saciletto, in Friuli, nei primi anni del novecento e spentasi nel 2003 poco prima di compiere cent’anni. La sua storia è stata raccontata da Adriana Miceu, che conduce ricerche nel campo della storia e delle tradizioni popolari e della memoria orale. Origininaria anche lei di Saciletto ha conosciuto Teresina, è entrata in relazione con lei e ha trascritto nel libro La valigia di Teresa – Memorie di una serva furlana’la sua vita (Centro Isontino di ricerche e documentazione storica e sociale ‘Leopoldo Gasparini’)
Teresina ha conosciuto la miseria vera. Vissuta in una famiglia con numerosi fratelli, a nove anni lascia la scuola per andare a servire. Il suo lavoro, svolto sempre con impegno, l’ha portata lontano da casa fino a Roma e Parigi.
Nel corso della sua lunga vita ha visto il declino delle famiglie ricche e agiate presso cui aveva lavorato, ha visto la sconfitta austroungarica e l’arrivo dell’Italia nei territori friulani.
Ha vissuto a fianco delle SS nel periodo nazi-fascista. Tutto ciò ignorante dei grandi intrighi politici, aderente alla realtà del momento, districandosi dai guai come ha meglio saputo fare.
La sua esistenza però è sempre stata caratterizzata da un senso di libertà del suo vivere. Due storie d’amore andate male, non si è mai sposata, badando a se stessa con una sorprendente tenacia che l’ha portata alla totale indipendenza.
Io l’ho conosciuta. Originaria di quelle terre avevo la nonna paterna che viveva dirimpetto a Teresina. Ancora troppo piccola per capire allora, oggi ho letto la sua storia e ne sono rimasta molto colpita. Teresina è vissuta lontano dagli agi e ne ha viste tante, eppure, prima di spegnersi, fa delle considerazioni sul mondo attuale: si è passati dallo scrivere sulla terra? a comunicare con il mondo grazie a un pc.
Ma tanto progresso porta alla solitudine, dice, e ricorda con malinconia i momenti passati insieme alla sua famiglia, ricchi di relazioni e affetti, seppur nella miseria materiale.

Il Saggiatore, Milano 2008

Lady Slane, dopo la morte del marito pari d’Inghilterra e nella sua brillante carriera Ambasciatore a Parigi, Vicerè delle Indie, Primo Ministro in patria per numerosi anni, rimasta sola sorprende e scandalizza la sua famiglia rifiutandosi di vivere a turno da loro.
Si vuole trasferire in periferia in una minuscola casa a Hamstead con la fedele domestica: proibisce ai numerosi figli di andare a trovarla se non molto raramente e impedisce ai più giovani nipoti e pronipoti ogni visita perché trova che la gioventù è irruente e distoglie da una vita tranquilla e con calmi ricordi.
Lady Slane, che si è sempre caratterizzata come una moglie devota, sempre disponibile a ogni tradizionale dovere materno e alla carriera del marito, rimasta vedova e rifiutando l’aiuto dei figli che conosce come egoisti e arrivisti, riprende in mano il corso della sua esistenza. Anche la sua attuale vita sociale, altro grave imbarazzo per la sua famiglia, si limita a poche persone semplici che non appartengono affatto all’aristocrazia, ma che l’interessano per la loro innata educazione e semplicità. Dalla profondità degli anni ricompare anche una vecchia conoscenza che si rivela essere stato ben più di un compagno mondano di una cena o viaggio passati, e a lui confesserà la sua grande passione per l’arte della pittura, che aveva dovuto tenere lontana per i suoi compiti di moglie e di madre.
La narrazione di questo bellissimo romanzo è una riflessione sul destino delle donne di quel periodo di inizio Novecento e sul loro limitato potere di emanciparsi; nello stile si notano i fermenti di modernità e la grandezza culturale dell’autrice e del milieu culturale nel quale visse e creò le sue opere, il Circolo di Bloomsbury. L’autrice per la stesura di questo libro si ispirò a Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, sua grande amica e amante e anch’essa membro di Bloomsbury.

 

Vita Sackville West (1892-1962) fu una persona molto conosciuta nella sua epoca; nata da una famiglia aristocratica inglese sposò il diplomatico Harold Nicolson. Di lei ci sono noti e pubblicati dal Saggiatore le memorie del suo soggiorno in Iran Passaggio a Teheran, e i romanzi Il diavolo a Westea

Regole e libertà convivono nei nostri codici morali e consentono anche alle donne di emanciparsi
I valori tradizionali privilegiano la famiglia e la comunità mentre la nuova middle class è individualista
Domani e dopo a Milano la scrittrice di Bangalore, contesa dagli agenti letterari di mezzo mondo

Gian Paolo Serino

Sari e minigonne, templi indù e grattacieli di vetro, spiritualità discussa via pod cast e matrimoni organizzati su Internet: è questa la nuova India, sospesa tra tradizione e supertecnologia, tra ricchezza ostentata e miseria assoluta, protagonista degli otto racconti riuniti ne Il tappeto rosso di Lavanya Sankaram (Marcos y Marcos). Come recita il sottotitolo sono “Storie di Bangalore”, la città più hi-tech dell´Asia tanto da essere chiamata la Silicon Valley indiana. Un luogo che per la scrittrice indiana rappresenta al meglio un paese che è al centro dell´attenzione internazionale non solo per la forte ascesa economica ma anche nel cinema, nell´arte e nella letteratura. Lavanya Sankaran ne parlerà proprio a Milano in un doppio incontro con i lettori: domani alle 17.30 alla libreria Nuovo Trittico e martedì alle 18 allo Spazio Oberdan in una conferenza sulla “middle class indiana tra consumismo e qualunquismo” nell´ambito della mostra “L´arte contemporanea indiana: fra continuità e trasformazione”.
Nata nel 1968 a Bangalore, dove oggi è tornata ad abitare dopo aver lavorato negli Stati Uniti come consulente finanziaria di una banca d´affari, la Sankaran è tra i casi editoriali dell´anno: cinque agenti letterari americani se la sono contesa quando ha inviato i suoi primi due racconti (ha vinto Lane Zachary, che annovera tra i suoi clienti la famiglia Kennedy), mentre nove tra i maggiori editori statunitensi si sono sfidati all´asta quando ha consegnato la sua raccolta (se l´è aggiudicata Random House, con un´offerta a sei cifre). Oggi Il tappeto rosso è in corso di pubblicazione in quindici paesi. Il segreto del suo successo sta nella piacevolezza della scrittura e nella finezza del racconto ma anche nell´aver saputo fotografare come l´India stia affrontando questo cambiamento epocale. Non senza difficoltà perché “se da una parte i valori tradizionali mettono al primo posto la comunità e la famiglia a discapito dell´individuo, lo stile di vita moderno va nella direzione opposta”.
“Questo”, ammette, “crea tensione nei rapporti tradizionali, anche se ad essere veramente onesti il progresso e il cambiamento economico offrono nuove occasioni di relazione per gli indiani e nuove ragioni per apprezzare il proprio paese. Rapporti, senso comunitario e nuovi interessi nascono sul posto di lavoro: anche questo è progresso sociale”. Quando le accenniamo se questo progresso abbia favorito l´emancipazione femminile, sorride dicendoci che “l´India per tradizione ha stabilito da sempre un codice morale di comportamento per gli uomini e per le donne, ma ha anche offerto la possibilità di essere estremamente emancipati e liberi. Regole e libertà convivono benissimo perché l´India ti permette di essere conservatore o emancipato a seconda dei tuoi desideri, che tu sia donna o uomo”. “Il vero problema”, riflette, anticipandoci il tema dell´incontro all´Oberdan, è che “la middle class indiana rischia di dimenticare che esiste un substrato molto povero che fa da sfondo ai suoi successi e che l´India non risplenderà mai davvero, finché non riusciremo a soddisfare anche i bisogni di queste persone”.
E mentre ci racconta di come Bangalore sia “una strana città in cui convivono straccioni e miliardari, ma dove si prendono le cose con filosofia” le facciamo notare che, a sessant´anni dall´indipendenza dall´Inghilterra, nel suo libro non si parla mai di Europa: gli Stati Uniti sembrano aver sostituito la Gran Bretagna come modello di riferimento. Con un sorriso ci mette a tappeto (non rosso): “Oggi in India si respira un´aria molto diversa rispetto all´Europa. Se un giovane indiano ha la possibilità di lavorare 70 ore alla settimana, si rimbocca le maniche e lo fa, anche se guadagna solo 200 euro al mese”. I precari, tra un Om e un call center, sono avvisati.
Domani alle 17.30 alla Libreria Nuovo Trittico, via San Vittore 3. Martedì alle 18 allo Spazio Oberdan, viale Vittorio Veneto 2

Graziella Pulce

Mai come di fronte a La vista da Castte Rock (trad. di Susauna Basso, Einaudi “Supercoral-li”, pp. 311, € 18,50) viene naturale ricordarsi che Alice Munro è anche il nome di uno dei personaggi più celebri della letteratura americana. Nell’ Ultimo dei Mohicani di Cooper, Cora e Alice sono le fìglie del capitano Munro, il comandante delle truppe inglesi nella guerra anglo-francese per la conquista del Canada. E, diversamente da quanto appare nella trasposizione cinematografica di Michael Mann del ’92, è la bionda Alice che sopravvive alla bruna Cora, al padre, all’ufficiale Duncan e al mohicano Unkas.
Presentata nel 2006 come libro che chiude la carriera della scrittrice canadese, la raccolta di racconti è montata secondo un criterio sostanzialmente diverso rispetto ai precedenti. Nella prima parte si leggono storie che hanno per protagonisti gli avi della stessa Munro, nata Laidlaw, mentre nella seconda l’autrice rievoca alcuni momenti della propria biografìa.
Più o meno al tempo della battaglia di Waterloo, ]ames Laidlaw concepisce il progetto di trasferirsi in America insieme con la famiglia. Partiti nel giugno del 1818 dalla nativa valle di Ettrick, a sud di Edimburgo, essi raggiungono le acque di Terranova e dunque la Nuova Scozia, il nuovo mondo, dopo settimane di un viaggio che – come è facile immaginare – costituisce già dì per sé un’avventura, se non una prova in fac simile dì quel che avrebbe atteso gli intraprendenti europei. Dunque all’inizio e alla fine di tutta la vicenda c’è la terra, quella lasciata alle spalle da cui non si spera più nulla e quella lontana, oltre l’oceano, sognata, intravista e perduta per giorni e giorni, e infine conquistata e resa produttiva. Ma i Laidlaw non sono esattamente una famiglia come tutte le altre e se la loro illustre discendente ha potuto ricostruire i profili dei suoi trisavoli e dei lori nipoti e seguirli negli spostamenti e nella lotta quotidiana per la vita, ciò è avvenuto perché in ogni generazione di questa famiglia c’è stato qualcuno che ha lasciato dietro di sé ampie lettere e cronache dettagliate. Qualcuno in cui era rimasto ben vivo lo spirito di ]ohn Knox, fondatore della chiesa presbiteriana e fautore dell’alfabetizzazione del popolo cristiano. In questo caso è Walter, figlio di James, che annota con diligenza le fasi del viaggio descrivendone gli episodi più rilevanti. Mentre la maggioranza dei passeggeri è impegnata a vomitare sottocoperta, il giovane Laidlaw se ne sta nascosto con carta e penna in cerca della giusta concentrazione: nulla di quello che vive e di quello che vede deve andare perduto. Come se non si sopportasse un’altra perdita dopo quella della terra d’origine. O come se la memoria del proprio vissuto fosse qualcosa di necessario e non di complementare rispetto alle rudimentali masserizie che gli emigranti riescono a portare con sé in quella che sarebbe diventata la loro seconda vita. La padronanza della scrittura consente di mantenere dunque un contatto con i familiari rimasti nel vecchio continente ed è questo il principale motivo che induce chi parte a imparare a scrivere. Ma scrivere lettere permette a quell’atomo d’Europa scagliato in una terra ruvida e dura anche di mantenersi agganciati con se stessi, con la propria lingua e con quella alla memoria dì un passato che se di fatto resta incancellabile dovrà presto o tardi essere rimosso e sepolto degnamente. Eseguire un tale cerimoniale evita il pericolo della dispersione, della frantumazione del proprio io nell’impatto con il nuovo continente, una frantumazione di identità che non potrebbe non avere ricadute devastanti sui protagonisti del viaggio e forse ancora maggiori sui loro discendenti.
È questo che lettere e cronache hanno scongiurato. Lo sgrammaticato racconto del viaggio contiene già una serie di situazioni-chiave: la dignita con cui i passeggeri affrontano le avversità inevitabili in un tratto tanto lungo, compiuto nell’epoca della navigazione a vapore; curiosità infantile verso tutto ciò che è nuovo (e su quelle navi, per i contadini scozzesi e non, tutto ovviamente era radicalmente nuovo); lì c’è soprattutto la pacatezza nel confrontarsi con forze tanto più
grandi del singolo: l’oceano, le nuove terre, la povertà, la malattia, la morte. La stessa forza d’animo che il lettore riconosce nei Laidlaw futuri e che viene fuori ogni qualvolta essi si trovino a doversi misurare con le asprezze dell’Ontano.
Alice Munro riesce a far arrivare nitide le immagini dei suoi predecessori alle prese con la terra, il ghiaccio e il legno della contea di Huron. Il Canada è un’immensa foresta nella quale questi ex scozzesi si inoltrano con calma, ben intenzionati a farsi strada. Qui tutto sembra avere la consistenza della roccia e tutto va affrontato con l’acciaio: quello delle accette e delle vanghe, e quello dei muscoli. Anche la neve assume la consistenza impenetrabile del solido più tenace e spalarla o non spalarla può fare la differenza tra la vita e la morte.
Dalle vicende di questi personaggi, tanto quelli maschili che quelli femminili, si sprigiona un’idea di
forza e dignità che deriva da un senso religioso del lavoro. Ma anche un senso di gioia puramente terrena. Il Canada sembra non conoscere le astrattezze, ma solo oggetti concreti e ben delimitati nello spazio. Lo steccato, la stalla, la fonderia, il tetto, ogni elemento ha il suo nome preciso e viene descritto con l’attenzione che merita un oggetto unico. Non esiste ancora la serialità della produzione di massa. Anche il vocabolario si infittisce di termini poco usuali. Sono nomi di alberi, di fiori, di strumenti di lavoro (clematide, phlox, speronella, trillium, sommacco, e poi siviere, alzaie). Non ci sono ‘animali’, ma visoni, topi muschiati, volpi argentate. Nella giovinezza di Alice compaiono persone che oggi sarebbero classificate e curate come depresse o violente, ma che allora erano accettate per quello che erano senza discussioni. Insomma l’asse privilegiato non è quello storico, ma quello geografico: sono i luoghi a raccontare le storie nelle quali gli esseri umani mantengono un ruolo piuttosto defilato.
Qui pare svelarsi più chiaramente il segreto del raccontare. E il lettore lo intrawede nei momenti in cui fa più fatica a star dietro a tutti i nomi dei personaggi che si susseguono senza che mai uno si arroghi il diritto di primeggiare sugli altri. Nemmeno quando questo personaggio è la stessa autrice ritratta da giovane. Nemmeno quando la seguiamo nelle strade del paese diretta verso la scuola, quando si apparta furtiva con un ragazzetto maldestro, o quando percorre in bicicletta strade secondarie senza incontrare anima viva. Sempre un’orchestra di elementi a fare la musica, mai qualcosa che abbia a che fare con un one man show. Così che a libro chiuso restano nella mente stole di volpi argentate vendute da una donna intraprendente ai turisti americani, pavimenti strofinati con cura da mani arrossate, una ragazzina che legge le Sette storie gotiche della Blixen e si prepara a fare la scrittrice lavorando come cameriera, file di aceri e lecci annosi, casalinghe che leggono Locke, Hume e Carlyle.
Dietro Alice Munro e prima di lei si delinea un mondo impervio e ricco di risorse, l’Ontario, dove si lavora per vivere e -per inaudito che oggi possa sembrare – non per accumulare denaro. Il lavoro, come la virtù, premio per se stesso. Sarà per questo che i debiti qui non fanno paura, visto che si trova comunque il modo di ripianarli. Da questo deriva quell’orgoglio che intride i vari personaggi e da alle loro esistenze l’invidiabile fermezza che mette in condizione di superare il freddo e la povertà, e di guardare senza rassegnazione alle traversie. A dispetto della bassa densità che ha sempre caratterizzato la demografia di questo paese, in Canada nessuno sembra essere più solo di quanto sia necessario per stare bene con se stessi. Sarà forse anche per questo se qui non ci si scompone nemmeno di fronte ai fantasmi e alle lamie che di tanto in tanto si affacciano nei racconti. Hanno tratti decisamente familiari e in definitiva non fanno tanta paura.

Nadia Fusini
A scuola abbiamo studiato la retorica e la dialettica, e dunque già di primo acchito di un titolo così, che ci affascina, riconosciamo l´ambivalenza. Disobbedienza è la prova d´esordio senz´altro notevole di Naomi Alderman, appena pubblicata per Nottetempo (traduzione Maria Baiocchi, pagg. 373, euro 18). È una figlia che racconta la propria fuga (per sempre) e ritorno (temporaneo) alla casa e alla comunità in cui è nata. Il padre è rabbino di una comunità ortodossa a Londra; da lì Ronit è fuggita a New York in cerca di un´esistenza libera; ma ora la morte del padre la obbliga al viaggio di ritorno. Non può non tornare: è in gioco un´eredità che, essendo il padre in vita, è vero, aveva rifiutato; ma ora che il padre è morto il rifiuto si fa impossibile. A conferma che il padre è la potenza del nome, l´insistenza di un fantasma. L´esperienza stessa della scrittura per la giovane scrittrice non a caso si radica nel grembo familiare. Siamo in pieno romanzo famigliare, direbbe Freud. La protagonista è orfana. In prima battuta è orfana di madre; il matricidio è in effetti il primo atto. Che rende il vincolo col padre ancora più esclusivo. Il secondo atto è la fuga. Il terzo è il ritorno, ma per tradire ancora.
È un romanzo di formazione, questo; dove al posto di Wilhelm Meister, disobbediente, in aperto conflitto edipico con l´ingombro paterno, troviamo una giovane donna. Chissà, mi sono detta, se la lettura di questo romanzo svelerà il mistero dei misteri; e cioè, se per la figlia femmina del padre è diverso fare i conti con la sua presenza e con la sua assenza. È la questione centrale della “differenza” sessuale. Non che sia necessariamente tema di questo romanzo. Ma senz´altro è uno dei suoi contenuti. Se il contenuto di idee di un romanzo è interessante, tanto meglio: un romanzo perché non dovrebbe avere un contenuto, oltre che una bella forma? Se un romanzo, oltre che piacevole, è anche intelligente, perché no? Anzi, confesserò che sono i romanzi che preferisco, rispetto ai romanzi artificiosi, magari ben congegnati dal punto di vista della cucina, ma inerti. E quando dico inerti, intendo dire che la lettura è anche un´esperienza intellettuale, della mente. E se non la si impegna in qualcosa, che abbia almeno la parvenza di un´esperienza nuova, la mente si annoia. Noi che ci identifichiamo con le “genti del Libro” siamo coinvolti nella lettura in modo profondo. E ci fa piacere essere scossi. Anche per questo leggiamo, per provare altre emozioni, per allargare le nostre esperienze, per delirare, per allucinare, addirittura. Non vogliamo affatto essere confermati nelle nostre convinzioni, siamo aperti alle scosse del nuovo.
È per questo motivo, credo, che i romanzi di formazione ebbero e hanno un enorme fascino. Raccontano l´esperienza della vita, sottolineano come certi atti della vita quotidiana vadano letti. O meglio, tradotti. In fondo, uno scrittore, una scrittrice fanno questo: traducono. Trasportano al senso quell´esperienza muta di altri “indifferent children of the world” per dirla con l´Amleto – di tutti gli anonimi, tutti i “nessuno” di cui è composta la popolazione del mondo. Ora, come si fa a essere qualcuno? Un modo è “disobbedire”. L´atto di disobbedienza è il gesto che segna una differenza. “Fa” differenza. “No” – la parola più bella del vocabolario, la parola “ablativa”, come la chiamò Emily Dickinson, suprema fra le disobbedienti – dà gusto. Tutte noi (e parlo al femminile pour cause) lo sappiamo bene: dis-identificarsi è il primo gesto della ricerca di sé. Distinguersi dalle attese, le prime fra tutte quelle parentali, è necessità ineludibile per chi voglia individuarsi.
Nel romanzo Disobbedienza la protagonista lo fa. Una prima volta grazie alla fuga. La seconda volta al ritorno, quando rompe l´omertà e dichiara di essere lesbica. Non è neppure vero del tutto. Ma Ronit ha bisogno di rompere. Ha bisogno di tradire. Non sopporta quella gente, la sua gente. È sua l´intolleranza. Lei attacca, aggredisce per aperta insofferenza. Lo fa per colpire chi si adagia soddisfatto in un sentimento di comunità secondo lei fasullo. Perché la verità, secondo lei, è che il popolo ebraico “è un popolo ostinato, testardo e disobbediente”. E proprio per questi carismi lei sente di potersene fare la rappresentante più autentica; molto più dei repressivi, rigidi, ipocriti, farisaici custodi della tradizione. Accanto alla voce della protagonista, che dice io, in un efficace e regolare schema di alternanza, c´è un altro locutore che parla in terza persona: naturalmente l´autrice: la quale però sente la necessità di disporre questo doppio registro linguistico. Comprendere questa necessità è arrivare al cuore del romanzo, che in tale modo e forma esprime l´incomponibile conflitto tra il singolo e la comunità. Si badi bene: di ogni comunità. O perlomeno, di ogni comunità monoteista – sia ebraica, cristiana, islamica. Dove c´è il padre che comanda.
Ecco l´intelligenza del romanzo: la sua urticante verità consiste nel rappresentare l´irresolubile, l´intransitabile aporia del romanzo di formazione. Non c´è disobbedienza che conti; il figlio, la figlia non saranno mai liberi. Anzi, nel disobbedire non è detto che non si leghino ancora più stretti nel debito simbolico che li stringe al nome del padre in una reazione coatta.

Romanzo d’esordio di Eliana Bouchard, «Louise. Canzone senza pause» è dedicato a una ugonotta francese, morta nel 1620, e dotata di una commovente tempra morale. Il libro, da poco uscito per Bollati Boringhieri, verrà presentato oggi a Roma, alla facoltà di teologia
Massimo Raffaeli

Da tempo un’opera prima non si segnalava per una così nitida compiutezza e per l’originalità delle soluzioni linguistico-stilistiche; da altrettanto tempo non si leggeva un romanzo in italiano dove la specificazione di «storico» fosse davvero pari alle premesse e alla sua ambizione. Lo firma Eliana Bouchard, Louise. Canzone senza pause (Bollati Boringhieri, pp. 230, euro 16.00) che già nel sottotitolo allude alla scansione da poemetto in prosa, il quale tuttavia non presenta le ellissi che ci si aspetterebbero in una conduzione tutta lirica, in soggettiva, dell’argomento, bensì denota un pieno possesso della propria materia dove chi dice «io» trattiene sulla pagina, pari a un delicatissimo filtro, tanto i residui emotivi quanto le terribili ustioni inferte a una biografia femminile, che ebbe il privilegio di accedere alla grande storia nel momento in cui quest’ultima la coinvolgeva nella sua intimità per trascenderla e infine annientarla.
Sulla mirabile corrispondenza di Louise de Coligny, poco meno di duecento lettere, e sulla ammirata testimonianza degli uomini suoi contemporanei, Eliana Bouchard reinventa la voce di una donna il cui lascito, prima che nel rilievo delle azioni individuali, consiste nella tempra morale, nella divisa etica che sa riconoscere il male, che non smette mai di nominarlo per opporvisi, spesso mutamente, a volte levando invece alta la parola. Senza scampo né requie, la Canzone di Louise si consuma al margine, per lo più in penombra, sgorga dal patema ininterrotto di una donna comunque assoggettata al potere, infine manifesta i segni elettivi della dignità e della pietas: le amare vibrazioni (un sentore dolce di sangue, piuttosto che di amaro fiele) che talora ne segnano la voce possono far pensare a certi versi di Agrippa d’Aubigné, fiero ugonotto, il poeta di Le Tragiques, martire della più terribile guerra di religione che abbia insanguinato la cristianità. Di quel lungo conflitto Louise patisce i duri antefatti, i quali aggettano dal fondale del romanzo ma non lo ingombrano, anzi vi si manifestano per via indiretta solo nelle private intermittenze della protagonista: quando muore, nel 1620, la Guerra di Trent’anni è appena scoppiata, ma Louise ha già alle spalle il massacro di Vassy, i torbidi maneggi del Guisa, il dispotismo di Caterina dei Medici, la notte di san Bartolomeo col relativo assassinio di suo padre Ammiraglio di Coligny e, fra gli altri, del suo primo marito Charles de Théligny. Dopo il suo secondo matrimonio con Guglielmo I d’Orange detto il Taciturno, appena pochi mesi di tregua e quasi di insperata felicità precedono la perdita del secondo marito per mano di un fanatico cattolico; restano a Louise de Coligny un lungo esilio e una trafila errabonda, con lo spegnersi degli affetti e l’esproprio del patrimonio, cioè la pura cadenza del dolore e dell’umiliazione che, d’ora in avanti, ne ritma la vita quotidiana.
Almeno virtualmente, Louise inizia a scrivere la sua canzone dalla fine, percependo con nettezza la spoliazione ma cogliendo, nello stesso tempo, il tesoro della sua povertà. Che consiste nel recuperare entro di sé la traccia primordiale dell’essere al mondo, la condizione di precarietà e vulnerabilità che ipoteca gli esseri umani in basso come in alto, in modi magari differenti ma convergenti. La pietas di cui Louise sembra così naturalmente prodiga, la sua vocazione alla cura e al soccorso del prossimo, procedono entrambe da una persuasione che risuona nel profondo del suo credo religioso senza alcun bisogno di parole espresse né, tanto meno, declamate: per gli uomini, il peccato è la condizione di normalità, rappresenta l’annuncio e insieme l’enigma della loro costitutiva mortalità; costoro peccano proprio in quanto sono deboli, per etimologia, e dunque sopraffatti vicendevolmente da una fisicità opaca e pesante, in essa da sempre accecati. (Louise non può certo immaginarlo ma qualcosa del genere avrebbe sottoscritto tanto tempo dopo Simone Weil sfidando, temeraria, un altro secolo di massacri).
Tale è il pensum che trascina con sé fino a morirne, nel cono d’ombra della vecchiaia ormai simile a una convalescenza conclusiva, lei che era stata eletta al privilegio sociale e tuttavia reclusa dentro la condizione di femmina e di orfana, due volte vedova, deprivata di ogni cosa e persino della prole. Le rimane solamente il beneficio del linguaggio, la chiarezza esemplare di scrittura che le presta Eliana Bouchard, in una prosa di andatura classica la cui naturalezza musicale è capace di assorbire e metabolizzare una natura che Jules Michelet, nella Storia di Francia, definì senz’altro «ammirevole, dove la perfezione della virtù brillava nella tragica aureola dei martiri». Ma colei che oggi ne scrive il romanzo rigetta a priori la retorica di Michelet, perché le basta scrutare Louise nei gesti quotidiani di donna alla prese con la storia e la vita, chiusa nel groviglio di emozioni/sentimenti/pensieri cui solo il tempo, col suo passo micidiale, sa retrospettivamente dare un senso e un destino.
E il congedo di Louise, nell’ultima pagina del romanzo, appare struggente come sa esserlo un estremo e gratuito atto di pietà, un credito dovuto alla sola convinzione che gli esseri umani comunque sopravvivono, perpetuando ignari il paradosso di ogni esistenza: «Nel calmo delirio del male mi sembra di scorgere, sul confine del prato, un pastore ansimante che corre verso un agnello affamato e malconcio, nascosto fra i rovi. L’uomo, raggiunta la bestiola, si inginocchia e con le dita robuste districa dai rovi la lana arricciata. L’agnello si calma e riconosce, con la lingua rugosa, la mano del padrone. Il palmo del pastore scorre sul vello, toglie le ultime spine in una lunga, forte, carezza. Alzandosi, afferra con entrambe le mani il corpo tremante, con uno slancio del tronco lo issa sulle spalle e, stringe, con polso fermo, le zampe abbandonate sul petto. Poi, con passo sicuro, si allontana».
È una immagine di forza elementare, una fortuita apparizione, o forse l’allegoria che allude al trapasso imminente da un «io» a un «noi», vale a dire dallo stato di normale egoismo a quello, finalmente, di umana solidarietà: segno ulteriore, questo, del fatto che Eliana Bouchard ha pensato il suo libro (che oggi pomeriggio, alle 18.30, presenterà alla facolta di teologia di Roma, in via Pietro Cossa) soggiacendo a un vincolo interiore, e lo ha scritto per un puro atto di necessità.

Isabella Bossi Fedrigotti

Un incantevole, breve racconto russo di Irène Némirovsky, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1931, esce infine in Italia: nemmeno cento pagine, e dispiace, perché si vorrebbe che durasse più a lungo. S’ intitola Come le mosche d’ autunno e riferisce la vicenda di una grande e ricca famiglia costretta dalla rivoluzione bolscevica ad abbandonare i propri possedimenti e l’ ampia, splendida residenza dalle innumerevoli stanze, e a fuggire, con poco o nulla tranne i gioielli cuciti nelle fodere dei vestiti, per riparare in Francia, a Parigi, dove sopravvivrà stentatamente, in un angusto appartamento. Una classica storia, dunque, dell’ emigrazione russa, già narrata e già ascoltata tante volte: ma Irène Némirovsky cambia la prospettiva, non lascia che sia il capofamiglia, Nikolaj Aleksandrovic Karin, a raccontare, e nemmeno sua moglie Elena Vassilievna oppure uno dei tre figli, e dà invece la parola alla vecchia nutrice, alla tata Tatiana Ivanovna, che da cinquant’ anni e da tre generazioni è al servizio nella casa dei Karin. È, dunque, la sua voce che ci accompagna nelle pagine, dal regno incantato dell’ eleganza, della bellezza e del calore allo squallore di un grigio quartiere parigino, dove d’ inverno tristemente piove soltanto e non nevica mai come nella perduta patria; voce accorata che coglie la tragedia di quel repentino e violento mutamento di destino con infinito più struggimento e disperazione che non i suoi padroni. Tuttavia, a pensarci bene, è forse giusto così, perché era Tatiana la custode della casa e delle sue regole, era Tatiana che sapeva quale armadio custodiva le lenzuola di lino per i signori e quale, invece, quelle di flanella per i bambini e la servitù, era Tatiana che meglio di tutti si orientava tra le stanze, le soffitte, le cantine e i segreti ripostigli del grande palazzo, era lei che teneva il conto delle posate e dei piatti, e ancora lei soltanto che conosceva a menadito i gusti di ciascuno dei tre ragazzi in fatto di cibo. Era, insomma l’ anima della casa, in certo senso padrona più legittima dei padroni stessi. Questi ultimi, per parte loro, le avevano in effetti affidato contorno e sfondo della loro vita quotidiana, per cui sono, sì, rammaricati dal violento cambio di stagione, ma con un distacco fatalista e snob che permette loro di sopravvivere abbastanza bene anche nel modesto appartamento parigino. Né il degrado, prima di tutto economico, ma poi, in qualche misura anche morale, li segna più di tanto: sono, insomma, di una stirpe che, adattandosi, riesce a non andare a fondo. Di tutt’ altra stoffa la nutrice, impavida e tenace fin quando si tratta di difendere la «sua» casa e la «sua» famiglia; smarrita, invece, perduta e vulnerabile laddove di lei e della sua forza non sembra esserci più così bisogno. Non è solo una questione di case e di cose, perché a Tatiana erano stati affidati anche i figli, perché li amasse e li curasse come i padroni non avevano il tempo né l’ abitudine: non a caso, è lei che abbraccia e bacia i due fratelli che partono per la guerra, è lei che raccomanda e consola, benedice e si strugge, sapendo che di un addio ben diverso dagli altri soliti si tratta, quando i ragazzi ogni autunno si mettevano in viaggio per raggiungere il collegio. Ed è Tatiana – madre soltanto per delega, ma con pieni diritti – che traccia il segno della croce sopra la slitta che porterà via nella notte gelata i due figli di casa, e figli suoi. Una volta a Parigi niente sarà più come prima. Simili a mosche d’ autunno, i suoi un tempo splendidi padroni girano a vuoto nel piccolo appartamento come anche nel ristretto mondo dell’ emigrazione russa. Soprattutto – forse per non soffrire più del dovuto – non vogliono ricordare il passato né mai parlano del perduto mondo le cui regole sono stare cancellate e dimenticate. Ed è questo l’ inaccettabile per Tatiana che, senza i ricordi, senza la memoria della vita nobile e grandiosa, è soltanto una povera vecchia che si muove tra le stanze di un lugubre appartamento, in una città dove la neve non cade mai, una donnetta smarrita che si affanna per strade che non conosce, tra gente che non sa nulla di lei e che lei non capisce. È maestra, Irène Némirovsky, nel descrivere la Russia che ha conosciuto da bambina e quella più nuova che, anni dopo, ha ritrovato in Francia. Ma, forse, è ancora più maestra nell’ evocare, con tenerezza e struggimento, la figura dell’ anziana nutrice che, grazie alla sua penna, si trasforma in uno di quegli amati personaggi che, a quasi tutti, ricordano qualcuno in carne e ossa. L’ autrice Irène Némirovsky nacque a Kiev da una famiglia ebraica nel 1903. Morì ad Auschwitz, dove era stata deportata, nel 1942. I suoi libri furono pubblicati postumi

Esce ‘La vista da Castle Rock’, una storia dal sapore arcaico ma scritta con tecnica modernissima Fragile e impavida l’ autrice ha una straordinaria fiducia nella realtà anche se tremenda Parla di mucche e di campagna come se per tutta la vita avesse fatto la contadina Il 9 giugno 1818 la famiglia Laidlaw partì dal porto di Leith e approdò a Toronto Il paese era immenso e fu un’ estasi conoscerne la magnifica natura
Pietro Citati

La vista da Castle Rock è un libro bellissimo: forse il più bello che abbia immaginato Alice Munro – uno degli ultimi scrittori che, oggi, fanno splendere dentro di noi la vasta e disperata luce della letteratura (Einaudi, traduzione di Susanna Basso, pagg. 312 euro 18,50). Non saprei come descriverlo: potrei affermare che La vista da Castle Rock sia una storia di famiglia lunga tre secoli: o una cronaca della Scozia e del Canada: o la leggenda della Scozia e del Canada: o la storia della società dell’ Ontario dal 1850 al 1950: o una serie di racconti che fingono di essere un romanzo: o un romanzo nascosto da racconti; o il ritratto che Alice Munro disegna di sé e della sua vita – ma, dicendo questo, direi troppo poco. Mai la Munro è stata così ruvida ed arcaica, come se volesse emulare Walter Scott e Robert Stevenson; e mai, specie nella tecnica narrativa, così moderna. Il libro gronda ferite: ma subito esse si rimarginano davanti ai nostri occhi, e la Munro comincia a raccontare, perché raccontare è l’ unica cosa che ami e la diverta. Fragile e impavida, la Munro ha una straordinaria fiducia nella realtà, per quanto tremenda possa essere; e verso i suoi lettori, che si introducono nel libro, diventano compagni dei suoi personaggi, complici delle sue astuzie; e nutrono una tale simpatia per lei che il loro unico sogno è quello di diventare personaggi di Alice Munro. Questo rapporto con le cose e i lettori suscita in lei una gioia che, come un fiume sotterraneo, corre dietro le pagine: una felicità che non aveva mai conosciuto. Sebbene sia una spudorata bugiarda, è verissima: cosa ormai rara in una letteratura che alla verità di ogni specie, celeste e terrena, ha voltato le spalle. I personaggi sono veri: veri i sentimenti: vere le battute pronunciate durante i party: vero il vestito premaman o i minuscoli fiori rosa, ricamati negli angoli dei tovaglioli; vero il peso, il colore, il volume di ogni mobile e il rapporto che esso intrattiene con ogni personaggio; veri i matrimoni, le famiglie, i rapporti dei genitori coi figli, dei parenti fra loro, il profumo inconfondibile di ogni casa. Credo che il mistero sia lei, Alice Munro, questa signora di 76 anni, che è cresciuta nell’ Ontario e oggi vive nell’ Ontario. Immagino che abbia gli occhi color nocciola, come quelli di sua nonna: in uno dei due occhi, c’ è una finestra, una chiazza d’ azzurro assolutamente compatto, un celeste reso più luminoso dal color bruno-dorato che lo avvolge, «come capita ai cieli estivi, illuminati da meringhe di nuvole». Ama il duro lavoro e la dignità personale: è insieme astuta e innocente, meravigliata e fredda, ruvida e squisita, gremita di sottilissime sensazioni che brulicano come in un’ arnia; o, perduta in una specie di trance contemplativa, aspetta che la luce del mattino strisci tra i cedri del parco. Parla di campagna con la competenza di una contadina: discorre di mucche come se, per tutta la vita, avesse fatto la stalliera; e di caccia, come se ogni mattina inseguisse lupi e volpi argentate. Alla fine, capisce di essere composta di «molte personalità incoerenti e diverse»; e attende in silenzio la coerenza e la liberazione dalla scrittura. L’ architettura di ogni parte o racconto è liberissima, come una tela traforata e senza contorni: perché la realtà è andata in frantumi, e raccontare, nel 2007, è quasi impossibile. Non segue mai la linea retta: procede a balzi, a salti, con schegge, rotture, strane corrispondenze. Vagabonda, cambia argomento, si dimentica, parla sempre (in apparenza) d’ altro. Lascia immense omissioni nella trama, come se una parte del mondo fosse sparita. Noi attendiamo la fine del racconto: la fine non giunge mai, eppure è molto più evidente che se fosse pronunciata a piena voce. Sembra schernire ogni pathos: ma spesso i suoi racconti sono strazianti. Quando parla dei suoi libri, sostiene di «non costruire storie» ma di «acciuffare con la mano qualcosa nell’ aria»; e poi ci accorgiamo che pochi, oggi, posseggono come lei l’ arte della costruzione. *** Il libro comincia in Scozia, al principio del Settecento. La Munro insegue le imprese dei Laidlaw, un ramo della sua famiglia, che abitava nella valle di Ettrick. Allora la Scozia era poverissima. Il terreno muscoso non produceva nulla: l’ aria era umidissima: il mercato più vicino stava a quindici miglia, attraverso strade a stento percorribili e senza ponti: per nove mesi la neve impediva qualsiasi rapporto col resto del genere umano; quando scoppiavano le bufere, le pecore congelavano nei recinti, gli uomini morivano assiderati. Chiusi in casa durante l’ inverno, gli abitanti (celti, anglosassoni del sud, norreni e forse pitti) bevevano whisky, leggevano la Bibbia, parlavano di poesia. Le donne venivano sottoposte a una castità rigidissima. Gli anziani del paese andavano di casa in casa strizzando con forza i seni d’ ogni donna, sospettata di aver dato alla luce bambini illegittimi. Quando giungeva la primavera, William Laidlaw, che faceva il contrabbandiere di cognac, usciva di casa e vedeva una colonna di fairies, che appaiono anche nel folclore irlandese. Sentiva il cinguettio di donne alte come bambini di due anni: qualcuna cuoceva il pane, qualcuna mesceva un liquido misterioso da piccoli barili in fiaschi di vetro, qualcuna acconciava i capelli, senza smettere mai di canticchiare e farfugliare parole. Tutte camminavano pianissimo: ma William Laidlaw, che era un eroe della corsa, non riusciva mai a raggiungerle e a scorgerle in viso. Egli viveva sui sottilissimi limiti del nostro mondo: le creature di là, elfi o fairies o demoni o santi, invadevano e possedevano tutte le cose. Il 9 giugno 1818, la famiglia Laidlaw partì dal porto di Leith, e qualche tempo dopo scese a Toronto, in Canada. Era una terra fraterna: molto più simile alla Scozia che agli Stati Uniti. Il profumo della religione continuava ad avvolgerli: il peccato, la redenzione, il paradiso, l’ inferno, la dannazione erano presenze quotidiane nella loro vita. I fairies scomparvero. Questo era, finalmente, il mondo reale. Ogni famiglia si costruì prima una baracca, e poi una casa: viveva nella solitudine e nel silenzio, a quindici chilometri dalla famiglia vicina; quasi un’ esistenza monastica, che non conosceva né le visitazioni della grazia né quelle dei demoni. Lavoravano duramente: parlavano del lavoro: l’ amore fraterno era più intenso dell’ amore coniugale; e tutto avveniva come era accaduto nel passato, senza mutare un gesto o un’ abitudine. Poi qualcuno lasciava la casa. Faceva escursioni in canoa nei fiumi dell’ estremo Nord: oppure cacciava – topi muschiati, visoni, martore, linci rosse, lontre, donnole, volpi selvatiche – ; e allevava volpi argentate, vendendo le pelli ai turisti americani. Così i Laidlaw cominciarono a conoscere l’ immenso paese. Fu un’ estasi. Prima gli uccelli: i rigoli, i cardinali, gli itteri alirosse. Nella pianura il sommacco metteva fuori le sue parrucche color crema: le colombine erano in fiore, il verbasco innalzava le spighe fiorite, ritte come soldati; e il capelvenere cresceva così fitto da formare un tappeto soffice come le chiome delle ragazze. Le sponde dei torrenti erano fiorite di trillium sotto alberi di gemme rosa. E poi i ciliegi selvatici della Virginia e della Pennsylvania, su cui si schiudeva qualche gemma tenera prima che comparisse una sola foglia. E i ginepri e i biancospini e le querce bianche e rosse e i pini e i larici e i cedri e i noci e i mirtilli rossi a stelo alto, e i fiori rossi chiamati «pennelli del diavolo», e i rampicanti che avvolgevano i tronchi con un groviglio verde; e nugoli di farfalle piccolissime, di un verde così pallido che sembrava riflettere la luce delle foglie. I ragazzi si sdraiavano sotto i rami degli alberi, con la testa appoggiata al tronco, per vedere l’ albero salire sempre più in alto, fino a perdersi «in un lago capovolto di fiori». **** Sessanta anni fa, quando Alice Munro era ragazza, nel Canada trionfava la civiltà contadina. La sua vita era modestissima, quasi povera: ma lei sentiva di doverla difendere dal disprezzo dei ricchi. In quel tempo gli oggetti di casa non si cambiavano ogni mese, come oggi, ma si cercava di conservarli il più a lungo possibile, in condizioni decorose, e poi ancora un poco e poi ancora un poco, fino a quando andavano a pezzi. Il padre e la madre erano, in primo luogo, dei custodi: custodi della casa, della legge, della terra, degli animali, dei figli. Nessuno interveniva nella vita degli altri. Nessuno leggeva. Nessuno desiderava qualcosa che non producesse immediati risultati pratici. Se uno stravagante leggeva libri, pensava o escogitava progetti, gli altri dicevano che lo faceva per mettersi in mostra. Alla fine della giovinezza, la Munro fuggì quella vita ristretta: non la odiava, ma la difendeva dal presente che, con violenza ed arroganza, la distruggeva ogni giorno. Quand’ era lontana dall’ Ontario, a migliaia di miglia di distanza, sentiva un rimpianto acutissimo per il passato, e pensava alla sua vecchia casa – la cucina costruita nel 1860, le poltrone, le pareti mal tinteggiate, gli immensi pranzi famigliari – con un dolore sordo. Poi, quasi all’ improvviso, il rimpianto si consumò. I vecchi segreti sparirono. Le cose di una volta morirono per sempre. Dove c’ erano le aiuole di fiori e il pascolo e il prato e il cespuglio di boule-de-neige, ora si estendeva un sinistro cimitero moderno, con pezzi d’ auto, carrozzerie sventrate, fanali rotti, vetri infranti; e i fili spinati. Di tutto quello che Alice Munro aveva amato, restava soltanto un cespuglio di lillà. Quando diventò anziana, cominciò a cercare le tracce del trisnonno, il primo Laidlaw che aveva posato il piede sul suolo del Canada. Cercò invano negli archivi, tra le lapidi e i cimiteri, coperti di edera velenosa. Non trovò tracce, come se William Laidlaw non fosse mai esistito. Ma i nomi degli altri avi la assalirono: Mary Scott con la figlia Jane, Neil Armour e Margaret Armour, e Thomas Laidlaw e John Armour e James Armour, e Jimmy Armour… «Ora – queste sono le ultime parole del libro – questi nomi che ho registrato si uniscono ai vivi nella mia mente, e alle cucine perdute, al lustro bordo di nichel delle vaste e maestose stufe nere, agli scolapiatti di legno fradicio, alla luce gialla della lanterna a olio. Il bricco del latte in veranda, le mele in cantina, i tubi della stufa che uscivano dai buchi nel soffitto, la stalla intiepidita d’ inverno dai corpi e dai fiati delle mucche – quelle mucche che noi incitavamo ancora con i richiami del tempo di Troia…» «E in una di queste case – non ricordo di chi – c’ era una grossa conchiglia di madreperla che riconoscevo come messaggera di luoghi vicini e lontani, perché potevo portarla all’ orecchio, quando in giro non c’ era nessuno a impedirmelo, e sentire il battito formidabile del mio cuore, e del mare».

Era nata in una famiglia di scrittori e di professori a Dobrecen, una città universitaria: era sempre stata una perfezionista
Vanna Vannucci

Il destino, aveva detto. Scrivere era stato per lei un destino. La letteratura il suo pane quotidiano, leggere scrivere e insegnare le tre attività della sua vita. Dopotutto era nata in una famiglia di scrittori e di professori, in una città universitaria, Dobrecen, famosa per aver dato i natali ad autori famosi. E il destino si è compiuto anche nell’ ora della morte. Magda Szabo si è spenta a novant’ anni con un libro in mano, seduta sulla poltrona sulla quale passava i pomeriggi, nella casa di Budapest, a leggere e pensare. «Alla scrivania mi siedo solo quando ho già tutta la storia in testa», mi disse. «Solo che di tanto in tanto succede che il protagonista in mezzo al racconto cambi idea e voglia qualcos’ altro». Così anche il piano nella sua testa doveva cambiare. Una perfezionista era sempre stata, come le protagoniste dei suoi romanzi: Iza (ne La Ballata di Iza) una donna bella intelligente e generosa il cui tratto dominante è il rigore. Oppure Emerenc (ne La Porta), la donna di servizio alta e ossuta con una capacità di lavoro sovrumana e una dedizione totale agli altri ma allo stesso tempo un acuto senso d’ indipendenza. «L’ eccesso di rigore tradisce in fondo una freddezza del cuore di cui solo tardi ci rendiamo conto». Dobrecen era la città che l’ aveva plasmata, una città dell’ Ungheria orientale diversa dalle altre città ungheresi, una sorta di Vaticano del calvinismo come e più che Ginevra. Lì era nata nel 1917, ancora in un’ Ungheria feudale, poi spezzettata dal Trattato del Trianon, a cui erano seguiti il fascismo e quarant’ anni di comunismo. Infine l’ ingresso nell’ Unione europea. «Potersi esprimere in libertà è una grande conquista, anche se è costata all’ Ungheria uno sconvolgimento economico che ha reso difficile la vita a tanti». A Dobrecen, a soli 15 anni, aveva scoperto il suo talento letterario mentre ancora studiava «in un rigoroso collegio calvinista per ragazze». Aveva studiato tedesco e inglese, poi all’ università aveva preso una laurea in latino e ungherese. Di tutti gli scrittori ungheresi la sua riconoscenza andava soprattutto a Kazynsky Ferenc: «dobbiamo a lui se la nostra lingua è risuscitata dalla morte». I sommovimenti storici avevano fatto sì che in Ungheria non esistesse una lingua letteraria, «capace di dar voce alle sofferenze della nazione». «Gli intellettuali parlavano latino, l’ aristocrazia inglese, i borghesi tedesco, le dame dell’ alta società francese o tedesco. Solo i contadini parlavano ancora ungherese, la lingua dei magiari che nel IX secolo si erano installati tra il Don, il Danubio e il mar Nero». Perché scrive? le chiesi. Non era, ammetto una domanda originale. Lei rispose con un’ altra domanda: perché cantano gli uccelli?

Performance d’ artista Opera collettiva Quando Sophie Call riceve un’ e-mail d’ addio che termina con quella frase, sceglie di elaborare il suo lutto d’ amore coinvolgendo altre 107 donne Ne sono nati un libro euna mostra Ciascuna analizza la lettera in base alla sua professione: la campionessa di tiro a segno ne fa un bersaglio da colpire Quando l’ artista francese Sophie Calle riceve una e-mail d’ addio che termina con la frase ‘abbi cura di te’, sceglie di elaborare il suo lutto sentimentale coinvolgendo altre 107 donne Ne sono nati un libro e una mostra
Concita de Gregorio

La lettera è una qualunque lettera d’ addio, se si può dire qualunque di un congedo. Breve, una paginetta. Accendi il computer un giorno e lei è lì. Sta tutta intera davanti a te nel primo foglio dello schermo. Premi il cursore per scendere, ne cerchi ancora ma non serve: è finita. Lui è garbato, formalmente ineccepibile, apparentemente addolorato. è colto, inoltre. Un uomo che sa usare le pause e gli a capo. Sa toccare le corde dell’ altrui colpa sfiorandole appena, sa attribuirne un poco a sé come un difetto congenito, piccolo male non imputabile. Uno scrittore, forse. Di certo uno che lavora con le parole. Il repertorio è classico, si direbbe un’ antologia. «Avrei preferito parlarti a voce, infine ti scrivo». «Ho creduto che avrei potuto darti il bene» «che il tuo amore fosse benefico per me». «Non ti ho mai mentito e non comincerò a farlo oggi». «Mi dicesti che quando avremmo cessato di amarci non avremmo più potuto vederci: una regola che mi pare dolorosa e ingiusta. Tuttavia: non potrò diventare per te un amico». Alcune specifiche di questa storia, poi l’ inevitabile «ti ho amata nel mio modo e continuerò a farlo, non cesserò di portarti con me». La chiusura, infine. «Avrei preferito che le cose andassero diversamente». Le ultime quattro parole. «Abbi cura di te». Take care of yourself, prenez soin de vous, cuidate mucho. è qui, è sull’ incongruenza emotiva di una frase che ha le sembianze di una premura – non si può respingere un invito così, eppure non si può accettare se allegato al dolore dell’ addio – che Sophie Calle costruisce la sua opera d’ arte. Il suo libro ha la copertina rosa, lucida come una carta di caramella. Se fosse tradotto in italiano (non lo è, per qualche misteriosa ragione non è tradotto nella nostra lingua nessuno dei suoi libri, nel resto del mondo oggetti di culto) s’ intitolerebbe Abbi cura di te. Seduce fuori e tormenta dentro. Fa ridere e fa piangere, ammala e guarisce. Non si può lasciare senza averlo attraversato fino in fondo. Ci sono tutte le domande, tutte le risposte: c’ è soprattutto un’ ironia formidabile, una malinconica saggia ironia venata di amarezza, la medicina di ogni male. Calle è un’ artista tra le più amate del nostro tempo. Un’ icona della modernità, una Louise Bourgeois del nuovo secolo. Il Centre Pompidou le ha dedicato per i suoi cinquant’ anni una retrospettiva. La Francia le ha affidato il padiglione di quest’ ultima Biennale di Venezia: lei lo ha dedicato a raccontare come finisce un amore. Ha proiettato i video di molte delle 107 donne che leggono la mail di addio del suo amante: celebri e sconosciute, Jeanne Moreau e una studentessa di scuola media, Luciana Littizzetto e una cartomante, Victoria Abril e una stella dell’ Opera. Un avvocato, una psicanalista, Laurie Anderson, una scrittrice di parole crociate, una campionessa di tiro con la carabina, una esegeta di talmud, Maria de Medeiros, la figlia «segreta» di Mitterand, una giocatrice di scacchi. A ciascuna ha chiesto cosa significa abbi cura di te, come si fa ad averne, come si affronta e come si supera il vuoto spaventoso dell’ assenza? Ciascuna ha risposto nel suo modo: con un referto, con una canzone, con un gioco. La mostra, a Venezia – Take care of yourself – è stata visitata da migliaia di persone, è ancora lì fino a fine novembre. Il tam tam sotterraneo (dei visitatori, delle visitatrici) ne ha fatto una meta di pellegrinaggio. Di seguito è venuto il libro, ormai introvabile. Più di quello del 1981, L’ Hotel: Calle si fece assumere a Venezia come cameriera in un albergo, fotografò le stanze appena lasciate dai clienti, i letti sfatti i loro oggetti abbandonati. Più di The adress book, 1983: trovò un’ agenda per strada, chiamò tutti i numeri chiedendo a chi rispondeva di parlarle del proprietario, pubblicò tutti i giorni su Liberatiòn i resoconti delle interviste infine un volume col ritratto collettivo di un uomo mai visto. Più ancora di Double game scritto a quattro mani con Paul Auster: lui si ispira a lei per il personaggio di Maria nel romanzo Leviathan, lei si immedesima in Maria e ne veste i panni. Torniamo all’ amore, però. Alla lettera. Al libro e al cammino che si attraversa per prendersi cura di sé. In principio la ragione: che il testo passi all’ esame dell’ intelletto, i freddi strumenti del raziocinio. La e-mail è tradotta in codice morse, in linguaggio esadecimale, in braille, in stenografico e in codice a barre. In trascrizione fonetica, in sms. Poi l’ analisi del testo come fosse un canto della Divina Commedia. Aspetto tipografico, paratesto, genere, enunciato, vocabolario, analisi logica e grammaticale. Lunghezza (con istogrammi in blu) delle ventidue frasi. Evidenza delle forme verbali: quanti gerundi, quanti imperativi, quanti condizionali. Frequenza del soggetto: io il triplo di tu. Riferimenti letterari. I Fratelli Karamazov, Resurrezione, La Repubblica di Platone. Per «abbi cura di te» senz’ altro Emma di Jane Austen. Ora che è stata sezionata come un corpo sul tavolo dell’ anatomo patologo rivediamola da viva, questa lettera. Passi pure l’ esame degli altri: le altre donne. Nelle mani di una cartoonist diventa una striscia comica, la giornalista di agenzia ne fa un lancio, il giudice una sentenza. La sessuologa risponde con una ricetta su carta intestata dell’ ospedale: «No, non posso prescriverle antidepressivi. Lei è solo triste. Un evento doloroso fa male ma la soluzione non può essere chimica». La psicanalista si sofferma sulla «brutalità della vacuità della frase omicida finale»: un «banale take care al posto di un addio. Come dire abbi cura di te stessa perché non sarò io a farlo». L’ avvocato suggerisce due anni di carcere e trentasettemila euro di ammenda per il soggetto, colpevole di truffa e contraffazione. Florence Aubenas (giornalista lungamente sequestrata in Iraq) le scrive che la sua lettera non sarà pubblicata: troppo personale. La criminologa analizza il soggetto mittente: «Un uomo intelligente, colto, di buon livello socioculturale, elegante, seducente, orgoglioso narcisista ed egoista». «Psicologicamente pericoloso o/e grande scrittore». L’ esegeta di talmud affronta sul testo una disputa rabbinica. Ne ragionano una filosofa, un’ antropologa, un’ esperta di diritti delle donne all’ Onu, una docente di fisica. Marie Dasplechine, scrittrice, ne fa una novella per bambini. La maestra elementare in bella calligrafia la propone come compito agli alunni con cinque consegne: «Dai un titolo a questo racconto, chi è il protagonista? qual è il problema? In che modo il protagonista lo risolve? Trova un altro finale alla storia». Ambra, nove anni e mezzo, lo svolge: «Sembra che lui l’ ami. Se l’ ama non capisco perché la lascia. è una storia triste». La paroliera la trasforma nel testo di una canzone, la compositrice classica in un brano per pianoforte. L’ esperta di bon ton la boccia categoricamente e propone un nuovo testo: sette righe scritte con penna stilografica su carta velina, impeccabili per assenza di vanità. La cartomante fa i tarocchi: l’ eremita, il matto, l’ imperatrice, la luna, l’ impiccato. Un’ agente dei servizi segreti la critta usando la parola chiave «rottura». La redattrice di parole crociate ne fa un fenomenale cruciverba: memorabili le definizioni di «benefico», «irrimediabile», «amante». Per centinaia di pagine si avvicendano l’ esperta di letteratura comparata e la sociologa (ne fa un saggio: «L’ esacerbarsi dell’ amore eterosessuale in Occidente»), la storica e la giocatrice di scacchi («Il re nero perde: analisi della partita»). La latinista traduce: «Ego quidem voluissem res alio vertere. Cura ut valeas». Dunque in latino la frase omicida si dice così: cura ut valeas. L’ architetto di interni ne fa mille copie da distribuire agli ospiti in visita, le impila in un contenitore, la contabile la trasforma in un bilancio economico del dare e dell’ avere in amore. La maestra di ikebana due composizioni floreali, la madre una lettera alla figlia: «Amore mio, si lascia e si è lasciati, è questo il nome del gioco. Sono sicura che anche questo sarà per te fonte d’ ispirazione artistica. Mi sbaglio?». Già arrivati fin qui, a due terzi del libro, va meglio. Si è molto riso, si è molto ascoltato il rumore del mondo. Ecco dunque il momento di sedersi a godere lo spettacolo. Dei quattro cd rom allegati (la seduta dal consulente familiare, la conversazione con la speaker della radio, il film realizzato dalla regista Letitia Masson) l’ ultimo contiene le immagini di chi ha risposto con la voce e coi gesti. Una clown. Una stella della danza all’ Opera di Parigi. Jeanne Moreau che legge nella penombra di una stanza, commenta con voce roca, si ferma, riprende, si emoziona. La tiratrice di carabina che del foglio con la mail fa un bersaglio, prende la mira e spara. Luciana Littizzetto che la legge nella cucina di casa sua, a Torino, mentre affetta una cipolla: sarcasmo e lacrime. Victoria Abril ancora nel letto di Legami che dalle lenzuola sfatte rimprovera Sophie: «Gli hai dato troppe condizioni, gli hai detto che dopo la fine dell’ amore non avresti voluto vederlo più, gli hai chiesto di non essere l’ altra, la quarta delle sue donne. Ma, Sophie, in amore non si dettano regole. Hai sbagliato». Un’ attrice giapponese con la maschera di gesso, una ballerina indiana che danza, una cantante di tango. Un pupo di cartapesta (femmina), una rapper. Un’ interprete di fado portoghese, una soprano lirica, una cantautrice berlinese. Alla fine resta Brenda, maestoso pappagallo bianco con cresta dorata (femmina): col becco fa a pezzi la lettera, la assaggia, ne mangia un po’ , non gli piace, la butta. Chiude l’ autrice: una frase in caratteri minuscoli, ultima pagina. «Questo è tutto riguardo alla lettera. Non riguardo all’ uomo che l’ ha scritta…». Il libro, naturalmente, è dedicato a lui.

Erano trent’ anni che l’ aspettavo
Doris non ne sapeva nulla. Era fuori a fare la spesa’, dice il suo agente
Enrico Franceschini

LONDRA – In una stradina alberata di Hampstead, il quartiere dello «champagne socialism», versione londinese del radical-chic, popolato di artisti, scrittori, intellettuali di sinistra, arriva un panciuto taxi nero. Ne discende, con qualche disagio reso comprensibile dai suoi 87 anni, una vecchietta in giacca indiana, gonna di jeans, immancabile sciarpa rossa, sandali senza calze e in mano la sporta della spesa, da cui spunta un mazzo di carciofi. Ad aspettarla al suo rientro dallo shopping, davanti alla porta di casa, trova un’ orda di giornalisti, fotografi, cameramen: teoricamente dovrebbe essere un indizio sufficiente, visto il giorno in cui succede, a farle capire di cosa si tratta. Ma lei sembra genuinamente sorpresa. Signora Lessing, le dice uno dei cronisti, ha sentito la notizia? «No». Ha appena vinto il premio Nobel per la letteratura. «Cristo», si lascia scappar detto la neolaureata. E come si sente? «Non potrei essere più contenta». Pausa. «Erano trent’ anni che lo aspettavo. La gente che non ha sentito parlare di me, adesso, andrà a comprare i miei libri. È una bella cosa, guadagnerò un po’ di soldi». Altra pausa, durante la quale è raggiunta dal figlio, sceso anche lui dal taxi. «Dev’ essere morto quell’ accademico», scherza il figlio. I giornalisti si fanno più vicini. «Una volta, a una cena molto, molto formale in Svezia», spiega divertita la scrittrice, «venne al mio tavolo un alto dignitario collegato al Nobel e mi disse che il premio, io, non l’ avrei mai vinto. Cosa avrei dovuto rispondergli? “Oh, caro, mi dispiace così tanto, perché non vi piaccio?” Potete immaginarvi la sfacciataggine? Spero che le loro maniere, da allora, siano migliorate». Le chiedono di Alfred and Emily, il suo ultimo romanzo: «È un libro contro la guerra, dedicato ai miei genitori, alle loro vite rovinate dalla prima guerra mondiale», risponde. «Spero che qualcosa possa cambiare nella testa di chi ci governa, qualcosa che impedisca tutte le guerre, ovunque, perché noi anziani, che le abbiamo vissute, sappiamo cosa sono, e voi no». Le domandano se il Nobel è il premio più ambito: «Ho vinto ogni premio che c’ è in Europa, ogni dannato premio. E con questo sono deliziata di averli vinti davvero tutti, l’ intera collezione. Ho fatto scala reale». L’ ultima domanda è se lei, paladina della sinistra e del pacifismo, rifiuterebbe il Nobel per ragioni politiche: «Non ci avevo pensato. Credete che dovrei? Ci penserò seriamente, ora, va bene?», dopodiché la vincitrice s’ infila nella porta e scompare all’ interno, seguita dal figlio, per cominciare a rispondere alle telefonate di congratulazioni che le arrivano da tutto il mondo. «Quando è arrivato l’ annuncio da Stoccolma», conferma più tardi la sua agenzia letteraria, Jonathan Clowes, «Doris non ne sapeva niente, era fuori a fare la spesa». E non era raggiungibile sul telefonino, che preferisce non utilizzare. «È un riconoscimento assolutamente meritato, ne siamo felici», aggiunge l’ agenzia. «Doris è stata un’ icona delle donne e del femminismo per tutta la vita», esulta Jane Friedman, presidente esecutivo di HarperCollins, la sua casa editrice, ricordando che la Lessing è l’ undicesima scrittrice a vincere il Nobel dalla creazione del premio nel 1901. Felice, per lei e con lei, è un po’ tutto il mondo delle lettere britannico, che celebra la seconda assegnazione del Nobel a uno scrittore del Regno Unito in tre anni, dopo la vittoria del commediografo Harold Pinter nel 2005. E, con i suoi 87 anni, notano i critici inglesi, Doris Lessing è anche l’ autore più anziano insignito del Nobel per letteratura nella storia del premio. Molte ragioni per festeggiare, ieri sera, ad Hampstead. Magari con una cena ai carciofi.