Olympe de Gouges
Risposta al cittadino Robespierre:
Una anticipazione da «La musa barbara. Scritti politici (1788-1793) a cura di Franca Zanelli Quarantini, in uscita domani per Medusa. L’autrice, cui si deve la «Dichiarazione dei diritti della Donna», prende parola su tutti i temi più importanti del tempo: dall’abolizione della pena di morte, all’eliminazione della schiavitù nelle colonie
Robespierre, come sei stato edificante! Ci fai sapere che hai rinunciato al diritto di una giusta vendetta nei confronti dei tuoi accusatori. E altro non chiedi che torni la pace, che gli odi particolari siano dimenticati, che la libertà sia mantenuta. Che fulminea metamorfosi! Tu, disinteressato; tu, filosofo; tu, amico dei tuoi concittadini, della pace, dell’ordine? Potrei citare una certa massima, che dice che se un malvagio fa il bene, sta in realtà preparando nuovi grandi mali. Si fa fatica a sopportare la tua improvvisa conversione, il ritornello della tua ambizione sta preparandoci un lugubre concerto. Se sbaglio, scusami; ma vedi, se io ho il fanatismo dell’amor di patria, tu hai quello di un’ambizione tutta particolare. Puoi aver servito la Rivoluzione, lo ammetto; ma i tuoi eccessi hanno cancellato nei cuori di tutti la riconoscenza… Consideriamo ora la tua giustificazione.
Ti sei presentato alla tribuna per lavarti dalle molte denunce laboriosamente costruite contro di te. Certo, è bello essere calunniato quando si possono sbaragliare i nemici! Ma come sei lontano, tu, da quel trionfo dell’innocenza che non lascia dubbi sull’accusato! Ti compiango, Robespierre, e ti aborro. Guarda che differenza tra le nostre due anime! La mia è veramente repubblicana, la tua non lo è mai stata. Se ho dato l’impressione di votare per la monarchia, è perché avevo la ferma convinzione che quella forma di governo fosse la più adatta allo spirito francese. Potresti tu negare che i miei princìpi siano per questo meno puri? E se, come Mirabeau, ho cercato di conservare la monarchia costituzionale, l’ho fatto per il bene di tutti noi, mentre tu dici di aver cercato di distruggerla solo per amore di te stesso! Calati nel labirinto della tua coscienza, e smentiscimi se osi. Tu imputi a Louvet il fatto di averti accusato, di avere influenzato i Giacobini, il Consiglio generale della Comune, le Assemblee primarie, l’Assemblea elettorale. Io invece accuso te, e insieme a me ti accusa tanta gente!
Dimmi, Robespierre: perché alla Convenzione temevi tanto i letterati? Perché ti hanno visto tuonare contro i filosofi, restauratori dei governi e veri sostegni del mondo, cui dobbiamo la distruzione dei tiranni? Volevi forse istruire i cittadini mediante una Convenzione ignorante, per trasformarla in un’assemblea di bifolchi? O non cercavi piuttosto di dominare su tutti? Rispondimi, ti scongiuro. Benché i tuoi discorsi siano pieni di sofismi, non si può negare che tu possieda un’invidiabile conoscenza delle rivoluzioni, della vita e dei costumi dei grandi conquistatori; ma, di grazia, non paragonarti mai ai saggi di qualunque paese. Sai che distanza c’è tra te e Catone? Quella che sta tra Marat e Mirabeau, tra il moscerino e l’aquila! Tu non sei che la caricatura di un grand’uomo.
Coraggio, Maximilien, tenta la fortuna fino all’ultimo, rovescia sul nascere il governo che ha riunito i costituzionali e i repubblicani. Ma la santa filosofia ostacolerà i tuoi successi; e malgrado il tuo trionfo del momento e il disordine di questa anarchia, tu non governerai mai sugli uomini illuminati. Per questo hai puntato gli occhi sul triunvirato. Non hai denaro, dici? Ma hai degli amici che ti hanno già fatto lauti anticipi e che te ne farebbero ancora per dividere con te le massime cariche! Li conosciamo, hanno un sangue colpevole e proscritto. E quel miserabile Marat, che è appena uscito trionfante dalla sua caverna, coperto dell’ignominia generale e che di nuovo, nei suoi scritti pestilenziali, agita il brando delle furie. Quel miserabile Marat, ripeto, che è il vero pulcinella di questo progetto insensato. Tutti gli tirano le pietre, tutti voi lo rinnegate. Quel moderno Nostradamus si vedrà costretto a marcire nel suo antro sottoterra. O Maximilien, Maximilien! Proclami la pace a tutti i venti e intanto dichiari guerra al genere umano. (…)
Novembre 1792
Giulia Siviero
Flaubert non era Madame Bovary. “E tutto sommato non è una cosa che si può fingere di ignorare. Anche con tutta la buona volontà”.
Lei, Christa Wolf, intellettuale contemporanea che ha sperimentato “sulla pelle” la vicenda della Germania nel dopoguerra, non ha potuto fare a meno di sorridere: “dell’ira di Achille, del conflitto di Amleto, delle false alternative di Faust”. La sua parola, viva, sovversiva, “non curante”, non ha creato storie di eroi né di anti-eroi. Ma ha restituito voce e sangue alle “donne selvagge”. Donne a cui, superando il tempo e lo spazio, ha teso una mano: per sottrarle all’immobilità, per (ri)scriverne la storia, per restituire loro una nascita più autentica e, in fondo, l’unica possibile: la nascita da una madre. Lei che non ha mai rinunciato a uno scrivere in prima persona e a mettere nell’arte la donna che è, lei, Christa Wolf, è Cassandra, profetessa inascoltata durante la guerra fredda, lei, Christa Wolf, è Medea, vittima e capro espiatorio dell’ex Ddr. Comprendere un percorso in cui vita, scrittura e impegno politico si legano, significa mettersi all’ascolto delle figure “differenti” che (ri)prendono vita nei suoi scomodi romanzi. Ma significa anche fare i conti con la ricerca di un’estetica e di un linguaggio che, Con uno sguardo diverso (edizioni e/o, pp. 153, € 15,00), si pongono altrove rispetto alla “gelidità” del pensiero maschile. Gli otto racconti che danno corpo alla raccolta, scritti tra il 1992 e il 2004, divengono il luogo di una scrittura che sconvolge i canoni della letteratura (maschile): “Egli non ha occasione di mettersi alla prova realmente e praticamente. – scrive Christa Wolf – Le rarefatte regioni in cui lui, i suoi seguaci si ritirano pieni di paura del contatto, a pensare, a poetare, sì, sono gelide”. L’estetica occidentale, a partire dall’Iliade, intreccia storie di eroi: ogni azione quotidiana è assente e la guerra, anche a livello simbolico, distrugge la vita minuta. Tra il bucato e il giardinaggio, vivendo e poi scrivendo (non viceversa) si anima, invece, lo sguardo di Christa Wolf: sull’infanzia, sulla lingua materna, sui frammenti della storia. Il dire sfugge alle gabbie teoriche della definizione e dell’interpretazione e rimane in grado di “toccare”, di mantenere un legame con il fare, con la vita che lo ha avviato. La scrittura, a tratti, dice se stessa e nella trama fluida che, come un fiume carsico, si immerge e ricompare, le parole stanno una accanto all’altra, senza il respiro di un punto, senza la pretesa di sostituirsi alle cose. Trovando, infine, il proprio senso nell’associazione imprevista. In queste pieghe, si ritrovano la veggenza di Cassandra o la seconda vista di Medea. Il loro coraggio di guardare le reali condizioni del presente, di conservare un’integrità, un sapere altro, un’umanità, che le ha rese dissonanti rispetto al potere, incapaci di stare completamente in un tempo e in un luogo. Ecco perché la profetessa “sovraccaricata dal dono della veggenza” diceva di essere cieca. Ecco perché ciò che Christa Wolf ci dona è uno sguardo diverso.
Lidia Ravera
“Torno a cercare un punto di equilibrio fra due poli: le fredde osservazioni della mente e le dolorose considerazioni del cuore”. Cosí finisce il conciso, malinconico e affascinante romanzo Dolorose considerazioni del cuore (edizioni nottetempo), in cui Sandra Petrignani, giornalista ma soprattutto scrittrice, rivolgendosi a un’amica ritrovata dopo una di quelle separazioni “per futili motivi” che spesso segnano i “rapporti fra donne”, racconta le età della sua vita. Lo stile è quello intenso e lieve, crudelmente sincero, delle confidenze,: quando, a tarda sera, davanti a una persona che senti simile e dalla quale quindi non ti devi difendere, getti la maschera delle tue adulte sicurezze e ti liberi dei tuoi pensieri su te stessa. Parli, e il passato prende forma: l’infanzia, pullulante di adulti spietatamente distratti che non si accorgono mai di niente, né dell’angoscia al primo giorno d’asilo né del desiderio d’essere vista da un padre deduttivo e assente o amata da una madre triste, tutta gelosia e sconfitte (…)
Luisa Cavaliere
Un testo incandescente.
L’autrice è giovanissima, ha un tratto gentile ed è di rara modestia.
Il libro è un racconto che parla di noi, e affida la narrazione a una bambina innocente e adulta insieme; consapevole e ignara come l’infanzia sa essere.
Parla di quanto difficile sia essere meridionale. Di quanto coraggio (e lo dico senza retorica senza, cioè, quella malattia che spesso prende le rappresentazioni del sud che noi meridionali facciamo) ci voglia per non cadere prigionieri di dinamiche che soffocano la libertà, tolgono la gioia, mortificano la vita.
L’impatto con il male assoluto che le organizzazioni criminali rappresentano per la nostra realtà viene descritto con inaudita sapienza e con una tensione (che non esito a definire politica) che lascia senza fiato.
Lo dico per cercare di spiegarmi: altro che Gomorra o, che forse è meglio, oltre Gomorra.
Qui si analizzano i legami, le complicità, i silenzi di una condizione che sembra un destino.
Ed è Laura la madre di Caterina la narratrice, che rompe il gioco indicando nell’esilio, nello sradicamento, la salvezza.
Straordinario è il pezzo che racconta di Salvatore, il padre, che torna al paese per partecipare a un funerale familiare e che è una vera prova del fuoco: da una parte le seduzioni del passato dall’altra le bambine e la moglie che lo aspettano in altitalia per salvarsi.
Non c’è una concessione ai luoghi comuni, non c’è una banalità, non c’è un eccesso, non c’è compiacimento. C’è la grande letteratura.
Parla di lei di noi e lo fa conservando il suo status di giovane donna colta, straordinaria osservatrice grandissima narratrice
Basterebbe saper ascoltare quello che le donne dicono, scrivono, pensano, praticano, per trovare una via di uscita dal grigio che sembra sommergere le nostre giornate.
di Barbara Nogara
Questo libro racconta la storia di tre sorelle contesse che vivono in un palazzo nobiliare, un tempo tutto loro, nell’antico quartiere Castello di Cagliari. Ciascuna ha il suo appartamento, ma la maggior parte del Castello è stato venduto. La primogenita Noemi si ritiene ormai nubile, sogna gli splendori passati e vuole ricostruirli con un attentissimo risparmio. La secondogenita Maddalena, sposata a Salvatore, sogna un figlio che non vuole nascere e l’ultima, detta contessa di ricotta perché ha le mani e il cuore di ricotta, sogna l’amore, ed è la sola ad avere un figlio, Carlino, evitato da tutti gli altri bambini. Carlino ha bisogno di enormi occhiali e parla in modo incomprensibile, ma si rivela, a un saggio scolastico, geniale pianista e compositore. Le contesse sono tre donne profondamente diverse tra loro: Noemi con la sua visione sistemica delle cose, Maddalena e il suo problema della fertilità; la contessa di ricotta che si dispera quando l’ultimo fidanzato non è come dovrebbe. Da questo nucleo familiare, unitissimo in caso di necessità, nascono gioie e drammi che sono quelle dell’umanità intera: “la vita è tutto un miscuglio di male e bene e una volta ha la meglio l’uno e una volta l’altro e così all’infinito”.
Intorno alla famiglia e alle sue illusioni ci sono personaggi più solidi, ma non meno sfuggenti: la vecchia tata, l’ombroso vicino di casa, il giovane pastore Elias …
Irene Bignardi
Dopo La vista da Castle Rock aveva giurato che non avrebbe scritto più. E il suo editore italiano, per consolarci di non poter più contare sull’ atteso periodico appuntamento con i bellissimi racconti di Alice Munro, la signora della short story, una delle grandi scrittrici di questi due secoli, ha pensato bene di pubblicare una intensa, freschissima raccolta del 1991, Le lune di Giove (Einaudi, pagg. 300, euro 19,00, traduzione sempre impeccabile di Susanna Basso). Racconti acuti, dolorosi, su gente vera e normale, su frammenti di vita impeccabilmente ricreati. Ma, dice ora maliziosa e rilassata la bella signora con i capelli bianchi, “che non avrei più scritto era una grossa bugia”. E perché ha mentito, signora? “Pensavo che fosse una buona idea. Pensavo che la gente mi potesse essere grata per questo”. E Alice Munro, canadese, anni settantasette portati con grazia estrema (“ma se mi penso mi penso a quaranta, quando sei ancora capace di esercitare un’ attrazione sessuale e hai tempo davanti a te”), autrice di un corpus relativamente piccolo e molto acclamato di opere, sorride, beve vino bianco e ricorda. “Sono nata nel 1931, durante la depressione. Non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America è stata disastrosa. Non eravamo disperatamente poveri. Eravamo mentalmente poveri. Coltivavamo il nostro cibo, le nostre verdure. E nostro padre allevava volpi argentate. Allora erano molto alla moda. Se lei guarda le fotografie di Eleanor Roosevelt aveva sempre una stola di volpe attorno al collo. Mio padre aveva sognato di diventare ricco con questa attività, ma non ha avuto mai abbastanza soldi per investire, e non ci è riuscito. Poi, durante la guerra, quel tipo di pellicce è passato di moda. Ed è stato costretto ad andare a lavorare in una fabbrica, in una fonderia. Mia madre si è ammalata molto gravemente di Parkinson ed è vissuta per quasi vent’ anni in questa condizione disperata. E io, io ero la figlia più grande. E immagino che se fossi stata una brava figlia una volta finito il liceo sarei rimasta a casa, con mia madre e mio fratello e mia sorella più piccoli. Invece ho vinto una borsa di studio e me ne sono andata. All’ università. Per la verità non avevo abbastanza denaro. Avevo soldi per tre anni e non per quattro. Dovevo trovare qualche forma di lavoro. Ho avuto dei premi, ma non bastavano. Così ho deciso che la cosa migliore da fare di fare era sposarmi”. Scherza? Sposarsi per sopravvivere? “No, ero anche innamorata. Sa, ai ragazzi della mia città non piacevo affatto, perché ero così strana, una che leggeva sempre. Ma è successo che all’ università ho incontrato un ragazzo capace di accettare il mio modo di essere. Molti ragazzi ai miei tempi non potevano sopportare che le loro donne si impegnassero seriamente in un lavoro. Lui invece, Jim Munro, ne era felicissimo, era deliziato da me, era molto bello, molto carino. Ho preso il suo nome e me lo sono tenuto perché è meglio del mio. Abbiamo avuto una bambina Sheila, poi una seconda bambina Catherine, che è morta subito, poi una terza, Jeannie, poi Andrea, che è nata nove anni dopo. Vivevamo a Vancouver, nei sobborghi. C’ erano all’ epoca in Canada delle piccole riviste e una radio che promuoveva la letteratura nazionale. Ho cominciato a vendere qualche racconto, ad essere conosciuta nei giri che si occupavano di letteratura…”. La leggenda di Alice Munro vuole che per le short stories si sia ispirata alla Sirenetta di Andersen e per i romanzi a Cime tempestose. “Non oserei mai di scrivere sul modello di Cime tempestose, è un libro unico. Ma è vero che La sirenetta ha avuto un influsso molto profondo su di me. Si è condannata per amore, ha dato la sua anima per amore. E’ la donna ideale. Ed è vero, a me piace la tragedia. In genere si pensa che una scrittrice donna debba scrivere come Jane Austen. E Jane Austen è bravissima. Ma per qualcuna della mia classe sociale non è interessante come le Bronte. Io non sono mai stata interessata alla società ben educata. Volevo che la gente avesse dei destini tragici e grandi emozioni. Quando i bambini erano piccoli ho letto come una disperata, tutto, ma non sono mai stata influenzata dai classici del ventesimo secolo come Proust, Mann, la letteratura nobile, sa, perché non capivo quel tipo di società. No, gli autori che mi hanno spinta a scrivere sono Flannery O’ Connor, Carson McCullers, Eudora Welthy, scrittrici che raccontano le piccole città, la povera gente. Il mio territorio. Perché non solo ho avuto la fortuna di nascere povera, ma di vivere in un paese che tratta i poveri con dignità”. Ci sono state anche altre influenze. “Quando avevo sedici anni, ho avuto un lavoro come cameriera, presso una famiglia, durante le vacanze su un lago. Eravamo in un posto molto isolato. Il padrone di casa mi ha dato da leggere le Sette storie gotiche di Karen Blixen. E le ho amate moltissimo, anche se poi più tardi ho pensato che non mi piaceva il suo punto di vista – quello di un’ aristocratica, e non solo, una che pensava che all’ aristocrazia vanno riservati trattamenti speciali. Quando leggo una scrittrice così penso sempre che nei suoi racconti io sarei la ragazza che sta in cucina. Ma è anche grazie a lei se ho scoperto la bellezza della forma racconto – senza tuttavia mai cercare di imitare quella prosa. E’ così facile il rischio di fare la parodia del bello stile”. Ma lei fa dello stile: la lingua che usa è ricca, precisa, a volte persino preziosa nella scelta lessicale. “E’ un fatto canadese. La lingua è rimasta protetta in una capsula che non è tanto cambiata”. Difficile, per una donna, scrivere nel suo paese? “Non difficile, quasi impossibile. Ero una giovane moglie e madre. Gli uomini non mi prendevano sul serio. Be’ , veramente, alcuni sì. Per esempio Robert Weaver, l’ uomo a cui devo quasi tutto, e che ora non c’ è più. Dirigeva una rivista, e non ha mai smesso di incoraggiarmi. Ma quando andavo agli incontri con gli altri scrittori. era un club maschile. E poi c’ erano le loro mogli che non mi sopportavano”. Perché era troppo bella? “Non mi sono mai considerata bella. No. Perché ero donna e facevo il mestiere dei loro mariti. Le donne, allora, erano o mogli o ornamenti. Nessuno mi prendeva sul serio come scrittrice. Ero lontana da tutto. Vivevo ai margini. Scrivevo sulle cose sbagliate, non scrivevo di guerra, di politica – ed era ancora l’ epoca Hemingway”. Ed è uno stupendo contrappasso che lei oggi sia il nome più grande della letteratura canadese. “Sì. Una stupenda vendetta”. Perché si è esercitata soprattutto la forma della short story? “Per via del mio lavoro da casalinga. Non ho mai avuto un anno in cui lavorare alla stessa cosa. Il mio lavoro era sempre interrotto. Non potevo nemmeno lontanamente pensare a un romanzo”. Cinque racconti di Le lune di Giove sono in prima persona. Siamo autorizzati a pensare che sono molto personali? “Molto. Le lune di Giove è stato il quarto o quinto libro che ho scritto, ed era molto autobiografico: cose che ho vissuto, perché non puoi scrivere d’ amore senza aver avuto una certa quantità di esperienze d’ amore. O di sofferenza”. O, come in L’ incidente, dell’ azione del caso, del suo potere di sconvolgere e ridisegnare le vite. “Non ho mai avuto un’ esperienza del genere, ma era importante scrivere quella storia. E se in passato ho capitalizzato sulla mia vita, ora mi guardo maggiormente in giro. Per esempio, sto lavorando adesso su una vecchia signora che ho visto andare a farsi tingere i capelli di viola e di blu, ma che non ha neanche un filo di trucco. Mi sono chiesta: che cosa sta cercando, che cosa vuol provare? E la mia fantasia si mette in moto. E poi parlo molto con la gente. Ascolto le storie della comunità in cui vivo. Da qualche anno sono tornata a vivere con il mio secondo marito in una piccola città, a trenta miglia da quella in cui sono cresciuta. Non scrivo direttamente sulla vita dei miei concittadini, ma mi incuriosisce come la organizzano – e la vita è sempre molto difficile, è difficile attraversarla ed essere felici”. Accetterebbe la definizione di pietas per il suo modo di guardare ai personaggi dei suoi racconti? “O di comprensione. O di capacità di perdonare i torti degli altri. Sì, se è pietas sapermi identificare nella condizione degli altri, nei loro comportamenti. Non scrivo così perché io sia particolarmente buona. Ma perché posso immaginare che io stessa, in certe condizioni, potrei comportarmi in maniera disonorevole”. Lei è molto amata e letta, ma i suoi racconti non sono certo consolatori o tranquillizzanti, scavano, fanno soffrire. “Credo che la gente legga le mie storie per le stesse ragioni per cui io le scrivo. Perché non cerco lo happy ending, perché scrivo per un momento di choc, di stupore, di rivelazione – ciò che rende la vita appassionante per me. E se riesco a suscitare negli altri questo effetto, è meraviglioso. Lo so, parlo di cose difficili, di sofferenza, di come si sopravvive alla sofferenza”. Di Le lune di Giove, il racconto che dà il titolo alla raccolta e che ha al centro la figura di suo padre, colpisce il suo rapporto con la vecchiaia. “Non ho mai avuto paura della vecchiaia, ma ora, a settantasette anni, sento che il tempo si sta chiudendo. E ho un po’ paura delle cose che possono succedere. Di quello che ho visto succedere agli altri. Non c’ è che una cosa da fare. Stare più attenta che in passato a come uso il tempo che mi è concesso. Voglio usarlo al meglio. Magari – sorride – per scrivere”.
Massimiliano Panarari
“E’ un libro molto curioso, costruito come una classica detective story, ma che ricostruisce un caso realmente accaduto nell’ Inghilterra vittoriana del 1860, prima del debutto del mitico Sherlock Holmes. In Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale (Einaudi, pagg. 382, euro 19,50; trad. di Luigi Civalleri), l’ investigatore, componente di una squadra speciale di Scotland Yard, procedendo per intuizioni e deduzioni, individua il colpevole di un orrendo infanticidio, ma non riesce a incastrarlo immediatamente e finisce sotto accusa da parte della stampa e dell’ opinione pubblica, perché la verità è troppo scomoda. Il libro è al tempo stesso un saggio storico, una bella narrazione che ti prende alla gola e anche una riflessione epistemologica; l’ autrice ci fa rivivere un’ epoca, e ci immerge in un problema di criminologia e di logica. L’ indagine poliziesca e la scoperta scientifica, come notava Charles Dickens, hanno molti elementi in comune e gli investigatori migliori, proprio come gli scienziati, imparano dai loro errori. I grandi protagonisti del romanzo poliziesco, di cui sono un lettore appassionato (da Conan Doyle ad Agatha Christie e John Dixon Carr), sono infatti degli autentici eroi del fallibilismo, nella migliore tradizione filosofica di Peirce e Popper”.
Silvana Mazzocchi
Già con “Donne che corrono coi lupi”, libro straordinario tessuto di poesia, spiritualità e psicanalisi, Clarissa Pinkola Estés aveva regalato a tutte le donne una sferzata di energia e ribellione, viatico per l’autostima femminile. E, tramite il mito della “donna selvaggia”, già in quel libro che ha accompagnato una generazione, la psicoterapeuta junghiana ne aveva evocato le origini con un linguaggio immaginifico e straordinario. Un essere istintuale, potente e fortissimo era in principio la donna. Intelligente, indomita e dalle inesauribili risorse, ma in seguito sottomessa e vinta da secoli di cultura avversa, fino a ritrovarsi subordinata e ingabbiata nello stereotipo del sesso debole. Ora, a vent’anni di distanza da quel clamoroso caso editoriale, Pinkola Estés torna con un’antologia, Storie di donne selvagge, che arricchisce ulteriormente il percorso allora intrapreso. E, a parte le sempre suggestive “tre favole senza tempo” che aprono il volume e già note al pubblico, sono soprattutto due testi inediti, I maghi della pioggia e Care anime coraggiose… non perdetevi d’animo a gettare nuova luce sull’interpretazione di sé e dei rapporti interpersonali. Il messaggio è ancora una volta rivolto alle donne (ma anche agli uomini che vogliono stare al passo con le compagne “che corrono”). A loro è diretto un monito chiaro e come sempre fondante: le donne devono saper individuare e fare emergere la forza che hanno dentro di sé e la devono saper nutrire. Non è necessario andare in fretta; si può anche fare un passo alla volta, l’importante è scoprire nella propria anima la speranza e la potenza irriducibile della vita. Clarissa Pinkola Estés, insegnante e di professione analista, dall’11 settembre 2001 si occupa di dare sostegno psicologico a coloro che hanno subito le conseguenze dell’attentato alle Torri Gemelle.
Benedetta Craveri
Nel corso di una serata musicale, una giovane vedova del bel mondo parigino osserva inquieta l’amante corteggiare un’altra signora e partire con lei in carrozza. Tornata a casa, la dama aspetta inutilmente di essere raggiunta dall’uomo amato e, in preda alla “confusione e al turbamento”, gli scrive per avere una spiegazione. Ma anche l’indomani egli non dà notizie di sé e a quel primo biglietto seguiranno, il giorno successivo, altre quarantatré missive che registreranno come un sismografo il crescendo di ansia, di gelosia, di follia della donna che si crede abbandonata e che non riesce a capacitarsene. Pubblicato nel 1824, Ventiquattr’ore di una donna sensibile di Constance de Salm si inscrive nella lunga tradizione del romanzo epistolare, riprendendo la formula monodica messa in voga dalle Lettere di una monaca portoghese(1669), modello archetipico del genere. Eppure lo stesso virtuosismo tecnico della narrazione, che si attiene rigorosamente alla regola delle 24 ore del teatro classico, accentua il timbro moderno di una confessione privata assai vicina all’intonazione del diario intimo. E se pure questo lungo e coinvolgente monologo riserva un inatteso lieto fine, il suo ansimare angoscioso ci ricorda quello dell’eroina della Voce umana di Cocteau. Originale e romanzesca è anche la personalità dell’autrice di questo breve romanzo ingiustamente dimenticato. Bella, spregiudicata e anticonformista, Constance Marie de Théis, principessa di Salm (1767-1845) condusse, come ci informa Claude Shopp nella sua postfazione, una esistenza avventurosa e fu una poetessa ammirata e una femminista convinta. Eppure – è lei stessa a dichiararlo – questo suo “studio del cuore di una donna” intendeva essere in primo luogo “una lezione” sui pericoli propri alla “sensibilità” femminile.
E’ vero che la scrittura femminile ha una sua specificità? Di certo era così nel Giappone di mille anni fa. Il “Racconto di Genji”, capolavoro della letteratura nipponica è opera di una dama di corte, e fu copiato e illustrato da una donna.
Gian Carlo Calza
A distanza di mille anni dalla stesura è impossibile pensare al Racconto di Genji (Genji monogatari) senza sentire di entrare in un mondo dove eleganza, bellezza e stile regnano sovrani sulle vicende descritte. Che dico? Senza percepirli come la sostanza stessa che informa di sé tutta l’opera. E questo sia che ci si riferisca al capolavoro indiscusso della letteratura giapponese, sia alla sua più antica illustrazione rimasta: i Rotoli dipinti del racconto di Genji di circa un secolo posteriori e a loro volta capolavoro della pittura giapponese d’ogni tempo.
Il romanzo fu scritto nella capitale imperiale di Heian, l’attuale Kyoto, da una dama di corte ricordata con l’appellativo di Murasaki Shikibu, in un ambiente raffinato, ricco di suggestioni di struggente bellezza, frutto di una perfetta fusione tra l’approccio più speculativo sino-indiano del buddhismo, con la struttura politico-sociale, d’origine cinese, del confucianesimo, ma soprattutto la religiosità shintoista, quindi autoctona e primigenia, della natura.
Kyoto era stata fondata nel 794 a immagine di Chang’an la cosmopolita capitale dei Tang (618 al 907), e attuale Xi’an, e rimase sede del governo imperiale per più di mille anni. Per due secoli, quello prima e quello dopo la stesura del Genji, si sviluppò un ambiente sociale di livello altissimo per l’impronta estetica e nazionale. Esso caratterizzò la società e l’epoca di Heian (794-1185) come espressione del più alto momento culturale della tradizione nipponica, la sua classicità. Suo fulcro, anzi unico centro polarizzatore fu la capitale imperiale stessa.
La cultura, la letteratura, l’arte, la concezione dello spazio, quello naturale come quelli architettonico e urbanistico, ma soprattutto il canone dei comportamenti, lo stile della vita concepita come un costante, festivo cerimoniale, costituirono il modello imprescindibile, una sorta di Stella Polare dello spirito, per la società giapponese di allora e di tutte le epoche successive anche nei momenti di massima depressione civile. La città di Heian divenne il simbolo dell’eleganza e la bellezza per antonomasia.
Vivere nella Kyoto dell’epoca Fujiwara, dal nome della famiglia che detenne il potere politico dall’894 al 1185, equivaleva a vivere nella civiltà e nella cultura – creare e respirare bellezza ed eleganza, fondare uno stile imperituro – così come esserne lontani significava trovarsi immersi nella barbarie.
L’intreccio del romanzo ruota per 54 capitoli intorno alla figura del principe Genji, in realtà il nome di una casata, ai suoi amori, ai suoi successi politici, mondani, letterari, architettonici, pittorici, ma anche intorno alle sofferenze, incomprensioni, gelosie, invidie, tradimenti che l’Autrice ritenne necessario di fargli attraversare perché potesse rappresentare il “Principe splendente”, l’immagine dell’uomo ideale rappresentante la cultura di Heian. Una cultura però che in parte Murasaki medesima contribuì a formare diffondendone quella immagine, spesso sublimata rispetto alla realtà corrente anche quella della corte. Certo, come nel Rinascimento italiano, il mondo meraviglioso di eleganza e qualità, di giardini e di architetture finissime, di religione fideistica dalle dolci immagini narrato da Murasaki era anche contornato da gente rozza e volgare, immerso in passioni di forza terribile e devastante, pari a quelle descritte nell’inferno dantesco. Ma il fatto rimane che l’arte di Murasaki trasformò, come appunto l’inferno dantesco o le opere d’arte e di cultura del Rinascimento, queste passioni grezze e violente in veicoli di conoscenza e perfino di bellezza. Il romanzo venne copiato e illustrato in maniera sontuosa, circa un secolo dopo essere stato scritto, in quella che è a tutto oggi l’opera più antica giunta a noi che ne contenga immagini e calligrafia: i Rotoli dipinti del racconto di Genji (Genji monogatari emaki).
Purtroppo sono rimaste solo diciannove tavole illustrative e ventotto di testo dalla squisita calligrafia della serie di forse venti rotoli con oltre cento illustrazioni intervallanti l’intera narrazione di circa trecentosettanta fogli: un quindicesimo dell’opera originaria. L’autore dei Rotoli di Genji è sconosciuto, ma è stato ipotizzato che l’opera sia stata realizzata da quattro gruppi di pittori che lavoravano sotto la direzione di un coordinatore, artista o no, di grande capacità estetica. Lo stesso vale per il testo calligrafato: nei ventotto frammenti rimasti sono state individuate cinque mani diverse. Lo stile è quello elegante e fluido in “caratteri di mano femminile” (onnade no kana) detto anche “a caratteri d’erba” (sogana) con riferimento all’uso in forte corsivo sia dei caratteri fonetici di recente invenzione sia di quelli cinesi.
Il testo scorre elegante e veloce su una carta decorata di bellezza senza pari e sembra cadere nel foglio con l’effetto di fiori che si stacchino dagli alberi. La bellezza ne risalta sulla carta impreziosita da ispessimenti, coloriture, inserzioni di scaglie e polvere d’oro e d’argento, sortendo l’effetto di paesaggi collinari avvolti nelle nubi. I fogli venivano così accuratamente preparati per ricevere il testo usando vari colori sulla carta spruzzata di foglia d’oro e d’argento in varie forme e dimensioni con motivi di foglie con spruzzate di polvere d’oro e d’argento per produrre una fantasia cromatica e di forme straordinaria. Il Genji, sia nella sua stesura letteraria, sia nei rotoli dipinti, ha condizionato la sensibilità estetica e la vita emozionale dei giapponesi per l’ultimo millennio. Esso emerge sulle altre opere coeve e successive e influenzò e continua a influenzare una lista interminabile di scrittori, letterati, artisti. Solo nel Novecento è stato più volte tradotto in lingua moderna da romanzieri eminenti come Tanizaki Jun’ichiro, Ishikawa Jun, Harumi Setouchi e anche dalla poetessa Yosano Akiko. La sua contemporaneità è sempre stata rinnovata con interpretazioni attraverso i secoli. Inoltre l’immaginario derivatone all’arte figurativa è pari a quello in letteratura. La massima parte della pittura della corte imperiale si sviluppò per dieci secoli sull’iconografia del Racconto di Genji e dei suoi rotoli dipinti con pitture, paraventi, libri e album di illustrazioni e oggi con film e manga. Il Genji rivela un mondo che ruota intorno alla polarità maschile, ma dove quella femminile sembra essere il motore di ogni cosa. In quella epoca la letteratura giapponese e soprattutto la narrativa erano dominate dall’aristocrazia femminile. Gli uomini sembravano disdegnare il racconto in lingua giapponese come forma espressiva non abbastanza elevata. Così, come Dante fece per il nostro, anche per Murasaki si può dire che “mostrò ciò che potea” il proprio di volgare in tutta consapevolezza, e dichiarandolo nel famoso passaggio sull’arte del romanzo. In quei secoli straordinari, pittura, letteratura e lingua nazionale fiorirono insieme influenzandosi reciprocamente e dando luogo a una trasformazione culturale di portata pari all’assorbimento della civiltà cinese nel sesto secolo o di quella occidentale nel ventesimo, ma senza manifestazione di violenza e con effetti ancora vivi e attivi a distanza di mille anni.
Giulio Ferroni
Il personaggio, dal nome esemplare di Vincenzo Malinconico, tiene banco tra fatti, misfatti, malintesi, deviazioni, sorprese: gestisce il racconto in prima persona, ma come “un narratore incoerente”, che, più che seguire uno sviluppo di eventi, giostra tra diverse situazioni, che suscitano il suo estro di filosofo “minimo”, dispensatore di riflessioni paradossali sulle contraddizioni infinite dell’esistenza, sull’assurdità di gesti e comportamenti propri ed altrui. È come uno Zeno Cosini in sedicesimo, che in fondo, a forza di non sapere, di equivocare sul proprio rapporto con gli altri, di prendere lucciole per lanterne, arriva ad una sua inaspettata felicità: e l’autore sa far valere questo collaudatissimo schema navigando tra oggetti, luoghi comuni, consuetudini ben note ai lettori, che fanno da spunto per battute “simpatiche” e talvolta prevedibili (e questo può offrire certo occasioni di piacevole lettura). Ammiro la bravura di De Silva, la sua versatilità (anche pensando ai caratteri molto diversi di sue prove precedenti): ma non riesco a ridere per le evoluzioni di questo ennesimo giocoliere, che a tratti arriva anche ad annoiarmi. Leggo invece “tutto d’un fiato” (come si dice) il libro di Lidia Ravera, Le seduzioni dell’inverno (Nottetempo), che ha anch’esso al centro (ma con narrazione in terza persona) un personaggio maschile che vive solo, da tempo separato dalla moglie: si tratta di un funzionario editoriale sulla cinquantina, conosciuto per il suo carattere freddo, “cuore invernale”, che, pur avendo avuto varie donne, non ha mai provato un vero amore per nessuna, e tanto meno per la moglie da tempo lasciata. Nella calda estate romana, per uno strano intreccio che si svelerà solo verso la fine, la sua casa viene “visitata” da una strana domestica, di cui finisce per innamorarsi, ma che poi improvvisamente sparisce. La scrittrice gioca con grande sottigliezza sul mistero rappresentato da questa domestica che mette in subbuglio la vita del protagonista, con una crescita progressiva, e non senza momenti di deformazione ironica, di sorpresa, esitazione, desiderio, passione. Il ritmo rapido e leggero, quasi svolazzante, della vicenda fa pensare ad intrecci sentimentali ed erotici settecenteschi, aerei, inafferrabili, giocati in superficie, eppure “pericolosi”: gioco dell’amore e del caso, della sorpresa, della finzione e della maschera,dello svelarsi e del ritrarsi; costruzione “teatrale” di una vendetta femminile nei confronti di quella “invernale” aridità maschile (in cui si affaccia anche la situazione del gioco d’azzardo). Insomma un piccolo gioiello, così essenziale e a suo modo perfetto: nell’ eccitazione che lo percorre si affaccia peraltro qualche tratto di perplessa malinconia, come nella presa d’atto del carattere illusorio dell’amore, dell’obliquità dei rapporti, dell’indeterminatezza della comunicazione.
Mi colpisce d’altra parte il fatto, sempre più frequente del resto, che una scrittrice abbia qui scelto di mettere al centro, come protagonista, un personaggio maschile (anche se, come ho detto, e come risulta chiaro dall’esito della vicenda che evito di rivelare, vi si può scorgere anche una sorta di femminile “vendetta”). A un personaggio maschile è affidata la narrazione in prima persona dell’altro romanzo della cinquina, L’illusione del bene (Feltrinelli) di Cristina Comencini: qui la voce narrante è quella di un cinquantottenne, anche lui marito separato, giornalista della Rai, con un passato di comunista, come quello di tanti intellettuali della sua generazione, che incontra Sonja, una bella immigrata russa e, turbato dalle sparse notizie che ella dà della sua famiglia e della persecuzione della madre dissidente negli ultimi anni del comunismo, va alla ricerca di testimonianze agli Open Society Archives di Budapest, e poi in Russia. Al di là dell’ esito di questa ricerca, lo sviluppo del libro, che si appoggia su una coscienziosa documentazione, vuol offrire un’assorta meditazione sulle contraddizioni del comunismo, sull’equivoco con cui tanti intellettuali vi si sono accostati ignorandone i misfatti, sul male prodotto da quel “sogno di una cosa”, sugli orrori usciti da quella “illusione del bene”. A parte il linguaggio un po’ neutro ed inerte, nel romanzo si può certamente riconoscere un possibile soggetto cinematografico, forse insidiato da un certo “buonismo” sentimentale (sempre troppo “cuore” nella Comencini), da certa troppo stretta chiusura nel punto di vista di quella borghesia intellettuale che non riesce a guardare fino in fondo agli errori e agli equivoci del passato e alla loro continuità con i disastri del presente, finendo per affidarsi ancora a qualche sua privata illusione.
Lasciato finalmente lo Strega, il recente ricordo mi conduce ad un altro libro già letto, scritto anch’esso da una donna con voce narrante : un libro che un terribile caso ha portato in libreria in due giorni dopo la morte dell’ autrice, La via di Fabrizia Ramondino (Einaudi), facendone così un amaro suggello, punto d’arrivo di una esperienza tra le più appartate e singolari della letteratura degli ultimi anni: proprio sollecitato da quella tragica combinazione del destino e parola finale, lo avevo proprio in quella stessa settimana, all’inizio dell’estate, e ora lo riprendo in mano, pensando allo sguardo lontano e doloroso della scrittrice, l’effetto di altrove e di silenzio che dava la sua presenza, la tensione che animava la fragile figura. Proprio in quella condizione conclusiva assegnata dalla crudeltà del caso, La via erompe con uno scatto essenziale e perentorio che poi si svolge e si frantuma in mille rivoli, quasi ad indicare, nonostante tutto, l’incompiutezza dell’esperienza della scrittrice, una sua resistente e insoddisfatta volontà di apertura, di affidamento al mondo. A parlare è qui un uomo di mare che si è trovato a soggiornare per un periodo piuttosto ampio in un immaginario paese del Sud, Acraia, che in realtà fa pensare a qualche cittadina tra il Sud del Lazio e il Nord della Campania, tra Terracina, Cassino, Sessa Aurunca, nella zona in cui la scrittrice era approdata negli ultimi anni. La vecchia Via consolare che percorre il Borgo del paese reca in sé il segno delle trasformazioni che si sono succedute dal tempo della guerra allo sviluppo caotico degli ultimi decenni; nella frenetica vita che la anima, tra il sorgere di nuove attività commerciali e il traffico dei camion che continuamente l’attraversano, si dà come una metafora reale dello sfaldarsi dello spazio e del tempo, dell’impossibilità di mantenere un equilibrio umano, di qualcosa che si oppone alla felicità delle vite che pure lì si affacciano e si cercano. Ancora una volta la Ramondino mostra qui la sua eccezionale capacità di ascoltare la vita dei luoghi, di sentire il loro respiro interno, la loro animazione pulsante, i loro tendere verso un possibile bene e il loro sfaldarsi e corrompersi, le minacce interne ed esterne che li corrodono. La via è aperta come un mare in cui arrivano i detriti del mondo, gli echi attutiti e persistenti degli orrori e delle guerre che agitano il pianeta, gli scampoli e gli scarti di ciò che ne mette sempre più in pericolo l’equilibrio vitale, che allontanano per sempre quelle ipotesi di luce, di pace e conciliazione che si sono affacciate nelle utopie e nelle speranze di una storia lontana e vicina. L’ospite di Acraia segue le molteplici vite che si affollano in quel periferico crocevia del mondo, ascolta i racconti slegati e frammentari dei vari personaggi che frequenta o che casualmente incontra: lacerti di vita autentica, “frammenti sparsi di un mosaico” che tarda a ricomporsi, un susseguirsi di divagazioni, di contatti imprevisti, uno sminuzzarsi di fatti e di fatterelli, un costituirsi di rapporti che lasciano margini di non comunicazione; e tante curiosità che non vengono completamente
soddisfatte, come se l’essere delle persone, anche di quelle più semplici e disponibili, covasse sempre dentro di sé qualche segreto, nascosto e insondabile anche quando forse non ha nulla di traumatico o sconvolgente. Resta qualche sconcerto per il fatto che, nel susseguirsi di voci diverse, nel vario incalzare di divagazioni (fino a nuovi dati che si aggiungono quando il narratore ha lasciato per sempre Acraia), viene come a slabbrarsi e a perdersi l’intensità di quello ascolto del pulsare della via, che in tutta la parte iniziale nel libro offre uno scordo davvero essenziale della lacerata Italia di oggi.
Ancora un protagonista maschile è al centro del libro di Francesca Sanvitale, L’inizio è in autunno (Einaudi): allo psichiatra Michele viene qui affidato il punto di vista di una narrazione che comunque è in terza persona e che è concentrata in gran parte su vicende dell’autunno in cui Michele sospende l’attività terapeutica per portare a termine un lavoro destinato ad un concorso universitario. Una scrittura che sa pazientemente e delicatamente avvolgersi intorno allo scorrere della vita, alle luci, ai colori, alle ombre che la abitano, ai turbamenti psichici e alle contraddizioni del sentimento, ai vuoti e alle incertezze della riflessione su di sé e
sul mondo, segue i pochi ma essenziali incontri che vengono a turbare e ad arricchire l’esperienza del quasi solitario psichiatra che, prossimo alla quarantina, credeva ormai che la sua vita fosse per sempre limitata agli incontri e agli scambi problematici con i pazienti, seguiti con vigile attenzione. Nel breve spazio delle strade dei quartieri intorno a San Pietro, tra il lento variare atmosferico della Roma autunnale, Michele si lascia catturare entro una vicenda legata al restauro ormai concluso del grande affresco del Giudizio universale nella Cappella Sistina, in un nesso di ossessioni che coinvolgono anche una donna condannata da un cancro alla testa e che in particolare chiamano in causa il restauro della testa del Cristo michelangiolesco. il romanzo viene così a sovrapporre le esistenze di fragili esseri umani, il loro ridotto mondo privato, alla formidabile suggestione tragica, alla potenza smisurata di quel capolavoro assoluto; e se le vicende private possono apparire a tratti troppo dimesse, se desideri e sentimenti dei personaggi si dispongono in misure troppo ridotte (non senza qualche leggera incongruenza), il continuo disegnarsi delle immagini del Giudizio, con gli sguardi di Michele alle illustrazioni di libri dedicati al restauro e le sue visite alla cappella Sistina, fa aleggiare su quella esistenza, su questo mondo di “dopo”, sulla così marginale realtà contemporanea, il “vento della fine”, l’assoluta negatività e distruttività di quel capolavoro che sembra condurre tutta la storia dell’umanità non certo verso una quiete finale, verso il rasserenante trionfo del piano religioso del cosmo, ma verso il nulla più radicale ed implacabile. Bellissime sono le pagine dedicate all’osservazione delle figure del Giudizio; e davvero suggestivo e carico di significati è il corto circuito costruito tra quella arte inarrivabile e l’eco che ella lascia sul presente da lei così lontano. Nella vicenda di ossessione che si costruisce intorno al Cristo del Giudizio si rivela del resto immediatamente un legame simbolico tra restauro artistico e psichiatria: le incertezze e i dubbi relativi al restauro (il restauratore Hiroshi è dominato dalla convinzione paranoica che l’originale della testa del Cristo sia andato misteriosamente distrutto nel corso del lavoro e che a lui ne sia stata affidata la ricostruzione, fatta passare per l’originale) rivelano uno stretto rapporto con quelli della terapia, con i processi che in essa , hanno luogo, con la necessità e il rischio di trarre alla luce traumi nascosti, con l’incertezza e l’imprevedibilità della guarigione. Libro serio e severo, a tratti anche dolce, in cui l’effetto di inizio affidato allo stesso titolo si specchia ansiosamente con quello di fine che sprigiona sulla rovinosa potenza delle immagini di Michelangelo.
Alberto Ghidini
“Per un quarto di secolo ho cercato di evitare di usare il microfono… Mi rifiuto di trasformarmi in un altoparlante” disse Ivan Illich nel corso di un incontro pubblico nel 1990: era persuaso del fatto che fosse quanto mai necessario salvaguardare il “luogo del parlare” dall’offensiva di una pratica amorfa e standardizzante della comunicazione di massa, alla quale si sentiva specialmente ostile per quella sua sciagurata capacità di sequestrare, codificare e normalizzare il discorso, compromettendo qualunque abbozzo di ricerca. Per questo, due anni prima, non aveva accolto di buon grado il progetto di un ostinato giornalista della Canadian Broadcasting Corporation di nome David Cayley, suo grande estimatore sin dalla fine degli anni ’60, che si era messo in testa di “analizzare” il suo pensiero attraverso uno schema di interviste destinate alla radio. Interviste che, del tutto imprevedibilmente e improvvisamente, Illich arrivò ad accordargli con un “atto di obbedienza” che – per quanto “refrattario” -lasciava intendere un nascente senso di amicizia.
I due, per la verità, diventarono amici proprio a partire da quella non facile “sperimentazione filosofica”, cui seguì la messa in onda sulla Cbc Radio di cinque puntate della serie “ldeas”, sotto il titolo, ispirato da un verso del poeta cileno Vicente Huidobro, Un po’ luna, un po’ commesso viaggiatore. Conversazioni con Ivan Illich, e, poco più tardi, l’uscita di Ivan Illich in Conversation, un libro magistralmente “assemblato” da Cayley utilizzando la trascrizione delle registrazioni del programma, apparso in Italia da Elèuthera nel 1994 e da poco riproposto dalla stessa editrice milanese (Conversazioni con Ivan Illich. Un archeologo della modernità, a cura di Franco La Cecla, traduzione di Stefano Stogl, nuova ed. 2008, pagine 220, euro 18).
Dietro una spinta patologica
Da allora, il legame tra Ivan Illich e David Cayley divenne sempre più stretto e “conviviale”, tanto da portare Illich – che nel frattempo non aveva superato la sua avversione per i microfoni – ad accettare di registrare, tra il 1997 e il 1999, una nuova serie di interviste, anche queste trasmesse nei primi giorni del 2000 sulle frequenze della radio pubblica canadese, e la cui trascrizione viene ora pubblicata da Quodlibet nella collana “Verbarium”, inaugurata nel 2007 per volontà di Michele Ranchetti, che prima della scomparsa predispose l’allestimento del volume intitolandolo Pervertimento del cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo, chiesa, modernità (a cura di Fabio Milana, traduzione di Aldo Serafini, pagine 155, euro 18). Già dal titolo si intuisce la radicalità della lettura proposta, che illustra l’idea secondo cui le società moderne tradiscono l’annuncio evangelico nella sua essenza.
Anche in questo caso il “montaggio” di Cayley è impeccabile e getta una luce nuova sui temi più “classici” della ricerca di Illich, che qui vengono integrati dalla indagine sul nucleo religioso “perverso” delle istituzioni moderne: istituzioni che, applicando scrupolosamente il messaggio cristiano “distorto”, non fanno che aumentare e aggravare, nella dimensione sociale, quella “spinta patologica” osservata anche da Gregory Bateson in un suo saggio del 1978 intitolato Sintomi, sindromi, sistemi (pubblicato nella raccolta Una sacra unità, trad. di Giuseppe Longo, Adelphi, 1997). Una spinta patologica che dovrebbe portarci, più che ad “accusare il sistema”, a esaminare e discuterne i presupposti epistemologici.
Del resto Illich lo aveva già denunciato nei suoi precedenti lavori: la scuola invece di educare blocca l’apprendimento, gli ospedali invece di guarire fanno ammalare, la prigione e le misure repressive aggravano la criminalità, e così via. Nulla di più vicino alla realtà che ci riguarda, con il prepotente ritorno di tutte quelle idolatrie legate all'”istruzione”, al “potere medico”, alla “sicurezza”. Un esempio cruciale dello “snaturamento” della virtù cristiana Illich lo individua nel millenario fraintendimento della parabola del buon Samaritano. La vicenda, narrata nel Vangelo di Luca, descrive perfettamente gli orizzonti imprevisti che Gesù sperava di schiudere ai suoi ascoltatori. “Chi è il mio prossimo?”, viene chiesto a Gesù. E lui risponde raccontando la storia di un uomo che nel tragitto da Gerusalemme a Gerico viene spogliato, picchiato dai briganti, dunque lasciato mezzo morto sul ciglio della strada. Un sacerdote passa di li, lo vede e tira dritto senza soccorrerlo, così anche un altro funzionario del tempio. A fermarsi per prestargli aiuto sarà uno straniero, un Samaritano, nemico del popolo d’Israele, che lo medica e lo trasporta in una locanda per farlo curare a sue spese. È un racconto, questo, capace – secondo Illich – di annunciare una libertà senza precedenti nel mondo antico, dove la morale si applicava soltanto all’interno di un ethnos, e cioè entro i confini di un determinato popolo, di un “noi”, storicamente dato, in un determinato luogo, nell’ambito di una determinata tradizione.
Tuttavia, e “tragicamente” secondo Illich, le interpretazioni di questo passo sono andate nella direzione di mostrare come ci si dovrebbe comportare nei confronti del prossimo, ribaltando il messaggio che Gesù intendeva trasmettere raccontando quella storia: che l'”altro”, il “prossimo”, non è determinato dai nostri “confini etnici”, ma da noi stessi. Un concetto che si corrompe, dice Illich, quando viene definito come qualcosa che può essere “fatto molto meglio” da “istituzioni preposte” – in primis dalla Chiesa dei moderni “preti-funzionari”, o “preti-manager” – anziché da gruppi di cristiani, movimenti e comunità di base fedeli a quello che Enzo Mazzi ha reso, in un bel libro appena pubblicato da manifestolibri, come il “carattere ribelle del primo cristianesimo” (Cristianesimo ribelle, pp. 190, euro 20).
Corruptio optimi pessima, recita un antico detto che Illich era solito ripetere. Il “meglio” è l’incontro tra due uomini, un Samaritano e un giudeo, che cambia entrambi in profondità, facendoli uscire dal loro “io”, plasmato dall’orientamento antropologico al quale ciascuno dei due, almeno fino a quel momento, prende parte. Il “peggio” è il risultato del processo di istituzionalizzazione di questo incontro, che attecchisce nel senso comune occidentale l’idea che gli esseri umani siano costituiti da bisogni e, di conseguenza, che sia necessario organizzare la società al fine di soddisfarli attraverso lo sviluppo di forme di potere che dovrebbero “gestire”, “assicurare”, “garantire” l’amore per il prossimo. In questa ottica, il giudeo abbandonato nel fosso rappresenta un “problema per la società”; che soltanto una risposta programmata e pianificata “minuziosamente” da un’ingegneria sociale concepita per soddisfare “meccanicamente” il “bisogno dei bisognosi” dell’uomo occidentale moderno, può risolvere. Si potrebbe dire – estremizzando – che, iniquamente, nella modernità, quel moribondo abbandonato sulla strada è stato “commutato” in un Tamagochi, il giocattolo digitale giapponese fino a poco tempo fa molto popolare (non solo) tra i bambini che, come ha acutamente osservato il filosofo sloveno Slavoj Zizek, ci dice molto di più di tanti trattati accademici sullo “stato dell’amore per il prossimo” al giorno d’oggi. Del resto anche Illich, in un fulminante intervento (circolante in rete col titolo Il prossimo non è un’istituzione) tenuto a San Rossore il 18 luglio del 2001 durante un seminario promosso dalla Regione Toscana sui temi della globalizzazione e convocato in occasione di quel triste, per molti motivi, “supermarket di propostine” che fu il G8 di Genova, proprio riferendosi al meeting genovese, dichiarò: “là sono convinti, dentro e fuori – globofili e globofobi – che il mondo resta un mondo di bisognosi”.
In un certo senso Pervertimento del cristianesimo, autorevolmente definito da Cayley come il “testamento” di Illich, permette una rilettura dell’autore attraverso “muovi occhiali”, costituiti dai temi fondamentali che attraversano tutta la sua opera, offrendo una base molto solida da cui cominciare per contestare le aberrazioni delle istituzioni totali, ma anche le idee di “Stato”, di “democrazia”, lo “sviluppo” nei paesi terzi e le proposte di “rinnovamento sociale” in Occidente, il potere economico-politico delle corporations, fino al tentativo capitalista di rifare il mondo sulla base del principio edonista dell’infinita soddisfazione dei bisogni (falsi e artificiali) dei consumatori, “i nuovi fedeli” della “nuova religione”, il capitalismo (lo sostiene Peter Sloterdijk, e probabilmente lllich sarebbe d’accordo).
“Fuori moda” – come ha fatto presente La Ceda nella sua prefazione alle Conversazioni – rispetto ad alcune delle più grandi figure a lui parallele (da Foucault a Baudrillard a Debord), lllich ha saputo rintracciare l’archeologia delle nostre dipendenze attraverso una raffinatissima indagine della “struttura” delle istituzioni moderne, delle loro architravi, rappresentate dai concetti di “cittadinanza”, “responsabilità”, “potere”, “bisogni-rivendicazioni-diritti” eccetera. Aveva intravisto il declino di questi ideali, suggerendo di intenderlo non come una minaccia per la sopravvivenza dell’ “ordine democratico”, ma come la “fine di un’ epoca” che apre un’inedita possibilità di accesso a un nuovo spazio, che lui definì il “mondo della conspiratio” o dell'”amore powerless”, senza il potere. Un mondo che Illich scelse in prima persona come progetto di “pedagogia politica”, non mettendosi al servizio degli ultimi, ma – scrive Milana nella sua densa postfazione al Pervertimento – “in fila tra loro”, cercando di adottarne sempre il punto di vista e assumendo un atteggiamento powerlessness, manifestamente anti-istituzionale, sin dai primi anni di sacerdozio attivo, trascorsi tra una parrocchia portoricana di Manhattan, a New York, e il Centro lntercultural de Formación, poi divenuto de Documentación, da lui fondato a Cuernavaca, in Messico, sacerdozio al quale rinunciò definitivamente nel 1969, dopo un aspro confronto con l’autorità ecclesiastica della Congregazione per la Dottrina della Fede (erede moderna dell’Inquisizione).
Un Intellettuale extra-vagante
Aveva settantasei anni, Illich, quando morì a Brema, nel suo studio in Kreftlingstrasse, il 2 dicembre 2002: stava preparando – come testimoniato da Barbara Duden e Silja Samerski – il seminario sulla corruptio optimi, che si era deciso a tenere, nonostante le incertezze e i dolori invalidanti della malattia che da anni sopportava stoicamente e che gli aveva sfigurato il volto, a ragione definito “uno dei più belli del pianeta”.
Mai come oggi ci manca un intellettuale di questo tipo, “extra-vagante”, in continuo movimento fuori dalle piste battute, “programmaticamente” staccato da schemi di pensiero e riferimenti dati.
Al convegno in memoriam, che si svolse a Lucca nel giugno del 2003 Samar Farage ha ricordato Illich raccontando come una volta – lui che negli anni giovanili studiò mineralogia e cristallografia a Firenze – si descrisse come uno “xenocristallo”, un cristallo di natura estranea rispetto alla roccia nella quale è incorporato. La “roccia” nella quale era incluso fu il suo tempo (il nostro tempo), con cui Illich mantenne un dialogo costante e al quale guardò sempre con “partecipazione”, ma anche con quel “distacco necessario” per coglierlo e interrogarlo nella sua realtà storica.
Se, come pare abbia detto una volta Karl Wallenda, leggendario funambolo statunitense di origini tedesche, “stare sul filo è vivere”, prima di morire lvan Illich – che a Los Angeles, nel marzo del 1996, davanti a una platea di filosofi cattolici, affermò di essere stato costretto, nella sua esperienza di docente, a fare “molti numeri di equilibrismo” – avrebbe certamente potuto “confessare di aver vissuto”. E la sua vita, come pure la sua opera sono corse “sul filo”, prendendosi tutti i rischi del caso, e evitando di finire nello scatolone politically correct del “pensiero ecologico” o, peggio ancora, in quello degli “stili di vita new age” – come, invece, purtroppo, è toccato, totalmente o almeno in parte, ad altri “equilibristi”.
Maria Teresa Carbone
Per celebrare quello che pomposamente, ma a ragione, viene definito il padre della letteratura africana contemporanea, il nigeriano Chinua Achebe, una grande festa è stata organizzata a New York, in marzo. Sono passati cinquanta anni da quando uscì il suo romanzo-spartiacque, Things Fall Apart (Il crollo, edizioni e/o), e tanti scrittori, da Toni Morrison a Michael Cunningham, hanno voluto rendere omaggio di persona all’anziano narratore. In mezzo a loro, anche due giovani romanzieri nigeriani ormai piuttosto affermati, Chris Abani e Chimamanda Ngozi Adichie, che hanno espresso la loro gratitudine ad Achebe, l’uno confessando “la soggezione che si prova davanti al potere dell’immaginazione umana di intervenire nelle nostre vite”, l’altra ricordando il turbamento che le provocò la prima lettura del Crollo. In quel romanzo, ha notato Adiche, “avvertii un gentile rimprovero: non osare nemmeno pensare, sembrava dirmi Achebe, che il tuo passato non sia complesso”.
Se il ribaltamento dello stereotipo che vede nell’Africa una terra semplice e primitiva ha costituito il principale insegnamento di Achebe alle successive generazioni di autori africani, la presenza del quarantenne Abani e della trentenne Adichie alla festa per l’anniversario di Things Fall Apart è stata la concreta testimonianza di come proprio in Nigeria questa eredità sia stata raccolta da una nuova e nutrita leva di scrittori. In tutto il continente infatti non c’è oggi paese, ad eccezione forse del Sudafrica, che possa vantare una tale quantità di giovani romanzieri, accolti con interesse e a volte con entusiasmo dalla critica e dal pubblico internazionale. “Sembra che gli dei della letteratura abbiano ufficialmente designato il 2007 come anno dello scrittore nigeriano” – scriveva lo scorso agosto sul “Times” un altro esponente di questa nouvelle vague, il quarantenne Helon Habila, il cui romanzo di esordio, Angeli dannati, è uscito tempo fa per Sartorio.
Un fenomeno per nulla recente.
Nell’arco di pochi mesi diversi scrittori nigeriani hanno avuto riconoscimenti importanti – fra l’altro il Booker “internazionale” assegnato proprio ad Achebe per il complesso della sua opera – mentre nelle librerie approdava un nugolo di nuovi libri: da The Virgin of Flames di Chris Abani (tradotto qui da Fanucci con lo sciagurato titolo L’ambigua follia di Mr Black), a Starbook di Ben Okri, da Burma Boy di Biyi Bandele (appena edito da Bompiani come Alì Banana e la guerra) a The Opposite House di Helen Oyéyemi, la giovane e dotata autrice della Bambina Icaro, uscito in Italia prima per Rizzoli e poi misteriosamente trasmigrato, con l’etichetta non del tutto appropriata di libro “per ragazzi”, a Fabbri. In realtà, come anche Habila ricordava, questa fioritura di talenti in Nigeria non è un fenomeno recente: Chinua Achebe (e Amos Tutuola) a parte, il primo Nobel per la letteratura assegnato a un africano è andato, più di vent’anni fa, nel 1985, al drammaturgo e romanziere Wole Soyinka, nato nei pressi di Ibadan, nella Nigeria occidentale. E fra gli autori di una ipotetica “generazione di mezzo” non si può trascurare Ken Saro- Wiwa, noto soprattutto per la sua militanza politica (pagata con la condanna a morte nel 1995), ma anche autore dei bei racconti di Foresta di fiori, uscito nel 2004 per Socrates, e del romanzo Sozaboy, riproposto quest’ anno da Baldini Castoldi Dalai.
Proprio Sozaboy è stato uno dei primi romanzi ad affrontare una guerra dimenticata dall’occidente e per molto tempo rimossa in Nigeria, quella che si combatté fra la stessa Nigeria e il Biafra secessionista (e poi sconfitto) fra il 1967 e il 1970. Ancora questo conflitto è al centro della seconda prova narrativa di Chimamanda Ngozi Adichie dopo l’esordio promettente dell’Ibisco viola (Fusi orari 2006), al cui centro si stagliava la figura inquietante di un facoltoso cristiano convertito, intransigente e violentissimo nel suo tendere a una impossibile, e indesiderabile, perfezione. Uscito per Einaudi nella bella traduzione di Susanna Basso (pp. 450, euro 19,50), Metà di un sole giallo – il titolo del libro allude al mezzo sole che campeggiava sulla bandiera biafrana – conferma il talento della scrittrice che qui rivela una mano sicura nel tessere una trama più complessa, intrecciando le vicende personali di una famiglia con la storia pubblica del suo paese. Anzi, se un difetto ha il libro, è proprio quello di apparire come un congegno fin troppo oliato, quasi che l’autrice avesse già in mente, scrivendolo, di mettere le basi per una sua successiva, inevitabile, trasposizione cinematografica. In una intervista, del resto, Adichie ha dichiarato per scherzo (ma forse non troppo) di avere introdotto fra i protagonisti un personaggio bianco perché ancora adesso Hollywood non ama i film “all black”.
Tre le figure-chiave
E cinematografica è la scansione del romanzo, diviso in quattro parti, la prima e la terza ambientate nei primi anni Sessanta, la seconda e la quarta durante la guerra civile, così che gli intrecci sentimentali dei personaggi si riallineano di continuo in un gioco di flashback e flashforward. Un gioco accentuato dalla scelta dell’ autrice di procedere nella narrazione adottando di volta in volta la prospettiva di tre figure-chiave: un ragazzino, Ugwu, che ha appena lasciato il suo villaggio per andare nella città universitaria di Nsukka (la stessa dove Chimamanda Adichie, figlia di accademici, ha trascorso l’infanzia) a servire in casa di Odenigbo, impegnato e carismatico docente di matematica; la bella Olanna, che dopo gli studi londinesi ha preferito abbandonare una vita privilegiata a Lagos per insegnare a Nsukka accanto a Odenigbo di cui è prima l’orgogliosa amante e poi la moglie; e l’inglese Richard Churchill il quale, giunto in Nigeria per condurre degli studi sull’arte tradizionale Igbo, si è innamorato della l sorella di Olanna, la intelligente e magnetica Kainene, e si divide fra la sua casa di Port Harcourt (da cui la donna conduce con mano salda gli affari di famiglia) e Nsukka, dove può compiere le sue ricerche alle quali vorrebbe affiancare la scrittura d un romanzo.
Queste relazioni, complicate dall’intervento della madre di Odenigbo, contraria al matrimonio del figlio con una donna indipendente come Olanna, passano in secondo piano quando a Nigeria, in seguito a due colpi di stato, fra il gennaio e il luglio del 1966, piomba nell’instabilità. Le tensioni etniche nei confronti degli Igbo portano l’anno dopo alla proclamazione della repubblica indipendente del Biafra e alla guerra civile. Per Olanna e Odenigbo, insieme al fedele Ugwu, così come per Richard e Kainene, cominciano tempi durissimi. Finite le accalorate, e accademiche conversazioni di Nsukka, si apre una fase di spostamenti forzati e di violenza. Qualche speranza di vittoria lascia presto lo spazio alla constatazione che il nuovo paese africano, riconosciuto da pochissimi stati, deve e affrontare un avversario militarmente ben più ne forte: il Biafra è solo e affamato, ma gli articoli di Richard chiamato a raccontare al mondo quanto sta accadendo, non danno risultati. In m questo clima di disfatta, all’interno di un campo profughi dove la morte per fame è una esperienza quotidiana, le due sorelle si ritrovano e condividono di nuovo quella profonda relazione affettiva che precedenti scontri e incomprensioni sentimentali avevano interrotto. Ma la fine della guerra, con il suo peso di amarezza e desolazione, coincide per i protagonisti con una perdita irreparabile. I primo a proiettarsi di nuovo verso il futuro sarà Ugwu che, dato per morto in uno scontro a fuoco, ritorna a casa, assumendo su di sé il compito di testimone che era stato di Richard.
Affidando al semplice ragazzo di campagna, e non al colto espatriato britannico, la scrittura di un libro sull’atrocità della guerra del Biafra (“il mondo taceva mentre noi morivamo” è il titolo, che cadenza gli ultimi capitoli di Metà di un sole giallo), Chimamanda Adichie sembra ricollegarsi al tema di fondo di Things Fall Apart, la riappropriazione del passato africano, remoto e prossimo, da parte degli scrittori del continente. Forse per questo, non pochi critici, soprattutto americani, hanno paragonato la giovane scrittrice appunto ad Achebe il quale, da parte sua, le ha riconosciuto “il talento degli antichi cantastorie”: un complimento per certi versi fondato, visto che il romanzo è scorrevole e avvincente, i personaggi sono credibili, i toni alternano giudiziosamente ironia e dramma.
Political correctness a parte, però, in Metà di un sole giallo, più che una affinità con la maestria stilistica di Achebe (a suo tempo così audace nell’impastare il proprio impeccabile inglese con modi di dire e proverbi igbo), si avverte l’influenza dei corsi di creative writing seguiti negli Stati Uniti dall’ autrice, l’esecuzione diligente e riuscita di una ricetta imparata bene. Che non è poco, ma non basta – almeno per ora – per gridare al capolavoro.
Eppure, affiancando il romanzo di Chimamanda Adichie agli altri che sono usciti negli ultimi tempi, l’impressione di vitalità della nuova narrativa nigeriana resta innegabile. E non tanto perché si delinei una comune linea di tendenza, ma al contrario per le differenze che caratterizzano i diversi autori: alla prosa magmatica e “metropolitana” di Abani, che prima da Lagos e ora da Los Angeles scandaglia gli effetti positivi e negativi della “mitologia dell’imperialismo”, si oppongono le atmosfere misteriose evocate da Helen Oyeyemi, attratta, nella Bambina Icaro come nell’ultimo The Opposite House, dal crinale impalpabile fra realtà e magia, mentre al furore del soldato-bambino protagonista di Bestie senza una patria di Uzodinma Iweala (Einaudi 2006) fanno da contrappunto i personaggi malinconici e estraniati di Segun Afolabi nella raccolta di racconti A Life Elsewhere (Jonathan Cape 2006).
Dai sogni della diaspora
Figlio di diplomatici, Molabi ha lasciato giovanissimo la Nigeria e ha vissuto la maggior parte della sua vita all’estero. Non è quindi sorprendente che la scrittura di Afolabi non prenda come riferimento Achebe o Soyinka e si modelli semmai su quella di Kazuo Ishiguro, un altro autore anglofono che, segnato da un precoce trapianto culturale, ha scelto di scrivere in un inglese per nulla ibridato, tanto all’apparenza reticente quanto chirurgicamente preciso nel descrivere situazioni e stati d’animo attraverso una costante attenzione alle sfumature verbali. Tuttavia nel suo romanzo Goodbye Lucille (Jonathan Cape 2007), anche l’algido Afolabi mette in scena un “ritorno a Casa”, quel ritorno a casa che è forse nei sogni di tutta la diaspora nigeriana. Scriveva ancora Habila sul “Times” che in Nigeria il “gene” dello storytelling è particolarmente sviluppato, perché “la maggior parte delle infrastrutture sociali non funzionano, e la maggior parte dei sogni non si realizzano, per cui il solo modo di trasformare le sconfitte in vittorie o la vergogna in orgoglio è attraverso le storie”. Già un paio di case editrici coraggiose però si sono fatte avanti, portando nelle librerie di Lagos e di Abuja le opere di Adichie, dello stesso Habila e di altri autori, e organizzando addirittura dei tour promozionali. Un primo passo è stato fatto, insomma, e se si pensa che la Nigeria è il paese più popoloso in Africa (l’ottavo in tutto il mondo), un intero vivaio di nuovi scrittori è là che ci aspetta.
Franco Serpa
“Hildesheimer mi portò a un incontro, che si teneva al castello di Berlepsch, vicino a Gottinga, alla fine dell’ottobre 1952, del Gruppo 47. Tra le molte personalità illustri che si erano riunite quel giorno, vi erano quasi esclusivamente uomini […]. Ma era presente anche un essere incantevole, con grandi occhi magnifici, ciglia tremanti e mani splendide, la cui aura emanava sensibilità, la qualità in persona, una creatura di pura grazia e fascino, come se fosse nata da un usignolo” (H.W. Henze, Canti di viaggio. Una vita, li Saggiatore, 2005). “Cara signorina Bachmann – non la rivedrò mai più? Lunedì mattina parto per Colonia, se vuole, la prendo con me. Telefonerò nuovamente. Le Sue poesie sono belle, e tristi, ma gli stupidi, persino quelli che si danno l’aria di “capirle”, non le capiscono. Adieu Suo hwh” (lettera, 1 novembre ’52).
Sono queste righe il ricordo di Henze del suo primo incontro con Ingeborg Bachmann, e poi la sua prima lettera, scritta a lei qualche giorno dopo quello incontro. Il ritratto della Bachmann nel ricordo giovanile di Henze è luminoso e perfetto, come sa chiunque abbia avuto il privilegio di conoscerla. Detto in breve, lei aveva, e donava subito al primo incontro, grazia e umanità inattese: che era il modo, per lei naturale, di preparare gli altri alla sua geniale intelligenza. Anche Henze, come doveva accadere, ammirò in lei, subito, l’unione di riservata eleganza e di genio, e già in quel primo biglietto avanzò quasi un suo diritto a essere un suo amico scelto “die idioten verstehen nicht; gli stupidi non capiscono”). Come, appunto, avvenne: e meno di un anno dopo Henze e la Bachmann, complici anche l’Italia e Ischia, erano passati al ‘tu’ (lettera di Henze, 24 ottobre ’53).
Si era iniziata in quei giorni di Gottinga e poi nei mesi seguenti un’amicizia alta, che durò ventun anni precisi, un’intesa tra loro di fede esistenziale e di poesia, di convinzioni civili e politiche, un’alleanza di affetti, infine, tra due artisti di primo ordine. I segni della stima, della simpatia, della delicatezza di sentimenti, che Henze e la Bachmann ebbero tra loro reciproche, e soprattutto della loro operosa serietà e anche del fine buonumore – i segni, dicevo, li abbiamo tutti, o meglio, purtroppo, quasi tutti, nelle lettere che si sono scritte quando erano lontani, pubblicate in Germania nel 2004 e ora in italiano dalla torinese EDT: Ingeborg Bachmann-Hans Werner Henze, Lettere da un’amicizia (a cura di Hans Höller, traduzione dal tedesco di F. Maione, pp. 400, € 29,00): le lettere sono ‘ quasi tutte ‘ perché alcune (o molte?) lettere di lei sono state smarrite nei tre o quattro grandi traslochi che Henze ha fatto (come spiega egli stesso con rimpianto nella ‘Premessa’ al libro). Le lettere di Henze sono 219, quelle della Bachmann solo 33. Lo scarto dipende non soltanto dai traslochi, ma anche dalla angelica lentezza di lei, che spesso attendeva, rimandava, si smarriva (e lo dicevano i suoi “grandi occhi magnifici”, terribilmente miopi). Ma era lei la prima a incolparsi di indecisione e di ‘pigrizia’ e Henze, impaziente e, lui, ordinato e laboriosissimo,la spronava a rispondere alle lettere e a concludere le poesie e i romanzi (B. a H., 31 dicembre ’55: “Cerco di sbrigare un sacco di cose, non è davvero molto, ma sono cose che mi costano fatica e i dubbi, quando scrivo, talvolta si ingigantiscono al punto che in certi giorni non riesco quasi ad andare avanti”; B. a H., 23 marzo ’58: “E adesso sono di nuovo qui (a Berlino, dove aveva ascoltato per la prima volta il Re Cervo di Henze, con ammirazione) e medito sulla mia vita con lo sguardo al lavoro, perché mi accorgo sempre di più di quanto poco è stato fatto e il Re Cervo e altro ancora mi hanno dato sempre da pensare e mi sono vergognata, pigra e indolente come sono stata spesso”; oppure H. a B., 26 marzo ’57: “Lavora, lavora, disciplina!” e 18 novembre ’66: “Spero che sei stata brava e hai lavorato diligentemente, nonostante le tempeste. Ho pensato spesso a te e mi sono chiesto se lavori come mi aspetto e desidero, perché desidero e intendo leggere presto un buon libro. Su datti una mossa. Per Natale deve essere pronto e già da Piper. E poi gli altri due volumi. Se no pian piano finisci nel dimenticatoio! Perciò sono molto in ansia e felice al solo pensiero”). E ci sono non solo le tante espressioni di attenzioni, preoccupazioni, sollecitudini private ma anche alcune notizie, da lei e da lui, di incantevoli civetterie e vanità in una donna di tale rango intellettuale: lo stile e l’umanità di entrambi ne hanno ulteriore ricchezza.
Come abbiamo appena visto, Henze e la Bachmann si scrivevano oltre che in tedesco anche in italiano (e quando erano in Italia lo parlavano quasi sempre), in francese, in inglese. È stata, credo, una tacita alleanza tra loro, quella di non voler ‘pensare’ solo in tedesco e di tenersi familiari e propri i modi, i pensieri, i caratteri spirituali di tutti i paesi. Ci fu in ciò anche una certa intesa snobistica, una compiaciuta pratica cosmopolita (e un’insofferenza antitedesca), soprattutto nei primi anni dell’amicizia, ma poi la felice prontezza nel ritrovarsi in ogni lingua divenne in loro perfettamente naturale. Naturale al punto che qualche lettera di contenuto personale, serio, e soprattutto doloroso (i pochi, lacerati riconoscimenti che ei fa del suo amore impossibile sono capolavori di autenticità, che varrebbero già essi soli tutto il libro) è scritta in italiano. Do pochi esempi, che vorrei inducessero a leggere questo libro straordinario.
B. a H., 17 agosto ’56: “Se non sapessi che ti spavento, ti direi ancora una volta che io t’amo. Ma questa volta non debbi sentire un peso o obbligo. Lo dico per darti questo bel niente che posso ancora darti, almeno per distruggere un pensiero come il tuo ultimo”, e un anno dopo, fine aprile ’57: “se avrai questa lettera – così cominciano spesso le lettere prima del suicidio, ma la mia non è di questo genere, magari una di vivere e qualcosa mi dice che sarai tu a comprendermi, questa decisione insolita che mi conduce non so quanti kilometri da qui. […]Non è soltanto passione che mi spinge a questa decisione, ma molto di più, è se vuoi passiossione, ma in se una comprensione del vuoto che ho sofferto qui e che soffro artisticamente.
[…]Ti amo ancora, ma lo farei sempre, ma è un altro amore, quello che non conosce Zweifelssorge [ansia del dubbio], puro e quello del fratello …”. La (probabile) risposta di Henze a una così penosa ammissione è una lettera angosciata e stranamente contorta, stesa in tedesco e in italiano e alla fine in italiano e in inglese, a righe alternate! E dice cose esasperate, dure a stesso, bellissime.
Henze e la Bachmann hanno collaborato per Der Idiot (mimodramma, con un monologo del principe Myshkin scritto da I.B., 1953, poi Paraphrasen Über Dostojewsky 1991), Nachtstücke und Arien (tre Notturni sinfonici e due Arie su poesie di I.B., 1957), Der Prinz von Homburg(adattamento del dramma di Kleist fatto dalla B. per la musica di H., 1960), Der junge Lord (uno squisito libretto della B.,1965), Lieder von einer Insel (cinque Fantasie corali su poesie di I.B., 1967). Della loro collaborazione artistica da questa raccolta si ottiene poco perché in quasi tutti i casi, se ebbero da riflettere e da discutere, lo fecero di persona nei lunghi periodi di vicinanza (la Bachmann abitò a Roma in diverse occasioni, anche per anni) e anche di convivenza (prima a Ischia, poi durante i giorni in cui la Bachmann era ospite nella villa di Marino). Poteva essere un epistolario più magro, certo, di quello tra Strauss e Hofrnannsthal, ma di interesse non troppo minore per le questioni del teatro musicale moderno, almeno per il fatto che Henze e la Bachmann si sono bene intesi e amati, cosa che non fu per quei due sommi.
Felice Piemontese
Il “caso Irène Némirovsky” si arricchisce di sempre nuovi elementi, man mano che la pubblicazione delle sue opere da parte della casa editrice Adelphi va avanti (sono finora apparsi cinque romanzi e un racconto lungo).
Tutto cominciò, come molti ricorderanno, con la pubblicazione della Suite francese (2004), un bellissimo romanzo tragico-picaresco sull’invasione nazista della Francia, best seller mondiale, che riportò all’attualità il nome di questa scrittrice fino a quel momento del tutto dimenticata. Nata a Kiev nel 1903, figlia di un ricco banchiere rifugiato in Francia allo scoppio della Rivoluzione, la Némirovsky esordì giovanissima nelle lettere, ottenendo subito un vivo successo con romanzi come David Golder. Era ebrea, ma le sue descrizioni del mondo ebraico e dei personaggi che lo popolavano erano talmente crude e impietose da attirarle l’accusa di antisemitismo.
Del resto sembra accertato (come dice la biografia di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt recentemente pubblicata in Francia) che abbia collaborato con vari pseudonimi – durante l’occupazione nazista – a giornali d’estrema destra (ma anche a uno di sinistra). In più, c’è una conversione in extremis al cattolicesimo, fatta solo ed esclusivamente (la Némirovsky era agnostica) per mettere al riparo, se stessa e la sua famiglia dai pericoli incombenti. Per tragica ironia della sorte, tutto questo non le impedirà di essere arrestata dalla polizia francese nel luglio del 1942 ed essere deportata ad Auschwitz, dove morirà dopo qualche mese.
Il testo della Suite francese è rimasto per decenni in un baule, fino a quando le figlie della scrittrice hanno trovato il coraggio di portarlo alla luce e di darlo alle stampe. E ovviamente, dopo il successo mondiale del romanzo, gli editori si sono buttati a pesce sui libri pubblicati in precedenza dalla scrittrice, che negli anni Trenta (dopo l’esordio avvenuto nel ’29) era già considerata molto più di una promessa delle lettere francesi.
Una conferma ulteriore delle sue qualità viene dalla pubblicazione, sempre da parte di Adelphi, di un romanzo intitolato I cani e i lupi, apparso in Francia nel 1940 (la traduzione è di Marina Di Leo, pagine 234, 18,50euro) e che è tra i più significativi tra quelli pubblicati dalla scrittrice.
La prima edizione del libro recava un’avvertenza dell’autrice in cui si sottolineava il fatto che il romanzo non poteva non essere “una storia di ebrei” e che lei, convinta che “in letteratura non ci sono argomenti tabù”, aveva descritto l’ambiente a cui del resto apparteneva “con i suoi pregi e i suoi difetti”. Dichiarazione ineccepibile, e sciocco sarebbe (come pure qualcuno ha fatto) affrontare i cani e i lupi con argomentazioni extra-letterarie. Tutti i romanzi della Némirovsky si svolgono del resto nell’ambiente che volente o meno era il suo, ed hanno protagonisti che sono spesso ricchi (e sordidi) affaristi, spregiudicati banchieri, giovanotti ambiziosi e senza scrupoli, donne fatue e capricciose, preoccupate solo della propria bellezza e dei propri gioielli piuttosto che dei drammi che le circondano e talvolta le sfiorano.
Qui, ne I cani e i lupi, siamo a Kiev negli anni precedenti la Rivoluzione, e gli ebrei che vi risiedono sono suddivisi in tre aree distinte e distanti tra loro anni luce: i ricchi in collina, in grandi e lussuose ville che testimoniano la loro riuscita negli affari, i poveri, anzi “i dannati”, nella città bassa, “tra le tenebre e le fiamme dell’inferno”. Al centro i comuni mortali, piccoli commercianti, mediatori, medici, farmacisti, sempre in bilico tra l’ascesa e la caduta.
Ada, la protagonista del libro, è la bambina, figlia di un modesto intermediario che vive men che modestamente, convinto che la “condizione naturale” dell’uomo è quella di “spargere molto sudore per guadagnarsi un tozzo di pane”. Un giorno Ada vede un bambino della città alta, ricco, ben vestito, riccioli bruni, grandi occhi splendenti, e sa – oscuramente ma con certezza assoluta – che sarà quello l’uomo della sua vita, colui che amerà per sempre di un amore assoluto e pressoché indifferente a ciò che la vita riserverà ad entrambi.
Si rivedranno in circostanze drammatiche – uno dei periodici pogrom di cui gli ebrei erano vittime – e poi, molti anni dopo, a Parigi, dove le rispettive famiglie si sono trasferite. Lui, Harry, erede di una colossale fortuna, sposa la figlia di un banchiere francese, lei, Ada, sposa senza amarlo l’intraprendente cugino. Ma i loro destini sono destinati a incontrarsi, e a fondersi, per un certo periodo.
Poi, le cose si mettono in modo tale, da indurre Ada a rinunciare per sempre al suo amore, talmente assoluto del resto da autoalimentarsi quali che siano le circostanze esterne che lo condizionano.
È uno strano libro, quello della Némirovsky: se la parte iniziale sembra debitrice del romanzo naturalista francese in versione yiddish, il seguito è animato da preoccupazioni del tutto moderne, in cui la psicoanalisi ha un ruolo non secondario. Sta proprio in questo contrasto uno degli elementi di fascino del romanzo, che peraltro dà il meglio di sé nella descrizione, spesso crudele, dell’ambiente alto-borghese parigino che è quello che la scrittrice meglio conosceva, e rispetto al quale era animata da sentimenti decisamente ambivalenti: attrazione e repulsione profonda, fino all’odio (qualcuno ha parlato di “odio di sé” come caratteristica tipica di un certo ebraismo).
E se quella di Harry è una figura tutto sommato scialba, splendido è invece il personaggio di Ada, indifferente alle convenzioni e ad ogni idea di riuscita sociale e di carriera artistica (dipinge).
A caratterizzare inoltre il libro è quel tono febbrile tipico della Némirovsky, di chi teme che il tempo a disposizione sia troppo scarso rispetto all’urgenza delle cose da dire, delle storie da raccontare.
Giorgio Montefoschi
Subito, fin dall’ inizio de Il piccolo hotel, il romanzo di Christina Stead pubblicato da Adelphi, appena un ospite sale le scale della modesta pensione che la signora Bonnard gestisce sulle rive del Lago Lemano, ponendo magari il problema dell’ ascensore che è troppo stretto, ecco che un altro ospite quelle stesse scale, nello stesso momento, le scende: e il problema dell’ ascensore non esiste più, perché adesso l’ argomento da affrontare riguarda il caffè fatto male per esempio, o un biglietto da cento franchi rubato da una mano misteriosa in una borsa lasciata sconsideratamente in una stanza, o il fatto che le pareti delle camere sono così sottili che si sente proprio tutto. Se nella sala da pranzo fa irruzione il sindaco, certamente pazzo, di un fantomatico villaggio del Belgio ossessionato dal prossimo e inevitabile arrivo dei comunisti russi che di sicuro lo metteranno al muro, (perché la Seconda Guerra Mondiale è finita ma un’ altra guerra «fredda» è iniziata ben più terribile), ecco che dagli altri tavoli saliranno immediate valutazioni sulla inconsistenza del popolo svizzero, sulla ottusità dei tedeschi nonché sulla decadenza di quegli spocchiosi tirchi che sono i cittadini della Gran Bretagna. Se l’ ora è quella del tè, o si sta sul lungolago o in giardino, non c’ è personaggio che si azzardi a esprimere vuoi una calibrata opinione, vuoi una considerazione perfettamente inutile, vuoi un semplice pensiero distratto, senza che nel giro di pochissime righe, a quella opinione assennata si risponda con una opinione altrettanto assennata ma che non ha nulla a che vedere con il discorso, alla considerazione perfettamente inutile si risponda con una considerazione ancora più inutile, al pensiero distratto faccia seguito un pensiero ugualmente distratto. Il mondo – sembra volerci dire la più grande scrittrice australiana con questo delizioso, comico e amarissimo romanzo che amò tanto Saul Bellow e per normali motivi cronologici (morì quattro anni prima della sua apparizione nel 1973) avrebbe adorato Ivy Compton-Burnett: un’ altra perfida, appassionata di vicende minime e comuni – è un posto assai confuso, nel quale chiunque può essere scambiato per un altro, tutto conta moltissimo e pochissimo. E, certo, le parole (in particolar modo per chi sa usarle con tanta bravura), sono pietre, però non sveleranno mai alcuna luce al di sopra delle nostre modeste esistenze; potranno al massimo certificare che ogni giorno, da quando ci svegliamo a quando andiamo a letto, siamo un po’ felici e un po’ infelici, un po’ preoccupati e un po’ no a causa di svariate piccole o meno piccole incombenze, e molto, molto disponibili a lasciarci condizionare da una di quelle parole mal dette, dalla nostra malinconia e dal nostro rancore, dal nostro – gelosamente conservato – malumore. Sì, nessuno di noi conta così tanto – pensa l’ autrice del famosissimo Sabba familiare – da aver diritto a più di due battute di seguito in un romanzo; nessuno ha una storia così importante da occuparlo per intero: ognuno di noi ha le sue sofferenze, le sue delusioni, le sue beghe; e anche se i nostri vicini non fanno altro che bussarci continuamente alla parete o alla porta della stanza, invadono la nostra vita con la quotidiana elencazione dei problemi e delle ansie che li tormentano, noi al massimo possiamo ambire ad essere uno di loro, uno dei tanti ospiti sbandati che affollano Il piccolo hotel. Perché, certo, il sindaco del villaggio belga, alla fine, si capirà che è proprio pazzo, al di là dei proclami deliranti, dell’ abitudine di attraversare il parco tutto nudo con sciarpa e cappello, ma non è altrettanto pazza la scheletrica signorina Chillard che ha la valigia piena di soldi e non paga il conto, tratta l’ umile madre come una parente povera o una badante, se ne starà a letto tutto il tempo non toccando cibo, minacciando di lasciarsi morire se non la riporteranno a Zermatt, dove c’ è un medico che ama moltissimo? E che dire della signora Trollope e del signor Wilkins, alloggiati in due camere comunicanti? Loro, alloggiano in due camere comunicanti, perché pur essendo amanti dalla bellezza di ventisette anni, per motivi di bon ton si fanno passare per cugini. Ma nella camera accanto, c’ è Madame Blaise, la moglie di un medico svizzero che vive a Basilea e ogni tanto viene a trovarla, che quanto ad ambiguità coniugale, la coppia Trollope-Wilkins se la mette sotto i tacchi. Laddove, rispetto a costoro, alle eterne diatribe matrimoniali e finanziarie (dal momento che, chi da una parte, chi dall’ altra, i quattrini ce li hanno tutti, e tutti sono avidissimi: «Siamo una sola carne… E un solo patrimonio», sarebbe un po’ la sintesi), nulla è paragonabile alle inquietudini della attempata principessa Bili, col suo gigolò argentino. Mentre, davvero indescrivibili risultano gli affaires del personale:in quanto, talvolta, torbidissimi. Tanto che potrebbe trasformarsi in una specie di moderna Arca di Noè, solo a volerlo, la modesta pensione del Piccolo hotel.
Mario Baudino
Lo ha scritto in un breve saggio, anni fa: “Un racconto non e’ una strada che ci si mette a percorrere, e’ una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo i rapporti tra camere e corridoio, e come il mondo esterno viene alterato se lo si guarda da queste finestre”. E’ un’immagine perfetta del suo modo di lavorare, e anche del suo pensarsi in quanto scrittrice. ALICE MUNRO e’ la regina della short story, del racconto magari anche lungo, ma pur sempre di quel genere letterario piuttosto difficile che in Italia pare avere poca cittadinanza. Sara’ per questo che finora non aveva mai varcato i confini del nostro Paese, dove sono passati tutti, ma proprio tutti tra festival, premi e vacanze private gli scrittori internazionali? Non proprio. Einaudi ha tradotto i suoi libri piu’ importanti, da Il sogno di mia madre al recente Segreti svelati, storie di donne soprattutto, donne alle prese con svolte decisive. Lei, che di svolte ne ha avute, e’ persona schiva, molto legata a Clinton, paese di tremila anime nell’Ontario dove trascorre sei mesi all’anno. Semplicemente, aveva sempre declinato gli inviti. E’ venuta invece a Pescara, per il premio Flaiano vinto con Alberto Arbasino e Ismail Kadare’ ( la giuria dei lettori le ha conferito poi il “Superflaiano”) cogliendo di sorpresa i suoi editori e l’agente londinese, ma tenendo fede alla sua estrema riservatezza. Niente interviste, solo un incontro col pubblico; e un vago, cortese sorriso. Settantasette anni domani (auguri), alta e appena un po’ incurvata dall’eta’, ALICE MUNRO e’ da tempo una autorevole cadidata al Nobel, gode di un vasto consenso critico, pubblica sulle riviste piu’ intellettuali del mondo anglosassone come il New Yorker, l’Atlantic Monthly o la Paris Review, rifugge dai media per quanto e’ possibile. E distilla i suoi racconti, spesso dalla forte componente autobiografica – il genere in cui eccelle e’ il “memoir” -, con una secchezza e una precisione che sono figlie del severo mondo protestante dei presbiteriani scozzesi in cui e’ cresciuta. Nel libro con cui ha vinto il Flaiano, La vista da Castle Rock, lo racconta attraverso la storia della sua famiglia, i Laidlaw (MUNRO e’ il cognome del primo marito), venuti in Canada dalla Scozia nell’Ottocento: contadini poveri e austeri, ma grandi lettori della Bibbia, tormentati e “filosofi” a modo loro, permeati da quella cultura che puo’ apparire soffocante ma che ha prodotto, per dire, un filosofo come David Hume. Lei non filosofeggia. Racconta. “E’ un libro un po’ particolare – ci spiega – perche’ mischia la realta’ documentale, ricostruita anche grazie al fatto che nelle varie generazioni della mia famiglia qualcuno ha sempre scritto quel che gli accadeva. Mio padre ha addirittura lasciato un romanzo sull’epopea deli ”pionieri” in Canada. Su questo materiale sono intervenuta con la fiction, l’immaginazione”. Lo ha fatto soprattutto quando parla di se’ bambina, adolescente e poi giovane donna alle prese con un mondo durissimo, che non smette di amare. C’e’ un rapporto ambiguo con i valori contadini? “I valori, anche quelli contadini, anche quelli delle generazioni di immigrati che si sono avvicendate nell’Ontario, cambiano. Tutto cambia. Ma il cuore degli uomini e’ rimasto lo stesso. Per una donna della mia eta’ resta profondo il senso di responsabilita’. Il dovere direi di salvare certe cose”. In questo, la fiction, che poi e’ una “menzogna” letteraria, diventa un problema in una letteratura che ha un cosi’ forte senso etico. E’ un po’ come se affrontando i durissimi antenati, la scrittrice chiedesse loro il permesso di raccontare bugie, come osserva il professor Luigi Sampietro, uno dei critici italiani che piu’ si sono occupati di lei. “In realta’ non e’ un problema di menzogna. Piuttosto non bisogna dimenticare che per lungo tempo in quella societa’ essere ”solo” uno scrittore non era sufficiente. Non sembrava abbastanza, come ruolo. Per una donna, poi: bisognava badare alla casa, innanzi tutto. La scrittura non era ”utile”, e quindi in un certo senso non importante”. In Castle Rock, sulla nave che porta gli emigranti in America, un commerciante scopre che il giovane Walter, uno dei tanti antenati in cerca di fortuna, sta tenendo una sorta di diario di bordo e gli chiede perche’. Lui risponde: “Io scrivo solo quello che capita”. Quel che annota gli serve solo, dice, per mandare poi una lettera a casa. Scrive cose “utili”. “Ed e’ molto protestante – commenta la scrittrice – questo insistere sull’utilita’”. E’ successo anche a lei? “All’inizio non mi ponevo questi problemi. Ma andando avanti con gli anni l’ho sentito come un impegno”. Essere “solo” uno scrittore forse non basta ancora, non basta mai. E’ questo il motore della sue storie “perfette”? Cynthia Ozick, un’altra importante scrittrice canadese, l’ha definita “il nostro Cechov”. Lei Cechov lo ha riletto, ma si schermisce. Scrive racconti perche’ desidera che il lettore “percepisca qualcosa come stupefacente, e non perche’ succede, ma per il modo in cui tutto succede”. Su questo, i suoi severi antenati non avrebbero trovato da ridire.
Il novecento differente di Maria Rosa Cutrufelli
Ida Dominijanni
C’è un’estraneità femminile dalla Storia che la generazione femminista degli anni settanta ha sfidato, rileggendola e reinterpretandola. Non esclusione o marginalità o minorità, ma presenza differenziale: differente modo di abitarla, giudicarla, raccontarla. Non sempre abbiamo vinto la sfida: spesso la Storia torna a sfilarcisi di mano, le parole mancano, il giudizio recalcitra, la lateralità ci seduce. Talvolta invece la differenza gioca e vince. In D’amore e d’odio, l’ultimo suo romanzo (Frassinelli, pp. 465, € 18,00), Maria Rosa Cutrufelli accetta la sfida più alta per una scrittrice, quella del romanzo storico, gioca e vince. Non è la prima volta: già nel romanzo precedente, La donna che visse per un sogno, ricostruendo la vita di Olympe de Gouges l’autrice si era misurata con l’impronta femminile nella Storia. Stavolta però la prova è più ardua, la storia essendo quella che noi e le nostre madri, nonne, figlie, abbiamo direttamente vissuto, o che direttamente ci è stata raccontata: il nostro Novecento, in sette quadri, sette tempi, sette protagoniste, sette voci narranti. Voci femminili e maschili, perché non c’è separatezza femminile – anche se spesso tocca alle donne separarsi, dagli amanti, dalle radici, dalle illusioni politiche, mai per ripiegare però, bensì per prendere il largo, quasi a ribaltare il mito di Ulisse e Penelope, e rilanciare la scommessa con la vita. Il Novecento, scrisse una volta Angelo Putino, si aprì con una mutazione della specie: donne dappertutto, nelle strade, nelle fabbriche, nelle scuole, dove prima non erano; cambia il panorama, comincia, appunto, un’altra Storia.
Non ci sarà più riparo dagli eventi mainstream: le donne li abitano e li muovono, e il loro sguardo non è più corto ma più lungo, penetra la Storia con le storie, la politica con la quotidianità, le ideologie con i sentimenti, l’utopia con la trasformazione di sé. Cutrufelli rilegge il secolo con questo stesso sguardo, si mette sulle tracce di questa mutazione.
Sette tempi: 1917, la Grande guerra; 1922, il fascismo; 1946, la Repubblica e la ricostruzione; 1972, la rivoluzione senza la Rivoluzione; 1989, il nuovo ritmo del mondo senza Muro; 1994, le disillusioni del Progresso; 1999, l’addio al secolo che non smetterà di non passare. Sette protagoniste: Nora ed Elvira, due sorelle nella Torino operaia e socialista degli anni dieci e venti, e poi le loro figlie, nipoti e pronipoti, Isa, Leni, Carolina, Sara, Delina. Non si pensi però a un romanzo familiare: nulla di più lontano. Non è il sangue ma la Storia a decidere le continuità e gli strappi, gli incontri e le separazioni, i trasferimenti e i ritrovamenti. La guerra decide il destino di Nora, il fascismo quello di Elvira, il ’68 e il ’77 quello di Leni e della sua amica Miriam, l’89 quello di Carolina; ma niente è automatico, e mai un personaggio scade nel prototipo o nell’idealtipo. C’è la Storia infatti, e c’è il caso, o per meglio dire non c’è Storia senza il caso, e non c’è azione soggettiva se non a questo incrocio fra Storia e caso. “Tutte le cose – si legge a un certo punto in uno dei brevi intermezzi tra i sette quadri – sono depositi di infinite possibilità.
Ogni cosa contiene il fantasma di ciò che non è e invece poteva essere, la fantasia di ciò che forse sarà o al contrario non sarà mai e che non dimeno lascia una traccia luminosa di sé”: le eroine del romanzo danno forma alla loro esistenza muovendosi fra queste eventualità e prendendosi il rischio della libertà, negli anni venti sotto il fascismo come negli anni settanta in democrazia. Sostenuta da una mole evidente di lavoro d’archivio, la narrazione corre non solo nel tempo ma anche nello spazio: la genealogia di Cutrufelli si distende lungo tutta la penisola, da Torino a Siracusa e da Roma a Bologna, non senza qualche incursione in quella America di cui solo chi viene dal Sud, come l’autrice che è siciliana conosce la familiarità costruita nel corso del tempo dalla rotta dell’ emigrazione transoceanica. Fatti e luoghi sono narrati con la stessa precisa ed evocativa puntualità: i corpi massacrati che arrivano dal fronte all’ospedale di Borca di Cadore come i corpi che si dispongono al consumo nella Roma povera ma bella del secondo dopoguerra; le mosse circospette della clandestinità sotto il regime come l’autoreclusione dei militanti “duri” degli anni settanta. Talvolta infatti le stesse cose ritornano, diverse, di generazione in generazione: il libro è anche una genealogia politica della sinistra italiana, della sua grandezza e dei suoi tic, della sua centralità in un paese che senza di essa non sarebbe mai diventato un paese e tuttora rischia di perdere se stesso.
Ritorna anche e si trasforma, di generazione in generazione, l’amicizia fra donne, che salda ciascuna delle storie raccontate e tesse come un filo invisibile e tenace la trama della Storia più grande. All’origine della genealogia c’è una coppia di sorelle, la prima voce narrante è di un’amica a un’amica e racconta di un’altra amica; il quarto tempo, Bologna 1972, è la storia di un’amicizia fra due donne; il quinto, Berlino 1989, quella di un amore fra due donne. Le figure maschili sono molte e di rilievo, ma di decennio in decennio si allenta il legame con loro delle protagoniste, dall’amore coniugale eternizzato all’amore disilluso di chi scopre che tutto si è condiviso “tranne il senso della vita”, allo spostamento del desiderio dall’altro all’altra che avviene senza traumi, come un impercettibile scivolamento perfino autorizzato dalle madri. Siamo alla fine degli anni ottanta, il secolo delle donne ha macinato molta libertà. Ma di nuovo, sbaglierebbe chi pensasse a un romanzo agiografico, o a uno spostamento dalle magnifiche sorti e progressive della sinistra a quelle femministe: la lezione del Novecento sta nell’averle dichiarate chiuse per tutti e per tutte, e l’autrice lo sa. Nella chiusa, magistrale, del romanzo, di nuovo le stesse cose ritornano: nell’odore del naufragio di una nave di immigrati, Delina rivive l’odore dell’internamento nel campo di concentramento di Ferramonti (una perla storica del libro, con pagine di rara pregnanza). “D’un tratto era dentro il mio naso, acre come allora: sapeva di fatica e di rabbia, di speranza e umiliazione, di pazzia, di vita che sbatte contro un filo spinato. E adesso arrivava a folate da ogni angolo del Mediterraneo, dalle coste dell’Africa, dai Balcani, dalle rotte asiatiche.. . Non ci lascerà in pace, l’odore del vecchio secolo”. Non ci lascerà in pace, no. Ma ci ha lasciato molti doni.
A.H.: “Non è un ‘film di Hitchcock’…Era una storia di vecchio tipo, piuttosto demodé….una storia che manca di umorismo” – F.T.: “In ogni caso ha il pregio della semplicità. Una giovane donna (Joan Fontaine) sposa un bellissimo Lord (Laurence Olivier), tormentato dal ricordo della prima moglie Rebecca, morta in circostanze misteriose. Nella grande dimora di Manderley, la nuova sposa non si sente all’altezza della situazione e teme di sfigurare nel suo nuovo ruolo; si lascia dominare, poi atterrire dalla governante, la signora Danvers, legata al ricordo di Rebecca. Un’inchiesta tardiva sulla morte di Rebecca, l’incendio di Manderley e la morte dell’incendiaria, la signora Danvers, porranno fine ai tormenti della protagonista”. Sono battute tratte da Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, libro mille volte ristampato tanto è bello, in cui leggiamo la facile trama di un racconto cosiddetto demodé… Rebecca la prima moglie.
L’autrice del romanzo, appena uscito dal Saggiatore con una nuova traduzione, è l’inglese Daphne Du Maurier, scrittrice prolifica, nata a Londra nel 1907 da una nobile famiglia di origine francese, morta nel 1989, e vissuta, lontana dalla mondanità, quasi sempre nell’amata Cornovaglia, dove inventava e spesso ambientava storie di ogni genere, storico, gotico, biografico, suspence. Una penna dai molti registri e dall’indubitabile talento (non è un caso che ben nove dei suoi numerosi testi abbiano conosciuto la trasposizione cinematografica, e proprio di recente una fiction televisiva – Rebecca, appunto), troppo spesso catalogata fra le minori, graziosamente dette “popolari”. In realtà la Du Maurier arriva al grande pubblico perché è capace di raccontare una storia, di delineare con precisione psicologica i personaggi, di creare un’atmosfera che radica il suo naturalismo nel perturbante, di tenere con avido fiato in gola il suo lettore fino all’ultima riga. Se prendiamo proprio Rebecca la prima moglie, pubblicato nel 1938, dimenticando sia il bel film, del 1940, sia la mediocre fiction di poche settimane fa, ci troviamo tra le mani pagine che sulla semplicità della fabula costruiscono un intreccio di lenti ma continui e imprevedibili colpi di scena, basato tecnicamente sull’inversione della temporalità (si comincia dalla fine della storia, con un sogno-incubo, e la storia finisce con un altro sogno-incubo), su una voce narrante unica, quella della protagonista, che non ha mai un nome proprio (è sempre e solo “la seconda signora de Winter”), su una scena affollata da molti protagonisti, tra cui indubitabilmente la grande dimora, Manderley, che da ambiente-sfondo diventa vero e proprio personaggio con un’anima sempre mutevole, gioiosa, carezzevole, bellissima, ma anche spettrale, immobile, piena di ombre, avvolgente come un’oscura ragnatela viva e parlante. Specchio e riflesso di un’altra specularità, quella tra la nuova signora, che era in precedenza una giovanissima dama di compagnia, e la vecchia governante, che ferocemente venera la sua prima e unica signora, Rebecca, ed è una vera, perfida antagonista, in un libro che racconta l’amore tra un uomo e una donna, ma anche, sebbene in via allusiva, quello tra due donne. E ancora racconta la paura, il terrore che il sentimento di una donna può incutere al sentimento di un’altra, la distruzione che ne può seguire.
Lo sguardo dell’autrice sulle relazioni umane è dunque affilatissimo, mai possiamo decidere tra personaggi a tutto tondo, semplicemente buoni o cattivi: è buono il signor de Winter, che, non amato, insultato nel suo onore, diventa un assassino? È buona la seconda signora de Winter che per amore del principe azzurro accetta fatalmente la sua confessione e se ne fa complice? E’ cattiva la signora Danvers, vittima di un amore che non può dire nemmeno a se stessa, e può sopravvivere, si anima, solo e sempre girando attorno alla propria ossessione, a una stanza, un letto, una camicia da notte, una spazzola per capelli irrigidite dal soffio sinistro della morte? Sì e no, ed è questa la grandezza di un’invenzione capace di vedere con occhio distante e lucido gli esseri umani nella loro complessità, di non idealizzare le donne “buone” né immiserire per banale misoginia i comportamenti di quelle “cattive”, e facendo valere questa sua postura mentale anche nei confronti degli uomini, complici e avversari, mantenendo e rappresentando una differenza fra i sessi che non li impicca mai a un unico chiodo, il già detto e pensato. In questo sguardo si rinnova con la Du Maurier un filone inglese di lunga tradizione, quello delle governanti, alla Jane Eyre della Brönte, degli amori che portano incendi che parlano il silenzio della follia o l’amore lesbico, di uomini che alla fine non possono che scendere da cavallo. Una mescolanza di sentimenti e azioni che riguardano i sessi e le classi sociali, in cui la venatura “rosa”, spesso attribuita alla scrittrice, si rivela del tutto fuorviante, perché lei sa mettere in scena, piuttosto, rapporti crudeli ma veri, con la forza di una teatralità appresa forse dai suoi genitori, entrambi attori.
Questa tonalità di scrittura della Du Maurier è ancora più eclatante nei suoi racconti, ad esempio in quelli raccolti sotto il titolo Gli uccelli e altri racconti (il Saggiatore 2008), notevoli tutti per ragioni diverse, la prima delle quali può essere riassunta dalle parole con cui, in una recente intervista, Nadine Gordimer definisce l’essenza stessa di questa forma rispetto al romanzo, il suo essere completa come “un uovo”, senza tappe e passaggi dunque, tanto da poter essere tenuta “completamente in una mano”. Se il primo, Gli uccelli, è di nuovo forse il più famoso – per essere diventato un altro film di Hitchcock nel 1963 -, è indubbio che la grande sfida vinta dalla Du Maurier è quella di aver raccontato in 35 scarne paginette la massima concitazione in un quadro perfettamente immobile: una piccola fattoria abitata da una normale famigliola in una penisola qualunque, la vita di una piccola comunità sconvolta da un evento inspiegabile e inspiegato, l’attacco di migliaia di uccelli, tanto imprevedibile da diventare l’architrave di un perfetto meccanismo a suspence. E’ la rivolta della natura contro l’uomo che, immaginata già nel 1953, fa di questa autrice, non a caso così abile nell’osservazione attenta e precisa della realtà, un’anticipatrice di temi e problemi attuali dispiegati con innegabile maestria. La stessa che leggiamo ne Il vecchio, dieci sole pagine di un’inquietudine affilata che nascono da un’altra forma di inversione, l’attribuzione a una coppia di cigni di sentimenti che fino all’ultimo pensiamo appartenere a una coppia di umani. Alle donne, poi, nulla viene perdonato, la superficiale marchesa de Il piccolo fotografo pagherà la sua sventata e vanesia avventura con l’ometto storpio, l’amante passeggero e adorante, non con qualche soldo, come pensava, ma con la presenza persecutrice della sorella di lui, per sempre; la vita dell’appagato vedovo de Il melo sarà sopraffatta e perduta dal persistere della presenza insopportabile della moglie morta in quell’albero che gli toglie la vista serena del giardino, dei suoi frutti che sembrano volerlo seppellire per bruttezza e quantità, e che una volta abbattuto, lo farà sprofondare nella neve e nell’oscurità, per sempre. Questa temporalità algida e portatrice di morte torna di nuovo in Baciami ancora, sconosciuto, la cui sensuale e silenziosa protagonista, che promette amore e avventura, uccide invece senza pietà né spiegazioni.
A me pare che questo basti per ricominciare a leggere Daphne Du Maurier, appassionandoci alle sue atmosfere vertiginose, alla magia della sua immaginazione, in cui tutto può all’improvviso trascorrere dalla normalità apparente all’angoscia più minacciosa, basti insomma a rimetterla, finita la lettura, nello scaffale degno di lei, quello delle grandi scrittrici.
Intorno a una serie di lunghi monologhi l’autrice e criminologa svizzera imbastisce il suo romanzo d’esordio uscito per Nottetempo nella nuova collana “il pesanervi” che, sotto il segno di Antonin Artaud, riprende il nome di una storica serie degli anni Sessanta
Edda Melon
A lungo il perturbante, l’inquietante familiarità che sorprende e terrorizza, e che tutti conosciamo per esperienza, è stato associato ai racconti del genere cosiddetto fantastico, dove, sulle orme di Freud, lo si poteva osservare e interpretare quasi in vitro. In seguito, letterati, filosofi, psicoanalisti, studiose femministe, hanno cominciato a interrogarsi sulla sostanza di quello che potremmo chiamare il perturbante contemporaneo, di ciò che non ha nome, per dirla con Giorgio Rimondi, che insieme ad Annarosa Buttarelli ha dato vita a un variegato gruppo di lavoro (Rimondi, Lo straniero che è in noi. Sulle tracce dell'”Unheimliche”, Cuec 2006; Buttarelli – Rimondi, Dove non c’è nome. Nuovi contributi sul perturbante, Scuola di cultura contemporanea 2007).
In questo orizzonte si può leggere il primo romanzo di Catherine Lovey (nata in Svizzera nel 1967), giornalista e criminologa, che ha per titolo L’interdetto (nottetempo, traduzione di Lucia Regola, pp. 124, euro 9). La struttura è di una pulizia abbagliante: una serie di lunghi monologhi – come verbali di sedute registrate – rivolti a uno psicoanalista totalmente silenzioso da parte di un uomo sospettato di aver ucciso la moglie. Raggiunto sei mesi prima dalla notizia della sparizione della donna mentre è in viaggio d’affari a Londra, per non perdere la firma di un contratto importante da cui fa dipendere la sua carriera, non anticipa il rientro né telefona alla vicina che, nell’emergenza, ha preso in custodia i suoi tre bambini. Il suo eloquio è monocorde, ossessivo. Non una parola sulla moglie, ma solo timore di perdere il lavoro e autocommiserazione per la fatica di doversi occupare dei figli (bambini, bambine, chi lo sa? strano rapporto con il femminile). Nessun sentimento, nessuna emozione, ma un’angoscia crescente che l’uomo sembra provare di fronte allo “straniero” che è in lui. Che sia colpevole o vittima, è difficile per il lettore stare dalla sua parte. La sua stessa esistenza – che ci ricorda altri personaggi della letteratura oltre che delle cronache, quelli di Dürrenmatt per esempio, o di Carrère (L’avversario, La settimana bianca) – è per noi fonte di un malessere che le pagine del breve romanzo portano a livelli insostenibili, senza remissione.
Non a caso il libro della Lovey ha inaugurato, nelle edizioni nottetempo di Ginevra Bompiani e Roberta Einaudi, una collana che riprende nel nome, “Il pesanervi”, una storica collana degli anni Sessanta. All’insegna della parola inventata da Antonin Artaud nel 1925 – il pesanervi appunto – e adottata da una giovanissima Bompiani nella casa editrice del padre, la pubblicazione in controtendenza di questi “Capolavori della letteratura fantastica”, durò all’incirca quattro anni, per un totale di diciassette titoli, con una grafica di copertina firmata da Franco Ricci, ottime traduzioni e prefazioni illuminanti. Dal Golem di Meyrink all’Eva futura di Villiers de l’Isle-Adam, dal Monaco di M. G. Lewis raccontato da Artaud all’Invenzione di Morel di Bioy Casares, si trattò per i lettori italiani di un rapido corso di aggiornamento su un’intera zona letteraria della modernità. Siamo situati esattamente tra la pubblicazione del saggio di Roger Caillois Nel cuore del fantastico (1965), e l’Introduzione alla letteratura fantastica di Tzvetan Todorov (1970), quando questa letteratura di avventure, di fantasmi, di fantascienza, nera o gotica, stava per diventare popolare ma anche per varcare le soglie dell’università e fornire materia per la teoria.
A quarant’anni di distanza, quale potrebbe essere allora la posta in gioco dei nuovi Pesanervi? Per intanto, la collana sembra voler saggiare diverse direzioni, aggiungendo opportunamente, al fantastico, il poliziesco e il noir. I primi quattro libri hanno un aspetto allegro e invitante, un formato maneggevole, un’illustrazione sempre diversa firmata da Jean Blanchaert, nome celebre nell’arte contemporanea, e una cura impeccabile. A differenza della prima serie che metteva in catalogo unicamente grandi nomi di autori al maschile, qui la proporzione è di tre autrici contro uno. Vero è che la maestria femminile nell’arte della detection psicologica è assodata, e viceversa nel campo del racconto fantastico il canone è piuttosto avaro di scritti di donne. Ma anche qui, vanno citati i lavori di alcune studiose italiane che hanno avanzato l’ipotesi di modelli differenti, meno inquietanti, dell’immaginario femminile (Eleonora Chiti, Monica Farnetti, Ute Treder, La perturbante, Morlacchi 2003).
In attesa di saperne di più, possiamo apprezzare due gialli pesanervi di stampo classico. Miss Pym, di Josephine Tey, tradotto da Rosanna Pelà, era già circolato vent’anni fa nella Tartaruga Nera, ed è un gradito ritorno. L’ambiente dove la Tey immerge la sua deliziosa Lucy Pym, signorina di mezza età esperta (ma non troppo) di psicologia, è un college femminile di Educazione fisica, immerso nella campagna inglese, frequentato da uno stuolo di fanciulle fresche ed esuberanti, che si preparano sia a una vita lavorativa sia, in alternativa, a una carriera di moglie. Quando la morte farà irruzione nell’atmosfera festosa di fine anno, Miss Pym sarà costretta a rivedere molte delle sue prime impressioni su allieve e insegnanti. Là dove un detective sarebbe soddisfatto di aver risolto il caso, la lettrice continuerà a rimuginare sui misteri del cuore.
Più recente e complesso il libro di Batya Gur, Un delitto letterario (traduzione di Elisa Carandina), ambientato nel dipartimento di Letteratura dell’Università di Gerusalemme. L’autrice, già nota in Italia, è stata docente di letteratura e articolista sul quotidiano Ha’aretz. Gli ingredienti del giallo universitario ci sono tutti, dalle piccole vanità alle rivalità professionali all’adulterio, ma la prolungata ricerca del colpevole non annoia mai e svela alla fine risvolti abbastanza sorprendenti, che affondano nelle vicende europee del secolo scorso. Oltre che agli appassionati del giallo e dei comportamenti accademici, può piacere ai veri studiosi di poesia, con pagine e pagine di abilissime analisi testuali.