Antonella Cattorini Cattaneo
Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi. La più ampia raccolta di poesie finora pubblicate e altri scritti, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino. In omaggio il dvd Poesia che mi guardi di Marina Spada ( prodotto da Renata Tardani per Miro Film , Luca Sossella Editore, Bologna 2010). Euro 20,00
“Le mie parole sono le immagini , immagini per non sentirmi estranea, per darmi un motivo nel mondo. Leggo le parole dei poeti per capire il mio cuore e quello degli altri”.
Con questa frase di Antonia Pozzi, mentre scorrono immagini della Milano di oggi, si apre il film a lei dedicato dalla regista Marina Spada, ora in vendita abbinato ad un libro che comprende la più ampia raccolta di scritti di e su Antonia, finora pubblicati.
In queste brevi righe è possibile rintracciare il filo conduttore del lavoro della Spada che ha sfidato un’ affermazione del regista E.Rohmer, recentemente scomparso: “L’unica cosa che non è filmabile è la poesia”. Dopo tre anni di lavorazione ha infatti messo a punto una pregevole sintesi cinematografica di brani visivi e letterari per ricordare e far rivivere la poetessa lombarda nata a Milano nel 1912 e lì morta per sua mano nel 1938, a 26 anni. Una vita giovane che nel film è ricostruita e scoperta da quattro giovani veicolando immagini e poesie, servendosi di differenti mezzi comunicativi. Dai più tradizionali e vicini alla stessa Pozzi che amava fotografare e farsi riprendere in filmini amatoriali, alle più attuali pagine web e poi ai volantini, ai manifesti pubblicitari che circoleranno nell’intera città e, naturalmente, al cinema.
Nel lavoro della Spada il tema della comunicazione è centrale e sostenuto proprio dalla poesia, capace di superare barriere spazio-temporali e vincere i limiti delle tradizioni e delle mode. Antonia Pozzi, con la sua faticosa esperienza esistenziale visse fino in fondo questa scelta artistica soffrendo le molte incomprensioni della sua famiglia alto-borghese e, in parte, del gruppo di intellettuali che frequentava. Ovvero gli allievi del filosofo Antonio Banfi, docente di Storia della filosofia e di estetica presso la Regia Università di Milano e con il quale ella si laureò con una tesi su Flaubert.
Le sue scelte di vita e la sua scrittura furono poco accolte o addirittura negate da chi viveva accanto a lei in quegli anni e a fatica rinunciava a scelte espressive e culturali estranee al regime fascista. La sua linea comunicativa era invece diaristica, relazionale, inquieta e corporea. La Spada ho colto molto bene quest’ultima dimensione della poesia di Antonia Pozzi affidando ad uno studente universitario di Medicina,”contagiato” come gli altri protagonisti, dal “virus poetico”, tale affermazione: “Secondo me i medici hanno bisogno dell’aiuto dei poeti. In fondo il medico e il poeta fanno lo stesso lavoro, guardando al di là della superficie, sotto la pelle delle cose”. Anche sostando sulle fotografie della Pozzi che in parte scorrono nel film ( si veda anche il bel catalogo ANTONIA POZZI, Nelle immagini l’anima, Antologia fotografica a cura di L. Pellegatta e O.Dino, Ancora, Milano, 2007), è possibile rintracciare l’attenzione vivissima alle cose, ai corpi naturali, come le amatissime montagne, i paesaggi della Valsassina, i lavoratori e lavoratrici della terra, i bambini. Non fu solo la scuola di Banfi, studioso della fenomenologia husserliana , a farle apprezzare e descrivere le cose che sono. E’ infatti possibile scorgere nelle sue parole e nelle sue immagini il realismo della più ricca tradizione lombarda e la cura tutta femminile della corporeità. Graziella Bernabò nel suo saggio parla infatti della grande capacità letteraria della Pozzi di utilizzare il linguaggio metonimico vicino al sentire corporeo della donna e così di restituire l’immaginario femminile sia nella sua vena più malinconia sia nella fiera consapevolezza della sua identità. Con la Bernabò è suor Onorina Dino, responsabile dell’Archivio Antonia Pozzi di Pasturo a curare questa raccolta di poesie, pagine di diario e lettere di Antonia. A loro si deve anche la selezione di alcuni scritti critici e la bibliografia molto nutrita e in costante aggiornamento on line da Tiziana Altea sul sito www.antoniapozzi.it
Diverse voci di donne – la regista, la produttrice , le curatrici della raccolta letteraria e alcune firme dei saggi critici – e opere sotto un titolo solo-un verso della poetessa – idealmente unite a lei e a molte altre nella ricerca di immagini e di parole per darsi ” un motivo nel mondo”.
Viola Papetti
Non si può dire che la veste tipografica di questa antologia Corporea Il corpo nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese, a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli, con l’indispensabile prefazione di Liliana Borghi (Le Voci della Luna Poesia, Segni/4, pp. 204, € 12,00) sia vanitosa, e ostenti la patinata eleganza che sempre ricopre il femminile. Anzi, sono quasi irritanti nella loro ambiguità le immagini derivate da nove opere di Francesca Romana Pinzari: grigie, nere, rossastre parti di un corpo femminile seminudo, non si capisce se abbracciato o torturato, intercalate fra poesie, in inglese e in italiano, di scrittrici famose negli ultimi quarant’anni, da Margaret Atwood a Alice Walker.
Pagine dai margini ristretti, suppongo per economia, ma che danno anche un’idea di forzata costrizione entro gabbie, piccole carceri individuali da cui la scrittura fuoriesce come un urlo educato alla forma, uno strappo che però non lacera il foglio. Non rinunciano a prendere parola, per quanto il prezzo sia alto e lo sforzo al limite, come nel caso di Judith Wright, australiana, poco conosciuta da noi, qui con un’unica poesia “Naked girl and mirror / Ragazza nuda e specchio”.
il corpo delle donne è capace anche di scherzare, ma in genere si sente in fuga, tende a svincolarsi dalla proprietaria. “Questa non sono io. Una volta ero senza corpo” lamenta Wright, e con lei molte di noi. Anche Margie Piercy in “My Mother’s Body / il corpo di mia madre” dice l’estrema angoscia di non riconoscersi se non nel corpo di un’altra, inevitabile, ostile. La figlia è derubata dalla madre, la madre dalla figlia. Che sia il doppio culturale del sé femminile, o un doppio biologico, installato al principio e alla fine della vita della figlia (e alla fine di quello della madre) la minaccia è distruttiva. “Questo corpo è il tuo corpo, ceneri ora / e rose, ma vivo nei miei occhi, nei miei seni, / la mia gola, i miei fianchi. Tu fai scorrere in me / un sapore di sale negli affluenti del mio sangue, / / mi canti nella mente come vino. Ciò che / non hai osato in vita l’hai osato nella mia”.
Questa piccola antologia fa pensare a un arco teso per uno sforzo quasi impossibile, anche se necessario. Il percorso del pensiero femminista non è né facile né facilmente accessibile, e direi però che la poesia meglio di altri generi letterari può rendere i picchi improvvisi, e i ristagni paludosi. O un’estetica nuova ispirata da corpi che non obbediscono ai canoni correnti, vedi “Homage to My Hips / Tributo ai miei fianchi” di Lucille Clifton: “questi fianchi sono fianchi larghi / hanno bisogno di spazio per / andarsene in giro…”, e di Tania Rochelle “My Ass Says Hello / il mio culo saluta”: “da li dove, improvvisamente riempie tutto lo specchio. Vuole portarmi a comprare taglie comode, mi / prega di smetterla con il jogging, ‘Basta nat-chine / e lattughine!”. Negli interstizi della psiche angosciata la parola nuda della poesia penetra come una fredda lama, e scosta il groviglio delle emozioni. Si può parlare di acne, anoressia, bulimia, mastectomia, menarca, gravidanza, parto… con impudicizia. Sotto il titolo “Desiderio” c’è una scelta volutamente limitata di poesia erotica femminile perché già in parte tradotta in una antologia del 2006, Gatti come angeli (a cura di L. Magazzeni e A. Sirotti). Superfluo osservare che è una spiritosa, amabile, commedia a due, sia la coppia etero o omo, sia che si tratti di sedurre un architetto troppo impegnato nel suo lavoro ( Laux), o incastrarsi opportunamente per dormire abbracciati (Stevenson), o mantenere simbolicamente luminoso (qui l’altra assente è rappresentata dal suo giro di perle) il desiderio algido di lei (Duffyl). Sharon Olds, americana, è la più intima con la parola e con il racconto dell’eros, quella che fa sentire il respiro e la febbre e il grido dell’orgasmo anche se è così sofisticata da imitare la sillabazione fratturata e ansimante dell’Hopkins degli ultimi sonetti. Olds è una mistica di passioni e invasioni non divine, ma corporee. “The Factors / I vasai” rinnova il linguaggio erotico e la narrazione dell’atto. “Non si può chiamarla / pazienza, quando ti inginocchi, ti giri, / ti alzi, tirandolo, spingendolo fuori / l’amore prodotto in ognuno / metà d’un dio, che chiama / l’altra metà, dentro l’altro, / vieni, vieni, sì o mio tesoro, mio / carissimo, vieni”. In “When it comes / Quando arriva” si chiede cosa pensino gli uomini quando arriva il sangue mestruale: “… noi guardiamo il sangue versarsi lento dal nostro sesso, / come se la terra sospirasse lievemente, / e la sentissimo e la vedessimo, / come se la vita gemesse un poco, di meraviglia, e noi fossimo lei”. L’intelligenza del corpo che sa e produce meglio dello spirito è esaltata anche da Stevenson, Feinstein, Clanchy… a guardare bene in tutte. E da lì infatti muove il nuovo linguaggio delle donne. Che però si appanna quando deve parlare dei non nati, il loro “barlume” di moscerini, piccoli fantasmi dolorosi che si aggirano di notte nei sogni della non madre. Invece il colloquio con il proprio corpo diventa più abituale con la malattia e la vecchiaia. La poesia accenna un sorriso nel sonetto alla vagina di Joan Larkin, e nel giocoso, felice progetto covato da Jenny Joseph, di trasformarsi in vecchia stracciona. Diventa dura, prosastica, quando affronta il tema dello stupro, sfugge si direbbe. La ‘cosa’ in questione non si lascia facilmente mettere in bella forma. “Certi giorni quando ci baciamo / chiudiamo gli occhi. / Certi giorni quando chiudiamo gli occhi / ci baciamo. / Certi giorni non leggiamo il giornale” (Mary Dorcey, “A Woman in Another War / Una donna in un’altra guerra”. Ho tralasciato di parlare di due autrici ben note in Italia, Adrienne Rich e Margaret Atwood, per dare spazio ad altre poco o niente conosciute. Forse Carol Ann Duffy, di luminoso, scintillante wit, meriterebbe un libro in italiano tutto suo. Ottimo il lavoro delle traduttrici quasi sempre anche curatrici (Magazzeni, Mormile, Porster, Robustelli), a cui vorrei aggiungere un particolare apprezzamento per Elisa Biagini che da tempo e in più occasioni si è fatta traghettatrice di questa poesie.
Luca Sossella Editore 2010
Poesia che mi guardi. La più ampia raccolta di poesie finora pubblicate e altri scritti, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino. In omaggio il dvd Poesia che mi guardi di Marina Spada ( prodotto da Renata Tardani per Miro Film , Luca Sossella Editore , Bologna 2010). Euro 20,00
“Le mie parole sono le immagini , immagini per non sentirmi estranea, per darmi un motivo nel mondo. Leggo le parole dei poeti per capire il mio cuore e quello degli altri”.
Con questa frase di Antonia Pozzi, mentre scorrono immagini della Milano di oggi, si apre il film a lei dedicato dalla regista Marina Spada, ora in vendita abbinato ad un libro che comprende la più ampia raccolta di scritti di e su Antonia, finora pubblicati.
In queste brevi righe è possibile rintracciare il filo conduttore del lavoro della Spada che ha sfidato un’ affermazione del regista E.Rohmer, recentemente scomparso: “L’unica cosa che non è filmabile è la poesia”. Dopo tre anni di lavorazione ha infatti messo a punto una pregevole sintesi cinematografica di brani visivi e letterari per ricordare e far rivivere la poetessa lombarda nata a Milano nel 1912 e lì morta per sua mano nel 1938, a 26 anni. Una vita giovane che nel film è ricostruita e scoperta da quattro giovani veicolando immagini e poesie, servendosi di differenti mezzi comunicativi. Dai più tradizionali e vicini alla stessa Pozzi che amava fotografare e farsi riprendere in filmini amatoriali, alle più attuali pagine web e poi ai volantini, ai manifesti pubblicitari che circoleranno nell’intera città e, naturalmente, al cinema.
Nel lavoro della Spada il tema della comunicazione è centrale e sostenuto proprio dalla poesia, capace di superare barriere spazio-temporali e vincere i limiti delle tradizioni e delle mode. Antonia Pozzi, con la sua faticosa esperienza esistenziale visse fino in fondo questa scelta artistica soffrendo le molte incomprensioni della sua famiglia alto-borghese e, in parte, del gruppo di intellettuali che frequentava. Ovvero gli allievi del filosofo Antonio Banfi, docente di Storia della filosofia e di estetica presso la Regia Università di Milano e con il quale ella si laureò con una tesi su Flaubert.
Le sue scelte di vita e la sua scrittura furono poco accolte o addirittura negate da chi viveva accanto a lei in quegli anni e a fatica rinunciava a scelte espressive e culturali estranee al regime fascista. La sua linea comunicativa era invece diaristica, relazionale, inquieta e corporea. La Spada ho colto molto bene quest’ultima dimensione della poesia di Antonia Pozzi affidando ad uno studente universitario di Medicina,”contagiato” come gli altri protagonisti, dal “virus poetico”, tale affermazione: “Secondo me i medici hanno bisogno dell’aiuto dei poeti. In fondo il medico e il poeta fanno lo stesso lavoro, guardando al di là della superficie, sotto la pelle delle cose”. Anche sostando sulle fotografie della Pozzi che in parte scorrono nel film ( si veda anche il bel catalogo ANTONIA POZZI, Nelle immagini l’anima, Antologia fotografica a cura di L. Pellegatta e O.Dino, Ancora, Milano, 2007), è possibile rintracciare l’attenzione vivissima alle cose, ai corpi naturali, come le amatissime montagne, i paesaggi della Valsassina, i lavoratori e lavoratrici della terra, i bambini. Non fu solo la scuola di Banfi, studioso della fenomenologia husserliana , a farle apprezzare e descrivere le cose che sono. E’ infatti possibile scorgere nelle sue parole e nelle sue immagini il realismo della più ricca tradizione lombarda e la cura tutta femminile della corporeità. Graziella Bernabò nel suo saggio parla infatti della grande capacità letteraria della Pozzi di utilizzare il linguaggio metonimico vicino al sentire corporeo della donna e così di restituire l’immaginario femminile sia nella sua vena più malinconia sia nella fiera consapevolezza della sua identità. Con la Bernabò è suor Onorina Dino, responsabile dell’Archivio Antonia Pozzi di Pasturo a curare questa raccolta di poesie, pagine di diario e lettere di Antonia. A loro si deve anche la selezione di alcuni scritti critici e la bibliografia molto nutrita e in costante aggiornamento on line da Tiziana Altea sul sito www.antoniapozzi.it
Diverse voci di donne – la regista, la produttrice , le curatrici della raccolta letteraria e alcune firme dei saggi critici – e opere sotto un titolo solo-un verso della poetessa – idealmente unite a lei e a molte altre nella ricerca di immagini e di parole per darsi ” un motivo nel mondo”.
Susanna Nirenstein
Questa è una storia vera. Vera, poetica e sorprendente. Al centro, una ragazzina di umilissime origini con una smodata passione per la “caccia” ai fossili che in genere vende per aiutare la famiglia: siamo all’ inizio dell’ Ottocento, sulle coste del Sussex, e Mary Anning, questo è il suo nome, scopre sulle scogliere i resti preistorici di quelli che verranno chiamati ictosauri e plesiosauri, ossa pietrificate di grandi dinosauri che dimostreranno la teoria dell’ estinzione delle specie e, dunque, apriranno le porte al pensiero di Darwin.
I visitatori dei Musei della Scienza anglosassoni forse avranno visto il suo nome su qualche vetrina: riconoscimenti che furono difficili da ottenere perché nel mondo di allora le doti scientifiche femminili semplicemente non erano ammissibili. Mary è una piccola donna con un’ energia e un occhio speciale. Colpita da un fulmine quand’ era bambina, si aggira determinata per spiaggee rocce con un piglio selvaggio. L’ unica ad avvicinarla e a stringerci una salda amicizia è Elizabeth Philpot, educata trentenne di ottima famiglia già considerata zitella per sempre, invaghita come Mary Anning di quelle Strane creature, titolo del romanzo che Tracy Chevalier, la best seller della Ragazza con l’ orecchino di perla, le ha dedicato (Neri Pozza pagg. 288, euro 16,50).
Questa è la storia vera di un universo femminile dotato di una vita intellettuale anticonformista propria, che attraversa le classi, e nel romanzo non disdegna affatto uomini e amori (personaggi realmente esistiti) nonostante non possa, per consuetudine sociale, riceverne gioie e favori determinanti. Una storia con cui Tracy Chevalier, anche se ogni tanto si abbandona a un tono da fiaba, ha voluto ancora una volta rendere omaggio a eroine che vogliono sottrarsi al loro destino e spiccare in volo.
Mary Anning
Quando ha scelto di raccontare Mary Anning?
«Ho scoperto Mary in un piccolo museo di dinosauri dove ero andata con mio figlio. Non ne avevo mai sentito parlare, ma mi ha attratto immediatamente. Mi è piaciuto molto anche il fatto che fosse stata colpita da un fulmine da bambina. Lì, fin da subito, ho saputo che ne avrei scritto».
Quando si viene informati, alla fine del libro, che questa è una storia vera e non una favola, il romanzo diventa molto più coinvolgente. Perché non lo ha scritto all’ inizio?
«Avrei allontanato il pubblico dalla fiction, gli avrei fatto pensare di star leggendo una biografia. Non volevo distinguere così marcatamente realtà e racconto. Penso che la maggior parte dei romanzi siano simili- ti assorbono così tanto che il loro mondo immaginario finisce per esistere davvero. Ecco, vorrei che il lettore creasse quel nuovo universo dentro di sé, e poi, alla fine, scoprendo che Mary e Elizabeth sono esistite, semplicemente confermasse le sensazioni già avute».
Cosa l’ attraeva maggiormente in Mary? Che fosse una ragazza povera con una forte passione intellettuale? Che le sue scoperte abbiano provato la teoria dell’estinzione delle specie?
«Due elementi: era una donna e apparteneva alla classe operaia. Ero comunque affascinata anche dal fatto che fosse una figura femminile eccezionale e volesse un riconoscimento nel mondo degli uomini. Certo, l’ impatto del suo lavoro sul mondo scientifico fu fondamentale, tanto più che ancora oggi ci sono molti creazionisti (specie in America) che rifiutano Darwin».
Nel dibattito di allora che cosa l’ ha colpita?
«Nel XIX secolo i fossili trovati da Mery Anning costrinsero le persone a mettere in dubbio l’ assunto comune che il mondo fosse stato creato da Dio seimila anni fa, in sei giorni. Fecero capire che la Bibbia non poteva essere presa alla lettera, ma doveva essere interpretata: la terra era molto più vecchia, e tante specie si erano estinte».
Cambiamo argomento. Jane Austen ha scritto molto di donne povere, sole e coraggiose dell’ Ottocento. Ma alla fine le sue eroine si sposano sempre. Qui, invece, le protagoniste rimangono tutte zitelle. «Mary Anning e Elizabeth Philpot – l’ altro personaggio principale – furono donne che non si sposarono in una società che da loro si aspettava solo questo. Senza matrimonio non c’ era né sicurezza né autorità. Una zitella non era nessuno. Jane Austen dà ai lettori l’ happy end che desiderano; nella realtà, invece, molte – e la stessa Austen – restavano sole, senza denaro, completamente dipendenti dagli altri membri della famiglia. In un certo senso Strane creature analizza quel che succederebbe alle misses della Austen se non trovassero un uomo da sposare. Avrebbero altre opzioni? Credo che Mary e Elizabeth le abbiano trovate: i fossili, e se stesse, l’ una per l’ altra. La loro amicizia è molto importante nel romanzo».
Dall’ altra parte qui tratteggia uomini sempre lontani, chiusi, senza alcuna percezione dell’ altro. Li vede così?
«Non sempre, ma in questo libro sì. Questa è una storia sulle donne che devono trovare una propria strada: gli uomini rimangono ai margini».
Lei scrive spesso di incontri, amicizie, amori tra persone che appartengono a classi diverse. Penso anche a La ragazza con l’ orecchino di perla o a Quando cadono gli angeli.
«Non ci avevo mai pensato. Il fatto è che scrivo spesso di individui (in genere donne) che non sono felici della loro condizione sociale e cercano un’ altra vita. Un atteggiamento che comporta l’ attraversamento di frontiere sociali ed economiche».
Lei è rimasta per tutti l’ autrice dell’ Orecchino di perla. Le pesa? Paragona sempre i risultati dei suoi nuovi libri a quelli del romanzo su Vermeer? Ha capito quali furono le ragioni profonde di quel successo?
«È meraviglioso essere stata un best seller, ma sì, è anche un peso. Tutto quel che faccio viene confrontato all’ Orecchino di perla, e non solo da lettori e editori, ma da me stessa. Quanto ai motivi del successo, penso abbia qualcosa a che fare con l’ eccezionalità di Vermeer, come se il suo appeal si fosse riflesso sul mio libro».
Lei è americana, eppure ambienta tutti i suoi romanzi in Europa. Come mai?
«Ho vissuto in Inghilterra 25 anni, ma mi sento ancora americana. Credo mi piaccia il mio essere una outsider. Mi tengo da una parte e guardo quel che succede, senza sentirmi responsabile. È un’ ottima posizione per uno scrittore». Scriverà mai una storia contemporanea? «Ho pensato più volte di farlo, poi ho cambiato idea. Invece sto scrivendo un altro romanzo storico, ma questa volta, finalmente, si svolge in America! Parlerà di una famiglia quacchera del XIX secolo che aiuta degli schiavi a scappare dal Sud verso il Nord e la libertà».
Tracy Chevalier
Strane creature
Neri Pozza pagg. 288, euro 16,50
Nadia Fusini
Ho degli amici – uno scrittore, l’altra poeta – che scrivono, ma non leggono libri. Quelli degli altri, intendo. Dicono che a loro non interessa. Forse lo fanno per via di quella che Bloom chiama l’ansia dell’influenza. O forse, evitano così certi confronti. Sono tutte buone ragioni. Io però amo gli scrittori che leggono. Non immagino neanche che si possa vivere né scrivere senza leggere. Che è la stessa idea che muove a leggere e a scrivere Elisabetta Rasy, la quale ha raccolto in volume le sue letture. Letture che pratica da anni, essendo oltre che scrittrice, una avida lettrice. Lo ha fatto e lo fa anche per mestiere dalle pagine culturali di diversi giornali. Ma lo fa soprattutto come una pratica di meditazione: coltiva così non solo l’anima, la mente, il gusto, la coscienza. Anche lo stile.
Sotto il titolo di Memorie di una lettrice notturna, raccoglie alcuni suoi incontri con i libri che ha letto, osservando un solo criterio: che siano donne ad averli scritti. Include un breve cammeo di un’artista non della penna, ma del pennello, Frida Kahlo. E un solo uomo, Ovidio. Si doveva tale riguardo a chi ha scritto le Eroidi, “un perfetto esempio di scrittura femminile”, secondo Rasy. Dal che si deduce che la differenza sessuale non è qui giocata nel senso né biologico né ideologico. Ma si è disposti all’ascolto della medesima se e quando si manifesti nella parole.
Daniela Daniele
Incontro con la scrittrice italoamericana, che racconta il suo ultimo romanzo, Vivere un segreto, uscito per Mondadori. Concepito a ridosso dell’11 settembre, quando ogni velleità pacifista era destinata a restare frustrata, il libro è ambientato nel Midwest all’epoca di Reagan, e mette in scena la generazione dei reduci degli anni Settanta
In L. A. Girl, il libro con il quale si è fatta conoscere al pubblico italiano, Dana Spiotta raccontava il manierismo e le ipocrisie del mondo del cinema a partire da un ristorante alla moda dove, tra impeccabilità del catering e video porno, si consumava la decadenza di fine millennio. Alla sua seconda prova, l’autrice lascia il trionfo delle superfici hollywoodiane, dove spogliarsi davanti a una telecamera è più facile che mettere a nudo se stessi, per addentrarsi in contesti americani più periferici e irrapresentati, in quelle regioni della soggettività che sono esclusivo appannaggio della letteratura.
Eat the Document, uscito negli Stati Uniti nel 2006 e tradotto da Delfina Vezzoli per Mondadori col titolo Vivere un segreto, è la storia della generazione invisibile dei reduci degli anni Settanta, spersi nelle province del Midwest in una condizione di disperante isolamento, mentre continuano, a modo loro, una rivoluzione tradita. C’è Mary che, a dispetto delle amiche, si rifiuta di addossare al fidanzato la responsabilità dei suoi atti di sabotaggio, Nash che ospita nella sua libreria dell’usato le confuse riunioni di giovani cyberpunk coperti da borchie e tatuaggi, e la sofferta alienazione di Harry. I personaggi vengono ritratti negli anni reaganiani della crisi della controcultura, e danno vita a un libro che – come spiega l’autrice – è stato concepito dopo l’11 settembre, in un periodo frustrante anche per chi tentava di mantenere vivo l’impegno pacifista. Accanto al silenzio dei movimenti di protesta, il romanzo coglie, però, la curiosa pazienza con cui Jason, il figlio di Mary, ricompone – nel silenzio dell’assonnata cittadina del Midwest dove vive con la madre – la storia dei conflitti sociali in cui lei era stata coinvolta. Non è l’ideologia a ricollegarlo a quel turbolento passato, bensì la passione per vecchi vinili, pellicole graffiate e la musica di quegli anni perduti – il titolo originale del romanzo, Eat the Document, evoca il film underground tratto da una famosa tournée di Bob Dylan.
Spiotta lascia che sia la fascinosa obsolescenza di questi oggetti desueti a trasmettere la forza residuale di un’eredità politica e culturale che, anche nelle sue forme più estreme, riconduce alla storia del dissenso negli Stati Uniti. Non trovano giustificazione, invece, gli aspetti settari e intolleranti, quelli con cui per esempio tratteggia, in chiave satirica, la comune di «Mother Goose», dove – accanto a relazioni alternative – si sperimentano forme di separatismo radicale e di «franchising» della controcultura che, come aveva già prefigurato il trascendentalista Nathaniel Hawthorne nella Casa della gioia, in parte giustificano la disaffezione e il disincanto dei più giovani. «Sì, nel libro racconto delle comuni degli anni Settanta come parte di una lunga storia di utopie iniziata nella metà dell’Ottocento, utopie sulle quali il mio paese ha costruito la sua democrazia. Io non parteciperei mai a questi esperimenti comunitari: sono una italo-americana e la famiglia soddisfa ampiamente il mio bisogno di condivisione di spazi pubblici e privati; ma ne parlo perché vedo persistere il desiderio di costituire stili di vita e ambienti ispirati a una maggiore eguaglianza e progetti di economia no-profit ed eco-compatibile. Anch’io, per quanto resti legata a Los Angeles, dove ho lavorato anche come sceneggiatrice, a un certo punto mi sono trasferita in una città più piccola, lontana dai ritmi e dalle relazioni stressanti imposti dall’imperativo della produttività, alla ricerca ossessiva di scenari inediti e di novità assolute da consumare velocemente. Oggi, invece, l’America ha bisogno di riflettere sul suo passato, e sul modo in cui ha costruito, a partire da varie forme di dissenso, la sua democrazia. A Seattle, che è una città radicale molto importante nella mia formazione, ho fatto ricerche sulla storia perduta dei lavoratori, dei wobblies.
Nel romanzo lei si è ispirata a Katherine Ann Power, una attivista vicina alle Pantere nere che si è consegnata alla giustizia dopo più di vent’anni anni di clandestinità. Durante la campagna elettorale, Obama è stato accusato di aver collaborato a Chicago con militanti che nel ’68 erano stati coinvolti in atti di sabotaggio contro banche e multinazionali, costruendo una rete internazionalista che apparentemente offrì anche aiuti materili per aiutare Cuba a consolidare le condizioni della sua indipendenza. Lei che ne dice?
Obama ha potuto facilmente difendersi dall’accusa di connivenza con il terrorismo degli anni Settanta perché generazionalmente estraneo a quelle forme distruttive di attivismo, ma mi pare importante che sia stato il primo presidente ad avere saputo collaborare con un mondo underground erroneamente identificato con la violenza politica. E che ha dato, invece, un forte contributo al volontariato e a estendere il diritto all’istruzione. Credo che la storia dell’underground dovrebbe riportare alla luce questi aspetti positivi e solidali della nostra storia politica, perché fanno parte di un patrimonio che la sinistra non deve dimenticare, se non vuole rifare gli errori del passato. Oggi come ieri, questi movimenti ci parlano del Vietnam e di altre guerre sbagliate, e delle persone che hanno fatto di tutto per fermarle, pagando per questo il prezzo dell’isolamento e della morte sociale. Addossare a loro tutte le responsabilità politiche di una sconfitta culturale significa, per la sinistra, persistere nei propri limiti, e perpetuare una chiusura difensiva che arriva a forme di ostruzionismo moralista e a nuove forme di integralismo.
La critica del «New York Times» Michico Kakutami l’ha definita l’erede di DeLillo, un autore al quale lei spesso allude, fino a parafrasarlo, nella sua narrativa.
DeLillo resta per me un modello, è riuscito a resistere alla tendenza dell’industria culturale di trasformare gli scrittori in prodotti di consumo. Diversamente da Pynchon, fermamente determinato a non concedersi al di fuori della veste editoriale, DeLillo ha raggiunto un equilibrio invidiabile tra il bisogno di difendere la solitudine che gli è necessaria per scrivere e quello di comunicare in pubblico le proprie idee, mostrando che, anche in una fase di forte mercificazione della cultura, lo scrittore americano può continuare ad esprimere i suoi dubbi sul presente e sui limiti della politica, senza lasciarsi sommergere dalla vulgata.
Nel romanzo si avverte la difficoltà, da parte della sinistra, di trasmettere i propri valori alle nuove generazioni: il figlio della militante vicina alle Black Panthers non pare condividere l’estremismo della madre, per esempio. E mi pare che questa mancata condivisione possa anche funzionare come un commento sulla diversa natura dei movimenti odierni, che mostrano meno tolleranza verso la violenza e più dimestichezza con le tecnologie.
I figli dei militanti degli anni Sessanta riscoprono la storia dei loro padri su Internet e attraverso i prodotti della controcultura. Nel romanzo, Jason ricostruisce il vero nome della madre grazie a un film underground che la ritrae sorridente durante un concerto. È come se le nuove generazioni, tecnicamente molto avvertite, recuperassero i valori del passato attraverso il culto feticista di oggetti e tecniche spesso oscuri e rudimentali.
Nel romanzo, la disgiunzione del punto di vista della madre da quello del figlio sottolinea la loro appartenenza a due diverse stagioni politiche, come se a legarli fosse una dialettica sotterranea, segnata da una distanza ideologica e culturale.
Il mio intento era quello di raccontare l’inevitabile silenzio che divide una madre dal proprio figlio, dal momento che, per forza di cose, gli anni che non hanno condiviso automaticamente escludono il figlio da una parte consistente della vita della madre, spesso destinata a rimanere un segreto per lui. Nel racconto, il silenzio tra i due è accentuato dal fatto che gli scenari a cui il figlio è anagraficamente estraneo coincidono con gli anni vissuti in clandestinità dalla madre, per cui la dimensione privata degli affetti diventa per lei uno spazio che paradossalmente l’aiuta ad affrancarsi dagli errori del passato. È come se la maternità la proteggesse dalla parte di sé che non si esprime nel rapporto col figlio, accentuando un silenzio di cui, però, alla fine, lui la incolperà.
Natalia Aspesi
Con il massimo tempismo, Cesare Lombroso torna tra noi: la nuova casa editrice, “et al.”, ripubblica il suo celebre e funereo La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, scritto assieme al giovane Guglielmo Ferrero (assatanato disprezzatore delle donne, che poi divenne suo genero sposando la figlia Gina), testo fondamentale e monumentale (640 pagine, euro 32) della misoginia positivista, uscito per la prima volta e con gran successo internazionale nel 1893 dall´editore torinese Roux. Sarebbe esagerato dire, data la quantità di bizzarrie, e offese e deliri che accumula occupandosi delle donne, che pare scritto oggi, ma insomma… Oggi, il tempo delle volgarità verso le donne non asservite, delle escort invitate in politica, delle minorenni in carriera orizzontale, dell´esposizione mediatica dei corpi femminili, del favore erotico dei potenti verso le donne destinate al loro servizio, della sudditanza adorante di molte al maschio-padrone, del consolidarsi di un muro maschile che non sa più indignarsi e reagire al dileggio, alle provocazioni, al disprezzo verso le donne: come se la maschera civile e democratica stesse cadendo e finalmente si potesse tornare a quel convulso e arcigno ordine patriarcale che tra fine Ottocento e primi del Novecento riuscì, con gran sollievo maschile a sancire scientificamente e quindi inappellabilmente, (allora) l´inferiorità delle donne.
Questa nuova e integrale edizione italiana è arricchita dalla dottissima prefazione della storica Mary Gibson e della criminologa Nicole Hahn Rafter tradotta dal testo pubblicato dalla Duke University Press. Rallegra subito qualche simpatica contumelia verso le donne che, non essendo apertamente criminali e nemmeno prostitute (in questo caso doppiamente criminali, tenendo conto anche che l´adultera è una specie di prostituta), vengono definite “normali”. Anche in questo caso però, la donna che si immagina sposa e madre esemplare «ha molti caratteri che l´avvicinano al selvaggio, al fanciullo, e quindi al criminale: irosità, vendetta, gelosia, vanità». La sua atavica perversità anche se inavvertibile, si accentua in certi periodi: «Durante le mestruazioni nulla è più frequente che la menzogna, unita con la cattiveria e l´astuzia, le sleali maldicenze, le delazioni calunniose, le trame perfide, l´invenzione di favole (citato da Icard)».
Quanto all´aspetto tendente alla degenerazione anche nella donna onesta, «sopra 560 donne in un pubblico passeggio, io ne rinvenni: 37 con nei e barba, 34 con mandibole voluminose, 9 con il tipo completo degenerativo». E così per un terzo dell´elefantiaco studio, più tutto il resto dedicato alle criminali e alle prostitute-nate o occasionali, con una mole immensa di citazioni, parametri, scoperte, riferimenti antropometrici, vaneggiamenti. Prima di tutto basta guardarle e misurarle, questa mascalzone, del resto come i maschi nella sua precedente opera L´uomo delinquente (1876): per esempio il pelo. «In 234 prostitute trovammo la distribuzione virile del pelo nel 15%, mentre nel normale era il 6% e nelle criminali il 5%. Viceversa la peluria che va al 6% nelle prostitute russe e nel 2% nelle omicide, manca nelle oneste e nelle ladre».
Cesare Lombroso, medico, psichiatra, antropologo, criminologo, cosmopolita e colto, nato a Verona da famiglia ebrea nel 1835, era cresciuto nel fervore del Risorgimento, da giovane si era arruolato volontario nella seconda guerra d´Indipendenza, in opposizione alla chiesa cattolica era un fervente sostenitore dell´evoluzionismo darwiniano, si era battuto per alleviare la spaventosa miseria del proletariato meridionale, aveva aderito al socialismo. Mentre stava scrivendo La donna delinquente, quasi tutte le sera, a Torino, Lombroso e la famiglia cenavano con la rivoluzionaria e femminista russa Anna Kuliscioff. Era quindi un progressista sincero, purché il progresso non si applicasse alle donne, arrivando anche a sostenere la tesi che, se la criminalità femminile è molto meno diffusa di quella maschile, dipende dal fatto che le donne sono più deboli e stupide degli uomini. La donna criminale ebbe un immediato successo anche all´estero. Proprio in quegli anni la violenza misogina si era fatta impressionante e praticamente tutte le forme della scienza, compresa la nuova sessuologia, parevano impegnate a stabilire l´inferiorità e la pericolosità delle donne, che avevano cominciato a reclamare diritti, istruzione, voto, parità giuridica, lavoro. I testi in questo senso sono montagne: e non sono pochi gli studiosi ad arrivare a conclusioni queste sì criminali, come Paul Adam che in un articolo pubblicato nel 1895 sulla Revue Blanche scrive che l´erotismo della donna è già evidente nel comportamento della bambina. Infatti le bambine tra gli 8 e i 13 anni «provano un perverso piacere mentre per pochi centesimi guardano uomini di mezza età che mostrano le loro nudità».
La paura da parte di Lombroso e dei tanti maschi col potere di far passare per scienza i loro incubi socio-sessuali, si stava spostando dalla prostituta nata, creatura aberrante e criminale, alle donne che smettevano di essere “normali” per sovvertire ogni ordine civile con le rivendicazioni femministe. Può sembrare strano che nei decenni successivi L´uomo delinquente dopo essere stato contestato e sbeffeggiato, scomparve quasi del tutto, mentre La donna delinquente continuò ad essere apprezzato e diffuso nelle università. Il fascismo se ne servì, con i suoi nuovi scienziati, per ribadire l´inferiorità della donna, il suo ruolo esclusivamente familiare e per escluderla dalla vita pubblica e dal lavoro fuori casa. Dagli anni ‘70 le studiose femministe della criminalità femminile, scelsero di ignorare Lombroso, se non per l´uso che ancora dominava nelle aule di giustizia, tra periti, avvocati e giudici. E oggi? Ci resta a conforto la fisiognomica: guardare in televisione certe facce, certi zigomi, certe calvizie, certi lobi dell´orecchio, certi deformazioni craniche, fa venire i brividi, ma può servire a metterci in guardia.
Maurizio Bono
C’è un complotto internazionale, il rapimento su suolo norvegese, durante una visita di Stato, del presidente degli Stati Uniti. Ma dietro c’è il giallo delle ragioni private che concorrono a rendere possibile l’atto terroristico. E infine, a tenere insieme le scene in esterno da spy story e le ombre tutte interiori di vittime, investigatori e sicari, un po’ di fantapolitica appena distopica: il presidente Usa è una donna (un personaggio scherza: “Avrei scommesso che ci sarebbe stato prima un presidente nero”). Scelta necessaria, perché il centro del terzo romanzo di Anne Holt, a sua volta donna un po’ speciale (è stata anche ministro), è l’idea che femminile è la dimestichezza con sensi di colpa e segreti, quasi sempre legati ai bambini: amati o disamati, annientati o protetti fino all’annientamento degli altri. Di donne speciali vive il romanzo: con madam the President, Joanne Vik (metà forte della coppia con l’investigatore Stubo) e Hanne Wilhelmsen, ex detective ora in sedia a rotelle felicemente sposata con una donna (siamo in Norvegia, anche Holt lo è). Intorno, molti uomini si danno da fare abbastanza inutilmente. Recitando intanto uno scontro di civiltà che non potrebbe che avvenire a Oslo: agenti Fbi palestrati e armati contro riflessivi ma testardi locali, fieri di un paese in cui alla festa nazionale (tutto inizia il 17 maggio) non sfila l’esercima ma una folla di bimbi in costume.
Ritorna «I loro occhi guardavano Dio» di Zora Neale Hurston. L’autrice, paladina delle battaglie femministe e dei diritti dei neri, fu paradossalmente accusata di razzismo proprio dalla comunità afroamericana – Tacciata di descrivere gli uomini di colore simili agli stereotipi dei bianchi, la protagonista cercava libertà, non facili ideologie
Elisabetta Rasy
Nel 1973 Alice Walker, che non era ancora l’autrice del bestseller Il colore viola ma una poetessa e giornalista militante per i diritti delle donne e degli afroamericani, comprò una lapide per una tomba anonima e abbandonata del cimitero di Fort Pierce in Florida e ci scrisse un nome: Zora Neale Hurston. Cominciò così la resurrezione di questa scrittrice che dopo essere stata la prima allieva nera del sofisticato Barnard College, una figura di spicco del movimento della «Harlem Renaissance» negli anni Venti, un’ importante antropologa della scuola di Franz Boas e un’autrice di successo, nel 1960 era morta povera e sola nell’ospizio dove era ricoverata, già in parte sprofondata in quell’oblio che divenne assoluto dopo la sua fine.
Quando poi Walker nel ’75 pubblicò un saggio su di lei, Zora divenne un punto di riferimento per Toni Morrison e le altre scrittrici afroamericane degli ultimi decenni del Novecento: le furono dedicate biografie, saggi, film e fu inclusa nella lista dei cento neri più importanti del secolo.
Ma Hurston non era stata sempre ammirata e apprezzata dagli intellettuali con cui aveva diviso il cammino, e la sua vita era stata segnata da polemiche e scomuniche. Soprattutto il suo romanzo più importante, I loro occhi guardavano Dio (che ora viene riproposto nella accurata versione italiana di Adriana Bottini) fu accusato di scandalosa scorrettezza razziale.
Era nata nel 1891 in Alabama, figlia di un contadino- predicatore che poi si trasferì con la famiglia in Florida. Si era guadagnata non senza fatica un’istruzione superiore, arrivando persino a togliersi tutti insieme dieci anni d’età nel 1920 per ottenere una borsa di studio all’università di Baltimora. Il suo però non è il profilo di un’accademica né di una integrata soddisfatta, e neanche quello di un’edificante progressista in lotta per i suoi fratelli perseguitati. Zora ama il jazz e il folclore nero, cui dedica le sue ricerche e di cui teme si perda l’eredità, viaggia in continuazione tra i Caraibi e l’America del Sud mentre scrive saggi e racconti per «Fire!!», la rivista di Langston Hughes, è moglie per qualche anno di un jazzista, poi, quasi cinquantenne, per qualche mese di un ragazzo di ventitré anni, e sa addentare le complicazioni della vita senza perdere il suo smagliante sorriso.
Ma quando nel 1937 esce I loro occhi guardavano Dio, un protagonista del movimento afroamericano di quegli anni, lo scrittore Richard Wright, l’attacca senza esclusione di colpi: il libro di Zora Neale Hurston tradisce le regole dell’impegno, i suoi neri somigliano troppo alla versione che ne danno i bianchi, la loro lingua è troppo pittoresca, soprattutto troppo spesso non collimano con l’immagine che la correttezza politica richiede, perché non sono solo dei derelitti sfruttati né degli eroici combattenti per i propri diritti.
Richard Wright aveva ragione, i personaggi della Hurston non sono né miserabili né militanti, ed è proprio per questo che a settant’anni dalla nascita il suo romanzo continua ad affascinare, non ha perso intensità e non è invecchiato. E soprattutto non è invecchiata la protagonista Janie che, come scrive Zadie Smith nella prefazione all’attuale edizione italiana, è assai diversa non solo dagli stereotipi più antichi delle figure femminili nere, ma anche da quelli contemporanei: «Oggigiorno le protagoniste di colore sono sin troppo spesso infallibilmente forti e sentimentali; sono sessualmente voraci e prive di paura; prendono le sembianze irreali di madri della terra, regine africane, dive, spiriti della storia; sfilano maestose e imponenti attraverso le pagine di romanzi intrisi di un lirismo da biglietto di auguri.
Hanno poco della complessità, dei difetti e delle indecisioni, della profondità e della bellezza di Janie e del romanzo della Hurston».
La Janie de I loro occhi guardavano Dio non è impegnata, non ha ideologie, la sua naturale ribellione nasce da un’umile fame di felicità. È figlia di un bianco che ha violentato una schiava nera, ma entrambi sono svaniti nel grande buco del passato e sua nonna la alleva con un unico obiettivo: farle sposare un marito abbiente.
Janie di matrimoni ne farà tre, non per potersi sedere su una sedia a dondolo nel portico come un tempo facevano solo le padrone bianche, ma perché è convinta che ci sono due cose essenziali che ognuno deve fare nella propria esistenza: «avvicinarsi a Dio e scoprire cos’è la vita». Con il suo terzo uomo, un ragazzo che ha la metà dei suoi anni e non possiede nulla salvo la gioia di vivere, Janie toccherà il suo orizzonte, in un crescendo che culmina nel grande uragano con il quale si conclude, anche simbolicamente, la vicenda. Ed è spostandosi nelle regioni del femminile che Zora Neale Hurston disegna pionieristicamente una comunità nera complessa anziché compatta e cambia le carte sul tavolo della lotta al razzismo: perché le donne nere, come spiega la nonna a Janie, sono i muli del mondo, sotto i bianchi ma anche sotto gli uomini neri, e non basta la politica a redimerle: sta al loro coraggio e alla loro intraprendenza, in altre parole al loro spirito più profondo e più singolare, lottare per non soccombere.
Zora Neale Hurston, «I loro occhi guardavano Dio», traduzione di Adriana Bottini, introduzione di Zadie Smith, postfazione di Goffredo Fofi, Cargo, Roma-Napoli, pagg. 266, € 17,50.
Elena Del Drago
Nel 1923 la ormai quasi centenaria artista francese cominciò a tenere un diario, che presto si affiancò al disegno e poi alla scultura. Finalmente tradotto dalla Quodlibet Distruzione del Padre Ricostruzione del padre, Scritti e interviste 1923 – 2000, è un immane corpo di pensieri, notazioni, persino proverbi, tutti generati da ossessioni e immagini familiari, mai metabolizzati. In questi giorni, Louise Bourgeois è anche presente al Castello di Ama con un’opera in marmo RICAPITOLAZIONI PER UN TRAUMA REMOTO
Un secolo di vita e di arte, di pulsioni, di moti di fastidio alternati a grandi passioni e altrettanti odi passano nella produzione teorica e letteraria di una delle più grandi artiste viventi, Louise Borgeois, finalmente tradotta in italiano da Quodlibet con il titolo Distruzione del Padre Ricostruzione del padre, Scritti e interviste 1923 – 2000, (traduzione di Marcella Majnoni e Giuseppe Lucchesini, pp. 442, euro 32,00). La pubblicazione puntuale di questo libro suona come una manifestazione di ottimismo, tanto più significativa in quanto l’editoria artistica italiana pecca solitamente di pigrizia nelle traduzioni di testi anche fondamentali. Gli scritti si succedono in ordine cronologico e cominciano molto presto, nel 1923, quando Louise Bourgeois inizia a tenere un diario personale, dove segna i suoi pensieri, i suoi appuntamenti, i fatti quotidiani: una pratica che l’accompagnerà durante il corso della vita intera.
È un immane corpo di pensieri quello che si offre al lettore, plasmato a partire da quando, poco più che adolescente, Louise Borgeois cominciò il suo viaggio nella scrittura (nel libro vengono riprodotte anche alcune pagine scritte con una grafia ancora infantile) e approdato al testo intitolato I cinque ebbene, pubblicato in occasione della grande retrospettiva alla Tate Modern nel 2000.
La parabola di una entusiasta
I primi scritti ci addentrano nell’entusiasmo giovanile dell’artista, testimoniando dei suoi slanci per uno stile definito, che si esprime in ambito ancora tutto pittorico. Soprattutto attraverso il carteggio con l’amica artista Colette Richarme filtrano i dubbi e la tristezza legate all’abbandono dell’Europa e della famiglia nell’imminente scoppio della seconda guerra: poco prima, infatti, Louise aveva incontrato Robert Goldwater, il celebre storico dell’arte americano con cui aveva scelto di trasferirsi a New York. È qui che ha inizio la vita adulta dell’artista, ed è qui che si avvia quella «decostruzione e ricostruzione del Padre» intorno alla quale ruota il suo intero percorso.
«Mi chiamo Louise Josephine Bourgeois. Sono nata il 24 Dicembre a Parigi. Tutto il mio lavoro degli ultimi cinquant’anni, tutti miei soggetti hanno tratto ispirazione dalla mia infanzia. La mia infanzia non ha mai perso la sua magia, non ha mai perso il suo mistero e non ha mai perso il suo dramma». Grazie alla sua capacità analitica e sintetica al tempo stesso, Louise Borgeois individua, dunque, nei primi anni familiari quella fascinazione e quel trauma per esorcizzare i quali lavorerà una intera vita: tutto sembra nascere da un tradimento, e dal conseguente senso di colpa. L’amatissimo padre comincia a interessarsi di altre donne, poi stabilisce una relazione speciale con la tata assunta proprio per allevare Louise e i suoi fratelli. La madre, vera anima dell’attività familiare che consisteva nel restauro degli arazzi, secondo le migliori convenzioni borghesi fa finta di niente, avallando così un ménage familiare doloroso, soprattutto per Louise che non perdonò mai suo padre né se stessa per quella rottura dell’incanto infantile. Nel 1982, in un progetto per Artforum intitolato Child Abuse l’artista rivelava il tarlo responsabile del suo lungo percorso attorno al corpo, alla sessualità, agli organi genitali trasformati in totem simbolici di una paura sempre presente, di una ferita rivelatasi come irreparabile.
Nell’impaginazione riprodotta nel volume della Quodlibet si vedono due fotografie speculari: in quella a sinistra Louise Bourgeois bambina è con la tata, amante del padre; in quella a destra, che ha per sfondo il medesimo paesaggio, è con il padre. Molto chiare le parole che accompagnano le immagini: «Qualcuno di noi è ossessionato a tal punto dal passato che ne muore. È l’atteggiamento del poeta che non trova mai il paradiso perduto, ed è proprio la situazione degli artisti che lavorano per una ragione che nessuno capisce fino in fondo. …Tutto quello che faccio è ispirato dai primi anni di vita. La donna in bianco è L’Amante. Fece ingresso in famiglia come precettrice, ma andava a letto con mio padre ed è rimasta con noi dieci anni». Dunque, la distruzione e ricostruzione del padre diventa un passaggio necessario per liberarsi dal trauma che peraltro non si fa rimuovere se non attraverso l’esercizio della scrittura e del disegno prima e poi della scultura, che condensa riflessioni ed emozioni in una forma rivelatoria. Il passato domina il pensiero di Louise Bourgeois scritto dopo scritto, intervista dopo intervista.
Con l’occhio alle spalle
L’Album del 1944, edito nella versione originale da Peter Blum, finisce così: «Ogni giorno bisogna abbandonare il proprio passato. E accettarlo. E se non si riesce ad accettarlo, allora bisogna fare lo scultore! In qualche modo bisogna provvedere. Se rifiutate di abbandonare il vostro passato allora dovete ricrearlo. È ciò che faccio da sempre.» Ruotano dunque intorno a una sorta di peccato originale tanto la produzione teorica di Louise Bourgeois quanto quella scultorea: ogni lavoro, ogni installazione ambientale – dal celeberrimo, monumentale, ragno intitolato Maman, alla Femme Couteau, affilata e pericolosa, a Fillette, il pene con il quale volle farsi ritrarre da Robert Mappelthorpe, fino agli antropomorfici Cumuls – tappe che si propongono come momenti di un percorso all’indietro, capace di ricongiungersi a situazioni familiari terribilmente dolorose e altrettanto formative. Sono opere che rimandano anche alla incomunicabilità e a quella solitudine che gli scritti di tanto in tanto quasi rivendicano: se comunicare fino in fondo si rivela impossibile, tanto vale rinunciarvi in partenza. Ma il libro non si limita a proporre e dare forma al solo universo privato di Louise Bourgeois, perchè sono molti i grandi artisti che lo attraversano, e che lei si trovò, suo malgrado, a frequentare quando era a New York: tra questi Marcel Duchamp e Andrè Breton, troppo presi da se stessi per devolvere la loro attenzione al lavoro di una artista che non intendeva accreditarsi attraverso le armi abusate della femminilità.
Louise Bourgeois non esita a dichiararlo in diverse interviste: il suo non è un femminismo ideologico, è piuttosto la coscienza della difficoltà che le donne devono affrontare per trovare un proprio equilibrio, che il passaggio da compiere sia quello della maternità o che sia la necessità di dividersi tra affettività e autorealizzazione. Ma proprio l’esperienza della maternità funziona da motore centrale per la riflessione e l’esperienza che dell’arte fa Louise Bourgeois: a un tempo costrizione e rifugio, bozzolo di dolore e massima espressione di sé, è il più fondamentale dei passaggi esperenziali, il paradigma della specificità femminile. L’artista ci torna su a più riprese, mostrando un desiderio di essere madre assoluto eppure frustrato dalla paura di non essere fertile: così forte questa paura da spingerla, appena sposata, ad adottare, con immani difficoltà, un bambino. Ma più tardi, due figli le nasceranno da gravidanze che Borgeois esaminerà in opere di una forza straordinaria e con materiali molto espressivi: in The Woven Child, per esempio, viene materializzata attraverso il cucito e dunque il ricordo, la forza viscerale dei potere/dovere di generare. Quella di Louise Bourgeois è una maternità sempre legata al senso di abbandono, altro sentimento protagonista del libro, che riaffiora qua e là nel corso della sua intera esistenza, prima stimolato dallo scoppio della guerra, poi dalla morte della madre. E c’è poi quella impossibilità di credere fino in fondo in se stessa: «Ho sempre avuto dei complessi di colpa nel promuovere la mia arte, al punto che prima di ogni mostra avevo sempre qualche tipo di malore, così decisi che era meglio lasciar perdere. In fondo mi pareva che la scena artistica appartenesse agli uomini e che in qualche modo invadessi il loro dominio. Perciò il lavoro, una volta finito, veniva nascosto… D’altra parte non distruggevo niente. Conservavo ogni frammento».
Verso il vivere comune
Sono parole che permettono, tra l’altro, di comprendere l’accumulo impressionante di materiali artistici elaborato su svariatissimi supporti, e la produzione smisurata di una scrittura che soltanto di recente ha trovato una sua organizzazione. Con il passare degli anni, infatti, gli scritti di Bourgeois sembrano lasciare le pastoie della quotidianità, ma anche il risentimento per un vissuto infantile sempre più lontano, e passano a raccontare con grande profondità di sentimenti il vivere comune.
Un testo scritto nel 2000 per accompagnare la grande installazione della Turbine Hall e intitolato I do, I Undo, I Redo, il gigantesco ragno con il quale Luoise Bourgeois è diventata in qualche modo popolare, sottolinea, per esempio, in cosa consista per lei il concetto del fare: «Fare è uno stato attivo. È un’affermazione positiva. Ho il pieno controllo e procedo verso uno scopo, una speranza o un desiderio. Non c’è paura. Nei termini di una relazione, va tutto bene, tutto è tranquillo. Sono la buona madre. Sono generosa e premurosa – sono colei che dà, colei che provvede. È il “Ti amo”, qualunque cosa accada.»
Giulia Siviero
Dopo le prime tre pagine, già si è capito. Consolatori? Eccentrici persecutori piuttosto. Un venditore di libri che si diletta di satanismo, una nonnina che passa il tempo a trafficare diamanti (complici delle pagnotte di pane fresco comprate sotto casa), un giovane cronista con la mania “di notare i dettagli più strambi” e di vedere cose che “un buon cattolico non dovrebbe vedere”. E infine, Caroline: protagonista femminile che, in preda a una crisi mistica, “ama più Dio” del proprio fidanzato e dalle pagine del libro strizza l’occhio a lettori e lettrici, consapevole di essere semplicemente un personaggio. Ecco I consolatori (presunti) del romanzo d’esordio di Muriel Spark, edito ora, e per la prima volta in Italia, da Adelphi (pp. 246, € 19,00).
Quando un editore londinese, negli anni cinquanta, ne acquistò le bozze, attese un anno intero prima di darlo alle stampe. Perché “troppo difficile” per il pubblico del tempo. Ne ricevette il dattiloscritto anche Evelyn Waugh che a un’amica, di queste “geniali” pagine, riferì: “La protagonista è una scrittrice cattolica che soffre di allucinazioni. Il libro uscirà presto e sono sicura che tutti penseranno che l’abbia scritto io. Vi prego di smentire”.
Finalmente pubblicato nel 1957, il romanzo non diede a Muriel Spark la fama, che giunse solo qualche anno dopo con Gli anni fuggenti di Miss Jean Brodie (impedibile, Adelphi, 2000). Tra l’uno e l’altro, l’autrice scozzese ne pubblicò altri quattro. E così via di anno in anno, fino alla morte, avvenuta nel 2006 vicino ad Arezzo dove visse per ventisei anni. Muriel Spark è una di quelle scrittrici che produssero moltissimo senza mai deludere ed è lecito affermare, ora che ne leggiamo l’opera prima, che fin dall’inizio avesse già in mente tutto. Proprio come sostiene Martin Stannard nel suo Muriel Spark. The biography (Weidenpheld & Nicolson, pp. 658, £ 25,00) da poco uscito in Inghilterra dopo che la stessa Spark ebbe passato al setaccio pagina per pagina: il cambiamento, nota il biografo, appartiene più alla vita privata dell’autrice che ai suoi romanzi. Ed è vero. Ne I consolatori è possibile trovare già tutto: ecco, dunque, il racconto di personaggi comuni che vivono secondo ordinarie logiche di follia: di un gruppo di persone, in cui ognuna spia l’altra; e ancora: la dimensione meta-letteraria, il diritto e il rovescio dell’anima umana tratteggiata nel suo lato oscuro, quello in cui si annidano i mostri, i mali che si sprigionano nei modi e nei momenti più inaspettati. Infine, su tutto, un acuto senso dell’osservazione, un ritmo agile e un tono sarcastico e dissacrante. Che la fa essere così tagliente, soprattutto, verso i cliché e le credenze più minute del cattolicesimo. Dall’interno, visto che al cattolicesimo lei, figlia di un padre ebreo e di una madre cristiana, decise di convertirsi nel 1954. Scelta che fu fondamentale nel farla divenire una scrittrice di romanzi. Perché, per scrivere romanzi, “è necessario guardare all’esistenza umana nel suo insieme”. E, aggiungeva John Updike riferendosi proprio alla Spark, avere “risorse, coraggio, grinta, da modificare la macchina della narrativa”.
Serena Fuart
Ed. Zona 2009
Donne che divertono e si divertono mentre fanno divertire. Un gioco di parole per raccontare una serie di scritti, poesie, aforismi, cabaret composti da donne di tutte le età e regioni di Italia per dei momenti di risate che riescono a far evadere lo spirito. Si chiama ‘Pink Ink – scritture comiche molto femminili’ questa raccolta di scritti a cura di Daniela Rossi con consigli di Alessandra Berardi, Lorenza Franzoni e Laura Lepetit.
Le scritture comiche sono tutte femminili e divertono con una comicità fresca, aderente al vissuto di ogni donna. Non mancano però gli spunti di riflessione. I testi fanno divertire anche in modo satirico tirando in ballo problemi seri come la guerra, politica, amori finiti e altri argomenti ancora. Ci si diverte, si evade, ma si può anche riflettere, quindi. L’idea di questo testo nasce da un concorso creato da Daniela Rossi, rivolte a donne di tutte le età e parti d’Italia. Come dice l’introduzione del testo ‘Il concorso riguardava la scrittura comica e tutte hanno dichiarato di aver scritto per divertisi’. E hanno trasmesso questo buon umore. Il testo si divide in tre sezioni: poesie, racconti e teatro di Cabaret. Si legge tutt’ad un fiato. E si ride di cuore.
Giovanni Tesio
“Con Antonia Pozzi abbiamo ormai scavalcato un anniversario (i settant’anni dal suicidio avvenuto a soli 26 nel 1938), ma giunge in ogni caso utile la riproposta di Tutte le opere (non proprio tutte, in verità) per ribadire l’altezza poetica a cui è pervenuto un itinerario fatto di «fragilezza ardente», di vita aggrappata a spazi esili, di solitudini interiori, di rigore intellettuale e morale, di terre promesse, di soglie smarginate, di gioie tempestose, di anafore sentimentali, di tragico destino (una testimonianza «a latere» si segnala nel volume di Marco Dalla Torre, Antonia Pozzi e la montagna, Àncora Editrice).
Proprio a cominciare dalla Pozzi, ciò che imprime un fascino speciale alla poesia femminile è la testimonianza di un verso radicato nel reale, la continua ricerca di un senso che si incardina anche nel significato, nella sua leggibilità, nella sua comunicabilità, nella corrispondenza e utopistica coincidenza della necessità di dire e della parola capace di articolarne la voce. Come testimoniano alcuni altri libri appena pubblicati, che appartengono a poetesse diverse, ma tutte avvinte alla morsa delle cose, al dominio di una scrittura limpida e concreta. Ciò che accade puntualmente con i versi di Maria Luisa Spaziani «Vorrei mordere il tempo come il pane, / lasciarci il segno dei miei denti»), tratti dal libro appena uscito, L’incrocio delle mediane. Poesia di voce netta, di taglio classico, di misura bilanciata, di equilibrio ironicamente regolatore, fino alla metastasiana (e pascoliana o caproniana) leggerezza di questa icastica quartina siderale: «San Lorenzo piangente / su pianure infinite. / Tutta la notte il cielo/ sfoglia le margherite». Pur lavorando di schiettezza e trasparenza («Se la forza della semplicità va diritta al cuore», come dice un primo verso) alle virgiliane «lacrimae rerum» (ricordo anche un racconto di Verga) allude il titolo del libro di Gabriella Sica, Le lacrime delle cose, costruito con parole libere, come scrive Paolo Lagazzi, «dalle oscurità e dalle costrizioni mentali del modernismo simbolista». E del resto, è la stessa Sica della Poesia per Cecilia a innescare domande affannose e cruciali, sicuramente retoriche: «Amare tanto amare troppo amare il reale./ Questo l’odioso torto? Questi gli imperdonabili errori?». Incontri, abbandoni, strazi, tempi, spazi, viaggi, occasioni in un libro unitario, che dalle deliziose «Poesie piccolette» fino alle più elaborate costruzioni (in versi anche lunghi) dei componimenti di dimensione maggiore si tiene alla saldezza degli incontri: tanto con i vivi quanto con i morti, a cui sono dedicate le terzine di un canto fermo e commovente. «Poesie piccolette» (di casta e smaliziata innocenza) sono da sempre quelle di Vivian Lamarque, che ci fa ora la sorpresa di un recupero curioso, collocabile come scheggia (minore, ma non impazzita) nella tradizione dei Tessa e dei Loi: la raccoltina La gentilèssa, scritta per altro – la stessa Lamarque ammette – in un milanese «alquanto improbabile» (come registra l’intervista rilasciata a Barbara Tolusso pubblicata in coda al libro, l’autrice è nata in Trentino ma milanesi erano i genitori adottivi). Adesione a una lingua di cose, a un mondo d’infanzia e di casa, che parla di fatti piccoli e grandi, di luminii e sconforti, di luoghi della Milano «brütta bèlla» perché legata all’amore e al disamore, ai sogni di sempre, ai desideri fatti di tutto e di niente. Da Novella Cantarutti a Nelvia Del Monte, da Assunta Finiguerra a Bianca Dorato, da Franca Grisoni a Ida Vallerugo, ancora voci «dialettali», infine, nell’antologia Cinquanta poesie per Biagio Marin, a cura di Anna De Simone. Al di là della resistenza del mezzo, un florilegio che conferma sia la qualità di tanta poesia «al femminile» sia la sua propensione realistica, che è poi – prima di tutto – energia di radicamento nella parola e nel cuore.”
Caterina Ricciardi
“Con gesto regale, aprì i lembi dell’impermeabile scarlatto. Era in piedi davanti a me nuda, o quasi. Sopra i capezzoli aveva due minuscole lattine di pomodori, legate con un cordino verde dietro la schiena. Tra le due lattine pendeva una piccolissima uccelliera con dentro un canarino desolato. Un braccio era coperto dal polso alla spalla da anelli di celluloide per tende, che poi confessò di aver rubato nel reparto di arredamento dei grandi magazzini Wanamaker. Si tolse il cappello che era stato decorato in modo grazioso ma poco appariscente con carote dorate, barbabietole, e altri ortag-gì”,Così, alla Arcimboldo, il pittore americano George Biddle descrive la baronessa von Freytag-Loringho-ven, nata Elsa Plòtz, in un paesino tedesco al confine con la Polonia. Nel 1904 si era avviata per le strade del mondo, posando nei cabaret di Berlino come “statua vivente”, e fermandosi in seguito li dove le avanguardie artistiche fremevano: Parigi, Londra, New York, e ancora Parigi, dove la baronessa, malata di sifilide, morirà in circostanze misteriose ne! 1927. A proporne una biografia romanzata è Rene Steinke con Sante Gonne La . vita della Baronessa Elsa (trad. di Delfina Vezzoli, Alet, pp. 393, € 18,00), uscita negli Stati Uniti nel 2005, più o meno in concomitanza della biografia ufficiale scritta da Irene Cammei, e di un’edizione della lacunosa autobiografia di Elsa curata da Paul Hjartason e : Douglas Spettigue. Nel giro di pochi anni si è dunque riscattato dall’oblio uno dei personaggi più enigmatici de! primo Novecento internazionale, una sorta di vistosa Contessa Casati ma molto più spregiudicata nella sfida alle convenzioni, negli oscuri commerci sessuali e nella piena identificazione del corpo e del narcisismo intellettuale femminile con il performativo artistico di quegli anni, il Dada ,in particolare, e il proto-Pop, offer-: to a Elsa anche da quelle boutique di massa che erano i neonati grandi magazzini americani. Nel 1913 emigra a New York, dove resterà 10 anni, battendo le strade dei Village nei suoi travestimenti punk, vivendo dì stenti e stratagemmi, posando nuda, fumando peyote, frequentando Djuna Barnes, Emma Goldman, Stieglitz e Man Ray, corteggiando Duchamp. Obliterando il suo io tedesco. Elsa si lascia stordire dalla città in movimento verso il futuro, e verso l’alto, incantata dalle meraviglie di uptown, il lusso del Ritz e del Biltmore, e le insegne luminose di Times Square che impara a tradurre in poesia dada, o pop, come in un dipinto di Charles De-muth: “Niente di così pepsodent-lenitivo / Cara Mary – la menta con / II buco – Oh salvagente! / Aderisce bene – delizia del palato / Continua azione germicida – / Guerra Mondiale Postum Lister/ Una dovìzia di Vicks confezione famìglia!”. Arte povera sì, ma derivata da quella nuova Musa del capitalismo che si avviava a diventare la pubblicità. Elsa l’aveva capito, introducendoci, provocatoriamente con i suoi versi, nell’esordiente e intersemiotica avanguardia newyorkese.
L’opus magnum della Prato prima delle forbici di Natalia Ginzburg
Andrea Cortellessa
A ventisei anni dalla morte, si può dire finalmente compiuta la restituzione di Dolores Prato alla nostra letteratura. Con essa, in vita, l’autrice marchigiana (ma per caso nata a Roma nel 1892) non ebbe commerci semplici; il suo esordio cadde infatti, a ottentotto anni!, solo nel 1980, da Einaudi: con la versione dell’opus magnum, Giù la piazza non c’è nessuno, assai ridotta da un editor d’eccezione quale Natalia Ginzburg.
Seguì una piccola leggenda nera: l’anziana scrittrice fece sapere che i tagli (equivalenti a quasi due terzi del testo) avevano gravemente snaturato la sua opera. Ogni lettore poté farsi un’idea quando nel ’97 Giorgio Zampa (dopo aver curato da Adelphi l’edizione di un più breve “seguito” di Giù la piazza, Le ore) riuscì a pubblicare, da Mondadori, il dattiloscritto completo.
A mia volta, lettore finora solo parziale dell’opera, m’ero fatto del lavoro della Ginzburg una pessima opinione; ma, reduce ora da un’impegnativa lettura integrale, mi sento di almeno in parte rivalutarlo. L’opportunità di ridurre il corpo di Giù la piazza, nell’ipotesi (poi scarsamente concretizzatasi) di raggiungere un pubblico relativamente ampio, appare infatti evidente; così come sacrosanta quella di consentire, poi, una lettura integrale di quello che resta uno dei capolavori della prosa italiana del Novecento. Lettura che solo ora torna possibile: grazie all’iniziativa di Quodlibet, che ha scelto di riprodurre il testo fissato da Zampa (nel frattempo, l’anno scorso, scomparso a sua volta).
Considerazioni più sottili, semmai, vanno fatte sul come vennero operati i tagli. Il che ci introduce nel più spinoso dei problemi: che cos’è, in effetti, Giù la piazza non c’è nessuno? In copertina c’è infatti scritto “romanzo”, e proprio questa fu l’ipotesi di lavoro (e la scommessa persa) della Ginzburg: ricondurre il più possibile al canone narrativo tradizionale un testo che si ribellava, invece, alla radice.
La più acuta lettrice della Prato, Monica Farnetti, ha sottolineato un aspetto fondamentale da ultimo in uno dei saggi compresi nel bel volume Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee, La Tartaruga, pp. 332, € 17): se materia specifica della narrazione è il tempo, nel testo della Prato trionfa invece la categoria dello spazio. Più che come romanzo e autobiografia, Giù la piazza non c’è nessuno va allora letto come “Atlante delle emozioni” (per dirla con Giuliana Bruno): dettagliatissima cartografia sentimentale di un luogo “mitico”, la cittadina di Treja, dove Dolores, abbandonata dai genitori e cresciuta da una zia anaffettiva e da un ingegnosissimo zio prete, crebbe nei suoi primi dodici anni.
Di Treja la scrittrice vuole “ritrovare”, nella memoria, tutto. Ogni strada, ogni bottega, ogni caso sono trasfigurate in capitoli di stupefacente virtuosismo descrittivo, che interdicono ogni reale sviluppo narrativo; il tempo è un eterno imperfetto che sospende ogni sensazione in un’aura di microscopica, dorata eternità. L’unica “storia” che si sviluppa, o meglio che si trova già all’inizio dispiegata in Giù la piazza, è la travagliata presa di parola (una parola nutrita, sin dal titolo, da fervidi succhi popolari) da parte dell’autrice-protagonista. Evidente a questo punto il debito con Proust, così come l’apparente vicinanza a una proustiana di lungo corso quale la Ginzburg (che dovette ispirare l’idea di affidarle l’editing) nonché, da essa, la sua effettiva distanza (che quell’editing orientò in direzione incongrua) Esemplare il confronto tra l’incipit di Giù la piazza, “Sono nata sotto un tavolino”, e del testo “parallelo”, Lessico famigliare: “Nella mia casa famigliare”. Tanto il luogo che il linguaggio sono nella Prato all’insegna dell’inappartenenza, laddove la Ginzburg ne rivendica fieramente il possesso.
Ciò che rende affascinante quanto stremante la lettura di Giù la piazza è la densità parossistica delle “epifanie”. E’ come se campanili e madeleines, nella Recherche, ricorressero ad ogni pagina: non solo non è possibile la narrazione lineare, ma neppure quella musicalmente organizzata che Proust ha insegnato al Novecento. Per capire in quale direzione avesse lavorato la Prato è illuminante la lettura, per il resto non molto più che un gradevole intrattenimento, del primo suo libro, scritto nel 1948 ma pubblicato, a pagamento, solo nel ’63; e che viene pubblicato ora, per la prima volta nella ne varietur dell’autrice, da Avagliano. Si tratta infatti di un “vero e proprio romanzo” (come lo definisce, con opinabile soddisfazione, la curatrice): nel quale sono bensì presenti, ma solo in nuce, gli elementi che faranno l’unicità dell’opera maggiore (la stasi di esistenza coartate nell’attesa di eventi impossibili, la passione ossessiva per il loro luogo di reclusione, l’estasi sensoriale che quelle esistenze riscatta); e nel quale gli elementi simbolici-chiave (che intitolano fra l’altro le sue due versioni La rosa muscosa e appunto Campane a Sangiocondo) sono ripresi pari pari dall’opera, e dall’anedottica, proustiane; così come scolastica appare la conduzione per leitmotiv. Si pensi a cosa era stato invece capace di fare, con l’icona delle campane e del loro suono, un proustiano sui generis come il Gadda della Cognizione del dolore…
E’ possibile che in tempi come i nostri, di soffocante conformismo neoromanzesco, arrida maggiore successo alla Prato “tradizionale”, l’apprendista di Campane a Sangiocondo, che a quella audace e “impossibile” in Giù la piazza non c’è nessuno. Ma è una buona notizia che ciascun lettore – come a suo tempo, con eroica intransigenza, l’autrice – possa oggi, tra le due, fare la propria scelta.
Dolores Prato
Giù la piazza non c’è nessuno
A cura di Giorgio Zampa, con una nota di Elena Frontalini
Quodlibet, pp. 704, € 28
Dolores Prato
Campane a Sangiocondo
A cura di Noemi Paolini Giachery
Avagliano, pp. 309, € 15
Leonetta Bentivoglio
La copertina del volume sfoggia un rosa carico. Rosa confetto o rosa degli accessori delle Barbie. Troneggia il viso di una bambola con chioma biondo platino e labbra smaltate dello stesso rosa. Nauseante eccesso di finzione, marzapane stucchevole, doccia di profumo di violette. Il culto plastificato della velina trionfa sul fallimento delle pretese del vecchio femminismo. Queste immagini non affiorerebbero se a firmare il romanzo Sorella, mio unico amore non fosse l’ americana Joyce Carol Oates, cantastorie di un’ America gotica al di là della patina lucente. L’ autrice di Una famiglia americana, Blonde, L’ età di mezzo e La figlia dello straniero sa narrarci con una cattiveria senza scampo un mondo fatto di donne in preda a sogni insulsi, maschi alcolici e incestuosi, perversioni nascoste nel garbo zuccherino di villette a schiera, Grand Guignol suburbano mascherato dalla grottesca avvenenza dei riti consumistici. Esasperando ancora tale prospettiva, Sorella, mio unico amore racconta, per voce del mesto fratellino Skyler, la vicenda di Edna Louise, bambina dotatissima per il pattinaggio: già a quattro anni vince ogni gara ed è una stella. Suo padre e sua madre, Bix e Betsey Rampike, paiono stagliarsi dai più volgari reality televisivi: l’ uno è un borioso fusto palestrato avido di automobili, giochetti erotici e ragazze compiacenti; l’ altra è una bellona svuotata di ogni senso esistenziale e logorata dall’ ansia di trattenere il coniuge in perenne fuga. È lei, questa strega grandi curve, a ribattezzare col nome di Bliss la pupetta-prodigio, investendola delle sue ambizioni frustrate. La trucca come la più smerciabile adulta, ne fascia il sederino con ammiccanti slip, consegna la sua infanzia a sguardi morbosi. E Bliss finisce uccisa nella notte oscura. Nella trama tutto riconduce alla storia vera di JonBenet Ramsey, reginetta di bellezza di sei anni che nel 1996 venne trovata massacrata nella cantina della sua casa bamboleggiante e oscena come le mises della vittima. Gli indiziati principali dell’ omicidio, rimasto insoluto, erano i genitori, che per anni si professarono innocenti spargendo fiumi di lacrime e ricordi nei talk show delle tivù statunitensi. A quella morte la fiction della Oates offre una soluzione tanto contorta nelle cause quanto prevedibile nell’ identità del colpevole. E il plot riempie un esagerato numero di pagine ossessive, che ci frastornano anche con interventi grafici sul testo, pieno di cancellature, lettere in stampatello, corsivi e spazi bianchi: vezzo caro alla scrittrice americana, usato per esempio ne La madre che mi manca, che enfatizzava in farneticazioni anche visibili il dolore della protagonista, colpita dal trauma di un delitto proprio come Skyler. Diseguale, prolissa, debordante, ma di ferocia mirabile nelle sue vette di delirio pulp, Joyce Carol Oates si conferma intrepida e spietata nella sua condanna della famiglia “disfunzionale” di un Occidente folle e pronto a dare un prezzo a tutto.
Tommaso Pincio
Anche il Giappone ha una regina del delitto. Il suo nome è Natsuo Kirino, o per meglio dire è così che si fa chiamare. Lo pseudonimo è stato per lei una scelta quasi obbligata. All’ inizio della sua carriera si nascondeva addirittura dietro un nome maschile per evitare di essere censurata. Una dozzina d’ anni fa suscitò un accesso dibattito con Le quattro casalinghe di Tokyo, (Neri Pozza) sanguinaria epopea di un’ operaia che, colta da un raptus, strangola il marito e convince tre colleghe ad aiutarla a disfarsi del cadavere. Gli uomini giapponesi si sentirono minacciati. Un giornalista radiofonico si rifiutò persino di intervistarla. «Stentavano a credere che una donna potesse scrivere un romanzo tanto aggressivo», ricorda l’ autrice. «E ancor di più li scioccava che la donna in questione fosse sposata e madre di una bambina. L’ avesse scritto un uomo nessuno si sarebbe stupito, lo avrebbero considerato pura fiction. Ma siccome si trattava di una donnae lo stile era piuttosto realistico, i lettori ne furono sconvolti». In effetti, parlare di crime story è riduttivo. Qualcuno ha allora proposto un’ etichetta alternativa: noir femminista. Ma la verità è che Natsuo Kirino si è inventata un genere tutto suo per scandagliare la faccia nascosta del Giappone contemporaneo. Prima di iniziare un romanzo si reca nel quartiere in cui ha deciso di ambientarlo, apre i cassonetti della spazzatura e studia quel che la gente butta via. La sua scrittura cruda e ipnotica si nutre di odori e dettagli; fotografa l’ esistenza di individui messi a dura prova da un sistema che chiede tutto e concede pochissimo, soprattutto alle donne, considerate, a seconda dei casi, macchine da figli, mano d’ opera a basso costo, carne di cui approfittare. Costrette in un angolo, però, anche le creature più docili e sottomesse possono fare cose impensabili. Ecco allora assassini che non ti aspetti: casalinghe depresse, segretarie molestate, liceali incattivite. Liceali sì, perché la violenza dipinta dai media sarà pure una metafora della frustrazione, ma il numero dei crimini orribili aumenta e l’ età di chi li commette è sempre più bassa. «Adesso sono i ragazzinia uccidere. Gli adulti giapponesi sono sbalorditi e non sanno che fare. È la realtà in cui viviamo». E Real world (Neri Pozza, pagg. 270, euro 15,50) è per l’ appunto il titolo del romanzo in cui la scrittrice fa i conti con gli adolescenti di oggi e le loro ansie. Il bisogno di sentirsi veri e autentici. L’ imperativo di diventare qualcuno in una società che ti impone di restare nei ranghi di una massa anonima e indistinta. «Il senso di crisi che ci affligge è qualcosa che nemmeno mia madre può comprendere», confessa Toshiko. Le sue sono le paure di una ragazza che sta per terminare il liceo. L’ età adulta è ormai dietro l’ angolo, e deve decidere cosa fare della sua vita. Iscriversi all’ università o trovare un lavoro? Sposarsi, restare vergine o amoreggiare? Ma di tutto ciò non vuole saperne. Lei e le sue amiche si sono date un nome fasullo che forniscono ogni qualvolta devono compilare un modulo. Lo fanno per non «finire in qualche database, tenute sotto controllo dal mondo degli adulti», che vedono come un pianeta ostile abitato da creature aliene e rapaci, un branco di squali pronto a divorale in ogni senso, fisico e morale, sessuale ed economico. Così, quando un vicino di casa di Toshiko, pure lui adolescente, fracassa senza motivo apparente la testa della madre con una mazza da baseball, le quattro ragazze anziché inorridire simpatizzano con l’ imberbe omicida e cercano di proteggerlo dalla polizia. Una di loro, l’ intellettuale del gruppo, medita addirittura di scrivere una sorta di manifesto avanguardista che esalti l’ insano gesto. Privo di qualunque possibilità di riscatto o redenzione, nichilista fino al midollo, Real world è narrato dalla viva voce dei suoi smarriti protagonisti, ognuno dei quali rivela un lato sporco che ha evitato di confidare agli amici, condannandosi a una solitudine senza sbocchi. Alla fine, nel loro coalizzarsi contro gli adulti, i ragazzi di Natsuo Kirino si ritrovano segretamente opposti l’ uno all’ altro, coinvolti senza volerlo in un gioco al massacro non troppo lontano da quello del controverso romanzo di Koushun Takami cui l’ autrice tributa un significativo cammeo. Uscito in Giappone nel 1999 (e tradotto ora per Mondadori, pag. 600, euro 9) Battle Royale è un tenebroso incrocio tra Il signore delle mosche e 1984. Vi si immagina una tirannica Repubblica della Grande Asia dell’ Est nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale. A capo del regime poliziesco si trova l’ Egemone, un grande fratello dagli occhi a mandorla che ha ideato un Programma speciale allo scopo di reprimere il bullismo. Ogni anno una classe di studenti quindicenni viene confinata in un’ isola deserta. I ragazzi dovranno uccidersi a vicenda finché non rimarrà un solo sopravvissuto. Com’ è facile intuire, la malsana competizione non ottiene i risultati sperati poiché fa della violenza uno spettacolo e del vincitore una celebrità. Un destino analogo è toccato in fondo pure alle intenzioni di Takami. Pensava di fustigare i valori nefasti di una società che educa alla competizione più feroce, ma ha finito col partorite un cult assoluto, il libro più venduto di tutti i tempi in Giappone (tra i successi del genere anche quello di Kenzo Kitakata, autore di Tokio noir, pubblicato da Newton Compton). Del resto, questo è il dilemma: è o non è un paese per giovani? E non vale soltanto per il sol levante, ma per tutti i paesi del mondo reale.
Tommaso Pincio
Secondo un vecchio aforisma cinese la più grande delle forme è quella
che non ha confini, e il rumore più intenso è quello che non emette
alcun suono. Ne potrebbe discendere che la storia più grande è quella
che non ha parole per essere raccontata. Ed è proprio una grande
storia, un epico romanzo di sublime fattura sui tormentati eventi
della Cina del secolo scorso, quella narrata da Zhang Jie in Senza parole
(Salani, traduzione di Maria Gottardo e Monica Morzenti, pp. 315,
euro 16,80). Al centro una figura di donna, una famosa scrittrice di nome
WuWei, che dopo una giovinezza appassionata ed esuberante diventa la
secondamoglie di Hu Bingchen, un funzionario di partito più vecchio
di lei costantemente preoccupato di barcamenarsi nelle intricate lotte
di potere del periodo maoista. Dopo anni di amore, Wu Wei sarà costretta
ad ammettere che «anche lui, come gli altri uomini, è un calcolatore».
In nome delle apparenze, infatti, Hu Bingchen penserà bene di non
restare accanto a un’eccentrica intellettuale sospettata di essere
borghese e tornerà dalla prima moglie, abbandonando Wu Wei a una
precoce follia senile.
Il romanzo, – come spiega l’autrice in questi giorni a Venezia per il
festival «Incroci di civiltà» e ospite dell’Istituto Confucio – non è
una storia d’amore, bensì di destini.
Nata Pechino nel 1937, Zhang Jie sembra non aver perso nulla
dell’elegante bellezza della gioventù. Uno sguardo intelligente e
luminoso, zigomi alti, una grazia naturale neimodi. Dopo un’infanzia
difficile, si è laureata in economia e ha lavorato in ambito
governativo fino al 1969, quando, in piena Rivoluzione Culturale, fu
spedita in esilio forzato in campagna. Più volte candidata al Nobel,
Zhang Jie è oggi la scrittrice più apprezzata in Cina.
Senza parole procede per continui scarti, andando avanti e indietro
nel tempo, lungo quattro generazioni. Incontriamo così la figlia
illegittima di Wu Wei e sua madre Ye Lianzi, a sua volta nata da Mohe
morta dissanguata di parto dopo la settima gravidanza. Attorno a loro
una miriade di altri personaggi, uomini che, a differenza delle
donne, si mostrano spesso più interessati al potere, al gioco, alla politica
che non alla dimensione più autentica e spirituale della vita. «Ci
sono cose così profonde che non possono essere dette: è questo il senso
del titolo. Ho sentito che non avevo la forza né la possibilità di
esprimere il dolore di tutte queste esistenze, di queste vite. Le
parole sono inadeguate a rendere conto dell’epica tragedia della Cina
del ventesimo secolo. Nessuno scrittore può dire il dolore del mondo:
per questo il mio libro è senza parole».
Il suo romanzo è il più premiato dei romanzi contemporanei del suo
paese. È stato spesso accostato a capolavori come Cent’anni di
solitudine e Il dottor Zivago.
Ci vogliono dieci anni per forgiare una spada perfetta, dice un
proverbio cinese. Lei ne ha impiegati due di più per portare a
compimento Senza parole.
Sì, ci sono voluti dodici anni di ricerche e scrittura. Sono stata
più volte a Yan’an viaggiando in camion insieme a mucche, capre e
galline. Ho trovato la figlia di uno degli uomini dei servizi segreti
che negli anni Quaranta si occupavano delle presunte spie presenti
nel partito. Parlando con lei sono venuta a conoscenza di storie che
all’epoca si ignoravano. In quel periodo tutti andavano a Yan’an
convinti che il comunismo avrebbe salvato ilmondo e dissidenti erano
considerati antirivoluzionari. Ho visitato molti posti e ho raccolto
un’enorme quantità di materiale, pile di carte da cui ho ricavato
quattro volumi che in seguito ho pensato di ridurre a tre quando mia
figlia mi ha detto che al giorno d’oggi nessuno leggerebbe libri
tanto voluminosi. Alla fine, il lavoro di studio e ricerca mi ha talmente
stremato che ho bruciato tutte queste carte.
E cosa può dirmi della stesura, è stato altrettanto faticosa? La sua
scrittura sembra tesa a cercare un equilibrio ideale tra la sintetica
levità della poesia e n’introspezione psicologica di stampo più
romanzesco.
Anche la stesura ha richiesto molto, perché in vari passaggi del
libro ho cercato di giungere a un certo lirismo, a una semplicità
della frase che impone impegno e fatica.
Quando mi chiedono di esporre la storia di Senza parole mi irrito
perché per me è difficile dire che storia si tratti. Ho tentato di
unire l’indagine della vita interiore con la poesia e trovo banalizzante concentrarsi sulla trama. Ho riflettuto sulla posizione di ogni singola parola e ringrazio le traduttrici italiane che si sono adoperate magnificamente per restituire nella
vostra lingua questi sforzi. Quanto alla struttura narrativa, ci
tengo a dire che non preparomai un piano di lavoro. I fatti da raccontare
sono tutti nella mia testa. Forse sono un po’ sciocca, perché ho una
pessima memoria. Una volta mi è successo di gettare una grossa somma
di denaro che mi ero dimenticata di avere messo all’interno di un
vecchio giornale. I dettagli dei miei romanzi, però, li ricordo tutti perfettamente.
Salta evidente una forte distinzione tra i personaggi maschili,
sempre preoccupati di salvare la faccia e quasi mai autentici, e
quelli femminili che invece rifiutano di piegarsi alle menzogne dettate
dalla convenienza.
Le donne che descrivo sono assai particolari. In realtà, non tutte le
donne sono così. Forse i personaggi cui ho dato vita sono
l’incarnazione della mia speranza riguardo le donne.
Mi pare di riscontrare un tema simile anche nel suo racconto
d’esordio, L’amore non deve essere dimenticato, la cui voce narrante
è una donna che sfida le convenzioni e decide di non sposarsi a dispetto
della disapprovazione sociale, perché memore delle sofferenze di sua
madre unita a un uomo che non l’amava.
A mio avviso si tratta di una figura diversa, la sua scelta non era
altrettanto forte. E in ogni caso, come ha scritto un giovane critico,
i miei romanzi sono assai diversi e io confido che sia davvero così
perché odio gli scrittori che ripetono se stessi e mantengono uno stile
costante, riconoscibile fin dalla prima frase. Per melo stile è come
giocare a nascondino: se ti nascondi sempre nello stesso posto è troppo
facile trovarti. Può darsi che pecchi di presunzione, ma mi sforzo di
fare cose diverse. Ho scritto romanzi di rottura prima ancora
dell’avanguardia emersa negli anni Ottanta.
La prima pubblicazione di una sua opera risale però soltanto alla
fine del decennio precedente, quando lei aveva già compiuto
quarant’anni. C’è una ragione particolare per questo esordio un poco tardivo?
Prima della morte di Mao era possibile scrivere solo rispettando i
suoi dettami letterari. Si doveva raccontare del lavoro nelle campagne,
adottare uno stile realista, mentre io ero interessata a un diverso
genere di introspezione psicologica che all’epoca era precluso.
L’amore non deve essere dimenticato uscì nel 1978. Alcuni lo criticarono
perché vi lessero una difesa dell’amore fuori del matrimonio. Tuttavia il
racconto divenne molto popolare tra i giovani e vinse un prestigioso
premio nazionale.
In Senza parole, il lento avanzamento verso di Wu Wei verso la follia
viene messo in relazione con la pittura, in particolare dal marito, il
quale sostiene che «l’improvviso insorgere della passione per la
pittura nel mezzo della vita di una persona è segno di insanità
mentale». So che pure in un suo recente romanzo, Dipinto di Z, non
ancora tradotto in italiano, si parla di un quadro che fa da perno alle
vicissitudini della Cina.
Mi piace dipingere; paesaggi specialmente. Quanto al romanzo cui fa
riferimento, il punto da cui sono partita è la Storia. Io non credo
nella Storia. Non mi fido di essa, perché la Storia è in primo luogo
dei vincitori, e in seconda istanza di chi la scrive. La Storia implica
sempre e necessariamente un punto di vista, un’estetica, un giudizio,
una fede, un qualche tornaconto che finisce col determinare la versione
dei fatti. Da giovane ho dovuto leggere molto Marx e la principale cosa
che ho assorbito del suo pensiero è che bisogna dubitare di tutto.
Mentre ero impegnata nelle ricerche per Senza parole mi sono resa conto
che anche su eventi recenti i racconti divergono e non c’è possibilità
di accordarsi in merito ai vari dettagli. Ovviamente nemmeno io posso
ritenermi nella posizione di dare un giudizio obiettivo, ma quantomeno
posso mettere in guardia il lettore, fargli guardare la Storia da più
punti di vista. Nel Dipinto di Z racconto di un’imperatrice della
dinastia Jin che è stata aspramente criticata. In effetti non si può
negare che si sia sporcata le mani, ma il potere è sempre sporco e lei
non era peggiore di tanti altri. Io stessa mi sarei comportata come lei
qualora mi fossi trovata al suo posto. Fu costretta dal destino a fare
certe scelte e viene da domandarsi perché ad altri imperatori maschi,
certo non migliori di lei, non sia stato riservato un trattamento
altrettanto severo.
Forse perché era donna.
È la risposta che mi sono data anch’io, ma non mi ritengo una
scrittrice femminista. Sotto questo aspetto vengo talvolta fraintesa.
Non credo sia bene che noi donne si perda troppo tempo a lamentarci
perché gli uomini ci trattano male. Io voglio andare avanti con le mie
forze, non mi piace l’idea che siano gli altri a darmi la parità.
Naturalmente, pretendo rispetto. Ma vorrei tornare sul tema della
Storia, che è l’argomento centrale anche del mio nuovo romanzo, la cui
uscita in Cina è prevista per il mese prossimo. Si intitola Le anime
sono fatte per fluttuare e vi compare un personaggio effettivamente
esistito ma al quale ho dato un nome fittizio. Si tratta di un
missionario a suo tempo accusato di aver distrutto la cultura Maya
perché bruciò alcuni libri. In realtà, la cultura Maya sopravvive
grazie a quel che resta delle sue architetture. Mentre i testi in
questione, di produzione azteca, furono dati in parte alle fiamme
perché considerati barbari e insopportabili per la morale cattolica in
quanto vi comparivano scene di sesso con animali. Accusare questo
missionario di avere distrutto un’intera cultura è perciò ingiusto.
Un romanzo lontano dal suo paese, dunque.
È ambientato in un’isola, dove però si incontrano due cinesi, due
viaggiatori, persone opposte fra loro. Da un lato c’è una donna in
cerca del proprio patrigno che vuole uccidere perché in passato ha
avuto una relazione con lui. Scavando al fondo del suo animo, scopriamo
comunque che la donna è ancora attratta dal suo patrigno e pertanto si
ritrova combattuta tra passione amorosa e morale. L’altro viaggiatore è
un matematico impegnato nello studio dei numeri Maya, nella fattispecie
di un calcolo che dovrebbe fissare, seppure erroneamente, la fine del
mondo. Se la donna è rosa dalla vendetta e dai suoi sentimenti
contrastati, l’uomo è invece immerso nella astratta serenità dei
numeri. Sono come due mondi, uno il contrario dell’altro, la notte e il
giorno, due modi di vedere le cose, di raccontarle. Due storie, in pratica.
Giulia Siviero
Afferma il filosofo: “Penso dunque sono”. Dimenticando di “essere” perché sua madre l’ha messo al mondo. Ma il filosofo riflette meglio su ciò che gli è conforme, lasciando nell’impensato e senza riconoscimento ciò che, invece, gli sfugge. E non si dubiti dell’importanza della filosofia se, fin dai tempi delle caverne (platoniche), ha tracciato e indicato non solo la via delle idee, ma anche quella dell’intera tradizione occidentale in tutte le sue forme. La disattenzione con la quale è stata tralasciata la nascita dall’orizzonte del pensiero – e quindi la differenza sessuale osservabile sempre e ovunque perché inscritta nei corpi quando si viene al mondo – ha portato alla costruzione di un sistema in cui vi è un unico soggetto presente, e presente a sé stesso. L’uomo, con le sue pretese di universalità e di sedicente neutralità, si è posto al centro definendo la donna in negativo come assenza e mancanza (di un pene, di una razionalità, di un autocontrollo ecc.). Ed ecco che tutto ciò che si organizza in discorso, arte, religione, famiglia, linguaggio, tutto ciò che è a noi legato e ci costituisce, è stato organizzato in opposizioni duali divenute, ben presto, una gerarchia naturale.
Sono passati più di trenta anni da quando Luce lrigaray è stata sospesa dall’insegnamento all’École freudienne di Parigi. Per aver messo a nudo, con il suo primo lavoro, Speculum, la “cecità” della tradizione psicanalitica e di quella filosofica e per aver denunciato, contribuendo a una svolta rilevante nella storia del pensiero femminista, i meccanismi di occupazione abusiva di uno dei due sessi sull’altro. La teoria della differenza sessuale è ora venuta al mondo, ma i tempi sembrano essere ancora scardinati. Da allora, Luce lrigaray non ha mai smesso di scrivere riuscendo a raccogliere e a rendere feconda l’eredità di quel primo e imprescindibile momento di critica e di de-costruzione. Il suo ultima lavoro si intitola Condividere il mondo (Bollati Boringhieri, pp.144, € 14,00) e i toni, non più liberatori, si sono fatti composti e saldi. Al centro, resta il pensiero della differenza sessuale (o, meglio, della differenza “sessuata” che parte dal corpo che qui, ora, sempre siamo) e dell’origine materna come “reale corninciamento” in vista non più, e non solo, della liberazione femminile, ma della costruzione di una civiltà della condivisione multi-culturale e multietnica. “Di questa nostra cultura scrive lrigaray – percepiamo ormai i limiti (…). Il suo carattere particolare si svela anche attraverso la scoperta di altre civiltà (…) Il nostro mondo che credevamo unico si rivela un’ evoluzione parziale e incompleta dell’umanità”.
La differenza fra culture, nella prospettiva della filosofa francese, comincia con la differenza primaria tra uomo e donna e proprio il corpo, inteso come corpo sessuato determinante la concreta soggettività, diviene quel punto da cui ripartire per “incontrare l’altro”. L’altro in quanto tale, è stato escluso dall’elaborazione del pensiero occidentale, “il cui scopo principale scrive lrigaray – è stato quello di permettere all’uomo di differenziarsi da un’origine materna, omologata al mondo naturale”, sigillata all’infanzia e, quindi, al mondo pre-razionale. Il soggetto maschile, quindi, dopo aver costruito un sistema a sua immagine e dissomiglianza, ha operato una non innocente sostituzione: al posto della “sua originaria dimora placentaria” ha ri-creato artificialmente per sé un luogo ‘più vero’ in cui trovare rifugio. Oggettivare il mondo attraverso il gesto di proiettare la propria soggettività, ha però significato bloccare la dialettica tra tempo e spazio. Precisamente, ha portato alla conversione del tempo (inteso come poter essere) in uno spazio chiuso, unico e anticipante. Vivendo in una neutra indifferenziazione, l’uomo ha iniziato a parlare la lingua del “si” pubblico e collettivo voltando le spalle all’origine e disimparando che la madre è sempre, e innanzitutto, un “chi” irriducibile a chiunque altro. Nell’oblio di questa prima relazione, si è persa la relazione stessa e il mondo è stato riempito da un eterno monologo ripetitivo di sé con sé medesimo, secondo una logica gerarchica del più e del meno. Tale operazione simbolica, infine e infinitamente, è stata replicata nello svolgimento della storia e l’originaria dipendenza dall’altro è stata rapidamente trasformata in disuguaglianza, in pretesa di dominazione, di colonizzazione e di integrazione. Quest’ultima, annota Irigaray, non sarebbe infatti che una sorta di ospitalità in una casa in cui noi siamo dei padroni assenti: “Accogliamo o ospitiamo l’altro a causa di qualche pater o mater-nalismo politico-culturale, qualche idealismo o ideologia sociale, qualche comandamento religioso o morale. Ma l’accoglienza che gli riserviamo non si rivolge realmente a lui, né lo lascia veramente libero”. I valori coltivati in questa casa parlano di padronanza, “con la loro espansione-estensione che necessariamente comporta competizioni, conflittuali e bellicose, fra medesimi”. E se le donne, a causa della loro morfologia “segnatamente sessuale e del modo in cui essa determina il rapporto con l’altro”, sono portatrici di un privilegio rispetto agli uomini, per lungo tempo loro stesse sono state ad un gioco (simbolico) in cui le regole erano prescritte da altri, non riuscendo a trasformare in pratica e in pensiero il legame con la loro madre (tematica che, d’altra parte, sta al cuore del pensiero della differenza sessuale in Italia, erede privilegiato delle riflessioni di Luce Irigaray).
Mettere al centro l’elemento della relazione e della dipendenza; mettere al centro ciò che sulla e della dipendenza, del suo rifiuto e della sua accettazione, ne sanno le donne, è la scommessa filosofica e politica di Luce lrigaray. Per inventare una logica sconosciuta e dis-conosciuta dalla tradizione occidentale: quella a due soggetti. Che sappia custodire le differenze, che lasci spazio all’accoglienza e al silenzio. Ecco, allora, che il flusso del divenire si ri-apre, che il tempo e lo spazio si mantengono in un processo dialettico, che le parole ritrovano un senso. Dai monologhi alla polifonia.
Natalia Aspesi
Gli stupratori si individuavano a colpo d´occhio, ne era sicuro il fantasioso ma autorevole sessuologo fine Ottocento Henry Havelock Ellis. Prima di poter scoprire le anomalie degli organi sessuali, quasi sempre infantili, subito si poteva osservare che c´era molta probabilità che il violento sessuale avesse naso e orecchie deformi, occhi azzurri e grosse mascelle inferiori. E´ passato più di un secolo ma ancora, per quel che riguarda la violenza sessuale, impera la fisiognomica: tanto che i due supposti stupratori della Caffarella sottoposti a una crudelissima violenza mediatica e poi scagionati, continuano a tutto oggi ad essere chiamati “il pugile” e “il biondino”. Rumeni loro, rumeni quelli indicati adesso come veri responsabili: insomma stranieri, alieni, invasori, diversi, e per questo meritevoli di ronde, di sgombero di baracche, di proposta di castrazione.
Come racconta la storica inglese Joanna Bourke nel suo saggio Stupro, storia della violenza sessuale (Laterza, pagg. 600, euro 20), la reazione sdegnata e violenta delle comunità contro l´orrore dello stupro ha sempre avuto ragioni razziste e di classe. Nel XVIII secolo in Inghilterra, «i malvagi erano identificati con aristocratici esaltati che violentavano donne meno privilegiate»: decenni dopo, negli Stati Uniti fu additata come criminale «la nuova élite capitalista che usava la propria ricchezza per comprare e violare le ragazze della classe operaia». Verso il 1880 nacque quel giornalismo scandalistico oggi tanto venerato, e l´assatanato collega d´epoca, l´inglese William W. Stead, pubblicò sulla Pall Mall Gazette articoli così macabri sulle piccine violentate dai ricchi, che il Parlamento fu costretto a portare l´età del consenso da 12 a 16 anni.
Quando i poveri cominciarono a infastidire, e gli operai a immaginare ribellioni, e persino il cosiddetto basso ceto a pretendere il voto, lo spavento della classe agiata fu tale che organizzò un suo ottocentesco allarme sicurezza (con ronde e tutto) per proteggere i minori da vicini, pigionanti, babbi e fratelli persino da portinai. Le persone più pericolose erano gli operai disoccupati, i senza dimora che giravano in cerca di lavoro, che assalivano per alcolica lussuria anche le meno avvenenti delle madri di famiglia. Negli Stati Uniti, i difensori della decenza e della temperanza, additarono come massimi criminali sessuali gli immigrati. Nel 1910 il reverendo F. M. Lehmann sosteneva che le donne correvano atroci pericoli a causa di questi ignobili figuri che «vengono da paesi dove la miglior cosa che possano fare è sdraiarsi e dormire al sole».
In Australia, i più laidi erano gli stranieri originari del Mediterraneo: quando nel 1928 un cittadino britannico però di origine greca fu condannato per stupro, la stampa si sbizzarrì: «un mediterraneo ritardato e degenerato� vile bestia greca� basso e lascivo figlio del Levante�». Per almeno la prima metà del secolo scorso, negli Stati Uniti razzisti, l´afroamericano, il “negro”, divenne il simbolo del maschio selvaggio e ipersessuato, fermo a uno stadio ancora bestiale dell´evoluzione darwiniana, quindi portato ad essere un pericoloso aggressore di donne bianche (se nere si chiudeva un occhio in quanto promiscue per natura) e per questo meritevole o del linciaggio praticato dalle ronde composte da bravi cittadini bianchi, o della condanna a morte per impiccagione comminata per legge da una giuria bianca. Alla fine degli anni 90 dell´Ottocento, la signora Roberta Felton, prima donna eletta nel Senato americano, raccomandò maternamente: «Se occorre il linciaggio per proteggere la più preziosa proprietà di una donna dalle bestie umane, allora io dico: linciate mille volte la settimana se è necessario� e un cappio subito per gli aggressori!».
A rovinare i negri erano stati l´emancipazione e quei sobillatori che avevano fatto credere loro all´eguaglianza sociale e persino al matrimonio con la donna bianca. «Quando i bianchi non poterono più contare sulla schiavitù per mantenere le gerarchie razziali, si rafforzò la tendenza a ricorrere al linciaggio», scrive la Bourke, come esplicito mezzo per mettere in riga tutti i neri con la paura e rafforzare la segregazione. E contemporaneamente il terrore quotidiano che la società soprattutto del Sud alimentava nella donna bianca anche lei in cerca di emancipazione, serviva a renderla sempre più soggetta e bisognosa di protezione maschile. Bianca. Gli stupratori erano soprattutto uomini bianchi (come oggi da noi soprattutto italiani), essendo i neri terrorizzati dal fatto che potevano essere accusati di violenza solo per aver osato fissare una bianca da lontano.
In ogni caso allora nessun bianco fu mai linciato o condannato a morte per violenza carnale. E meno male che adesso in Italia con il nuovo decreto antistalking c´è un gran movimento: e come dicono gli inquirenti «gli arresti (di una impressionante moltitudine di molestatori maschi di femmine) si susseguono a ritmo frenetico». Due al giorno! E per ora tutti italiani!