Il nuovo libro di Nadia Fusini racconta gli intrecci tra Arendt, Weil e Bespaloff.
Apochi mesi di distanza, nel 1939, due donne in fuga dall’uragano nazista, Simone Weil e Rachel Bespa-loff, si trovano al museo di Arte e storia di Ginevra, davanti alle opere di Goya, salvate per un soffio nella Madrid assediata dalle falangi franchiste. Esse guardano, probabilmente, la stesa tela, quella che rappresenta la fucilazione di alcuni patrioti spagnoli da parte delle truppe napoleoniche. Lo sguardo trascorre dal cranio spappolato di un uomo a terra, immerso nel proprio sangue, alla ottusa sincronia dei fucilieri allineati in procinto di sparare. Ma l’attenzione delle due donne sarà stata catturata dagli occhi spalancati del prigioniero in camicia bianca, braccia allargate a croce, che sta per essere colpito. Cosa grida quello sguardo allucinato fisso nel vuoto? Come vive gli ultimi attimi la vittima inerme di una violenza destinata a tramutarla in un grumo di carne senza vita? Quale enigma custodisce l’ultima vibrazione di un corpo che sta per diventare cosa? Intorno a tali domande ruota la straordinaria trama attraverso cui Nadia Fusini interroga la relazione “stellare” che unisce, a distanza, il destino di tre donne senza le quali il Novecento non sarebbe tutto ciò che è stato.
La terza protagonista, il cui nome dà il titolo al libro – Hannah e le altre, appena edito da Einaudi – è Hannah Arendt. A collegarle in una catena di corrispondenze sorprendenti non sono solo alcuni luoghi in cui i loro destini si incrociano – Parigi, Ginevra, New York – , ma anche amicizie comuni, come quella con Jean Wahl, vero “mediatore” delle loro esperienze e, soprattutto, testi decisivi che calamitano la loro scrittura. In particolare l’Iliade, cui Simone Weil e Rachel Bespaloff – ebrea di origine ucraina, la cui biografia spirituale è ricostruita da Laura Sanò ( Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff, introdotto da Remo Bodei e pubblicato dall’Istituto italiano per gli studi filosofici) – hanno dedicato due scritti di rara intensità. In entrambi, la forza «appare la suprema realtà e la suprema illusione dell’esistenza», come scrive la Bespaloff (il suo testo è ora riedito da Castelvecchi). Suprema realtà, perché onnipresente – la forza lacera, penetra, schiaccia senza remissione, come sperimentano gli uomini travolti dalla guerra di Troia e da tutte le altre che l’hanno seguita. Ma anche suprema illusione perché, come ogni cosa umana, a sua volta destinata a essere annientata da una potenza ancora maggiore cui nessuno può sfuggire. «Su questa terra non c’è altra forza che la forza. Questo potrebbe essere un assioma. – così Simone sembra rispondere, dalla più prossima delle lontananze, a Rachel – In quanto alla forza che non è di questa terra, il contatto con essa si paga a prezzo di un transito attraverso qualcosa che somiglia alla morte» ( La prima radice).
Se l’Iliade sembra stringere in un unico destino l’ebrea francese, morta per denutrizione nel ’43, e l’ebrea ucraina, morta suicida nel ’49, Kafka è l’autore che le mette entrambe in rapporto ad Hannah. Certo diversa – assai più solare è la esperienza di questa, rispetto alle prime due. Come diversi sono il suo aspetto e il suo atteggiamento. Con la postura un po’ “marziana” – anche nel senso guerriero del termine – di Simone e la bellezza sfuggente di Rachel, contrasta il piglio, sicuro e sfrontato, di Hannah, pronta, sigaretta tra le dita, ad affrontare, scandalizzandolo, chiunque attivasse luoghi comuni. Al malheur che sembra perseguitare come una cattiva stella le prime due, risponde la fortuna della terza – salva per miracolo dai nazisti, amata dagli uomini, circondata, ancora viva, da una fama non attutita dalle pole- miche innescate dalle sue opere, come il famoso reportage sul processo Eichmann. Ma non si tratta che del versante luminoso di una consapevolezza assai tesa del male da cui il secolo è stato preso alla gola. Di tale precipizio il Castello di Kafka porta, inscritte, tutte le cicatrici, come il corpo suppliziato del suo racconto Nella Colonia penale. Cosa altro rappresenta l’incantesimo che incatena K. a una necessità inesplicabile, se non la prefigurazione della peste bruna che sarebbe penetrata di lì a poco nelle vene della civiltà europea?
In questo gioco di specchi incrociati Nadia Fusini entra con un’intelligenza e una forza di scrittura non inferiore a quella delle “sue” donne. Non solo Hannah, Rachel e Simone, ma anche Virginia Woolf e Irène Némirovsky, morta nel campo di Birkenau nell’estate del ’42, e, prima ancora, Katherine Mansfield e Rahel Levin, protagonista della biografia arendtiana. Non troppo, e a volte poco, lega le loro vite, e le loro morti, singolari come quella di ciascuno. Ma c’è qualcosa che Nadia definisce «the woman’s angle» , l’angolo della donna, che appartiene a tutte loro. Si tratta di un asse prospettico, obliquo e profondo, capace di vedere qualcosa che di regola gli uomini non colgono nella violenza. Perché ne sono spesso i soggetti, prima o più che oggetti. Essi non guardano alle vittime dal punto di vista di queste. Perciò non riescono a leggere il messaggio, muto eppure vibrante, che libera lo sguardo stravolto del prigioniero fucilato di Goya. È esso che sa fissare, invece, senza indietreggiare, insieme alle sue donne, Nadia Fusini.
di Antonio Monda
Intervista a Karen Russell, autrice dalla raccolta “Un vampiro tra i limoni”.
New York È un anno estremamente interessante per la narrativa americana: alcuni dei libri migliori tra quelli usciti in questi ultimi mesi sono raccolte di racconti brevi (George Saunders e Don DeLillo), hanno ambientazioni assolutamente anomale come la Corea del Nord (Adam Johnson) o rifuggono il realismo, sconfinando nella letteratura di genere. È il caso di Karen Russell, che con Un vampiro tra i limoni (Elliot, traduzione di Veronica La Peccerella) conferma di essere uno dei talenti più interessanti tra gli scrittori venuti alla ribalta negli ultimi anni.
Trentaduenne, nativa di Miami, si è messa in luce con una prima raccolta di racconti intitolata St. Lucy’s Home for Girls Raised by Wolves a cui ha fatto seguito il romanzo Swamplandia, uno dei tre libri finalisti al Pulitzer lo scorso anno, edizione in cui non venne assegnato il premio. I suoi racconti sono pubblicati regolarmente dal New Yorker e da Granta ed è già diventata un punto di riferimento per l’originalità del linguaggio, la fantasia visionaria e la dimensione spirituale controcorrente. Un vampiro tra i limoni, definito dalla New York Review of Books «un libro di primissimo livello scritto da un’autrice dall’enorme talento», raccoglie otto racconti che sconfinano spesso nel paranormale, ma sin dalle prime righe è evidente che per questa giovane scrittrice la fantasia è un modo di rappresentare la realtà per rivelarne la verità più intima: non è un caso che tra gli autori di riferimento citi Kafka ed Edgar Allan Poe. «Ma se dovessi fare la lista degli scrittori che amo e mi hanno formato rimarremmo a parlare due giorni», racconta nel suo studio al Bard College, «e dovrei aggiungere Borges, Calvino, Carson Mc-Cullers e Denis Johnson. Tuttavia forse, più di ogni altra, voglio citare Flannery O’Connor. Ma ho paura a nominarla».
Perché?
«Ho paura che mi venga a tirare i piedi la notte perché ho osato paragonarmi a lei: è una grandissima autrice che dovrebbe conoscere non solo ogni lettore, ma soprattutto ogni scrittore».
In cosa le è debitrice?
«Nel cercare in ogni cosa, in ogni persona, la presenza del bene che può superare quello del male. Nel cercare di vedere la grazia e la redenzione, nel non aver paura dei sentimenti senza essere sentimentale. Lei ci è certamente riuscita, io non so. Ammiro enormemente che una scrittrice con una fede così profonda abbia il coraggio di non proporre il lieto fine, ma anzi sia spesso brusca e spiazzante: i suoi libri sono esperienze di trasformazione».
Nei racconti che ha appena pubblicato la dimensione paranormale si fonda con quella morale e religiosa. È così?
«Io amo considerarli racconti realistici, come considero realistico Kafka: raccontava quello che provava sulla propria pelle, ed è stato in grado di vederlo e poi rappresentarlo con la lucidità visionaria dell’arte. Leggendolo, molti hanno compreso di provare gli stessi spasmi, ed è uno dei motivi della sua grandezza. Per quanto riguarda la religione sono di educazione cattolica e nonostante non sia praticante il mio mondo è quello. Una volta ebbi una discussione con mia madre, la quale mi chiese da dove venissero tutti i mostri che racconto nelle mie storie. Io le ho risposto che lei invece ogni domenica beve il sangue del suo Dio. Poi mi sono chiesta se non fossero due modi di vedere una stessa verità: penso che la spiritualità non sia mai separata dalla realtà. E ritorniamo ancora una volta a Flannery O’- Connor».
Le piacciono gli scrittori realistici?
«Certo, ammiro ad esempio Jonathan Franzen, ma se chiede per chi mi batte il cuore penso subito al suo amico e rivale David Foster Wallace, non solo per il suo sguardo, ma anche per la sua distanza da ogni moralismo. E come quest’ultimo appezzo molto gli scrittori popolari, come ad esempio Stephen King».
Da dove nasce il suo sguardo sulla realtà?
«Oltre alla formazione religiosa, uno degli elementi è certamente dovuto al fatto di essere originaria della Florida: chi conosce il mio Stato sa che è un luogo primitivo e sublime, magico e noioso, terrorizzante e volgare. Ed è un luogo che ha l’oceano, che affaccia sul mondo, ma anche l’interno paludoso e stagnante».
Un suo racconto ha per protagonisti veterani del Vietnam. Perché?
«Mio padre ha combattuto in Vietnam e questo certamente mi ha influenzato. Ma ho cercato di raccontare come la storia si possa manipolare, e persino la guerra possa essere scatenata da pretesti e menzogne: senza andare troppo indietro nel tempo penso alle armi di distruzione di massa».
Il racconto che dà il titolo al libro è ambientato a Sorrento.
«Sono stata a Sorrento e me ne sono innamorata. Ma il ricordo più forte che ho è quello di mia sorella che si sentì male, e in quel posto meraviglioso cercammo di darle un po’ di sollievo con del succo di limone. Poi la fantasia mi ha portato altrove, ma credo che anche in questo caso si possa parlare della ricerca della grazia e della redenzione offerta dal dolore. E a questo punto dovrei citare nuovamente O’Connor, ma continuo ad aver paura».
di Graziella Pulce
«Dritta, alta, porta occhiali dalla montatura severa, di altri tempi… saluta con antica gentilezza.» Così Giorgio Boatti presentava Madre Ignazia Angelini, badessa del monastero benedettino di Viboldone, centro di spiritualità e di lavoro e una delle prime tappe del percorso che aveva portato lo scrittore appunto Sulle strade del silenzio. E Madre Angelini aggiunge ora questo Mentre vi guardo La badessa del monastero di Viboldone racconta (a cura di P. Pozzi, Einaudi, pp. 119, € 14,50) ai precedenti suoi testi di meditazione. La voce è limpida e perentoria: sul solco dell’esempio e della regola di Benedetto da Norcia l’autrice mette a tema l’imperfezione, condizione non accidentale ma costitutiva dell’essere umano. Il linguaggio è essenziale, privo di qualsiasi indugio retorico o letterario, rapido nella sintassi e preciso nei riferimenti, teso a escludere ogni forma di blandizie e di elusione.
Anche quando scrive, la badessa di Viboldone produce un effetto di operosità serena e fattiva: la scrittura, come ogni altra opera, è obbedienza e risposta a un imperativo categorico. Tra i riferimenti, oltre quelli numerosi al santo fondatore, altri meno scontati, come Dietrich Bonhoeffer, Simone Weil, Fëdor Dostoevskij, Elizabeth Jennings. Il monastero di Viboldone è celebre per gli affreschi di scuola giottesca e per l’alta specializzazione delle monache nel restauro di manoscritti, libri antichi e pergamene, ma il senso del monastero non si identifica con l’arte, né con il pur prezioso lavoro di restauro: le monache, che non sono isolate dal mondo e non hanno operato tale scelta per fuggire dalla realtà, sono le custodi della sacralità dei luoghi, dei silenzi e del sistema agricolo-economico nel quale sono radicate. La comunità rivela infatti una personalità di ferro quando si tratta di territorio, protezione dei luoghi di arte e di fede e senza incertezze si è opposta alla costruzione di residence di lusso nella zona. Queste monache laboriose e inflessibili, cui non interessano il denaro o il potere e perfettamente in linea con il precetto benedettino della Xeniteia, il «farsi estraneo ai costumi del mondo», sono per l’accoglienza e l’ascolto, in particolar modo del giovane e dello straniero.
Nessuna meraviglia che comunità come queste siano guardate con circospezione dai vertici (maschili) della gerarchia, dai «signori di curia». Non sono quelle di Madre Angelini parole sommesse di pace facile, di vita comoda al riparo dai problemi del momento storico presente, e queste pagine non sono il prodotto di una mente individuale, ma ingiunzioni pressanti di un’entità collettiva, corale. Dunque il libro costituisce il richiamo autorevole a una modalità alternativa di vita sociale e religiosa, a un progetto e un processo di ricerca e di esperienza che necessita di un impegno quotidiano fortemente combattivo e condiviso.
Mentre vi guardo suona perciò come preghiera e come profezia, nell’imminenza di tempi che si annunciano bui e difficili, da affrontare dando corso compiuto agli auspici del Concilio Vaticano II. Non mancano infatti nette prese di distanza con chi all’interno della Chiesa, la «Chiesa santa e peccatrice» cui si riferisce la badessa, è abbagliato e condizionato dal denaro e dal potere e senza giri di parole l’autrice indica specificamente le comunità monastiche femminili quali modelli di vita autentica, capace di rispondere alle domande dell’umanità oggi come ieri. E agli occhi di chi legge il richiamo esplicito a considerare le analogie riscontrabili tra la situazione attuale e quella del IV-V secolo di Benedetto suona come un allerta e coinvolge oltre i valori della fede anche quelli più terreni delle oscillazioni di borsa, dei tassi di occupazione e dei salari. Il testo prende maggiore forza dal fatto che il soggetto è realmente ecclesiale, collettivo, che vive e propone modelli alternativi di fede e lo fa da un luogo remoto, intenzionalmente decentrato e lontano dai crocevia del potere. Le benedettine di Viboldone, libere perché non hanno bisogno di nulla, si inscrivono nella storia della spiritualità femminile ricca di esempi luminosi e di testimonianze scritte che hanno segnato percorsi nuovi tanto in teologia quanto nella letteratura.
Basta pensare a Caterina da Siena per comprendere quanto donne come queste siano in grado di esercitare quel magistero che la chiesa ufficiale sembra avere smarrito.
Elena Stancanelli
“My own darling Child”, lo chiama Jane Austen in una lettera alla sorella Cassandra. Sono passati duecento anni da quando, il 29 gennaio 1813, Thomas Egerton pubblica Orgoglio e pregiudizio. Andrà bene, esaurirà la tiratura, verrà tradotto in francese. Il più prestigioso editore londinese, Thomas Cadell, al quale la scrittrice si era rivolta per primo, lo aveva rifiutato. Ma è l’unico insuccesso con cui la scrittrice dovrà fare i conti. Morirà nel 1817 amata dai lettori e dalla critica. I suoi sei romanzi verranno accolti tutti con entusiasmo, Walter Scott ne riconoscerà l’immenso talento, e dopo di lui molti altri scrittori guarderanno al suo lavoro con rispetto e devozione. Farà in tempo a godersi la soddisfazione di essere stimata dai colleghi, privilegio che in pochi possono vantare, ma non potrà immaginare che anno dopo anno, secolo dopo secolo, i suoi libri diventeranno un punto di riferimento imprescindibile. Quanto saranno considerati un miracolo di esattezza, per stile e contenuti, quanto saccheggiati, copiati, idolatrati.
Non potrà immaginare, perché inimmaginabile, il fanatismo, che in questi giorni prende la forma delle celebrazioni che in tutto il mondo impazzano per il bicentenario. Quale artista che dal silenzio della sua stanza mette al mondo creaturine arbitrarie e parziali può prevedere che il suo lavoro saprà parlare a persone tanto diverse, in tempi che non si somigliano, dentro culture con riferimenti incomparabili? Da duecento anni Austen è padrona dei nostri cuori, maestra di seduzione, imbattibile palleggiatrice di parole e sentimenti.
Feroce e affilata, ha inventato donne la cui intelligenza ci sembra di non riuscire a doppiare, la cui coscienza è ben al di là da essere raggiunta. Le nostre storie d’amore sono quasi sempre lagne di ragazzine, esperimenti di pornografia emotiva se confrontate a quel laboratorio di antropologia sociale che Austen elabora romanzo dopo romanzo.
Io lavoro «con un pennello sottilissimo su un pezzettino d’avorio, producendo poco effetto dopo molta fatica», scrive al nipote Edward. Questa sua abilità di decifrare il mondo a partire dal minuscolo frammento di un io qualsiasi, da un pezzettino d’avorio, è il suo segreto. Uno dei tanti, che fanno di lei uno degli scrittori più letti, e riletti. Quasi un oggetto di culto, più che un classico. Nei nostri zoppicanti programmi scolastici non è prevista, né i suoi romanzi scalano facilmente le classifiche degli imprescindibili. Se ne può fare una questione di genere – gli uomini non la leggerebbero con lo stesso nostro entusiasmo – provare a immaginare che quello che le manca per entrare nell’empireo sono gli sfondi, la grande Storia che preme alle spalle dei personaggi, l’epica. Poco male, Austen se ne può fregare e cedere il podio, dal momento che può vantare un credito inestimabile: i suoi libri fanno bene. Intendo che, dati per inoppugnabili stile brillantezza trame scintillio dei dialoghi…, se continuiamo a tornare alle sue pagine è perché li consideriamo, anche, dei libri di selfhelp ante-litteram. Luoghi dove razzolare alla ricerca di sentenze definitive sul senso e il dissenso, l’amore e il disamore.
Tra quei due sostantivi perfettissimi, falsi ossimori che titolano i suoi capolavori, Austen infila tutto ciò che servea un’esistenza sana e vigorosa. Impariamo da lei il gusto dell’intelligenza, la capacità di non arretrare, il divertimento di costruire un’identità, il piacere dell’amicizia. Persino a considerare il denaro non solo come parte integrante e non volgare della vita, ma come uno degli elementi del discorso amoroso. «Le donne sole», scrive Austen alla nipote Fanny, «hanno una spaventosa tendenza a essere povere – fortissimo argomento in favore del matrimonio».
Una visione economica dell’esistenza, l’abilità di svelare il doppio movimento dell’ascesa/discesa sociale, è un dono di pochi scrittori: Dickens, Balzac, Austen.
Anche questo li rende eterni. È uscito da poco un saggio di un economista, Branko Milanovic, che analizza Orgoglio e pregiudizio come fosse un trattato sulla ricchezza. In Chi ha e chi non ha, storie di diseguaglianze (il Mulino), spiega che il reddito della famiglia di Elizabeth Bennet, protagonista del romanzo, è di circa tremila sterline l’anno, quello di Darcy di diecimila. Inoltre, se il padre di Elizabeth fosse morto senza un erede maschio, i suoi beni sarebbero finiti nelle mani del viscido cugino, il reverendo William Collins. Ora, cosa fa Elizabeth? Primo rifiuta, abbastanza ragionevolmente, l’orrendo cugino. Ma subito dopo rifiuta anche il fighissimo Darcy, solo perché la sua prima impressione su di lui era stata pessima ( First Impression era il titolo della prima versione di Orgoglio e pregiudizio ). Sempre secondo l’economista Milanovic, il rapporto tra i due scenari, Elizabeth nubile o sposa di Darcy, è di cento a uno. Il romanzo, quindi, potrebbe essere letto come la storia di una donna che impiega tutta la sua intelligenza a far rientrare l’uomo che, per motivi economici deve proprio sposare, dentro i parametri complicatissimi ma ineludibili delle sue convinzioni.
Ma, e lo dico con tutto il laicismo necessario, non è forse questo un insegnamento fondamentale? Che lo sforzo per ridurre alla perfezione un uomo dovrebbe essere commisurato alla sua possibilità di far passare la nostra vita da uno a cento, di qualunque valore questa misura sia indice? I libri di Austen sono stati tradotti, manipolati, trasformati.
Soltanto di Orgoglioe pregiudizio sono state fatte decine di riduzioni televisive e cinematografiche, oltre a quella della Bbc con Colin Firth divenuta oggetto di culto.
La scena nella quale Colin Firth/Darcy usciva dal lago con la camicia bianca bagnata i capelli spettinati, pantaloni e stivali e l’andatura decisa portata deliziosamente sul sorriso timidoe lo sguardo assassino, fu un caso nazionale. Tutte le donne inglesi davanti al televisore persero completamente la testa. Compresa Helen Fielding, l’autrice de Il diario di Bridget Jones, che dopo aver battezzato Darcy il suo protagonista, un avvocato serio e scontroso, impacciato ma bellissimo, volle a tutti i costi che nella versione cinematografica fosse interpretato da Colin Firth. Greer Garson Keira Knightley, persino Virna Lisi in uno sceneggiato italiano degli anni cinquanta sono state Elizabeth Bennet. E poi ci sono i fumetti, i sequel e i prequel letterari di ogni tipo. Orgoglio e pregiudizio e zombie, di Seth Grahame-Smith, Death Comes to Pemberley di P. D. James, la giallista inglese, Jane Austen Book C lub di Karen Joy Fowler… e vai e vai. Eppure nei romanzi di Austen non c’è niente di apparentemente archetipico, niente che possa essere declinato verticalmente. I suoi personaggi, le sue storie non hanno la potenza mitopoietica di tanta letteratura. Non si stagliano, non giganteggiano, non sono eroi. Sono geroglifici, minuziose calligrafie. Ancora più di Shakespeare, suo evidentissimo maestro, Austen elude lo strepito e il furore. Ma forse è proprio per questo che la amiamo, e che le sue parole sono così feconde.
Forse, se da duecento anni leggiamo e rileggiamo i suoi libri, è anche perché in quel presepe sgangherato e affettuoso, sembra esserci sempre un posto per noi. Quei salotti, quelle feste, quelle campagne ci accolgono come ospiti.E nel dialogo con loro ci acquietiamo perché, specie nei momenti di crisi, è molto piacevole condividere l’illusione che un comportamento ragionevole, se sufficientemente ostinato, conduce al riparo dal disastro.
Donatella Massara
Il nucleo originario del nuovo libro Lavalledelledonnelupo (Einaudi, 2011) di Laura Pariani è la leggenda del prato delle balenghe di cui la nonna le parlava. L’ha dichiarato anche nell’intervista-commento e lettura del libro che è in rete sulla nostra web radio Donne di parola. La leggenda raccontata nelle valli della bergamasca dice che in un certo prato venivano sotterrate le donne che erano state diverse per il comportamento o per qualche segno esteriore di non conformità che le indicava come ‘balenghe’, cioè non conciliate con l’esistente, ovviamente, quello pensato dagli uomini, padri reali, mariti, padri della chiesa o della patria. La parola ‘balenga’ appartiene ai dialetti del nord. So che è usato nella zona del varesotto, ma fa parte anche dei miei ricordi di bambina vissuta fra Torino, Biella e Vercelli. Balenga/balengo erano una donna o un uomo che avevano un comportamento stonato, non lineare, non ortodosso, anche poco gentile perchè originato dalla discontinuità di umore. Era usato in tempi recenti anche in modo più morbido, mio padre diceva “oggi mi sento balengo” e noi donne della famiglia intendevamo che quel giorno era malfermo, gli girava la testa, forse voleva dire che non si sentiva perfettamente in sintonia con il mondo intorno.
Nel romanzo di Laura Pariani le balenghe sono donne che si sono ribellate al comportamento dominante. L’isolamento della sepoltura poteva anche derivare dall’essere zoppe, rosse di capelli, strabiche e ovviamente ‘streghe’ o comunque donne che praticavano ‘la fisica’, cioè che curavano con le conoscenze della medicina popolare, con le erbe, ma anche con la magia. Dal punto di vista della storia delle donne il ricordo che è una notizia di tipo storico, culturale ma che è anche di politica prima mi colpisce molto e ho visto chiaramente, leggendo, come il senso del libro parte da lì. Mi è ritornata con particolare urgenza, chiarezza e evidenza, la convinzione che c’è una storia nascosta nella storia più conosciuta.
Essa non può semplicemente essere identificata con la storia delle donne, ormai ampiamente accettata. Le donne importanti sono state riconosciute, filosofe, scienziate, politiche, scrittrici, e grazie al grande lavoro svolto dalle donne medesime. La partecipazione femminile alla storia politica sta avendo sempre più notorietà. L’importanza della presenza femminile nel processo di unificazione italiana ha avuto libri, riconoscimenti, incontri. E’ la storia nascosta, quella che ha agito nelle popolazioni, congiungendo non sempre in annodamenti di razionale evidenza l’immaginario, le nozioni correnti e i fatti documentati, che ancora è sottaciuta. La leggenda del prato delle balenghe ha questo contesto. Ha avuto però un’ospitalità di alto livello nell’immaginazione della scrittrice, dando, a noi che leggiamo il romanzo, la percezione del filo rosso che lavora nella storia. E’ un filo che congiunge i fatti ma anche li dissocia o li fa implodere nell’inafferrabilità. Il rischio è che nel momento in cui dai un segno positivo a questi fatti essi si allineino, escludendone altri così che nella rete dell’immaginazione si assommano all’infinito, mentre nella storia propriamente detta diventano pezzi selezionati, delimitati e fissati in una memoria che non ha conseguenza nella vita delle donne. Per spiegarmi su questa storia nascosta sono obbligata a pensare alla mitologia femminile confusa nei secoli con i simboli della religione cristiana. Il culto della dea fa parte di questa storia nascosta. E’ quella che racconta bene Luisella Veroli, amabilmente definita da Silvia Vegetti Finzi, “un’archeologa dell’immaginario”. E’ attraverso i suoi insegnamenti che ho imparato a vederne i segni nell’arte. La promiscuità di immagini femminili derivate da diverse religioni ha una lunga resistenza fra le classi popolari e finisce per essere estromessa dalla chiesa, dal potere politico e dagli stessi credenti. Penso alla confusione che per secoli c’è stata fra Iside e la Madonna. Come è noto esistono delle statue che sono più la raffigurazione della prima che della seconda. Più correntemente è facile imbattersi in statue popolari della Madonna rappresentata come Iside con il bambino tenuto in piedi, con un accenno di corona in testa e il nodo isideo sulla cintura della veste. Il culto della dea resiste. A Oropa la chiesa dove è custodita la statua della Madonna nera è costruita su un pietrone considerato un santuario sacro di origine pre-cristiana dove le donne andavano a strofinarsi per ottenere la fertilità. Sono le ricerche di Marija Gimbutas che hanno messo insieme una copiosa raccolta di testimonianze e hanno legittimata la presenza del culto della dea in tutti i continenti. E’ questa una parte della storia nascosta a cui mi riferisco . Essa è però molto più intricata e raggiunge risvolti terribili come quelli, all’alba della modernità, della caccia alle streghe. Una storia che Laura Pariani aveva già raccontato in Lasignoradeiporci (Rizzoli, 1999.) Il folclore nei riti, nelle feste, nei simboli ne conserva qualche traccia. Laura Pariani va oltre, però. Gli studi sul folclore hanno irrigidito i segni di una tradizione controllata, con le varie feste sulla befana, per la gibigianna, per i passaggi di stagione, sono culti spesso misogini, allusivi della sessualità maschile e che mistificano cosa queste cerimonie significassero originariamente. Quello che ho visto invece nel romanzo di Laura Pariani è una rielaborazione di quella storia che parla della sconfitta (o della vittoria, in definitiva) dei culti femminili. Raccontata in una forma verosimile la storia della Fenisia, una donna anziana delle valli dell’alto Piemonte, che ha attraversato più di ottantanni del nostro tempo, impone la possibilità di una storia nascosta, e senza avere la pretesa di renderla autenticamente vera, lavora sull’immaginario per farla diventare narrabile. Prendendosi la libertà di esistere arriva all’agire politico delle donne del presente e ci apre all’idea che oltre a una società tutta sottomessa agli uomini contro cui le donne si scontrarono, esista la storia sotterranea delle donne che contendono e contesero il potere agli uomini e che è da questa lotta che esce la nostra storia. Essa è così da subito, attraverso i percorrimenti non lineari del nostro immaginario, storia dei due sessi. Lavalledelledonnelupo è un libro impegnativo che ci insegna come la letteratura, la storia, la politica delle cose prime lavorino bene insieme e attraverso la scrittura impongano una maniera diversa di pensare, di acquisire idee e allargare la nostra mente, una prerogativa che, quando è forte, non è indifferente per l’agire.
Franca Fortunato
“La Signora del Monte. Vecchie storie a Monforte d’Alba”, è il titolo dell’ultimo libro di Marirì Martinengo, in cui l’autrice, femminista storica del pensiero della differenza, porta a compimento la strada da lei aperta di un “fare storia” femminile che rivoluziona la storiografia tradizionale che, in nome di una “falsa oggettività”, ha permesso che la storia diventasse «una disciplina arida, mutilata delle relazioni, dei sentimenti, dell’emotività, aspetti ritenuti di pertinenza esclusiva del romanzo». Nel libro descrizione, narrazione e documentazione si intrecciano con le passioni, i sentimenti, la vita dell’autrice e delle donne e degli uomini con cui entra in relazione, in un rapporto col tempo che assume un significato diverso a seconda dell’età e di chi narra e interpreta la storia. Nel libro Marirì, con dovizia di documenti, di rimembranze e ricordi, tra memoriale e storiografia, narra, in modo appassionante e appassionato, poetico in alcuni momenti, dieci anni della sua infanzia, dalla fine degli anni Trenta alla fine degli anni Quaranta del Novecento. La memoria di esperienze personali e familiari si intreccia, nel libro, con una puntuale e documentata ricerca storica sui luoghi e le persone di Monforte, con il risultato di descrivere, narrare, e documentare la storia personale e familiare intrecciata con quella di una intera comunità. I luoghi, le strade, le case, le piazze, strappate all’oblio del tempo, si ripopolano attraverso la scrittura e la vita torna a pulsare nelle reti di relazioni tra vicine, nei sentimenti, nelle emozioni, negli amori, nelle passioni, nelle scelte delle donne e degli uomini che Marirì ha incontrato negli anni della sua permanenza a Monforte. Gli anni della guerra, dello sfollamento dalle città, della resistenza e del dopoguerra rivivono nel libro attraverso le vicende personali e familiari dell’autrice, e si intrecciano con la storia di una delle comunità delle Langhe piemontesi, che si resero protagoniste della lotta partigiana. Nel raccontare e ricordare la storia di Monforte d’Alba, l’autrice guarda alla genealogia femminile. Dalla Signora del Monte, la contessa, feudataria, che difese la roccaforte dall’assalto dei feudatari e dei vescovi e che fu condannata dalla chiesa al rogo per aver difeso e aderito al movimento cataro, a Elisabetta, regina d’Ungheria, che protesse Monforte, fino alle “infinite vite” di donne comuni che l’autrice conobbe nella sua infanzia e di cui narra la “storia”, per non lasciare che il tempo le seppellisca. Il libro si inserisce nel percorso politico e di ricerca storica di Marirì, con cui dimostra, ancora una volta, come scrivere la storia delle donne non vuol dire aggiungere un capitolo a un manuale scolastico per tutto il resto tradizionale, ma vuol dire ripensare e riscrivere tutta la storia, per fare entrare quello che è stato tenuto fuori dalla storiografia tradizionale, in primis le relazioni tra donne e tra donne e uomini. Un libro da fare leggere alle ragazze e ai ragazzi a scuola.
La Signora del Monte. Vecchie storie a Monforte d’Alba, Neso Edizioni, 2011, pagg. 165, € 14,00
di Bia Sarasini
Cattura subito questa seconda puntata de L’amica geniale, la storia di Lila e Lelù, le due amiche cresciute a Napoli in un quartiere dove non si vede il mare. Epopea scritta da Elena Ferrante, l’autrice che preferisce far parlare i suoi libri e non dice nulla di sé, neppure il proprio vero nome.
Storia del nuovo cognome, questo il titolo, riprende esattamente lì dove si era interrotto il primo volume. Sull’inquadratura in primo piano, agghiacciante come se fosse una sequenza-chiave di un film di Hitchcock, delle scarpe che mai avrebbero dovuto essere calzate da Marcello Solara, il nemico di Lila. Le scarpe che Stefano Carracci, il giovane salumaio neo-marito della sedicenne Lila, aveva giurato di conservare come la cosa più preziosa. L’impegno d’amore che le aveva fatto pensare che lui era la scelta migliore.
Il tuffo nella vicenda è vertiginoso, è lo snodo del destino. Tra Lila, che ha scelto di diventare ricca, come si era ripromessa fin da piccola, con l’unica strada che le si presentava, il matrimonio precoce, e Lenù, che invece continua a studiare, mai ben sicura di avere fatto la scelta vincente.
Cattura talmente, questa pagina scritta, che non la si può lasciare. E non ci si accorge nemmeno, e lo dico con ammirazione profonda, di quel trucco portatore di felicità – come quel «filo di felicità» che a un certo punto compare – buttato lì nelle prime pagine: i quaderni che Lila a un certo punto consegna a Lenù, e che lei, dopo averli letti fino a impararli a memoria, a Pisa butta da un ponte nell’Arno. Così chi scrive la storia, cioè la stessa Lenù, può raccontare dall’interno l’amica amata e odiata. E, come non succede nei feuilleton da cui sono stati rubati di peso, quegli stessi quaderni le permettono riflessioni ricorrenti su sé stessa, la sua amica, il loro rapporto.
Non è facile la vita delle due ragazze, che si fanno strada nella vita nei “favolosi” anni sessanta, costrette a fare i conti con il dominio maschile – brutale, anche quando si vuole amoroso – con le limitate possibilità di autonomia per una donna. Non si potrebbe vedere Lila, sposa sedicenne, come un’eco della casalinga inquieta dei suburbia americana che abita le pagine della Mistica della femminilità di Betty Friedan, all’incirca in quegli anni? Troppo intelligente, troppo “desiderante” rispetto alla vita banale e soprattutto umiliata che le si apre davanti?
Perché questa è la voce profonda del romanzo, insieme realistico e concettuale, romanzesco nel succedersi dei colpi di scena fino a percorrere le tracce di un fotoromanzo o una soap-opera, eppure sofisticato, quasi sperimentale negli innesti di soggettività pensante, di punti di vista che stravolgono i contesti e cambiano quello che si credeva di conoscere già.
La voce della ricerca delle origini intime, del tutto interiori, di un desiderio profondo che cambia la vita, non accetta i limiti delle regole date: «Non possedevo quella potenza emotiva che aveva spinto Lila a fare di tutto per godersi quella giornata e quella nottata. Restavo indietro, in attesa. Lei invece si prendeva le cose, le voleva davvero…». Cosa vuole una donna? È la forza del desiderio, che Lila e Lenù si scambiano, si rubano, si restituiscono in un gioco continuo di rimandi, rispecchiamenti, protese entrambe a costruirsi una vita a loro misura, una misura tutta da inventare.
Il merito, la forza della narrazione è in una scrittura unica, che taglia e illumina senza esitazioni: «…era bello solo vedersi ogni tanto per sentire il suono folle del cervello dell’una echeggiare dentro il suono folle del cervello dell’altra».
Si ricorderà che nel primo volume Lila è scomparsa, a sessantasei anni. In questa seconda parte la narrazione copre più o meno dieci anni, fino ai venticinque circa delle ragazze. Riuscirà il prossimo volume a chiudere la storia? Sarebbe bello pensare di no.
Elena Ferrante Storia del nuovo cognome. L’amica geniale edizioni e/o 476 pagine 19,50 euro
Nel nuovo romanzo della scrittrice francese ci sono quasi solo figure femminili protagoniste di una realtà in crisi. “Penso – dice – che come europei siamo arrivati a un limite. Ma il baratro che vediamo è eccitante e anche affascinante”
di ELENA STANCANELLI
PARIGI – Apocalypse Baby, l’ultimo romanzo di Virginie Despentes (pubblicato in Italia da Einaudi Stile Libero, trad. Silvia Marzocchi), è stato un grandissimo successo in Francia. Finalista al premio Goncourt, vincitore del premio Renaudot, recensito con attenzione e rispetto. “Non c’ero abituata”, mi racconta la scrittrice mentre sediamo in un bar di Belleville, il quartiere di Parigi dove abita. Lo dice con una timidezza che non mi sarei aspettata. Despentes non è affatto, o forse non è più, l’inquieta autrice di Scopami, né somiglia alla voce spregiudicata che grida la sua insofferenza per i luoghi comuni sul femminile nel saggio intitolato King Kong girl.
“Sono passati vent’anni anni dal mio debutto – spiega – tanti ce ne sono voluti perché mi fosse concesso uno status normale, da scrittrice normale, da donna normale”. Chissà se anche un uomo avrebbe fatto la stessa fatica ad affrancarsi da un debutto con una storia forte e violenta?
Protagoniste di Apocalypse Baby sono le donne. Lucie, che lavora in un’agenzia investigativa, Valentine, la ragazzina che le scompare sotto gli occhi durante un pedinamento, la madre naturale di lei, un’araba bellissima e fatale che si fa chiamare Vanessa, ma soprattutto la Iena. Nella traduzione italiana però, servono molte pagine prima di capire se la Iena è un uomo o una donna.
“Curioso. In francese no, in francese è chiaro fin dall’inizio che si tratta di una donna. Anche se il mio modello per lei è sempre stato Clint Eastwood. Volevo raccontare una donna che si comportasse come un uomo, facesse un lavoro da uomo, vivesse il sesso e il desiderio come un uomo. Amo molto questo tipo di persone, che si muovono senza complessi in una perenne ambiguità “.
All’inizio della storia, la Iena tratta infatti Lucie con la sufficienza che si ha verso qualcuno che è volontariamente un fallito. L’estetica del fallimento, sembra essere uno dei temi del libro.
“Lo è. Ho scelto di raccontare un gruppo di personaggi che avessero come una tara comune, un’invincibile spinta verso il fallire. Fallisce lo scrittore, François Galtan, dopo un primo romanzo che era sembrato a tutti l’inizio di una promettente carriera, fallisce appunto Lucie, l’investigatrice, che superati i trent’anni si rende conto che la sua vita ha già iniziato a inabissarsi. Valentine, la ragazzina di quattordici anni, fallisce ancora prima di cominciare, perché davanti a sé il mondo non è altro che una serie di porte chiuse, impossibili da forzare. Nessuno di loro riesce a ottenere quello che vorrebbe davvero, e quello che immagina sia giusto dover fare. Prendono le decisioni sbagliate, finiscono dentro vicoli ciechi”.
Prima dell’apocalisse, insomma.
“Credo che la nostra storia, di europei, sia arrivata a un limite. Siamo di fronte a un baratro, e quello che stiamo vivendo è contemporaneamente spaventoso e affascinante, eccitante. Quello che sapevamo non serve più a niente, quello che conoscevamo scompare di giorno in giorno. Volevo raccontare questa sensazione di impotenza. Noi avremmo i mezzi per cambiare le cose, le conoscenze per mettere in atto alternative, ma non riusciamo a farlo. Siamo come ipnotizzati”.
Nel romanzo è evidente che esiste ormai un dentro, sempre più stretto e riservato a pochi, e un fuori che preme senza riuscire ad entrare. Colpisce questa sensazione forte di estraneità a un mondo riservato a pochissimi.
“Al centro di questi due mondi c’è suor Elizabeth, il personaggio più misterioso e difficile del libro. Una donna che gestisce un segreto, che è portatrice di valori capaci di affrancarci dal vuoto che ci affligge, ma anche molto pericolosi. La religione rimane l’ultima delle grandi illusioni. In Francia, come dimostrano anche le ultime polemiche, abbiamo una tradizione laica potente, che però fatica a stare al passo col bisogno di certezze delle persone. È entrata in crisi, lasciando spazio all’irrazionalità”.
Nel libro c’è qualcos’altro pericolosamente in crisi: il sesso eterosessuale. Le donne si accoppiano coi maschi soltanto per motivi “commerciali” o sospinte, come Valentine, da una bulimia sessuale che gira a vuoto. Diverso è quello che accade nelle relazioni omosessuali.
“Io credo che ci sia davvero una crisi nei rapporti maschio femmina. È in crisi la famiglia, l’amore sentimentale, ma è in crisi anche il sesso eterosessuale. Lo è perché i ruoli sono stati scardinati e ancora non si sono riassestati. Ma quello che più mi colpisce è che l’eterosessualità stabilisce una sorta di confine nella vita di una donna, intorno ai 35 anni. Dopo quell’età, le donne etero sono fuori dal carnevale della seduzione, diventano poco appetibili, vengono espulse e sostituite. Per le lesbiche questo non accade, come racconta la Iena. Anzi: è a quell’età che inizia la fase più bella. Quando si è ancora giovani e molto più libere che da ragazzine. Volevo scrivere un libro che raccontasse la scelta lesbica come felice, liberatoria”.
Essere, diventare, omosessuali è una scelta politica?
“Lo è, perché non è esattamente un’identità, non è qualcosa che ti definisce in quanto individuo. Mentre l’eterosessualità sì. Ti identifica per quello che dovresti essere, come dovresti comportarti, vestirti, sembrare. Stabilisce per te in che modo essere seduttiva, pensare il potere. Per me era diventato un problema. Guadagnare soldi, avere successo, invecchiare. Diventare lesbica è stato il più grande sollievo della mia vita, e non lo avrei mai immaginato prima”.
Lei ha scritto romanzi e anche alcuni saggi…
“Ma preferisco scrivere romanzi. Anche se è molto più difficile, per me. La narrativa è la forma più alta di scrittura, e quella che colpisce zone più profonde di me. Ma il problema è che hai davanti troppe possibilità. Ogni storia è una storia possibile da raccontare. Ogni volta che finisco un romanzo mi domando sempre come ci sono riuscita. Ma la cosiddetta non-fiction mi interessa, la pratico con lo stesso entusiasmo con cui imparerei una lingua straniera. E poi mi sono resa conto che ci sono molti più lettori di saggi che non di romanzi, oltre al fatto che la saggistica ti sposta, come autore, in un terreno di maggiore autorevolezza. King Kong Girl è stato, in questo senso, il mio libro più importante. Scriverò ancora nonfiction “.
Come ha iniziato a scrivere?
“Non ho fatto nessuna scuola di scrittura. In Francia non sono molto popolari, quello che tendiamo a pensare da queste parti è che la gente nasca con un talento, e poi lo metta al servizio della sua esperienza. La mia scuola sono stati i libri degli altri. Ho sempre letto voracemente, di tutto: Marguerite Duras, James Ellroy, Bukowski, adesso Bolaño. Ma sono solo i primi che mi vengono in mente. Sono il tipo di scrittore che ama molto leggere, che non nasconde di trarre ispirazione dai libri. Anche il cinema è stato importante nella mia formazione, ma adesso mi interessa meno”.
Il libro è dedicato a Beatriz Preciado, la sua compagna, ed è sua anche l’epigrafe tratta da Testo Yonqui. Preciado è una filosofa, scrittrice, autrice, tra l’altro, del bellissimo Pornotopia (Fandango). Quanto ha contato l’incontro con lei?
“Lei ha cambiato la mia vita e il mio modo di guardare al mio lavoro. Ho imparato molto da lei, soprattutto su cosa significhi davvero lavoro intellettuale. Il modo di studiare, di organizzare il tempo. E poi mi ha insegnato a liberarmi da alcuni complessi, a tenere a freno l’aggressività. Adesso stiamo scrivendo un film insieme. È incredibile quanto siamo diverse ma come è facile lavorare con lei”.
C’è un momento molto bello nel libro, quando la Iena sembra riuscire a penetrare il dolore di Valentine, a farla sentire compresa e quindi a permetterle di cedere, di arretrare rispetto ai suoi propositi. Ma è solo un attimo, l’apparire di una tenerezza, un cuore caldo che potrebbe essere una via di salvezza. Poi tutto si richiude.
“Credo sia molto importante che gli adulti imparino di nuovo ad ascoltare i ragazzi, a mettersi in contatto con loro. I teenager si sentono abbandonati dalla famiglie disastrate, e dalla società, che non li protegge. Nel libro, tutti quanti per un momento avrebbero la possibilità di aiutare Valentine, ma poi non lo fanno. La madre, il padre, gli amici, Yacine, il cugino, che la amava ma non riesce a trattenerla con sé. Potremmo farcela, ma alla fine non ci riusciamo. Come se davvero fossimo tutti vittime di un incantesimo”.
di Elisa Donzelli
Il 2012 è anche un centenario femminile e l’Italia dovrebbe bearsene. Oltre a Giorgio Caproni e a Giovanni Macchia, nel 1912 sono nate Joyce Lussu (scrittrice-partigiana traduttrice di Nazim Hikmet), Antonia Pozzi (poetessa legata al gruppo milanese di Antonio Banfi) ed Elsa Morante. Della scrittrice romana negli ultimi mesi si è parlato in un convegno tenutosi a Madrid e soprattutto attraverso coloro che l’hanno conosciuta per davvero, testimoni preziosi di incontri fatali spesso decisivi per le proprie sorti letterarie. Molte sono state le letture radiofoniche e crescono le iniziative previste per l’autunno, in testa a tutte quelle organizzate dalla Biblioteca nazionale di Roma tra cui una mostra a ottobre e un seminario di studi a dicembre. Ma un centenario che porti con orgoglio i suoi anni non dovrebbe trascurare gli esordi di uno scrittore. Perché, prima di conquistarselo questo podio secolare, un autore – che in questo caso è poi la nostra più ‘straordinaria’ narratrice – ha dovuto scontare il peso della sua giovinezza. C’è una Elsa Morante degli anni trenta e dei primi anni quaranta che ha fatto parlare di sé molto più di quanto non facciano le sue liti con Alberto Moravia o le reazioni leggendarie che suscitava nel mondo della letteratura. È la Elsa dei venti e trent’anni, prima della guerra e prima che, a guerra finita, nascesse la Repubblica votata dalle donne. Prima insomma della grande virata al romanzo con quel libro visionario e ottocentesco, uscito nel 1948, che è Menzogna e sortilegio e che György Lukács definirà “il più grande romanzo italiano moderno”. Su questa Elsa – che è quella dei racconti e delle fantasie per bambini in parte confluiti nel Gioco segreto del 1941, nelle Bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina del 1942 e in misura minore nello Scialle andaluso del 1963 – aveva lavorato soprattutto Cesare Garboli. Sin da ragazzina di racconti la Morante ne aveva scritti a ritmi serrati “con una media di uno ogni venticinque giorni per nove anni filati”. Di tutta quella gran produzione qualcosa aveva ripreso in volume e qualcos’altro – che lei stessa giudicava “decisamente brutto” – lo aveva rifiutato. Una quindicina di anni dopo la morte della scrittrice, Garboli aveva raggruppato alcune di quelle primissime prove considerandole “antefatti essenziali” per comprendere una delle intelligenze e delle personalità letterarie più acute del Novecento. Erano nati così, nel 2002, i Racconti dimenticati: “un atto dovuto” all’amica e al pubblico “differenziato” e “indecifrabile” dei lettori nuovi. Preoccupato per il destino dei suoi scritti, il critico viareggino sapeva che l’immagine di Elsa – quella stregata delle fotografie immerse tra i gatti – avrebbe continuato a suscitare un ventaglio incredibile di attenzioni da parte di intellettuali, artisti e cantanti pronti a considerarla al vertice di ogni incantevole e incantata vocazione femminile. Adesso la voce vera di Elsa Morante potremo continuare ad ascoltarla in autunno quando Einaudi celebrerà la scrittrice mandando in libreria gli epistolari inediti intitolati L’amata. Lettere di e a Elsa Morante, frutto dell’amorevole cura di Daniele Morante (leggeremo le lettere con Moravia, con Pasolini, con Giacomo Debenedetti ma anche quelle private con gli amori e gli amici). Prodigi degli scrittori veri che cent’anni non li dimostrano affatto se da qualche parte nascondono ancora segni tangibili della propria vitalità letteraria. Tanto vale allora ricordare ai lettori che quanto Elsa Morante aveva scritto non è ancora del tutto esaurito visto che – accanto a quelli selezionati da Garboli e accanto alle lettere di prossima uscita – una trentina di racconti restano dispersi su giornali e riviste degli anni trenta. Da piccola Elsa non aveva frequentato le scuole elementari ed era la prima di quattro fratelli – Aldo, Marcello eMaria (un primo fratello Mario era morto in fasce) -, figli naturali della maestra ebrea Irma Poggibonsi e di Francesco Lo Monaco ma figli anagrafici di Irma e di Augusto Morante. Già al ginnasio andava scrivendo storie da raccontare ai fratelli minori (considerati all’epoca “gli unici lettori suoi”) che tra il 1933 e il 1942 sarebbe riuscita a pubblicare sui settimanali “I diritti della scuola”, “Il corriere dei piccoli”, “Oggi” e “Meridiano di Roma ” firmandosi spesso Antonio Carrera. Pagine che al regime piaceva chiamare ‘femminili’, lette da molti italiani e da pochi di quelli che l’avrebbero potuta notare. Del suo talento di narratrice si erano accorti Giacomo Debenedetti e Alberto Savinio ma era stata Natalia Ginzburg a ricevere il manoscritto di Menzogna e sortilegio e a portarlo all’Einaudi. Con quattro grandi romanzi, una raccolta di poesie, la particolarissima commedia Il mondo salvato dai ragazzini, i saggi raccolti in Pro e contro la bomba atomica e i più ‘meritevoli’ racconti, Elsa Morante avrebbe raggiunto l’attenzione del grande pubblico. Col tempo la critica si sarebbe occupata del suo stralunato rapporto con la maternità, delmito di Narciso e dell’ossessione per le figure doppie destinate ad affetti infelici. Ma un episodio antico nella vita di Elsa contiene l’idea che in lei, sin da giovanissima, maturava della letteratura. Ce ne parla tra le righe un racconto uscito nel 1939 sul settimanale “Oggi ” intitolato Nostro fratello Antonio e ripreso da Garboli nei Racconti dimenticati: “A dire di nostra madre, tutti noi fratelli fin dal giorno della nascita mostrammo le nostre virtù straordinarie (…). Ma il più straordinario, la meraviglia di tutti era nostro fratello Antonio (…). Appena venuto alla luce, (…) senza neppur aver spiegato le ragioni del suo contegno, chiuse gli occhiettini e morì (…) sapevamo (e chi mai potrà più levarcelo dalla mente?) che il nostro fratello Antonio, mentre noi peccavamo e scontavamo sulla terra, ci preparava, con le sue mani regali, l’aurea casa del perdono in Paradiso”. Oggi sappiamo anche che nello stesso periodo Elsa andava scrivendo un diario di sogni e paure intitolato Lettere ad Antonio e che nei mesi successivi all’8 settembre del ’43, rifugiata a Sant’Agata di Fondi con Moravia, portava con sé una copia dei Fratelli Karamàzov finita in mille pezzi per fronteggiare l’indigenza della guerra. Quel ‘fratello mancato’ lo avrebbe ricordato per l’ultima volta nel 1945 in una poesia dedicata al fantasma di Narciso e confluita nella raccolta Alibi: “Come un fratello maggiore, fanciullo al pari / e materno in cuore, indago su te / i segni della notte”. Con il 1948 il passaggio al romanzo avrebbe consacrato il tempo dei figli unici: Elisa, la narratrice di Menzogna e sortilegio nata dall’unione infelice di Anna e Francesco il cui solo interlocutore è il gatto Alvaro; il bambino dell’Isola di Arturo, destinato ad avere una matrigna pressoché coetanea – che in tutto e per tutto avrebbe potuto essere sua sorella (o la sua sposa) – e a scoprire che i viaggi del padre lontano da Procida altro non erano che avventure omosessuali; Nino, il primogenito della Storia che avrà un fratellastro nato dalla violenza di un soldato tedesco sulla madre Ida; e infine Manuele, figlio illegittimo di una misteriosa ragazza andalusa nell’ultimo romanzo Aracoeli. Non così per i racconti giovanili che, pieni di incantesimo “waltdisneyano ” (come Giorgio Caproni amava definirli) e ancora affezionati alla fiaba dei fratelli Grimm, moltiplicano a dismisura la struttura parentale: nonne e nonni, padri e madri, mariti e mogli che generano figli pieni di fratelli e di sorelle. Lo si capisce scorrendo i titoli salvati da Garboli: I gemelli, Il fratello maggiore, Le due sorelle, Il fratello minore, Nostro fratello Antonio. E lo stesso vale per alcuni dei racconti ancora dispersi, anch’essi dai titoli ‘doppi’ dedicati a personaggi-fratelli: Il sogno delle cento culle (e di due fratelli gemelli), Giorno di compere (storia delle due sorelle povere Rosetta e Germana), La bella vita della vecchia Susanna (e della sorella Ida), Festa da ballo (vita delle sorelle Carla e Laura), La leggenda di San Celestino (che era povero con tanti fratelli), Infanzia di Gesù (e della sua amicizia con una bambina coetanea), Leggenda di Pasqua (o anche leggenda dei due fratelli Gianni e Mattia). Tra i dispersi c’è anche il racconto lungo Qualcuno bussa alla porta uscito in 29 puntate su “Oggi” tra il ’35 e il ’36, il finale era stato ripreso sul Messaggero nel 1986. È una storia dall’intreccio complesso che inizia sulla terra ferma e finisce in un’isola: il contrario dell’Isola di Arturo. All’inizio di questo testo si parla di due sorelle, Paola e Mirtilla, le cui vite sono destinate a dividersi: “Le due ragazze erano cresciute insieme in una campagna simile al paese delle fate:ma non apparteneva a loro”. Poi Mirtilla parte per inseguire l’amore di un uomo e scompare dal racconto così come Paola. Noi lettori intanto seguiamo la storia di Lucia, una bambina abbandonata in fasce che crescerà con una musica che le rimbomba nelle orecchie. Al termine del racconto, come sotto ipnosi, Lucia entra in un’isola stregata dove incontra la vecchia zingara Mirtilla, una delle sorelle del primo capitolo e forse la madre che originariamente aveva perduto: “Buon giorno – dice quell’isola alle anime giovani che vi approdano – Eccoti a me, dunque. Sapevo che saresti venuta. Non siamo sorelle, noi due? (…) E la mia acqua che ride, trema e urla non è simile ai tuoi capricci e ai tuoi sogni?”. Qualcuno bussa alla porta è ancora dentro l’infanzia e nasce prima che il protagonista dell’Isola di Arturo abbandoni il nido partendo da Procida. Dopo la guerra prenderanno forma i grandi romanzi con i protagonisti del disincanto: Elisa, Arturo, Nino, Useppe, Manuele, Manuel e Aracoeli. Prima che tutti loro nascessero però c’era stato Antonio. Antonio, il fratello per eccellenza: tra gli esseri il più diverso perché il più simile a noi, quell’individuo che – nato dalla stessa unione – noi stessi avremmo potuto essere e che non siamo, attraverso il quale ci definiamo per rivalità e per confronto, per assenza e per unione e che, così facendo, diventa puntualmente il nostro doppio nel mondo. È Antonio l’idea più sfuggente e ‘meravigliosa’ della letteratura. E sfuggenti e meravigliosi sono i racconti che la scrittrice romana si era lasciata alle spalle: fratelli ‘minori’ di quei quattro romanzi che l’avrebbero resa famosa. Chissà se oggi Elsa ce li farebbe rileggere, proprio non l’abbiamo perdonata per averli
In attesa dell’uscita degli epistolari inediti di Elsa Morante a cura di Daniele Morante con la Prefazione di Alfonso Berardinelli, quest’anno la casa editrice Einaudi ha riportato in libreria Il mondo salvato dai ragazzini con introduzione di Goffredo Fofi (“Letture Einaudi”) e Alibi (“ET Poesia”). Abbastanza di recente l’editore Sellerio ha invece pubblicato una serie di testimonianze di alcuni degli amici più stretti della scrittrice romana in larga misura estrapolate da Fine secolo, supplemento di un numero di Reporter del 1985 (Festa per Elsa, a cura di Goffredo Fofi e Adriano Sofri 2011). Per ottobre e dicembre la Biblioteca nazionale centrale di Roma, che conserva le carte della scrittrice, ha organizzato due importanti celebrazioni. Il 10 ottobre verrà inaugurata la Mostra Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia. Inediti e ritrovati dall’Archivio di Elsa Morante che documenta le nuove acquisizioni donate da Carlo Cecchi e Daniele Morante nel 2007; il dono si aggiunge alle carte della scrittrice che furono al centro della grande mostra del 2006 Le stanze di Elsa. A seguire, il 5 dicembre 2012 sarà presentato il seminario di studi Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia. Dal laboratorio di Elsa Morante.
Virginie Despentes (Traduzione dal francese di Simonetta Patanè)
Virginia Woolf afferma che non sarebbe mai diventata scrittrice se suo padre non fosse morto quando lei aveva ventidue anni. La morte dei “cari” come un’emancipazione. Il lutto come un privilegio del quale godere. Da cui trarre piacere. Nascere dal lutto. Di lutti ce ne sono molti intorno a lei. I fantasmi sono amici vicini. Perde la madre a tredici anni, poi la sorellastra a quindici, poi suo padre, poi suo fratello due anni più tardi. Si dimenticano meno facilmente i morti che i vivi. Le tocca vivere con un sacco di gente dentro. Si credono molte cose false a proposito di Virginia Woolf. Si crede che fosse pazza. Bisogna leggere Viviane Forrester (Albin Michel, 2009), la sua impetuosa ed entusiasmante decostruzione della biografia scritta da Quentin Bell, ancora considerata come quella ufficiale. Né pazzia, né frigidità. Accessi depressivi. Ne abbiamo tutti e la maggior parte di noi se ne riprende meno coraggiosamente di Virginia Woolf vista la lunga litania di lutti che lei deve sopportare. Virginia Woolf, donna che il matrimonio non eterosessualizza e che non trasforma in madre, che l’amore lesbico non omosessualizza. Tra le sue pagine ci si addormenta uomo e ci si risveglia donna. Persino i secoli perdono la loro rigidità, il tempo si fa flessibile. Una depressa cui l’avvilimento non impedisce di imprimere le sue impronte sulla superficie del reale. Nei testi di Virginia Woolf si sta sempre tra frontiere. Sorvoliamo le abitazioni senza tetti e i cervelli aperti al vento. Woolf si riferisce molto all’acqua ma è l’aria che governa i suoi testi. Il cielo, da dove i morti ci guardano.
1941. Follia collettiva. Cosa può fare lo scrittore con le sue parole sotto i bombardamenti se né la rabbia né la politica gli sono permessi da coloro che considera i suoi lettori? E ancora: cosa lo scrittore può fare per impedire la guerra. Sotto le bombe, cosa può valere quest’attività vana e assurda, lavorare sulla frase, la parola, la punteggiatura, il punto e a capo. Che cosa si fa con le parole in tempo di guerra quando ci si chiama Virginia Woolf. Quando si appartiene all’alta borghesia, antisemita per tradizione, quando si è sposato un ebreo povero e quando si compare nella lista nera del Terzo Reich.
Il suicidio sta allo scrittore come l’overdose sta al rocker – un modo di andarsene che sta in linea con l’opera e la convalida. Riempirsi le tasche di sassi e immergersi in un fiume che si scrive Ouse, quasi come house, casa. Virginia Woolf dichiarava “sento sulle dita il peso delle parole come fossero pietre”. Era perché le parole avevano perduto il loro peso che ha avuto bisogno di mettersi pietre nelle tasche, per obbligarsi a far tacere l’aria – quella stessa aria che riempie la sua prosa. Far arrivare qualcosa che sia reale. Lasciarsi andare a fondo, to sink, termine così vicino a to think, pensare.
Nei testi di Virgiinia Woolf vi è una forte coscienza dell’irreversibile. L’evento che, scivolato tra gli altri si svolge su uno stesso piano, è un bombardamento intimo. “Non c’è più un pubblico” scrive nel suo diario. Lei scava in ciò che resta della casa di Londra bombardata per salvare i suoi quaderni, la vita sociale interrotta, la vita letteraria sospesa. Vi è anche la biografia richiesta dagli amici che non troverà il suo pubblico ma che non è scritta per questo. Roger Fry, pittore amante di Vanessa Bell, sorella di Virginia. Virginia è come un cane da soccorso e riesce in questa prodezza: tornare a cercare l’uomo scomparso e restituirlo alla sua amante. La scrittura, sempre, è l’impresa di resuscitare i morti. Chissà quanta forza ha perduto riportando un fantasma sulla riva dei vivi.
Austen, Brontë, Colette, Duras, Sand, Serraut, Sévigné, Yourcenar. Virginia Woolf (1882-1941) è il nono autore di genere femminile ad entrare ne “La Pléiade”. Su circa 200. La cosa sorprendente è che ci entra senza Una stanza tutta per sé. È come se una casa discografica editasse integralmente i Rolling Stones omettendo Satisfation. L’editore delle opere, Jaques Aubert, spiega come sia stato necessario ridurre a due i tre tomi che le erano inizialmente dedicati. Lui ha privilegiato le opere letterarie che ci vengono proposte nella loro quasi-integralità. Abbiamo capito che stiamo attraverso una crisi, ma se persino “La Pléiade” si invischia con il realismo economico bisogna credere che la crisi sia veramente grave. I lettori di Virginia Woolf – che mi sembrano numerosi e abbastanza motivati – si sarebbero imbizzarriti all’idea di investire in un terzo tomo? Mi si obietterà che fare tante storie è fuori luogo, che la lettura dei classici letterari della signora Woolf – da Gita al faro a Tra un atto e l’altro – dovrebbe già essere sufficiente a placare la nostra sete di una Virginia Woolf su carta india. I due volumi, infatti, permettono di (ri)scoprire, in nuove traduzioni, numerosi testi: penso a Flush, biografia di una poetessa scritta dal punto di vista del suo coker. Vi si trovano ugualmente l’essenziale dei racconti dell’autrice.
Però preferisco l’utopia, preferisco immaginare che i pro-woolfiani e le pro-woolfiane si ritroveranno, in questa primavera, davanti alla casa editrice Gallimard a reclamare il terzo tomo. Quello delle opere non letterarie – quello di Una stanza tutta per sé, del carteggio con Vita Sackville-West e de Le Tre ghinee, quest’ultimo saggio redatto nello stesso periodo de Gli anni e che si apre su questa domanda che ci concerne direttamente: “Come secondo voi possiamo impedire la guerra?”. Il terzo tomo, quello de L’arte del romanzo, del Diario di una scrittrice.
Questa faccenda dei tre tomi ridotti a due funziona ancora peggio se si pensa che la Woolf è precisamente la non classificabile per eccellenza. Cerca, infatti, di inventare per i suoi testi altre definizioni rispetto a “romanzo” e che rifiuta di separarlo dalla poesia. Una che i confini li confonde. Scoprire notizie non raccolte dall’autrice da viva, è già qualcosa, dovremmo accontentarci. Ma anche no: Woolf ha diritto al suo terzo tomo. Se non altro per ricordare che, contrariamente all’idea che a volte ce ne facciamo, non è un’autrice apolitica, separata dal mondo, e non ha niente di etereo – anche quando la sua prosa somiglia a un lungo viaggio in mongolfiera, da dove si ha contemporaneamente una visione d’insieme e il dettaglio di ogni azione, sensualità di ogni pensiero. Né vaporosa, né difficile da leggere. Chiunque, senza nessuno strumento critico né formazione letteraria, può arrampicarsi sul vascello Woolf. Lo specifico della sua prosa è che si percepisce più di quanto non si decifri. Virginia Woolf desiderava credere che a partire dal 1910 la letteratura sarebbe cambiata completamente e, per questo, la sua impresa è formalmente inedita – ma i nostri cervelli contemporanei captano la sua messa in parole con una stupefacente facilità. Forse perché lei trasforma i nostri neuroni in epidermide – i nostri pensieri diventano corpi tra le sue pagine.
Elisabetta Rasy
Nel corpo multiforme e contraddittorio del Novecento letterario italiano brillano, nella mia personale costellazione di preferenze, tre stelle anomale per genere, forma, contenuti. Non sono né romanzi né racconti né poemi: sono tre scritti autobiografici, molto diversi uno dall’altro, di tre donne anch’esse diverse tra loro, salvo un solo involontario ma fondamentale apparentamento. Il primo è Lettere a Mita, l’epistolario che raccoglie le lettere che Cristina Campo a partire dal 1955 scrisse all’amica Margherita Pieracci, sorta di romanzo di una donna inquieta cui stavano strette le parole d’ordine della femminilità benpensante come quelle della trasgressione alla moda, una donna piena di emozione che si fanno pensieri. Un altro è formato da due testi gemelli di Anna Maria Ortese, Attraversando un paese sconosciuto e Dove il tempo è un altro (raccolti in seguito in Corpo celeste) scritti molto più tardi, nel 1980, ma tutti rivolti all’indietro, a quella creatura «di rischio e di speranza», esule nello spazio e nel tempo, «bestia che parla» come si definisce, che era stata la scrittrice per tutta la sua vita. Il terzo è il Diario 1938 di Elsa Morante, annotato su un quaderno di scuola a quadretti, che si apre alla data 19 gennaio di quell’anno e si conclude circa sei mesi dopo, il 30 luglio. Di queste tre opere, che si tengono in perfetto equilibrio tra la confessione e la narrazione, tra l’autoritratto e il racconto del mondo con quella ustionata sensibilità che spinge a vedere aldilà della cronaca e della testimonianza, la più singolare, per molti aspetti, è quella di Elsa Morante.
Quest’anno ricorre il centenario della scrittrice, nata a Roma il 18 agosto 1912 in una famiglia sghemba e irregolare come quelle che appariranno nella sua opera (l’uomo di cui porta il cognome non è suo padre ma il marito di sua madre, che invece l’ha avuta da un altro, come tutti i fratelli che seguiranno). Quando scrive il Diario, a 26 anni, da tempo è andata via da casa per dedicarsi alla scrittura che per ora consiste in piccole collaborazioni giornalistiche, raccontini, feuilleton. Ma al centro di quelle pagine concepite come un piccolo libro (c’è un titolo: Lettere a Antonio, due epigrafi, Dante e Calderon, e una specie di sottotitolo Libro dei sogni) non ci sono apparentemente le sue ambizioni letterarie: è innamorata di A., cioè di Alberto, cioè di Moravia, che circola nelle cinquantasette facciate del quaderno come un dio sprezzante, ma il centro è un altro. Il centro, la materia del libro, sono i suoi sogni, nei quali le figure del presente appaiono sempre in un «luogo ignoto e noto» dove è finalmente possibile intendere la loro realtà, perché la realtà è comprensibile solo se tra sogno e veglia non c’è distinzione. Unicamente in questo modo, infatti, la realtà si trasforma in quella speciale circostanza dello sguardo che è la visione, che non è una fluttuante e fantasiosa sfocatura ma un’intensificazione della vista, ciò che permette di intendere il mondo nella sua essenziale verità. Del tutto involontariamente questo libretto è anche una dichiarazione di poetica, o, più precisamente, la profezia dei romanzi che verranno. Di lì a poco Elsa, che frattanto ha sposato il personaggio A. del Diario, comincia a lavorare al suo primo romanzo Vita di mia nonna, che diverrà, scavalcando le vicessitudini della guerra, Menzogna e sortilegio, pubblicato nel 1948 e premiato quello stesso anno a Viareggio. Seguiranno, molto distanziati nel tempo, solo altri tre romanzi: L’isola di Arturo, Premio Strega nel 1957; il controverso e popolarissimo La Storia, imprevisto bestseller che esce nel 1974; infine, meno apprezzato degli altri, Aracoeli, che appare nel 1982, tre anni prima della morte dolorosa e solitaria della scrittrice in una clinica romana, a giugno del 1985.
Se ho messo insieme queste tre opere autobiografiche di scrittrici molto diverse una dall’altra (anche se Cesare Garboli in testi morantiani imprescindibili sostiene, a mio avviso sbagliando, che Ortese nasce da Morante, e anche se Morante e Campo erano unite da una stessa devozione per l’allora pressochè da noi sconosciuta Simone Weil), è perché un tratto fondamentale le accomuna, un tratto che proprio l’autrice di Menzogna e sortilegio incarnerà alla perfezione: un altero anacronismo, un essere fuori – più che un tirarsi fuori – dai richiami del momento, dalle mode, dalle parole d’ordine, dal dominio dell’attualità che una guerra feroce prima, poi un febbrile dopoguerra, tendevano a imporre. Lo incarnerà almeno fino al 1968, quando, come dice Garboli, finisce quel «gioco segreto» con la letteratura che fino allora era stata la sua stregonesca e capricciosa e illuminata dimensione: finisce con Il mondo salvato dai ragazzini e poi con La Storia, il suo libro più discusso, che a molti parve un capolavoro e ad altri sguardi, compreso il mio, un grandioso fallimento. Anche se poi a me pare che con Aracoeli il gioco segreto riprenda, mentre torna la prima persona, torna la voce disperata ma imbevuta di desiderio e ardore che aveva disegnato i personaggi di Elisa nel primo romanzo e del ragazzino Arturo nella sua isola. Ha ragione Garboli quando scrive che «Non esiste in tutto il Novecento letterario italiano un autore più odiosamato, più letto e più avversato della Morante». E quando dice che c’è una spaccatura nella stessa scrittrice, un prima e un dopo nella sua vita di autore, un momento in cui smise di lavorare «arruffata e indemoniata come una strega» ( o anche «più fiera e capricciosa» di un ragazzo) e, scendendo nelle strade, «prestò ascolto a un richiamo sociale e politico che a quel tempo era una ragione di vita», fino a ripensarsi, a immaginarsi «come un vate, un maestro». Come quel vate, quel maestro, o maestra o «matrigna» (sempre Garboli), seducente e allarmante che appare oggi negli scritti che un gruppo di giovani scrittrici le ha dedicato sul numero di «Nuovi Argomenti» a lei intitolato, un po’ intimidite e quasi obbligate a trattarla come un oggetto di culto. Ma cent’anni dopo la sua nascita forse si può ripensare Elsa Morante fuori dal culto, dalla contesa fra «gli insofferenti e i sedotti», e forse anche fuori da Garboli, che fu suo amico e che di tale culto, con il suo speciale acume critico, fu il massimo officiante. Intanto, e in primo luogo: per chi non è uno storico della letteratura, per chi non ha problemi di collocazioni, tendenze, filiazioni, insomma per il comune lettore, che anni formidabili per la letteratura italiana furono i nostri Cinquanta. Qualche titolo: nel 1953 esce Casa d’altri di Silvio D’Arzo, che molti, me compresa, considerano il più bel racconto del nostro Novecento, sempre nel 1953 c’è Il mare non bagna Napoli di Ortese e Le lettere da Capri di Soldati, nel 1956 Le cinque storie ferraresi di Bassani, nel ’57 esce il più memorabile dei racconti della trilogia di Calvino, Il barone rampante, senza dimenticare che all’inizio di quel decennio, nel ’51, entra in scena Parise con Il ragazzo morto e le comete e alla fine, tra ’58 e ’59, La Capria sta scrivendo Ferito a morte, e l’elenco potrebbe continuare. La Morante dei primi libri vive in questo incantato giardino di storie e di scritture, ne fa parte. Ne fa certo parte a sé. Scrive Alfonso Berardinelli, nel bel saggio che le ha dedicato in Casi clinici, della “intemporalità” di Menzogna e sortilegio: «Nessuno si aspettava un tale libro». Per temi, per lingua, per costruzione sembrava che la cupa favola raccontata dalla protagonista Elisa non fosse contemplata né autorizzata dalle circostanze storiche e culturali che l’Italia stava vivendo. Lo stesso Garboli dice che Elsa ignorava la modernità.
Ma questo è vero se si ha della modernità l’immagine che la modernità ha divulgato di se stessa e che forse avevano i lettori disorientati di quel primo romanzo morantiano: un’energia protesa in avanti, compattamente, contro le superstizioni e le ingenuità del passato. Così la modernità l’ha soprattutto pensata e voluta pensare il Novecento. Ma non era vero, in generale, e qui da noi in particolare. È bastato che finisse il secolo breve per accorgersene: la modernità, quella novecentesca in specie, è stata un tempo pieno di ombre, pieno di contraddizioni, pieno di nuove superstizioni che urtavano contro le antiche, la lotta tra un’immaginazione del mondo e un’altra, tra un immaginario e un altro. L’Italia che racconta Elsa Morante è precisamente questo: la sua intemporalità è l’irruzione costante di un tempo circolare, dove tutto torna, nel tempo progressivo del divenire storico, dove tutto cambia. Ed è anche il ritratto fedele di un Paese spensieratamente quanto disperatamente affamato di vita, strambo e fantasioso, non ancora messo a norma dalle regole del benessere, un Paese abitato da fantasmi invincibili che non hanno bisogno di storie gotiche per manifestarsi. E i fantasmi non invecchiano, anche nel terreno spinoso in cui si allacciano i rapporti col sesso femminile di Elsa, sempre ostile a divisioni e definizioni di genere, sempre sprezzante verso una letteratura «da harem», ingiusta probabilmente come quando attaccava e derideva il termine poetessa, rivendicando a sé e ai suoi altri Felici Pochi di qualunque forma anatomica il termine poeta.
Ma se i problemi della condizione femminile del suo tempo non trovano posto nei suoi romanzi, ciò che ha scritto parla di quello che persino Freud ha definito il mistero delle donne – l’enigma del loro desiderio – con più precisione e intramontabilità di quanto non facciano le opere di autrici che si volevano volenterose testimoni di un presente diventato poi velocemente passato, penso, tanto per fare un esempio, a Quaderno proibito di Alba de Cespedes che uscì nel 1952. Se c’è una linea femminile nella letteratura – e io, a differenza di Elsa Morante, penso che ci sia – ogni autrice piuttosto che madre dovrebbe, come lei, essere matrigna per le sue discendenti, autorevole e scostante, esemplare e inimitabile. Piuttosto consiglierei a tutti quelli che mettono le mani in pasta, cioè nella pasta impervia della scrittura romanzesca, la lettura delle poche pagine, più che moderne, che Morante dedicò al romanzo rispondendo a un’inchiesta di «Nuovi Argomenti» nel 1959. Non si lascia condizionare dall’attualità, intimidire dai dibattiti in corso, richiamare all’ordine dalle definizioni correnti, dribbla sapientemente il qui e ora. «Non c’è cosa più irreale (e anzi spettrale) di una cosa “ripresa dal vero”», scrive. Ma il punto importante è un altro, è la natura dello sguardo, la sua intenzione, il suo intendimento. E la sua formula è assoluta: nel lavoro del romanziere «la realtà corruttibile dev’essere tramutata in una verità poetica incorruttibile». Non è una questione letteraria, neppure etica, ma di sopravvivenza: «Il mondo vivente si ridurrebbe a un campo di maledizione e di sterminio se gli uomini cessassero di riconoscere dei simboli di verità poetica nelle cose reali».
Monica Farnetti
Virginia Woolf, Voltando pagina. Saggi 1904 – 1941, a cura di Liliana Rampello, Milano, Il Saggiatore, 2011, pp. 657, euro 29
Ci arriva dunque dal Laboratorio Rampello un terzo contributo che definisco senza indugio capitale in materia di studi woolfiani. Ricordo infatti l’edizione italiana, curata dalla studiosa, del ritratto a più voci Virginia Woolf fra i suoi contemporanei (Alinea 2001), sollecita convocazione di amici, parenti, amiche e amanti e rendiconto di una vita a partire non dalla morte ma dalla vita stessa della protagonista, dalla “molteplicità di un lungo agire ed essere dell’esistenza” (cito dalla quarta di copertina) e variopinta narrazione corale di quella “magnifica leggenda del Novecento” che chiamiamo Virginia Woolf. E ricordo poi la monografia Il canto del mondo reale. Virginia Woolf, la vita nella scrittura (Il Saggiatore 2005), approfondimento da parte di Rampello della sua relazione a 360 gradi con la scrittrice, affondo di mirabile precisione nelle ragioni e nel senso dell’opera di lei, e assestamento definitivo di quella posizione – già adombrata nel primo libro – che presume una Virginia Woolf innamorata della vita di cui è maestra, e la sua morte stessa come “faccenda d’amore, d’amore intenso per tutto ciò che la circonda” (p. 46). Un libro in cui la vecchia forma della biografia, onorata se non altro perché cara a Virginia, celebra i propri fasti e tocca la vetta delle proprie possibilità, dandosi tutta intera come proposta ermeneutica e tentativo, commovente e riuscitissimo, di interpretare un’esistenza umana.
Questo terzo contributo arriva puntuale, oltre che nel calendario dei diritti d’autore (nel 2011 scadevano, come sappiamo, i settant’anni dalla morte della scrittrice), anche nella cronologia personale di Liliana Rampello (2001 – 2005 – 2011 significa un libro pressoché ogni cinque anni); e arriva mirato e coerente, pronto a continuare e a integrare il percorso segnato fin qui mentre ci fa fare un passo ancora. Perché la natura dell’operazione – l’edizione di un’ampia e accurata selezione di saggi letterari – e l’angolatura scelta – Virginia Woolf saggista e, più vividamente, Virginia Woolf lettrice – permettono a Rampello, lo anticipo, di dissipare definitivamente le ombre luttuose che nel corso del Novecento si sono addensate sulla personalità della scrittrice con la luce radiosa della felicità della mente; di far prevalere sulla “scienza del lutto” (come pur splendidamente propone Nadia Fusini) la gaia scienza della percezione, della partecipazione e della relazione col mondo; di spiazzare infine dal suo trono “Dama Malinconia” (ancora Fusini) per far sedere al suo posto la Musa dell’Ironia o ancor meglio, come dirò, Sua Maestà l’Allegria. Ma procedo con ordine.
Questo libro a cui oggi facciamo festa è in realtà una festa per noi, e per almeno due validi motivi. Innanzitutto perché qualcuna (peraltro di estremamente affidabile) ha fatto al posto nostro e da par suo quanto desideravamo fosse fatto da un pezzo: una scelta e un montaggio intelligente e sensibile dell’enorme mole dei saggi di Virginia Woolf (sono innumerevoli, lo ricordiamo, le raccolte saggistiche in lingua inglese che vanno sotto il suo nome nonché le pagine dell’impresa da lei intitolata, con una delle sue magistrali metafore, The common reader, “il lettore, la lettrice, comune”, dove quel “comune” vale giorni di riflessione per arrivare a capire che indica ciascuno e ciascuna di noi), saggi composti secondo un criterio geniale (secondo cioè l’evoluzione della poetica woolfiana, tutta legata e insieme scandita dai grandi romanzi), tarati sulla base di traduzioni fra le più belle e incantevoli, e riuniti in un unico libro che ce li rende facilmente accessibili, meglio governabili e infinitamente più vicini.
La seconda buona ragione per festeggiare questo libro sta quindi nel fatto che tutta l’operazione è incentrata sul senso, l’importanza, il piacere nonché la vertigine della lettura. La situazione infatti è più o meno la seguente: a monte c’è Woolf che legge questo e quello; a ridosso c’è Rampello che legge Woolf che legge questo e quello; poi ci siamo noi che leggiamo Rampello che legge Woolf che legge questo e quello e così via, come fossimo in un racconto di Borges nel quale si finisce per non capire più chi legge chi e dove, o in una elettrizzante catena di Sant’Antonio che fa passare una febbre felice e contagiosa, o ancora in un incastro di scatole cinesi in cui ciò che trasversalmente ci unisce – leggere – è un’azione che si carica di ogni evenienza, e diventa la parte per il tutto del nostro stare al mondo con sensatezza e piacere. È questo, insomma, un inno alla lettura, a quell’azione cioè che garantisce il pensare e che già abbiamo imparato a riconoscere come gesto di resistenza e forma di sopravvivenza, e alla quale perciò era cosa dovuta rendere omaggio in un modo adeguato.
Autobiografia di una lettrice si intitola il saggio di prefazione di Liliana Rampello a questo volume. “Lettrice” la quale naturalmente è lei, Virginia Woolf, che attraverso il resoconto ordinato delle proprie letture dà conto di sé, della sua vita quotidiana e della sua vita intima, delle sue abitudini, passioni, idiosincrasie, predilezioni e fantasie, di tutto il suo modo insomma di stare al mondo mentre lo pensa. Ma “lettrice” che nondimeno e senz’altro è Liliana Rampello: non solo per quel suo modo esemplare di fare critica letteraria dando per acquisita la letteratura come operazione della vita stessa, che trova posto dentro di lei; ma anche per la sottile e importante sintonia che si instaura fra lei e la sua scrittrice, la loro palpabile affinità di vedute in fatto di testi, il loro evidente e fecondo coincidere nella posizione che scelgono per guardare alla vita. E “lettrice” che infine, per la proprietà transitiva, è anche e certamente ciascuna di noi.
Domandiamoci adesso qual è il risultato più importante, la cifra più smagliante di tutto il libro, il segno più profondo che lascia su di noi. È, a mio avviso, un segno che dipende dal definitivo assestarsi, al quale accennavo in apertura, della figura della Woolf sul piano della vitalità, sotto il riflettore di una luce positiva e sfolgorante, dunque dal suo configurarsi come vera e propria forma della felicità legata alla coscienza di esser viva e al fatto di poter leggere – come se leggere ed esser viva fossero per lei tutt’uno. Appoggiano su questa base le sue competenze più alte: l’affinamento supremo della percezione di ciò che le vive intorno e gliene trasmette la vibrazione, l’eccitazione, la commovente evidenza; l’ospitalità riservata all’ironia come forma di intelligenza, passo di lato e sguardo di sghembo sulle cose del mondo; la capacità infine di onorare l’esclusivo piacere che le procura la sua mente, quando le rende pensabili e dunque più vivibili, e non di rado anche risibili, le cose che accadono. Ne consegue una traboccante allegrezza, un’ondata di piacere che da lei viene verso di noi, una vera e propria arte della gioia legata al leggere, al pensare, allo scrivere che a contatto con questo libro si impara seduta stante, e che ci dice della lettura come vita e come misura della sua pienezza.
“Volevo scrivere sulla morte, ma la vita ha fatto irruzione come al solito” scriveva la Woolf in una pagina del 1922 del suo diario. “C’è che amo la vita, Londra, questo attimo di giugno”, ribadiva folgorata la signora Dalloway. Mentre Lily in Al faro gridava la sua gratitudine a chi le rivelava i “piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi all’improvviso nel buio” in cui la vita sontuosamente le si manifestava. Era tutto pronto, direi, perché si levasse questa fiammata che Liliana Rampello ha attizzato, e si colmasse lo slancio, si spiccasse il volo verso quel cielo che con María Zambrano chiamo “allegria”.
In un saggio rimasto incompiuto, e di cui si dà conto e notizia in un saggio di Rosa Rius Gatell nel volume di studi zambraniani intitolato a La passività, a cura di Annarosa Buttarelli, Bruno Mondadori 2006 (da cui sparsamente cito), Zambrano sostiene che l’allegria è l’altro “polo”, assieme al dolore, della vita emotiva, una “dimora” in cui “accade sempre qualcosa di essenziale”, una “capacità […] di intensificare la nostra forza” e un “istante – al pari dell’antico e cruciale kairos – di fortuna e di rivelazione”. Il pensiero infatti, precisa, non si significa solo dolorosamente; può significarsi anche e ancor meglio tramite l’allegria giacché “l’allegria è ancora più profonda del dolore”. L’allegria è “creatrice”, trasformatrice, dotata di “meravigliosa potenzialità”; l’allegria è nientemeno che “passaggio […] ad una maggiore perfezione”, aumento di potenza, “transito a un grado superiore di realtà”.
Credo che questo pensiero nuovo, totalmente inatteso e a dir poco dirompente possa, fra le sue implicazioni, contemplare anche un modo soddisfacente di accostare il volume di cui stiamo parlando. Che è fatto per l’appunto di pagine piene di “allegria”, capaci di far sussultare di sorpresa e di piacere nel mostrare l’azione di questa energia un po’ in disuso. Sono scritte infatti in uno stato intenso e insieme leggero della mente, e collocano in pieno – e finalmente – la creatività e la sapienza femminile sotto il segno della positività del sentire. Se ne impara la vita attraverso uno scarto continuo e sorprendente del modo di accostarla: un movimento eccitante, di una precisione impertinente, e di una lievità che non si ritrae nemmeno dinnanzi alle cose gravi e solenni. Pagine che ci inducono quello di cui sono fatte, che ce lo insegnano facendocene fare esperienza, e ce lo indicano come la strada per una vera e propria riforma della mente. Mentre al contempo, contagiandoci dell’allegro morbo della lettura, confortano il nostro spirito e soprattutto migliorano il nostro umore.
Mara Accettura
Jeanette Winterson è raggiante. A un certo punto dell’intervista dice “non sapevo che l’amore potesse essere così affidabile, come il sole che sorge tutte le mattine”. Una frase che potrebbe essere letta come un terribile cliché detta da chiunque altro. È certo che si riferisce a Susie Orbach, la famosa psicanalista freudiana (autrice di Corpi e terapeuta di Lady Di), che dopo un matrimonio trentennale, nel 2009 si è fidanzata con lei. Cito questo fatto perché la Orbach è stata una figura chiave in questa ultima biografia della Winterson Perché essere felice quando puoi essere normale? (in uscita per Mondadori il 6 marzo). L’ha infatti aiutata nella ricerca della madre naturale. Jeanette Winterson è stata infatti adottata da una famiglia Pentecostale nel Nord dell’Inghilterra. La madre, una “depressa flamboyant” tiene una pistola nel cassetto degli strofinacci e i proiettili in una scatola di lucido per mobili. Jeanette viene cresciuta come una missionaria: l’unico libro permesso a casa è la Bibbia e quando Mrs Winterson scopre che nasconde Donne in amore sotto il materasso insieme a centinaia di altri titoli, getta tutto dalla finestra e fa un falò in cortile. A 16 anni però la ragazza dai capelli a filo spinato si innamora di una donna. “Sono felice”, dice. La madre le fa la domanda che dà il titolo alla biografia, poi la fa esorcizzare. Jeanette fugge di casa, dorme per un anno in macchina, entra a Oxford. Ho amato moltissimo questo libro, che è il gemello ombra di Non ci sono solo le arance. Quella semiautobiografia in chiave umoristica, poi diventata una fortunata serie tv, si fermava all’Università. Questa, anche se non mancano affatto le parti comiche, è una discesa agli inferi e ritorno. Oltre all’infanzia, parla di quella notte oscura dell’anima in cui la Winterson si lascia con la regista Deborah Warner e tenta il suicidio, della morte del padre e del ritrovamento dei documenti di adozione, infine dell’innamoramento per la Orbach e dell’incontro con la “vera” madre. Perché essere felice però va aldilà della biografia. Soprattutto è un libro sull’amore, la mancanza, la perdita, il desiderio, il cercare di appartenere e la ricerca di identità. “Non volevo scrivere un sequel”, dice l’autrice, che incontriamo in una deliziosa casa georgiana su Fournier street, Londra, che sta ristrutturando con un’amica. “Sono tornata al mio passato in virtù di quei documenti scovati in un baule, così ho iniziato a scrivere per me e solo per me, la mia storia, senza pensare che sarebbe diventata un libro. È stata la mia agente a consigliarmi di metter insieme tutto, e a metà mi sono accorta che dietro gli appunti c’era una incredibile forza. Speravo che, sebbene molto personali, potessero parlare a molta gente. Ho un’idea molto morale dell’arte. Se non ci cambia la vita a che serve? Ha funzionato: sono stata inondata da lettere ed email da chiunque, donne e uomini di tutte le età”. Non è una lettura facile, ma una volta dentro è impossibile staccarsi: la Winterson ha una grandissima capacità di mettersi a nudo, esplorare senza pudore il mondo delle emozioni, anche le più oscure. Come quando, al culmine dell’esaurimento nervoso, comincia a sedersi un’ora al giorno con i suoi mostri (“la creatura viscida”) e a dialogarci. L’autoanalisi è stata terapeutica. “Tutto quello che è successo in quei due anni è stato una questione di vita o di morte: non c’è dubbio che le chance erano 50/50. Quando arrivi al limite della vita hai davanti un muro e ti sembra che non ce la farai mai ad attraversarlo perché è completamente solido. In quel periodo sognavo spesso di essere in una di quelle terribili stanze che diventano sempre più piccole, e sapevo che per sopravvivere dovevano esplodere i muri. Cosa che è successa e che mi ha rivelato dall’altra parte gioia e un ritorno di amore per la vita. Ora ho davanti altri 25 anni, gli stessi intercorsi tra Le arance e Perché essere felice. E voglio che siano belli. Voglio indietro la mia vita. Non sprecarla più”. I suoi genitori adottivi sono stati crudeli. La lasciavano fuori casa tutta la notte, sua madre la puniva con lunghi silenzi, mancanza di cibo, botte, il tutto condito da un’opprimente religione. È riuscita a perdonarli? “Sì. Sono stata capace di perdonare mio padre da vivo, il che è stato molto bello e dolce anche perché se non fosse successo non sarei mai tornata a casa sua quando è morto e non avrei mai trovato quei documenti”. E sua madre? A proposito perché a volte la chiama Mrs Winterson? “Non so. Sceglievo a seconda di come suonava nella frase. Perché non c’è dubbio che per me lei fosse questo tremendo archetipo, una figura più grande della vita, che ho amato, e assolutamente non una madre. Un mostro, ma il “mio” mostro. Ora nella mia testa è Mrs Winterson perché quel nome sembra più consono alla sua natura. Non sapeva essere madre e probabilmente io non sapevo essere figlia. Sa quell’idea di Winnicott che “il bambino fa la madre” e che non esiste una madre senza un bambino? Credo ci sia una profonda verità perché è la relazione che permette a entrambi di essere ciò che sono. Noi non avevamo idea di come costruirla e siamo rimaste intrappolate in questa strana fiaba, in cui lei era un mostro e io cercavo sempre di essere più furba di lei o di aggirarla per arrivare al tesoro che lei nascondeva così bene. Forse questo era un meccanismo per tenerla a distanza ma che su di me ha avuto grandi conseguenze perché mi ci è voluto molto tempo per imparare ad amare e a essere vulnerabile”. Cioè? “Quando nel libro dico che l’amore può essere prevedibile come il sole che sorge tutte le mattine, è quello che sento ora, perché ho sempre creduto che l’amore fosse per natura imprevedibile. È una grande sorpresa. Mi succede la stessa cosa con i regali: non so accettarli, ho il panico. Susie mi ha appena regalato questa nuova Mini sportiva tutta nera con i sedili in pelle… È una bellissima macchina ma ho sentito l’urgenza di trasferire i soldi sul suo conto e lei li ha ritrasferiti sul mio, con io che chiedevo “ma perché?” e lei “perché ti amo e a te piacciono le macchine” e la faccenda è diventata il simbolo della mia incapacità di ricevere. Ridicolo no?”. Comprensibile. E la sua famosa rabbia, che fine ha fatto? Lei racconta che da piccola alzava le mani su compagni di scuola e insegnanti. “Sì, ahahahah! Alzavo le mani facilmente e anche adesso quando mi arrabbio non sono un bello spettacolo. Posso esplodere, però non tengo il muso e quando è finita è finita. Noi dell’Inghilterra del nord siamo così. L’altro giorno un vicino di Susie le ha ammaccato la macchina e sono diventata matta. “Cosa hai fatto fottuto cretino?” ho urlato e ho pensato di ammazzarlo. E naturalmente la mossa successiva per lui è stata andare dalla polizia e poi chiamare il Daily Mail per dire che “Questa donna di un metro e mezzo mi ha terrorizzato!”. Ahahah!”. Molto divertente! Ma per tornare a Mrs Winterson, cosa ne pensa ora? “Ho cercato tutta la vita di capirla, dissezionarla, proiettarla anche attraverso i ruoli che le ho affidato nei miei libri cercando di provare compassione. Credo di esserci arrivata perché sono politicamente più astuta. Le donne di quella generazione erano assolutamente fottute. Dopo la guerra, momento in cui ebbero responsabilità e potere enormi, tornarono a casa a occuparsi di padri e mariti e il mondo si chiuse completamente per loro. Mia madre non incontrò il femminismo che avrebbe potuto mostrarle una via d’uscita”. Incontrò la religione. “Il che va bene ma non porta una donna lontano. A quella cultura si è sommato il thatcherismo reaganiano, un modello pernicioso per chi ci è cresciuto dentro. Perché da una parte il messaggio era puoi fare della tua vita quello che vuoi, perfetto, e dall’altra era: i problemi sono privati quindi li devi risolvere da solo, la società non è responsabile. Ma come si fa a dire che i problemi sono privati quando non hai nulla, nemmeno un’opportunità? Così c’è voluto molto tempo per inserire la vita dei miei in un contesto in cui le condizioni di partenza sono contro di te”. Lei parla spesso di speranza, seconda chance. Le è rimasto qualcosa di quell’educazione religiosa. “Sono sicura di sì. Credo che la religione organizzata sia qualcosa di negativo, eppure il linguaggio simbolico della religione come mezzo per comprendere noi stessi e l’anima è importante. Parla del nostro bisogno di sapere che c’è qualcosa di più del corpo e della mente. E poi c’è l’idea di riscattare il tempo, freudiana anche se Freud ci è arrivato molto dopo, che significa che puoi tornare in quel posto perduto, danneggiato, portarlo nel presente, pulirlo, guarirlo e poi andare avanti. È un profondo concetto religioso, è redenzione. Significa che qualsiasi cosa succeda, per quanto terribile, non è la parola definitiva. C’è un’altra chance. Perdonare e essere perdonati sono essenziali per sopravvivere. Lo trovo commovente”. Si sente ancora ferita? “Tutti i bambini adottati soffrono di scarsa autostima. Perché se da una parte ti senti superman, che può fare tutto perché non appartiene a niente e nessuno, dall’altra ti senti inadeguato e inferiore. E quella ferita non scompare, non deve, ma la cosa importante è disinfettarla in modo che quando sanguina non infetti l’intero organismo. Le ferite sono dei marchi e dei doni. Perché solo da quel posto puoi accettare e comprendere la tua inadeguatezza, i tuoi fallimenti e quelli degli altri. Capisci che possiamo farci del male a vicenda, è umano. Così ho perdonato l’abbandono della mia madre naturale”. È mai stata in analisi? “Per un po’. Ma c’era questa parte pazza dentro di me che la rifiutava e alla fine ho fatto da sola. È stato difficile perché spesso ci proteggiamo dal dolore attraverso estremi come la rabbia o l’apatia. Io mi sono seduta e ho ascoltato quello che sentivo, senza scappare. Ho imparato che se non riconosci quello che senti non puoi sentire nemmeno quello che provano gli altri. Mi succedeva con Deborah e alla fine io ero sempre arrabbiata e lei sempre calma. Con Susie è diverso: è la persona più emotivamente onesta che conosco. Non puoi fare giochi con lei. Secondo lei non avrei dovuto “fare da sola”, è pericoloso, ma avevo paura che se avessi rivelato la mia follia mi avrebbero ricoverato e dato farmaci e io non volevo diventare un caso clinico anche a rischio di morire, il che è segno di follia. Sebbene sia controverso credo che la mente tenda all’omeostasi, voglia guarire”. Qualche mese fa su questo giornale abbiamo pubblicato un suo racconto sull’amore in cui diceva che abbiamo perso la capacità di esprimerlo. “Credo che il linguaggio ci permetta di sentire di più. Più piccolo è il linguaggio più piccola è la capacità di sentire in modo complesso: ci restringiamo anche noi. Scopriamo la nostra profondità attraverso il linguaggio, ecco perché è importante dare ai bambini un linguaggio reale: è una fantastica cassetta degli attrezzi per farli crescere. Ed è importante affrontare testi complessi perché il cervello, di cui non sappiamo molto, ha bisogno della sfida del linguaggio per esprimere l’enorme portata di cosa significhi essere umani”. È tipico di questa epoca? “Credo di sì. Non sono nostalgica, non voglio che diventiamo bidimensionali, che l’amore diventi un’espressione da soap opera, canzoni pop, tv. Mi piace pensare che l’amore sia vasto, che sia “ciò che muove il sole e l’altre stelle”. La capacità di esprimere un amore così vasto ci permette anche di provarlo”. È vero che a 20 anni faceva sesso in cambio di pentole? “Sì. Ahahah! Be’ non proprio. C’era questo bar per sole donne The Gateways a Chelsea, frequentato da signore che non volevano rivelare la loro sessualità: vivevano nei sobborgi con marito e figli e venivano a Londra per shopping. Ci andavo a letto, in quel periodo andavo a letto con chiunque, cercavo sesso. E loro volevamo farmi regali, cose che sulla carta di credito non insospettissero i mariti, così mi regalavano pentole da Harrods. Finii con una batteria intera di Le Creuset! Un giornale pubblicò il gossip. Se fossi stato Henry Miller in Tropico del Cancro non avrebbe fatto notizia”. Lei dice che la letteratura non è un posto per nascondersi ma per trovare. “Nell’incontro con un libro, un film, un quadro riusciamo ad arrivare al centro di noi stessi come con nessun’altra cosa. Un libro meraviglioso sconvolge le abitudini mentali, getta tutto all’aria in modo che non ci adagiamo, che ci sia sempre un confronto e una sfida a qualche livello. I libri importanti tornano in vari punti della vita per stimolarci come amici invisibili che ci bussano sulla spalla facendoci delle domande. Vivere non dovrebbe mai essere troppo comodo, almeno per me. Per questo è importante avere una mente ben fornita come una dispensa. La gente dice che la letteratura è un lusso ma non credo sia vero e se è vero allora anche essere umani è un lusso”. Oggi com’è il suo rapporto con Ann, la madre che la diede in adozione? “Non so ancora cosa provare per lei. Vorrebbe includermi nella famiglia ma non funziona. Siamo cordiali, non vicine. Non ho rimpianti e neanche lei”.
Lidia Ravera
Certe latitudini c’è un arco di tempo che precede e segue il solstizio d’estate, poche settimane appena, in cui il crepuscolo diventa azzurro». Cominci a notarlo quando aprile finisce e inizia maggio. Non è che faccia più caldo, è la luce, che dura oltre il tempo del giorno e porta con sé il presagio dell’estate. Sono le Blue Nights, che danno il titolo a questo struggente reportage, in libreria dall’8 marzo per “Il sa ggiatore”, dal territorio del lutto, di Joan Didion, scrittrice e sceneggiatrice, nata nel 1934 a Sacramento, vissuta per la prima parte della sua vita nel sole costante della California hollywoodiana e per l’ultima nei nitidi inverni newyorchesi, cui seguono, appunto, le «notti azzurre», invisibili da Los Angeles. «Durante il periodo delle notti azzurre pensi che la fine del giorno non arriverà mai», scrive Didion nell’introduzione, «Quando le notti azzurre volgono al termine, provi un brivido improvviso, un timore di ammalarti, nel momento stesso in cui te ne accorgi, la luce azzurra se ne sta andando, le giornate si son fatte più corte, l’estate è finita». La percezione della fine delle «blue nights», nella vita di Joan Didion, è scatenata da due morti: quella del marito, 30 dicembre 2003, improvvisa, mentre stava apparecchiando la tavola e lei gli parlava dalla cucina. E quella della figlia, (unica, amatissima, adottata alla nascita), venti mesi dopo. Blue nights ( notti azzurre, ma anche notti tristi), dedicato alla figlia Quintana Ro, è stato scritto dopo L’anno del pensiero mag ico, dedicato a John Gregory Dunne, anche lui sceneggiatore e scrittore, il marito. È un dittico coraggioso ed essenziale che condivide, con l’impalpabile platea dei lettori, pensieri «sempre più concentrati sulla malattia, sulla fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni, l’inevitabilità della dissolvenza, la morte del fulgore». Per uno scrittore di razza è inevitabile mettere in parole la misteriosa enormità, la dismisura del dolore provocato dalla scomparsa di un essere umano molto amato, molto vicino. Quel vuoto definitivo, quella ferita immedicabile. Se decidi di tacerne, ti assale la paura che non scriverai mai più. Se non scrivi di quella ferita, sai che non puoi scrivere di nient’altro. Per questo, spesso, queste inevitabili autobiografie di un lutto, si rivelano toccanti e necessarie, quasi catartiche. Ne ricordo soltanto alcune: Nei mari estremi, di Lalla Romano, Tutti i bambini tranne uno di Philippe Forrest, cui muore di cancro una figlia di 4 anni. Si sente, pagina dopo pagina, il corpo a corpo, la lotta furibonda e sanguinosa, fra la misura, la disciplina dello scrivere e il magma ribollente della disperazione. Alla fine a vincere è il racconto, si spartisce il peso con l’ipotetico lettore, si prende una distanza. E, per un po’, la bestia è sedata. Lo stile della Didion, così volutamente disadorno, antiretorico, così dettagliatamente visionario sembra essere lo strumento perfetto per organizzare in un discorso compiuto l’innominabile. Come nei suoi romanzi, un uso sapiente della ripetizione di tre frasi, che riappaiono, qua e là, come un tema in una partitura musicale, è l’unico artificio che l’autrice concede al lirismo. La temperatura emotiva si alza, ma è una questione di ritmo, come se la pagina si mettesse improvvisamente a palpitare. L’identificazione scatta, perché la morte degli altri, prima o dopo, è esperienza di tutti, ma non degenera in facile commozione, perchè la scrittura domina e raffredda. In Blue Nights, Didion non racconta soltanto la morte di sua figlia, a venti mesi dal giorno del matrimonio, quando aveva gelsomini del madagascar intrecciati nei capelli e un fiore di frangipane tatuato sulla pelle. Racconta le luci e le ombre di una maternità elettiva. L’amore narciso che riversa sulla bambina l’eccedenza d’ingegno dei genitori, caricando la sua infanzia di parole da grande. Ma, soprattutto, racconta il modo in cui la malinconia ti aggredisce, quando, dietro di te, il passato è, ormai, una vita intera. È come passare un confine invisibile: «un giorno siamo tutti presi a vestirci bene, a seguire le notizie, a tenerci al passo, a essere all’altezza, in sostanza a restare vivi. Il giorno dopo non più».
Domenico Scarpa
Nel Nel settembre 1954 il “Notiziario Einaudi” pubblicava un articolo di Anna Maria Ortese sul Diario di Anne Frank, uscito sei mesi prima. In questo precoce bilancio su un’opera che andava suscitando emozione, la Ortese seppe trovare il giusto bilanciamento tra vita vissuta e parole scritte: Anne Frank, disse, era “l’adolescenza, e anche il genio dell’adolescenza”; era “la luce della coscienza, e questa coscienza si fa continuamente e perfettamente “espressione (…). La sua dignità e la sua bellezza sono in questo: che non vi è nulla che essa non voglia e non possa esprimere. Neppure la nausea”. Non sappiamo chi tra gli einaudiani ebbe l’intuito di chiedere proprio alla Ortese quell’articolo: se fu Italo Calvino che dirigeva il “Notiziario” oppure Natalia Ginzburg che aveva firmato la prefazione al diario. Di sicuro la Ortese parlò con cognizione quando venne a lodare, nella giovane ebrea olandese morta a Bergen-Belsen, l'”amore della realtà”. Anna Maria Ortese aveva incontrato un libro al quale era predestinata, imbattendosi per di più in una zona di sé stessa collocata nel suo intimo passato ma anche, e misteriosamente, fuori del tempo: “Un libro dove viene registrato il quotidiano, ma anche l’eterno ch’è nel quotidiano”.
Quell’articolo sul diario di Anne Frank è oggi raccolto nel volumetto Adelphi intitolato Da Moby Dick all’Orsa Bianca: un libro, come ha visto bene la sua curatrice Monica Farnetti, incostruibile, perché è vano tentare di estrarre, dal corpus della Ortese, un’opera compiuta sulla letteratura. La ragione di questa impossibilità è il medesimo quid che fa la grandezza del diario di Anne Frank: l’ironia che circola nella sua temperatura affettiva, la maturità che regge la sua adolescenza povera. Alla Ortese infatti non interessa la letteratura in sé e per sé, malgrado possegga (lo provano i suoi articoli su Leopardi, su Cvechov, su Buzzati, su Hemingway) quella fame perentoria che è la condizione per saperla ascoltare. La Ortese non si rammarica della propria gracile fortuna letteraria, bensì – lo scrive nel ’97 a Roberto Calasso – della “invisibilità o estraneità del mio nome nella attuale (e forse eterna) vicenda del linguaggio italiano”. Le sta a cuore il linguaggio quindi, e non la letteratura. Questa opzione, etica prima che estetica, la avvicina ad alcune grandi autrici del Novecento italiano: a Elsa Morante innanzitutto, i cui libri sono per lei “i più grandi scritti da una donna italiana in qualsiasi tempo. (…) Belli perché sono i libri della storia del mondo – la storia senza date -, sono la storia del mondo senza aste e nome”. E la avvicina a Natalia Ginzburg, che nel 1980 tentava di trasferire presso Einaudi l’opera intera della Ortese presentandola come “uno dei meglio scrittori che ci sono”: uno dei meglio, parole terra-terra e genere assoluto, né maschile né femminile.
In questo clima morale aveva preso forma, un decennio prima, il saggio di cui si riproduce la parte centrale ed essenziale: è un testo finora sfuggito alle bibliografie della Ortese, e che andrà integrato idealmente al volume curato da Monica Farnetti. “Rileggendo Paola Masino” apparve sul n. 11 (a. II, novembre-dicembre 1970) di “Il Bimestre”, rivista fiorentina curata da Enrico Gabbrielli Scalini e Sergio Salvi. La Ortese aveva conosciuto Paola Masino a Roma nel giugno 1937, subito dopo aver debuttato da Bompiani con Angelici dolori, raccolta di racconti consigliata all’editore da Massimo Bontempelli che era all’apice della sua fama ed era anche il compagno della Masino, scrittrice che aveva trent’anni meno di lui e che non somigliava né a lui né a nessun altro. “Penso – scrive di lei la Ortese in un articolo del 1989 raccolto in Moby Dick – che dei suoi libri rimarranno alcune cose fra tante: la stravaganza del discorso, l’ardire (così raro, ieri), e soprattutto una malinconia di fondo, quasi invisibile, come una nebbiolina. Propria di chi è nato in cima alla vita, e vede anche quel che gli altri non vedono, che sfugge all’occhio comune”. Queste parole sono la migliore introduzione a “Rileggendo Paola Masino”, un testo che anticipa, in forma breve e per più aspetti semplificata, i temi che molti anni dopo incardineranno un grande libro dell’ultimo Novecento: Corpo celeste, l’opera-testamento di Anna Maria Ortese apparsa nel 1997 da Adelphi. Lì la Ortese espone – con la sua voce elementare e impervia – che cosa siano per lei la ragione, la società, la libertà, la poesia, la verità, che cosa le faccia nascere e morire nel corso della storia, che cosa le saldi insieme o le separi. L’occasione del suo discorso fu un libro semidimenticato: Poesie, di Paola Masino. Lo aveva stampato nel ’47 Valentino Bompiani, presentandolo come la sintesi di una tradizione lirica, non solo italiana: “Accanto alla lettura acutissima dei moderni, tutte le esperienze da Saffo a Jacopone fino ai Petrarchisti cinque e seicenteschi sono accortamente assimilate”. Nel 1970, la poesia carnosa e astratta di Paola Masino fu restituita da Anna Maria Ortese alla vicenda secolare della lingua italiana (della lingua, non della letteratura), trovando posto in una rete di rapporti, che solo ora comincia a rendersi visibile, tra le scrittrici maggiori del nostro Novecento. Come Anne Frank e come la Ortese, Paola Masino sapeva trasfondere l’eternità nella vita quotidiana. L’ultima poesia del suo libro, Preghiera, conta appena quattro versi: “Dio, / andiamo io e te per mano / in una tua pianura. / Là giudicami”.
Anna Maria Ortese
Ora può darsi che le mie idee sul mondo, e sulla poesia ch’è il suo seme, siano poche e sguarnite, ma vedrò di esporle ugualmente e dire perché questi ritmi di Paola Masino mi sembrano poetici, e quindi più vivi di lei stessa che li ha formati e di chi per caso ne parli. E cosa intendo per poetico.
Nel mondo c’è la ragione, e tutti lo sappiamo perché, bene o male, la società è un’organizzazione della ragione. La ragione è organizzazione a sua volta delle facoltà umane, e superamento degli istinti sottoposti a quelle facoltà, affinché l’uomo possa continuare a chiamarsi uomo, cioè scelta, direzione, selezione. Però, questa gran ragione o ragionevolezza, essendo anche compressione e chiusura, è soggetta a delle lacerazioni, a delle dimenticanze di sé così profonde e repentine, che talora sembra entrare in agonia. Quando questo accade nel tessuto civile, la società conosce anarchie e agonie, che altro non sono se non la visione di una possibilità più alta, che non si vede disgraziatamente come raggiungere, commiste come sono tali istanze a infinite pressioni minime, contrarie e perfino armate contro tale possibilità. Quando invece questo avvenimento si verifica nel luogo proprio alla ragione, la letteratura, o insieme di edifici espressivi, città dell’eterno farsi e svanire storico, si ha, suppongo, la poesia: che è, anche qui, improvvisa dimenticanza e laceramento della ragione, e visione, entro la ragione, di una possibilità più alta: l’antico istinto o un istinto futuro. La vita, poi, e la ragione stessa, tra queste cadute della ragione si rinnovano, e da quelle strutture solo momentaneamente cadute, vedi sorgerne altre, più pure, più nuove; e sono le medesime, solo trasformate da questa nuova visione. Questa dimenticanza della ragione chiameremo purezza assoluta, e si chiama infatti poesia. (…) Ma ecco che questa ardente apparizione, nella società, può accadere anche come imitazione o camuffamento; mentre nella vera dimenticanza della ragione, la ragione, come nel sonno, scompare, e si fa luogo la conoscenza del vero, col suo dolore così intollerabile da chiedere, a esprimersi, un ritmo che lo consoli. E proprio questo ritmo, spesso così giusto, così ormai incancellabile, dice che il dolore della scoperta (del vero) fu reale, fu grande, tanto che occorse un aiuto; mentre da somiglianti cadute della ragione, nella società, proprio l’assenza di ritmo, di purezza, di canto, avvertono che la caduta fu consolata dalla pratica, da valori pratici, e quindi non ci fu vera lacerazione, vera caduta, e queste sono ancora delegate e consumate dalla mente del singolo. E per questa capacità del singolo di accogliere e sopportare il dolore (della verità) sospeso nel mondo, può accadere perfino che il mondo ne faccia, di questo dolore, continuamente a meno, delegando eternamente, a sostenerlo, il singolo. Come in realtà si verifica: e dal singolo, solo dal singolo, o uomo dell’assoluto, cioè della poesia, partono così le istanze per i rinnovamenti e mutamenti; che poi la comunità prende come sue, volgarizzandole; finché nuovi spaventi, nella società, eleggono ancora, ad esprimerli, l’uomo poeta, che infatti li esprime, e come uomo ne è ucciso.
Questo mi pare dunque il fare poesia: morire sotto una verità, grande o minima, ma verità sempre, che la comunità non può accogliere, perché la sua sede è il singolo, ma può, di volta in volta, consumare o suggerire. La letteratura nasce da questo; e così, senza letteratura, non vi sono neppure accadimenti storici, cioè un farsi e rifarsi umano. Vedi le grandi letterature del passato tutte annunciare, nel loro calore, il farsi di un popolo, o, nel loro gelo, indicarne la morte. E anche oggi, dove sorge una letteratura, dove odi voci nuove, là sta un popolo; e dove queste voci si spengono, là un popolo ha finito d’essere storia. Per letteratura, io intendo sempre una grande luce di parole (che iniziano o finiscono) intorno al fuoco bianco e taciturno di uno spirito, ch’è il genio di quel popolo morto o nascente che sia. E quando la luce cresce, significa che quel popolo sta formandosi; quando diminuisce, ed è gelo, che quel popolo è esaurito. La poesia colta, che poi diviene mera cultura, o museo di simboli, ci avverte sempre di una perdita simile. Ma, a volte, in tale ghiaccio serpeggia ancora una linea di fuoco. Quella poesia colta, freddissima, ha un che di vivo, è il vivente che sopravvive. Te ne accorgi dalla dolcezza, come tu fossi ancora vivo, che muove in te (vivo come comunità).
Cura e traduzione di Maura Del Serra, Newton Compton 2012
Questo libro, un classico della letteratura, comprende tutta la narrativa di Katherine Mansfield (1888 – 1923): senza dubbio riconosciuta come una delle voci narranti più singolari e innovatrici del Novecento, la scrittrice può essere considerata maestra del racconto. Discostandosi dalla storia breve a lieto fine di tradizione ottocentesca, l’autrice riduce al minimo l’intreccio preferendo “intensificare le cosiddette piccole cose – perché tutto sia significativo”.
Attenta osservatrice della realtà, la Mansfield ferma nelle sue pagine inconfondibili ritratti psicologico-ambientali, struggenti figure femminili, piccole esistenze ignorate dalla storia, giunti a noi attraverso l’introspezione dei moti più intimi e delicati.
La scrittrice porta ad una perfezione rara e complessa il genere elettivo del racconto; proietta e trasforma l’eredità del naturalismo francese, raccolta da Henry James e dall’ammirato e amato Checov, in dirittura novecentesca, legata al clima modernista della letteratura londinese ed europea degli anni Dieci e Venti (da Proust alla Woolf, a Joyce e a D.H. Lawrence).
Katherine Manfield nasce nel 1888 in una famiglia della borghesia coloniale a Wellington nella Nuova Zelanda. Enfant prodige della musica e della letteratura pubblica le sue prime storie nel giornale di classe del Wellington Girls High School tra il 1898 e il 1899. Si trasferisce con la famiglia a Londra dove frequenta il Queen’s College. Terminati gli studi nel 1906 rientra in Nuova Zelanda: stanca della vita provinciale torna aLondra due anni più tardi con poco denaro, ma l’ansia di scrivere, amare, vivere, viaggiare. Raramente viene pubblicata e solo nel 1920 trova il favore della critica. Sposa l’infedele e assente scrittore John Middleton Murry che curerà e darà alla stampa altri racconti, lettere e articoli della scrittrice dopo la sua morte per tisi in Francia nel 1923 a Fontainebleau dove si era recata per curarsi.
Antonella Cattorini Cattaneo
Due preziosi contributi nella filosofia femminile contemporanea. Il primo è di Francesca Rigotti, che insegna Concetti e metafore della politica presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università della Svizzera italiana di Lugano. Il secondo di Luisa Muraro, filosofa e fondatrice della Libreria delle donne di Milano. La Muraro insegna filosofia all’Università di Verona dove ha dato vita alla comunità filosofica “Diotima”.
Hanno in comune molte idee, pur nella distanza delle impostazioni filosofiche e nello stile linguistico. Ne individuiamo una, importante: il richiamo alla maternità, come fonte primaria del pensiero. Come forma archetipica, troppo a lungo dimenticata ma – come tutte le cose di cui si avverte la propria importanza nel momento della loro perdita – ora ritrovata e resa capace di far fiorire nuovi e fertili pensieri femminili, per donne e per uomini che vogliano leggerle e ascoltarle.
La recente pubblicazione di FRANCESCA RIGOTTI, Partorire con il corpo e con la mente (2010) ritorna sul tema del pensiero femminile, ovvero di donne che pensano e che intendono superare quel che l’autrice chiama “il paradosso di Arianna”. Come la mitica e intelligente liberatrice di Teseo non fu valorizzata per la sua geniale mossa con il famoso filo nel labirinto ma bensì tradita e – in una versione del mito – persino uccisa, anche le donne sono state nei secoli espropriate delle attività loro proprie quali il partorire, il tessere, il filare. Queste operazioni, considerate banali e insignificanti finché praticate da donne, hanno assunto ben altra valenza allorché trasfigurate in un processo di purificazione metaforica e di astrazione da parte degli uomini. E quindi “il parto della mente” o “il filo del logos” hanno preso stanza in luoghi considerati ben più degni delle domestiche dimore.
Se in altri testi la Rigotti ha cercato di recuperare la dignità concreta e metaforica, tutta femminile, di queste attività (Filosofia in cucina, 1999, Il filo del pensiero, 2002. La filosofia delle piccole cose, 2004) con uno stile linguistico capace di metter in gioco paragoni e analogie, in quest’opera difende il contributo femminile alla riproduzione, spesso e a lungo oscurato. La gravidanza spirituale e la generazione delle idee da Platone in poi hanno allontanato lo sguardo dalla matrice femminile che fa nascere, che dà vita. È stato oscurato quell’archè che invece i presocratici avevano inteso nella sua fisicità, ci si è progressivamente dimenticati della cosa da cui si avvia l’astrazione, privilegiando quest’ultima a discapito della prima.
Nel promuovere questa prospettiva vengono fatte parlare “voci amiche”, soprattutto femminili. Ma non manca anche quella di qualche autore illuminato come ad esempio il poeta R.M. Rilke. Due filosofe, tra le altre citate, ci sembrano particolarmente vicine alla nostra autrice: Janet McCracken, che intende dimostrare come la coscienza morale e il giudizio estetico nascano nel mondo domestico (è infatti fondamentale per la formazione del carattere morale di ciascuno il modo in cui si soddisfano i bisogni di sopravvivenza, come si mangia, come ci si veste e si arreda la casa) ed Elisabeth M.Anscomb (1912-2001), una della figure di maggior spicco della filosofia anglosassone del XX secolo. A questa studiosa, madre di ben sette figli e altrettanto feconda pensatrice, si deve tra l’altro una riflessione importante sul concetto di azione intenzionale. La presenza dei figli e delle loro innumerevoli domande anche a sfondo filosofico (gli inquietanti “perché?” dei bambini) è stata sicuramente uno stimolo fondamentale per l’elaborazione filosofica di questa autrice che non ha posto un aut aut – come altre filosofe tra cui persino la stessa Simone de Beauvoir – tra figli e libri. Invece un nuovo monito esce da queste pagine: et liberi et libri.
Alle donne filosofe, allora, il compito di parlare della nascita e della dimensione creativa che dalla nascita ha origine, superando la dicotomia tra corpo gravido (femminile) e mente gravida (maschile). La donna, madre e filosofa Rigotti utilizza con abilità un pregevole attrezzo creativo, quello della metafora, e invita le donne e gli uomini a recuperare i termini che fanno capo alla esplicazione della creatività: nascita, parto, concepimento, fertilità, individuando in essi la matrice del corporeo femminile. In particolare alle donne porge l’invito a recuperare le parti vitali della propria corporeità, più predisposta a dare alla luce che ad evidenziare le ombre e le “selve oscure” percorse da letterati e poeti. Inoltre è proprio delle donne indagare la scena della nascita, dove il nuovo appare ma sempre in relazione con un altro individuo che non va dimenticato. Come afferma Luce Irigaray, “L’umano originariamente è: non uno ma due, due che non sono né metà, né complementari, né opposti”. Riconsiderare il momento del parto insieme alla nascita significa recuperare la parte del femminile (nella sua concretezza e fisicità) che è stata oscurata dalla tradizione filosofica occidentale, troppo allineata a cogliere la verità a partire dalla morte o dalla seconda nascita piuttosto che da quella della vita. Significa anche recuperare la caratteristica “natale/nascibile” e non solo “mortale” dell’umano.
Il modello della maternità può invece offrire stimoli all’attività creativa mentale. Nel momento della nascita e del parto avviene il presentarsi di una creatura nuova, originale, autentica e aderente alle origini, a quell'”elemento” che come l’acqua per Talete ha fatto essere e continua a mantenere nell’essere.
Inoltre – e qui rintracciamo il cuore del testo – proprio analizzando la metafora del parto e della creatività e associandola all’evento concreto da cui essa nasce è possibile rintracciare alcuni caratteri del pensiero creativo, di come nascono le idee. Tre aspetti, in particolare, risultano caratterizzanti sia i pensieri sia le creature originali: la polisemia, la tensione con l’oscillazione, la forma gianusiana del pensiero, termine tratto dal dio Giano, come riferisce Albert Rothenberg ideatore di tale espressione. Nel primo aspetto è originale l’idea capace un infinita varietà di effetti, ricchi di significato proprio, come un nuovo figlio aperto a infinite possibilità espressive e di vita. Inoltre come nella piccola creatura appena nata riscontriamo somiglianze con i genitori, con intermittenze spontanee e non imposte, così il pensiero innovativo gioca con altre idee in un ritmo mobile e oscillante, irrispettoso di gerarchie e capace di congedarsi dal vecchio. Infine come la divinità romana che sorvegliava le soglie e le cui due facce permettevano di osservare interno ed esterno dell’edificio, il pensiero creativo è gianusiano come l’atto creativo che comporta la diade madre-figlio insieme. Così il concepimento di un figlio e di una idea non rischiano più diversi livelli valutativi e anche così alla donna che pensa sono debitamente restituiti dignità e valore .
FRANCESCA RIGOTTI, Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità, Bollati Boringhieri,Torino 2010
Il testo di LUISA MURARO, L’ordine simbolico della madre, non è recente. Apparso per la prima volta nel 1992, esce in una seconda edizione nel 2006, emendato da una serie di minuti errori e con una “tardiva recensione della sua ex-autrice”. È stato un libro molto importante per chi lo ha scritto: in queste pagine è presentato il passaggio avvenuto nella pensatrice dalla filosofia accademica (ha studiato alla scuola dell’Università Cattolica di Milano con Bontadini, Severino, Sofia Vanni Rovighi) a quella finalmente personale, capace di rintracciare un inizio, un fondamento del proprio pensiero e soprattutto una corrispondenza fra il linguaggio e le cose dette. Si può quindi leggere come un percorso autobiografico, intenso e persino commuovente a tratti, pur nella sua difficoltà concettuale che la stessa autrice riconosce nella nota finale. Nel titolo la tesi dell’opera e la rivelazione di chi scrive: la svolta del pensiero è avvenuta con la scoperta della simbolica potenza materna, necessaria per l’esistenza libera di ogni donna. Una scoperta personale ma anche pubblica poiché avvenuta con la politica delle donne e grazie a questa proseguita nel tempo. Infatti questo testo, dibattuto all’interno di gruppi di donne e di – pochi – uomini, ha avviato altre pubblicazioni a più voci (tra le quali ricordiamo quella della Comunità di Diotima, L’ombra della madre, Liguori Editori, Napoli 2007, dove le autrici si sono firmate anche con il cognome della propria madre), dibattiti, incontri in vari ambiti e soprattutto nell’accogliente sede milanese della Libreria delle donne.
L’amore per la madre da parte delle donne è gravemente rimosso nella nostra cultura. Dopo la stagione infantile, di grande attaccamento alla figura materna, la donna perde di vista e spesso arriva a rinnegare colei che le ha dato la vita e la parola. Non basta criticare il patriarcato per superare questa vicenda: occorre imparare ad amare la madre, anche e nonostante l’ostilità che si possa nutrire nei suoi confronti. La vera grandezza del femminismo non consiste nel criticare il patriarcato ma nel ritrovare quella grandezza incontrata nei primi mesi e anni di vita e poi tristemente perduta e quasi rinnegata. Al di là della critica e insieme alla critica occorre far nascere il desiderio, così necessario per le donne e la loro identità passionale e mentale. Il senso dell’essere, dell’essere finito è così recuperato a livello metafisico. Anche a partire dalla miseria della propria madre è quindi possibile restituire il senso della sua presenza, così come la presenza della realtà fisica nella sua finitudine e contraddittorietà. Per “salvare i fenomeni” non si imboccherà allora la strada della metafisica classica e la sua tendenza – da Platone in poi – a raddoppiare gli oggetti e i valori svilendo l’esperienza concreta, molteplice e finita.
“Ritornare come bambini” (e bambine!), pur nell’ampio credito che si può attribuire a questa espressione che hanno in comune il Vangelo, l’estetica pre-verbale, le indagini psicoanalitiche, non significa tuttavia valorizzare quella esperienza umana come l’unica e la più vera. Certo molto dobbiamo al momento in cui eravamo tutt’uno – corpo e mente – con la madre e a quando, da lattanti, provavamo gli stessi desideri della madre al punto di creare il mondo secondo quel che la madre creava per noi e credere così che esso era posto da noi stessi. La diade originaria madre-figlio/a, infatti, non va dimenticata; tuttavia appare un momento in cui il bimbo/a passa alla sua creazione del mondo, forgiando propri significati a un mondo che (il bambino in qualche misura si accorge di questo) già a lui preesisteva. In questa fase la creazione originaria precedente non è negata né va creduta illusoria; una traccia di essa si conserva nel pensiero e nella parola della nuova creatura. La tesi gnoseologica della Muraro è pertanto la seguente: “L’esperienza creatrice delle origini è quella di un soggetto in relazione con la matrice della vita, soggetto distinguibile dalla matrice ma non dalla sua relazione con essa”.
Abbiamo dato volentieri la parola all’autrice che proprio al tema della parola lega la questione nodale dell'”ordine simbolico”. Infatti la matrice della vita è anche la matrice della parola, ovvero dell’ordine simbolico che si stabilisce necessariamente con la relazione materna. Nel nostro linguaggio abita chi lo ha fatto sorgere così come il nostro corpo risente di un’impronta materna. La separazione dalla madre, con la nascita del nostro modo di leggere la realtà e di parlare non può dimenticare l’originaria autorità da cui la nostra parola dipende. Quell’arte dello scambio che è la lingua deriva da uno scambio originario, tra l’autorità primitiva a cui dobbiamo corpo e parola e la nostra autonomia. Quest’ultima risulta falsa e impersonale – e soprattutto dominata dalle autorità patriarcali – senza il riconoscimento, da parte del soggetto, di quella fonte e autorità iniziale. Ciò che rende veramente dicibile il reale, l’ordine logico del nostro pensiero si basa sull’accettazione di quella necessità, di quella relazione originaria.
L’autrice ammette di formulare in tal modo una sua intuizione molto forte e importante, che tuttavia non è ancora espressa in una teoria compiuta.
Prova nel contempo la sua proposta rivelando innanzitutto la sua esperienza di donna filosofa, che ha visto come atto di nascita del suo proprio pensiero proprio la scoperta di questo debito materno; riporta però anche altre esperienze di donne letterate, poetesse e mistiche che hanno diversamente affrontato questo tema e anche di coloro che non sono riuscite a staccarsi dalla madre e manifestano sintomi nevrotici, come nel caso del fenomeno isterico. Le isteriche – secondo la Muraro – vivono un attaccamento intero alla madre, non accettano di vederla sostituita; arrivano a odiarla, rivoltandosi contro di lei con anima e corpo. Restano nell’avversione, come unico tentativo di indipendenza simbolica. In queste donne non è infatti avvenuta quella sostituzione o mediazione che ha inizio col riconoscimento di quel tantissimo che la madre ha dato: la vita, la parola. La parola che la madre insegna diventa una parola propria solo nel momento in cui essa viene sostituita. Ma alla sostituzione vera si accompagna necessariamente il riconoscimento e la vera restituzione alla madre della sua autorità. Per varie ragioni storiche e culturali il pensiero maschile vive questa riconoscenza al materno senza sforzo; quello femminile invece ne è carente e per questo in tale direzione ha da dirigersi. A partire dall’ascolto ascolto delle voci femminili presenti e passate il pensiero delle donne può così crescere e maturare.
LUISA MURARO, L’ordine simbolico della madre. Seconda edizione, Editori Riuniti, Roma 2006.
Maria Castiglioni
“E vecchi merletti” è l’ultimo libro delle avventure della “detective per caso” – come la definì Oreste Del Buono – Alice Carta, creatura letteraria di Fiorella Cagnoni. Le sue precedenti imprese le potete leggere in Questione di Tempo (La Tartaruga Ed., 1985-2002) Incauto Acquisto (Tartaruga Ed., 1992), Arsenico (La Tartaruga Ed., 2001), Alice Carta in Inghilterra (La Chiocciola, Zane Ed., 2007).
Incomincerò questa presentazione prendendo da Dorothy Sayers (Oxford, 1893-1957) – grande scrittrice di gialli, 15 in tutto – una citazione dalla prefazione di un suo libro: “È stato detto che un interesse amoroso è soltanto un’interferenza in una storia poliziesca. Ma se si pensa ai personaggi che vi sono implicati, è l’interesse poliziesco, invece, che potrebbe sembrare un’interferenza esasperante nella loro storia d’amore…”
Il titolo del libro da cui ho tratto la citazione è Un’indagine romantica (Tartaruga ed., 1991), che potrebbe essere anche un altro possibile titolo di questo ultimo libro di Fiorella Cagnoni – edito dalla Casa Editrice Zane di Lecce, nella collana La Chiocciola.
Anche Angela Donahoe, studiosa inglese (Monash University) ha parlato di un focus, negli ultimi scritti di Fiorella, “much more personal and self-reflexive”.
L’intreccio tra storia d’amore e indagine poliziesca è ammesso dalla stessa autrice, a partire dal titolo della prima parte (Tra un delitto e l’altro) nonché in un dialogo tra la protagonista, la detective Alice Carta a Milano e la sua innamorata Giuliana Penna, in Messico, attraverso uno scambio telefonico che avviene, come è ormai usuale di questi tempi, in Skype:
“Abbiamo un elenco di quesiti interminabile.”
“Ti posso dire qualcosa che non c’entra niente?”
“Cioè?”
“Una volta ho visto scritto quesito, e la prima reazione è stata leggerlo come in spagnolo… come un piccolo queso, un formaggino insomma…”
“Interessante.”
“E poi sai cosa penso, tornando al tema ma un po’ a lato?”
“Dimmelo.”
“Tu hai fatto diciamo varie indagini, no?”
“Hm.”
“Dico, hai risolto qualche mistero, legato a delitti, assassini…”
“E allora?”
“Qui non c’è delitto, eppure c’è una ricostruzione. Di ragioni, di cause, di sospetti e tracce, ombre e luci… Questioni più di psicologia che di reato.”
“Mi fai tornare in mente Poirot,” sorrise Alice Carta.
“In che senso?”
“Diceva: la trama è sempre la stessa, è la psicologia che cambia. Ma cosa intendi? Che in mancanza di un delitto analizzo il mutamento improvviso di un amore?”
“Ma non nel senso che siccome non c’è un delitto indaghi sulla crisi di un amore. Piuttosto che indaghi su questo come se. Intanto che non c’è un vero e proprio delitto.”
Quanto c’è di romantico e quanto di poliziesco in questo libro? Sono due aloni/dimensioni che si intersecano continuamente, sia temporalmente che letterariamente. Viene creato dall’autrice un alone poliziesco intorno alla fine di un amore. Alice Carta cerca di indagare su questa fine come fosse un delitto e lo fa con l’animo – che le è congeniale – della detective, anche se sa perfettamente che in questo tipo di ricostruzione non c’è verità possibile, non c’è una precisa consequenzialità, il nesso causa/effetto sfuma e non esiste alcun assassino da scoprire.
E c’è un alone romantico – che uso nella sua definizione da manuale di letteratura come l’affermazione della libertà individuale, lo scavo psicologico e dei sentimenti, l’inclinazione alla dimensione pedagogica – che percorre anche la parte più propriamente poliziesca.
Quindi romanzo che combina più generi, poliziesco, romantico, pedagogico, che vuol intrattenere ma anche trasmettere un messaggio politico e culturale che attiene alla pratica politica delle donne degli ultimi decenni.
Una sfida ardita per l’autrice di cui si coglie la tensione a far sì che i propri personaggi esprimano fino in fondo – se un fondo ci può mai essere – inquietudini, drammi, desideri e speranze che hanno accomunato e accomunano una, e anche più di una, generazioni di donne e femministe.
“Che la letteratura sia dolce e utile” – ammoniva Orazio, e mi pare che Fiorella abbia fatto suo questo invito.
Il romanzo si divide nettamente in due parti di 90 pagine l’una.
La prima narra della fine, lacerante e fondamentalmente inspiegabile (come la nascita di un amore, ma di questa non ci si chiede il perché) di una relazione d’amore tra due donne; la seconda introduce lo scenario in cui avverrà il delitto e vi si addentra progressivamente, anche se, contrariamente al classico plot del romanzo giallo, perché appaia il cadavere occorre aspettare ben 146 pagine!
Che però il delitto sia nell’aria lo si intuisce già nella prima parte dove compare una pagina di diario, scritta dalla mano assassina, – espediente letterario che crea tensione e annuncia la futura entrata in scena della principale protagonista di ogni romanzo giallo: la morte.
Vivere la vita così – normale. Ma preparandosi all’atto FINALE, perché non si può sfuggire due volte al giudizio definitivo. L’unico giudizio DEFINITIVO è la morte. E se i tribunali degli uomini non condannano a morte, sarà la mia mano a castigare L’INFAMIA.
Nemmeno l’ombra… C’era una canzone che diceva… nemmeno l’ombra della perduta felicità… La felicità te la portano via, non la perdi, non è un accendino o una patente. Quelli si perdono, la felicità te la rubano.
Ogni gesto a suo tempo.
Cancellare il DISONORE.
Non farsi scoprire.
Non il delitto perfetto, che anche quello è una chimera. Al contrario – il perfetto delitto che lava l’onta.
Concedere qualche possibilità di ravvedimento? Difficile da pensare.
Intanto c’erano da sistemare tutte quelle fotografie. Anni e anni di fotografie buttate ancora alla rinfusa in scatole verdi di cartone, che neanche riuscivano a contenerle bene.
ORDINE. Fare ordine.
Qualche informazione per orientarsi nella narrazione: l’amore che si sta estinguendo e che assorbe tutte le prime 90 pagine è quello tra Vittoria e Alfonsa sulla cui vicenda si addensano, si diradano per poi raggrumarsi di nuovo in un fittissimo dialogo, i commenti/pensieri delle amiche della coppia, tra cui Alice Carta e Giuliana Penna: la cui storia d’amore sta invece nascendo proprio all’ombra di questa fine, forse ad indicare l’instancabile lavoro di Eros? O l’insopprimibile tenacia del desiderio dell’Altro.
C’è poi la coppia della tragedia, Matilde e Tomaso, vicini di masseria di Alice e Giuliana.
I luoghi sono Milano, la casa di Alice, le case delle amiche, la Libreria delle donne (prima parte) e, nella seconda parte, Lecce, la masseria dove inizia la vita in comune di Alice e Giuliana e i suoi dintorni, compresa la masseria del delitto, luogo per definizione isolato, come in tutti i gialli che si rispettano…
Accennavo a un “fittissimo dialogo”: questa è la forma preminente in cui si snoda la prima parte del romanzo, una scelta stilistica che ho trovato particolarmente felice e totalmente opposta al metodo di indagine poliziesca, che è invece l’esaltazione di un’unica mente, acuta, solitaria e interrogante. È come se per ragionare sulla fine di un amore occorresse una sorta di “detective plurale”. Si tratta di un dialogo serrato, a catenaccio, dove a volte le locutrici sono perfino difficili da riconoscere, così da sembrare le tante articolazioni di un monologo.
Dice Nathalie Sarraute, scrittrice franco russa e studiosa di teoria della letteratura, che “il dialogo è l’estensione funzionale di un monologo, è una sottoconversazione dell’autore con se stesso” ed è probabile che anche qui, come in tutti i romanzi, le molteplici personagge, cane e gatte incluse, incarnino i vari Sé dell’autrice, impegnata in una sorta di simposio con se stessa per capire che cosa porta a conclusione un rapporto d’amore.
Dice Susan Sontag che in un romanzo psicologico “non deve succedere niente”. E in effetti, in questa prima parte, non succede niente. Vale a dire che si sta ragionando su un già accaduto (la fine del legame) e si preannuncia quello che avverrà (un nuovo inizio d’amore, un delitto… e l’accostamento è inquietante). Dal punto di vista degli eventi stiamo galleggiando in un tempo sospeso, ma contemporaneamente il tempo è uno dei grandi oggetti dell’argomentare collettivo. Come in questo dialogo dove l’affastellarsi delle voci, nella concitazione e passione dello scambio del pensiero (chi non conosce questa situazione?) raggiunge anche degli effetti umoristici:
“Non è sempre così?” sussurrò Alice a Dolores. “L’amore romantico, quello che contempla e comprende la sessualità, è sempre monogamico, no?”
“Hm. Sì. Ma sei rimasta indietro di un argomento?” rispose Dolores prendendole una Marlboro dal pacchetto appena aperto.
“Dice che gli inciampi con Vittoria l’avevano confusa”, continuava Pilar, “e che la seduzione di Patrizia ha colpito nel segno, e anche lei si era invaghita. Era incantata da quella particolare condizione delle cotte”.
“Spiegazione debole,” sentenziò Stella.
“E quale sarebbe, questa parte mancante nella relazione con Vittoria?” chiese Sylvie. “No, non mancante… appisolata. Che veste ha, questa bella addormentata nella relazione?”
“Ma quale addormentata nel nosco! C’era tutto, per noi!” sbottò Vittoria. “Tutto, avevamo: progetti, realizzazioni, scambi, pensiero, divertimento, allegria, sincerità, sessualità. Vivevamo in un’armonia speciale, insostituibile. E se magari qualcosa per lei non funzionava, perché non dirlo?”
“Hai detto nosco?!” chiesero insieme Stella e Sylvie.
“Vittoria ha ragione,” tagliò corto Dolores. “Anche se magari con qualche problema, la loro relazione meritava un congedo meno traumatico.”
“Cosa vuoi dire?” chiesero insieme Stella, Sylvie e Pilar.
“Vuol dire che Alfonsa ha preteso che Vittoria smettesse di amarla troppo in fretta, avrebbe voluto che in quattro e quattr’otto Vittoria trasformasse la loro relazione in una bella amicizia, così – dall’oggi al domani. Vero, Dolores? Questo volevi dire?” riassunse Alice.
“Cielo ragazze, adesso ho bisogno d’esser tradotta?”
“Ma è stata Vittoria a buttarla fuori di casa! Dopo i tentativi di non far finire tutto! Quale quattro e quattr’otto?” diceva intanto Pilar. E già. Perché esasperata dalla gelosia e dalla rabbia Vittoria aveva intimato ad Alfonsa di andarsene dalla propria casa di Napoli, dove passavano insieme il fine settimana dei “giorni dei tentativi”.
“Va bene. Stiamo calme,” propose Alice Carta. “Dovremmo dirci allora cosa ogni una di noi intenda per meno traumatico, per troppo in fretta, e per quattro e quattr’otto.”
“Un rapporto come il nostro non lo butti via dall’oggi al domani,” disse subito Vittoria.
“Ma questo, Alfonsa non l’ha fatto,” ripeté Pilar. “Tu l’hai mandata via dalla vostra casa, piuttosto!”
“E vorrei anche vedere!” ribatté Vittoria. La sua voce era sempre troppo alta, ma nei suoi occhi era anche sempre pronto un fiotto di lacrime.
“Allora,” riprese Alice, “cominciamo dall’inizio: meno traumatico, come ha detto Dolores, cosa vuol dire? Che Alfonsa… quanto tempo sarebbe dovuta stare con Vittoria come se niente fosse?”
Meno traumatico… quattro e quattr’otto… troppo in fretta: le domande di Alice sono anche le nostre.
C’è un tempo per il delitto e c’è un tempo per la fine di un legame, ma in ambedue avvertiamo un processo di accelerazione. Per non uccidere forse bisogna non avere fretta.
Le questioni, i quesitos direbbe Giuliana, si rincorrono: quanto avrebbe dovuto aspettare chi era stata tradita? e per quanto tempo avrebbe dovuto fare come se niente fosse chi si stava allontanando?
Il tempo è la culla dell’amore, ma anche il suo aguzzino? Di certo l’indugio, come dice Alfonsa a un certo punto, non è concesso perché, nel frattempo, “tutti i non detti si ammassano da qualche parte”, come le ricorda Alice.
E questo tema, la durata di un legame, il due per sempre insito nella promessa iniziale (e che dà il titolo anche alla seconda parte), resta un nodo centrale della tematica del romanzo, quasi un’ossessione, e viene trattato a più riprese. Ecco un altro dialogo via Skype tra Giuliana e Alice (parla Giuliana e poi Alice):
“(…) O si pensa che il sogno d’amore sia soltanto l’incanto dei primi tempi, e dunque ad un certo punto lo si ripete cambiando partner, oppure si pensa che il sogno d’amore sia curare un rapporto, una relazione come dite voi, con accanimento terapeutico curare l’amore, prima di arrendersi. E si fatica, a farlo durare.”
“La tua storia più lunga quanto tempo è durata?”
Quella pausa. Per esser certa di dire davvero la verità. “D’amore? Un po’ meno di nove anni. Guarda, io la dico sempre, la verità. Subito.”
“E… già che sai tutto: cosa ti fa disamorare?”
“Non è vero che so tutto. Mi fa disamorare… la non consapevolezza. Sì, direi la non consapevolezza. Anch’io ne patisco, ma piuttosto di rado.”
Ma la consapevolezza di cui parla Giuliana non è tutto. Forse c’è una nota di presunzione (inconsapevole) in lei che non dà conto di un altro fattore, imprescindibile in un giallo, ma anche in un amore – e che è rappresentato da quella che l’autrice più avanti definirà come “la zona di semioscurità”.
Abbiamo sentito varie volte Chiara Zamboni rammentarci che, nel legame madre figlia e per estensione donna donna, esiste un “oscuro” per il fatto di appartenere allo stesso sesso. Non tenerne conto significa presumere una somiglianza che pare illuminare la scena mentre in realtà la oscura, rendendo indistinguibile l’una dall’altra o avvolgendole nella complementarità (Carta, Penna…).
Sintonia, complementarità: è questo il sogno d’amore?
Dal dialogo tra Alice e Alfonsa, pag. 75:
“Sai, per parecchio tempo non ci siamo parlate tu e io,” riprese Alfonsa, “ma ho pensato e detto grandi certezze che mi stanno crollando addosso. Addosso e dentro. Elena è una donna delicata, d’una delicatezza preziosa. L’ho amata con tutto il cuore, l’ho amata convinta di stare con lei nel vero sogno d’amore, con quella aderenza di pensieri che deve – deve – nutrirsi, deve esser guardata, conosciuta. Anche a costo di cancellare tutto. Perché in certi momenti il tutto di prima è niente, di fronte al sogno d’amore che ti regala un di più di essere. Ti sembro pazza?”
“Aderenza di pensieri,” ripeté Alice.
“Così tu hai definito una volta l’essere innamorate.”
“Ah ecco.”
Vorrei richiamare la vostra attenzione sull’aggettivo “vero” anteposto a “sogno d’amore”. Forse qui il desiderio si è impossessato della penna dell’autrice e ha spazzato via ogni logica per continuare a tessere la sua irresistibile trama … se un sogno di per sé non è vero, essendo un sogno, che cosa potrà mai essere un “vero sogno d’amore”? Qualcuno ebbe a dire che “la realizzazione di un sogno è ancora un sogno, più illusorio degli altri”. Ma tant’è…
Quella aderenza di pensieri (di cui al dialogo precedente) sembra essere il fondamento anche della nascita dell’amore tra la coppia Matilde-Tomaso. Si conoscono in carcere facendo gli scrivani per conto di una coppia di detenuti analfabeti. La loro aderenza nasce attraverso gli incipit delle lettere che si scrivono, dove l’uno da il la a quello successivo, del genere O cara moglie a cui è risposto stasera ti prego: un contrappunto amoroso e segreto per inanellamenti successivi che dura svariati anni.
Anche per Alice è fondamentale questo contrappunto, il non trovarlo sempre in Giuliana le provoca delusione.
Attenzione a questo dialogo Alice-Giuliana:
Giuliana non conosceva la canzone di Ivan Della Mea, la O cara moglie che aveva aperto le strade della relazione per Matilde e Tomaso. Alice la suonò al piano, la cantò dopo aver cercato le parole in Internet.
“Be’ adesso la sai,” disse quando l’ebbe conclusa tre volte.
“Sembri seccata,” dichiarò Giuliana.
“Seccata? No. Solo che… Capisco che non è sempre possibile, ma mi piace di più quando conosci quel che conosco io.”
“Capisco anch’io, ma tu devi capire che tutte pretendono che io sappia le canzoni di lotta e i ritornelli di Sanremo, i nomi i cognomi e le correnti dei più insulsi uomini politici, le virgole degli articoli di dieci anni fa su Via Dogana, le barzellette, le poesie di Patrizia Cavalli, le citazioni da Totò e… È umanamente impossibile, per una che ha vissuto in Messico quasi tutta la vita.”
“Be’ la buona notizia è che io non pretendo niente,” disse Alice alzandosi dallo sgabello del pianoforte per rispondere al telefono.
“C’è modo e modo di pretendere. Se una dice: mi piace di più, pretende.”
Marie Magdeleine Chatel, psicanalista francese, ha inventato, per definire questa delusione, una bellissima espressione: “la non somiglianza delle simili”. A voler essere oneste dobbiamo però riconoscere che questa supposta somiglianza non è solo appannaggio delle coppie omo (dove lo scivolone può essere più comprensibile…), bensì è un’aspettativa di tutte le relazioni con una forte carica di affettività: genitori-figli, coppie etero, amiche, amici, maestro/a-discepolo/a, partner in affari. Può dilatarsi, questa non somiglianza, fino a diventare avversione, odio, per l’impossibilità del suo contrario, oppure può incrinarsi lentamente, a partire da cose banali. E qui l’esergo di Agatha Christie, posto nella seconda parte, suona come un magistrale avvertimento: niente è tanto banale da poter essere trascurato.
È riferito alla scena del delitto, ma possiamo trasferirlo anche sulla scena di un amore:
Non le garbavano, le ombre con Giuliana. Quelle parti meno illuminate dello scambio quotidiano, quelle semioscurità che poi si diradano o smettono d’esser guardate. Difficili da evitare. E che questa scontentezza segnalasse la propria tenace dipendenza non le importava affatto: anzi, era felice di dipendere da Giuliana, di ricevere da lei quel di più di sicurezza e fiducia che trasforma una buona vita in una vita speciale. Che il di più di senso della sua vita dipendesse dalla relazione con Giuliana era un esercizio di maturità, non un’involuzione.
Né le piaceva cogliere delusione in Giuliana, quando lei si intestardiva su un dettaglio e scordava l’orizzonte. Delusione indiscutibile: non perché fosse evidente, anzi Giuliana aveva sempre un modo amorevole e delicato d’offrire ad Alice l’occasione per ripartire, – ma perché era lampante a lei stessa che le proprie pur sporadiche bizzarrie potevano suscitare soltanto scoraggiamento. Non pietà, com’è forse ovvio che mai sia in una relazione d’amore: un leggero avvilimento, d’illusione svanita. Il tempo del minuscolo sconforto.
Ecco comparire il tempo del minuscolo sconforto che può diventare slavina, sgretolamento o addirittura, e qui entriamo nel giallo, eliminazione fisica, assassinio dell’altro in quanto mostro da punire per ristabilire un ordine, una giustizia.
Ma quando tutto sarà compiuto non vi sarà giustizia, ma solo dolore che si aggiunge a dolore.
Infatti l’omicidio, dice Vittoria con una frase tanto profonda quanto semplice “non è mai una buona soluzione”.
Ma non c’è rabbia, astio, odio nei confronti dell’omicida, anzi è un sentimento di dolore per quel suo “amore deformato”, per “l’isolamento del suo cuore”.
Qui il romanzo si chiude con una sorta di rimando a se stesso, al suo inizio: l’amore non può mai essere chiusura, ripiegamento su di sé, abbandono del campo.
E così, al terminare dell’indagine poliziesca di Alice, si concluderà anche la sua (e delle amiche) indagine romantica attraverso quella che viene definita “l’unica conclusione certa”:
” (…) Vi ricordate… scusa, Adriana… vi ricordate il periodo del garbuglio Vittoria-Alfonsa?”
“Sì,” dissero Vittoria e Giuliana. Adriana si alzò da tavola per l’improvvisa urgenza di prendere una bottiglia di acqua frizzante dal frigorifero.
“Eravamo arrivate ad una conclusione certa, in quei giorni: che in amore come in ogni altra relazione importante dire il dispiacere, il disagio, la fatica, dirlo subito, aiuta più di ogni altra mossa,” continuò Alice. “Voi, anche voi, avevate dimostrato quanto sia difficile farlo.”
Difficile, impossibile?
Le ultime righe evocano un cielo stellato, un po’ come l’Inferno dantesco (Uscimmo a riveder le stelle), il che fa bene sperare…
Data la mia nota passione per le rime, vorrei terminare con una quartina:
E Alice Carta alla sua quinta investigazione conclude:
il delitto non è mai una buona soluzione.
Che sia di una persona o di un amore,
che cosa non poteva essere messo prima, in parole
Anna Maria Ortese
Non c’ è forse, dopo l’ Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n’ è pochi altri dove quel che ciascuno scrive – pura smania di dilettante o regolarissima professione – scivoli, per così dire, sull’ attenzione dell’ altro, come la pioggia su un vetro. Ma scivola è un’ espressione indulgente: inquieta, offende, avvilisce, si vorrebbe dire. Ogni abitante-scrittore se ne sta sul suo manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella sua scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’ altro: e se quello è più colmo, sono occhiatacce, lacrime… si sente parlare del tale, del tal altro che ha pubblicato o sta per pubblicare un nuovo libro. Subito, chi ha questa italianissima passione dello scrivere, o dello scrivere ha fatto il suo mestiere, si precipita a vedere di che si tratta, e in che cosa il rivale si mostri inferiore a quel che se ne dice, o si temi. Se il sospetto, la paura, si rivelano infondati, è un sollievo tinteggiato di nobile comprensione: «Un buon libro… Hai letto l’ ultimo libro di T.? Certo potrebbe far meglio… L’ ho sfogliato appena – e me ne dispiace – ma non ho mai il tempo di leggere…». Ed è vero: perché se appena alle prime pagine il rivale appare quel che si desidera – un mediocre – cessato l’ allarme, la sua modesta fatica non interessa più. Quando già alle prime pagine, invece, lo scrittore-lettore si rende conto di trovarsi di fronte a un’ autentica novità e forza, il colpo che ne riceve è così brusco che, lì per lì, non riesce a fiatare, e se ne sta zitto e disfatto nel suo angolo. Di continuare non se ne parla, prova una specie di nausea. In un secondo momento, però, scoppia la reazione: si tratta di un’ opera indegna, una vera truffa letteraria, «ma dove andiamo a finire di questo passo… vedrai che a quello gli danno un premio…», e così via. E il premio qualche volta arriva, e allora è un dolore, un lutto generale, e si cominciano a scrivere articoli abilissimi dove si parla perfino del primissimo elzeviro dello studente di Caltagirone, o si elevano entusiastiche lodi all’ ingegno di V., che, novantenne, ha ristampato l’ intera mole delle sue opere, insipide e pesanti come patate: e solo si tace il nome del vero colpevole, l’ ultimo arrivato, che non è stato al gioco d’ infilare le parole l’ una dopo l’ altra, semplicemente, ma ha «adoperato» la parola, l’ ha mortificata mettendola al servizio di alcuni interessi. Interessi! Non è che gli scrittori italiani non ne abbiano, e anche belli e vivi: ma nulla, ad essi, per tradizione e per gusto, è più caro del piacere di scrivere; e si sa come gli interessi, le passioni, le ire, la costante ricerca di una verità che non sia soltanto quella della nostra pelle, ma la verità tua e mia, siano contrari a questo raffinatissimo tipo di piacere. Raffinatissimo per i vecchi, naturalmente. Per i giovani, e non mi riferisco, s’ intende, a una giovinezza di soli anni, scrivere, se ci sono delle passioni o delle collere da raccontare, è anche un piacere, ma per caso. Non scrive per provare piacere, insomma, un giovane: scrive per farsi uomo, uomo che esprime gli altri, che riveli in sé gli altri, che sia un’ aggiunta al patrimonio degli altri. Si capisce così, data questa tendenza degli italiani a concepire lo scrivere come un piacere, perché da noi tutti scrivano e nessuno legga, e quello che minaccia di farsi leggere dagli altri che non siano gli scrittori colleghi sia considerato un intruso e gli si tolga magari il saluto (…); si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un’ autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo. Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi; nel peggiore, agli altri: quando avremmo bisogno ogni giorno di ripeterci che siamo la più fastidiosa espressione della nullità, nella più arretrata e insignificante delle nazioni. Esemplare espressione di un costume e anche di un Paese dove le lettere, nella loro generalità, non furono mai fini a se stesse, ma modo di esprimersi di quegli interessi e passioni che, soli, fanno umana la vita dell’ uomo, e proprio per questo diventano a volte altissima letteratura,è il carteggio M. Gorki – A. Cechov. (…) Cechov e Gorki non erano soltanto due illustri letterati, in certo senso non lo erano affatto, erano due enormi scrittori, non vivevano per scrivere, ma scrivevano per vivere normalmente, per divenire, per realizzarsi come uomini veramente liberi, come spiriti in cui moltitudini di uomini si sarebbero ritrovati, riconosciuti, e sarebbero a loro volta divenuti sinceri, onesti, liberi. E per questo, perché essi non avevano altro scopo, i libri e le regole dello studio, del mestiere di scrivere, ritornavano, come dovrebbe essere, al ruolo di secchi strumenti, e per la vita guardata allo specchio non c’ era posto. Contava la vita nuda. Contava l’ immersione continua nel mare doloroso del mondo, contava il coraggio con cui si affrontava la vista di tutto il male, le sofferenze, le vergogne possibili; e il collega era semplicemente, nella grande lotta contro tutto ciò che opprime l’ uomo, un compagno, la cui opera, a quel fine, era importante quanto la propria. Perché si proponeva qualche fine, allora, l’ intelligenza. Un fine superiore al piacere, alla pelle. Ed ecco l’ interesse profondo di uno per l’ altro, il rispetto, l’ ammirazione, la solidarietà, il bene. Cose che fanno sorridere, adesso. Ma a leggere, in segreto, questo carteggio, ecco che il cuore si mette a battere, e non siamo più nel nostro Paese, e neppure nel nostro tempo, siamo molto lontano, non si vedono manifesti, ma si odono voci: e gli occhi splendono, le mani ardono.