Antonella Cattorini Cattaneo

Due preziosi contributi nella filosofia femminile contemporanea. Il primo è di Francesca Rigotti, che insegna Concetti e metafore della politica presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università della Svizzera italiana di Lugano. Il secondo di Luisa Muraro, filosofa e fondatrice della Libreria delle donne di Milano. La Muraro insegna filosofia all’Università di Verona dove ha dato vita alla comunità filosofica “Diotima”.
Hanno in comune molte idee, pur nella distanza delle impostazioni filosofiche e nello stile linguistico. Ne individuiamo una, importante: il richiamo alla maternità, come fonte primaria del pensiero. Come forma archetipica, troppo a lungo dimenticata ma – come tutte le cose di cui si avverte la propria importanza nel momento della loro perdita – ora ritrovata e resa capace di far fiorire nuovi e fertili pensieri femminili, per donne e per uomini che vogliano leggerle e ascoltarle.
La recente pubblicazione di FRANCESCA RIGOTTI, Partorire con il corpo e con la mente (2010) ritorna sul tema del pensiero femminile, ovvero di donne che pensano e che intendono superare quel che l’autrice chiama “il paradosso di Arianna”. Come la mitica e intelligente liberatrice di Teseo non fu valorizzata per la sua geniale mossa con il famoso filo nel labirinto ma bensì tradita e – in una versione del mito – persino uccisa, anche le donne sono state nei secoli espropriate delle attività loro proprie quali il partorire, il tessere, il filare. Queste operazioni, considerate banali e insignificanti finché praticate da donne, hanno assunto ben altra valenza allorché trasfigurate in un processo di purificazione metaforica e di astrazione da parte degli uomini. E quindi “il parto della mente” o “il filo del logos” hanno preso stanza in luoghi considerati ben più degni delle domestiche dimore.
Se in altri testi la Rigotti ha cercato di recuperare la dignità concreta e metaforica, tutta femminile, di queste attività (Filosofia in cucina, 1999, Il filo del pensiero, 2002. La filosofia delle piccole cose, 2004) con uno stile linguistico capace di metter in gioco paragoni e analogie, in quest’opera difende il contributo femminile alla riproduzione, spesso e a lungo oscurato. La gravidanza spirituale e la generazione delle idee da Platone in poi hanno allontanato lo sguardo dalla matrice femminile che fa nascere, che dà vita. È stato oscurato quell’archè che invece i presocratici avevano inteso nella sua fisicità, ci si è progressivamente dimenticati della cosa da cui si avvia l’astrazione, privilegiando quest’ultima a discapito della prima.
Nel promuovere questa prospettiva vengono fatte parlare “voci amiche”, soprattutto femminili. Ma non manca anche quella di qualche autore illuminato come ad esempio il poeta R.M. Rilke. Due filosofe, tra le altre citate, ci sembrano particolarmente vicine alla nostra autrice: Janet McCracken, che intende dimostrare come la coscienza morale e il giudizio estetico nascano nel mondo domestico (è infatti fondamentale per la formazione del carattere morale di ciascuno il modo in cui si soddisfano i bisogni di sopravvivenza, come si mangia, come ci si veste e si arreda la casa) ed Elisabeth M.Anscomb (1912-2001), una della figure di maggior spicco della filosofia anglosassone del XX secolo. A questa studiosa, madre di ben sette figli e altrettanto feconda pensatrice, si deve tra l’altro una riflessione importante sul concetto di azione intenzionale. La presenza dei figli e delle loro innumerevoli domande anche a sfondo filosofico (gli inquietanti “perché?” dei bambini) è stata sicuramente uno stimolo fondamentale per l’elaborazione filosofica di questa autrice che non ha posto un aut aut – come altre filosofe tra cui persino la stessa Simone de Beauvoir – tra figli e libri. Invece un nuovo monito esce da queste pagine: et liberi et libri.
Alle donne filosofe, allora, il compito di parlare della nascita e della dimensione creativa che dalla nascita ha origine, superando la dicotomia tra corpo gravido (femminile) e mente gravida (maschile). La donna, madre e filosofa Rigotti utilizza con abilità un pregevole attrezzo creativo, quello della metafora, e invita le donne e gli uomini a recuperare i termini che fanno capo alla esplicazione della creatività: nascita, parto, concepimento, fertilità, individuando in essi la matrice del corporeo femminile. In particolare alle donne porge l’invito a recuperare le parti vitali della propria corporeità, più predisposta a dare alla luce che ad evidenziare le ombre e le “selve oscure” percorse da letterati e poeti. Inoltre è proprio delle donne indagare la scena della nascita, dove il nuovo appare ma sempre in relazione con un altro individuo che non va dimenticato. Come afferma Luce Irigaray, “L’umano originariamente è: non uno ma due, due che non sono né metà, né complementari, né opposti”. Riconsiderare il momento del parto insieme alla nascita significa recuperare la parte del femminile (nella sua concretezza e fisicità) che è stata oscurata dalla tradizione filosofica occidentale, troppo allineata a cogliere la verità a partire dalla morte o dalla seconda nascita piuttosto che da quella della vita. Significa anche recuperare la caratteristica “natale/nascibile” e non solo “mortale” dell’umano.
Il modello della maternità può invece offrire stimoli all’attività creativa mentale. Nel momento della nascita e del parto avviene il presentarsi di una creatura nuova, originale, autentica e aderente alle origini, a quell'”elemento” che come l’acqua per Talete ha fatto essere e continua a mantenere nell’essere.
Inoltre – e qui rintracciamo il cuore del testo – proprio analizzando la metafora del parto e della creatività e associandola all’evento concreto da cui essa nasce è possibile rintracciare alcuni caratteri del pensiero creativo, di come nascono le idee. Tre aspetti, in particolare, risultano caratterizzanti sia i pensieri sia le creature originali: la polisemia, la tensione con l’oscillazione, la forma gianusiana del pensiero, termine tratto dal dio Giano, come riferisce Albert Rothenberg ideatore di tale espressione. Nel primo aspetto è originale l’idea capace un infinita varietà di effetti, ricchi di significato proprio, come un nuovo figlio aperto a infinite possibilità espressive e di vita. Inoltre come nella piccola creatura appena nata riscontriamo somiglianze con i genitori, con intermittenze spontanee e non imposte, così il pensiero innovativo gioca con altre idee in un ritmo mobile e oscillante, irrispettoso di gerarchie e capace di congedarsi dal vecchio. Infine come la divinità romana che sorvegliava le soglie e le cui due facce permettevano di osservare interno ed esterno dell’edificio, il pensiero creativo è gianusiano come l’atto creativo che comporta la diade madre-figlio insieme. Così il concepimento di un figlio e di una idea non rischiano più diversi livelli valutativi e anche così alla donna che pensa sono debitamente restituiti dignità e valore .
FRANCESCA RIGOTTI, Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità, Bollati Boringhieri,Torino 2010

Il testo di LUISA MURARO, L’ordine simbolico della madre, non è recente. Apparso per la prima volta nel 1992, esce in una seconda edizione nel 2006, emendato da una serie di minuti errori e con una “tardiva recensione della sua ex-autrice”. È stato un libro molto importante per chi lo ha scritto: in queste pagine è presentato il passaggio avvenuto nella pensatrice dalla filosofia accademica (ha studiato alla scuola dell’Università Cattolica di Milano con Bontadini, Severino, Sofia Vanni Rovighi) a quella finalmente personale, capace di rintracciare un inizio, un fondamento del proprio pensiero e soprattutto una corrispondenza fra il linguaggio e le cose dette. Si può quindi leggere come un percorso autobiografico, intenso e persino commuovente a tratti, pur nella sua difficoltà concettuale che la stessa autrice riconosce nella nota finale. Nel titolo la tesi dell’opera e la rivelazione di chi scrive: la svolta del pensiero è avvenuta con la scoperta della simbolica potenza materna, necessaria per l’esistenza libera di ogni donna. Una scoperta personale ma anche pubblica poiché avvenuta con la politica delle donne e grazie a questa proseguita nel tempo. Infatti questo testo, dibattuto all’interno di gruppi di donne e di – pochi – uomini, ha avviato altre pubblicazioni a più voci (tra le quali ricordiamo quella della Comunità di Diotima, L’ombra della madre, Liguori Editori, Napoli 2007, dove le autrici si sono firmate anche con il cognome della propria madre), dibattiti, incontri in vari ambiti e soprattutto nell’accogliente sede milanese della Libreria delle donne.
L’amore per la madre da parte delle donne è gravemente rimosso nella nostra cultura. Dopo la stagione infantile, di grande attaccamento alla figura materna, la donna perde di vista e spesso arriva a rinnegare colei che le ha dato la vita e la parola. Non basta criticare il patriarcato per superare questa vicenda: occorre imparare ad amare la madre, anche e nonostante l’ostilità che si possa nutrire nei suoi confronti. La vera grandezza del femminismo non consiste nel criticare il patriarcato ma nel ritrovare quella grandezza incontrata nei primi mesi e anni di vita e poi tristemente perduta e quasi rinnegata. Al di là della critica e insieme alla critica occorre far nascere il desiderio, così necessario per le donne e la loro identità passionale e mentale. Il senso dell’essere, dell’essere finito è così recuperato a livello metafisico. Anche a partire dalla miseria della propria madre è quindi possibile restituire il senso della sua presenza, così come la presenza della realtà fisica nella sua finitudine e contraddittorietà. Per “salvare i fenomeni” non si imboccherà allora la strada della metafisica classica e la sua tendenza – da Platone in poi – a raddoppiare gli oggetti e i valori svilendo l’esperienza concreta, molteplice e finita.
“Ritornare come bambini” (e bambine!), pur nell’ampio credito che si può attribuire a questa espressione che hanno in comune il Vangelo, l’estetica pre-verbale, le indagini psicoanalitiche, non significa tuttavia valorizzare quella esperienza umana come l’unica e la più vera. Certo molto dobbiamo al momento in cui eravamo tutt’uno – corpo e mente – con la madre e a quando, da lattanti, provavamo gli stessi desideri della madre al punto di creare il mondo secondo quel che la madre creava per noi e credere così che esso era posto da noi stessi. La diade originaria madre-figlio/a, infatti, non va dimenticata; tuttavia appare un momento in cui il bimbo/a passa alla sua creazione del mondo, forgiando propri significati a un mondo che (il bambino in qualche misura si accorge di questo) già a lui preesisteva. In questa fase la creazione originaria precedente non è negata né va creduta illusoria; una traccia di essa si conserva nel pensiero e nella parola della nuova creatura. La tesi gnoseologica della Muraro è pertanto la seguente: “L’esperienza creatrice delle origini è quella di un soggetto in relazione con la matrice della vita, soggetto distinguibile dalla matrice ma non dalla sua relazione con essa”.
Abbiamo dato volentieri la parola all’autrice che proprio al tema della parola lega la questione nodale dell'”ordine simbolico”. Infatti la matrice della vita è anche la matrice della parola, ovvero dell’ordine simbolico che si stabilisce necessariamente con la relazione materna. Nel nostro linguaggio abita chi lo ha fatto sorgere così come il nostro corpo risente di un’impronta materna. La separazione dalla madre, con la nascita del nostro modo di leggere la realtà e di parlare non può dimenticare l’originaria autorità da cui la nostra parola dipende. Quell’arte dello scambio che è la lingua deriva da uno scambio originario, tra l’autorità primitiva a cui dobbiamo corpo e parola e la nostra autonomia. Quest’ultima risulta falsa e impersonale – e soprattutto dominata dalle autorità patriarcali – senza il riconoscimento, da parte del soggetto, di quella fonte e autorità iniziale. Ciò che rende veramente dicibile il reale, l’ordine logico del nostro pensiero si basa sull’accettazione di quella necessità, di quella relazione originaria.
L’autrice ammette di formulare in tal modo una sua intuizione molto forte e importante, che tuttavia non è ancora espressa in una teoria compiuta.
Prova nel contempo la sua proposta rivelando innanzitutto la sua esperienza di donna filosofa, che ha visto come atto di nascita del suo proprio pensiero proprio la scoperta di questo debito materno; riporta però anche altre esperienze di donne letterate, poetesse e mistiche che hanno diversamente affrontato questo tema e anche di coloro che non sono riuscite a staccarsi dalla madre e manifestano sintomi nevrotici, come nel caso del fenomeno isterico. Le isteriche – secondo la Muraro – vivono un attaccamento intero alla madre, non accettano di vederla sostituita; arrivano a odiarla, rivoltandosi contro di lei con anima e corpo. Restano nell’avversione, come unico tentativo di indipendenza simbolica. In queste donne non è infatti avvenuta quella sostituzione o mediazione che ha inizio col riconoscimento di quel tantissimo che la madre ha dato: la vita, la parola. La parola che la madre insegna diventa una parola propria solo nel momento in cui essa viene sostituita. Ma alla sostituzione vera si accompagna necessariamente il riconoscimento e la vera restituzione alla madre della sua autorità. Per varie ragioni storiche e culturali il pensiero maschile vive questa riconoscenza al materno senza sforzo; quello femminile invece ne è carente e per questo in tale direzione ha da dirigersi. A partire dall’ascolto ascolto delle voci femminili presenti e passate il pensiero delle donne può così crescere e maturare.
LUISA MURARO, L’ordine simbolico della madre. Seconda edizione, Editori Riuniti, Roma 2006.

Maria Castiglioni

“E vecchi merletti” è l’ultimo libro delle avventure della “detective per caso” – come la definì Oreste Del Buono – Alice Carta, creatura letteraria di Fiorella Cagnoni. Le sue precedenti imprese le potete leggere in Questione di Tempo (La Tartaruga Ed., 1985-2002) Incauto Acquisto (Tartaruga Ed., 1992), Arsenico (La Tartaruga Ed., 2001), Alice Carta in Inghilterra (La Chiocciola, Zane Ed., 2007).
Incomincerò questa presentazione prendendo da Dorothy Sayers (Oxford, 1893-1957) – grande scrittrice di gialli, 15 in tutto – una citazione dalla prefazione di un suo libro: “È stato detto che un interesse amoroso è soltanto un’interferenza in una storia poliziesca. Ma se si pensa ai personaggi che vi sono implicati, è l’interesse poliziesco, invece, che potrebbe sembrare un’interferenza esasperante nella loro storia d’amore…”
Il titolo del libro da cui ho tratto la citazione è Un’indagine romantica (Tartaruga ed., 1991), che potrebbe essere anche un altro possibile titolo di questo ultimo libro di Fiorella Cagnoni – edito dalla Casa Editrice Zane di Lecce, nella collana La Chiocciola.
Anche Angela Donahoe, studiosa inglese (Monash University) ha parlato di un focus, negli ultimi scritti di Fiorella, “much more personal and self-reflexive”.
L’intreccio tra storia d’amore e indagine poliziesca è ammesso dalla stessa autrice, a partire dal titolo della prima parte (Tra un delitto e l’altro) nonché in un dialogo tra la protagonista, la detective Alice Carta a Milano e la sua innamorata Giuliana Penna, in Messico, attraverso uno scambio telefonico che avviene, come è ormai usuale di questi tempi, in Skype:

“Abbiamo un elenco di quesiti interminabile.”
“Ti posso dire qualcosa che non c’entra niente?”
“Cioè?”
“Una volta ho visto scritto quesito, e la prima reazione è stata leggerlo come in spagnolo… come un piccolo queso, un formaggino insomma…”
“Interessante.”
“E poi sai cosa penso, tornando al tema ma un po’ a lato?”
“Dimmelo.”
“Tu hai fatto diciamo varie indagini, no?”
“Hm.”
“Dico, hai risolto qualche mistero, legato a delitti, assassini…”
“E allora?”
“Qui non c’è delitto, eppure c’è una ricostruzione. Di ragioni, di cause, di sospetti e tracce, ombre e luci… Questioni più di psicologia che di reato.”
“Mi fai tornare in mente Poirot,” sorrise Alice Carta.
“In che senso?”
“Diceva: la trama è sempre la stessa, è la psicologia che cambia. Ma cosa intendi? Che in mancanza di un delitto analizzo il mutamento improvviso di un amore?”
“Ma non nel senso che siccome non c’è un delitto indaghi sulla crisi di un amore. Piuttosto che indaghi su questo come se. Intanto che non c’è un vero e proprio delitto.”

Quanto c’è di romantico e quanto di poliziesco in questo libro? Sono due aloni/dimensioni che si intersecano continuamente, sia temporalmente che letterariamente. Viene creato dall’autrice un alone poliziesco intorno alla fine di un amore. Alice Carta cerca di indagare su questa fine come fosse un delitto e lo fa con l’animo – che le è congeniale – della detective, anche se sa perfettamente che in questo tipo di ricostruzione non c’è verità possibile, non c’è una precisa consequenzialità, il nesso causa/effetto sfuma e non esiste alcun assassino da scoprire.
E c’è un alone romantico – che uso nella sua definizione da manuale di letteratura come l’affermazione della libertà individuale, lo scavo psicologico e dei sentimenti, l’inclinazione alla dimensione pedagogica – che percorre anche la parte più propriamente poliziesca.
Quindi romanzo che combina più generi, poliziesco, romantico, pedagogico, che vuol intrattenere ma anche trasmettere un messaggio politico e culturale che attiene alla pratica politica delle donne degli ultimi decenni.
Una sfida ardita per l’autrice di cui si coglie la tensione a far sì che i propri personaggi esprimano fino in fondo – se un fondo ci può mai essere – inquietudini, drammi, desideri e speranze che hanno accomunato e accomunano una, e anche più di una, generazioni di donne e femministe.
“Che la letteratura sia dolce e utile” – ammoniva Orazio, e mi pare che Fiorella abbia fatto suo questo invito.
Il romanzo si divide nettamente in due parti di 90 pagine l’una.
La prima narra della fine, lacerante e fondamentalmente inspiegabile (come la nascita di un amore, ma di questa non ci si chiede il perché) di una relazione d’amore tra due donne; la seconda introduce lo scenario in cui avverrà il delitto e vi si addentra progressivamente, anche se, contrariamente al classico plot del romanzo giallo, perché appaia il cadavere occorre aspettare ben 146 pagine!
Che però il delitto sia nell’aria lo si intuisce già nella prima parte dove compare una pagina di diario, scritta dalla mano assassina, – espediente letterario che crea tensione e annuncia la futura entrata in scena della principale protagonista di ogni romanzo giallo: la morte.

Vivere la vita così – normale. Ma preparandosi all’atto FINALE, perché non si può sfuggire due volte al giudizio definitivo. L’unico giudizio DEFINITIVO è la morte. E se i tribunali degli uomini non condannano a morte, sarà la mia mano a castigare L’INFAMIA.
Nemmeno l’ombra… C’era una canzone che diceva… nemmeno l’ombra della perduta felicità… La felicità te la portano via, non la perdi, non è un accendino o una patente. Quelli si perdono, la felicità te la rubano.
Ogni gesto a suo tempo.
Cancellare il DISONORE.
Non farsi scoprire.
Non il delitto perfetto, che anche quello è una chimera. Al contrario – il perfetto delitto che lava l’onta.
Concedere qualche possibilità di ravvedimento? Difficile da pensare.
Intanto c’erano da sistemare tutte quelle fotografie. Anni e anni di fotografie buttate ancora alla rinfusa in scatole verdi di cartone, che neanche riuscivano a contenerle bene.
ORDINE. Fare ordine.

Qualche informazione per orientarsi nella narrazione: l’amore che si sta estinguendo e che assorbe tutte le prime 90 pagine è quello tra Vittoria e Alfonsa sulla cui vicenda si addensano, si diradano per poi raggrumarsi di nuovo in un fittissimo dialogo, i commenti/pensieri delle amiche della coppia, tra cui Alice Carta e Giuliana Penna: la cui storia d’amore sta invece nascendo proprio all’ombra di questa fine, forse ad indicare l’instancabile lavoro di Eros? O l’insopprimibile tenacia del desiderio dell’Altro.
C’è poi la coppia della tragedia, Matilde e Tomaso, vicini di masseria di Alice e Giuliana.
I luoghi sono Milano, la casa di Alice, le case delle amiche, la Libreria delle donne (prima parte) e, nella seconda parte, Lecce, la masseria dove inizia la vita in comune di Alice e Giuliana e i suoi dintorni, compresa la masseria del delitto, luogo per definizione isolato, come in tutti i gialli che si rispettano…
Accennavo a un “fittissimo dialogo”: questa è la forma preminente in cui si snoda la prima parte del romanzo, una scelta stilistica che ho trovato particolarmente felice e totalmente opposta al metodo di indagine poliziesca, che è invece l’esaltazione di un’unica mente, acuta, solitaria e interrogante. È come se per ragionare sulla fine di un amore occorresse una sorta di “detective plurale”. Si tratta di un dialogo serrato, a catenaccio, dove a volte le locutrici sono perfino difficili da riconoscere, così da sembrare le tante articolazioni di un monologo.
Dice Nathalie Sarraute, scrittrice franco russa e studiosa di teoria della letteratura, che “il dialogo è l’estensione funzionale di un monologo, è una sottoconversazione dell’autore con se stesso” ed è probabile che anche qui, come in tutti i romanzi, le molteplici personagge, cane e gatte incluse, incarnino i vari Sé dell’autrice, impegnata in una sorta di simposio con se stessa per capire che cosa porta a conclusione un rapporto d’amore.
Dice Susan Sontag che in un romanzo psicologico “non deve succedere niente”. E in effetti, in questa prima parte, non succede niente. Vale a dire che si sta ragionando su un già accaduto (la fine del legame) e si preannuncia quello che avverrà (un nuovo inizio d’amore, un delitto… e l’accostamento è inquietante). Dal punto di vista degli eventi stiamo galleggiando in un tempo sospeso, ma contemporaneamente il tempo è uno dei grandi oggetti dell’argomentare collettivo. Come in questo dialogo dove l’affastellarsi delle voci, nella concitazione e passione dello scambio del pensiero (chi non conosce questa situazione?) raggiunge anche degli effetti umoristici:

“Non è sempre così?” sussurrò Alice a Dolores. “L’amore romantico, quello che contempla e comprende la sessualità, è sempre monogamico, no?”
“Hm. Sì. Ma sei rimasta indietro di un argomento?” rispose Dolores prendendole una Marlboro dal pacchetto appena aperto.
“Dice che gli inciampi con Vittoria l’avevano confusa”, continuava Pilar, “e che la seduzione di Patrizia ha colpito nel segno, e anche lei si era invaghita. Era incantata da quella particolare condizione delle cotte”.
“Spiegazione debole,” sentenziò Stella.
“E quale sarebbe, questa parte mancante nella relazione con Vittoria?” chiese Sylvie. “No, non mancante… appisolata. Che veste ha, questa bella addormentata nella relazione?”
“Ma quale addormentata nel nosco! C’era tutto, per noi!” sbottò Vittoria. “Tutto, avevamo: progetti, realizzazioni, scambi, pensiero, divertimento, allegria, sincerità, sessualità. Vivevamo in un’armonia speciale, insostituibile. E se magari qualcosa per lei non funzionava, perché non dirlo?”
“Hai detto nosco?!” chiesero insieme Stella e Sylvie.
“Vittoria ha ragione,” tagliò corto Dolores. “Anche se magari con qualche problema, la loro relazione meritava un congedo meno traumatico.”
“Cosa vuoi dire?” chiesero insieme Stella, Sylvie e Pilar.
“Vuol dire che Alfonsa ha preteso che Vittoria smettesse di amarla troppo in fretta, avrebbe voluto che in quattro e quattr’otto Vittoria trasformasse la loro relazione in una bella amicizia, così – dall’oggi al domani. Vero, Dolores? Questo volevi dire?” riassunse Alice.
“Cielo ragazze, adesso ho bisogno d’esser tradotta?”
“Ma è stata Vittoria a buttarla fuori di casa! Dopo i tentativi di non far finire tutto! Quale quattro e quattr’otto?” diceva intanto Pilar. E già. Perché esasperata dalla gelosia e dalla rabbia Vittoria aveva intimato ad Alfonsa di andarsene dalla propria casa di Napoli, dove passavano insieme il fine settimana dei “giorni dei tentativi”.
“Va bene. Stiamo calme,” propose Alice Carta. “Dovremmo dirci allora cosa ogni una di noi intenda per meno traumatico, per troppo in fretta, e per quattro e quattr’otto.”
“Un rapporto come il nostro non lo butti via dall’oggi al domani,” disse subito Vittoria.
“Ma questo, Alfonsa non l’ha fatto,” ripeté Pilar. “Tu l’hai mandata via dalla vostra casa, piuttosto!”
“E vorrei anche vedere!” ribatté Vittoria. La sua voce era sempre troppo alta, ma nei suoi occhi era anche sempre pronto un fiotto di lacrime.
“Allora,” riprese Alice, “cominciamo dall’inizio: meno traumatico, come ha detto Dolores, cosa vuol dire? Che Alfonsa… quanto tempo sarebbe dovuta stare con Vittoria come se niente fosse?”

Meno traumatico… quattro e quattr’otto… troppo in fretta: le domande di Alice sono anche le nostre.
C’è un tempo per il delitto e c’è un tempo per la fine di un legame, ma in ambedue avvertiamo un processo di accelerazione. Per non uccidere forse bisogna non avere fretta.
Le questioni, i quesitos direbbe Giuliana, si rincorrono: quanto avrebbe dovuto aspettare chi era stata tradita? e per quanto tempo avrebbe dovuto fare come se niente fosse chi si stava allontanando?
Il tempo è la culla dell’amore, ma anche il suo aguzzino? Di certo l’indugio, come dice Alfonsa a un certo punto, non è concesso perché, nel frattempo, “tutti i non detti si ammassano da qualche parte”, come le ricorda Alice.
E questo tema, la durata di un legame, il due per sempre insito nella promessa iniziale (e che dà il titolo anche alla seconda parte), resta un nodo centrale della tematica del romanzo, quasi un’ossessione, e viene trattato a più riprese. Ecco un altro dialogo via Skype tra Giuliana e Alice (parla Giuliana e poi Alice):

“(…) O si pensa che il sogno d’amore sia soltanto l’incanto dei primi tempi, e dunque ad un certo punto lo si ripete cambiando partner, oppure si pensa che il sogno d’amore sia curare un rapporto, una relazione come dite voi, con accanimento terapeutico curare l’amore, prima di arrendersi. E si fatica, a farlo durare.”
“La tua storia più lunga quanto tempo è durata?”
Quella pausa. Per esser certa di dire davvero la verità. “D’amore? Un po’ meno di nove anni. Guarda, io la dico sempre, la verità. Subito.”
“E… già che sai tutto: cosa ti fa disamorare?”
“Non è vero che so tutto. Mi fa disamorare… la non consapevolezza. Sì, direi la non consapevolezza. Anch’io ne patisco, ma piuttosto di rado.”

Ma la consapevolezza di cui parla Giuliana non è tutto. Forse c’è una nota di presunzione (inconsapevole) in lei che non dà conto di un altro fattore, imprescindibile in un giallo, ma anche in un amore – e che è rappresentato da quella che l’autrice più avanti definirà come “la zona di semioscurità”.
Abbiamo sentito varie volte Chiara Zamboni rammentarci che, nel legame madre figlia e per estensione donna donna, esiste un “oscuro” per il fatto di appartenere allo stesso sesso. Non tenerne conto significa presumere una somiglianza che pare illuminare la scena mentre in realtà la oscura, rendendo indistinguibile l’una dall’altra o avvolgendole nella complementarità (Carta, Penna…).
Sintonia, complementarità: è questo il sogno d’amore?
Dal dialogo tra Alice e Alfonsa, pag. 75:

“Sai, per parecchio tempo non ci siamo parlate tu e io,” riprese Alfonsa, “ma ho pensato e detto grandi certezze che mi stanno crollando addosso. Addosso e dentro. Elena è una donna delicata, d’una delicatezza preziosa. L’ho amata con tutto il cuore, l’ho amata convinta di stare con lei nel vero sogno d’amore, con quella aderenza di pensieri che deve – deve – nutrirsi, deve esser guardata, conosciuta. Anche a costo di cancellare tutto. Perché in certi momenti il tutto di prima è niente, di fronte al sogno d’amore che ti regala un di più di essere. Ti sembro pazza?”
“Aderenza di pensieri,” ripeté Alice.
“Così tu hai definito una volta l’essere innamorate.”
“Ah ecco.”

Vorrei richiamare la vostra attenzione sull’aggettivo “vero” anteposto a “sogno d’amore”. Forse qui il desiderio si è impossessato della penna dell’autrice e ha spazzato via ogni logica per continuare a tessere la sua irresistibile trama … se un sogno di per sé non è vero, essendo un sogno, che cosa potrà mai essere un “vero sogno d’amore”? Qualcuno ebbe a dire che “la realizzazione di un sogno è ancora un sogno, più illusorio degli altri”. Ma tant’è…
Quella aderenza di pensieri (di cui al dialogo precedente) sembra essere il fondamento anche della nascita dell’amore tra la coppia Matilde-Tomaso. Si conoscono in carcere facendo gli scrivani per conto di una coppia di detenuti analfabeti. La loro aderenza nasce attraverso gli incipit delle lettere che si scrivono, dove l’uno da il la a quello successivo, del genere O cara moglie a cui è risposto stasera ti prego: un contrappunto amoroso e segreto per inanellamenti successivi che dura svariati anni.
Anche per Alice è fondamentale questo contrappunto, il non trovarlo sempre in Giuliana le provoca delusione.
Attenzione a questo dialogo Alice-Giuliana:

Giuliana non conosceva la canzone di Ivan Della Mea, la O cara moglie che aveva aperto le strade della relazione per Matilde e Tomaso. Alice la suonò al piano, la cantò dopo aver cercato le parole in Internet.
“Be’ adesso la sai,” disse quando l’ebbe conclusa tre volte.
“Sembri seccata,” dichiarò Giuliana.
“Seccata? No. Solo che… Capisco che non è sempre possibile, ma mi piace di più quando conosci quel che conosco io.”
“Capisco anch’io, ma tu devi capire che tutte pretendono che io sappia le canzoni di lotta e i ritornelli di Sanremo, i nomi i cognomi e le correnti dei più insulsi uomini politici, le virgole degli articoli di dieci anni fa su Via Dogana, le barzellette, le poesie di Patrizia Cavalli, le citazioni da Totò e… È umanamente impossibile, per una che ha vissuto in Messico quasi tutta la vita.”
“Be’ la buona notizia è che io non pretendo niente,” disse Alice alzandosi dallo sgabello del pianoforte per rispondere al telefono.
“C’è modo e modo di pretendere. Se una dice: mi piace di più, pretende.”

Marie Magdeleine Chatel, psicanalista francese, ha inventato, per definire questa delusione, una bellissima espressione: “la non somiglianza delle simili”. A voler essere oneste dobbiamo però riconoscere che questa supposta somiglianza non è solo appannaggio delle coppie omo (dove lo scivolone può essere più comprensibile…), bensì è un’aspettativa di tutte le relazioni con una forte carica di affettività: genitori-figli, coppie etero, amiche, amici, maestro/a-discepolo/a, partner in affari. Può dilatarsi, questa non somiglianza, fino a diventare avversione, odio, per l’impossibilità del suo contrario, oppure può incrinarsi lentamente, a partire da cose banali. E qui l’esergo di Agatha Christie, posto nella seconda parte, suona come un magistrale avvertimento: niente è tanto banale da poter essere trascurato.
È riferito alla scena del delitto, ma possiamo trasferirlo anche sulla scena di un amore:

Non le garbavano, le ombre con Giuliana. Quelle parti meno illuminate dello scambio quotidiano, quelle semioscurità che poi si diradano o smettono d’esser guardate. Difficili da evitare. E che questa scontentezza segnalasse la propria tenace dipendenza non le importava affatto: anzi, era felice di dipendere da Giuliana, di ricevere da lei quel di più di sicurezza e fiducia che trasforma una buona vita in una vita speciale. Che il di più di senso della sua vita dipendesse dalla relazione con Giuliana era un esercizio di maturità, non un’involuzione.
Né le piaceva cogliere delusione in Giuliana, quando lei si intestardiva su un dettaglio e scordava l’orizzonte. Delusione indiscutibile: non perché fosse evidente, anzi Giuliana aveva sempre un modo amorevole e delicato d’offrire ad Alice l’occasione per ripartire, – ma perché era lampante a lei stessa che le proprie pur sporadiche bizzarrie potevano suscitare soltanto scoraggiamento. Non pietà, com’è forse ovvio che mai sia in una relazione d’amore: un leggero avvilimento, d’illusione svanita. Il tempo del minuscolo sconforto.

Ecco comparire il tempo del minuscolo sconforto che può diventare slavina, sgretolamento o addirittura, e qui entriamo nel giallo, eliminazione fisica, assassinio dell’altro in quanto mostro da punire per ristabilire un ordine, una giustizia.
Ma quando tutto sarà compiuto non vi sarà giustizia, ma solo dolore che si aggiunge a dolore.
Infatti l’omicidio, dice Vittoria con una frase tanto profonda quanto semplice “non è mai una buona soluzione”.
Ma non c’è rabbia, astio, odio nei confronti dell’omicida, anzi è un sentimento di dolore per quel suo “amore deformato”, per “l’isolamento del suo cuore”.
Qui il romanzo si chiude con una sorta di rimando a se stesso, al suo inizio: l’amore non può mai essere chiusura, ripiegamento su di sé, abbandono del campo.
E così, al terminare dell’indagine poliziesca di Alice, si concluderà anche la sua (e delle amiche) indagine romantica attraverso quella che viene definita “l’unica conclusione certa”:

” (…) Vi ricordate… scusa, Adriana… vi ricordate il periodo del garbuglio Vittoria-Alfonsa?”
“Sì,” dissero Vittoria e Giuliana. Adriana si alzò da tavola per l’improvvisa urgenza di prendere una bottiglia di acqua frizzante dal frigorifero.
“Eravamo arrivate ad una conclusione certa, in quei giorni: che in amore come in ogni altra relazione importante dire il dispiacere, il disagio, la fatica, dirlo subito, aiuta più di ogni altra mossa,” continuò Alice. “Voi, anche voi, avevate dimostrato quanto sia difficile farlo.”

Difficile, impossibile?
Le ultime righe evocano un cielo stellato, un po’ come l’Inferno dantesco (Uscimmo a riveder le stelle), il che fa bene sperare…

Data la mia nota passione per le rime, vorrei terminare con una quartina:
E Alice Carta alla sua quinta investigazione conclude:
il delitto non è mai una buona soluzione.
Che sia di una persona o di un amore,
che cosa non poteva essere messo prima, in parole

Anna Maria Ortese

Non c’ è forse, dopo l’ Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n’ è pochi altri dove quel che ciascuno scrive – pura smania di dilettante o regolarissima professione – scivoli, per così dire, sull’ attenzione dell’ altro, come la pioggia su un vetro. Ma scivola è un’ espressione indulgente: inquieta, offende, avvilisce, si vorrebbe dire. Ogni abitante-scrittore se ne sta sul suo manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella sua scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’ altro: e se quello è più colmo, sono occhiatacce, lacrime… si sente parlare del tale, del tal altro che ha pubblicato o sta per pubblicare un nuovo libro. Subito, chi ha questa italianissima passione dello scrivere, o dello scrivere ha fatto il suo mestiere, si precipita a vedere di che si tratta, e in che cosa il rivale si mostri inferiore a quel che se ne dice, o si temi. Se il sospetto, la paura, si rivelano infondati, è un sollievo tinteggiato di nobile comprensione: «Un buon libro… Hai letto l’ ultimo libro di T.? Certo potrebbe far meglio… L’ ho sfogliato appena – e me ne dispiace – ma non ho mai il tempo di leggere…». Ed è vero: perché se appena alle prime pagine il rivale appare quel che si desidera – un mediocre – cessato l’ allarme, la sua modesta fatica non interessa più. Quando già alle prime pagine, invece, lo scrittore-lettore si rende conto di trovarsi di fronte a un’ autentica novità e forza, il colpo che ne riceve è così brusco che, lì per lì, non riesce a fiatare, e se ne sta zitto e disfatto nel suo angolo. Di continuare non se ne parla, prova una specie di nausea. In un secondo momento, però, scoppia la reazione: si tratta di un’ opera indegna, una vera truffa letteraria, «ma dove andiamo a finire di questo passo… vedrai che a quello gli danno un premio…», e così via. E il premio qualche volta arriva, e allora è un dolore, un lutto generale, e si cominciano a scrivere articoli abilissimi dove si parla perfino del primissimo elzeviro dello studente di Caltagirone, o si elevano entusiastiche lodi all’ ingegno di V., che, novantenne, ha ristampato l’ intera mole delle sue opere, insipide e pesanti come patate: e solo si tace il nome del vero colpevole, l’ ultimo arrivato, che non è stato al gioco d’ infilare le parole l’ una dopo l’ altra, semplicemente, ma ha «adoperato» la parola, l’ ha mortificata mettendola al servizio di alcuni interessi. Interessi! Non è che gli scrittori italiani non ne abbiano, e anche belli e vivi: ma nulla, ad essi, per tradizione e per gusto, è più caro del piacere di scrivere; e si sa come gli interessi, le passioni, le ire, la costante ricerca di una verità che non sia soltanto quella della nostra pelle, ma la verità tua e mia, siano contrari a questo raffinatissimo tipo di piacere. Raffinatissimo per i vecchi, naturalmente. Per i giovani, e non mi riferisco, s’ intende, a una giovinezza di soli anni, scrivere, se ci sono delle passioni o delle collere da raccontare, è anche un piacere, ma per caso. Non scrive per provare piacere, insomma, un giovane: scrive per farsi uomo, uomo che esprime gli altri, che riveli in sé gli altri, che sia un’ aggiunta al patrimonio degli altri. Si capisce così, data questa tendenza degli italiani a concepire lo scrivere come un piacere, perché da noi tutti scrivano e nessuno legga, e quello che minaccia di farsi leggere dagli altri che non siano gli scrittori colleghi sia considerato un intruso e gli si tolga magari il saluto (…); si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un’ autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo. Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi; nel peggiore, agli altri: quando avremmo bisogno ogni giorno di ripeterci che siamo la più fastidiosa espressione della nullità, nella più arretrata e insignificante delle nazioni. Esemplare espressione di un costume e anche di un Paese dove le lettere, nella loro generalità, non furono mai fini a se stesse, ma modo di esprimersi di quegli interessi e passioni che, soli, fanno umana la vita dell’ uomo, e proprio per questo diventano a volte altissima letteratura,è il carteggio M. Gorki – A. Cechov. (…) Cechov e Gorki non erano soltanto due illustri letterati, in certo senso non lo erano affatto, erano due enormi scrittori, non vivevano per scrivere, ma scrivevano per vivere normalmente, per divenire, per realizzarsi come uomini veramente liberi, come spiriti in cui moltitudini di uomini si sarebbero ritrovati, riconosciuti, e sarebbero a loro volta divenuti sinceri, onesti, liberi. E per questo, perché essi non avevano altro scopo, i libri e le regole dello studio, del mestiere di scrivere, ritornavano, come dovrebbe essere, al ruolo di secchi strumenti, e per la vita guardata allo specchio non c’ era posto. Contava la vita nuda. Contava l’ immersione continua nel mare doloroso del mondo, contava il coraggio con cui si affrontava la vista di tutto il male, le sofferenze, le vergogne possibili; e il collega era semplicemente, nella grande lotta contro tutto ciò che opprime l’ uomo, un compagno, la cui opera, a quel fine, era importante quanto la propria. Perché si proponeva qualche fine, allora, l’ intelligenza. Un fine superiore al piacere, alla pelle. Ed ecco l’ interesse profondo di uno per l’ altro, il rispetto, l’ ammirazione, la solidarietà, il bene. Cose che fanno sorridere, adesso. Ma a leggere, in segreto, questo carteggio, ecco che il cuore si mette a battere, e non siamo più nel nostro Paese, e neppure nel nostro tempo, siamo molto lontano, non si vedono manifesti, ma si odono voci: e gli occhi splendono, le mani ardono.

Reportages – Due libri emblematici per sondare quanto accade oggi in Russia
Da Mosca alla disillusione sulla via di un eterno ritorno.
Esce per le edizioni e/o un libro di Valerij Panjushkin e da Zandonai il resoconto di Susanne Scholl , per vent’anni corrispondente austriaca da Mosca

Valentina Parisi

«Volevamo il meglio e invece ci è scappato il solito». È a dir poco emblematico che la celebre frase pronunciata dal primo ministro russo Viktor Cernomyrdin all’indomani della riforma monetaria del 1993 echeggi come una sorta di mantra nei due libri che, forse, più di altri restituiscono il senso di quanto sta accadendo (o non accadendo) oggi in Russia. L’autoironica variante locale della proverbiale strada per l’inferno lastricata di buone intenzioni torna, infatti, sia nell’appassionante 12 che hanno detto no. La lotta per la libertà nella Russia di Valerij Panjushkin (edito da e/o nella traduzione di Claudia Valentini rivista da Leonardo Marcello Pignataro), sia nel più disincantato Russia senz’anima? (tradotto per Zandonai da Chiara Marmugi) della giornalista viennese Susanne Scholl, che la utilizza addirittura come epigrafe. Accomunati da eguale rigore e da una struttura narrativa che fa sfilare a turno davanti agli occhi del lettore protagonisti e comparse della storia russa recente, i reportage di Panjushkin e della Scholl arrivano a conclusioni differenti per quanto riguarda l’interpretazione dell’aforisma di Cernomyrdin, che alcuni in realtà attribuiscono a commentatori più illustri – dal classico della satira ottocentesca Michail Sal’tykov-Scedrin al principe anarchico Petr Kropotkin. Se per l’austriaca Scholl quell’inquietante «solito» che subentra inevitabilmente al «meglio» allude agli eterni ritorni della storia russa e a una sua atavica non riformabilità (non a caso, l’altro esergo è una citazione di Karamzin «La Russia ha due problemi: le strade dissestate e gli idioti»), per il leningradese Panjushkin invece tale constatazione si lega in primo luogo al fallito esperimento liberal-democratico degli anni ’90 e al rapidissimo ritorno a quel populismo oligarchico dalle mai sopite aspirazioni imperiali che appare tuttora così in voga.
D’altro canto, se Susanne Scholl (per vent’anni corrispondente da Mosca per l’emittente Orf) preferisce dedicarsi alla ampia zona grigia della società russa, indifferente alla politica perché troppo concentrata sui problemi della sopravvivenza quotidiana, il quarantaduenne collaboratore di «Kommersant», «Vedomosti» e «Snob» ripercorre invece le recenti incarnazioni della figura quanto mai attuale del dissidente, inteso nella sua valenza etimologica: colui la cui voce risuona fatalmente fuori dal coro («nesoglasnyj»). E lo fa affidandosi a un numero – il dodici – fortemente simbolico che, al di là degli immediati riferimenti evangelici, evoca il poema di Aleksandr Blok, ma anche l’omonimo e controverso film girato da Nikita Michalkov nel 2007 e centrato sul processo a un diciottenne ceceno accusato di aver ucciso il padre adottivo, ufficiale russo di stanza a Groznyj. Maneggiando con estrema perizia la trama dei possibili nessi intertestuali, Panjushkin confeziona un testo incalzante che non cede a tentazioni autocommiserative, inanellando i ritratti di undici oppositori racchiusi in uno spettro politico decisamente ampio, che va dal neoliberismo di Andrej Illarionov, consigliere economico di Putin dal 2000 al 2005, al nazionalbolscevismo di Maksim Gromov.
Undici cammei a loro volta incastonati in una cornice narrativa – quella offerta dalle «marce dei dissidenti» che si svolsero il 24 novembre 2007 a Mosca e il giorno seguente a Pietroburgo – sanciscono la posizione dell’autore come «persona coinvolta nei fatti», ovvero al fianco dei manifestanti sotto le manganellate delle unità speciali Omon. Rimpiazzando lo scrittore Limonov come eventuale dodicesimo «eroe» («impossibile scrivere qualcosa su Eduard che non abbia già detto lui stesso», si è giustificato Panjushkin ai microfoni di Radio Svoboda), l’autore ne occupa il posto lasciato vacante non tanto per malinteso protagonismo, quanto per evidenziare come in Russia il ruolo della stampa non asservita non possa che essere ipso facto militante. Ne consegue una calcolata alternanza di pathos (ispirato alla memorialistica di fine ‘800 dei terroristi di Narodnaja Volja e alla figura del rivoluzionario che si sacrifica per redimere il popolo) e osservazioni lapidarie non di rado indirizzate verso i propri stessi compagni, come nel passo in cui Masha Gajdar e Marina Litvinovic si contendono la scena per essere inquadrate accanto a Garri Kasparov, leader della coalizione «Un’altra Russia», appena scarcerato. Per non parlare delle frecciate ai colleghi delle televisioni occidentali che per le loro riprese prediligono lo sfondo di scassate macchine d’epoca sovietica sempre più introvabili, almeno nella capitale («è evidente che, secondo loro, nel filmato Mosca deve sembrare L’Avana su cui però è piombato un ghiacciaio»).
Troppo lucido per nutrire soverchie illusioni sulla possibilità di trasformare l’opposizione al regime in un fenomeno di massa, Panjushkin concentra la propria attenzione sull’atto di ribellione o di dissenso individuale e sul valore ideale di tali testimonianze. Esemplari in questo senso le esperienze della stessa Gajdar che nell’inverno del 2006 si calò dal ponte prospiciente il Cremlino per protestare contro l’annullamento delle elezioni alla carica di governatore, o Il’ja Jashin, coordinatore dei giovani democratici di «Jabloko», che dopo la débâcle subita nel 2003, si addentrò nella provincia più remota per capire «che razza di paese fosse quello in cui non si riusciva a trovare un 5% che votasse per un partito che sosteneva la pace, la libertà, la democrazia, il rispetto della dignità umana». Da questo punto di vista è interessante confrontare le sue conclusioni con le testimonianze raccolte della Scholl. Se, in fondo, non appare più di tanto bizzarro il paragone istituito dai due anziani contadini, che hanno accolto Jashin nella loro izba, tra il presidente Putin e un fenomeno atmosferico come la neve o la grandine, che imperversa per poi cessare, ben più sconcertante è ritrovare la stessa immagine sulle labbra di una delle più celebri scrittrici russe contemporanee, nientemeno che Ljudmila Ulickaja. «La politica è come il tempo. A volte è molto brutto, ma non ci si può fare niente», taglia corto di fronte a una domanda provocatoria della giornalista austriaca, che le aveva chiesto se il suo rifiuto di pronunciarsi sulla situazione russa non equivalesse a un esilio volontario nella sfera privata.
Metafore meteorologiche a parte, Russia senz’anima? alterna inedite incursioni nelle storie quotidiane della gente comune a incontri con volti più o meno noti dell’intelligencija come Galina Mursalieva (giornalista di «Novaja gazeta» e vicina di scrivania di Anna Politkovskaja), o Alla Gerber, presidentessa della semisconosciuta Fondazione per l’Olocausto, la figlia adottiva di Chruscev Svetlana e la stessa Ulickaja. Sullo sfondo di questa nutrita rappresentanza femminile (non a caso, la Scholl torna ripetutamente sulla presenza assai effimera della figura paterna nella società sovietica e russa) si proietta la visita alla famiglia Erofeev, qui presentata nelle sue tre ipostasi maschili: il capostipite Vladimir, diplomatico nonché interprete personale di Stalin; Viktor, primogenito reprobo che nel 1979 mise in imbarazzo il genitore con la sua «criminale» partecipazione all’almanacco samizdat «Metropol», e infine il figlio minore Andrej, ex direttore della sezione contemporanea della galleria Tret’jakov, caduto in disgrazia per aver curato una mostra tacciata di blasfemia. Ma il pregio maggiore di Russia senz’anima? risiede probabilmente nelle sue osservazioni all’apparenza più frivole e disimpegnate, nella capacità di evocare i realia meno noti di Mosca – megalopoli asfissiante «creata non per le persone», come amano ripetere i suoi stessi abitanti con una punta di masochismo. Un dono che fa somigliare il libro della Scholl a una madeleine proustiana per chiunque abbia avuto la ventura di confrontarsi con la capitale russa in tempi recenti.

Viola Papetti

Un’antologia di poesie che raccolga autori affini per contagio poetico o che provengano dalla stessa piccola patria o che abbiano scritto nel medesimo arco di tempo, è accettabile anzi godibile. Dunque, ricchezza e voluttà delle antologie di poeti per cui diventiamo degustatori se non proprio giudici della loro qualità, confrontando un poeta con l’altro, e stilando classifiche a nostro piacere. Ma non è questo il caso di un’antologia di un poeta vivente, per giunta poco conosciuto in Italia. Il collage di testi scelti dai curatori è spesso surreale: qui un naso, là un piede, a margine un orecchio. Si sente il bisogno almeno di una sua foto per guardarlo negli occhi, di un’intervista per quanto banale, di sapere almeno quanti amanti ha avuto, e figli ecc. ecc. In fondo il signor Testo è pur stato partorito dalla testa appunto di un essere umano e si rivolge a noi in quanto partecipi della stessa umanità, anche se non della stessa lingua. Questo a proposito dell’antologia di poesie scelte di Carol Ann Duffy, La donna sulla luna (a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirocchi, testo inglese a fronte, Le Lettere, pp. 195, € 19,00), arricchito di informazioni biografiche e bibliografiche. Di Duffy – da non confondere con Maureen Duffy, anche lei poetessa e lesbica – era già uscito nel 2002, sempre presso Le Lettere e curato sempre da Sensi e Sirocchi, La moglie del mondo (1999), una serie di monologhi di personaggi femminili, spesso mitologici, mogli figlie amanti di uomini celebri. Spiritosi, paradossali, raramente romantici, spesso irresistibili come quelli di Frau Freud, Anne Hathaway, Queen Kong, Little Red-Cap. Quest’ultimo è l’autoritratto di Duffy stessa, vigoroso Cappuccetto Rosso sedicenne, figlia di operai, che nel bosco- la gang degli intellettuali di Glasgow dove lei era nata nel 1955 – incontra il Lupo, ossia Adrian Henri, uno dei Liverpool Poets di ventitre anni, suo senior. Lui declama versi con vocione lupesco, la zampa pelosa, la barba macchiata di vino rosso, una stagione dopo l’altra le stesse facili rime, gli stessi bislacchi ragionamenti. Lei lo ascolta e impara, e per dieci anni resta nella sua tana. Nel 1977 pubblicano insieme Beauty and the Beast, in cui si prevede un finale capovolgimento dei ruoli: lei, diventata la Bestia, con la sua accetta virile abbatte la Bella, verseggiatrice monotona, e esce dalla foresta, con I suoi fiori, cantando, tutta sola (Little Red Cap). Adrian Henri (1932-2000), insieme a Roger McGough (1937-) e Brian Patten (1946-), sono conosciuti come The Mersey Sound dal titolo del Penguin Modern Poets 10 del 1967, che raccoglie buona parte delle loro poesie, lette o meglio cantate o agite nei pub e nei coffee bar della Liverpool degli anni sessanta. Il loro pubblico erano i ragazzi che andavano ai concerti pop, i comportamenti e i temi erano quelli quotidiani (sesso, guerra del Vietnam, i Beatles, Liverpool e non Londra, le droghe di moda). Erano performer, come Hopkins avrebbe voluto fossero tutti i poeti. La performance poetry, con il suo linguaggio demotico, irrisorio e l’impatto fisico dei poeti-attori trionfava nella provinciale Scozia, mentre a Londra i poeti del Movement leggevano compostamente i loro testi ai microfoni della Bbc e subito li pubblicavano. A Roma, dai microfoni del Terzo Programma, Manganelli traduceva e commentava quei poeti: Alvarez, Amis, Conquest, Fuller, Gunn, Hill, Hughes, Larkin. All’università invitammo i tre Liverpool Poets che si scatenarono pazzamente nell’aula affollatissima ed eccitata. Per noi tutti fu un’esperienza insolita: per la prima volta la poesia ci arrivava con tanta energia e semplicità, senza aura. Il romantico lupo Adrian Henri recitò Love is, venti versi e venti ripetizioni del titolo, e Without You, trenta ripetizioni del titolo che ritorna a conclusione. Sono i trucchi che i poeti orali hanno sempre praticato e Duffy pure li usa, ma con più sottigliezza, quando vuol far salire la febbre del pubblico (Nome, Se fossi morta, Assenza, Risposta, Appeal e in altre occasioni). Ama spesso iniziare una poesia l’If di Kipling, poiché come lui essendo un buon cattivo poeta, deve aprire con autorità un tema ad alto rischio, ed esplorarlo in tutte le sue pieghe. “Se tu fossi fatta di fuoco,/ la tua testa una Medusa selvaggia che sibila fiamma,/ la lingua un attizzatoio incandescente in gola,/ il cuore un piccolo carbone ardente in petto,/ le dita marchi a fuoco vivo sulla carne,/ se fossi acqua, se fossi fatta di acqua, sì, sì”. E il crescendo finale: “Se tu fossi fatta di aria, se fossi aria,/ se tu fossi fatta di acqua, se fossi acqua,/ se tu fossi fatta di fuoco, se fossi fuoco,/ se tu fossi fatta di pietra, se fossi pietra,/ o se tu non fossi niente di tutto questo se non la morte,/ la risposta è sì, sì”. Mail suo “If” è erotico, non didattico come quello di Kipling, né beffardo come quello di Cecco Angiolieri, non riguarda né la morale, né la società, ma la donna amata, alla quale è riconosciuto un potere assoluto di vita e di morte. Certi critici non sono stati indulgenti con Duffy e le hanno rimproverato i difetti comuni ai Liverpool Poets e ai loro discendenti: improvvisazione, sfrontatezza, sciatteria, trovatine spiritose, poesie da bere d’un colpo e dimenticare subito dopo. Le hanno anche trovato tanti maestri. Browning per monologhi drammatici: ecco Cesare e Cleopatra nell’intimità: “Sul suo letto/ lei gli si stendeva sopra, lo truccava,/gli sbaffava le labbra col rossetto,/ la sua cipria gli arrossava la barba incolta,/ il turchese degli occhi sulle palpebre./ Lo sfidava, bicchiere dopo bicchiere/ nelle gare di bevute …” (Bellissima) – non stupisce che abbia scritto anche per il teatro e la radio. Molte citazioni da scrittrici, Plath e Carter, specie nella rielaborazione di fiabe, racconti e poesie per ragazzi, e dai classici Shakespeare, Donne, e aggiungerei anche l’Hopkins dei sonetti disperati che echeggia nell’ultima raccolta Rapture (2005), un lungo poema d’amore che va dalla piena felicità dell’inizio al vuoto della fine “Mi sveglio a un’ora cupa fuori del tempo, vado alla finestra./ Non una stella in questo cielo buio, nemmeno la luna, non un nome/ o numero per l’ora, né una scheggia di luce. Inspiro” (È finita). Il paesaggio aveva benedetto il tenero abbraccio degli amanti: “La pietà della primavera è qui, un addolcirsi dell’aria,/ lamluce di un’ora più luminosa, il tempo/ come perdono, concesso nel sussurrato colorarsi/ dei fiori, nel mantra della pioggia, sollievo, sollievo, sollievo” (Primavera). Il corpo dell’amata è un gioiello che non si vuole percepire con i sensi, ma che invece è visto pienamente in cielo, come astro: “La perla nera della pupilla/ montata nell’oro del tuo occhio -/ e non vedo/ il frutto scuro del capezzolo/ maturo sul tuo seno -/ e non sento/ la punta
della mia lingua/ bruciare nell’astro della tua bocca -/ e non avverto/ il lieve battito del tuo polso/ sotto il pollice – osservo invece/ il transito di Venere/ sulla faccia del sole” (Venere). OrmaiDuffy è divenuta un poeta classico, studiata nelle scuole, acclamata nelle letture pubbliche, premiatissima persino dalla National Lottery con una vincita di 75.000 sterline. Donna, scozzese, lesbica, madre singola e felice di Ella, è stata finalmente nominata Poet Laureate. Ma sul Poet Laureate
ha pesato il compito di celebrare il matrimonio di Kate e William: se la sarà cavata meglio che nella commemorazione del tallone di Achille e di David Beckham, colpiti l’uno in guerra e l’altro durante una partita? Non sempre il mito si presta in aiuto al postmoderno.

Cristina Taglietti

“Ho sognato come si muore, è stato il sogno più profondo della mia vita, e l’ho dimenticato. Mentre sognavo sentivo che mi si spalancava una porta sul mistero della morte.
Vedevo dall’altra parte il passaggio. Noi lo vediamo sempre da questa parte e non sappiamo un bel nulla. Il passaggio che ho sognato era molto diverso da quello che ci rivela la Chiesa. Non l’ho scritto subito per scriverlo meglio, e l’ho perduto” Duecentocinquanta trascrizioni di racconto onirici, uno zibaldone sperimentale che occupa un lunghissimo arco di tempo (dal 1958 al 1982, con un preambolo del ’28 e altri sogni non datati, verosimilmente degli anni 30 e 40), raccolto in un volume pubblicato, dopo un lavoro encomiabile, dall’editore maceratese Quodlibet (Dolores Prato, 1892-1983 era nata a Roma, ma crebbe con gli zii a Treia, in provincia di Macerata).
Sono i Sogni di Dolores Prato (pp. 826, € 34), “l’impresa di una vita”
li definisce Gabriele Pedullà nell’introduzione a questo volume curato da Elena Frotaloni con un ricco apparato di note e un glossario dei personaggi. Una mole che ne fa un unicum, molto diverso dai suoi parenti più prossimi, i taccuini di Elsa Morante e La composizione del sogno di Luigi Malerba.
In questa Recerche notturna personaggi comuni, figure abituali della sua vita familiare e amicale, si incrociano con personaggi storici, da Giuseppe Saragat, a Paolo VI, da Pietro Nenni a Nehru. Originariamente doveva essere probabilmente “un magazzino di sensazioni e stati d’animo nel torso di un nuovo libro”, spiega Pedullà, in realtà di fatto, diventò esso stesso un libro del tutto coerente con la narrazione autobiografica dell’infanzia di Giù la piazza non c’è nessuno.
Lontana da ogni ansia interpretativa, la scrittrice non cerca di indagare l’origine della sua vita onirica, ma ripone i suoi sforzi nel rendere a parole un vissuto, nel descrivere lo scorrere dei sentimenti e sensazioni legati agli eventi, anche minimi, in una sorta di “corpo a corpo con la pagina”.
E infatti così li racconta: ” Tanti piccoli sogni racchiusi nelle brevi parentesi della sofferenza. Tutti così aderenti alla verità del giorno, dei miei sentimenti, da confondersi con la verità della veglia”

Dolores Prato
Sogni
In ottavo grande, 2010
ISBN 9788874623235, pp. XLVIII-832, euro 34,00

Maria Grosso

Alice Ceresa rivendicava la sua scrittura difficile: «non mi risulta che le cose (e neanche quelle da capire) siano facili». In questo non ostentava erudizione, se pure avrebbe potuto permetterselo, considerato il suo sconfinato giardino di conoscenze, innaffiate fin dall’infanzia da una insopprimibile passione per lo studio. Quel «difficile» per lei atteneva piuttosto a una spietata consapevolezza della complessità dell’esistenza, a un’accettazione delle meraviglie e del dolore connessi alla ricerca intellettuale. «Difficile» voleva dire guardare negli occhi la sua responsabilità di scrittrice per arrendersi all’unico oggetto che per lei valesse la pena di essere indagato, anche a costo di girarci intorno tutta la vita, o di dare alle stampe un piccolissimo numero di opere (perché il punto non era il produrre ma l’infinito indagare).
L’argomento «è la posizione esistenziale dell’essere femminile configurato nell’urto fra la personalità privata e interiore di una donna moderna (che rifiuta di essere un “oggetto”…) e la tradizionalità di una società edificata intieramente al contrario di questa sua presa di coscienza». Così scriveva nelle note alla Figlia prodiga (Einaudi), opera che nel ’67 segna il suo esordio. Disegnava così («Occorre disegnare, per incominciare…»), un filo e insieme un rompicapo che nelle sue novecentesche e personalissime diramazioni – infanzia, femminismo, psicoanalisi, biologia, indagine sul linguaggio – avrebbe attraversato la sua esperienza letteraria, a comprendere La morte del padre (racconto uscito su «Nuovi Argomenti» nel ’79), Bambine (Einaudi 1990), a prefigurare Eloise, titolo provvisorio per un’opera cui lavorava al momento della scomparsa (2001), e Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile, avviato negli anni 70, sempre rivisto e limato, ma dato alle stampe postumo (Nottetempo 2007).
Spingersi fino al nucleo vivo della biforcazione donna/società per Ceresa è però inseparabile dall’innescare una deflagrazione delle forme che lo alimentano: linguaggio e stile come baluardi falsamente neutri del potere patriarcale. («Ben sapendosi la pericolosità dei padri, che poi siano intelligenti o meno»). Da attenta captatrice dei fervori del suo tempo, risuona con il percorso sperimentale del Gruppo 63, pur cercando strade di autonomia e sprezzando i rischi della traversata (La figlia prodiga, che vincerà il Viareggio opera prima, è inizialmente lodato, ma giudicato «non pubblicabile» da Vittorini). No al romanzo, alla «presuntuosa» pretesa di continuità, a dialogo, intreccio, descrizione, alle menzogne della prosa che compiace. Sì alla struttura a vista – frammentare, sminuzzare, dissezionare come infrangere la crosta dell’ovvio, «distillare» come ossessivo protendersi verso la radice filosofica delle cose, scrittura come pittura (il modello in letteratura è Klee), «reinterpretare» come sforare dai confini, lei «nata già emigrata» (a Basilea nel ’23, poi vissuta a Roma dal ’50), bilingue tra la Svizzera italiana del padre e quella tedesca della madre, lei, raffinata traduttrice. Da questo terremoto stilistico, La figlia prodiga e Bambine emergono come sopravvissute senza nome, tanto più astratte e simili a ogni altra quanto più deprivate di qualunque legittima aspirazione all’unicità.
Con la forza bruciante di questo sguardo da entomologa, con «la sua voce, la sua intelligenza, la sua volontà», colloquia Alice Ceresa. La letteratura vive in caverne tappezzate di libri e molto raramente esce allo scoperto, un volumetto edito nel decennale della morte da Beatrice Fittipaldi, compagna di una vita, pittrice e curatrice delle opere di Ceresa, conservate all’Archivio della Biblioteca Nazionale di Berna. Intreccio vitale di scritti della stessa autrice (tra cui l’inedito Che cosa è una femminista), e di studiose come Tatiana Crivelli, Jacqueline Risset, Maria Paola Fiorensoli, di disegni (Marilù Eustachio), lettere (Calvino, Scialoja), poesie (Patrizia Cavalli), foto, testimonianze di quante oltre alla scrittura ne hanno respirato la presenza (Maria Rosa Cutrufelli, Giosetta Fioroni, Letizia Paolozzi, Patrizia Zappa Mulas), il libro – oggi alle 18.30 la presentazione alla Casa delle Letterature di Roma – acclude il dvd di Se tu sapessi (2004), documentario di Gianna Mazzini e Loredana Rotondo, andato in onda nella serie Rai «Vuoti di memoria». Qui appare l’ironia di Ceresa, la tenerezza schiva, il senso autocritico, la scelta di «stare nel cono d’ombra del proprio tempo», come nota Zappa Mulas. Ceresa che non scrive per le donne, non pensa a lettrici e lettori, scrive «perché va scritto». A chi la scopre o la riscopre, la sfida liberatoria del

Testi di: Silva Bon, Nilla Deponti, Paola Di Florio, Adriana Giacchetti, Silvana Hvalic, Giovanna La Licata, Ester Olivo, Giada Passalacqua, Eliana Perini, Chiara Verzegnassi, Denise Yturralde, Marinella Zonta, Silvana Lampariello Rosei, Maya Kiskinova, Kaori Fuji, Anna Gregorio Michelazzi.
Fotografie di Marinella Zonta.

La “Guida sentimentale di Trieste” nasce in ambito femminile, come presa di parola pubblica su un tema dolorosamente tornato alla ribalta nella società italiana di oggi: la violenza contro le donne. Promosso dall’Associazione di volontariato culturale di donne “Luna e l’Altra” e sostenuto dalla Regione Friuli Venezia Giulia, si è dato avvio al progetto pluridisciplinare “Afrodite in cammino”. Nel Laboratorio di scrittura, piuttosto che confrontarci con scritti di sofferenza nei quali le donne, ancora una volta, sono vittime di soprusi e violenze, abbiamo deciso di dare parola al desiderio delle donne di riappropriarsi degli spazi della città.
Una città raccontata al femminile, rivissuta come luogo della propria soggettività, guardata con amore, con quella dose di disincanto e ironia, con dolore, con gioia, con nostalgia, con rimpianto, con la voglia di ripercorrere ambienti e spazi che hanno a che fare con le storie private di ognuna. E’ un modo di riprendere confidenza con i luoghi che hanno accompagnato le esperienze di ogni crescita, di ogni passaggio importante di vita, dall’infanzia e giovinezza, alla maturità e al presente, collocati in un contesto concreto di spazi che connotano la città, la sua fisionomia, rivelano tracce della sua storia, mostrano il suo aspetto contemporaneo. Ci sono luoghi raccontati con la memoria dell’infanzia, altri nel loro presente, altri ancora in colloqui con il passato storico della città, attraverso ricerche d’Archivio. E le fotografie originali seguono passo passo i luoghi narrati.
Trovare una connessione tra l’interno e l’esterno, tra la propria vita intima e la città in cui si vive, è stato il fine della ricerca e del ripercorrere strade, piazze, anditi, luoghi diversi. Compito assai complesso proprio nel mondo contemporaneo, dove le nozioni di ‘interno’ ed ‘esterno’ sembrano diventare più fluide, si mescolano, si ibridano nell’ottica planetaria e si ergono, invece, a barriere ‘invalicabili’ nelle immaginazioni di tanta politica fondata su una stretta concezione di identità.
Il Laboratorio di scrittura è stato frequentato da donne diverse per età, interessi e professioni, ha avuto luogo presso la Casa Internazionale delle Donne di Trieste, di via Pisoni, 3, dal mese di novembre 2009 a giugno 2010. Ogni partecipante ha scelto i percorsi e i luoghi della propria narrazione. In effetti, ogni “Guida sentimentale” è frutto di scelte soggettive, di percorsi individuali che trovano riscontro nelle “corde” di ogni protagonista. Tuttavia, a parte alcuni siti tralasciati, la città appare nei luoghi pregnanti per la sua fisionomia. A questi percorsi abbiamo affiancato alcune schede informative, segnate da una cornice, che hanno il compito di suggerire spunti o indicazioni su taluni aspetti di rilievo culturale e sociale caratteristici di Trieste: le Librerie, i Caffé, le Osterie, i Cimiteri di rito diverso…
Alla “Guida sentimentale” vera e propria, che forma la prima Sezione del volume, segue, per la specificità contemporanea di Trieste come luogo della Scienza, una Sezione che propone un contributo di rilievo su questo aspetto: alcune scienziate raccontano il loro lavoro e il rapporto con la città.
E’ interessante notare, in questo intreccio di voci diverse, come i suoni si armonizzino in un canto corale che mantiene le differenze individuali ma crea rimandi e sottili echi tra un testo e un altro testo, tra uno scorcio veduto da lontano e una passeggiata in un parco o nelle strade della città, tra una visuale panoramica, un edificio pubblico e un ricordo di un luogo nel passato personale o storico.
In questa Guida sentimentale ogni donna è entrata con la sua storia, la sua soggettività, i suoi sentimenti, il suo corpo. E non è indifferente che tra le donne che raccontano la città ci siano alcune autoctone, di matrice italiana o slovena, altre provenienti da diversi luoghi d’Italia o dall’estero: sono sguardi poliedrici a mostrare come è ricca la possibilità di osservare il paesaggio in cui si vive.
Come si presenta la città nelle narrazioni delle donne? Certamente questa è una “Guida” sbilanciata, che non cerca oggettività, nella quale si dà spazio ai particolari, agli umori, agli incontri imprevisti e toccanti. E’ come se le autrici parlando della città parlassero anche d’altro: dei rapporti tra le persone, dell’impatto con l’ambiente, dei ricordi intimi, dei momenti di vita intensamente vissuta, dei desideri che le attraversano e motivano le azioni. E Trieste assume un volto nuovo, meno ufficiale o imponente, meno “commerciale” o letterario. E’ una città che non lascia indifferenti. Anche chi l’ha odiata tanto da averla lasciata, come numerosi scrittori del passato, ne parla spesso con sofferta dolcezza.
Questo libro è un rimando di sguardi. Scopre occhi che rivelano un amore profondo per la città, anche là dove si intravede una sofferenza, una osservazione critica o una presa di distanza, e la speciale connotazione di Trieste – usata, abusata, decantata, mitizzata, inventata – in tanti scritti di tanti autori contemporanei e del passato, trova qui una corrispondenza nei tratti di un sentimento espresso da chi la abita, sentimento che filtra tra le parole e ne forgia l’alone dei significati.
Trieste città delle contraddizioni, città di carta, città dei matti, città di frontiera, città dei commerci, incrocio di civiltà, centro delle periferie, crogiuolo di culture, città mitteleuropea, nostalgica del suo passato, città plurilingue, città da cui si fugge ma a cui si torna, non luogo, città di scontrosa grazia, personaggio città, città senza pace, città della bora: sono tanti i fantasmi che aleggiano sulle sue strade o si incarnano – provvisoriamente – in una pietra sporgente da un palazzo. E anche se i suoi cittadini sorridono con ironia a tutta questa abbondanza di definizioni che restano sfuggenti, incapaci di catturare se non effimeri frammenti della sua realtà, tuttavia hanno un modo particolare di immaginare la sua specificità e la sua seduzione: diverso per ognuno – a seconda dei caratteri – trova dei presupposti comuni nella convinzione di vivere in un magnifico luogo extratempo. Anche il fascino che la città diffonde su chi la visita e cercando di capirla percorre le sue strade, entra nei musei e nelle chiese, sale le molte scalinate e si incanta davanti a uno scorcio, si dispiega in un effetto alone di natura contemplativa, di cui si coglie l’irrequietezza segreta e la disposizione distaccata e ironica.

ed. Portaparole 2011

Giancarla riscrive il mito di Antigone, e in particolare la sublime tragedia di Sofocle, ridando umanità a un’eroina che a volte rischia di diventare solo un’icona filosofica, o dei diritti umani. La figlia di Edipo, caratterizzata da eroismo e profonda umanità anche nell’opera del grande tragico ateniese, viene rivisitata in un testo che ha la forma di un racconto lungo, o di un romanzo breve. La voce narrante è quella di Ismene, la sorella minore che lotta a lungo per salvare Antigone, cerca un accordo con le istanze della legge della pòlis e infine è destinata a sopravvivere e a tramandare in forma scritta la vicenda dell’eroina e di tutta la tragica famiglia di Edipo. Il testo di Giancarla si segnala per la profondità dell’indagine etica e psicologica, per alcune interessanti novità apportate alle figure tradizionali di Antigone e di Ismene, per una scrittura tersa e vibrante, che a tratti diventa lirica. Ne abbiamo discusso con molte persone alla presentazione che si è tenuta lunedì 17 presso la Feltrinelli di via Manzoni, vogliamo parlarne anche presso la LUD. Il testo si inserisce nella riflessione delle donne sulla politica e sull’etica: partendo dalle relazioni primarie legate al corpo e alla famiglia possiamo rinnovare il nostro modo di proporci come soggetti politici ed etici, in termini di “sorellanza” e “fraternità” universali.

Tettamanti Franco

La scuola con ottimo profitto e poi l’ impiego in una fabbrica di Lambrate per aiutare la famiglia di operai in anni non certo facili. Ha poco più di 20 anni, Onorina Brambilla, in quel settembre del 1943 quando sceglie la strada della lotta al fascismo, del coraggio, della clandestinità, della voglia di libertà. Si farà chiamare Sandra e comincerà la sua battaglia nei Gruppi d’ Azione Patriottica. Audace, determinata, fredda, pronta ad eseguire gli ordini senza timore. Sandra ufficiale di collegamento. Sandra che in più di un’ occasione vedrà ben vicina l’ ombra della morte. In bicicletta per le pericolose strade di Milano. Sandra che porta ordini, consegna armi ai partigiani, dribbla controlli e posti di blocco. Sino alla disgraziata missione che le costerà la cattura. È il 12 settembre del 1944 e vicino al cinema Argentina Onorina Brambilla imbocca la strada più difficile e tortuosa. L’ arresto, la paura, le torture, la sofferenza e il distacco dalla famiglia e dagli affetti. Viene rinchiusa prima nella Casa dei Balilla di Monza, trasformata in un carcere nazista, con il sergente Wernig, spietato protagonista di violenze e angherie. Poi, dal novembre del 1944 all’ aprile del 1945, sarà prigioniera nel campo di Bolzano. Di quei giorni terribili restano i ricordi, la forza, il dolore, le lettere alla madre, la speranza, le certezze di un futuro meno scuro e angosciante. Una storia che è ora raccontata nel libro autobiografico Il pane bianco curato da Roberto Farina per le Edizioni Arterigere. Onorina Brambilla verrà liberata alla fine di aprile del 1945 e con un gruppo di compagni e compagne raggiungerà Milano a piedi. Un’ avventura quasi incredibile tra le montagne e le valli innevate. Chilometri e chilometri attraverso la Val di Non, il passo della Mendola e quello del Tonale per tornare alla vita, riabbracciare la famiglia e trovare l’ amore. Con quel suo comandante Giovanni Pesce Visone, medaglia d’ oro della Resistenza ed eroe autentico, di cui diverrà, il 14 luglio del 1945, compagna di una vita. Più avanti negli anni Onorina Brambilla Pesce riceverà la Croce di guerra al valor partigiano e la medaglia d’ oro del Comune di Milano. Per non dimenticare mai la vita, l’ impegno e il coraggio di Sandra.

Leonetta Bentivoglio

La Storia è un gioco, una merenda, una follia, una questione di frenesie sessuali, un’ansia di dominio, il complotto di una casta famelica. Nel cosmo feroce dei Tudor la Storia è cosa cinica e madida di sangue, ed è in tale perfido scenario che si è immersa l’inglese Hilary Mantel per costruire Wolf Hall, ritratto sterminato e tumultuoso del primo ministro di Enrico VIII, Thomas Cromwell. Pervaso da echi e profumi di Shakespeare, e ricco di sfondi dettagliati sull’ esistenza quotidiana alla corte dei Tudor, questo libro d’ impianto epico e di mole impressionante punta a ridisegnare, al di là degli stereotipi, il volto dell’ artefice più decisivo della Riforma: fu Cromwell l’architetto geniale della rottura tra Enrico VIII e il Papa. Accolto da un notevole successo in Inghilterra, dove ha meritato riconoscimenti prestigiosi (tra cui il Man Booker Prize 2009), il romanzo esce ora in Italia da Fazi. Viaggiando tra cronaca e fiction, l’autrice sfida l’ alone di negatività che ha circondato il suo eroe, restituendoci l’ immagine di un politico colto, audace e profetico. Il respiro teatrale e lo stile serrato della Mantel, nata nel 1952 e molto fertile come scrittrice, a dispetto dei suoi problemi di salute (tiroidismo ed endometriosi la costringono a un’immobilità parziale), imprimono al racconto la vividezza dell’ attualità, mostrando come i mali del Cinquecento inglese – assenza di mobilità sociale, fanatismi religiosi, lotte tra individuo, Stato e Chiesa – non siano affatto estirpati dal presente. Come ha incontrato la figura di Cromwell? «Ho studiato in una scuola cattolica, che certo non mi garantiva una visione obiettiva del personaggio. Ma fin da allora Cromwell mi parve attraente, se non altro perché dibattuto e misterioso. A ventidue anni scrissi un romanzo sulla Rivoluzione Francese, capendo di avere una vocazione letteraria di tipo storico. In seguito ripensai spesso a Cromwell, sul quale circolavano soltanto commenti negativi, il che mi stimolava molto a indagare su di lui. Tuttavia ho deciso di affrontarlo solo qualche anno fa, e mi sono resa conto che era stato saggio aspettare: ci vuole esperienza per esplorare un uomo tanto conscio del suo tempo e acuto nel percepire la politica come arte del possibile». Quali sono state le sue fonti? «La vita politica di Cromwell è ben documentata, ma quella privata è quasi ignota. Io volevo cogliere l’uomo: scoprire cosa possedeva, che faceva quando non lavorava, cosa indossava. I suoi libri contabili domestici dicono molto su di lui, e anche certi resoconti sul suo operato, come quelli dell’ ambasciatore spagnolo, utili in quanto provenienti da qualcuno di malevolo e sagace. Inoltre ho letto tutta la sua corrispondenza». Cosa l’ha più colpita del personaggio? «La sua capacità di raggiungere l’apice del potere venendo dal nulla, per di più in un contesto rigido e gerarchico. Aveva un’indole dinamica, un formidabile coraggio e uno spiccato senso dell’ umorismo. Ed era un grande mecenate delle arti». Il nucleo del romanzo è il potere. «Wolf Hall descrive un realista scevro da illusioni sul senso e gli scopi della politica, ma anche radicato in un’epoca di teorie, in cui aleggia lo spirito di Machiavelli e sono in molti a riflettere con creatività sulla conquista del potere, ponendosi interrogativi nuovi: a chi compete la legittimazione del governo? Agli uomini o a Dio? Mentre il potere religioso è messo in discussione, l’aristocrazia s’indebolisce in tutta Europa, e i governanti si affrancano da consiglieri nobili per puntare sul talento di persone di umili origini, come Cromwell, che dal mettersi al servizio di un potente traggono la loro ragione d’ essere». Quali sono le regole di una buona fiction storica? «Adattare il romanzo ai fatti e non viceversa: difficile migliorare la realtà, anche quando è sconveniente o non sensazionale. E rammentare che la verità dipende dalla propria prospettiva. Io non sono mai imparziale: nel mio romanzo giovanile ero schierata con i rivoluzionari e in Wolf Hall sto dalla parte di Cromwell». Spicca nel libro la forza delle figure femminili: Caterina d’ Aragona, Anna Bolena e Jane Seymour, che diventerà la terza moglie del sovrano. «Tutto il romanzo si nutre di una domanda: chi può dare a Enrico un erede? Per questo il corpo femminile è il fulcro della storia e il motore del processo politico che condurrà alla Riforma. Gli uomini sono impotenti poiché incapaci di concepire il figlio tanto desiderato. Le convenzioni storiche tendono a confinare quelle tre donne in ruoli archetipici: la mater dolorosa Caterina, la seduttrice Anna Bolena, l’insignificante e schiva Jane. Io invece le vedo in evoluzione continua e non esprimo giudizi categorici. Lascio zone di ambiguità, luci ed ombre». La sua scrittura osserva senza giudicare, escludendo retoriche dei sentimenti. E i personaggi sembrano agire come su un palcoscenico. «L’approccio è simile a quello di una sceneggiatura. Mi affido ad avvenimenti esterni per fare luce sui moti interni. Non spiego i personaggi: piuttosto li ascolto e li mostro in movimento. Il che, al di là delle dimensioni del romanzo, ne rende agile lo sviluppo. La trama avanza nei dialoghi e nelle azioni, senza divagare, ed è come se fosse seguita da una macchina da presa sulla spalla di Cromwell, il quale ha sempre il controllo del punto di vista narrativo». –

 


Graziella Pulce
Quando pubblicò per la prima volta Le Malentendu nel 1926, Irène Némirovsky aveva 23 anni e la sua carriera era ancora tutta da costruire, tuttavia le prime pagine rivelano il passo sicuro della scrittrice che sa quello che vuole. Il romanzo (II malinteso, trad. di Marina Di Leo, con una nota di Olivier Philipponat, Adelphi, pp. 190, € 12,00), nel quale si alternano il punto di vista maschile e quello femminile, si apre con la presentazione indiretta dì Yves, giovane pigro e squattrinato in vacanza nella stessa località dov’era stato da bambino. Chi legge con attenzione i primi capitoli ha già tutto il personaggio nelle sue mani: si tratta di un giovane uomo che ha vissuto gli orrori della guerra e ora, alle soglie della maturità, s’incupisce di fronte ai segni del tempo sul paesaggio e sul suo volto, e che tuttavia è pronto a dimenticare le proprie malinconie se i suoi sensi percepiscono un elemento di novità, sia esso il profumo di cannella e di aranci in fiore o le grazie fresche di una giovane signora. Vòlto alla contemplazione della vita e sprovvisto della volontà per dirigerla, Yves incarna appieno il ruolo dell’inetto fin-de- siede, un borghese pieno di contraddizioni dai mezzi inadeguati che sfiora il bel mondo ma è inevitabilmente condannato a ricadere nel suo stato. Un grande amore ha bisogno dei palpiti del cuore almeno quanto di un patrimonio solido, giacché le frasi appassionate e i biglietti da cento franchi si fanno strada con pari forza nel cuore delle donne frivole abituate al lusso. L’altro personaggio è Denise, la giovane signora che, forte di un matrimonio solido, intraprende una relazione adulterina con l’uomo di estrazione sociale inferiore. Mentre di lui sappiamo tutto da subito, di Denise scopriamo a poco a poco abitudini, piaceri e debolezze. Il suo identikit risponde al personaggio tipico della Némirovsky: una star dell’alta società parigina che durante il giorno alterna le visite alla modista, alle amiche e all’amante, e di notte sfoggia diamanti e merletti, e un viso sul quale il tempo sembra non avere presa. Una donna siffatta ha bisogno di un consesso di altre donne su cui trionfare e di uno stuolo dì ammiratori di cui disporre e ne ha bisogno come e più dello specchio consultato come un oracolo ogni mattina e ogni mattina pronto a confermare il suo verdetto. Se fosse più dura e inaccessibile sarebbe una femme fatale, ma piange troppo sovente e talvolta dimentica di incipriarsi il naso. La Némirovsky sa rappresentare in scorcio il momento critico di una società ridotta a fragile biscuit e incrinata definitivamente dalla Grande Guerra. La sua mano spoglia di ogni incanto i personaggi, soprattutto quelli femminili, cui è stata strappata la corona della giovinezza e della felicità. Un’operazione letteraria che Federico De Roberto avrebbe classificato come ‘documento umano’, anatomia crudele dell’amore e delle passioni per metterne a nudo la fisiologia. Lo smoking, la cipria e i cappelli coprono personaggi deboli, epigoni sfiniti di Bourget: i due amanti sfiorano il suicidio ma se ne ritraggono prudentemente per rientrare nel loro ruolo con il blasone della malinconia negli occhi.

Pent Sergio

Noi credevamo sorprende innanzitutto per la costruzione narrativa, moderna, scaltra e ben calibrata in un lungo percorso a ritroso nella storia mancata di certi piccoli eroi del Risorgimento. Nella Torino ostile – almeno agli occhi del vecchio protagonista morente – del 1883, il calabrese Domenico Lopresti ripercorre le sue memorie di rivoluzionario fallito, da un capo all’altro di quell’Italia che – egli per primo Io intuisce – non sarà mai un unico ceppo di luoghi comuni condivisi. Repubblicano un po’ anarchico, ostile ai Borboni ma anche a certe pseudo-rivolte ideologiche mai concretate – dalla Carboneria a un Mazzini più ideologo velleitario che solido manovratore politico -, Lopresti è figlio di un Paese lacero, ignorante e caciaroso ma pronto a offrire le terga a chiunque lo invada con una divisa sgargiante. Impoverito, vinto, padre già anziano di due figli che saranno adulti nel Novecento, Lopresti vive i suoi ultimi giorni torinesi – una Torino vista in tutti i suoi difetti provinciali d’antan – con il rimpianto di non aver portato a termine una missione epocale, quella di dare vita a un’Italia libera, moderna e repubblicana. La monarchia piemontese ha semplicemente sostituito quella borbonica, e da queste amare considerazioni prende il via il viaggio a ritroso di Lopresti nelle sue memorie rivoluzionarie. Dagli anni di carcere duro a Procida e Montefusco fino alla lunga rincorsa per raggiungere, da Roma, quel mitico Garibaldi che sta risalendo la penisola con i suoi eroici Mille, il vento di un’Italia nuova soffia sulle speranze dell’illuso Lopresti, che si scontra invece con una volontà popolare tutta da definire, rendendosi conto che non basta creare, credere, combattere, per smuovere “un costume avvilito, incapace di mutare”.
L’eroe mancato della Banti attraversa un’epoca di determinanti transizioni giungendo alla conclusione che ogni tentativo di unificare l’Italia sia destinato a rimanere un’utopia. La dolente epopea del progressista calabrese diventa l’occasione mancata della Storia, in un romanzo ancora oggi – questo il suo pregio in tempi di becere ambizioni secesioniste – scomodo e attuale. I piemontesi si appoggiano alla camorra per conquistare il Sud, le disparità sociali annegano nella consapevolezza di non essere riusciti a diffondere una vera voglia di rinnovamento, in un Paese dove è più facile cambiare padrone che costruirsi una nobile identità collettiva. Un Risorgimento, quello della Banti, che ancora oggi continua a tentare di ricucire gli strappi, in questa Italia da reality in cui annaspiamo, con tante autostrade ma senza più indicazioni e mete comuni.

Edizione dell’Arco (luglio 2010)

Il Sudan, un paese dilaniato dalla guerra, raccontato attraverso persone, colori, emozioni, suggestioni. Così Sara Bellettato, autrice di Sudan – Fiori nel deserto, narra di questo luogo speciale e non privo di contraddizioni.
Storie di donne, bambini, uomini, gente comune, povera che vive a stenti tra un caldo insopportabile e la polvere che imperversa in ogni luogo, ma anche storie di privilegiate, privilegiati che riescono a sfuggire alla povertà.
Sara racconta la quotidianità delle persone e dei luoghi attraverso i suoi occhi, occhi di una narratrice che osserva e trasmette senza giudicare, lasciando al lettore la libertà di farsi le sue idee e opinioni a riguardo. Il libro è ricco di particolari e descrizioni dei luoghi e delle persone, come per esempio le piante e l’abbigliamento. Tutte suggestioni capaci di trasmettere un’emozione di realtà. Leggendo, sembra infatti di trovarsi proprio lì, nelle situazioni descritte dall’autrice: sembra di vedere i colori, di sentire gli odori delle piante e dei cibi. Sara ci parla anche delle ONG e delle persone che ci lavorano. Narra del divario che separa le loro vite da quelle della gente locale. Racconta inoltre dei potenti: situazioni di abbondanza e sfarzo assolutamente in contraddizione con le condizioni di povertà e miseria cui è costretta a vivere la gente comune.
Sara parla anche delle donne. Racconta le loro storie. Qualcuna è ricca, altre sono povere, altre ancora segnate da un destino crudele. Mi colpisce la storia di due ragazze, due mogli, in particolare una ufficiale e una futura, di un giovane, avvolte nei loro colorati thop (un’ampia stoffa leggera e colorata con cui le donne si avvolgono fin sopra la testa lasciando scoperto il viso per motivi religiosi e per ripararsi dal sole e dalla polvere) di una azzurro e dell’altra rosa con una fantasia a piccoli fiori. Sara ci racconta di loro mentre sono al fiume assieme al marito durante un giro in macchina. Leggo di Mama, una cuoca, di Amani, segretaria di una ONG e figlia di possidenti che organizza una grande festa per la circoncisione dei due nipoti, party a cui partecipa una moltitudine di gente privilegiata che fa parte di una fortunata élite di persone che hanno la possibilità di sfuggire alla povertà. E ancora Fatma, che incontriamo avvolta in un thop rosa, una cleaner impiegata in una ONG, una ragazza povera ma piena di vita e di iniziativa. Molto toccante anche la storia di una madre di due ragazze giovani, palestinese ma bianca e così le figlie, il cui marito è militante di Hamas. Per questo e per il loro colore della pelle rischiano la vita. Sara racconta ancora della figlia del guardiano o della giovane ragazza, sfuggita alle milizie dello Spla -People Liberation’s Army del Sudan che le hanno ucciso il padre e portato via il fratello, che viene abusata dal padrone da cui va a lavorare come inserviente ad El Obeid.
Ma Sara ci parla anche di uomini. Racconta di Tarik,il pilota, di Jean Luc Racine, militare canadese veterano delle operazioni di PeaceKeaping che ha assistito impotente al genocidio quando era osservatore internazionale in Rowanda. Oppure la vicenda di Mohammed, ingegnere, originario del Darfur che vive una storia d’amore molto romantica che racconta il Darfur come una terra da sogno.
L’epilogo narra di una drammatica storia di immigrazione in Italia. Una fuga dal Sudan da parte di un padre di famiglia non priva di dolorose e lunghe separazioni dalla moglie e dai figli. Complice della sua sofferenza l’attuale legge sull’immigrazione in Italia.
Persone, storie, emozioni, colori. E’ il Sudan raccontato da Sara.

L’AUTRICE SARA BELLETTATO

Viaggi intorno al mondo, diversificate esperienze nei vari Paesi, la conoscenza di culture e popolazioni diverse caratterizza il curriculum di tutto rispetto della giovane autrice Sara Bellettato, che attualmente è impegnata a Milano dove lavora con Caritas Ambrosiana occupandosi di un progetto rivolto ai cittadini stranieri senza permesso di soggiorno trattenuti nel Cie di Via Corelli. Per l’autrice questo è il suo primo libro ” …pensa che il giorno che è andato in tipografia con le edizioni dell’Arco mi ha chiamato la EMI (editrice missionaria italiana) che lo volevano pubblicare. Ma ormai era tardi… sarà per il prossimo! – scherza Sara.
Ma da cosa nasce il desiderio di scrivere questo testo?
“La voglia di raccontare è nata dal desiderio di far conoscere questo Paese e la sua gente – racconta Sara – ma in primis come segno di riconoscenza e di rispetto per tutte le persone che ho incontrato e che sono state la mia guida e la mia chiave di lettura per il Sudan, il Darfur e l’intrico di etnie che lo compongono”.
La conoscenza di quei luoghi di cui ha reso così bene le persone, le sensazioni, le emozioni parte dalla sua professione “Ho lavorato per 4 mesi come cooperante di una piccola ONG italiana in Darfur, nel 2005 – spiega Sara-. Mi spostavo tra Khartoum, la capitale del Sudan, Nyala, la capitale del Sud Darfur, e El Daein, un paesino a 60 km da Nyala, ma raggiungibile solo con i voli delle nazioni unite, perché la strada era troppo pericolosa”
L’incontro con la popolazione del posto è avvenuta sempre grazie al suo lavoro “Ho avuto attorno tanti colleghi sudanesi bravissimi, che sono stati la mia guida – ha raccontato -. Grazie a loro, ho potuto capire meglio il Sudan, le sue tradizioni e contraddizioni, la grande ricchezza culturale e le risorse naturali. Ho conosciuto il grande cuore delle persone, e questo non si può dimenticare”.

Alessandra De Perini.

Recensione di SPERANZA NEL BUIO, Guida per cambiare il mondo
di Rebecca Solnit (Fandango libri, Roma 2005)

Chi avrebbe immaginato, solo due decenni fa, un mondo in cui fosse scomparsa l’Unione Sovietica e avesse fatto il suo arrivo Internet? E che il prigioniero politico Nelson Mandela sarebbe diventato presidente del Sudafrica trasformato o che la rivolta zapatista nel Messico meridionale avrebbe segnalato il risorgere dell’universo indigeno? Rebecca Solnit, saggista e critica d’arte femminista, dalla prosa brillante e incisiva, attiva nei movimenti del suo paese, gli Stati Uniti, pone queste domande all’inizio del testo intitolato Speranza nel buio – guida per cambiare il mondo, una raccolta di brevi saggi, pubblicata nel 2005, in piena epoca Bush. La Solnit afferma che ci sono momenti in cui non solo il futuro, ma lo stesso presente sono oscuri e che solo poche persone riconoscono quanto sia radicalmente trasformato il mondo in cui viviamo. L’autrice vuole proporre una nuova visione del modo in cui avvengono le trasformazioni e sostiene, criticando la concezione meccanicistica del cambiamento, basata sulla logica dei rapporti di causa/effetto, che bisogna innanzitutto “cambiare l’immaginario del cambiamento”. Questo, secondo lei, è il grande problema di oggi. I cambiamenti, le rivoluzioni che contano, infatti, per la Solnit, si svolgono innanzitutto dentro di noi, nella nostra mente e nelle forme della nostra immaginazione. Il cambiamento più difficile è rendersi conto che la politica nasce dalla diffusione delle idee e dalla immaginazione che prende forma. I cambiamenti che contano sono così difficili da fare, perché non scorrono lungo il tempo lineare della Storia, ma seguono il tempo della vita materiale, con i suoi umori, la sua lentezza, le improvvise intuizioni. La storia, dice Rebecca Solnit, non è un esercito che marcia sempre avanti, obbedendo al principio di causa ed effetto, è come “un granchio che scappa lateralmente”, è “un rivolo d’acqua che gocciola sulla pietra consumandola”, un “terremoto che spezza secoli di tensione”. A volte poche persone ricche di passione cambiano il mondo, a volte le parole di una persona sola ispirano un movimento, anche dopo molti anni. A volte il cambiamento avviene improvvisamente, come quando cambia il tempo; a volte, invece, è necessario un accumulo graduale di cambiamenti impercettibili perché si determini una svolta nella storia.
Senza speranza, tuttavia, nessun cambiamento è possibile. Convinta che il mondo attuale sia assai migliore di quello di ieri, la Solnit sostiene che i motivi di speranza oggi non mancano. La società civile, infatti, negli ultimi vent’anni ha assunto un ruolo sempre più influente e significativo. Il futuro è oscuro, è vero, ma non nel senso di cupo e minaccioso, quanto piuttosto imperscrutabile, inconoscibile. Accadono, infatti, tutti i giorni cose impreviste e imprevedibili dalla nostra immaginazione.
La trasformazione del mondo attuale, secondo Solnit, è dovuta non solo al capitale globale, ma anche e soprattutto ai sogni di libertà e giustizia di tanta gente in ogni parte del mondo. Ci adattiamo alle trasformazioni, senza valutarle pienamente e tendiamo a dimenticare quanto sia cambiata la cultura. Decisioni che sarebbero state impensabili solo pochi decenni fa, come il matrimonio tra persone dello stesso sesso, oggi sono possibili. Il mondo è sempre più imprevedibile rispetto alla nostra capacità di immaginazione. Nel 1982, per esempio, un milione di persone si radunarono nel Central Park di New York per chiedere il congelamento bilaterale degli ordigni nucleari, come primo passo sulla via del disarmo. Non l’ottennero e molte di quelle persone tornarono a casa deluse o sfinite. Tante però continuarono la lotta, così in meno di un decennio furono negoziate riduzioni significative delle armi nucleari, con l’aiuto dei movimenti antinucleari europei. Da allora, la corsa al riarmo prosegue e nuove nazioni scelgono il nucleare. Questo però non compromette il valore di quella lotta. L’attivismo di quella stagione è finito a causa della sua visione rigida e di un calendario difficile da rispettare, ma anche perché, sostiene la Solnit, nessuno aveva saputo prevedere che alla fine del decennio la guerra fredda sarebbe terminata. Quelle e quelli che si erano impegnati nella lotta non sono rimasti in campo sufficientemente a lungo per raccogliere il “dividendo della pace” e per questo sono rimaste/rimasti a mani vuote. È sempre troppo presto per tornare a casa, dopo l’impegno politico attivo ed è sempre troppo presto anche per calcolare gli effetti delle nostre azioni. Un’attivista che militava nel “Women Strike for Peace” (Donne in sciopero per la pace), il primo grande movimento antinucleare degli Stati Uniti (ottenne il Trattato per la limitazione dei test nucleari del 1963) racconta di come si sentisse stupida e inutile una mattina, mentre protestava sotto la pioggia di fronte alla Casa Bianca. Alcuni anni dopo però, le capitò di ascoltare il dottor Benjamin Spock che dichiarava di essersi convinto proprio allora ad intervenire contro i test nucleari per la pericolosità della ricaduta dei materiali radioattivi che si ritrovavano nel latte materno e nei denti dei bambini: quel piccolo gruppo di donne così appassionate e impegnate, che si dichiaravano casalinghe e protestavano sotto la pioggia davanti alla Casa Bianca, abitata allora da Kennedy, e mettevano in ridicolo i membri del Comitato parlamentare per le attività antiamericane gli avevano fatto capire improvvisamente che, come loro, era giusto che anche lui dedicasse attenzione e impegno al problema.
Le trasformazioni hanno in comune il fatto di avere inizio nella speranza e nell’immaginazione. All’inizio di ogni grande cambiamento c’è chi punta sul futuro e spera che il suo desiderio si avveri o chi pensa che l’incertezza e il gioco d’azzardo siano meglio della sicurezza e dello sconforto. Vivere significa rischiare e sperare è pericoloso. La speranza è per Rebecca Solnit “un’ascia che serve ad abbattere le porte in caso di emergenza”. La speranza si serve di ogni parte di noi per far cambiare rotta alla società, per allontanare il futuro dalla guerra, dall’annientamento dei tesori del pianeta e dallo stritolamento di masse di persone povere e marginali. La speranza chiede l’azione e agire è impossibile senza speranza. Sperare significa donarsi al futuro, prendere un impegno preciso nei confronti del futuro. Tutto può accadere e tutto dipende dal nostro agire o dalla nostra mancanza di azione. Per chi oggi si impegna per un futuro migliore è già in atto la sfida più grande, quella in cui si rischia il tutto per tutto. In ogni parte del mondo è in corso un processo di sradicamento causato della volontà di dominio globale. La civiltà tecnologica sta distruggendo la natura da cui dipendiamo. Tuttavia il futuro, benché oscuro, dipende in parte ancora da noi, dalla nostra azione, dal nostro pensiero.
In questo libro Rebecca Solnit rende conto del mondo incredibilmente trasformato in cui viviamo e propone di non sottovalutare le vittorie politiche degli ultimi vent’anni che, una dopo l’altra, pone davanti ai nostri occhi perché le vediamo con occhi nuovi e ci rendiamo conto di quanto siano importanti per il presente: sono punti di riferimento nel disorientamento generale, leve straordinarie per uscire dallo sconforto e dalla delusione e progettare nuove trasformazioni. La Solnit fa un bilancio delle possibilità e dei pericoli che abbiamo davanti in questo momento e cerca di cogliere in ogni parte del mondo quei segni di libertà e di giustizia di cui abbiamo bisogno per continuare, appunto, a sperare e a non rinunciare all’azione.
Lia Cigarini, sempre molto attenta a quello che accade negli Stati Uniti, nel numero 92 (marzo 2010) della rivista Via Dogana, intitolato “Cambiare l’immaginario del cambiamento” riprende la Solnit, collocandola tra quelle donne che si danno l’autorità di indirizzare l’agire politico dei grandi movimenti (pacifista, ambientalista, no global), nei quali sono attive. Basta pensare a Naomi Klein, autrice di No logo, che ha saputo convincere il movimento No global americano sul valore politico e l’efficacia degli atti simbolici e culturali, evitando così la deriva della contrapposizione che conduce inevitabilmente allo scontro di piazza, come è avvenuto in Europa. Oppure si pensi, dice Lia Cigarini, a Sara Horowitz, a Susan Sontag, a Elinor Ostrom, alle tante filosofe, sociologhe, economiste che, abituate a una politica diretta, agiscono e prendono la parola in prima persona. Cigarini afferma che i testi di queste donne, in cui c’è l’eco profondo del femminismo degli anni ’60 e ’70, costituiscono la teoria dei movimenti attuali in Usa. Anche in Italia, continua la Cigarini, ci sono tante donne che camminano nella politica e fanno teoria (per esempio, il movimento di “Autoriforma della scuola”, il Gruppo Lavoro della Libreria delle donne di Milano che ha prodotto il “Sottosopra” sul lavoro, il movimento “No dal Molin” di Vicenza e molte altre esperienze in ogni parte d’Italia), ma non hanno la forza di cambiare il modo di fare la politica né l’immaginario connesso, secondo cui il necessario compimento della politica sarebbe la costruzione di un partito o la rappresentanza parlamentare. Secondo Cigarini, i partiti italiani, divenuti delle pure sigle per eleggere deputati e senatori, come negli Usa, nell’immaginario di tanti militanti e di elettori/elettrici sono ancora il cardine della politica e della democrazia e questa mancanza di consapevolezza “finisce per mettere ai margini della politica quello che succede nelle aree creative, che dovrebbero esserne invece il centro”. A questo punto Lia Cigarini, rilanciando la sfida di Rebecca Solnit, si rivolge: ai delusi e alle deluse della politica, in particolare a quelle e quelli della sinistra italiana che continuando a ripetere che tutto va a rotoli, chiedendo loro di voltarsi verso le aree creative che ci sono, e tante, in primo luogo quella delle donne; a quelle e quelli che non credono più nel valore e nell’efficacia del voto per cambiare le cose o a quelle e quelli che fanno una politica reattiva, di pura contrapposizione alle mosse dell’avversario, ma anche a quelle donne impegnate nella politica della differenza che troppo insistono sulla pratica del partire da sé e delle relazioni e che forse, senza volerlo, ostacolano la varietà delle narrazioni, l’aprirsi di nuovi orizzonti. L’impegno politico non va visto unicamente come risposta alle innumerevoli emergenze e ai pericoli del mondo contemporaneo, afferma Lia Cigarini, riprendendo la Solnit, ma come una parte gioiosa della vita quotidiana. Già circolano nuove narrazioni e bisogna tener conto del fatto che non tutte/tutti sono disponibili a portare un bagaglio pesante, fatto di delusione, disperazione e profonda sfiducia. Ecco allora la sfida che con molto coraggio la Solnit lancia alla politica tradizionale di sinistra: dissolva nell’acqua le proprie certezze, non per sostituirle, ma per costruire nel presente, faccia la politica del presente, del qui e ora, mettendo al primo posto il contesto reale dell’azione e non l’ideologia, non pretenda di controllare il futuro, ma si decida ad abbandonare il potere per trovare la libertà.

Francesca Lazzarato
Tradotto in italiano il romanzo d’esordio di Maria Barbal
È uscito nel 1985 e da allora ha collezionato più di cinquantacinque edizioni in diverse lingue, tre premi importanti e diversi adattamenti teatrali (l’ultimo andrà in scena a gennaio al Tnc di Barcellona) ma solo adesso Pedra de tartera, uno dei più longevi e fortunati fra i best-seller in lingua catalana, appare anche in italiano (Come una pietra che rotola, Marcos y Marcos, pp.151, euro 14) nell’eccellente traduzione di Gina Maneri, che ha reso con esattezza la prosa sommessa di Maria Barbal, nata nel 1949 in un paesetto dei Pirenei e barcellonese di adozione.
A Come una pietra che rotola, il suo romanzo d’esordio, ne sono seguiti altri otto, e tuttavia, nonostante la solidità di un corpus narrativo che si è appena arricchito di un nuovo libro di racconti (La pressa del temps, Columna) e il riconoscimento tributato dalla critica a testi di più ampio respiro come Càmfora, per i lettori la Barbal (che il 15 settembre, durante la settimana del Libro in Catalano, ha ricevuto a Barcellona il Premi Trajectòria) resta soprattutto l’autrice di Pedra de tartera, in cui la convincentissima voce della protagonista Conxa ci racconta di sé, adolescente, ragazza, donna nata e cresciuta in una Catalogna rurale che ha poco da spartire con le luci di Barcellona. Un’esistenza povera e semplice, la sua, scandita da nozze e morti, dalla fatica delle donne che crescono figli, sbrigano o dirigono ogni lavoro, tacciono e resistono. Finché la guerra civile strappa a Conxa l’amatissimo marito, fucilato da gente feroce che parla un’altra lingua, il castellano, e a lei tocca per intero la cura di quelli che restano, in solitudine e, come sempre, in silenzio.
In centocinquanta pagine e con pochi tocchi delicati, la Barbal disegna una figura femminile a suo modo potente, e allo stesso tempo traccia il ritratto di un mondo perduto, della cui sparizione Conxa diventa il simbolo quando, ormai vecchia e rinchiusa in una oscura portineria cittadina, conclude la sua storia con una frase che è quasi un epitaffio: “Barcellona per me è una cosa molto buona. L’ultimo gradino prima del cimitero”.

Sandra Petrignani

«Io ho, poi, guardato ancora una volta dal treno, anche tu ti sei voltata a guardare, ma io ero troppo lontano»: è il 9 dicembre del 1957. Paul Celan scrive questa lettera a Ingeborg Bachmann e dice tutto del loro rapporto, la sintonia, la vicinanza e l’impossibilità di stare insieme. Lui è «troppo lontano» perché è lontano da tutto, ferito in modo inguaribile. Non c’è amore, amicizia, matrimonio che possa sanare la sua colpa: è sopravvissuto allo sterminio degli ebrei. Suo padre, sua madre sono morti in un lager. Lui è riuscito a fuggire e ha lasciato per sempre la terra delle origini, la Romania. Al tempo di quella lettera Ingeborg e Paul sono già due fra i più grandi poeti della loro generazione. Lei ha 31 anni, lui ne ha appena compiuti 37. Sono insieme per la seconda volta nella vita, anche se Paul, cinque anni prima, a Parigi, dove si è definitivamente trasferito, ha sposato la pittrice Gisèle de Lestrange da cui ha avuto un figlio. La prima volta era stato nel ’48 a Vienna. Ingeborg aveva poco più di vent’anni, era una giovane donna romantica (ne resta testimonianza in un’altra breve raccolta di lettere al suo primo amore, Lettere a Felician, edita da Nottetempo come l’appena uscito Troviamo le parole, epistolario fra Ingeborg Bachmann e Paul Celan). Ma il loro è un amore impossibile, «uno dei più drammatici capitoli della storia della letteratura» scrivono i curatori Hans Höller e Andrea Stoll e, per quel che riguarda la Bachmann, una storia d’amore «non ancora ricostruita con rigore e coerenza in tutto il suo spessore storico-letterario» proprio alla luce dell’enorme influenza che su di lei esercitò la poesia di Celan (e fu vero anche il contrario: se non riuscirono ad amarsi sulla terra, il legame fra i due si sviluppò sotterraneamente in un riconoscibile contrappunto che affiora nelle opere). Forse nuova luce verrà da un convegno e da una mostra documentaria e fotografica che si terranno nei pomeriggi di oggi e domani a Roma in Villa Sciarra-Wurtz, al Gianicolo. Spiega Ginevra Bompiani, editore della Nottetempo, che farà domani un intervento al convegno: «Hanno sicuramente pesato moltissimo l’uno nella vita dell’altro, e non solo da un punto di vista letterario. Però erano due personalità molto fragili, che non riuscivano a sostenersi reciprocamente. E infatti poterono avere relazioni più durature lui con Gisèle, lei con lo scrittore Max Frisch, che erano caratteri ben più saldi». Non è un caso che, quando quelle storie finirono, Paul Celan si suicidò gettandosi nella Senna (il 20 aprile 1970) e Ingeborg Bachmann (1962) cominciò a inanellare ricoveri in una serie di cliniche per malattie psichiche sviluppando per il resto della sua vita una forte dipendenza da alcol e psicofarmaci. RELAZIONI, DISCUSSIONI, MALEDIZIONI Avendo conosciuto a Roma la Bachmann negli anni sessanta, Ginevra Bompiani ha molti ricordi personali della scrittrice austriaca. «La sua fragilità, l’assoluta inadeguatezza per la vita pratica ti colpivano subito in lei. Ma insieme era circondata da un’aura che, anche a non aver letto un rigo della sua opera (non era ancora tradotta in Italia), coglievi al volo. Era delicata, timida, ma anche molto socievole. Un giorno andai a trovarla nel suo appartamento di via Giulia, con Giorgio Agamben (era la fine di gennaio del ’67), e la trovammo stravolta: «Un mio amico ha tentato di suicidarsi» ci disse. L’amico era Paul Celan. Prima di tentare il suicidio aveva aggredito e tentato di uccidere Gisèle (e avrebbe provato a rifarlo anche due anni dopo). Paul e Ingeborg non si sentivano più dal ’63, quando la grave paranoia che lo affliggeva aveva coinvolto e distrutto anche i rapporti più profondi. Un’assurda vicenda di plagio, di cui era stato ridicolmente accusato, e alcune recensioni negative in cui aveva scorto l’eco dell’antisemitismo, erano nel suo delirio diventati il segno di un generale complotto contro di lui. Il fatto che amici come Ingeborg, Frisch, Heinrich Böll e altri cercassero di farlo ragionare e non prendessero sempre e comunque le sue difese si trasformò ai suoi occhi nella prova di un imperdonabile tradimento ai danni della Poesia e della Memoria per inseguire il successo personale. E i ripetuti tentativi della Bachmann di giustificarlo e schierarsi sia pure debolmente dalla sua parte, dovettero gravare pesantemente persino sulla relazione con il compagno, Max Frisch, minandone una sempre complicata convivenza. Di tutto il caotico intrigo di relazioni, discussioni, tentativi di recupero, maledizioni, allontanamenti si coglie un poderoso, avvincente riflesso nel libro Troviamo le parole. E qualcosa anche in un altro libro, tradotto da poco dalla Guanda, La follia dell’assoluto. Vita di Ingeborg Bachmann, di Hans Höller, che più di una biografia, è una precisissima ricostruzione dei temi principali dell’opera di Bachmann nel loro rapporto con i fatti della vita. Fatti sentimentali, politici, storici. Il peso che sugli scrittori tedeschi e austriaci del dopoguerra ebbe il cosiddetto «complesso dei padri» compromessi col nazismo, il profondo senso di colpa di essere, sia pure innocenti, eredi di una tradizione «colpevole». Una generazione che cercò di ritrovarsi, senza sempre riuscirci e pagando un prezzo in molti casi altissimo, nella lingua tedesca comune. Scriveva Paul Celan nel 1958, in un discorso a Brema, in occasione di un premio letterario: «Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua». E, come sostiene Höller, anche la Bachmann cercò sempre «di salvare una patria nella parola». A costo di perdere se stessi. Nella notte fra il 26 e il 27 aprile ’70, Ingeborg si addormentò con la sigaretta accesa e prese fuoco. Aggravò l’incidente gettandosi nella vasca da bagno riempita d’acqua fredda. Si spense il 17 ottobre. Morte accidentale o forse, una specie, anche il suo, di dilazionato suicidio.

Ida Dominijanni

Patologie dell’individuo contemporaneo fra ossessione dell’Io e ossessione del Noi, eccesso di informazioni e difetto di esperienza. «La cura del mondo» di Elena Pulcini per Bollati Boringhieri, una iniezione di vulnerabilità sulle pretese del soggetto sovrano
Che la paura si presenti oggi come uno dei sentimenti più sintomatici dell’uomo globale è cosa nota: abbiamo paura di tutto e del contrario di tutto, degli attacchi terroristici e della guerra, dei cambiamenti climatici e delle epidemie, della morte e delle tecnologie che allungano la vita, dell’invasione dei migranti e della crescita zero degli occidentali, delle crisi finanziarie e delle banche centrali, della marea nera e di restare senza benzina. È altresì noto però che la paura è uno dei sentimenti su cui la politica fa leva, promettendo sicurezza e conquistando per questa via, più o meno meritatamente, coesione e consenso sociale. Ma qui le cose si complicano subito, perché non sempre la politica aziona questa leva allo stesso modo, e dal modo in cui la aziona dipendono in parte la sua qualità e la sua efficacia. Sì che se lo Stato moderno nasce precisamente sull’istanza di governare la paura, trasformandola da passione disordinante dello stato di natura in elemento ordinatore della società, quello che oggi abbiamo di fronte a noi – ma anche dentro di noi – è uno scenario in cui la politica, più che governare la paura, ne è governata: ne subisce le ondate paranoiche e risponde con ondate securitarie altrettanto paranoiche, che a loro volta non la riducono ma la alimentano, senza che ne derivi ordine bensì disordine. D’altra parte, chi a questi automatismi securitari giustamente si oppone, cade sistematicamente nell’automatismo opposto, che consiste nel sottovalutare o negare la paura sulla base di un ottimismo illuministico e di un dover-essere razionalistico che a loro volta non risolvono ma rimuovono il problema, aggravandolo. Uno dei molti meriti dell’ultimo libro di Elena Pulcini, La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale (Bollati Boringhieri, pp. 300, euro 25) consiste nello smontare entrambi gli automatismi, mettendo la paura al centro dell’analisi dell’antropologia politica contemporanea e invitandoci a guardarla come una risorsa emotiva dell’azione politica: «Con la paura bisogna fare i conti, evitando ogni operazione di rimozione o di ottimistica sottovalutazione, che avrebbe l’unico effetto di provocarne un oscuro e inconsapevole potenziamento. Conoscere, e soprattutto ri-conoscere la paura, costituisce non solo il primo passo per ammettere l’importanza determinante delle passioni nella motivazione degli uomini all’agire, ma anche la chance per scoprirne, insieme con la funzione cognitiva, l’irrinunciabile funzione produttiva e mobilitante. Disconoscerla significa al contrario inibire o alterare quel processo emotivo e cognitivo che prelude alla valutazione e all’azione, e che consente di far fronte alla minaccia attraverso risposte costruttive, adeguate al perseguimento del bene degli individui e della collettività».
L’operazione proposta dall’autrice è sorretta da una puntuale analitica della paura nel mondo globale, non priva di sorprese e spiazzamenti. La politica postmoderna della paura è diversa da quella moderna, infatti, anche perché diversa risulta, nei due scenari, la stessa configurazione della paura: a turbare le nostre esistenze non sono più paure circoscritte di incognite definite, bensì una gamma di paure indeterminate relative a rischi indeterminati, impersonali e remoti come quelli che abbiamo elencato all’inizio; e anche quando la fonte dell’ansia risiede nell’altro, questo altro non è più percepito come un simile minaccioso ma riconoscibile (l’homo homini lupus hobbesiano), bensì come un alieno sconosciuto e incontrollabile.
Si tratta dunque di uno stato di angoscia generico e endemico, che si trova davanti una politica impotente a fronteggiarlo e produce meccanismi di difesa regressivi: di diniego e autoinganno di fronte ai rischi globali (è più facile illudersi che il global warming sia un’invenzione che rassegnarsi a consumare meno per ridurlo), proiettivi e persecutori di fronte all’«invasione degli alieni» (è più facile fare degli immigrati un nemico pretestuoso che misurarsi con i problemi reali della convivenza multiculturale). Due diverse «patologie del sentire» – assenza di paura nel primo caso, eccesso nel secondo – che alludono entrambe a una incapacità di vivere davvero la paura, di sopportarla, di farsene mobilitare per reagire con misura ed efficacia al profilo effettivo di ciò che si percepisce come un pericolo o un rischio: una incapacità a sua volta sintomatica di una schizofrenia tipica della tarda modernità, quella «fra il conoscere e il sentire», tanto più diffusa quanto più cresce la mole di informazione di cui disponiamo. Ma se la diffusione delle paure nasconde questa sorta di generalizzata anestesia, la terapia non consiste tanto nel liberarsi dalla paura, quanto al contrario nell’imparare a sentirla e a farne esperienza.
Pulcini individua in questo «risveglio emotivo» della paura un passaggio cruciale per sbloccare le patologie del soggetto contemporaneo e trasformarne radicalmente lo statuto. Prima di vedere come, bisogna tornare sull’impianto generale del suo lavoro. Pur mettendo a fuoco il nesso fra paura e responsabilità, La cura del mondo è infatti un libro sul soggetto dell’era globale, che a differenza di molte altre pure illuminanti analisi della globalizzazione non si limita a enunciare la necessità di ripensare le trasformazioni dell’io all’interno delle trasformazioni del mondo contemporaneo ma affronta di petto questo compito, forte di una solida competenza (della stessa autrice un volume importante sull’individuo moderno, L’individuo senza passioni, Bollati Boringhieri 2001 e, con Mariapaola Fimiani e Vanna Gessa Kurotschka, Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale, Editori riuniti 2004) e di una capacità rara di intrecciare lo sguardo filosofico, sociologico, psicoanalitico (e relative bibliografie). I capitoli centrali dedicati alla paura funzionano dunque da snodo fra la prima parte del libro, che decostruisce le patologie del soggetto postmoderno, e la terza, che in quelle stesse patologie individua le condizioni per l’emergere di una nuova forma della soggettività.
La figura dell’Io però non è scollata dalla cornice del mondo: al contrario, la riflette fedelmente. E le patologie dell’individuo contemporaneo riflettono fedelmente le trasformazioni della cornice. Se la globalizzzazione è contrassegnata da una costitutiva ambivalenza fra unità e molteplicità, universalizzazione e localizzazione, omologazione e fissazione identitaria, questa stessa ambivalenza si riproduce, argomenta Pulcini, sia nella struttura antropologica dell’individuo sia nelle forme del legame sociale: «individualismo illimitato» e «comunitarismo endogamico» sono le due patologie del soggetto che corrispondono a questa conformazione del globale (e che la postmodernità globale eredita peraltro largamente dalle aporie della modernità). Per un verso, «l’Io globale si configura come un Io apatico e vorace allo stesso tempo, insicuro e onnipotente, parassitario e acquisitivo; ma soprattutto caratterizzato da un sostanziale atomismo, che possiamo riconoscere nell’indifferenza dello spettatore, nel parassitismo del consumatore e nell’onnipotenza solipsistica dell’homo creator». Per l’altro verso, a compensazione di tanto individualismo emergono in questo stesso Io nuovi bisogni di confinamento, appartenenza, identificazione e, come abbiamo visto, immunizzazione in comunità più o meno protettive, esclusive, regressive. Ossessione dell’Io da una parte, ossessione del Noi dall’altra: tertium non datur?
Mosso da un pessimismo radicale sul futuro di una specie irresponsabilmente sorda ai rischi per la sua sopravvivenza provocati dalla sua stessa hybris, il ragionamento di Pulcini si apre tuttavia a un felice superamento di questa alternativa, inscrivendosi in quella prospettiva filosofica femminista che da tempo indica nel soggetto relazionale la fuoriuscita dalle secche dell’individualismo moderno e postmoderno: né l’ipertrofia dell’Io né l’ipertrofia del Noi, ma un io (minuscolo) consapevole di essere costitutivamente legato e interconnesso agli altri, simili e diversi, disposto alla contaminazione e alla costruzione di legami solidali. Si capisce a questo punto perché la paura giochi un ruolo chiave nell’accesso a questo statuto della soggettività: ascoltarla, senza né negarla illuministicamente né farsene immobilizzare, significa aprire le porte all’esperienza e al sentimento della vulnerabilità, che è a sua volta la porta d’accesso alla consapevolezza della nostra relazionalità costitutiva (Judith Butler e Adriana Cavarero sono su questo punto i riferimenti più vicini a Pulcini) e dell’obbligazione di ciascuno alla cura dell’altro e del mondo (Carol Gilligan, e, della stessa Pulcini, Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati Boringhieri 2003).
In questione, nel solco dell’offensiva culturale e filosofica che il miglior pensiero femminile conduce da anni, sono il soggetto sovrano e l’ossessione identitaria che dalla tradizione moderna trapassano, in forme appunto patologiche, nel presente post-moderno. Per Pulcini non si tratta tuttavia di pensare solo la relazione e il soggetto-in-relazione, bensì di aprire l’immaginazione politica al concepimento di una nuova «forma del mondo», cogliendo nelle stesse condizioni oggettive dell’età globale le premesse per il superamento delle sue patologie. Se è vero, com’è vero, che l’interconnessione tipica del mondo globale non è solo un dato economico o sociale o politico ma «ci pone definitivamente di fronte alla verità ontologica dell’essere-con, mettendo a nudo la costitutiva socialità dell’essere e costringendoci a pensare l’esistenza come il nudo “essere gli uni con gli altri”», da questo sintomo ontologico bisogna partire per concepire il mondo non come una somma di individualità irrelate o di comunità in lotta fra loro, bensì – alla Arendt – come spazio dell’in-fra e dell’essere in comune, o – alla Nancy – come comunità e partizione. Che altro non significa che dare finalmente una piegatura di senso a quel processo di globalizzazione che pretende di dispiegarsi sopra le nostre teste e le nostre passioni come un puro fatto.

Poliziotto, avvocato, ministro: infine giallista. La scrittrice scandinava racconta la sua nuova (imperfetta) detective

Tiziana Lo Porto

Nel 1993, quando esordì, la norvegese Anne Holt aveva alle spalle una laurea in legge, due anni di lavoro in polizia, un’avviata carriera da avvocato e una da giornalista. Di lì a poco sarebbe diventata ministro della Giustizia per un anno (dal ’96 al ’97 per l’esattezza). Per poi tornare a scrivere, sfornando in meno di una ventina d’anni due serie di otto e quattro romanzi, e diventando una delle gialliste più conosciute e vendute al mondo (4 milioni di lettori nei 25 paesi in cui è tradotta). Dodici polizieschi in tutto, di cui La dea cieca (appena uscito per Einaudi Stile Libero, nella traduzione di Giorgio Puleo) è il fortunato esordio: nel 1994 sorprese e conquistò lettori e critica, aggiudicandosi il prestigioso Riverton Prize come miglior romanzo poliziesco norvegese dell’anno, e dando poi vita, nel 1997, a una seguitissima serie televisiva. A fare da musa a quest’opera prima è la dea bendata – nell’iconografia ufficiale – per non essere influenzata dalle parti. Anche a rischio di non poter vedere. Affascinata dalla giustizia (a dirla con Cechov, “agitata dalla sua assenza”), Anne Holt è arrivata alla conclusione che scriverne può rivelarsi molto più utile che praticarla in tri- bunale. Nel gennaio del 2000 ha sposato la sua compagna Tine Kj¾r. E con la loro bambina, Johanne, le due donne vivono a Oslo, città in cui ha ambientato decine di scene del crimine. In Italia la fortuna di Anne Holt è cominciata un paio di anni fa con Quello che ti meriti, il primo libro della serie che ha per protagonisti la coppia di investigatori Johanne Vic e Yngvar Stubø. Un successo immediato, così come lo sono stati gli altri due volumi della serie, Non deve accadere e La porta chiusa. Con La dea cieca è partita la pubblicazione in Italia anche della seconda serie, quella sull’investigatrice lesbica Hanna Wilhelmsen. È lei la protagonista del romanzo, “una donna straordinariamente bella, da poco promossa al grado di detective”. Hanne Wilhelmsen è una poliziotta modello, che ha come unico punto debole quello di essere innamorata di un’altra donna, Cecilie, con cui convive da quando aveva diciannove anni. Hanne entra in scena lentamente, lasciando che il lettore si attardi prima su altri personaggi: il cadavere di un uomo assassinato e ritrovato nella prima pagina del libro, un presunto assassino fermato dalla polizia e in attesa di processo, una donna che trova il morto e viene poi scelta come avvocato difensore del presunto assassino, l’ex della donna che è anche uno dei poliziotti che indagano sul caso, un avvocato penalista assassinato dopo il ritrovamento del primo cadavere. Hanne Wilhelmsen intuisce che i due omicidi sono collegati, e imbocca la pista del mondo degli avvocati, e quella della droga. Impossibile non restare affascinati dalla Wilhelmsen, che è istintivo accostare alla sua creatrice, Anne Holt. La scelta di un nome così simile al suo è del tutto casuale? “Sì, direi che è solo una coincidenza. Di solito non perdo molto a tempo a decidere come debbano chiamarsi i miei personaggi. Cerco di trovare nomi che siano il più comuni possibile. Lei non si immagina quante Hanne Wilhelmsen ci siano in Norvegia”. Come la sua Hanne, lei ha lavorato nella polizia. Anche lei è stata ostacolata dalla sua famiglia quando ha deciso di diventare detective? “No, anzi, ho costruito Hanne Wilhelmsen come la mia antitesi”. E lo è rimasta in tutti gli otto libri della serie? “Sì, anche se negli anni Hanne è cambiata in molte cose. Nella Dea cieca aveva poco più di trent’anni, era molto intelligente, molto forte e bella. Teneva tutti a distanza, ma era comunque capace di avere degli amici. Man mano che la serie è andata avanti, è diventata più introversa, più sfiancata e ostile”. Anche Oslo è cambiata? “Sì, leggendo l’intera serie di Hanne ci si rende conto di quanto in questi anni Oslo si sia evoluta dal punto di vista tecnologico. Ma il primo e più importante cambiamento è stato il suo diventare una città multiculturale. Negli ultimi romanzi della serie mi sono ritrovata ad affrontare il razzismo e altre tematiche imposte da questa sua nuova natura. E se la serie fosse nata oggi, la questione razziale sarebbe stata di sicuro il tema dominante”. A inizio anni 90, ha scelto invece la giustizia come tema principale… “Sì, anche se non la definirei esattamente così. Più che altro è una specie di idea dominante, un chiodo fisso da cui è nato il libro. Quando ho scritto La dea cieca mi stava a cuore più che altro la possibilità di inventare personaggi che avrei continuato a usare nei romanzi successivi. Poi però ha messo momentaneamente da parte la Wilhelmsen e ha avviato una serie in cui, a investigare, è la coppia Vik & Stubø. Si era stancata di Hanne? “Non direi. Nel 2007 ho anche pubblicato un romanzo (La porta chiusa, n.d.r.) in cui si incontravano tutti e tre: Hanne, Vik & Stubø. E l’anno dopo sono tornata a scrivere una storia in cui è Hanne Wilhelmsen a investigare (1222, ancora inedito in Italia, n.d.r.). Quando ho inventato Vik & Stubø l’ho fatto solo perché volevo scrivere storie che non erano adatte a Hanne. Così come ci sono vicende da raccontare che sono più vicine a Hanne, che a Vik & Stubø”. In cosa è diversa Hanne da Vic & Stubø? “Loro sono senz’altro più felici, più soddisfatti delle loro vite. Wilhelmsen avrebbe bisogno di un aiuto psicologico, ma non osa chiederlo. Ha troppa paura per farlo”. È facile raccontare un personaggio irrisolto come lei? “Quando scrivi un poliziesco di solito hai a che fare con personaggi irrisolti: la sfida sta nell’evitarlo, è la cosa che dà più soddisfazione. Il poliziesco è un genere in cui i protagonisti di solito sono tormentati: rompere questa regola, come ho fatto con Vik & Stubø, è stato difficile quanto intrigante”. Nei suoi romanzi ha affrontato più volte il tema della famiglia. Ha denunciato i limiti di quella tradizionale e l’assenza di un nuovo modello che ne prenda il posto. Pensa sul serio che sia possibile costruire una famiglia funzionale? “Nessuna famiglia è perfetta, e solo affrontandone le imperfezioni si può costruire un altro modo di vivere i rapporti tra marito e moglie e tra genitori e figli. Purtroppo non ho la ricetta per una nuova famiglia. Se l’avessi la scriverei, la pubblicherei, la venderei: allora sì che diventerei ricca!” Lei è cresciuta nella piccolissima città di Lillestrøm. Ma per sua figlia ha scelto Oslo. Secondo lei una capitale può garantire un’infanzia migliore? “Da bambini si può essere felici in cittadine minuscole, grandi metropoli o aree rurali. La cosa importante, ancora una volta, è la famiglia in cui cresci. Io, per esempio, posso dire di avere avuto un’infanzia felice. L’infanzia è un momento della vita che lascia inevitabilmente cicatrici e ferite. È così per tutti. A me ne ha lasciate pochissime”. Di recente ha detto di amare gli Stati Uniti, più di una volta li ha definiti il paese più interessante, affascinante al mondo. Durante l’ultima campagna presidenziale americana ha sostenuto la candidatura di Barack Obama. Dopo la sua elezione non ha avuto la tentazione di trasferirsi lì con la sua famiglia? “Ho vissuto in America per diversi periodi nella mia vita, anche se negli otto anni di amministrazione Bush mi sono ben guardata dal metterci piede. Con Obama ho ripreso a amarla. Da quando ho una figlia, però, non ho mai pensato di lasciare la Norvegia per sempre. È un buon paese dove crescere, sia per una bambina sia per u- na figlia di genitori dello stesso sesso”.

di Roberto Galaverni

Come parla di poesia Amelia Rosselli? È presto detto: con grande attenzione, intransigenza, precisione. Lo conferma la lettura di un libro importante: È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste 1964-1995, a cura di Monica Venturini e Silvia De March, con una prefazione di Laura Barile (Le Lettere, “fuoriformato”, pp. 394, € 35,00). In realtà, a parte un solo frammento del 1964, il volume raccoglie interventi che vanno dalla metà degli anni settanta alla morte della scrittrice. Un ventennio che arriva a cose ormai fatte: dopo il terzo libro di versi del 1976, Documento, la Rosselli accetterà pochissimo da se stessa. Sono tuttavia anni di contatto continuo con la poesia, di lavoro su testi già scritti, di traduzioni e auto-traduzioni, di concentra-zione e di ascolto, non importa se più o meno corrisposto. A ogni pagina traspare, inconsumabile attraverso gli anni, la fedeltà a una vocazione poetica che è stata anche una scelta. Perché di questo si tratta: una vocazione alla poesia “istintiva”, perfino “biologica”, ma poi una scelta, un impegno fin da subito estremamente consapevole, anche del proprio rovescio autolesionistico. II titolo stesso del libro allude all’intrico perverso di magnanimità e d’ingratitudine esistenziale proprie di una decisione così senza mezze misure, così integrale, così assoluta. “Ho scelto di non sposarmi per non distrarmi da lei”, dice la Rosselli. E lei, ovviamente, è la poesia.
Forse anche per la similarità delle domande poste dagli intervistatori, torna attraverso gli anni un giro fisso di ricordi, temi e argomentazioni che fin dall’inizio e poi sempre più appaiono inevitabili. La Rosselli sembra possedere addirittura una memoria espressiva di natura formulare, dove le definizioni riescono tanto più invariabili quanto più rispondono al rischio di un fraintendimento della sua vicenda biografica, della sua disposizione creativa, della sua poesia. Se penso, ad esempio, al proliferare imprevedibile della conversazione di Zanzotto, dentro e fuori, di qua e di là, di su e di giù, e insomma dovunque si possa andare, qui al contrario ci si trova in un viaggio sopra biliari fissati come una volta per sempre. La Rosselli parla di poche cose, ma queste sempre e in tutto decisive. Essenzialità, chiarezza, se possibile verità. La Rosselli non distoglie lo sguardo di lì, non si allontana da quei suoi nuclei basici. Per questo – ed è la cosa che più si può apprezzare nel tono e modo delle sue parole – non è mai facilmente conciliante con i suoi interlocutori. E invece: concentrazione, esattezza, severità, calore, ecco come parla la Rosselli. Così, molto spesso la sua risposta procede attraverso la negazione diretta, il rovesciamento o la rettifica delle premesse implicite della domanda che le viene posta. Evidentemente, questo tono non può essere separato dalla qualità del suo pensiero. Sono le verità – le verità non trattabili – che una giovanissima ragazza approdata a Roma nell’immediato dopoguerra aveva saputo conquistarsi da sé, ripartendo come da zero quando tutto, forse anche i ricordi, sembrava essergli stato dato e poi subito tolto ancora prima di partire.
Non per questo le cose mancano. Gli snodi cruciali -i lutti, la diaspora – della storia familiare, i riferimenti alla vita privata alla sua “vita balorda”, come la chiama), le difficoltà economiche, la malattia, l’insonnia, le ossessioni e il senso di persecuzione, gli snidi musicali, le letture, gli amici, i giudizi sui poeti (sì a Montale, Penna, Saba e Pavese, molto meno credito alla neoavanguardia, troppo accademica e pedante, con l’eccezione sempre ribadita di porta) le riflessioni sui propri libri, la metrica, le scelte linguistiche e espressive dei lapsus… E poi le osservazioni sull’isolamento e la solitudine, intese sì come una ritorsione della vita e del destino, una condizione difficile che si deve subire, ma poi anche come qualcosa di elettivo e d’irrinunciabile, proprio perché coincidente con lo spazio stesso del respiro della poesia. Ed è proprio sulla poesia, sui procedimenti creativi, sul rapporto tra vita e scrittura che vengono fatte le considerazioni più importanti. L’argomentare della Rosselli possiede un impianto teorico semplice e rigoroso. Qui davvero più che mai non tollera che si diano equivoci. Tutti gli interventi raccolti nel libro in fondo gravitano attorno alla rivendicazione della globalità, dell’autonomia, della libertà, del valore attivo delle sue scelte e
dei suoi risultati di poesia. In questo senso, la Rosselli rifiuta qualsiasi incasellamento o rappresentanza meccanica di una parte definita, a partire dalla propria. Di qui l’insistenza sulle risultanze filosofi-che e conoscitive della sua poesia, sull’estraneità alla presa diretta dell’autobiografia e della confessione, sull'”uscita dall’io”. Il suo fondamentale “contenutismo”, come lo definisce con un termine che non ama, allude proprio alla volontà di superare la dimensione privata per accedere a un'”esperienza” non soltanto personale o soggettiva. “La poesia”, dice la Rosselli, “non deve essere confessione, ma ricerca di verità”. O ancora: “la nevrosi non si può farla dilagare in forma di libro da far comprare. È inutile esprimerla come sostanza della poesia”. Ecco allora il costante, ferreo, pervicace riferimento al distacco della conoscenza, alle procedure di composizione poetica, alle scelte del codice metrico, all’oggettivazione linguistica e espressiva, o se si preferisce all'”attenzione a non sbrodolare”…
Questa raccolta di interviste sembra rispondere anzitutto a quanti hanno cercato indebitamente nella Rosselli la legittimazione di una poesia intesa ora come libera verbalizzazione di una presunta, santissima verità psichica e ombelicale, ora come presunzione di un contatto magico, sacerdotale con qualcosa di altrimenti insondabile e indicibile, cadendo così in uno dei più infestanti – se preso per questo verso – “poetesi” della nostra poesia degli ultimi decenni. Non sono una “sibilla”, non sono una “veggente” dice la Rosselli. “Non c’è nulla di profetico nei miei versi […]. Ho costruito la mia poesia anche con l’ispirazione, ma non con le “facoltà magiche”. Ho fatto studi di psicologia, perfino di alchimia, e non ci sono cascata”. Sembra di sentire perfino le parole dì un’intervista del grande Auden, il più intelligente dei poeti: “Potevo scegliere diversi modi di drenare una miniera, ma non mi era permesso usare strumenti magici”. Per chi voglia essere un poeta – è la stessa Rosselli a dirlo – “non v’è differenza”,
E questo vale anche in relazione alla questione essenziale della “femminilità” (o, sul piano sociale e politico, del femminismo), su cui la Rosselli torna molte volte, a ribadire che si tratta di una premessa, di una componente, di una motivazione importante ma mai coincidente con un tutto – la sua volontà di essere poeta, la sua poesia – che non ne discende direttamente, quanto la comprende in sé rimanendo comunque una cosa diversa. Così quello che scrive della sua amata Sylvia Plath credo che valga anche, se non di più, per lei, la Rosselli: “non è mai stucchevolmente femminile, non rappresenta mai l’anima femminile come genere in sé. Quando sceglie qua e là metafore e temi di questa natura lo fa per ricordare al pubblico il suo sesso. Ma quando non ci bada non si indovinerebbe mai. Ha una sua virilità femminile”. Come la Rosselli sapeva che una buona causa non basta a scrivere una buona poesia, così era anche consapevole di essere un poeta, un poeta senza aggettivi, un poeta e basta; e come tale voleva essere letta e compresa. La poesia della Rosselli non è – la parola dunque è sua -una poesia di “genere”.