di Valentina Parisi,
«Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo», Bompiani. Origliando dalla viva voce dei protagonisti, e assemblando come in un collage, storie minime di «socialismo domestico», Svetlana Aleksievic prova a guardare l’Urss da una nuova prospettiva
Mosca, casa comune per il Narkomfin realizzata nel 1930 da Moisej Ginzburg e Ignatij Milinis, da «L’Avanguardia perduta», fotografie di Richard Pare, Jaca Book, 2007
(Alias, 12 ottobre 2014)
di Letizia Paolozzi
Immaginate un critico letterario che si sia messo in testa di scrivere – oggi – intorno a capolavori assoluti di ieri. Sarebbe una fatica improba la sua, dal momento che quei capolavori sono stati già rigirati come un calzino. Che altro c’è da aggiungere, che non sia già stato detto o scritto? Eppure Liliana Rampello in Sei romanzi perfetti. Su Jane Austen 2014, il Saggiatore, euro 18,00 (e prima nel Canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura quindi in: Virginia Woolf, Voltando pagina. Saggi 1904-1941) ha deciso una esplorazione dell’architettura narrativa della Austen con una scelta di folgorante semplicità: dare conto di ciò che il pensiero delle donne ha messo in luce: la “differenza” dei due sessi. Anche, ma non soltanto, alle frontiere della letteratura. Una scelta capace di cambiare la prospettiva, facendo saltare i catenacci e i chiavistelli che imprigionano la critica letteraria. Ci previene infatti Rampello che nei romanzi di formazione femminile della Austen (Ragione e sentimento; Orgoglio e pregiudizio; Mansfield Park, Emma, L’abbazia di Northanger e Persuasione) viene abbandonata “l’avventura dell’io” della tradizione maschile, sostituita con una “trasformazione di sé” in relazione con l’altra e l’altro. E’ un annuncio serio, importante. Capace di allargare la dimensione della scrittura e arricchire l’immagine che i vari personaggi – maschili e femminili – trasmettono di sé. Non solo nel rapporto tra i sessi, ma nella fitta rete relazionale e nella concezione di uno spazio teatrale, concentrato in un giardino, in un salotto, dove si addensano sfumature, segni, leitmotiv austeniani. Siamo a cavallo tra Sette e Ottocento. Tuttavia la scrittrice non rimane indietro, agganciata al passato. Dalla sua finestra vede il salto nella modernità. E le colonie, il commercio, gli schiavi. Sull’amore non si sbaglia. Declina scientificamente l’importanza del denaro, in particolare per le ragazze da marito. “Le donne sole, scriverà Austen alla nipote Fanny nel 1817, hanno una spaventosa tendenza a essere povere. Fortissimo argomento a favore del matrimonio”. Eppure, sfortunate rispetto alla collocazione nella scala sociale, queste donne sole godono di una “straordinaria libertà interiore”, tale da renderle “artefici del proprio destino”. Sono assennate, pacate: attente alle regole del mondo e però non subalterne. Quasi sempre non possiedono vitalizi, sterline, ghinee, rendite, terre. Senonché, osserva Rampello con grande sottigliezza, coltivano un obiettivo più grande: il desiderio di felicità. Un desiderio nuovo nell’Inghilterra patriarcale e di classe tra XVIII e XIX. Quanto agli uomini, bé ne incontriamo di sterili, saccenti, arroganti, volubili, tediosi, palloni gonfiati. Ma anche di leali, spontanei, coraggiosi, capaci di fedeltà. Comunque, quell’Inghilterra lì non è la zavorra che Austen vorrebbe buttare a mare. Non le passa per la testa e d’altronde possiede strumenti linguistici capaci di trasfigurare il passato, di andare oltre pur restando agganciata al tempo e al tempo storico. Uno di questi strumenti, importantissimo, consiste nella conversazione, il dialogo che tira i fili della vita dei personaggi. L’altro è l’ironia. Quella “fossetta speciale” che Nabokov rintraccia in Mansfield Park e che fornisce alla scrittrice un ancoraggio contro l’eccesso stilistico e psicologico. Naturalmente, conosciamo lettori dei Sei romanzi perfetti che faticano ad apprezzare il richiamo al decoro, alle convenzioni e lo considerano quasi fosse un invito a danzare la gavotta in un rave-party. Siamo pure al corrente della “ parziale incomprensione maschile”, di quei critici che non mostrano alcun interesse per la presenza, la voce, la mente, il pensiero femminile nell’opera della Austen. Ma proprio per questo il lavoro di Rampello ha tanta importanza. Perché ci dice che la scrittrice va maneggiata con cura. Sempre che vogliamo capire qualcosa degli uomini e delle donne.
Ringraziando la testata, pubblichiamo la versione integrale di un’intervista che Andrea Cirolla ha fatto alla scrittrice vietnamita Kim Thúy sulle pagine del Corriere della Sera, edizione di Milano, in occasione dell’uscita in Italia del suo secondo romanzo «Nidi di rondine». In coda, una nota a margine della presentazione milanese del 24 settembre.
di Andrea Cirolla
«Scrivo perché amo le parole. Sono sempre alla ricerca del sentimento “amoroso” in ogni cosa, nella bellezza fragile di un fiore selvatico sul bordo dell’autostrada come nel movimento di un battito di ciglia. Amo amare».
Alle parole, a certe parole, Kim Thúy – nata a Saigon nel 1968, emigrata in Canada dieci anni dopo – ha dedicato il suo ultimo libro, tradotto da Cinzia Poli per Nottetempo. In forma di sillabario, «Nidi di rondine» racconta la storia di Mãn, una donna che sembra somigliarle molto, per trascorsi e inattese svolte della vita. Lo stesso accadeva rispetto alla storia di Nguyễn An Tịnh, raccontata in Riva, il suo primo libro, un grande successo di critica e pubblico uscito in Italia nel 2010 sempre per Nottetempo (e tradotto con altrettanta grazia da Cinzia Poli). In entrambi i casi non regge invece l’analogia tra i caratteri, ma piuttosto una complementarietà di voci, quando si cerca di ritrovare in quella donna minuta, e insieme florida, e stupendamente comunicativa, le protagoniste dei suoi romanzi. Mãn conduce una vita silenziosa, senza rumori e quasi anche senza voce. Lavora a Montréal nella cucina del ristorante di suo marito, immigrato vietnamita che l’ha portata via con sé da Saigon ottenendola in sposa dalla «terza madre» – «la Mamma» –, dalla quale dopo una «prima madre» – perduta – e una «seconda madre» – fuggita – lei venne salvata. Il silenzio e il ritegno separano Mãn dal mondo dentro il mondo; finché non arrivano Julie, Philippe, Luc, tre personaggi che sono tre rivoluzioni – nell’amicizia, in cucina, nell’amore – e le insegnano la fiducia, e forse a comprendere che si può smettere di difendersi dal mondo, che il mondo stesso è capace di proteggere. Nidi di rondine racconta una maturazione, una fioritura, una delicata riscoperta dei sensi e delle sensazioni, con tutto ciò che questo comporta anche interiormente.
«Amicizia», «Errori», «Ricamare», «Frrr!» sono alcune tra quelle di Mãn. Ma se dovesse scegliere una sola parola che rappresenti la storia di Kim, cioè la Sua storia, che parola sarebbe?
«La parola sarebbe “Innamorata”. Ho scritto delle storie perché mi sono innamorata di un soggetto, oppure ho avuto un colpo di fulmine per un oggetto, o perché un luogo mi ha affascinata. Il sentimento amoroso è sempre la prima motivazione».
Il Suo libro insegna che la liberazione può passare dalle parole.
«La scrittura ci permette di attraversare le frontiere, di saltare oltre le recinzioni, di passare attraverso le sbarre. In «Ru» ho reso omaggio a un prigioniero vietnamita che, durante la sua prigionia, non ha potuto avere che un solo piccolo pezzo di carta e una matita. Egli ha scritto pagine e pagine su questo piccolo foglio, una parola accanto all’altra, una parola sopra l’altra. Questo foglio, questa scrittura, l’ha salvato, lo ha mantenuto sano e soprattutto l’ha aiutato a non perdere la speranza: un sentimento fragile e facilmente distruttibile. Anche Nelson Mandela ha scritto il suo libro in carcere. Mi chiedo se questa scrittura non lo abbia allo stesso modo aiutato a rimanere in piedi. Così come la scrittura ci libera, la lettura ci trasporta. Il potere delle parole scritte è così grande che durante le rivoluzioni, molto spesso, si distruggono i libri. Si può imprigionare, isolare un popolo privandolo della lettura. Nel mio caso, tutti i libri furono confiscati col cambiamento di regime politico del 1975 in Vietnam. In breve, credo che le parole ci liberino perché ci danno il potere di riflettere e la possibilità di sognare».
Mãn è una chef, come lo è stata Lei. Che valore attribuisce alla cucina?
«I piatti, i cibi, portano con sé una grande carica emotiva nel momento in cui evocano spontaneamente dei ricordi. Amiamo un cibo più di un altro non solo per il suo gusto in quanto tale, ma anche per l’emozione che ci offre».
Prima di incontrare Julie e Luc, Mãn sembra vivere perennemente in un distacco, come se fosse sotto anestesia. È qualcosa che si riflette nel Suo stile letterario, nella Sua lingua, così disciplinata. Forse proprio per questo, nei brevi momenti in cui sulla pagina Lei si concede al sentimento della meraviglia, per contrasto la Sua voce acquisisce un volume sbalorditivo, e cresce l’emozione sulla pagina così come dentro il lettore. Insomma, avviene la poesia. Riconosce questa analogia tra il carattere di Mãn e la Sua scrittura?
«Lei è la prima persona che mi ha posto questa meravigliosa domanda! Ha visto giusto. In effetti, c’è un forte senso di distacco. Probabilmente è questa impressione d’essere anestetizzata che genera una scrittura estremamente silenziosa. Non ho mai sentito la voce dei miei personaggi. Sono “muti”… o se non altro io ho l’impressione che i miei libri siano vecchi film in bianco e nero, senza suono… come Mãn. Lei ha ragione: Mãn ha la personalità della mia scrittura. O è la mia scrittura che somiglia alla personalità di Mãn…».
***
L’insegnamento di vedere, ascoltare, sentire Kim Thúy. La sua allegria, contagiosa; il suo entusiasmo; ma soprattutto la sua meraviglia spontanea per ogni fenomeno che il mondo produce e le sottopone, per ogni accadimento. Ieri sera, alla Libreria Coop Statale di via Festa del Perdono, in margine alla presentazione di Nidi di rondine, Kim Thúy s’è messa a parlare delle verdure preparatele da Roberta, un’amica; poi ha raccontato della polenta con schie mangiata a Venezia con Andrea, della casa editrice Nottetempo. In entrambi i casi, la descrizione dei piatti si è presto eclissata dietro il senso di gratitudine per quelle verdure così accuratamente tagliate e presentate, per quei gamberetti minuscoli sgusciati uno per uno (“quante ore di lavoro ci saranno volute!”). Dentro una portata, insieme col risultato, con la resa estetica del piatto, Kim Thúy sembra vedere l’intera genesi, il lavoro dedicato. Non ovviamente nel senso del dettaglio, non ha poteri di sensitiva che le permettano di documentare a posteriori la preparazione, né ci arriva con l’immaginazione; semplicemente non trascura la dedizione che ogni piatto, e a maggior ragione un piatto cucinato con passione (o addirittura con amore), comporta; e sa capire che ogni cibo è in fondo un simbolo, un indicatore, forse una sorta di deittico? comunque qualcosa che non tanto dice quanto mostra l’energia, anzi la forza che ha mosso il cuoco o la cuoca dentro la cucina. Kim guarda quei piccolissimi gamberetti grigi e si meraviglia. La grandezza del dono che ogni cibo – anche se pagato, dentro un ristorante – non smette mai di essere quasi la imbarazza, o se non altro la ammutolisce. È questa sensibilità per ciò di cui il mondo è rivelatore che sbalordisce, ascoltandola. Leggendo il suo libro, annotavo sul mio taccuino qualcosa di analogo, e cioè che la lingua letteraria di Kim Thúy non dice le emozioni, perché questo vorrebbe dire disinnescarle, ma mostra il luogo in cui esse sorgono, così che il lettore possa arrivarci trovandole ogni volta intatte, sempre di nuovo completamente da vivere. Questa è una pratica, e le viene dalla capacità naturale di intuire, nelle espressioni del mondo – ossia nelle cose, in ogni cosa; nelle persone, in ogni persona –, la loro genesi, nel senso che dicevo prima. L’esteriorità delle cose e delle persone è ciò che il mondo offre alla visione; altro è ciò che il mondo rivela o può rivelare. Lei guarda e insieme osserva; e osserva sempre, per così dire, in controluce. Sullo sfondo, senza che la superficie scompaia alla vista, le appare insieme, sincronicamente, il “cuore” delle cose. O così almeno è come io mi immagino che accada. Allo stesso modo, nelle sue storie, il passato remoto (il Vietnam) e il passato prossimo (il Canada, lo stesso luogo del suo presente) fluttuano – «oscillano» è il verbo che torna in entrambe le quarte di copertina dei suoi due libri nell’edizione italiana – fluttuano verso uno stesso punto disciplinati dall’ordine di una dimensione che non è temporale né spaziale, ma è quella delle parole.
di Mara B
È confortante sapere che, oltre a un catalizzatore di clamorose passioni, facili entusiasmi e manifestazioni idolatriche, Jane Austen è ancora il soggetto di una felice e ben riuscita analisi critico-letteraria.
Leggere Sei romanzi perfetti di Liliana Rampello (Il Saggiatore, 2014) mi ha restituito quello che io ritengo il valore più puro e autentico dell’amore per questa scrittrice, ovvero il riconoscimento del suo talento narrativo e stilistico e della perfezione della sua scelta linguistica.
Il saggio, strutturato con estremo ordine, percorre con grande concentrazione le trame del corpus canonico di Austen, ma allo stesso tempo si dedica ad analisi puntuali di un ricchissimo sottotesto teorico. Le citazioni da grandi critici come Auerbach, Moretti, Praz, Steiner, Watt, Woolf e tanti altri, lungi dallo spaventare o allontanare il lettore appassionato, lo attirano verso il discorso aprendogli dimensioni di comprensione forse mai sperimentate prima.
I grandi temi che questo saggio affronta sono importanti per il loro relazionarsi con i romanzi di Austen ma anche per la loro valenza universale: sono la libertà, la parola e il dialogo, la formazione individuale e la coscienza del sé, la convivenza tra uomini e donne nel contesto sociale, il conflitto e l’evoluzione storica delle classi, il rapporto tra evento narrato e luogo della narrazione (il microcosmo della scena e il macrocosmo dello “stato-nazione” europeo). In nome di queste amplissime categorie Liliana Rampello si propone di conoscere, riconoscere e ripresentare i personaggi (soprattutto femminili) di Jane Austen; e le sue argomentazioni, ricche e chiare, si soffermano a illuminare aspetti di Elizabeth, Emma, Anne, Fanny, Mary, Marianne ed Elinor che stimolano le riflessioni anche del lettore austeniano più esperto.
La trattazione più affascinante (perché questo saggio, oltre a essere preciso e competente, è anche “bello” da leggere) è stata per me quella di Persuasione. In Anne Elliot Liliana Rampello vede la personificazione di una “donna nuova” che innanzitutto è il nostro unico veicolo di conoscenza della storia che la vede protagonista, e in secondo luogo è il simbolo dell’affermazione di un’autocoscienza individuale e sociale – quella della “donna” da un lato e quella della nuova classe dominante dall’altro (la borghesia delle “professioni” cui appartiene il Capitano Wentworth, che Anne preferisce a un’aristocrazia ormai esausta).
In conclusione, Sei romanzi perfetti è una lettura decisamente consigliabile, perché ha la virtù di saper accontentare tutti i tipi di lettori: sia coloro che conoscono molto bene Jane Austen sia coloro che l’hanno letta solo raramente; sia chi si lascia avvincere dalla bellezza immediata dei suoi romanzi sia chi vi ricerchi strati più profondi di significato.
da ipsalegit.blogspot.it, 26.09.2014
di Giorgia Serughetti
Ha fatto parlare di sé per la sua ultima trovata: donare il prossimo romanzo a Future Library, un’antologia virtuale di libri che rimarranno inediti fino al 2114. Ma il pubblico italiano non dovrà attendere altrettanto per ritrovare Margaret Atwood nelle librerie. È appena uscito L’altro inizio (Ponte Alle Grazie), volume che conclude la trilogia post-apocalittica di Adamo Pazzo inaugurata nel 2003 con L’ultimo degli uomini, seguito poi da L’anno del diluvio (2009).
L’autrice sarà a Roma al Teatro Argentina il 17 settembre per il Festival delle Letterature e poi a Pordenone il 20 nell’ambito di Pordenone Legge. Con i suoi 75 anni d’età e un record di oltre 25 libri tra romanzi, racconti e poesie, Margaret Atwood, nata a Ottawa nel 1939, è un’autrice poliedrica, più volte candidata al Nobel per la letteratura, femminista e ambientalista, maestra di commistioni tra i generi e di variazioni di stile. Il suo primo libro, Double Persephone, è del 1961, mentre già dagli anni ’50 si conosce il suo impegno a favore della liberazione delle donne, in anticipo rispetto alla “seconda ondata” del femminismo.
In occasione di questo che è il suo primo (seppure tardivo) tour in Italia l’editore Ponte Alle Grazie ripubblica il capolavoro vincitore del Booker Prize 2000, L’assassino cieco: un romanzo costruito attraverso l’intersezione di diversi piani narrativi, in equilibrio tra saga familiare al femminile, thriller e racconto fantastico. Ma la novità più attesa è L’altro inizio, che conclude un brillante ciclo di fantascienza ambientato tra le macerie di una civiltà futura, dominata dallo strapotere delle aziende di biotecnologie.
Nel futuro immaginato da Atwood i poteri economici hanno esautorato la politica, la polizia è al loro servizio, i ricchi delle corporation vivono in “recinti” protetti e intorno si estendono le “plebopoli” dove si svolge ogni altro genere di attività criminale, dal traffico d’organi ai cambi di identità clandestini.
Un giovane cervellone, animato da fantasie palingenetiche (quel Crake che dà il titolo al primo volume della trilogia in inglese, Oryx and Crake), fa piazza pulita di questa degenerazione, mettendo al mondo al suo posto una specie umana transgenica (quella dei craker, naturalmente) di imbarazzante perfezione, a cui sono ignote violenza e fame, che si accoppia solo a scopi riproduttivi e vive in armonia cantando e brucando erbe selvatiche.
Non tutti gli umani del passato, però, sono scomparsi. Tra i sopravvissuti ci sono vari esponenti dei Giardinieri di Dio, ecologisti un po’ fanatici (e per questo bersaglio della caratteristica ironia dell’autrice) che si preparavano da tempo al “diluvio senz’acqua”. E ci sono i cattivissimi Painballer, criminali sopravvissuti all’ultima evoluzione dell’istituto carcerario, il Painball, un campo di battaglia in cui è consentita – anzi auspicata – l’eliminazione reciproca (ed è subito reality show di intrattenimento per i potenti).
Come spesso nei libri della Atwood sono le donne i personaggi che tessono la storia. Se il famoso Racconto dell’ancella del 1985 le vedeva vittime di un potere totalitario deciso ad annullare ogni loro libertà riducendole a contenitori riproduttivi (una distopia che ricorda fin troppo da vicino ciò che avviene realmente in molte parti del mondo, per esempio sotto le bandiere dello Stato islamico), nella trilogia le donne, pur subendo insensate violenze, diventano le pioniere della nuova era e le principali depositarie di ciò che resta della civiltà umana, in particolare la scrittura e la capacità di memoria.
Quando ha accettato di partecipare al progetto Future Library, la scrittrice canadese ha dichiarato: «Sono veramente onorata e felice di prendere parte a questa impresa. Almeno il progetto ha fiducia che tra cento anni ci saranno ancora esseri umani in circolazione!». Se così sarà, possiamo stare certi, sarà merito delle donne. Almeno, se vogliamo credere alle narrazioni visionarie di Margaret Atwood.
di Alessandra Pigliaru,
Sei romanzi perfetti. Saggio su Jane Austen, verrà discusso in presenza della sua autrice Liliana Rampello al Festivaletteratura di Mantova oggi, alle 17.15, presso il cortile dell’Archivio di Stato, all’interno di una serata intitolata «Riscrivere la vita di una scrittrice famosa». Parteciperanno Sandra Petrignani, che racconterà di Marguerite Duras, e Anita Raja, traduttrice italiana di Christa Wolf. L’introduzione sarà a cura di Annarosa Buttarelli.
In che senso lei sostiene che Jane Austen tiene tra le sue mani il desiderio di felicità di una donna?
La felicità mi è sembrato il tema centrale di tutte le narrazioni di Austen perché lei ha in mente di raccontare le forme che può prendere la libertà femminile in un contesto di necessità. La sua scrittura ha la forza che nasce dal racconto della materialità delle vite senza che mai questa sia un condizionamento definitivo. E lo fa a partire da sé. È una scrittrice non della emancipazione ma della libertà: scrive sapendo che a fare la differenza non è la «condizione patita», ma la posizione che come autrice sceglie. E la libertà che regala a se stessa è la medesima che regala alle sue protagoniste e a noi che leggiamo, dandoci la possibilità di interrogare anche il nostro presente.
Mi ha sempre appassionato la sua straordinaria modernità, la capacità di aver capito il suo tempo, quel mercato matrimoniale che nasconde una verità profonda: ovvero come alla base del contratto sociale ci sia il contratto sessuale. In questa intuizione è chiaro come lei abbia capito i meccanismi generali del mercato in sé, ovvero che si contratta da ciò che si ha e da ciò che si è; ed è solo imparando a conoscere questo meccanismo che le sue ragazze riescono a diventare protagoniste del proprio destino. Benché sia stata spesso considerata come una scrittrice indifferente alla grande Storia, in realtà ha colto l’essenza di una società divisa in classi e dominata dal patriarcato. Ma aggiungerei anche che la libertà di una donna, la sua ricerca di felicità, il riconoscimento del desiderio come movimento verso l’altro e verso il mondo, la capacità di scelta, il buonsenso come esercizio dell’intelligenza, la possibilità dell’errore, sono tutti segni della sua grandezza ancora oggi.
Nel suo libro lei spiega il passaggio da un’apparente «economia domestica» a una più ampia economia delle relazioni…
Nel momento in cui ho pensato che Jane Austen stesse scrivendo un romanzo di formazione femminile mi sono resa conto che questo avveniva perché solo attraverso una vera e propria presa di coscienza, e accompagnata da un’altra donna, la sua protagonista può acquisire la capacità di giudizio sufficiente a scegliere liberamente un buon marito ed evitare la «sventura». Questo passaggio, se da un lato contrasta fortemente ogni sentimentalismo e fantasticheria femminile, dall’altro indica con altrettanta chiarezza la capacità di Austen di mettere al centro del mondo le relazioni che legano le donne fra loro e le donne con gli uomini. Qui ci sono il piacere, il desiderio, la sensualità, l’erotismo e la sessualità: insomma le passioni, una straordinaria comprensione di tutti i sentimenti che legano i due sessi in amore e in conflitto.
Allora è proprio leggendo i suoi romanzi che possiamo conoscere Jane Austen?
La sua vita è stata molto comune, nessun elemento di eccezionalità, nessun eroismo. Non c’è nulla di nuovo dal punto di vista della sua biografia; c’è piuttosto da far vedere quanto tutti i suoi temi siano una vera e propria autobiografia. È lì che noi troviamo la sua lingua (di donna molto ironica), il suo sguardo (di donna acuta e spietata osservatrice), la sua intelligenza (di donna di buonsenso e allegra), la sua capacità di giudizio (inflessibile, sicuro, spregiudicato nel disegno preciso di una società senza dubbio patriarcale e divisa in classi).
Lei si è occupata lungamente di Virginia Woolf. La continuità simbolica tra Woolf e Austen la possiamo riconoscere per via della genealogia femminile e di una tradizione di scrittrici precedenti, sia per lo stesso interesse che muove Woolf verso Austen in più di un’occasione…
Credo ci siano delle comunanze tra le due: la più importante è che entrambe non sono scrittrici dell’emancipazione ma della libertà femminile. Pensiamo solo a come la passeggiata solitaria che non manca mai per ogni protagonista dei romanzi austeniani, e nasce subito con Marianne in Ragione e sentimento, sia di fatto un antecedente di Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, perché è utile a far pensare con la propria testa quando si è confuse, quando si ha bisogno di solitudine, quando si ha bisogno di consistere in sé. Passeggiata e stanza sono vere e proprie invenzioni simboliche.
La centralità della conversazione permea tutte le narrazioni austeniane. Cosa prende forma attraverso questi magnifici dialoghi?
Innanzitutto, attraverso la conversazione lei si presenta a noi come una vera e propria erede di Shakespeare, nell’uso magistrale dei dialoghi, nel tempo delle battute e nel ritmo della lingua. Ma ancora più importanti mi sembrano altre questioni. Nei suoi romanzi non esiste conversazione se non in presenza di una donna. La conversazione fa progredire la trama come fosse un’azione vera e propria, per la formazione di una donna non c’è qualcosa da «fare» chissà quando e chissà dove nel mondo, ma qualcosa da «dire», che va detto, esattamente in quel tempo, che sono i giorni, e in quel luogo, salotto, giardino o stradina di campagna che sia. Questo uso della lingua mostra una maestria politica impareggiabile, in scena ci sono due soggetti differenti, entrambi attivi nello scambio, entrambi parlanti, e così muore ogni pretesa monologante e fonologica del maschile universale.
In che senso si riconosce a Jane Austen «la stessa condizione nella quale scriveva Shakespeare», ovvero «senza odio, senza amarezza, senza paura, senza protestare, senza far prediche»?
Questa constatazione è stata fatta da Virginia Woolf in La stanza tutta per sé, dopo aver affermato che, in Jane Austen, genio e condizioni di vita «si accordavano completamente», esattamente come in Shakespeare. È un’affermazione condivisibile se pensiamo che anche Jane Austen trascende la propria condizione materiale nello slancio di una mente «androgina» che vuole guardare l’infinito della sua libertà, ovvero non dimentica di essere una donna, ma trascende il suo sesso facendone la leva di una libera interpretazione del mondo.
Come viene accolto un volume di critica letteraria in Italia oggi?
Non mi sembra ci sia una grande attenzione. Sicuramente, ha a che vedere anche con la trasformazione dei programmi scolastici e universitari e delle stesse discipline. Questo incide sullo studio della letteratura che, a mio avviso, è uno dei più importanti ambiti in cui si possono conoscere e studiare le relazioni umane. L’indifferenza verso lo sviluppo di uno strumento come quello della critica letteraria riduce la possibilità di capire la straordinaria ricchezza dei linguaggi della narrazione, con la loro capacità di interpretare la realtà che ci circonda. In realtà sarebbe un momento necessario di ogni percorso di conoscenza.
(il manifesto, 6 settembre 2014)
Di Monica Giachino
Cifra e pregio di questo esile e solido volumetto, racconto autobiografico di una malattia
che colpisce all’improvviso e invalida e spezza lo scorrere dell’esistenza, è la brevitas che nella forma e nella sostanza nulla concede all’ornato.
Nelle poche righe del Prologo, quasi citazione posta in esergo, una donna cerca compulsivamente la sequenza di un film che continua a tornarle alla mente, perché sa che in qualche modo la riguarda. Quello che le interessa sono due battute del dialogo tra un adulto e un ragazzo che ha tentato di morire. Le trova e le trascrive, per non dimenticarle. Dice l’adulto: «Io credo che ci sia una specie di velo tra le persone e la morte. A volte succede che questo velo si tolga all’improvviso… e così vediamo la morte. Per un attimo la vediamo chiaramente. Poi questo velo si rimette in posizione e torna tutto a posto. Riprendiamo a vivere». Risponde il ragazzo: «Tu credi?».
Intorno alla domanda «Tu credi?», e soprattutto intorno alla difficile risposta, si organizza
per venti capitoletti la storia di due anni: la malattia che colpisce in un giorno qualunque,
fitto di impegni come di consueto («lei stramazzata nel pieno della sua vita attiva»); il ricovero e la diagnosi; i mesi di degenza ospedaliera e la difficile riabilitazione; il rientro
a casa e il ritorno ad una vita normale che normale non riesce ad essere perché è necessario imparare nuovi gesti, convivere con i limiti di un corpo che imprigiona, reinventare un’esistenza possibile.
Tam tam è insieme biografia di sé e di tanti, scrittura come terapia, certo, ma soprattutto
come testimonianza. In tale direzione vanno la scelta efficace di raccontare l’“io” in terza persona e la rinuncia alla valenza identitaria dei nomi propri. C’è una “Lei”, c’è un “Lui”, un ma rito che resta accanto. C’è una folla di persone, appartenenti al prima o al dopo, tutte ritratte per cenni, per segmenti minimi e incisivi che si compongono in uno stilizzato mosaico di figure e di storie: i compagni d’ospedale, quelli incontrati durante la lunga riabilitazione, le infermiere, i terapisti. Ci sono soprattutto le amiche, inaspettatamente tante: «l’amica che per lei è come una sorella», «la compagna di cinema», quella che è «la donna più buona che c’è», l’«amica dei tempi della militanza», quella con «la macchina vintage e un fiocco rosso sull’antenna». Amiche capaci di far risuonare lo strumento
antico di comunicazione e di chiamata a raccolta che dà il titolo al libro, il tam tam appunto, e di confermare una rete salvifica di solidali affetti.
Vita Cosentino racconta una vicenda di dolore fisico e intellettuale («il corpo è così ingombrante che le toglie anche le energie mentali […]. I progetti non hanno gambe per camminare e non ne vede più il senso») ma anche una storia di coraggio nell’affrontarli e nell’opporsi con «un’ansia di vivere prepotente, quasi provocatoria» al «tempo scandito dai rituali della malattia, tempo di azioni ripetute sempre uguali, tempo schiacciato sul presente, tempo vuoto», tempo che è necessario ritrovare, ricalibrato.
In un saggio sulla comunicazione linguistica nell’età presente Vita Cosentino aveva parlato
della «rinuncia a dire tutto, per dire “qualcosa”, che faccia corpo vivo con la propria vita, con la propria esperienza, con il proprio sentire emozionale» (Lettera a una professoressa riletta da una professoressa). Questa regola presiede alla scrittura di Tam tam. Il racconto procede per sottrazioni: non c’è un “io” invadente, non ci sono nomi, l’aggettivazione è selezionata con rigore. La prosa privilegia la paratassi ed è tesa a nulla concedere al patetico o all’effusione sentimentale. Gli squarci lirici sono sorvegliati con attenzione e prontamente chiusi da una nota ironica o da una cruda sferzata. Un esempio, l’inattesa fioritura di papaveri che accoglie la protagonista nel giorno del primo anniversario della malattia: «Abita in quella casa da ventisette anni, è passata vicino a quel campo migliaia di volte e non aveva mai visto un papavero. Quel 16 maggio invece è tutto un occhieggiare di bottoni rossi, ora aggrumati, ora più radi. Lei non ne aveva mai visti tanti tutti insieme, neanche da bambina. […] Adesso ha voglia di ridere e di abbracciare l’amica che l’ha portata fuori di casa». Immagine immediatamente smorzata dal commento che segue e sigilla il capitolo: «Il 16 maggio puntualmente torna dopo dodici mesi, ma di papaveri in quel campo neanche l’ombra».
Alla vita andata in frantumi e alla fatica di rimettere insieme pezzo su pezzo fa riscontro la
sapiente e simbolica circolarità della struttura narrativa. Sul risveglio la mattina del primo anniversario della malattia si apre il libro. Su un risveglio notturno, un altro anno è passato, il libro si chiude. La notte ha portato in sogno la figura della madre da giovane. La sequenza riprende simmetrica quella del campo di papaveri delle prime pagine, con un affine cambio di registro in clausola: la madre ha accanto a sé «un cespuglio di piante umili: ogni stelo sulla sommità si divide e ripiega in tre cimette fiorite. […] le indica e dice: “Ci sono ancora piccoli fiori bianchi che devono sbocciare”. / Fine del sogno. / Si alza con la sua stampella e va in bagno».
Pubblicato sulla rivista l’immaginazione” n. 282 – Luglio-agosto 2014 (Manni editore)
di Elena Stancanelli
Scrive Luisa Muraro nell’introduzione a Esistenzialisti e mistici che l’autrice, Iris Murdoch, appartiene a un ristretto gruppo di intellettuali che la seconda guerra mondiale portò a un ripensamento della nostra civiltà. Una generazione formatasi «nel cuore drammatico del secolo», composta in prevalenza di donne, Etty Hillesum, Simone Weil, Anna Maria Ortese, che raccontò, sfiorandola, la crisi della modernità.
Nata a Dublino nel 1919, Murdoch studiò prima a Oxford e poi a Cambridge, dove fu allieva di Wittgenstein. Divenne professore di filosofia, e pubblicò saggi e opere di narrativa. Il suo modello, nel coniugare le due competenze, fu l’esistenzialismo. Simone de Beauvoir, Sartre, i filosofi narratori. Ma Murdoch — si può dire? — scrive meglio, la sua scrittura è vivacissima, sorprendente, la sua lingua è leggera. Shakespeare, più Austen, più Proust e un po’ di Virginia Woolf, «the darling, dangerous woman», come la definiva la stessa Murdoch. Insieme alla raccolta di scritti filosofici, Il Saggiatore ripubblica un romanzo, L’incantatore . Ottima scelta, che ribadisce una doppia vocazione di pari intensità. Spiega ancora Muraro nell’introduzione che Murdoch usava una formula per definire il suo pensiero: c’è più di questo. «Più di quello che possiamo constatare, più di quello che le filosofie del nostro tempo ci fanno vedere, ma anche, sullo sfondo, più di quello che possiamo dirne », scrive Muraro. «C’è più di questo» è una dichiarazione di poetica, che apre alla metafisica, a Platone, l’amore per la mistica. Murdoch si invaghisce del concetto di santità (e come non pensare a Ortese…) e osa riconoscere il valore cognitivo dell’amore. «Bisogna essere buoni, senza secondi fini », scrive, «per ragioni immediate e ovvie, perché qualcuno ha fame, o perché qualcuno sta piangendo». Ma «c’è più di questo» è anche il sintomo di una smania esistenziale, che si tradurrà in una vita piena e larga.
Nella conversazione con Bryan Magee che apre la raccolta Esistenzialisti e mistici (che fu trasmessa per la prima volta alla televisione nel 1977) la scrittrice affronta la questione della narrativa, parla della diffidenza morale dei romanzieri novecenteschi impegnati a confrontarsi con un mondo franto, che non offre più la possibilità di uno scontro leale. Niente più eroi, quindi, e una nuova bruciante passione per i personaggi mediocri. Oggi il giudizio è sempre incerto, siamo quello che resta dopo la dissoluzione della religione e delle gerarchie sociali. Il grande scrittore deve diventare un giudice giusto e intelligente, che non si lascia offuscare da ossessioni personali, ma ascolta e lavora, fa muovere la storia. Ma attenzione alla fantasia, perché «la fantasia è un’astuta e potente nemica dell’immaginazione». Murdoch prova a ripensare la civiltà, come scrive Muraro, ma partendo dall’individuo, battendosi contro quella bastarda vocazione alla minuscolaggine che ha afflitto il nostro secondo Novecento. Quella tensione a non esistere, a sottrarsi, a cancellare la propria vita esauriti in una tensione nervosa, divenuta presto l’unico materiale letterario possibile.
Murdoch si sposò molto giovane con un altro scrittore, John Bayley, che le rimase accanto tutta la vita. Ed è l’autore della sua biografia, Elegia per Iris , divenuta un bel film con Kate Winslet e Judy Dench che si alternano nel ruolo della scrittrice. Scrisse decine di romanzi, visse una vita apparentemente poco avventurosa, si ammalò di Alzheimer, morì nel 1999, prima di compiere ottant’anni. Ma chi la conobbe racconta che fu una donna, oltre che una scrittrice, di impressionante potenza. David Morgan, che fu suo allievo e amante, la descrive nel libro che raccoglie il loro carteggio, With Love and Rage. Lo dicono i suoi amori, sovrapposti al matrimonio, da Elias Canetti a Raymond Queneau, oltre all’amica/amante Philippa Foot, filosofa a sua volta, che l’ha accompagnata per sessant’anni. Visse, amò, insegnò ma fu soprattutto una vera romanziera, come dimostra la lettura de L’incantatore , che ha una prefazione di Peter Cameron.
L’“incantatore” è Mischa Fox, quello di cui tutti si innamorano e che guida i destini incrociandoli, arruffandoli. Che colpisce e scompare, lasciando il laido Calvin Blick a ricomporre i cocci o gettarli definitivamente. Come tutti i seduttori, Mischa Fox appare per ultimo nella storia, preceduto dalla sua fama un po’ fascinosa e un po’ sinistra. Nessuno sa dire cose precise della sua vita: quanti anni ha, da dove viene, dove è nato, che sangue scorre nelle sue vene. Anzi, dicono che se soltanto qualcuno cerca di immaginarlo rimane paralizzato, come chi guardi negli occhi Medusa. Siamo a Londra, nel dopoguerra, in una comunità di eccentrici nullafacenti: Annette che colleziona pietre preziosissime salvo poi liberarsene gettandole nel Tamigi senza alcuna vera ragione; Nina la sarta; Peter che studia la scrittura di una civiltà sepolta sperando di riuscire a decifrarla prima che qualcuno trovi una stele bilingue rendendo i suoi sforzi inutili; John Rainborough, un fastidioso dirigente di qualcosa che compie azioni sconsiderate una dopo l’altra; Hunter, a capo di “Artemis”, una rivista femminista, e sua sorella Rose che è l’amante di due brutali fratelli polacchi. Viviamo in un mondo che sta diventando assurdo come quello di Kafka, scrive Murdoch, ma noi, a differenza degli eroi di Kafka, «non siamo rassegnati all’assurdità e soltanto nel non rassegnarci risiede la nostra possibilità di salvezza».
(la Repubblica – 30/7/2014)
di Alessandra Pigliaru
Saggi. «Le virtù della resistenza» della studiosa statunitense Carol Gilligan per Moretti&Vitali. Un testo che tesse una fitta trama multidisciplinare per svelare la genesi femminista di una teoria radicale della resistenza al potere
È il 2009 quando Carol Gilligan, psicologa e ricercatrice statunitense nota grazie al suo fortunato libro del 1982, In a different voice (Con voce di donna), decide di riprendere alcuni temi ricorrenti della sua ricerca: anzitutto proseguire il lavoro cominciato più di vent’anni fa intorno all’etica femminista della cura. A riguardo, l’arcipelago di idee è piuttosto complesso: la voce, l’ascolto e il riconoscersi già e sempre in relazione, non l’hanno mai abbandonata e vanno a comporre il libro pubblicato nel 2011, Joining the resistance (Polity Press) appena tradotto in Italia da Marta Alberti e Silvia Zanolla con il titolo La virtù della resistenza (Moretti&Vitali, pp. 167, euro 16) e un’introduzione di Federica Giardini alla quale è allegata anche un’utile bibliografia ragionata.
Al centro della riflessione di Carol Gilligan ritorna dunque la voce, per significare al contempo un pensiero già incarnato e un conseguente rifiuto dell’astrattezza del sé – tanto caro alla psicologia. Il dato è dirimente giacché la voce di cui parla l’autrice non attiene solo al fenomeno fisico dell’emissione vocale, bensì alla parabola stessa della libertà e della autenticità delle relazioni.
C’è dunque una posta politica che passa per la voce e che diviene la tessitura del nostro stesso agire. La virtù della resistenza viene sottotitolato con tre punti nodali che corrispondono ad altrettante idee percorse da Gilligan. Resistere, prendersi cura, non cedere sono infatti la rappresentazione di dove la voce si sia depositata. Di dove si agiti il linguaggio e il suo corpo desiderante. Di dove si sia nascosta e da dove non intenda scomparire. Rispetto al tema della resistenza, Gilligan mostra l’ampiezza semantica del termine che risponde ad una plurale declinazione politica – quando quella voce dice la verità in faccia al potere -, e psicoanalitica – quando resistere significa riluttanza ad accogliere nella coscienza contenuti rimasti fuori di essa. È opportuno segnalare come la resistenza politica per Gilligan ha a che fare con la resistenza al disagio. In questo passaggio le esperienze riportate sono numerose: penso alle sue interviste alle adolescenti e alla scoperta di una reciprocità della relazione tra le insegnanti e le studenti che apre all’ipotesi di un’interrogazione profonda delle pratiche, anche politiche.
L’implicazione tra voce e resistenza comincia dall’emersione di alcune domande: «chi parla e a chi? In quale corpo? Raccontando quali relazioni? All’interno di quali strutture sociali e culturali?». In un orizzonte che non si lascia sclerotizzare dalla neutralità della psicologia classicamente intesa, si fa spazio la domanda sulla resistenza: resistere a che cosa e a chi, infine? Per comprendere le direzioni racchiuse in una questione simile, Gilligan studia la dissociazione, punto di rottura che risente della separazione tra pensiero ed emozione. Si colloca così in una soglia già contaminata da un sapere transdisciplinare e, senza alcuna esitazione, crea intersezioni tra psicologia, psicoanalisi, filosofia, letteratura, poesia, teatro insieme alle stesse vite di chi le si mostra dinanzi, compresa la propria. Sembra infatti che il punto più interessante stia proprio qui: quel che non si lascia categorizzare né controllare appartiene all’ascolto, allo scambio empatico in presenza. Ciò accade nella relazione politica, terapeutica, di orientamento didattico, di sondaggio conoscitivo o semplicemente tra donne e uomini; il progetto che spinge in avanti è l’ipotesi di non abdicare alla propria parte autentica in nome di una separazione gerarchica che fa il gioco patriarcale.
Nelle adolescenti, ricorda Gilligan, l’iniziazione al patriarcato è accolta come l’imporsi della rottura di relazioni significative in nome dell’onore, della norma sacrificante e dell’affermazione sociale. È proprio in questo rilievo che le ragazze custodiscono la voce più profonda di se stesse, spesso «sepolta ma non perduta»; resistono un momento prima di diventare donne – laddove donne ha la doppia accezione di guadagno trasformativo e di pericolo verso un’adesione alle regole imposte. Non si tratta tuttavia della mancata comprensione dell’ordine sociale che detta la crescita, bensì di un percorso che Gilligan intraprende per mettere in scena relazioni che contano, di qualità, e che hanno la forza di sottrarsi alla logica scadente del patriarcato — o forse dovremmo dire di ciò che di esso sopravvive. Come viene notato finemente da Alberti e Zanolla, la categoria del «genere» è trattata da Gilligan sia come dispositivo rinforzante i canoni identitari sia come qualcosa che corrisponde più alla differenza sessuale e incarnata di uomini e donne.
«In una cornice patriarcale la cura è un’etica femminile. In una cornice democratica la cura è un’etica dell’umano (…) Prendersi cura esige attenzione, empatia, ascolto, rispetto (…). È un’etica relazionale basata su una premessa di interdipendenza. Non è altruismo». L’etica femminista della cura occorre per liberare la democrazia dalla morsa del patriarcato, laddove quest’ultimo ha una stretta correlazione con la frammentazione della psiche e quindi con il trauma.
L’analisi degli albori della psicoanalisi serve a ravvisarne i cortocircuiti: per esempio quando Freud interrompe una certa forma di intimità psichica e di relazione con le sue pazienti per allinearsi alla cultura patriarcale come fatto naturale; quando cioè accetta l’equivalenza tra la voce del padre e l’autorità morale. In fondo, e non solo secondo Gilligan, Freud dopo essersi accecato da sé come Edipo, pretende che le sue figlie lo accompagnino nella sua cecità. Sofferenza e nevrosi sono ovviamente comprese nel prezzo da pagare. Tuttavia è pur vero che questa non è l’unica storia di cui possiamo avvantaggiarci oggi. Su questo punto, per esempio, come ricorda Federica Giardini nella sua introduzione «Il continente nero di cui la psicoanalisi – in modo analogo ai saperi basati sull’individuazione e la contrapposizione tra il sé e gli altri – non riusciva a dare conto è la relazione costitutiva tra madre e figlia. Una relazione che non può venire meno, pena la sofferenza psichica e fisica, e che non riesce a svilupparsi secondo le regole dell’identificazione maschile, il passaggio ciò dall’attaccamento fusionale alla madre alla separazione che avviene attraverso l’intervento del padre». La decostruzione svolta durante gli anni Settanta, soprattutto grazie al femminismo, ha mostrato che nonostante il nodo edipico esiste dunque qualcosa d’altro e che la frammentazione della psiche come specchio dominante non ha impedito di significare un’altra narrazione e pratica relazionale. Esiste appunto una scena differente illuminata da alcune autrici, da Luce Irigaray a Luisa Muraro, che simbolicamente è stata assunta anche nel lavoro di Carol Gilligan. Forse perché lei non ha ceduto? La domanda è: siamo disposte e disposti anche noi a non cedere?
il manifesto 16/07/2014
di Sthephanie Hanes
Nadine Gordimer, la scrittrice sudafricana vincitrice del premio Nobel la cui prosa intensa e intima ha aiutato a mostrare l’apartheid ai lettori di tutto il mondo, e che ha continuato a illuminare la bellezza e brutalità del suo paese ancora dopo la caduta del governo razzista, è morta il 13 luglio nella sua casa di Johannesburg. Aveva 90 anni. La sua famiglia ha annunciato la morte senza rivelarne le cause.
Gordimer, che era bianca, fu una precoce e attiva militante del partito dell’African National Congress, ma non partecipò alla scrittura dei suoi documenti politici. Il suo ruolo da autrice, diceva, era solo «scrivere a mio modo più onestamente che posso e profondamente quanto riesco della vita intorno a me».
I suoi personaggi dai nobili ideali avevamo spesso limiti personali; gli uomini d’affari razzisti e indifferenti avevano la stessa complessità e profondità dei combattenti per la libertà. Il conservatore, che vinse il Booker Prize nel 1994, racconta uno dei personaggi meglio definiti di Gordimer, un industriale bianco che ha acquistato una grande fattoria fuori Johannesburg, anche per usarlo come sede di appuntamenti con la sua amante sposata e politicamente radicale.
Un altro romanzo famoso, La figlia di Burger, pubblicato nel 1979, segue le fatiche personali e politiche di Rosa Burger, figlia di un medico carismatico e attivista anti-apartheid afrikaner che morì in carcere. In un paese definito dalla propria intensità politica, Rosa conclude che «il vero significato della parola solitudine» è «vivere senza responsabilità sociali».
Il romanzo del 1981 Luglio racconta la storia di una famiglia bianca liberal che scappa da un’immaginaria rivoluzione violenta contro l’apartheid e finisce nel villaggio del suo ex-servitore, Luglio.
Dal romanzo del 1958 Un mondo di stranieri, che descrive i futili tentativi di un giovane uomo d’affari inglese di conservare dei legami tra i bianchi e i neri in Sudafrica, a Ora o mai più del 2012, che segue una coppia interrazziale che cerca di affrontare la problematica società post-apartheid, Nadine Gordimer ha sempre scritto senza risparmiarsi di razza, identità e luoghi, e di come sistemi politici repressivi incidono sulle vite e sulle relazioni delle persone.
«Sa rendere visibili le condizioni di vita terribilmente disumane ed estremamente complicate in un sistema di segregazione razziale», disse il segretario dell’Accademia Svedese Sture Allen nel consegnare a Gordimer il premio Nobel per la letteratura nel 1991. «In questo modo, si fondono arte ed etica». Stephen Clingman, professore all’università del Massachusetts ed esperto del lavoro di Gordimer, spiega che per Gordimer “la politica è carattere psicologico”. «Sapeva che se vuoi capire qualunque personaggio, bianco o nero, devi saper comprendere il modo in cui la politica entra nell’individuo».
Il governo segregazionista, che imponeva censure molto capricciose, vietò quattro dei suoi romanzi con differenti accuse di sovversione. Nel suo discorso per il Nobel, Gordimer disse: «Questa nostra impresa estetica diventa sovversiva quando i vergognosi segreti del nostro tempo sono esplorati in profondità, con l’integrità ribelle dell’artista nei confronti della vita attorno a sé. E allora i temi e personaggi dell’autore sono inevitabilmente formati dalle pressioni e distorsioni della società, così come la vita del pescatore è determinata dalla potenza del mare».
Nadine Gordimer era stata la fondatrice del Congress of South African Writers, a maggioranza nera, e aveva tra i suoi più intimi amici intellettuali come Edward Said e Susan Sontag. Per quanto leale amica e maestra di coloro che riteneva meritevoli della sua attenzione, era anche nota per la sua impazienza con chi trovava noioso. Era insofferente delle prudenti sensibilità dei “bianchi liberal” e preferiva definirsi una “radicale”, mostrandosi infastidita dalle ansiose attenzioni alle fatiche dei bianchi nel Sudafrica post-apartheid. Si era rifiutata di trasferirsi in un quartiere protetto di Johannesburg, anche dopo essere stata derubata con la forza del suo anello di nozze e chiusa in un ripostiglio durante una rapina nella sua casa nel 2006. Dopo ciò riconobbe la gravità del problema della criminalità nella sua città, ma espresse anche comprensione per i rapinatori. «Penso che dobbiamo guardare le ragioni del crimine», disse al Guardian: «Ci sono giovani che vivono in miseria e senza prospettive. Hanno bisogno di istruzione, formazione e lavoro».
Gordimer era alta un metro e cinquantacinque ma aveva quella che qualcuno definì “la fierezza attentamente curata di chi è fragile”. Malgrado la sua piccola statura, sapeva infliggere uno sguardo pungente e intimidatorio a chi suggeriva che i suoi libri parlassero di persone o eventi reali, ripetendo che le sue storie erano pura finzione, e che secondo lei proprio questo rendeva la sua scrittura più “vera”. Le storie, spiegava, danno sguardi più chiari sulle politiche e le scelte, e sul loro duraturo impatto sulle vite delle persone: più delle biografie o dei saggi giornalistici. «Ci faceva vedere cose della politica che la politica non avrebbe saputo descrivere», dice Clingman.
Nadine Gordimer era nata il 20 novembre 1923 fuori Johannesburg, nella città mineraria di Springs, un posto di “praterie bruciate, discariche minerarie e colline di carbone”, nelle sue parole. «Non un luogo romantico», disse durante una presentazione a Cape Town nel 1977, intitolata Cosa è per me il Sudafrica. «Non un panorama che gli europei riconoscerebbero come Africa. Ma è Africa. Per quanto lo trovi duro e brutto, e per quanto l’Africa per me sia diventata molte altre cose, quello è il mio primo impatto con la vita; tutto quello che ho visto e conosciuto dopo è cresciuto da lì».
I suoi genitori erano immigrati ebrei – sua madre inglese, suo padre lituano – non praticanti e, diceva lei, terribilmente borghesi. Da bambina prese lezioni di danza, frequentò la scuola di un convento e fu avvisata di stare attenta alle baracche dove vivevano i minatori neri, quando attraversava la prateria per andare a scuola. A 11 anni le fu scoperto quello che più tardi risultò un problema al cuore non grave. Ma sua madre – che lei descrisse come una donna energica ma annoiata dalla sua vita – la tolse da scuola e dalle sue amate lezioni di danza, e assunse un tutore tenendola “a riposo” per anni. «Di questo misterioso male ora posso parlare», disse in un’intervista del 1976: «Dopo essere cresciuta capii che aveva a che fare con l’atteggiamento di mia madre nei miei confronti, che lei allevò quello che probabilmente era una cosa passeggera e ne fece una lunga malattia, per tenermi a casa, per tenermi con sé».
Fu in questo strano isolamento forzato – sempre con gli adulti e passando i pomeriggi a leggere con sua madre – che Gordimer cominciò a scrivere. Pubblicò racconti nella sezione per ragazzi di un giornale locale e a 15 anni scrisse il suo primo articolo per un pubblico adulto. Catturata dall’idea di diventare una scrittrice, Gordimer si trasferì a Johannesburg. Frequentò corsi all’università per circa un anno ma imparò di più frequentando la scena artistica del multirazziale quartiere di Sophiatown. Antony Sampson, direttore della rivista per neri Drum, diventò uno dei suoi più stretti e fidati amici. C’è una seconda nascita che poteva accadere ai sudafricani, disse una volta Gordimer parlando all’università di Cape Town: la presa di coscienza che l’apartheid non è un ordine del mondo di natura divina, fisso e immutabile. Spiegò diversi momenti attraverso i quali lei aveva iniziato ad aprire gli occhi sulla terribile natura dell’apartheid: i disumani raid nell’alloggio della sua tata nera, dietro casa dei suoi genitori, e di fronte ai quali loro rimanevano impassibili e silenti; la scoperta che i minatori neri che frequentavano negozi gestiti da persone come suo padre non erano autorizzati neanche a toccare la merce prima di averla comperata; la sua amicizia con diversi scrittori neri, che lei considerava più bravi ma che non avevano le sue stesse possibilità di intraprendere la carriera da scrittori.
Gordimer pubblicò la sua prima collezione di storie brevi, Faccia a faccia, nel 1949. Poco dopo cominciò a collaborare con la sezione di narrativa del New Yorker. Il suo primo romanzo, I giorni della menzogna, fu pubblicato nel 1953 e racconta di Helen Shaw, figlia di genitori bianchi e borghesi che vivono in una città di miniere d’oro, che comincia a realizzare le condizioni di vita dei neri intorno a lei.
Col suo paese nei problemi del post-apartheid del nuovo millennio, le fu chiesto se la democrazia avrebbe tolto ispirazione alla letteratura sudafricana. «Al contrario», rispose: «siamo pieni di problemi». A chi le criticava un’esistenza privilegiata, accusandola di avere usato come musa le sofferenze del suo paese guardandole dal suo comodo quartiere bianco senza patirne le conseguenze, rispose dicendo che non capivano il suo lavoro: «La tensione tra assistere ed essere completamente coinvolti, è ciò che fa uno scrittore».
(il post – 15/7/2014)
Il gesto femminista
LA RIVOLTA DELLE DONNE: NEL CORPO, NEL LAVORO, NELL’ARTE
a cura di Ilaria Bussoni e Raffaella Perna (Deriveapprodi 2014)
Se la storia del femminismo si lega a una pluralità di prospettive, teorie e azioni fortemente
eterogenee, il «gesto della vagina» ha rappresentato un simbolo nel quale i movimenti
delle donne si sono riconosciuti, nato dal bisogno di dare visibilità alla rimozione del genere femminile. A partire dalle molte fotografie di questo gesto, che hanno contribuito a formare l’iconografia e l’immaginario estetico del femminismo, il libro di DeriveApprodi (pp. 168, euro 20) ripercorre in modo trasversale alcune esperienze di un movimento che si è
configurato come la sfida più radicale alla cultura patriarcale delle società capitaliste. Testi di: Paola Agosti, Silvia Bordini, Ilaria Bussoni, Collettiva XXX, Stefania Consigliere, Laura Corradi, Anna Curcio, Agnese De Donato, Francesca Gallo, Claire Fontaine, Federica Giardini, Vanessa Martini, Alina Marazzi, Cristina Morini, Lelia Pisani, Letizia Paolozzi, Raffaella Perna.
(Alias – 21 giugno 2014)
di Cecilia D’Elia
Sopravvivere al proprio figlio è un dolore indicibile, sopravvivere al proprio figlio ammazzato toglie il fiato; sopravvivere al proprio figlio mentre il mondo costruisce un’immagine deformata di lui e fa il vuoto intorno a te è impresa impossibile. Ma accade. È successo a Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, che oggi lo racconta in uno struggente libro, scritto con Francesca Avon : Una sola stella nel firmamento. Io e mio figlio Federico Aldrovandi (Il saggiatore, pp. 184, euro 14,50). «Io e mio figlio», perché questa è una pagina della storia italiana che narra di un paese dove capita di morire ammazzato da chi dovrebbe tutelarti e difenderti. Patrizia Moretti sente di dover riconsegnare a suo figlio la dignità di una memoria veritiera, perché anche di questo è fatta la giustizia. Sa di dover ricomporre l’immagine infangata del figlio, quella del balordo che se l’è cercata. Si sente come la mamma scoiattolo della favola, che uscita a cercare cibo al ritorno trova la casa distrutta dall’oceano e cerca disperatamente i suoi figli. Così anche lei lotta contro l’oceano infinito.
Tutto comincia la mattina del 25 settembre 2005 a Ferrara. Federico ha 18 anni, torna a casa da una serata con gli amici a Bologna, ha scelto di fare l’ultima parte di strada a piedi. Morirà in via Ippodromo. Il suo decesso viene constatato alle 6.16. Patrizia Moretti ci riconsegna i pezzi di un puzzle che faticosamente negli anni ha cominciato a comporsi, ma all’epoca lei dovette aspettare le 11 per apprendere che il figlio era morto. Eppure da tre ore lei e il marito stavano tempestando di telefonate Questura e ospedali per avere notizie del loro ragazzo. In quelle tre ore, il suo corpo era rimasto a terra in via Ippodromo. Per la polizia Federico è morto per overdose ma lo zio, infermiere all’obitorio, ha visto il corpo del nipote ricoperto di ferite e «tutto storto». Una famiglia sconvolta e stordita dal dolore si ritrova in quei giorni sola di fronte alle autorità di polizia e alla stampa locale che raccontano di Federico morto per un malore. Il questore convoca i genitori per spiegare che Federico è morto da solo e prova a scoraggiarli dal nominare un avvocato.
Soli, a parte qualche amico, mentre la città si convince della versione offerta dalla polizia, aspettano i risultati della perizia tossicologica. Ci metteranno tre mesi ad arrivare. Nel sangue troveranno quantità insignificanti di sostanze: nulla che possa avallare la versione di un ragazzo in preda a una crisi d’abuso. Forze di polizia e autorità inquirenti collaborano a costruire una narrazione che non le compromettano. Nessuna redazione locale in quei giorni pubblica la foto di Federico massacrato. Eccolo l’oceano da sfidare. Non è la forza della natura come nella favola del castoro ma la violenza e l’omertà degli uomini.
A Natale, il primo senza Federico, Patrizia decide di raccontare in rete chi era suo figlio. Il 2 gennaio 2006 nasce il blog dedicato a Federico Aldrovandi. Arrivano migliaia di commenti. Liberazione e il manifesto iniziano a parlarne. Poi Repubblica e il Corriere, e Chi l’ha visto. Titti De Simone, allora parlamentare di Rifondazione, interroga il ministro Giovanardi che ammette l’uso violento dei manganelli, rotti a furia di percuotere, ma parla, come continuerà a ripetere, di un ragazzo eroinomane.
Il libro ripercorre le tappe dell’impegno di Patrizia, del padre Lino, del fratello Stefano per avere giustizia e ristabilire la verità; i concerti organizzati con gli amici di Federico, le canzoni a lui dedicate. Gli alleati più vari, come i tifosi della Spal e poi altre tifoserie. Infine quattro agenti vengono iscritti nel registro degli indagati, il questore viene trasferito e una donna di origini camerunensi dice quello che aveva visto e sentito la mattina in cui Federico fu ucciso.
Arriva il processo e la sofferenza dei racconti. La sentenza. Colpevoli. «È giusto che ci sia una condanna non sono neppure riuscita a sentire di quanti anni ma non è così importante». Anche se un pezzo continua a mancare, quei tre quarti d’ora da quando Federico ha lasciato gli amici a quando Annamaria Tsagueu l’ha visto. E quei poliziotti sono ancora poliziotti, pur essendo colpevoli. E ci sono anche degli irriducibili, come i poliziotti del Coisp che hanno manifestato sotto le finestre del Comune di Ferrara, dove lavora Patrizia, o il senatore Giovanardi che ancora contesta che la macchia sotto la testa di Federico sia sangue.
Il libro è anche la storia di Patrizia, del suo dolore privato e della sua presa di parola pubblica. Per reagire ha dovuto imbrigliare il furore che si porta dentro. Ma di Federico ha saputo ricomporre la memoria e l’immagine che lei stessa ha scelto, la foto che tutti conosciamo, uno sguardo che è «un rimprovero muto» di quel ragazzo che, nato prematuro, un giorno strappò il tubicino che lo aiutava a respirare per il desiderio di cominciare a vivere. La stessa della copertina del libro, Federico bellissimo che ti guarda negli occhi.
(il manifesto, 12.4.2014)
di Liliana Rampello
Con Almanacco del giorno prima (Einaudi 2014) Chiara Valerio ha scritto un libro di straordinaria energia. E tachigrafico.
Non racconterò nulla della trama di un romanzo così originale, non lo faccio mai, tanto meno in un caso come questo, in cui non è interessante la trama, ma l’andare al cuore del desiderio e della fascinazione, del desiderio della fascinazione. Continua, per tutto quanto sta in cielo e sulla terra, e può essere contato, che sia palpabile o impalpabile, reale o virtuale.
Desiderio dunque, e quindi non c’è un amore da raccontare, anche se si tratta di amore, forse. Forse, perché non sappiamo se c’è, se è inventato, se è corrisposto, se è immaginato dal nostro ragazzo e uomo, Alessio Medrano, la cui infanzia tra i numeri di due genitori matematici ci fa sorridere dall’inizio alla fine, con le sue tabelline, elenchi del telefono, numeri sfenici, triangolari, a somma pari, numeri perfetti, con la complice inesistenza del buio come dello zero assoluto. E poi i meravigliosi numeri di Fibonacci: non crediate che io abbia capito, non ha nessuna importanza non sapere niente di matematica, il gioco è molto più raffinato perché è una griglia che cattura tutta la nostra attenzione mentre la storia non inventa solo la sua trama ma soprattutto la sua architettura.
Che mi sembra la novità più importante della scrittura di Chiara Valerio, il vero salto felice, perché racchiude e sostiene una meditazione autobiografica in terza persona lungo 5 stazioni – Zero, Infanzia, Presente, Imperfetto, Domani accadrà – che nel cuore del Presente ha conficcato un dialogo di divertita e divertente intelligenza, in grado di far bruciare della stessa fiamma realtà e invenzione, lasciandoci con i piedi per terra e insieme con la testa fra le nuvole. Ai miei occhi una forma nuova di narrazione del mondo, che non è poca cosa.
Una struttura temporale per la geografia di uno spazio in cui far distendere l’esperienza. Quale esperienza se non c’è storia? Quella dello stare al presente (in presenza, al Presente), solo 1futuro possibile, in cui non accade niente perché non si racconta ciò che accade ma ciò che dicono le parole fra due persone che stanno una di fronte all’altra. Niente fatti o avvenimenti, parole che disegnano intelligenza di quella che è la realtà da raccontare dove ciò che non accade è il tutto che deve accadere. E accade.
E’ giovane la voce di Chiara Valerio, e per fortuna mai giovanilistica perché è con evidenza quella di una grande e appassionata lettrice, abituata a libere scorribande. E’ profonda la sua voce, ironica e triste; sa essere scanzonata per amore eterno.
O infinito come sa esserlo un numero?
di Elena Stancanelli
Élisabeth Gille, figlia della scrittrice, da bambina portò in salvo il testo di “Suite Francese”. Nel 1996 scrisse il sequel, che ora esce in Italia.
Devi scegliere: la tua bambola preferita, Bleuette, o quel quaderno pieno di parole scritte con una grafia minuscola, quasi illegibile. Non puoi portarli entrambi. Élisabeth, detta Babet, era una bambina speciale. Aveva solo cinque anni, il giorno in cui iniziò a scappare insieme alla sorella Denise. La prima notte le nascosero in un pensionato cattolico, nella provincia di Bordeaux.
Cachez votre nez! gridò la tata a Denise come ultimo avvertimento. Era l’autunno del 1942, e le due bambine si trascinavano dietro una valigia, contassegnata dalle iniziali I. N. Dentro c’era tutto quello che i genitori avrebbero voluto salvare. La tua bambola preferita o il quaderno? Babet prese la sua decisione: si congedò da Bleuette. Con questo enorme sacrificio salvò il manoscrittodi Suite Francese. Ma fu Denise, la sorella più grande, a scoprire nel 2004 tra le carte pigiate nella valigia il manoscritto. Fu lei a curarne l’edizione. Risvegliando l’amore dei lettori di tutto il mondo per questa scrittrice.
Irène Némirovsky aveva trentanove anni, quando, il 17 agosto 1942, morì ad Auschwitz. Era figlia di un ricco banchiere ucraino, una russa bianca. Quando si cominciò a capire cosa sarebbe accaduto, quando a lei e al marito Michel Epstein, nonostante si fossero convertiti, imposero di portare la croce gialla cucita sui vestiti, decise che non sarebbe scappata di nuovo. La Francia aveva fatto di lei una scrittrice famosa, e lei si fidava dei francesi, pensava che avrebbero fermato i tedeschi, che avrebbero protetto gli ebrei. La arrestarono. Il marito, incredulo, fece quanto era possibile: scrisse agli editori perché intercedessero. Cercò tra i romanzi di lei le pagine che potessero dimostrare l’odio per il regime bolscevico, la totale indifferenza per il giudaismo. Infine andò lui stesso a chiedere clemenza. Lo arrestarono. Deportato anche lui ad Auschwitz, morì pochi mesi dopo Irène.
Le bambine furono affidate a una tata, e negli anni che seguirono, poterono sempre contare su una rendita di tremila franchi al mese che l’editore della madre, Albin Michel, mise loro a disposizione. Con questo soldi, riuscirono a studiare. Finirono per occuparsi entrambe di libri. Babet prese il nome di Élisabeth Gille, e si appassionò di fantascienza, diresse una collana per la casa editrice Denoël, si occupò di letteratura straniera per Flammarion e dal 1989 fu direttore editoriale di Julliard. Tra gli scrittori, protesse e curò Françoise Sagan. Tradusse Ballard, Kate Millet e Patricia Highsmith; pubblicò, nel 1992, una biografia della madre: Mirador( Fazi editore). Fu Denise a ricopiare il manoscritto di Suite francese e consegnarlo agli editori, ma fu Babet a sacrificare la sua bambola. E quando nel 1996 scrisse il suo secondo romanzo che Marsilio traduce (lo fa Cinzia Bigliosi) inquestigiorni, Un paesag-gio di ceneri, Babetsenericordò.È così che nascono i libri, sbattendo l’uno contro l’altro ricordi, paure, desideri, sogni. Trasformati e deformati dalla memoria, piegati perché sorreggano scene, spingano avanti la trama.
Un paesaggio di ceneri inizia così, con la piccola Léa impegnata in una lotta a calci e strilli contro le suore che la vogliono spogliare, e mettere a letto. Tanto disperata che sembra quasi una scena di violenza. Chi sono i buoni e chi sono i cattivi? Fin quando Bénédicte, che diventerà ovviamente la sua amica più cara, non riesce a distrarla facendo le ombre cinesi sul muro. Léa si calma. E anche noi: le suore sono buone, l’hanno accolta nonostante il pericolo. Ma per tenerla, dovranno cancellare il suo nome, il passato e ogni traccia, compresa la bambola che le sfilano dalle braccia appena si addormenta. «Quando ebbe alimentato a sufficienza il fuoco, vi gettò i vestiti e, senza esitazioni, la bambola, i cui capelli sfrigolarono e la testa, deformata dal calore, finì per fondere facendo delle smorfie. Gli occhi di vetro schizzarono uno dopo l’altro dalle orbite con un rumore di tappi che saltano e rimbalzarono contro le pareti. Li afferrò con le punte delle pinze e li seppellì in fondo alla spazzatura».
Di quanto dolore ha bisogno uno scrittore per scrivere una scena così? Il romanzo di Élisabeth Gille è discontinuo nello stile e un po’ impacciato nello svolgersi della trama. È un libro rabbioso, nascosto sotto uno strato sottile di buona educazione. Si muove, come l’esistenza di Léa, tra evidenza e segreti. L’evidenza del racconto – l’infanzia, l’adolescenza, la fine della guerra – e certe potentissimi immagini che vengono da una zona infera dell’essere. Rivelazioni, produzioni di un rimosso nerissimo. All’Hotel Lutetia, dove, finita la guerra, i revenantsvenivano accolti e i parenti li cercavano, Léa bambina apre una porta. Su un letto matrimoniale, di una stanza lussuosa, sono sdraiati un uomo e una donna. Sono morti. Léa apre altre porte: sono tutti morti. Che cosa sia successo davvero, cosa siano stati i campi e la shoah, Léa lo capisce piano piano. Nel disperato tentativo di sopravvivere in un mondo che, per sopravvivere a sua volta, ha dovuto forzare il confine tra colpevoli e innocenti. Chi sono i buoni e chi sono i cattivi?
Un paesaggio di ceneri
di Élisabeth Gille ( Marsilio, pagg. 176, euro 16,50)
di Alessandra Pigliaru
Filosofia. L’ultimo libro di Rosi Braidotti, «Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte», arriva in Italia tradotto da Derive e Approdi. Una riflessione profonda sul presente che muta, cancellando ogni rigurgito di umanesimo
«Una teoria della soggettività che sia al contempo materialista e relazionale, natural-culturale e capace di autorganizzazione è cruciale al fine di elaborare strumenti critici adatti alla complessità e alle contraddizioni del nostro tempo». Dichiarazione filosofica e politica che va presa seriamente, se a farla è una pensatrice tra le più originali e brillanti della contemporaneità: Rosi Braidotti. Non fosse altro che quell’esigenza intorno alla soggettività significa ribadire la cifra che da anni accompagna tutti i suoi scritti. Con le riflessioni intorno al nomadismo, Braidotti ci ha infatti suggerito più volte l’articolazione di un soggetto capace di tenere testa al consistente e multiforme scenario che ci circonda. Ha saputo così restituire la scommessa di un divenire con cui dover fare i conti, insieme a una serie di interconnessioni da illuminare, spesso frante da forze che eccedono in numerose direzioni.
Nel suo nuovo volume, The Posthuman (Polity Press, 2013), prosegue il suo progetto di interrogazione sfrondando alcuni malintesi attorno appunto alla condizione postumana. Ci è dunque preziosa la recentissima traduzione italiana a cura di Angela Balzano, perché Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte (Derive Approdi, pp. 220, euro 17,00) risulta un contributo forte per confrontarsi con il presente. Ci si chiarirà meglio cosa si intende per postumano e si capirà che non si tratta di qualcosa meramente relegato alla lunga sequela di post, bensì a quell’oltre che riecheggia già nel sottotitolo.
Il postumano di cui intende occuparsi Braidotti non può che essere critico, lontano dal disfattismo relativista e nichilista ma anche dalla fede perniciosa verso l’individualismo. Nella costellazione genealogica della filosofa, continuano ad avere un posto prediletto la politica femminista della collocazione, il dibattito sull’Europa e dunque sulla cittadinanza flessibile, le posizioni postcoloniali e ovviamente i riferimenti a Foucault, Irigaray e Deleuze. Ciò detto, nelle cartografie proposte, l’assunto da cui si parte è una materia dotata di intelligenza, tradotta in un monismo che sistemi la differenza al di là dell’opposizione dialettica.
La riflessione è chiarita dalle prime pagine: la condizione postumana, carica spesso di posizioni difficili da conciliare, deve anzitutto tener conto del tramonto dell’umanesimo classicamente inteso al fine di discutere di una soggettività edificata sul materialismo vitalista, di chiara eredità spinozista, anche conosciuto come immanenza radicale o, come verrà precisato in seguito, realismo della materia. Si capisce bene come il taglio del postumano indichi anche un altro congedo: quello dall’antropocentrismo.
Tutto ciò attiene in qualche modo al tratto nomadico? Certo che sì. Il soggetto postumano di cui parla Braidotti non può che essere già nomade. E non unitario, relazionale, determinato nella e dalla molteplicità, responsabile e radicato. A questa altezza, la filosofa si confronta con alcuni aspetti specifici di un presente che muta repentinamente: dalla biogenetica alla necropolitica finanziaria e a una certa tanatologia dell’avanzamento capitalistico, fino alla mediazione tecnologica e informatica a volte sfrenate. Sono molte le eccedenze che il postumano fa emergere e che vanno dapprima scoperte e poi indagate. Colme di orizzonti da esplorare, non raccontano però solo dello sfascio che ci distingue ma della possibilità di situarci affermativamente attraverso una teoria critica e creativa, al tempo stesso capace di smarcarsi da approcci parziali; da quello reattivo che concerne la filosofia morale (Nussbaum) al più analitico che arriva dai science and technologies studies (Franklin, Lury e Stacey, ma anche Rose e Verbeek).
Braidotti sta invece dalla parte di una teoria che declini l’alfabeto della radicalità antiumanista, e che non patisca per la fine dell’Uomo come canone vitruviano di perfezione, o costrutto sociale universalista, violento e nello specifico eurocentrico. Perché è proprio in quel sollievo che alberga la speranza di non abbandonarsi alla deriva di qualche cosa che sì, dovrebbe proprio atterrirci: il disumano e le sue aberrazioni. Gli esempi offerti dalla filosofa sono molti ma citiamo per esempio la replicazione e appropriazione della morte, le torture manipolatorie e i cannibalismi inferti ai viventi – umani e non. Tanto per tracciare una prima mappa di orientazione. «Il sapere postumano – e i soggetti che ne sono portatori» sottolinea «sono caratterizzati da una aspirazione di fondo verso i principi che tengono unita la comunità, e tentano pertanto di evitare le trappole della nostalgia conservatrice e dell’euforia neoliberale».
In questo senso, la condizione postumana è intravista come un’occasione per trovare nuovi schemi di sapere e risorse di autorappresentazione diversi da quelli correnti. Fino al ripensamento delle stesse scienze umane, prossime all’estinzione se non saranno capaci di seguire un processo sostanziale di trasformazione che il presente chiede con il salto in una più efficace multiversità. Nel complesso processo di metamorfosi, Braidotti invita così ad attrezzarci di strumenti adeguati, dopo aver appreso che l’approssimarsi del soggetto alla zoe non può che essere postantropocentrico. Dunque incarnare un corpo di donna corrisponde ancora ad avvertirsi «generatrice del futuro»? In questo solco, lei stessa conferma: «Il divenire postumano si rivolge alla mia coscienza femminista, perché il mio sesso, storicamente parlando, non ha mai del tutto preso parte all’umanità, ecco perché la mia fedeltà a tale categoria resta negoziabile e mai data per scontata».
Certo, la disponibilità e la scelta di questo scenario andrebbero interrogate ancora. O forse si potrebbe concludere che in fondo, essendo «il risultato dei nostri sforzi congiunti e dell’immaginario collettivo, è semplicemente il migliore dei mondi postumani possibili».
(il manifesto, 18.2.2014)
di Giovanni Montanaro
Giovanni Montanaro legge in anteprima “Le nuvole di Picasso” di Alberta Basaglia (Feltrinelli 2014), in libreria a partire dal 12 febbraio.
“E io, con i miei buchi nel fondo degli occhi, se fossi nata da un’altra parte, in un altro tempo, a cosa sarei stata condannata?”
È il 1978. Alberta Basaglia, giovane studentessa di psicologia all’Università di Padova, è a Venezia, a san Clemente, il manicomio chiuso da pochi mesi per la legge 180, che porta il nome di suo padre Franco e, in fondo, anche di sua madre Franca. La sua tesi riguarderà una doppia emarginazione: i bambini nel manicomio dei grandi. L’ha deciso tempo addietro, a Gorizia, dove suo padre era stato mandato in “esilio” dalla clinica di Padova e dove cominciò la sua lotta per la liberazione dei malati di mente. Alberta Basaglia si trova alla prima festa del manicomio, con i matti liberi dalle catene, festeggiati, per la prima volta con la permanente, con la cravatta. È bambina, e si rifugia negli archivi, anche turbata da quei corpi invadenti, che si accorgono di esistere all’improvviso; è lì che scova la storia di Romana, nata a cavallo del secolo, censita a pochi mesi, finita chissà dove. A San Clemente, invece, legge di Gabriella C., epilettica dopo una mastoidite sinistra, a sei anni, sprofondata nella malattia, divenuta da “tranquilla e mite” a “manesca, indocile, esigente”, con un casco di gommapiuma in testa per non ferirsi. I danni che possono fare i medici, l’ignoranza, la mancanza d’amore. Alberta Basaglia non racconta una storia d’altri; si implica nel rischio di essere allontanati, lei e la sua “orbaggine” mai svelata prima, un Calaboma che la costringe a trovare un proprio modo di vedere le cose, le impedisce il Conservatorio, perché bisogna leggere troppo velocemente gli spartiti, e la Facoltà di Medicina, perché il microscopio inquadra troppo piccolo. E così, in quella domanda, “a cosa sarei stata condannata?” si nasconde forse il motivo di scrivere questo quaderno privato, frammentario, per immagini e colori, nitido, timido, condito da saporite parole di veneziano. Le nuvole di Picasso (scritto con Giulietta Raccanelli, Feltrinelli Editore) esce il 12 febbraio e avvicina l’epopea della riforma Basaglia, ma soprattutto la semplicità con cui all’interno di una famiglia si canta in macchina a squarciagola “Nessuno mi può giudicare” e, al tempo stesso, si cerca di cambiare il mondo senza retorica, per affetto.
È un libro che non dimentica il dolore (e la puzza) di Pierina, la donna liberata dal manicomio che non sa più dove andare, e si lamenta col “professor”. Ma è un libro che rivendica una scelta, la necessità di non dimenticare mai che «tutti, proprio tutti – maschi, femmine, matti, malati, bambini, bambini malati – dovevano avere una possibilità per poter vivere la loro vita». E allora la famiglia non è agiografia, ma tenerezza, normalità, scontri celati. Una famiglia come altre, in cui i figli aiutavano a fare i gomitoli, la mamma sa fare un maglione intero senza cuciture sulle spalle, e il papà viene sorpreso in interminabili contrattazioni tra robivecchi e sacrestie, o annoiato dopo pochi minuti al mare, sempre con le scarpe sulla sabbia. E, ancora, lo zio Alberto Ongaro, grande scrittore veneziano, custode anche delle prime parole di Alberta Basaglia. Per non parlare della nonna Cecilia, che si presenta alla Fenice in sottoveste e fa arrestare il figlio mentre scappa sui tetti nel 1944 perché è preoccupata che si faccia male cadendo. O di Enrico, il fratello grande quasi quanto Nembo Kid. C’è, soprattutto, Alberta Basaglia, il suo grembiule arancione tra gli altri bianchi, le sue battaglie con la madre per uno chemisier mezze maniche o per vedere la televisione, la sua stravagante amicizia con una capra. Una famiglia come le altre, diversa forse soltanto per considerare tutti uguali, dal signor Toni con cui bere un caffè al famoso Picasso a cui sarebbe ovvio mandare un disegno con le belle nuvole dipinte da Alberta, se non fosse per il cognome troppo lungo sulla busta: Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz y Picasso. Qui, in questo affetto per la dignità di tutti i destini, c’è la radice di questi Basaglia; niente è impossibile, ma soprattutto non si capisce perché bisognerebbe pensarlo. E allora Alberta Basaglia racconta di avere cercato anche lei di non dimenticare nessuno, prima mettendosi dalla parte dei bambini, poi dalla parte delle donne che subiscono violenza. E se c’erano davvero, i manicomi, e nessuno pensava possibile chiuderli, perché un giorno non dovrebbero chiudere anche le carceri, i CPT o le case di riposo? In fondo, quel che resta di questa storia è una questione culturale; in ogni momento della vita chiunque può scegliere se liberare o rinchiudere, dare affetto o allontanare. Non perché sia semplice, ma perché è possibile.
(http://www.lavoroculturale.org/picasso-basaglia/, 10 febbraio 2014)
di Liliana Rampello
Non è facile incontrare un libro così bello, necessario.
Un libro scritto sull’orlo di un vulcano, di un cratere da cui salva uno sguardo, un gesto, una parola, una paura in meno.
La relazione fra Madre e Figlio, ritagliata nella potenza della sua sacralità quotidiana ed eterna; la madre e il figlio in una lingua di paese e arcaica, antica e eterna, tragica e biblica.
Tutto è avvolto nella cruda atmosfera della fiaba, l’Isola, il mare, la sabbia, i gradini il pianerottolo, pochi nomi e lui, Arturo, che tiene in sé ogni magia.
Quando il tema trova la sua forma senza nemmeno un interstizio per il nostro coltello che cerca dove sta una qualche mancanza, siamo davanti a scrittura pura, all’innalzarsi del sentimento nella sua terribile autenticità.
Il diritto guardato dal bisogno che lotta per non diventare questuanti.
La scuola nella sua bellezza povera di comunità vivente.
Padri madri di tutti i giorni, confusi e bravi, un pezzo di tutti noi.
L’umanità spiata ovunque viene negata.
Intervista a Paola Mattioli di Matteo Bergamini
Il pretesto per incontrarci e parlare, stavolta, è dato dal libro Mémoires d’Afrique. È l’ultima tappa di una serie di viaggi in Africa fatti da Paola Mattioli con Sarenco, negli scorsi anni, che sulla carta stampata (con prefazione di Achille Bonito Oliva) hanno trovato una nuova dimensione. Io diligentemente ho preparato una serie di domande, inviate prima alla fotografa, pensando che sarebbe potuto essere un modo semplice per seguire una traccia precisa. Quando arrivo in studio, invece, non solo trovo le risposte, ma un vero e proprio saggio (composto da numerosi frammenti di altri testi) che – come spesso accade – rappresentano per Mattioli quelle “note a margine” imprescindibili dai suoi scatti, dal suo modo di vedere la realtà. Ecco il risultato, decisamente originale, di un’intervista con tanti “Cfr”.
Vorrei partire da un altro punto di vista. Che significato ha per te, come fotografa, l’oggetto-libro?
«Le fotografie o si mettono su un muro di una esposizione, o si impaginano in un libro. Un libro vuol dire lavorare su doppie pagine. In più c’è un rapporto con il testo, anche per evitare le didascalie. La mia generazione (nutrita per esempio da Scheiwiller, Einaudi, Adelphi, e in più dai libri d’artista) ha avuto un rapporto d’amore verso l’oggetto libro. Ogni libro contiene una sua piccola architettura, e qualche segreto per il lettore attento (in questo caso ci sono delle stelline rosse…)».
È un aspetto che ha che fare con la “mania della catalogazione” che si riconduce anche alla pratica del fotografare come necessità di cogliere un residuo del mondo? Azzardo alle immagini dello sterminio, raccontate da Didi-Hubermann: qualcosa “dell’altrove” che possa permanere
«Residuo. In che senso? A voler catalogare troppo, rischi di ricostruire il mondo intero; forse il problema è la scelta di quale “residuo del mondo” catalogare, in funzione di un senso. Vorrei valorizzare l’aspetto “diario”, il partire da sé, dalla propria esperienza e dunque dalla parzialità, l’archivio per un fotografo».
Ci racconti dei vari step di “Memorie d’Africa”? Il libro è nato a distanza di anni dai tuoi viaggi con Sarenco?
«Quando Sarenco mi ha proposto di seguirlo in Africa, ho pensato a Mulas che è andato negli Stati Uniti a fotografare la Pop Art, al suo senso di responsabilità culturale nel far conoscere quel mondo, quindi mi è sembrata una opportunità irrinunciabile (fotografare come modalità del conoscere e poi del far conoscere). Sarenco è un poeta visivo e la sua entratura in Africa è poetica. Il patto era generoso: ti porto con me, e ti offro la mia conoscenza. Il libro è seguito dopo qualche anno, per motivi indipendenti dal progetto».
Che effetto ti ha fatto ripercorrere le storie di Seni Camara e delle Signares per cui eri partita?
«La ripresa del tema Seni Camara-Signares mi ha permesso di riprendere l’argomento e di collocarlo in un contesto più ampio e complesso: l’altro mondo, l’alterità, lo spaesamento: Effetto unheimlich. L’essere artista in Africa, le Regine d’Africa, dunque le donne, e infine – tra un capitolo e l’altro – i lavori miei che l’Africa ha suggerito (1)».
Nel corso della tua carriera hai fotografato soggetti diversissimi, spostando l’obiettivo dalla rielaborazione di esperienze personali (come “Il frutto del fuoco”) alle serie dedicate al lavoro (“Fabbrico e Dalmine”) fino alle questioni più sociali (“Immagini del No”).
«Karen Blixen, nella Mia Africa, racconta una storia che le veniva narrata da bambina: una notte, un uomo che viveva nei pressi di uno stagno viene risvegliato da un terribile fragore: è l’argine che sta cedendo. Si precipita a tappare la falla correndo di qua e di là e, quando ha finito, se ne torna a letto. Al mattino, affacciandosi alla finestra, vede che i suoi passi disordinati hanno creato sul terreno il disegno di una cicogna. «Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?» si chiede Blixen. Il mio prossimo progetto: mettere insieme tutti i lavori, tutte le fotografie, rompendo le sequenze e stare a vedere come le immagini si ricompongono (sì, lo fanno in gran parte da sole, chiamandosi: le fotografie camminano, fanno il loro percorso, diventano altro, ti sfuggono, vanno a imparentarsi con altre immagini con le quali instaurano rapporti di vicinanza, relazioni di simpatia, e tu in fondo c’entri solo fino a un certo punto…) su un tavolo di montaggio (2) che mi stupisca, mi dica del mio lavoro più di quanto io sappia, quel di più che per fortuna non è del tutto controllabile».
Visto che abbiamo già delle note a margine ti chiedo: Quanto è importante il contributo dei testi critici nella definizione del tuo percorso?
«Ci sono diversi esempi nei quali io ho preso parole per me. Per esempio, quando Gigliola Foschi, nel 2008, ha inventato il titolo “Una sottile distanza” per una mia mostra – traendolo dal suo testo critico – o quando Elisabetta Longari ha sottolineato in un suo scritto “la centralità del montaggio, come il maggior produttore di senso” a proposito degli accostamenti di immagini che di solito propongo, o quando tu stesso hai scritto, nel testo per Ultimo quarto che “l’unica possibilità che ci è data per sopravvivere al labirinto, è cercare di attraversarlo a passo di danza” in riferimento a un mio lavoro».
Come si potrebbe definire la ricerca che ha accompagnato “Memorie d’Africa”?
«Mi piacerebbe avere da te una definizione, piuttosto che darla io. Bonito Oliva, nella prefazione: «Un luogo comune assegna alla fotografia il luogo di una crudele oggettività, il senso di una pratica chirurgica che seziona, taglia e preleva il dettaglio dalla rete di relazioni con il mondo. Paola Mattioli, che pratica da molti anni una tangenza con il mondo dell’arte, capovolge questo luogo comune e introduce nell’ambito dell’immagine fotografica la torsione che appartiene alla storia della pittura, adoperando rigorosamente gli strumenti del linguaggio fotografico. Si mette nella posizione del duello, nella frontalità istituzionale del fotografo di fronte al dato, ma non lascia scattare il dito sulla macchina precipitosamente, bensì promuove una serie di relazioni e di rispecchiamenti, per cui arriva all’immagine mediante un rallentamento mentale e l’assunzione di una posizione di lateralità rispetto al proprio mezzo».
Che cosa cerchi da un soggetto, e da uno scatto?
«L’Africa vista da te (o da voi due) mi ha sbalordita, come rivedere una persona che conoscevo stanca e malata, rivederla raggiante, in forze, nuova, stupefacente», ha scritto in una mail Luisa Muraro. Da un singolo scatto mi aspetto abbastanza poco, mi aspetto molto da una serie, da un progetto che vuole approfondimento, studio, dedizione e anche coerenza con gli altri progetti ai quali ti sei dedicata. Certo, il singolo scatto deve essere “buono” (nel senso ricordato da Berengo Gardin (3) perché più è buono, più ha senso, più è pulito, più si intreccia e risuona con le altre immagini (di qui un grande lavoro di selezione, ri-pulitura, essenzialità)».
(1) «Effetto Unheimlich, per usare un termine di Freud, sul bordo dell’angoscia di una distanza tanto più invalicabile quanto più ti si avvicina. L’arte di questa soglia (l’arte dell’ospitalità) appartiene a chi, lui o lei, riesce a entrare in casa tua senza che tu abbia preparato la visita; l’ospite è quello che sa accettare l’arrivo. Un’arte e una passività entrambe molto difficili, perché giocano di fioretto tra la vita e la morte».
Pier Aldo Rovatti, in un testo inedito (scritto nel 1997) per una mia fotografia (1968)
(2) «Un’immagine senza immaginazione è semplicemente un’immagine su cui non si è passato abbastanza tempo a lavorare. Poiché l’immaginazione è lavoro; è quel tempo di lavoro delle immagini che agiscono senza posa le une sulle altre per collusione o per fusione, per frattura o per metamorfosi… Il tutto agendo sulla nostra attività di sapere e di pensiero. Per sapere, bisogna dunque davvero immaginare: la tavola di lavoro speculativa si accompagna sempre a una tavola di montaggio immaginativa».
Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto
(3) «Avevo un rapporto bellissimo con Ugo. Lui era molto generoso, di consigli e di affetto. Ci trovavamo a casa sua con Ferdinando Scianna, entrambi giovani e con poca esperienza, ma avidi di ascoltare i suoi racconti e i suoi consigli. Ricordo una volta in cui Mulas mi mostrava le foto e io, ammirato ed esaltato, non facevo che ripetere: “Bellissimo! Bellissima! Stupenda!”. A un certo punto, Ugo mi ha minacciato che se non l’avessi finita di dire che le sue foto erano belle, mi avrebbe cacciato di casa. Io, imbarazzatissimo, risposi che non sapevo cosa avrei potuto dire e lui “devi dire che è una buona fotografia, non una bella fotografia. C’è una differenza enorme. Le belle fotografie sono esteticamente magnifiche ma non dicono niente. Mentre una buona fotografia ha contenuti eccezionali e in questo sta il suo valore”».
Gianni Berengo Gardin – Inediti (o quasi)
di Alessandra Pigliaru
Dopo il bell’esordio di Undici (2008), finalista al Premio Calvino del 2007, Mia figlia follia (2010) e Ogni madre (2012), tutti editi per le edizioni nuoresi Il Maestrale, adesso arriva un’ulteriore conferma: Savina Dolores Massa è una scrittrice molto brava e leggerla è un’esperienza di bellezza che ci si dovrebbe saper concedere. Il suo ultimo romanzo si intitola Cenere calda a mezzanotte (Il Maestrale, pp. 430, euro 18) ed è un canto maturo, pieno e commovente. A muoversi nelle folte pagine consegnateci dall’autrice oristanese sono personagge e personaggi dal carattere cocciuto e fiero che fanno della propria precarietà l’osservazione privilegiata del mondo, al dritto e al rovescio. Non temono giudizi, distinguono catastrofi dell’anima e del corpo e raccontano una storia che si svolge lungo quasi cento anni nella piccola comunità di Aristànis (nome in sardo di Oristano).
Il carattere di transitorietà contrassegna le descrizioni fatte da Massa, tuttavia la significazione esatta è quella che si gioca tra il raddoppiamento della realtà e la condizione materiale di vita. Se la prima non è mai una scappatoia bensì la capacità elettiva della scrittura di costruire mondi possibili, la seconda mostra come di quel desiderio di allontanamento non si possano tacere mai le metamorfosi corporee. La cenere non si sofferma qui solo alla finitudine ma diviene crocicchio tra realismo magico e poetica della vulnerabilità. E di storie esemplari, potremmo aggiungere, che cuciono l’atmosfera rarefatta e al contempo tangibile di donne e uomini comuni in costante combattimento.
La disciplina per resistere
Nella piccola comunità sarda che Savina Dolores Massa racconta a partire dagli inizi del Novecento, la cenere è infatti anche la pietas che viene meno quando i viventi cercano si sopraffare le proprie e i propri simili, fino a rappresentare le spoglie di un modo nuovo di stare nel mondo tra la necessità di fare comunità e la libertà di contravvenire alle regole prestabilite. Ma la cenere è altresì la stessa che Bonaria e Peppina utilizzano nel proprio lavoro in una casa padronale.
Nel registro ironicamente tagliente utilizzato dall’autrice, la confidenza con la propria fragilità è proporzionale alla forza del prendere parola. Un ordine del discorso che l’autrice disciplina politicamente in favore di chi resiste o ha resistito. Le voci inaddomesticate che non sanno nulla dell’avidità e alle quali «la vanità non serve», assumono nel romanzo una travolgente energia assertiva. Si deve dare retta a quel vociare perché in fondo è proprio questa la lezione di fuoco a cui il romanzo e l’interesse della scrittrice da sempre si appella. Si potranno scoprire i racconti di amore e di morte della famiglia Mammaiòni, cioè di quando Antonio perde la moglie Bonaria, creatura taciturna «che lasciava il calco di sé ovunque», in seguito a un incidente tanto piccolo quanto fatale. Nella decisione dell’uomo di farne durare il ricordo attraverso lo scambio con i propri tre figli ancora piccoli, prende avvio l’esercizio simbolico della riconoscenza. Soprattutto si imparerà la stoffa sociale e di affezione trasformativa che Savina Dolores Massa consegna a Chicchino, Giomaria, Angelo, Rebecca, Tommaso, Maria e a tutta la litania di donne e uomini che abitano le dense pagine di Cenere calda a mezzanotte. In un orizzonte privo di eroismi e risarcimenti dell’onore perduto, l’autrice converte il corpo della scrittura in una moltitudine che sa mettersi a repentaglio «anche quando in pancia si agitavano spade che ferivano, e non erano duelli tra cavalieri e cavalli (…) ma fame». Fino al gioco della memoria. O ancora fino al protagonismo di una intera comunità del desiderio che trafigge la storia dell’ingiustizia e del costante mancarsi e ritrovarsi.
I perimetri rivoltati
Nella sistemazione cangiante di generazioni che si dipanano in una tessitura relazionale sorprendente, Savina Dolores Massa si muove con maestria a tratteggiare un paesaggio — umano e naturale — parlante di attese e premonizioni, consapevole di una restituzione complessa tra lotta per la sopravvivenza ed eredità di chi ci ha preceduto. Su quest’ultimo tema, il congegno della scrittura raggiunge un compimento nella narrazione di luoghi paradigmatici di cui possiamo seguire il dettaglio nel tempo. Tra le tante, particolarmente importante è la storia di Petronilla e Luisetta, madre e figlia che scoprono la difficoltà di dirsi prossime nell’accoglienza di un corredo familiare pesante con cui non si finisce mai di fare i conti. Del resto l’interrogazione rimane aperta: «Perché questa sorte di nascere donna? E cosa volevi essere? Nuvola».
Ma il corpo a corpo non è solo quello con la propria madre, è bensì più ampio e controverso come ogni signora della scrittura sa presagire. È infatti nell’assunzione di responsabilità verso il futuro da parte della genealogia che l’autrice trova una sua specifica libertà di movimento. Intanto del suo stesso lavoro, giacché Cenere calda a mezzanotte è un libro che per rigore e dedizione riesce a comporre in via definitiva la costellazione di alcune letture capitali. Non stupiranno in questo senso diverse consonanze con le grandi scritture poetiche e letterarie novecentesche, tra tutte basti pensare a quelle con Anna Maria Ortese. In secondo luogo, nel suo lento rimembrare la storia di una terra che può essere la Sardegna come qualsiasi altra, perché a parlarne sono quelle e quelli che ne hanno saputo agitare e rivoltare i perimetri. E se la preferenza va alla quotidianità di allargati nuclei familiari che cercano di darsi giustizia, è vero che in questa cura per chi riesce a sopravvivere non c’è mai celebrazione della vittima. Piuttosto si reclama la prosecuzione di una resistenza visionaria che, ogni volta come fosse la prima, sceglie la narrazione esperienziale come metodo ineludibile e competente di dare parola al mondo.
(il manifesto, 8 gennaio 2014)
DAL SITO DI EINAUDI
Il tradizionale discorso di accettazione del Premio Nobel per la Letteratura si è tenuto, quest’anno, sabato 7 dicembre. Alice Munro non è salita sul palco dell’Accademia di Svezia, ma ha deciso di intervenire con una splendida intervista, che potrete leggere nella traduzione di Susanna Basso.
Una conversazione con Alice Munro
Ho cominciato a interessarmi alla lettura molto presto, quando qualcuno mi lesse una storia di Hans Christian Andersen: La Sirenetta; ora, non so se la ricorda, La Sirenetta, ma è una storia tristissima. La sirenetta si innamora di un principe, ma non lo può sposare, essendo una sirena. Guardi, è davvero triste, le risparmio i dettagli. In ogni caso, appena la storia finì, io corsi fuori e mi misi a girare intorno alla casa di mattoni dove abitavamo allora, e mi inventai una fiaba a lieto fine, perché mi pareva che glielo si dovesse, alla sirenetta, e chissà come non mi passò per la mente che la diversa storia che avevo creato era solo per me, non avrebbe mai circolato, ma a me pareva comunque di aver fatto del mio meglio, ero convinta che da allora in poi la sirenetta avrebbe sposato il principe, che sarebbero vissuti per sempre felici e contenti, e che lei se lo meritasse, dal momento che aveva fatto delle cose tremende perchè il principe potesse rientrare in possesso delle sue facoltà ed evitare turbamenti. Si era dovuta trasformare fisicamente, procurarsi arti come quelli delle persone normali, mettersi a camminare, ma ogni passo le costava atroci sofferenze. Ecco che cosa era stata disposta a fare per conquistare il principe. Perciò mi pareva che meritasse di più che una morte in acqua. E non mi preoccupavo del fatto che il resto del mondo non conoscesse mai la versione nuova, perché dopo averla pensata mi sembrava che esistesse comunque. Ecco. Ho cominciato presto a scrivere, come vede.
E, ci dica, quando ha imparato a raccontare storie, a scriverle?
Inventavo storie in continuazione. Andavo a piedi a scuola, ed era lontano, e di solito durante il tragitto inventavo una storia. Sempre più spesso, crescendo, le mie storie parlavano di me che ne ero l’eroina in situazioni diverse; non mi importava che non venissero subito pubblicate, anzi, non so neppure se al tempo avessi in mente che altri le dovessero conoscere o leggere. Il punto era il racconto in sé, di solito molto appagante dal mio punto di vista, animato dall’idea di fondo della sirenetta, e cioè che lei era temeraria, intelligente, capace in senso lato di costruire un mondo migliore con la sua sola presenza, in quanto dotata di poteri magici e cose simili.
Era importante il fatto che la vicenda sarebbe stata narrata da una prospettiva femminile?
Non ho mai pensato che fosse importante, ma d’altra parte non ho mai pensato a me stessa se non come a una donna, e di buone storie che parlavano donne e bambine ce n’erano parecchie. Con l’arrivo dell’adolescenza l’equilibrio si sbilancia a favore della collaborazione da offrire all’uomo per aiutarlo a realizzare i suoi traguardi e così via, ma da bambina non mi sentivo affatto inferiore in quanto femmina. Forse perché abitavo in una zona dell’Ontario dove a leggere e raccontare storie erano soprattutto le donne, mentre gli uomini erano impegnati a fare le cose importanti e non si occupavano di sicuro delle storie. Perciò mi sentivo piuttosto a mio agio.
In che modo l’ambiente l’ha ispirata?
Sa, non credo di averne avuto bisogno. Ritenevo le storie essenziali per il mondo e volevo contribuire con qualcuna di mia, era questo che desideravo fare e la cosa non aveva niente a che vedere con gli altri, non era necessario che lo dicessi a nessuno. È stato solo molto più tardi che mi sono resa conto di quanto sarebbe stato bello se anche uno solo di quei racconti avesse raggiunto un pubblico più vasto.
Che cosa è importante per lei in una storia?
Beh, all’inizio naturalmente la cosa importante era il lieto fine, non tolleravo che una storia finisse male, almeno non per le mie eroine. Poi ho cominciato a leggere libri come Cime tempestose, che finivano malissimo, e a quel punto ho cambiato radicalmente idea e mi sono appassionata al tragico.
Che cosa c’è di interessante nella descrizione della vita della provincia canadese?
Basta viverci per saperlo. Sono dell’avviso che qualsiasi vita e qualsiasi posto possano essere interessanti. E poi non credo che sarei stata altrettanto coraggiosa se fossi vissuta in città, in competizione con altri a un livello culturalmente più alto. Con questo non ho dovuto misurarmi. Ero la sola persona di mia conoscenza che scrivesse racconti, anche se non li raccontavo a nessuno, e per quanto ne sapessi, almeno per qualche tempo, ero la sola persona al mondo che fosse capace di farlo.
È sempre stata così sicura della sua scrittura?
Lo sono stata a lungo, ma crescendo e incontrando altre persone che scrivevano, sono diventata al contrario molto insicura. È stato allora che ho capito che era un mestiere un po’ più difficile di quanto mi aspettassi. Ma non ho mai rinunciato; scrivere era una delle cose che facevo.
Quando inizia una storia, ha già in mente la struttura narrativa?
Sì, ma poi spesso si modifica. Parto da un intreccio e ci lavoro e magari mi accorgo che va da un’altra parte e che le cose succedono mentre scrivo, però devo comunque partire da un’idea abbastanza chiara sul contenuto della storia.
Quanto la assorbe l’attività di scrittura?
Oh, moltissimo. Comunque le mie figlie hanno sempre mangiato lo stesso, dico bene? Come casalinga ho imparato a scrivere nei ritagli di tempo e credo di non averci mai rinunciato, nonostante i periodi di scoraggiamento, quando mi rendevo conto che le mie storie non erano abbastanza buone, che avevo ancora tanto da imparare e che sarebbe stata molto più dura del previsto. Ma non mi sono fermata, credo di non averlo mai fatto.
Qual è la parte più difficile quando si scrive una storia?
Credo sia la rilettura, quando capisci che non funziona. Si parte dall’euforia, si approda a una soddisfazione discreta e poi, una mattina, prendi in mano il testo e pensi «che stupidaggine», ed è allora che ti ci devi proprio impegnare. A me è sempre sembrato che fosse la cosa giusta; se qualcosa non funzionava era colpa mia, non della storia.
Ma come la modifica se non è soddisfatta?
Ci lavoro, parecchio. Aspetti però, cerco di spiegarmi meglio. Potrebbero esserci dei personaggi che sono stati trascurati: bisogna riflettere su di loro e trasformarli. Una volta tendevo a concedermi una prosa molto fiorita, ma a poco a poco ho imparato a limarla al massimo. Quel che si fa è semplicemente concentrarsi sulla storia e scoprire di che cosa parla davvero. Magari credevi di saperlo sin dall’inizio e invece avevi ancora tanto da imparare.
Quante storie ha buttato via?
Ah, da giovane le buttavo via tutte. Non saprei, ma di recente non mi succede più spesso; di solito so che cosa occorre fare per renderle vive. Anche se trovo ancora, sempre, un errore qua e là, e mi rendo conto che è un errore, ma che lo devo lasciar andare.
Rimpiange le storie che butta via?
Non direi, perché quando succede mi ci sono già arrovellata abbastanza da sapere che non funzionava alla radice. Ma, come dico, ormai non succede più molto spesso.
Come cambia la scrittura, col passare degli anni?
Oh, beh, direi in modo molto prevedibile. Si comincia a scrivere di giovani principesse bellissime, poi si passa alle massaie con figli e ancora più avanti alle vecchie e così via, senza che occorra opporre resistenza. Perché cambia la visione della vita.
Crede di essere stata importante per altre scrittrici, in quanto madre di famiglia capace di far coesistere il lavoro di casa con la scrittura?
Davvero non saprei, spero di sì. Da giovane in effetti mi rivolgevo ad altre scrittrici, erano fonte di grande sostegno per me, ma non so dirle se lo sono stata anch’io. Credo che per le donne sia diventato, non voglio dire molto più facile, ma di sicuro più accettabile dedicarsi a qualcosa di impegnativo e non solo concedersi il proprio piccolo svago, quando sono tutti usciti di casa; fare sul serio con la scrittura, insomma, come fanno gli uomini.
Che impatto crede di avere su chi legge i suoi racconti, specie se donna?
Beh, vorrei che le mie storie emozionassero i lettori, non mi importa se uomini, donne o bambini. Voglio che parlino di vita, che non facciano solo pensare «sì, ecco, è proprio vero», ma che offrano una specie di ricompensa attraverso la scrittura, il che non significa che debbano essere a lieto fine, ma piuttosto che quello di cui si legge tocchi il lettore tanto da farlo sentire un po’ cambiato, alla fine.
“Chi ti credi di essere?” Che cosa ha significato per lei questa espressione?
Beh, sono cresciuta in campagna, in un ambiente di origine perlopiù scozzese e irlandese nel quale l’idea di non dover apparire né ritenersi troppo in gamba era molto diffusa. Anche quello era un ritornello ricorrente “Ah, ti credi in gamba tu”. E per dedicarsi a un’attività come la scrittura per molto tempo si ritenne necessario credersi in gamba, ma io ero solo un po’ stravagante.
È stata una femminista ante litteram?
Non conoscevo neppure la parola, ma sono stata femminista naturalmente, perché sono cresciuta in una zona del Canada dove dedicarsi alla scrittura era più facile per una donna che per un uomo. I grandi scrittori, quelli importanti, erano uomini, ovviamente, ma scoprire che una donna scriveva racconti la screditava meno di quanto avrebbe screditato un uomo. Scrivere non era roba da uomini. Comunque, le cose andavano così quando io ero giovane; adesso è tutto cambiato.
Crede che la sua scrittura sarebbe stata diversa, se avesse concluso gli studi?
È probabile, in effetti. Sarei stata molto più prudente e molto più spaventata all’idea di essere uno scrittore, dal momento che più scoprivo che cosa avevano fatto altri e più mi intimidivo. Forse avrei pensato di non essere all’altezza, ma non credo che avrei rinunciato, comunque. Forse per un po’, ma il desiderio di scrivere era talmente forte in me che ci avrei provato lo stesso.
Crede che la scrittura per lei sia stata un dono?
Le persone che mi circondavano probabilmente l’avrebbero definita così, ma a me non è mai sembrata un dono; mi sembrava solo una cosa che sapevo fare, se mi ci impegnavo molto. Perciò, se di dono si è trattato, di sicuro non ha reso le cose facili, almeno non dopo La Sirenetta.
Ha mai avuto delle esitazioni, ha mai pensato di non essere abbastanza brava?
Continuamente, continuamente! Ho buttato via più di quanto abbia mai spedito agli editori o abbia portato a termine, almeno fino quasi ai trent’anni. Ma non ho mai smesso di imparare a scrivere come volevo. Perciò, no, non posso dire che sia stato facile.
Che ruolo ha avuto la figura di sua madre?
Oh, il rapporto con mia madre è stato sempre molto complicato, perché lei era malata di Parkinson e aveva bisogno di costante aiuto, aveva difficoltà di parola, la gente non la capiva quando parlava eppure lei amava essere in compagnia, stare in mezzo agli altri, ma naturalmente il suo problema glielo impediva. Perciò la sua persona mi metteva in imbarazzo; le volevo bene ma per certi versi non volevo essere identificata con lei, detestavo espormi ripetendo le cose che voleva farmi dire al posto suo; è stato difficile, come sarebbe per qualsiasi adolescente interagire con un genitore o una persona in qualche modo menomata. A quell’età si vorrebbe essere completamente liberi da problemi simili.
Sua madre è stata anche una fonte di ispirazione?
Probabilmente sì, ma non in modi che potessi individuare e comprendere. Non ricordo un tempo della vita nel quale io non abbia scritto storie, se non proprio sulla carta, raccontato, e non a lei, ma a chiunque. Eppure, il fatto che mia madre leggesse, e così pure mio padre…Credo che mia madre si sarebbe mostrata più accogliente nei confronti di qualcuno che volesse diventare scrittore. L’avrebbe giudicata un’attività ammirevole, ma le persone che mi circondavano non sapevano che io volessi fare lo scrittore, perché non permettevo a nessuno di scoprirlo; alla maggior parte di loro sarebbe sembrato ridicolo. Molte delle persone che conoscevo non avevano l’abitudine di leggere, perciò affrontavano le cose in modo molto pratico e io sentivo di dover proteggere la mia visione della vita.
È stato difficile raccontare una storia vera da una prospettiva femminile?
No, niente affatto, essendo la mia, non mi ha mai dato problemi. Sa, uno dei fenomeni particolari per chi è cresciuto in un ambiente come il mio è che se qualcuno leggeva, erano le donne, se qualcuno studiava, spesso era una donna, magari per diventare maestra di scuola, o qualcosa del genere; lungi dall’essere interdetto alle donne, il mondo dei libri e della scrittura si rivolgeva più a loro che agli uomini, impegnati in campagna o in altri mestieri.
Lei è cresciuta in una famiglia proletaria?
Sì.
E anche le sue storie sono nate lì.
Sì. Non perché volessi scrivere storie proletarie. Mi guardavo intorno e scrivevo di quello che vedevo.
E le stava bene di dover scrivere a orari fissi, secondo una tabella di marcia dettata dai figli e dalla cena da mettere in tavola?
Beh, scrivevo appena potevo, e il mio primo marito mi sosteneva moltissimo; per lui scrivere era un’attività lodevole. Non lo giudicava un mestiere inadatto a una donna, come molti degli uomini che ho conosciuto in seguito. Per lui era importante che lo facessi e non ha mai cambiato idea.
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In libreria
Fu molto divertente al principio, perché ci trasferimmo qui, decisi ad aprire una libreria, e tutti pensavano che fossimo impazziti e che avremmo fatto la fame, ma non è stato così. Lavoravamo parecchio.
Quanto contava la libreria per voi due, all’inizio?
Era la nostra vita. Tutto ciò che avevamo. L’unica fonte di reddito. Il giorno dell’inaugurazione incassammo 175 dollari. Ci parvero molti. E avevamo ragione, perché ci volle parecchio tempo prima che riuscissimo a guadagnarne di nuovo altrettanti.
Io stavo dietro al banco, cercavo i libri per i clienti, le cose che si fanno in una libreria, insomma, generalmente da sola, e la gente entrava e si metteva a parlare di libri. Era soprattutto un punto d’incontro, prima ancora che un posto dove si andava a comprare, specie la sera, quando io ero in negozio da sola e certe persone passavano regolarmente per parlare del più e del meno; era bellissimo, mi divertivo. Fino a quel momento ero stata una casalinga, chiusa in casa tutto il giorno. È vero che intanto scrivevo, ma quella fu una grande occasione di conoscere il mondo. Non credo che guadagnassimo molto; forse chiacchieravo un po’ troppo, anziché promuovere gli acquisti, ma è stato un periodo stupendo.
Un cliente in libreria.: – I suoi libri mi ricordano casa mia. Sa, io abito poco sotto Amsterdam. Grazie infinite, buongiorno.
Ma ci pensa? Non sa quanto mi fa piacere quando qualcuno si avvicina in questo modo, non solo per un autografo, ma per spiegarti come mai lo vuole.
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Lei desidera che i suoi libri siano fonte di ispirazione per le giovani donne e le incoraggino a scrivere?
A me importa solo che amino leggerli. Preferisco di gran lunga che la gente si diverta con i miei libri, più che trovarli fonte di ispirazione. È solo questo che voglio: che si divertano, che li sentano vicini alle loro vite in qualche modo. Il resto è meno importante. Quel che voglio dire è che non mi sento, non credo di avere intenti politici.
Lei è un’intellettuale?
Forse sì. Non so bene che cosa significhi, ma credo di sì.
Sembra avere una visione molto semplice delle cose.
Ah, sì? Bene.
Beh, ho letto da qualche parte che a lei interessa che le cose si spieghino semplicemente.
Sì, è vero. Ma non penso mai di volerle spiegare in modo più semplice; questo è solo il mio modo di scrivere. Credo di scrivere naturalmente così, senza dover pensare di rendere il mondo più semplice.
Le sono mai capitati periodi in cui non riusciva più a scrivere?
Sì. Beh, ho anche smesso di scrivere, quando è stato? circa un anno fa. Ma quella è stata una decisione, più un non voler scrivere che non riuscirci; avevo deciso di vivere come il resto del mondo. Perché quando si scrive si fa una cosa di cui gli altri non sanno niente, e non se ne può parlare, si torna di continuo al proprio mondo segreto per poi fare cose diverse nella vita normale. E questo mi ha un po’ stancata; l’ho fatto sempre, per tutta la vita. Quando mi capitava di incontrare scrittori diciamo più accademici, mi agitavo perché sapevo che non avrei mai potuto scrivere come loro, non avevo quel dono.
Immagino si tratti di un modo diverso di raccontare una storia.
Sì, ma io non ho mai lavorato alle storie in modo, come dire, consapevole, o meglio, naturalmente sono consapevole, ma lavoro più secondo il mio bisogno e il mio gusto che seguendo un’idea.
Aveva mai pensato di vincere il Premio Nobel?
Oh, no, mai! Una donna! D’accordo, qualche donna l’ha avuto. Insomma, questo onore mi fa felice, molto, ma non ci avevo mai pensato, forse perché gli scrittori tendono a sottovalutare il proprio lavoro, specie a cose fatte. Comunque non si va in giro a dire agli amici, sai, forse vincerò il Premio Nobel. Si tende a non farlo.
Le capita ultimamente di tornare a leggere uno dei suoi vecchi libri?
No! No! Mi spaventa. È probabile che proverei un bisogno irrefrenabile di cambiare una cosetta qua e una là; l’ho anche fatto, su certe copie tirate fuori dalla libreria, ma poi mi rendevo conto che non serviva a niente, perché le copie in circolazione restavano uguali.
C’è qualcosa che vorrebbe dire ai membri dell’Accademia di Stoccolma?
Oh, voglio dire che sono estremamente grata di questo grande onore e che niente, niente al mondo poteva rendermi più felice. Grazie!
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Intervista di Stefan Åsberg.
Produzione: Swedish Educational Broadcasting Company and Swedish Television.
Registrata il 12 e 13 novembre 2013, in Canada.
©Swedish Academy, Swedish Educational Broadcasting Company and Swedish Television.