Intervista a Paola Mattioli di Matteo Bergamini

Il pretesto per incontrarci e parlare, stavolta, è dato dal libro Mémoires d’Afrique. È l’ultima tappa di una serie di viaggi in Africa fatti da Paola Mattioli con Sarenco, negli scorsi anni, che sulla carta stampata (con prefazione di Achille Bonito Oliva) hanno trovato una nuova dimensione. Io diligentemente ho preparato una serie di domande, inviate prima alla fotografa, pensando che sarebbe potuto essere un modo semplice per seguire una traccia precisa. Quando arrivo in studio, invece, non solo trovo le risposte, ma un vero e proprio saggio (composto da numerosi frammenti di altri testi) che – come spesso accade – rappresentano per Mattioli quelle “note a margine” imprescindibili dai suoi scatti, dal suo modo di vedere la realtà. Ecco il risultato, decisamente originale, di un’intervista con tanti “Cfr”.

Vorrei partire da un altro punto di vista. Che significato ha per te, come fotografa, l’oggetto-libro?
«Le fotografie o si mettono su un muro di una esposizione, o si impaginano in un libro. Un libro vuol dire lavorare su doppie pagine. In più c’è un rapporto con il testo, anche per evitare le didascalie. La mia generazione (nutrita per esempio da Scheiwiller, Einaudi, Adelphi, e in più dai libri d’artista) ha avuto un rapporto d’amore verso l’oggetto libro. Ogni libro contiene una sua piccola architettura, e qualche segreto per il lettore attento (in questo caso ci sono delle stelline rosse…)».

È un aspetto che ha che fare con la “mania della catalogazione” che si riconduce anche alla pratica del fotografare come necessità di cogliere un residuo del mondo? Azzardo alle immagini dello sterminio, raccontate da Didi-Hubermann: qualcosa “dell’altrove” che possa permanere
«Residuo. In che senso? A voler catalogare troppo, rischi di ricostruire il mondo intero; forse il problema è la scelta di quale “residuo del mondo” catalogare, in funzione di un senso. Vorrei valorizzare l’aspetto “diario”, il partire da sé, dalla propria esperienza e dunque dalla parzialità, l’archivio per un fotografo».
Ci racconti dei vari step di “Memorie d’Africa”? Il libro è nato a distanza di anni dai tuoi viaggi con Sarenco?
«Quando Sarenco mi ha proposto di seguirlo in Africa, ho pensato a Mulas che è andato negli Stati Uniti a fotografare la Pop Art, al suo senso di responsabilità culturale nel far conoscere quel mondo, quindi mi è sembrata una opportunità irrinunciabile (fotografare come modalità del conoscere e poi del far conoscere). Sarenco è un poeta visivo e la sua entratura in Africa è poetica. Il patto era generoso: ti porto con me, e ti offro la mia conoscenza. Il libro è seguito dopo qualche anno, per motivi indipendenti dal progetto».
Che effetto ti ha fatto ripercorrere le storie di Seni Camara e delle Signares per cui eri partita?
«La ripresa del tema Seni Camara-Signares mi ha permesso di riprendere l’argomento e di collocarlo in un contesto più ampio  e complesso: l’altro mondo, l’alterità, lo spaesamento: Effetto unheimlich. L’essere artista in Africa, le Regine d’Africa, dunque le donne, e infine – tra un capitolo e l’altro – i lavori miei che l’Africa ha suggerito (1)».
Nel corso della tua carriera hai fotografato soggetti diversissimi, spostando l’obiettivo dalla rielaborazione di esperienze personali (come “Il frutto del fuoco”) alle serie dedicate al lavoro (“Fabbrico e Dalmine”) fino alle questioni più sociali (“Immagini del No”). 
«Karen Blixen, nella Mia Africa, racconta una storia che le veniva narrata da bambina: una notte, un uomo che viveva nei pressi di uno stagno viene risvegliato da un terribile fragore: è l’argine che sta cedendo. Si precipita a tappare la falla correndo di qua e di là e, quando ha finito, se ne torna a letto. Al mattino, affacciandosi alla finestra, vede che i suoi passi disordinati hanno creato sul terreno il disegno di una cicogna. «Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?» si chiede Blixen. Il mio prossimo progetto: mettere insieme tutti i lavori, tutte le fotografie, rompendo le sequenze e stare a vedere come le immagini si ricompongono (sì, lo fanno in gran parte da sole, chiamandosi: le fotografie camminano, fanno il loro percorso, diventano altro, ti sfuggono, vanno a imparentarsi con altre immagini con le quali instaurano rapporti di vicinanza, relazioni di simpatia, e tu in fondo c’entri solo fino a un certo punto…) su un tavolo di montaggio (2) che mi stupisca, mi dica del mio lavoro più di quanto io sappia, quel di più che per fortuna non è del tutto controllabile».
Visto che abbiamo già delle note a margine ti chiedo: Quanto è importante il contributo dei testi critici nella definizione del tuo percorso? 
«Ci sono diversi esempi nei quali io ho preso parole per me. Per esempio, quando Gigliola Foschi, nel 2008, ha inventato il titolo “Una sottile distanza” per una mia mostra – traendolo dal suo testo critico – o quando Elisabetta Longari ha sottolineato in un suo scritto “la centralità del montaggio, come il maggior produttore di senso” a proposito degli accostamenti di immagini che di solito propongo, o quando tu stesso hai scritto, nel testo per Ultimo quarto che “l’unica possibilità che ci è data per sopravvivere al labirinto, è cercare di attraversarlo a passo di danza” in riferimento a un mio lavoro».
Come si potrebbe definire la ricerca che ha accompagnato “Memorie d’Africa”?
«Mi piacerebbe avere da te una definizione, piuttosto che darla io. Bonito Oliva, nella prefazione: «Un luogo comune assegna alla fotografia il luogo di una crudele oggettività, il senso di una pratica chirurgica che seziona, taglia e preleva il dettaglio dalla rete di relazioni con il mondo. Paola Mattioli, che pratica da molti anni una tangenza con il mondo dell’arte, capovolge questo luogo comune e introduce nell’ambito dell’immagine fotografica la torsione che appartiene alla storia della pittura, adoperando rigorosamente gli strumenti del linguaggio fotografico. Si mette nella posizione del duello, nella frontalità istituzionale del fotografo di fronte al dato, ma non lascia scattare il dito sulla macchina precipitosamente, bensì promuove una serie di relazioni e di rispecchiamenti, per cui arriva all’immagine mediante un rallentamento mentale e l’assunzione di una posizione di lateralità rispetto al proprio mezzo».
Che cosa cerchi da un soggetto, e da uno scatto?
«L’Africa vista da te (o da voi due) mi ha sbalordita, come rivedere una persona che conoscevo stanca e malata, rivederla raggiante, in forze, nuova, stupefacente», ha scritto in una mail Luisa Muraro. Da un singolo scatto mi aspetto abbastanza poco, mi aspetto molto da una serie, da un progetto che vuole approfondimento, studio, dedizione e anche coerenza con gli altri progetti ai quali ti sei dedicata. Certo, il singolo scatto deve essere “buono” (nel senso ricordato da Berengo Gardin (3) perché più è buono, più ha senso, più è pulito, più si intreccia e risuona con le altre immagini (di qui un grande lavoro di selezione, ri-pulitura, essenzialità)».


(1) «Effetto Unheimlich, per usare un termine di Freud, sul bordo dell’angoscia di una distanza tanto più invalicabile quanto più ti si avvicina. L’arte di questa soglia (l’arte dell’ospitalità) appartiene a chi, lui o lei, riesce a entrare in casa tua senza che tu abbia preparato la visita; l’ospite è quello che sa accettare l’arrivo. Un’arte e una passività entrambe molto difficili, perché giocano di fioretto tra la vita e la morte».
Pier Aldo Rovatti, in un testo inedito (scritto nel 1997) per una mia fotografia (1968)
(2) «Un’immagine senza immaginazione è semplicemente un’immagine su cui non si è passato abbastanza tempo a lavorare. Poiché l’immaginazione è lavoro; è quel tempo di lavoro delle immagini che agiscono senza posa le une sulle altre per collusione o per fusione, per frattura o per metamorfosi… Il tutto agendo sulla nostra attività di sapere e di pensiero. Per sapere, bisogna dunque davvero immaginare: la tavola di lavoro speculativa si accompagna sempre a una tavola di montaggio immaginativa».
Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto
(3) «Avevo un rapporto bellissimo con Ugo. Lui era molto generoso, di consigli e di affetto. Ci trovavamo a casa sua con Ferdinando Scianna, entrambi giovani e con poca esperienza, ma avidi di ascoltare i suoi racconti e i suoi consigli. Ricordo una volta in cui Mulas mi mostrava le foto e io, ammirato ed esaltato, non facevo che ripetere: “Bellissimo! Bellissima! Stupenda!”. A un certo punto, Ugo mi ha minacciato che se non l’avessi finita di dire che le sue foto erano belle, mi avrebbe cacciato di casa. Io, imbarazzatissimo, risposi che non sapevo cosa avrei potuto dire e lui “devi dire che è una buona fotografia, non una bella fotografia. C’è una differenza enorme. Le belle fotografie sono esteticamente magnifiche ma non dicono niente. Mentre una buona fotografia ha contenuti eccezionali e in questo sta il suo valore”».
Gianni Berengo Gardin – Inediti (o quasi)

di Alessandra Pigliaru

 

Dopo il bell’esordio di Undici (2008), fina­li­sta al Pre­mio Cal­vino del 2007, Mia figlia fol­lia (2010) e Ogni madre (2012), tutti editi per le edi­zioni nuo­resi Il Mae­strale, adesso arriva un’ulteriore con­ferma: Savina Dolo­res Massa è una scrit­trice molto brava e leg­gerla è un’esperienza di bel­lezza che ci si dovrebbe saper con­ce­dere. Il suo ultimo romanzo si inti­tola Cenere calda a mez­za­notte (Il Mae­strale, pp. 430, euro 18) ed è un canto maturo, pieno e com­mo­vente. A muo­versi nelle folte pagine con­se­gna­teci dall’autrice ori­sta­nese sono per­so­nagge e per­so­naggi dal carat­tere coc­ciuto e fiero che fanno della pro­pria pre­ca­rietà l’osservazione pri­vi­le­giata del mondo, al dritto e al rove­scio. Non temono giu­dizi, distin­guono cata­strofi dell’anima e del corpo e rac­con­tano una sto­ria che si svolge lungo quasi cento anni nella pic­cola comu­nità di Ari­stà­nis (nome in sardo di Oristano).

Il carat­tere di tran­si­to­rietà con­tras­se­gna le descri­zioni fatte da Massa, tut­ta­via la signi­fi­ca­zione esatta è quella che si gioca tra il rad­dop­pia­mento della realtà e la con­di­zione mate­riale di vita. Se la prima non è mai una scap­pa­toia bensì la capa­cità elet­tiva della scrit­tura di costruire mondi pos­si­bili, la seconda mostra come di quel desi­de­rio di allon­ta­na­mento non si pos­sano tacere mai le meta­mor­fosi cor­po­ree. La cenere non si sof­ferma qui solo alla fini­tu­dine ma diviene cro­cic­chio tra rea­li­smo magico e poe­tica della vul­ne­ra­bi­lità. E di sto­rie esem­plari, potremmo aggiun­gere, che cuciono l’atmosfera rare­fatta e al con­tempo tan­gi­bile di donne e uomini comuni in costante combattimento.

La disci­plina per resistere

Nella pic­cola comu­nità sarda che Savina Dolo­res Massa rac­conta a par­tire dagli inizi del Nove­cento, la cenere è infatti anche la pie­tas che viene meno quando i viventi cer­cano si sopraf­fare le pro­prie e i pro­pri simili, fino a rap­pre­sen­tare le spo­glie di un modo nuovo di stare nel mondo tra la neces­sità di fare comu­nità e la libertà di con­trav­ve­nire alle regole pre­sta­bi­lite. Ma la cenere è altresì la stessa che Bona­ria e Pep­pina uti­liz­zano nel pro­prio lavoro in una casa padronale.

Nel regi­stro iro­ni­ca­mente tagliente uti­liz­zato dall’autrice, la con­fi­denza con la pro­pria fra­gi­lità è pro­por­zio­nale alla forza del pren­dere parola. Un ordine del discorso che l’autrice disci­plina poli­ti­ca­mente in favore di chi resi­ste o ha resi­stito. Le voci inad­do­me­sti­cate che non sanno nulla dell’avidità e alle quali «la vanità non serve», assu­mono nel romanzo una tra­vol­gente ener­gia asser­tiva. Si deve dare retta a quel vociare per­ché in fondo è pro­prio que­sta la lezione di fuoco a cui il romanzo e l’interesse della scrit­trice da sem­pre si appella. Si potranno sco­prire i rac­conti di amore e di morte della fami­glia Mam­maiòni, cioè di quando Anto­nio perde la moglie Bona­ria, crea­tura taci­turna «che lasciava il calco di sé ovun­que», in seguito a un inci­dente tanto pic­colo quanto fatale. Nella deci­sione dell’uomo di farne durare il ricordo attra­verso lo scam­bio con i pro­pri tre figli ancora pic­coli, prende avvio l’esercizio sim­bo­lico della rico­no­scenza. Soprat­tutto si impa­rerà la stoffa sociale e di affe­zione tra­sfor­ma­tiva che Savina Dolo­res Massa con­se­gna a Chic­chino, Gio­ma­ria, Angelo, Rebecca, Tom­maso, Maria e a tutta la lita­nia di donne e uomini che abi­tano le dense pagine di Cenere calda a mez­za­notte. In un oriz­zonte privo di eroi­smi e risar­ci­menti dell’onore per­duto, l’autrice con­verte il corpo della scrit­tura in una mol­ti­tu­dine che sa met­tersi a repen­ta­glio «anche quando in pan­cia si agi­ta­vano spade che feri­vano, e non erano duelli tra cava­lieri e cavalli (…) ma fame». Fino al gioco della memo­ria. O ancora fino al pro­ta­go­ni­smo di una intera comu­nità del desi­de­rio che tra­figge la sto­ria dell’ingiustizia e del costante man­carsi e ritrovarsi.

I peri­me­tri rivoltati

Nella siste­ma­zione can­giante di gene­ra­zioni che si dipa­nano in una tes­si­tura rela­zio­nale sor­pren­dente, Savina Dolo­res Massa si muove con mae­stria a trat­teg­giare un pae­sag­gio — umano e natu­rale — par­lante di attese e pre­mo­ni­zioni, con­sa­pe­vole di una resti­tu­zione com­plessa tra lotta per la soprav­vi­venza ed ere­dità di chi ci ha pre­ce­duto. Su quest’ultimo tema, il con­ge­gno della scrit­tura rag­giunge un com­pi­mento nella nar­ra­zione di luo­ghi para­dig­ma­tici di cui pos­siamo seguire il det­ta­glio nel tempo. Tra le tante, par­ti­co­lar­mente impor­tante è la sto­ria di Petro­nilla e Lui­setta, madre e figlia che sco­prono la dif­fi­coltà di dirsi pros­sime nell’accoglienza di un cor­redo fami­liare pesante con cui non si fini­sce mai di fare i conti. Del resto l’interrogazione rimane aperta: «Per­ché que­sta sorte di nascere donna? E cosa volevi essere? Nuvola».

Ma il corpo a corpo non è solo quello con la pro­pria madre, è bensì più ampio e con­tro­verso come ogni signora della scrit­tura sa pre­sa­gire. È infatti nell’assunzione di respon­sa­bi­lità verso il futuro da parte della genea­lo­gia che l’autrice trova una sua spe­ci­fica libertà di movi­mento. Intanto del suo stesso lavoro, giac­ché Cenere calda a mez­za­notte è un libro che per rigore e dedi­zione rie­sce a com­porre in via defi­ni­tiva la costel­la­zione di alcune let­ture capi­tali. Non stu­pi­ranno in que­sto senso diverse con­so­nanze con le grandi scrit­ture poe­ti­che e let­te­ra­rie nove­cen­te­sche, tra tutte basti pen­sare a quelle con Anna Maria Ortese. In secondo luogo, nel suo lento rimem­brare la sto­ria di una terra che può essere la Sar­de­gna come qual­siasi altra, per­ché a par­larne sono quelle e quelli che ne hanno saputo agi­tare e rivol­tare i peri­me­tri. E se la pre­fe­renza va alla quo­ti­dia­nità di allar­gati nuclei fami­liari che cer­cano di darsi giu­sti­zia, è vero che in que­sta cura per chi rie­sce a soprav­vi­vere non c’è mai cele­bra­zione della vit­tima. Piut­to­sto si reclama la pro­se­cu­zione di una resi­stenza visio­na­ria che, ogni volta come fosse la prima, sce­glie la nar­ra­zione espe­rien­ziale come metodo ine­lu­di­bile e com­pe­tente di dare parola al mondo.

(il manifesto, 8 gennaio 2014)


DAL SITO DI EINAUDI 

Il tradizionale discorso di accettazione del Premio Nobel per la Letteratura si è tenuto, quest’anno, sabato 7 dicembre. Alice Munro non è salita sul palco dell’Accademia di Svezia, ma ha deciso di intervenire con una splendida intervista, che potrete leggere nella traduzione di Susanna Basso.


Una conversazione con Alice Munro 

Ho cominciato a interessarmi alla lettura molto presto, quando qualcuno mi lesse una storia di Hans Christian Andersen: La Sirenetta; ora, non so se la ricorda, La Sirenetta, ma è una storia tristissima. La sirenetta si innamora di un principe, ma non lo può sposare, essendo una sirena. Guardi, è davvero triste, le risparmio i dettagli. In ogni caso, appena la storia finì, io corsi fuori e mi misi a girare intorno alla casa di mattoni dove abitavamo allora, e mi inventai una fiaba a lieto fine, perché mi pareva che glielo si dovesse, alla sirenetta, e chissà come non mi passò per la mente che la diversa storia che avevo creato era solo per me, non avrebbe mai circolato, ma a me pareva comunque di aver fatto del mio meglio, ero convinta che da allora in poi la sirenetta avrebbe sposato il principe, che sarebbero vissuti per sempre felici e contenti, e che lei se lo meritasse, dal momento che aveva fatto delle cose tremende perchè il principe potesse rientrare in possesso delle sue facoltà ed evitare turbamenti. Si era dovuta trasformare fisicamente, procurarsi arti come quelli delle persone normali, mettersi a camminare, ma ogni passo le costava atroci sofferenze. Ecco che cosa era stata disposta a fare per conquistare il principe. Perciò mi pareva che meritasse di più che una morte in acqua. E non mi preoccupavo del fatto che il resto del mondo non conoscesse mai la versione nuova, perché dopo averla pensata mi sembrava che esistesse comunque. Ecco. Ho cominciato presto a scrivere, come vede.

E, ci dica, quando ha imparato a raccontare storie, a scriverle?
Inventavo storie in continuazione. Andavo a piedi a scuola, ed era lontano, e di solito durante il tragitto inventavo una storia. Sempre più spesso, crescendo, le mie storie parlavano di me che ne ero l’eroina in situazioni diverse; non mi importava che non venissero subito pubblicate, anzi, non so neppure se al tempo avessi in mente che altri le dovessero conoscere o leggere. Il punto era il racconto in sé, di solito molto appagante dal mio punto di vista, animato dall’idea di fondo della sirenetta, e cioè che lei era temeraria, intelligente, capace in senso lato di costruire un mondo migliore con la sua sola presenza, in quanto dotata di poteri magici e cose simili.

Era importante il fatto che la vicenda sarebbe stata narrata da una prospettiva femminile?
Non ho mai pensato che fosse importante, ma d’altra parte non ho mai pensato a me stessa se non come a una donna, e di buone storie che parlavano donne e bambine ce n’erano parecchie. Con l’arrivo dell’adolescenza l’equilibrio si sbilancia a favore della collaborazione da offrire all’uomo per aiutarlo a realizzare i suoi traguardi e così via, ma da bambina non mi sentivo affatto inferiore in quanto femmina. Forse perché abitavo in una zona dell’Ontario dove a leggere e raccontare storie erano soprattutto le donne, mentre gli uomini erano impegnati a fare le cose importanti e non si occupavano di sicuro delle storie. Perciò mi sentivo piuttosto a mio agio.

In che modo l’ambiente l’ha ispirata?
Sa, non credo di averne avuto bisogno. Ritenevo le storie essenziali per il mondo e volevo contribuire con qualcuna di mia, era questo che desideravo fare e la cosa non aveva niente a che vedere con gli altri, non era necessario che lo dicessi a nessuno. È stato solo molto più tardi che mi sono resa conto di quanto sarebbe stato bello se anche uno solo di quei racconti avesse raggiunto un pubblico più vasto.

Che cosa è importante per lei in una storia?
Beh, all’inizio naturalmente la cosa importante era il lieto fine, non tolleravo che una storia finisse male, almeno non per le mie eroine. Poi ho cominciato a leggere libri come Cime tempestose, che finivano malissimo, e a quel punto ho cambiato radicalmente idea e mi sono appassionata al tragico.

Che cosa c’è di interessante nella descrizione della vita della provincia canadese?
Basta viverci per saperlo. Sono dell’avviso che qualsiasi vita e qualsiasi posto possano essere interessanti. E poi non credo che sarei stata altrettanto coraggiosa se fossi vissuta in città, in competizione con altri a un livello culturalmente più alto. Con questo non ho dovuto misurarmi. Ero la sola persona di mia conoscenza che scrivesse racconti, anche se non li raccontavo a nessuno, e per quanto ne sapessi, almeno per qualche tempo, ero la sola persona al mondo che fosse capace di farlo.

È sempre stata così sicura della sua scrittura?
Lo sono stata a lungo, ma crescendo e incontrando altre persone che scrivevano, sono diventata al contrario molto insicura. È stato allora che ho capito che era un mestiere un po’ più difficile di quanto mi aspettassi. Ma non ho mai rinunciato; scrivere era una delle cose che facevo.

Quando inizia una storia, ha già in mente la struttura narrativa?
Sì, ma poi spesso si modifica. Parto da un intreccio e ci lavoro e magari mi accorgo che va da un’altra parte e che le cose succedono mentre scrivo, però devo comunque partire da un’idea abbastanza chiara sul contenuto della storia.

Quanto la assorbe l’attività di scrittura?
Oh, moltissimo. Comunque le mie figlie hanno sempre mangiato lo stesso, dico bene? Come casalinga ho imparato a scrivere nei ritagli di tempo e credo di non averci mai rinunciato, nonostante i periodi di scoraggiamento, quando mi rendevo conto che le mie storie non erano abbastanza buone, che avevo ancora tanto da imparare e che sarebbe stata molto più dura del previsto. Ma non mi sono fermata, credo di non averlo mai fatto.

Qual è la parte più difficile quando si scrive una storia?
Credo sia la rilettura, quando capisci che non funziona. Si parte dall’euforia, si approda a una soddisfazione discreta e poi, una mattina, prendi in mano il testo e pensi «che stupidaggine», ed è allora che ti ci devi proprio impegnare. A me è sempre sembrato che fosse la cosa giusta; se qualcosa non funzionava era colpa mia, non della storia.

Ma come la modifica se non è soddisfatta?
Ci lavoro, parecchio. Aspetti però, cerco di spiegarmi meglio. Potrebbero esserci dei personaggi che sono stati trascurati: bisogna riflettere su di loro e trasformarli. Una volta tendevo a concedermi una prosa molto fiorita, ma a poco a poco ho imparato a limarla al massimo. Quel che si fa è semplicemente concentrarsi sulla storia e scoprire di che cosa parla davvero. Magari credevi di saperlo sin dall’inizio e invece avevi ancora tanto da imparare.

Quante storie ha buttato via?
Ah, da giovane le buttavo via tutte. Non saprei, ma di recente non mi succede più spesso; di solito so che cosa occorre fare per renderle vive. Anche se trovo ancora, sempre, un errore qua e là, e mi rendo conto che è un errore, ma che lo devo lasciar andare.

Rimpiange le storie che butta via?
Non direi, perché quando succede mi ci sono già arrovellata abbastanza da sapere che non funzionava alla radice. Ma, come dico, ormai non succede più molto spesso.

Come cambia la scrittura, col passare degli anni?
Oh, beh, direi in modo molto prevedibile. Si comincia a scrivere di giovani principesse bellissime, poi si passa alle massaie con figli e ancora più avanti alle vecchie e così via, senza che occorra opporre resistenza. Perché cambia la visione della vita.

Crede di essere stata importante per altre scrittrici, in quanto madre di famiglia capace di far coesistere il lavoro di casa con la scrittura?
Davvero non saprei, spero di sì. Da giovane in effetti mi rivolgevo ad altre scrittrici, erano fonte di grande sostegno per me, ma non so dirle se lo sono stata anch’io. Credo che per le donne sia diventato, non voglio dire molto più facile, ma di sicuro più accettabile dedicarsi a qualcosa di impegnativo e non solo concedersi il proprio piccolo svago, quando sono tutti usciti di casa; fare sul serio con la scrittura, insomma, come fanno gli uomini.

Che impatto crede di avere su chi legge i suoi racconti, specie se donna?
Beh, vorrei che le mie storie emozionassero i lettori, non mi importa se uomini, donne o bambini. Voglio che parlino di vita, che non facciano solo pensare «sì, ecco, è proprio vero», ma che offrano una specie di ricompensa attraverso la scrittura, il che non significa che debbano essere a lieto fine, ma piuttosto che quello di cui si legge tocchi il lettore tanto da farlo sentire un po’ cambiato, alla fine.

“Chi ti credi di essere?” Che cosa ha significato per lei questa espressione?
Beh, sono cresciuta in campagna, in un ambiente di origine perlopiù scozzese e irlandese nel quale l’idea di non dover apparire né ritenersi troppo in gamba era molto diffusa. Anche quello era un ritornello ricorrente “Ah, ti credi in gamba tu”.  E per dedicarsi a un’attività come la scrittura per molto tempo si ritenne necessario credersi in gamba, ma io ero solo un po’ stravagante.

È stata una femminista ante litteram?
Non conoscevo neppure la parola, ma sono stata femminista naturalmente, perché sono cresciuta in una zona del Canada dove dedicarsi alla scrittura era più facile per una donna che per un uomo. I grandi scrittori, quelli importanti, erano uomini, ovviamente, ma scoprire che una donna scriveva racconti la screditava meno di quanto avrebbe screditato un uomo. Scrivere non era roba da uomini. Comunque, le cose andavano così quando io ero giovane; adesso è tutto cambiato.

Crede che la sua scrittura sarebbe stata diversa, se avesse concluso gli studi?
È probabile, in effetti. Sarei stata molto più prudente e molto più spaventata all’idea di essere uno scrittore, dal momento che più scoprivo che cosa avevano fatto altri e più mi intimidivo. Forse avrei pensato di non essere all’altezza, ma non credo che avrei rinunciato, comunque. Forse per un po’, ma il desiderio di scrivere era talmente forte in me che ci avrei provato lo stesso.

Crede che la scrittura per lei sia stata un dono?
Le persone che mi circondavano probabilmente l’avrebbero definita così, ma a me non è mai sembrata un dono; mi sembrava solo una cosa che sapevo fare, se mi ci impegnavo molto. Perciò, se di dono si è trattato, di sicuro non ha reso le cose facili, almeno non dopo La Sirenetta.

Ha mai avuto delle esitazioni, ha mai pensato di non essere abbastanza brava?
Continuamente, continuamente! Ho buttato via più di quanto abbia mai spedito agli editori o abbia portato a termine, almeno fino quasi ai trent’anni. Ma non ho mai smesso di imparare a scrivere come volevo. Perciò, no, non posso dire che sia stato facile.

Che ruolo ha avuto la figura di sua madre?
Oh, il rapporto con mia madre è stato sempre molto complicato, perché lei era malata di Parkinson e aveva bisogno di costante aiuto, aveva difficoltà di parola, la gente non la capiva quando parlava eppure lei amava essere in compagnia, stare in mezzo agli altri, ma naturalmente il suo problema glielo impediva. Perciò la sua persona mi metteva in imbarazzo; le volevo bene ma per certi versi non volevo essere identificata con lei, detestavo espormi ripetendo le cose che voleva farmi dire al posto suo; è stato difficile, come sarebbe per qualsiasi adolescente interagire con un genitore o una persona in qualche modo menomata. A quell’età si vorrebbe essere completamente liberi da problemi simili.

Sua madre è stata anche una fonte di ispirazione?
Probabilmente sì, ma non in modi che potessi individuare e comprendere. Non ricordo un tempo della vita nel quale io non abbia scritto storie, se non proprio sulla carta, raccontato, e non a lei, ma a chiunque. Eppure, il fatto che mia madre leggesse, e così pure mio padre…Credo che mia madre si sarebbe mostrata più accogliente nei confronti di qualcuno che volesse diventare scrittore. L’avrebbe giudicata un’attività ammirevole, ma le persone che mi circondavano non sapevano che io volessi fare lo scrittore, perché non permettevo a nessuno di scoprirlo; alla maggior parte di loro sarebbe sembrato ridicolo. Molte delle persone che conoscevo non avevano l’abitudine di leggere, perciò affrontavano le cose in modo molto pratico e io sentivo di dover proteggere la mia visione della vita.

È stato difficile raccontare una storia vera da una prospettiva femminile?
No, niente affatto, essendo la mia, non mi ha mai dato problemi. Sa, uno dei fenomeni particolari per chi è cresciuto in un ambiente come il mio è che se qualcuno leggeva, erano le donne, se qualcuno studiava, spesso era una donna, magari per diventare maestra di scuola, o qualcosa del genere; lungi dall’essere interdetto alle donne, il mondo dei libri e della scrittura si rivolgeva più a loro che agli uomini, impegnati in campagna o in altri mestieri.

Lei è cresciuta in una famiglia proletaria?
Sì.

E anche le sue storie sono nate lì.
Sì. Non perché volessi scrivere storie proletarie. Mi guardavo intorno e scrivevo di quello che vedevo.

E le stava bene di dover scrivere a orari fissi, secondo una tabella di marcia dettata dai figli e dalla cena da mettere in tavola?
Beh, scrivevo appena potevo, e il mio primo marito mi sosteneva moltissimo; per lui scrivere era un’attività lodevole. Non lo giudicava un mestiere inadatto a una donna, come molti degli uomini che ho conosciuto in seguito. Per lui era importante che lo facessi e non ha mai cambiato idea.

***

In libreria

Fu molto divertente al principio, perché ci trasferimmo qui, decisi ad aprire una libreria, e tutti pensavano che fossimo impazziti e che avremmo fatto la fame, ma non è stato così. Lavoravamo parecchio.

Quanto contava la libreria per voi due, all’inizio?
Era la nostra vita. Tutto ciò che avevamo. L’unica fonte di reddito. Il giorno dell’inaugurazione incassammo 175 dollari. Ci parvero molti. E avevamo ragione, perché ci volle parecchio tempo prima che riuscissimo a guadagnarne di nuovo altrettanti.
Io stavo dietro al banco, cercavo i libri per i clienti, le cose che si fanno in una libreria, insomma, generalmente da sola, e la gente entrava e si metteva a parlare di libri. Era soprattutto un punto d’incontro, prima ancora che un posto dove si andava a comprare, specie la sera, quando io ero in negozio da sola  e certe persone passavano regolarmente per parlare del più e del meno; era bellissimo, mi divertivo. Fino a quel momento ero stata una casalinga, chiusa in casa tutto il giorno. È vero che intanto scrivevo, ma quella fu una grande occasione di conoscere il mondo. Non credo che guadagnassimo molto; forse chiacchieravo un po’ troppo, anziché promuovere gli acquisti, ma è stato un periodo stupendo.

Un cliente in libreria.: – I suoi libri mi ricordano casa mia. Sa, io abito poco sotto Amsterdam. Grazie infinite, buongiorno.

Ma ci pensa? Non sa quanto mi fa piacere quando qualcuno si avvicina in questo modo, non solo per un autografo, ma per spiegarti come mai lo vuole.

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Lei desidera che i suoi libri siano fonte di ispirazione per le giovani donne e le incoraggino a scrivere?
A me importa solo che amino leggerli. Preferisco di gran lunga che la gente si diverta con i miei libri, più che trovarli fonte di ispirazione. È solo questo che voglio: che si divertano, che li sentano vicini alle loro vite in qualche modo. Il resto è meno importante. Quel che voglio dire è che non mi sento, non credo di avere intenti politici.

Lei è un’intellettuale?
Forse sì. Non so bene che cosa significhi, ma credo di sì.

Sembra avere una visione molto semplice delle cose.
Ah, sì? Bene.

Beh, ho letto da qualche parte che a lei interessa che le cose si spieghino semplicemente.
Sì, è vero. Ma non penso mai di volerle spiegare in modo più semplice; questo è solo il mio modo di scrivere. Credo di scrivere naturalmente così, senza dover pensare di rendere il mondo più semplice.

Le sono mai capitati periodi in cui non riusciva più a scrivere?
Sì. Beh, ho anche smesso di scrivere, quando è stato? circa un anno fa. Ma quella è stata una decisione, più un non voler scrivere che non riuscirci; avevo deciso di vivere come il resto del mondo. Perché quando si scrive si fa una cosa di cui gli altri non sanno niente, e non se ne può parlare, si torna di continuo al proprio mondo segreto per poi fare cose diverse nella vita normale. E questo mi ha un po’ stancata; l’ho fatto sempre, per tutta la vita. Quando mi capitava di incontrare scrittori diciamo più accademici, mi agitavo perché sapevo che non avrei mai potuto scrivere come loro, non avevo quel dono.

Immagino si tratti di un modo diverso di raccontare una storia.
Sì, ma io non ho mai lavorato alle storie in modo, come dire, consapevole, o meglio, naturalmente sono consapevole, ma lavoro più secondo il mio bisogno e il mio gusto che seguendo un’idea.

Aveva mai pensato di vincere il Premio Nobel?
Oh, no, mai! Una donna! D’accordo, qualche donna l’ha avuto. Insomma, questo onore mi fa felice, molto, ma non ci avevo mai pensato, forse perché gli scrittori tendono a sottovalutare il proprio lavoro, specie a cose fatte. Comunque non si va in giro a dire agli amici, sai, forse vincerò il Premio Nobel. Si tende a non farlo.

Le capita ultimamente di tornare a leggere uno dei suoi vecchi libri?
No! No! Mi spaventa. È probabile che proverei un bisogno irrefrenabile di cambiare una cosetta qua e una là; l’ho anche fatto, su certe copie tirate fuori dalla libreria, ma poi mi rendevo conto che non serviva a niente, perché le copie in circolazione restavano uguali.

C’è qualcosa che vorrebbe dire ai membri dell’Accademia di Stoccolma?
Oh, voglio dire che sono estremamente grata di questo grande onore e che niente, niente al mondo poteva rendermi più felice. Grazie!

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Intervista di Stefan Åsberg.

Produzione: Swedish Educational Broadcasting Company and Swedish Television.

Registrata il 12 e 13 novembre 2013, in Canada.

©Swedish Academy, Swedish Educational Broadcasting Company and Swedish Television.

di Gianluca Briguglia

 

Christine de Pizan, al termine del Medioevo, in un libro che non smette di stupire, immaginava una città costruita secondo i suggerimenti di Ragione, Rettitudine e Giustizia, una città fortificata chiamata la città delle dame, la città delle donne. Ripensare il mondo dalla prospettiva femminile è per Christine possibile e necessario, ne va delle donne e ne va degli uomini. Può sembrare un paradosso, ma forse è la lettura di Boccaccio – fonte certa – che le ispira un progetto di città delle donne che va molto al di là delle sue fonti. Non il Boccaccio misogino di una certa fase della sua produzione, ma il raccontatore dell’apporto femminile alla civiltà umana: dee, regine, poetesse, figure femminili storiche, sovrane. Certo in Boccaccio, e anche in Christine, alcune di loro sono descritte come virtuose in un senso maschile, ma molte altre sono figure della cura, della relazione, della generazione.

Il cammino delle sovrane, cioè di un pensiero di fondazione alternativa della convivenza, è un cammino lungo ma costante.

Annarosa Buttarelli, nel libro Sovrane. L’autorità femminile al governo, non cita Christine e forse scarterebbe Boccaccio, ma riprende quel filo e quel cammino di sovranità. Se c’è una via diversa per ripensare e rifondare la politica, questa via passa attraverso il pensiero dell’autorità femminile. È questo uno degli assunti del libro, un assunto carico di implicazioni e conseguenze. La prima è la necessità di decostruire il meccanismo della sovranità e quello della democrazia così come si sono formati nella tradizione occidentale.

Buttarelli ne mostra la strada sempre tenendosi in dialogo con pensatrici come María Zambrano, Simone Weil, Nicole Loraux, Carole Pateman. Il mito di fondazione della democrazia occidentale moderna, quello del contratto sociale, nasconderebbe e proteggerebbe un rimosso, quello del «contratto sessuale», come ritiro dell’intervento femminile (e del suo pensiero) nella sfera privata e come soggezione ai maschi in quanto tali. Sarebbe dunque questa soggezione non naturale a rendere possibile il contratto sociale moderno, che dà vita a una società civile di individui liberi, allo spazio del pubblico, «maschile», e all’oblio del privato femminile (e al paradossale spostamento del privato nel mondo civile attraverso l’impresa capitalistica). Questa subordinazione originaria rimane il modello e l’antecedente della subordinazione dell’individuo alle relazioni in ambito pubblico. D’altra parte lo stesso atto di fondazione della democrazia ateniese, archetipo di ogni pensiero democratico successivo, come uscita da una condizione di guerra civile, non sarebbe altro che il riconoscimento tra uomini, tra fratelli – in quanto figli della stessa città –, che si sono armati gli uni contro gli altri. La violenza inventa la democrazia e ne rimane paradossalmente garante.

Sono forse questi i due atti fondativi che bloccano permanentemente democrazia e sovranità, mentre la riflessione di Buttarelli fa affiorare possibili linee differenti di pensiero. L’autorità femminile è improntata alla relazione, è generatrice di relazione. Per questo la finzione dell’individuo e la nozione di rappresentanza, che da essa scaturisce, escluderebbero l’esperienza femminile dal modello politico della nostra tradizione. La rappresentanza di fatto oscura le pratiche delle relazioni, modellizza l’esperienza politica e del potere su una base non femminile. Proprio come il «popolo», termine che resiste all’individualismo politico, che resiste alla gerarchizzazione e al comando, le donne indicano con la loro esperienza l’orientamento al relazionale. E proprio gli elementi che relegavano l’esperienza femminile al privato, al non pubblico, al non politico – Buttarellii sulla scorta della Zambrano evoca l’intimo, il contestuale, il domestico – diventano la sostanza di un ripensamento dell’autorità nella sua radice femminile. Se la sovranità è ciò che sta sopra, nell’esperienza femminile essa si manifesta come la anarché di Antigone, come il senza-principio, il «da sempre», che è uno stare sopra la legge e non contro, una relazionalità che precede la legge. Quello femminile, discendente da questa concezione di sovranità, è dunque un governo delle relazioni e del loro spazio simbolico, non della rappresentanza come sostituzione, come rappresentazione fittizia di individui.

Un rovesciamento simile è operato dalla Buttarelli anche come accesso alle pratiche economiche. L’amore per il superfluo, che a detta dell’autrice caratterizza le donne, consente di pensare l’economico in modo diverso, «saltando l’utile», cioè cercando di sfuggire alle morse antropologiche di un capitalismo che dà all’accumulazione e alla moltiplicazione di denaro il valore simbolico portante. Ciò a cui pensa Buttarelli è invece un’economia del «soprammercato», uno spazio simbolico che mette in valore ciò che essenziale e ciò che è superfluo, che dialogano tra loro sfuggendo alla logica dell’utile, criterio guida di una certa cultura economica contemporanea.

Le emergenze storiche o testuali di queste linee di sovranità e autorità femminili sono per Buttarelli rintracciabili in concrete esperienze di vita o di scrittura, a cui il libro dedica un capitolo: la badessa del XII secolo Ildegarda di Bingen, che fa del discernimento l’accesso a una razionalità che è la vera regalità; o Elisabetta I d’Inghilterra, che si proclama Vergine a significare il suo essere svincolata da qualsiasi soggezione; o anche Elisabetta del Palatinato, che in un carteggio con Cartesio sulle passioni dell’anima lo richiama alla concretezza dell’esperienza e della vita; o Anna Maria Ortese e la sua cosmologia politica, le Preziose e Carla Lonzi.

È con loro, per Buttarelli, che si possono trovare varchi di comprensione di una differente e praticata esperienza di sovranità, come è in esperienze contemporanee – come quella delle operaie tessili di Brescia tra anni ’80 e ’90 che in un delicato frangente di crisi rendono la relazione nel lavoro e il valore della cura e della qualità un’opzione praticabile di organizzazione – che il governo femminile mostra la sua autorità. Il libro di Annarosa Buttarelli è ricco e complesso, non privo di tensioni interne, che certamente stimola approfondimenti, richiede discussione, provoca obiezioni (il relazionale è solo ed eminentemente femminile? Non è la finzione individualista una trappola senza genere, per così dire?). È però anche un libro profetico, quando propone il progetto di un’alleanza tra donne e uomini per ripensare la sovranità e organizzare diversamente la nostra convivenza, ascoltando le leggi della vita e della relazione. Che sia giunto il tempo di farsi guidare dall’autorità femminile e dal suo governo?

(Il Sole 24 ore, domenica 1° dicembre 2013)

Annarosa Buttarelli, Sovrane. L’autorità femminile al governo, Il Saggiatore, Milano, pagg. 238, € 18

di Anna Maria Crispino

Quando nel 2007 le fu assegnato il Premio Nobel per la Letteratura – riconoscimento atteso da anni, sin dalla pubblicazione de Il taccuino d’oro (1962) – alcuni commentatori sostennero che il Premio arrivava troppo tardi: non solo perché Doris Lessing aveva 88 anni, ma perché le “tematiche femminili” che trattava erano ormai superate.  Anche quell’anno i pronostici più autorevoli indicavano tra i favoriti Philip Roth, come in questa edizione 2013 in cui il Nobel è andato a Alice Munro sollevando identici mugugni.  Ma per Doris Lessing il valore di quel Premio va ben al di là della motivazione della giuria di Stoccolma, e il tempo lo ha dimostrato. Lei non è stata infatti solo “la cantatrice epica delle esperienze femminili” ma una formidabile anticipatrice delle domande e delle inquietudini sui nodi problematici che il tormentato Novecento ha lasciato in eredità alle generazioni del terzo millennio: domande sull’identità, l’appartenenza e il rapporto con l’Altro – lei, nata nell’allora Persia, cresciuta fino a trent’anni nell’allora Rhodesia -,  sulla sinistra e sulla violenza, sulle relazioni tra donne e uomini, sul rapporto tra le generazioni indagato con il bisturi di precisione della scrittura nel farsi dello suo “stile tardo” (vedi Passaggi d’età, a cura di Crispino e Luongo, Iacobelli editore 2013). Basta scorrere l’elenco dei titoli delle sue oltre 50 opere, dall’autobiografia ai romanzi di ambientazione africana, dal ciclo di Martha Quest ai romanzi scritti sotto lo pseudonimo di Jane Somers, fino ai saggi raccolti in Le prigioni che abbiamo dentro. Cinque lezioni sulla libertà (minimum fax 2003). Il suo sguardo sul mondo è lucido fino alla spietatezza, la sua capacità introspettiva e retrospettiva, quella capacità che in altri campi abbiamo chiamato “partire da sé”,  dall’esperienza di stare ben salda nel trascorrere del suo tempo ma di ricorrere alla memoria e a volte di proiettarsi in un futuro fantascientifico,  “incarnano” la sua scrittura ad alto tasso di letterarietà.

Doris Lessing non parla “di donne”, parla “da donna” del mondo. E se la stampa rendendole omaggio certamente non mancherà di sottolineare la sua riluttanza a definirsi “femminista” –  per l’ormai radicata cattiva abitudine denigratoria che i media esercitano nell’usare il termine – non c’è dubbio che la sua opera rappresenti un monumento proprio alla profonda consapevolezza dell’essere donna e  del parlare (scrivere) e agire con l’assoluta libertà che questa consapevolezza comporta. E che si chiama femminismo. Non a caso, nel recensire il primo volume della sua autobiografia (Under my skin 1994, Sotto la pelle Feltrinelli 1998) Antonia Byatt scriveva: “Doris Lessing è la grande cronista della nostra storia di gruppo” (in Leggendaria, n. 66/2007), intendendo per “gruppo” sia la generazione adulta nel secondo dopoguerra sia le donne, scrittrici e non.

di Anna Maria Crispino

“Due occhi neri penetranti e indagatori incastonati in un volto sereno, i capelli grigi strettamente raccolti in due bande dietro la nuca”: così la descrive Maria Antonietta Saracino, eccellente traduttrice di molte sue opere. Ed era proprio così quando la incontrai una prima volta negli anni Ottanta, a Milano, a casa di Laura Lepetit , sua editora per L’erba canta e Gatti molto speciali: parlammo a lungo, in quella occasione, ma forse mi favorì solo perché ero tra le poche presenti a parlare correntemente l’inglese. Ne ho un ricordo vago, ero distratta dalla disinvoltura con cui indossava una maglia piena di patacche, mentre mangiava con gusto i piccoli rustici del buffet allestito in suo onore. Ero davanti ad una leggenda vivente e mi concentravo su quelle macchie e sulla pettinatura così antiquata, sulle rughe scavate del volto e l’assoluta mancanza di trucco e di civetteria. Forse ero intimorita, l’ascoltai più che interrogarla, e lei mi raccontò del viaggio, della sua impressione su Milano e dei suoi gatti. Di scrittura, di letteratura non volle parlare. Ebbi la sgradevole sensazione che fosse stata un’occasione persa, imperdonabile per una giornalista.

Qualche anno dopo la rincontrai una seconda volta, in una sede molto più formale. Avevo avuto il privilegio di essere invitata al seminario annuale del British Council a Cambridge sui Contemporary British Writers, un’iniziativa per mettere in contatto giornalisti di diversi paesi con scrittrici e scrittori, tra conferenze, chiacchiere e drinks. Lei era lì e questa volta le chiesi un’intervista. Se mi riconobbe, non lo diede a vedere. Ci appartammo, con il piccolo registratore tra noi due su un tavolino. La interrogai su Jane Somers, sull’incredibile scherzo che aveva fatto all’intero establishment editoriale mandando il romanzo agli editori sotto pseudonimo, sulla protagonista di quello straordinario romanzo che ritrae una cinquantenne che improvvisamente si accorge della vecchiaia incombente. Ma quando insistetti sulla relazione tra la protagonista, la vecchia che accudisce e la nipote – tre generazioni di donne colte nel loro divenire – mi rimproverò perché le facevo domande “femministe”: lei non era femminista, disse, le femministe pensano di poter fare a meno degli uomini, mentre il problema è la società, l’insufficienza dei servizi sociali che abbandonano i vecchi e i poveri, la mancanza di cura e di amore. Mi irritai. Pensai che forse era di cattivo umore, o forse aveva un brutto carattere, oppure che avessi sbagliato il modo di porle le domande. Ma, pensandoci a mente fredda nei giorni seguenti, la verità è che non tollerava l’essere etichettata – e negli anni Ottanta della signora Thatcher quell’etichetta di femminista era diventata molto pesante da portare. Ma che, soprattutto, come per molte altri scrittrici e molti altri scrittori, c’è spesso uno scarto tra le intenzioni dichiarate di un’opera e ciò che essa in realtà rivela alla lettura. Uno scarto che è un di più, una ricchezza. Ed è questo il bello  – o meglio “il dono”, come sostiene Saracino – della letteratura.

di Marisa Bulgheroni

New York, 1959

(Il Mondo, 22 dicembre 1959)

C’è una fotografia di Carson McCullers fatta dodici anni fa da Cartier-Bresson: con la frangetta, le calze di lana bianca al ginocchio, le scarpe basse, una sigaretta in mano, il viso chiuso in una interrogazione che è anche una sfida, la scrittrice, a trent’anni, fa pensare alle adolescenti dei suoi libri, dure e sensibili. Come loro è diversa dalle infinite ragazze americane pettinate e vestite allo stesso modo; basta il suo fastidio per il fotografo, la sua impazienza di andarsene dallo sfondo di bianchi e neri – il balcone di legno della casa alle sue spalle, l’ombra del portico – per distruggere ogni sospetto di artificio.

A quel tempo Carson McCullers viveva già a Nyack, presso New York, ma spiritualmente non si era allontanata dal Sud: durava intorno a lei la fama di fanciulla prodigio che aveva raggiunto all’improvviso col suo primo romanzo, Il cuore è un cacciatore solitario. In questa bizzarra storia di un sordomuto, di una ragazzina che sogna di studiare musica, di un barista, di un anarchico, di un medico negro, la giovane scrittrice aveva voluto esprimere la sua precoce coscienza della solitudine umana. Ogni personaggio è solo nella piccola città meridionale, dove pure è impossibile non incontrarsi, solo dentro il proprio cuore, solo della solitudine delle stelle che appaiono vicine e sono infinitamente lontane.

Oggi la ragazza di Cartier-Bresson è una donna stanca e ammalata che vive chiusa nella casa di Nyack, lavorando a un romanzo cominciato qualche anno fa, sul tema della morte, aspettando i ritorni quotidiani della sorella che lavora a New York. Da quando suo marito è morto, tragicamente, non vede quasi nessuno. La governante negra la difende con tanto calore dagli estranei che chi cerca di vederla si scoraggia. La sua voce stessa, al telefono, può essere dura e lontana, come se parlasse da oltre una porta chiusa. Quando riuscii a convincerla che mi sarei trattenuta soltanto la mezz’ora tra l’arrivo e la partenza dell’autobus, mi pareva di essere già stata sconfitta da quella voce, che non valesse neppure la pena di andare.

Era una di quelle giornate piovose in cui gli orizzonti di una grande città si chiudono, e Nyack, che pure è a un’ora da New York, si perdeva nella distanza: la immaginavo come una grigia cittadina quasi industriale e non come un grande giardino stillante di pioggia sotto un cielo chiaro. La casa, nel verde dei grandi alberi piumati, aveva la grazia nordica del legno verniciato, del tetto spiovente, delle finestre a piccoli riquadri, ma ispirava anche un vago senso di abbandono, come le case del Sud.

La governante negra, con il suo sorriso infinitamente comprensivo e la sua segreta allegria, non poteva non essere del Sud. E dentro la casa c’era il silenzio, il grande silenzio delle scale di quercia, dei mobili antichi, delle porcellane preziose, delle tende di mussola, il silenzio magico delle vere case, fatte di lunghe accumulazioni di pensieri, di ore vuote, di voci familiari, di orologi che battono all’improvviso. Carson McCullers indossava con noncuranza una vestaglia di seta grigia; nel suo viso sciupato i grandi occhi castani erano fieramente giovani. Si scusò con calore di essere molto stanca, aveva riposato qualche ora dopo aver finito un articolo per Esquire, che le era costato una grande fatica. Sedemmo di fronte alla finestra; la pioggia rigava i vetri appannati con una furia primaverile. Carson McCullers disse: «Non mi intervisti, la prego, non posso sopportare questo genere di cose, e odio rispondere alle domande». La governante ci servì il caffè come in un salotto dell’Ottocento, con ricami, argento, lieve tintinnio. Non avrei neppure saputo rivolgerle domande che non mi suonassero, in quell’atmosfera, inutili, non c’erano tecniche possibili per rompere l’esclusività del suo isolamento. Così sedemmo in silenzio. Sapevo che Carson McCullers era una persona difficile, ma in un paese come l’America, dove l’educazione alla cordialità è nell’aria, anche se qualche volta tutto finisce lì, quel silenzio era soltanto singolare, come essere capitati in un paesaggio nuovo. Poi parlammo affrettatamente; mi raccontò delle sue estati nella Georgia, dove è nata, di come le occorsero due anni per scrivere l’inizio del romanzo breve Invito di nozze che si svolge durante una di quelle estati, di come ora scrivere le costi fatica, con un braccio paralizzato, non può lavorare mai più di due o tre ore al giorno. Mentre parlava i suoi occhi si accendevano di una bella luce scura per spegnersi subito se le parole la riportavano dentro di sé: il suo viso, allora, si chiudeva, come se la stanchezza, il fastidio che esistano gli altri la inaridissero. Quel viso aveva ceduto da tempo al dolore, alla paura della morte, all’angoscia della solitudine; l’amore per la poesia resisteva soltanto negli occhi.

Il nuovo silenzio fu più lieve, come se la distanza iniziale fosse diminuita. D’improvviso mi chiese che cosa facevo io veramente in America, se non avevo nostalgia di casa. Il pendolo suonò le sei, l’autobus sarebbe ripartito tra pochi minuti, e ora si sentiva l’ombra invadere gli angoli della grande casa, con il primo freddo della sera. Ci alzammo. Sulla porta mi abbracciò e mi baciò sulle guance, con un’ansiosa gentilezza. Mi augurò buon viaggio con la voce di chi vede un viaggio anche nello svoltare l’angolo della propria casa.

Non avevamo quasi parlato, eppure mi pareva di aver capito tutto quello che da lontano ero stata curiosa di sapere. Se ci fosse un limite di artificio nei suoi libri, se l’estrema grazia dello stile non fosse un gioco raffinato. Invece la sua vita, in quello strano angolo di Sud vicino a New York, era nuda: il silenzio della casa e il suo chiudevano un universo poetico più che un mondo romanzesco. Era un poco come aver fatto visita a Emily Dickinson vestita di bianco nel suo giardino di Amherst. Donne capaci, a questo modo, di solitudine, di infelicità senza essere patetiche, non sembrano appartenere alla stessa razza delle garrule studentesse, delle solerti frequentatrici dei circoli femminili, delle attive matriarche la cui socialità si esprime con violenza, nel trucco come nei fiori sul cappello. Pure – pensavo, mentre l’autobus correva nel tramonto verso New York, verso le ore meccaniche – le donne come Carson McCullers non sono forse che l’altra faccia della femminilità americana, la forza dei pionieri sottratta volontariamente alla società, ostinatamente conservata per la poesia.

Di Carson McCullers in libreria:

Il cuore è un cacciatore solitario, Einaudi

Riflessi in un occhio d’oro, Einaudi

La ballata del caffè triste, Einaudi

La vicenda di Adam Krug, filosofo impolitico di grande fama che si ritrova ostaggio di una rozza dottrina egualitaria, detta «Ekwilism»

di VALENTINA PARISI

In un immaginario atlante della letteratura russa anche le pozzanghere – ignorate dai cartografi per la loro indubbia transitorietà – potrebbero vantare una posizione di rilievo accanto a specchi d’acqua più blasonati, almeno da quando Nikolaj Gogol’ decise di elevare ironicamente a segno

distintivo della città ucraina di Mirgorod quella gigantesca quanto inestinguibile pozza che ne occupava quasi tutta la piazza principale: «Meravigliosa pozzanghera! Case e casette, che da lontano si possono scambiare per biche di fieno, la circondano, e stupiscono della sua venustà». Capace di riflettere l’universo intero a partire dalle catapecchie sbilenche che la cingevano, l’iperbolica pozzanghera di Mirgorod sarebbe riaffiorata in forma assai più frammentaria

sui marciapiedi berlinesi invariabilmente lucidi calcati negli anni Venti dall’esule Vladimir Nabokov, diventando – insieme a specchi, vetrine e occhiali – ricettacolo privilegiato

degli sdoppiamenti sperimentati dai suoi protagonisti. Ma se in Gogol’ il rovescio speculare del mondo era popolato, in ossequio alla tradizione, da creature fantasmatiche quali ondine e coboldi, nelle opere mature di Nabokov il tema quasi ossessivo dell’inversione ottica, pur continuando a essere fonte inesauribile di illusioni grottesche, assume un significato endoletterario sempre più evidente, elevandosi a metafora dei rapporti tra autore e personaggio. Ne è una prova Bend sinister, primo romanzo scritto da Nabokov sul suolo americano tra il 1942 e il 1946, e ora proposto da Adelphi con il titolo Un mondo sinistro (traduzione di Franca Pece, pp. 259, €18,00) dopo che I bastardi, l’edizione curata per Rizzoli da Bruno Oddera, non era stata più ristampata da decenni. Già la varietà di soluzioni escogitate per rendere il titolo dà un’idea della densità semantica di questo congegno narrativo in sé perfettamente concluso, nitido e al tempo stesso ineffabile, che ricorda i cerchi concentrici in rapido dissolvimento prodotti da un sasso gettato in una pozzanghera. Immagine questa che, appena turbata dalla caduta di un paio di foglie, compare nell’incipit per poi riaffacciarsi puntualmente alla fine, quando il demiurgo Nabokov esce alla ribalta onde richiamare gli attori – come egli stesso preannuncia nell’introduzione – ossia per congedare i propri personaggi e disperdere così la finzione fabulare testé orchestrata.

Tra le due apparizione di questa enigmatica pozzanghera, «foro spatoliforme attraverso il quale si vedono gli inferi del cielo», si snoda la vicenda del povero Adam Krug, filosofo di fama mondiale, nonché individuo sommamente apolitico, ostaggio suo malgrado del grottesco regime autoritario instaurato dall’ex compagno di scuola Paduk, soprannominato confidenzialmente il Rospo, in nome di una rozza dottrina egualitaria, detta per l’appunto «Ekwilism». Da qui l’interpretazione in chiave distopica attribuita al romanzo e alimentata in parte dallo stesso Nabokov, là dove a guisa di ironico omaggio ai due massimi stati di polizia del Ventesimo secolo (e a fini chiaramente stranianti) impone ai suoi personaggi di parlare a sprazzi vuoi in russo, vuoi in tedesco, lingue che stravolge fino a ottenere un idioma totalitario alquanto incomprensibile. Tuttavia qualsiasi eventuale accostamento a Orwell viene respinto – ancor più che dall’arcigno commento dell’autore nella prefazione – dal tono di straordinaria leggerezza che Nabokov conferisce alla sua narrazione. L’unico registro in grado di mettere alla berlina il regime da operetta di Padukgrad, smascherando la sua irrimediabile, gogoliana poslost’ (banalità). Se è facile immaginare come all’inizio Krug

non avesse ostentato altro che indifferenza verso l’irresistibile ascesa al potere dell’ottuso Paduk,

la perdita dell’amatissima moglie Ol’ga lo rende indifeso di fronte alle richieste di collaborazione

che il nuovo governo gli avanza con insistenza sempre maggiore. Benché il protagonista sfoderi una impenetrabilità tetragona rifiuta di firmare una supplica del rettore che scongiura il Rospo di non chiudere l’università cittadina, fondata su «Scienza e Amministrazione »), da lì a breve gli emissari di Paduk riusciranno a individuare quel lato della sua personalità su cui far leva – o, meglio, recuperando il sottile gioco di parole andato perduto nella traduzione, a scorgere quell’«impugnatura» nascosta che trasforma il filosofo da un inespugnabile «cerchio» (questo il significato del suo cognome in russo) in un ben più maneggevole «boccale» (secondo la lettura tedesca dello stesso termine Krug). Questa leva è l’adorato figlio David, incantevole monello

di otto anni, cui Nabokov attribuisce tratti di capricciosa spensieratezza altrove riferiti al proprio rampollo, Dmitrij. A momenti idillici di fuga nel passato (su tutti lo splendido capitolo nono, dedicato all’incontro mancato con la futura moglie) si alternano attimi in cui il protagonista si sente in dovere di risvegliarsi dall’incubo in cui crede di essere intrappolato, poiché le guardie rivoluzionarie di Paduk si dimostrano «quanto mai convenzionali» e arrestano uno dopo l’altro tutti i suoi amici. In realtà, solo l’intervento compassionevole del deux ex machina autorialemetterà

fine allo strazio del filosofo, consegnato alla follia dalla consapevolezza di non essere stato in grado di proteggere il figlio e di aver decisamente sopravvalutato la propria intangibilità

di uomo apolitico.

Al netto della propria innata freddezza, Nabokov sembra nutrire una particolare pietas nei confronti di Krug, cui elargisce dettagli inequivocabili della propria biografia, non fosse altro perché negli anni Quaranta all’autore trincerato a studiare farfalle nel «paradiso» per lepidotterologhi

allestito nel museo zoologico di Harvard doveva di tanto in tanto profilarsi l’interrogativo circa cosa sarebbe stato di lui, se non fosse riuscito ad abbandonare prima la Russia sovietica, poi la Germania nazista con tanto di moglie ebrea al seguito e, infine, nel maggio 1940 Parigi, in procinto di

cadere in mano ai tedeschi. Il fascino di questo testo impeccabile risiede d’altronde dell’inestricabilità tra Dichtung e Wahrheit, divenute ormai indistinguibili in virtù di un

rigoroso procedimento alchemico. Sicché al filosofo in crisi viene «prestata » l’immagine della vita umana sospesa come in una culla tra l’abisso immemore che precede la nascita e quello post mortem, non meno misterioso, che, guarda caso, apre l’autobiografia Conclusive Evidence, iniziata

proprio nel 1946. E, ancora, Pietroburgo, città natale dell’autore, si riflette specularmente nel doppio onirico e grottesco di Padlukgrad, dove la casa dei Nabokov a due passi dalla «cattedrale dalla cupola bronzea» di Sant’Isacco viene proiettata sulla mappa urbana a nord anziché a sud,

così come pure l’imponente residenza del Rospo, «ridipinta» in una tonalità rosa opposta nello spettro al verde caratteristico del palazzo d’Inverno (suo prototipo). D’altro canto, la poetica del rispecchiamento  pervade tutta l’opera a partire dalla scena in cui Krug, dopo la morte della moglie, percorre avanti e indietro il ponte sul fiume Kurche taglia in due la città, finché non ottiene un salvacondotto a nome di un certo Gurk (il suo stesso cognome letto al contrario).

Ogni personaggio letterario – questo il suggerimento di Nabokov – vive di una vita riflessa, prigioniero di quel peculiare rovescio della realtà circoscritto dalla superficie riflettente

di una pozzanghera o dalla macchia similmente oblunga del Bend sinister, in araldica la tipologia di stemma in cui la sbarra trasversale corre dall’estremità superiore sinistra a quella inferiore destra, come a denotare un rapporto di filiazione bastarda in opposizione al risvolto «corretto» del bend dexter. Ma agli eroi prediletti – e Krug è certamente tra questi – è concessa la possibilità di intravvedere, in attimi di singolare chiaroveggenza, il proprio «osservatore interno », «la mente che sta dietro lo specchio », la mano dell’autore-burattinaio. Mentre ai lettori non si chiede

altro che di stare, ammirati e riconoscenti, al gioco.

 

di Alessandra Pigliaru

Ho cominciato a leggere Tam tam, l’ultimo libro di Vita Cosentino, e non me ne sono più potuta separare. Mentre leggevo infatti, una serie di immagini di gratitudine affastellava la mia mente ed è stato semplice restituire all’autrice l’attenzione che la sua storia e la sua scrittura meritano. Certe cose non vanno rimandate – mi sono detta – vanno accolte intere in una lettura che non può essere interrotta. Tam tam, dice Luisa Muraro nel suo scritto che precede il testo di Cosentino, è la storia di un combattimento. Sono d’accordo e aggiungo poetico, fiducioso e pieno di grazia. Non per questo meno forte, anzi. È proprio nella forma di questo corpo a corpo che Vita Cosentino scampa al disastro e acquista la forza che le è propria, perché ha una fiducia incrollabile che la guida nell’impreciso confine tra sé e il mondo. Il libro racconta di una circostanza specifica: una donna, che poi è la stessa autrice, si ammala improvvisamente di qualcosa che inizialmente le diagnosticano come paraplegia incompleta ma che in effetti non verrà mai ben distinta ulteriormente. Se apparentemente si tratta di un caso irrisolto, gli effetti sul corpo e sull’anima sono puntuali, dolorosi e del tutto inaspettati. Il lungo racconto rappresenta così un rinnovato apprendistato alla vita, un sì di amore che l’autrice – lo si avverte nettamente – ha già detto più volte nel corso della sua esistenza e che ora tuttavia sa di riconquistare. Questo attaccamento alla vita, di cui anche Muraro sostiene l’eccezionalità, ha qualcosa di alto. È un tragitto consapevole e autentico di una donna che rimette in discussione il proprio campo d’azione, i propri movimenti nello spazio che fino a un minuto prima riusciva a governare. Quella stessa donna calibra e valuta con pazienza la confidenza con il proprio corpo insieme a quella – che qui sembra più preziosa – con il tempo; lo trasforma di una qualità nuova, con la grande risorsa, dalla sua parte, delle relazioni. Raccontare i dettagli delle amicizie significa per Vita Cosentino ricomporre la mappa emozionale e politica di se stessa e delle sue età. Ciò che si agita in Tam tam è infatti una moltitudine di smarrimento e riappropriazione; una marea che non lascia mai inadeguate allo sguardo, al contrario è un frangersi di onde impetuose eppure indulgenti a cui si reclama di assistere. Certo che si ha paura di perdere il controllo e anche di non farcela ma la protagonista del libro non teme di misurarsi con le proprie istanze interiori, tutte luminose a puntellare la volta stellata di un’anima che si interroga. È così che i ricordi bambini si mescolano per sollecitare inattesi presagi. Allo stesso modo le certezze della maturità le consentono di sistemarli per fare ordine – uno nuovo o che forse c’è sempre stato. Vero è anche che c’è una nuova scansione temporale, un prima e un dopo. Una rinnovata attenzione per il circostante, come quel campo di papaveri che tutte le primavere rifiorisce accanto a casa sua e una generosità di gesti piccoli, minuti e resistenti che trovano dimora in chi ha già avuto la possibilità di gioirne. Se è la malattia a fare da spartiacque nella durata, Vita Cosentino insegna che non vi è un’interruzione ma un riadattarsi amoroso – seppur dolente – alle cose stesse. Ci sono poi istanti – simili alle foto che guarda ripetutamente – che raccontano qualcosa che svetta, che ripara dall’imponderabile e che ogni volta, come fosse la prima, entra nel piano di realtà per ridisegnarne il senso: l’amicizia e l’amore circolante di chi ha saputo starle accanto. Lo sguardo e le parole per lei, erodono l’abbandono e la solitudine e mettono al mondo un tra-noi che eccede dalla stessa scrittura ed è difficile da dire. È così che ho sentito Tam tam, proprio come un ritmo incessante e imprevedibile che mette in gioco ogni giorno lo scandire della vita di tutte e tutti, come fosse il desiderio che bussa alla porta per avvertire che dopo il combattimento arriva il tempo del sentirsi insieme – ancora – nella relazione. È a quest’ultima che il libro è rivolto e dedicato ed è per questo commovente esercizio di tenacia poetica e politica che vorrei ringraziare anch’io, tenendomi negli occhi l’immagine onirica di quei fiori bianchi che appaiono alla fine del libro. Piccoli e ripiegati in fascette umili. Ne sbocceranno di nuovi e saranno forse fragili – esattamente come l’umana condizione. Perciò i più forti e veritieri mai incontrati.

di Teresa Di Martino

E’ difficile recensire l’ultimo libro di Vita Cosentino, è difficile dire di un racconto così personale e quotidiano, di quello che accade dopo uno scontro violento tra una “lei” e un avversario invisibile, come lo definisce Luisa Muraro. Tam tam è la storia della protagonista, l’autrice, narrata in terza persona. Ma è una storia breve, gli ultimi due anni di vita, una vita del tutto nuova, che non è una nascita bensì una lotta per rimanere viva. E’ la storia di Vita dopo la malattia invalidante che l’ha colpita. Un racconto che vede protagonista lei, il marito e le sue amiche, compagne di vita e di militanza, ma che mette in primo piano il corpo, un corpo pesante, così ingombrante che le toglie anche le energie mentali: “Fatica a concentrarsi, comincia a leggere un libro e poi un altro e li lascia a metà. I progetti non hanno gambe per camminare e non ne vede più il senso” (p. 85). Partire da sè in questo caso non può ridursi a uno slogan femminista, si tratta non solo di ri-partire dal proprio corpo, ma anche di conoscerne i limiti e di prenderne le misure. Il problema non è solo non poter fare la vita di sempre – costantemente in giro, tra una riunione e l’altra, a quel convegno, a quell’assemblea, alla Libreria, a Verona – ma anche stare in piedi ai fornelli, andare a fare la spesa, un cinema, una mostra. Tutto diventa complicato: camminare, trovare luoghi senza barriere architettoniche, parcheggi coperti. Un limite che è anche una scoperta: Vita scopre il piacere di sedersi sulla panchina sotto casa e salutare il vicinato, la soddisfazione di lavorare con le mani (come da bambina), di sentirsi a casa in un bar dove la riconoscono. E’ come se questa faticosa ricerca di una misura nuova le aprisse un nuovo mondo, le svelasse anche i limiti di quel mondo che aveva sempre abitato. “Ha passato tanti anni in quella casa sempre correndo da un’altra parte […] La casa era in una specie di terra di nessuno. Così almeno la sentiva lei…” (pp. 97-98). Risuona. E mi chiedo: è davvero necessario che il corpo si fermi? Nelle riflessioni politiche con le mie compagne c’è sempre il desiderio di riappropriarsi di spazi e tempi che diano ascolto ad un corpo troppo spesso dimenticato, messo a tacere, trasportato di qua e di là. Lavoro, tempi frenetici, politica militante. Sì, ma c’è dell’altro. “Era sempre alla ricerca di qualcosa. Sì, ma cosa?” (p. 98). Una domanda a cui l’autrice non risponde, forse perché una risposta non c’è, forse perché ognuna ha la sua. Tam tam – un ritmo evocato e raccontato nel quotidiano – è una storia che destabilizza. Non è il racconto di un dolore – anche se se ne legge molto – ma è piuttosto la storia, semplice e complessa allo stesso tempo, di una lenta e paziente ricerca di sé, di un sé fatto di passato e presente, che prende le misure per “rifarsi una vita salvando quella di prima” (p. 11), lasciando spazio ai miracoli del quotidiano e alle scoperte di un nuovo modo di stare al mondo.

 

È scrittrice amatissima in Italia, Elisabeth Strout, da quando lettori e lettrici italiane l’hanno scoperta all’uscita di Olive Kitteridge , con cui ha vinto il Premio Pulitzer nel 2009. Nata nel Maine, stato statunitense del New England dove i suoi antenati approdarono nel 1603, vive tra New York e la sua terra, che è la sua vera fonte di ispirazione. Con il suo quarto libro, I ragazzi Burgess, assume sempre di più il profilo di autrice “classica”. Con una scrittura scarna e profonda indaga la vita quotidiana di una piccola città, l’incrocio terribile e inaspettato con i drammi del mondo contemporaneo e globale.

 

La storia del suo ultimo romanzo parte da un ragazzo che getta una testa di maiale dentro una moschea della sua città, dove da poco si è insediata una comunità di somali musulmani. Dove ha trovato l’ispirazione?

 

«La notizia letta anni fa su un giornale ha catturato la mia immaginazione. I fratelli Burgess proprio non so da dove vengano. I personaggi si impongono alla mia attenzione, a poco a poco diventano sempre più reali»

 

Ricordo che per Olive Kitteridge lei parlò di qualche somiglianza con alcune vecchie zie.

 

«È vero, in Olive ci sono alcuni aspetti di vari parenti. Ma per i fratelli Burgess non ho avuto modelli, anche se naturalmente mi è capitato di osservare interazioni tra fratelli. Devo dire che è stato straziante portarseli dietro tutto il tempo che ci è voluto a scrivere il libro, sono personaggi difficili. Molto faticoso, proprio in senso fisico. Come se mi mangiassero da dentro»

 

Pur con un personaggio centrale e ricorrente, “Olive Kitterige” era una raccolta di racconti. Perché ora ha scelto il romanzo?

 

«Mi sembrava che l’ampiezza delle emozioni, della geografia, dei temi richiedesse una struttura più grande. Ci si sposta tra il Maine, l’Arkansas, l’Arizona, nel conflitto tra città e campagna, questioni esplosive come il razzismo. Ci volevano le spalle ampie del romanzo»

 

Che ne pensa del premio Nobel assegnato a Alice Munro?

 

«È fantastico. Sono veramente contenta, è una grande scrittrice, che mi affascina. Negli anni lei è riuscita a creare un genere suo, una forma stilistica molto particolare a cui è rimasta fedele negli anni. E racconta la vita quotidiana di un microcosmo»

 

A proposito di microcosmo, il razzismo che lei racconta in un piccolo mondo, risulta esplosivo.

 

«Come si dice, il personale è politico. Ho indagato cosa succede quando temi così dirompenti, non sono fatti lontani, che avvengono altrove, ma entrano nella esperienza della vita quotidiana di tutti. In una piccola comunità. Le idee che uno può avere ne risultano sconvolte. Tutto cambia quando lo straniero è vicino a te, le proprie reazioni possono sorprendere»

 

Qual è il segreto della sua scrittura così luminosa?

 

«Scrivo e riscrivo. La prima stesura è a mano, mi sembra che corrisponda di più al ritmo dell’immaginazione. Poi correggo e riporto tutto al computer. Poi riscrivo ancora. Ci metto anni a scrivere un libro. Voglio raggiungere la coerenza tra il modo in cui è scritto e quello che racconta. E per questo ci vuole tempo»

 

Anche chi come me non è mai stato nel Maine, sente nei suoi libri la presenza molto forte di quel luogo, quello spazio. Quasi come se il Maine fosse un personaggio. Per lei questo ha senso?

 

«Sono l’erede di una lunga tradizione. Non solo la mia famiglia vive nel Maine da secoli, ma sia mia nonna che mia madre sono state delle grandi contastorie. Le ascoltavo. Ascoltavo mia madre, la sua voce molto asciutta, il suo stile molto minimalista, l’ho interiorizzata. Sì, penso che ci sia una voce del Maine nel mio raccontare»

 

Pensa che nello scrivere essere donna abbia un significato?

 

«Certo, sono una donna, penso come una donna e immagino che si veda anche nel mio modo di scrivere. Ma non è una cosa per cui mi scaldo molto. Non scrivo di questioni delle donne o cose del genere. Non mi interessa. Anche se questo fa arrabbiare molte mie amiche».

 

Come è arrivata a scegliere di scrivere?

 

«Per via di mia madre. Mi ha spinto lei. Lei desiderava profondamente diventare una scrittrice, e non c’è riuscita. Era in ogni caso una formidabile storyteller. Mi ha comunicato il suo desiderio, la sua passione».

 

 

Elisabeth Strout:

 

I ragazzi Burgess, traduzione di Silvia Castoldi, Fazi Roma 2013, 447 pagine, 18,50 euro

 

Olive Kitteridge, traduzione di Silvia Castoldi, Fazi Roma 2009, 18,50 euro

 

 

di Nicoletta Tiliacos

Si intitola “Prenditi cura” (edizioni et al., 80 pagine, 9 euro), il piccolo e prezioso diario di viaggio della giornalista e saggista Letizia Paolozzi (femminista e fondatrice del sito donnealtri.it) tra e con coloro che da qualche anno riflettono, nelle situazioni più diverse, sul grande tema della “cura del vivere”. La stessa autrice spiega all’inizio che il suo libro (pubblicato dall’editore Sandro D’Alessandro, morto pochi giorni fa, nella collana “Due”, diretta da Liliana Rampello) vuole essere “il viaggio di una parola-chiave, sgomitolata con tonalità, colorazioni, vocaboli diversi dialogando con tante donne (e alcuni uomini) in un percorso e in molti spostamenti che mi hanno fatto muovere la mente”. All’origine del percorso – che conduce l’autrice, e noi con lei, a Napoli, a Livorno, a Reggio Emilia, a Correggio, a Torreglia (Padova), perché l’incontro e la discussione faccia a faccia è la pratica più logica e giusta, in epoca di rete fagocitante, per dare il giusto valore alle parole e alle relazioni – all’origine del percorso, si diceva, c’è la constatazione che “nell’altalena delle donne tra lavoro e vita c’è qualcosa in più. Un resto che socializzazione totale, servizi organizzati, personale a pagamento non bastano a cancellare. Non che siano inutili. Il punto è che c’è un resto – a cui attribuiamo il nome di cura – che né il welfare statale né il mercato possono dare”. Questo scriveva, nel settembre del 2011, il “Gruppo del mercoledì” (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini, oltre alla stessa Paolozzi), in un lungo documento che guardava con occhi nuovi ai temi dell’autodeterminazione, della dipendenza, del “rovesciamento di idea di cura” del quale si è resa consapevole protagonista in Italia almeno una parte del femminismo della differenza. “Ci piacerebbe discutere – oggi che la differenza sessuale è in campo – del perché le donne non hanno mai abbandonato questo lavoro di riproduzione della vita, questa manutenzione, (termine usato in ‘Immagina che il lavoro’ del gruppo del lavoro della Libreria delle donne)”. Anche l’emancipazionismo, come la cultura della sinistra, non hanno capito l’importanza e l’attaccamento, per tante donne, a quel “di più”, a quel “resto” incarnato dal fatto che “la complessità del mondo ha bisogno della dimensione della cura”. Che è anche “un collante, una garanzia affinché il mondo non si regga solo sulle relazioni di potere, ricchezza, sfruttamento, ma restituisca senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità. Purché si distingua tra ‘cura’ e ‘lavoro di cura’. Purché si rifiuti la visione della cura come lavoro residuale. O servile”.

Così il documento del “Gruppo del mercoledì”. Letizia Paolozzi, nel raccontare di incontri, assemblee e appuntamenti in giro per l’Italia, mette a fuoco la necessità del progetto enunciato due anni fa, anche in rapporto all’esaurimento delle culture tradizionali del Novecento. Non bisogna pensare alla cura come “a una poco ambiziosa Ong”, scrive: “Abbiamo maneggiato la cura nel convincimento che possa tradursi in possibilità del buon vivere”, in un nuovo modello per la politica, nell’“aspirazione a sostituire il vecchio ordine con uno nuovo”. Nessun minimalismo, insomma, nessun “ritorno a casa”, nessuna mistica dell’oblatività, nessun “obbligo di natura” a carico delle sole donne: “La cura è caratteristica delle donne ed è innegabile che ci sia stato e ci sia un enorme sfruttamento della cura. Perciò spesso era stata considerata una negazione dell’autodeterminazione femminile. Oggi sempre più si riconosce l’indispensabilità della cura, che però non va trasformata in un nuovo welfare sulle spalle delle donne. Bisogna cambiare il modo di produrre e di vivere. Non è una via facile. La cura va intesa inevitabilmente in un orizzonte conflittuale. Ma, soprattutto, dare valore alla cura significa aprire una diversa considerazione del rapporto tra libertà e dipendenza. Dipendiamo da chi ci ha messi al mondo, da chi ci ha aiutato a crescere, dalla terra che ci accoglie. Insomma, cura come dipendenza? Anche. Il senso da dare alla libertà, come scrive Hannah Arendt, non equivale alla indipendenza da tutto e tutti”.

 

di Elena Stancanelli

 

«Amore mio, quando leggerai queste parole avrò già lasciato questo mondo». Se parlassimo di un romanzo, lo chiameremmo incipit. E una frase così, con tutta la sua spudoratezza sentimentale, ci costringerebbero subito a prendere una decisione. Reggeremmo, daremmo all’ autore una chancee leggeremmo la sua storia, se si fosse presentato a noi con una frase del genere? Ma Il blu è un colore caldo, opera prima di Julie Maroh, non è un romanzo, non è soltanto un romanzo. È una storia raccontata per parole e immagini. Un fumetto, una graphic novel, una forma bastarda che ha un passato brevissimo. Una forma fanciulla dunque, ancora barbarica e innocente. Che per questa sua fanciullezza può permettersi spudoratezze impensabili in altri luoghi, e grazie alla sua bastardaggine, l’ originale incontro di testo e immagini, agisce con una doppia seduzione. Le prime tavole, quelle sopra le quali scorre la frase «amore mio, quando leggerai queste parole avrò già lasciato questo mondo», sono a colori. C’ è una città, una ragazza triste, pioggia, alberi spogli. La ragazza scende da un autobus, entra in una casa, incontra una donna che le consegna una lettera. Che inizia con la frase «amore mio, quando leggerai queste parole avrò già lasciato questo mondo». Questa dunque, è una storia che inizia dalla fine. Tutto è già accaduto, quando Emma entra nella casa natale di Clémentine, e si chiude nella sua stanza per leggere i suoi diari. E il centro di questa storia non è esattamente al centro, ma verso il fondo, subito prima del precipizio. In una scena che dovrebbe essere fatta di urla e concitazione, e invece si svolge tutta in silenzio, come un sogno. È una scena che occupa quattro pagine e due piani, su e giù per una scala. Al buio, nella casa di Clémentine. Quando il padre sorprende Emma nuda, e capisce che le due ragazze non sono amiche, ma amanti. E tutto il mondo che era, coi suoi segreti, si dissolve, mentre le ragazze vengono cacciate e inizia una vita nuova. Questa vita nuova, la vita adulta, Julie Maroh, la racconta a colori. Questa storia che inizia dalla fine, e ha il suo centro molto più avanti di quanto ti aspetteresti, è dunque un cerchio, all’ interno del quale è nascosta la vecchia esistenza di Clémentine. Malinconica e incomprensibile, disegnata soltanto in marrone, nera seppia. Clémentine è un’ adolescente normalmente infelice, con una famiglia normalmente greve (per esprimere la grevità del padre, l’ autrice gli fa cucinare pentolatee pentolate di spaghetti col sugo, particolare sul quale sarà il caso di non soffermarsi). È carina, piace ai maschi, ha molte amiche. Ma quel marrone, quel nero, la opprimono. Un giorno, mentre attraversa una piazza, incrocia una ragazza con i capelli blu. La notte successiva a questo incontro casuale, fa un sogno. Che le mani di lei, della ragazza coi capelli blu, la accarezzino, tingendo piano piano di blu tutta la sua vita. Da quel blu, come da una sorgente edenica della pittura, si generano tutti gli altri colori. La storia raccontata da Julie Maroh non ha un punto di equilibrio, non si ferma mai. Non trova mai un tempo della soddisfazione, del semplice andare delle cose. Precipita di continuo da un lato o dall’ altro. C’ è solo un istante ed è quello che precede la scena delle scale. Mentre Clémentine ed Emma fanno l’ amore nella stanzetta dove lei è cresciuta, nel letto piccolo dove è stata bambina l’ una placando il desiderio dentro il corpo dell’ altra. Il resto del tempo si tratta di combattere nemici, genitori, ex fidanzate, amiche rabbiose. E subito dopo, quando inizia la vita e le due ragazze vanno a vivere insieme, fare fronte alla frustrazione, il tradimento, la malattia. Il blu è un colore caldo è una storia d’ amore tra due donne, e non elude la battaglia contro i pregiudizi. Sembra quasi che l’ autrice ritenga il racconto delle difficoltà, più importante della storia d’ amore in sé. E per questo costruisce un contesto anche politico, l’ elezione di Sarkozy, le manifestazioni contro il piano Juppè che bloccarono Parigi per tre settimane. Capisco bene l’ irritazione che deve aver provato Julie Maroh nel vedere il bellissimo film che Abdellatif Kechiche, La vita di Adele, Palma d’ oro al Festival di Cannes, ha tratto dal suo fumetto. Perché il regista ha scelto la strada opposta. Piuttosto che pensare la diversità. ha preteso la normalità. Ha immaginato la protagonista, Clémentine, diventata Adele (dal nome della meravigliosa attrice che la interpreta), come una ragazza che diventa donna con l’ ambizione più semplice del mondo: essere maestra d’ asilo. L’ ha fatta vestire come mille altre ragazze, le ha dato una famiglia normale. Le ha condonato la malattia, e ha fatto persino sparire la precedente fidanzata di Emma per non crearle nessun casino. Abdellatif Kechiche ha spianato la strada a una storia d’ amore tra due donne che non combattono contro un mondo ostile, ma contro la loro confusione, le debolezze, le tentazioni che si portano dentro. Come facciamo tutti, ogni giorno. E in questo modo fa un film che spezza il cuore, con due protagoniste indimenticabili. Dove c’ è sesso, certo, ma il vero scandalo, per gli appassionati del turbamento, è tutto quell’ amore

di Alessandra Pigliaru

Il compito di colei o colui che scrive sembra consistere nel «diventare vedenti». Così credeva Ingeborg Bachmann quando, nel corpo a corpo con il dolore dell’ingiustizia, considerava l’incontro con la verità dell’invisibile. Esiste però un territorio liminare, governato e complicato dalle piccole cose, in cui la scrittura è obbligata a farsi asciutta, puntuale e priva di pietà perché deve decostruire le menzogne costruite dalla Storia. Ciò che accade si sostanzia così in un fatto che si ha la responsabilità di raccontare così com’è – mondando l’elemento intimistico per renderlo il più rispondente alla veridicità degli eventi. È anche questa una strada per arrivare alla consapevolezza di «farsi vedenti», e infine dire «mi si sono aperti gli occhi».
Forse è così che Erika Mann scrive i dieci racconti contenuti nell’importante volume The Lights go down (Farrar & Rinehart, New York/Toronto 1940), ora finalmente pubblicato in Italia per le cure di Agnese Grieco con il titolo Quando si spengono le luci. Storie dal Terzo Reich (Il Saggiatore, pp. 272, euro 19,50). Raccontare la vicenda biografica e intellettuale di Erika Mann, scrittrice, performer e conferenziera di fama internazionale, equivale a percorrere gli anni bui di una storia ancora scottante: quella della follia nazista ma anche dell’impegno politico di numerosi intellettuali contro la tracotanza di un potere che, innervatosi nella società tedesca, aveva conosciuto numerose connivenze nel resto del mondo.
Tedesca di nascita, Erika ebbe come padre l’illustre – e ingombrante – Thomas. Proprio con lui e la famiglia – tra gli altri si ricorda il fratello Klaus, adorato – si trasferisce negli Stati Uniti. È il 1937 e dall’esilio scrive le storie raccontate in Quando si spengono le luci. Tutte realmente accadute, sono state segnalate alla scrittrice che ha modificato i nomi e alcuni dettagli per evitare ritorsioni nei confronti delle e dei protagonisti.
I racconti, tra il diario di viaggio e la cronaca, sono esemplari e si dipanano in una piccola cittadina bavarese tra il 1936 e il 1938. Spigolosi e a tratti cinicamente ironici, proprio come appare la stessa Erika in alcune fotografie che la ritraggono, i dieci racconti descrivono la vita quotidiana della classe media tedesca in relazione al Terzo Reich. Per stessa ammissione dell’autrice, non si tratta di tratteggiare le vicende di criminali efferati né di eroi buoni e puri di cuore. Erika Mann mantiene piuttosto il controllo di passioni e impulsi caotici e si fa regista di minute faccende senza voce. Come nota sapientemente Agnese Grieco, che cuce una postfazione tanto preziosa quanto generosa, la scrittura di Mann risente della sua formazione cinematografica e teatrale tesa alla costruzione di una vera e propria scena della visione. Come a dire che quella possibilità di spalancare gli occhi – per chi ha colto l’assurdità della sopraffazione – in Erika Mann diviene una lama lucida e calibrata che allestisce il senso dell’umana e fragile condizione.
La piena conduzione da parte dell’occhio registico-scrittorio è la modalità scelta per separarsi dall’eccesso affettivo, e trasformarsi in ospiti di un paese straniero che si guarda per la prima volta e senza pregiudizi. I protagonisti e le protagoniste delle storie non possono che essere gente comune: commercianti e aspiranti maestre, piccoli imprenditori, burocrati e sacerdoti, così come contadini, madri e professori. In ciascuna e ciascuno di loro la gratitudine nei confronti dello Stato tedesco è variamente presente e, al contempo, deflagra nell’incomprensibilità quando la si misura con la propria coscienza. Erika Mann divide e monda la narrazione per riconsegnare un ritratto reportagistico senza sconti. Si potrebbe parlare di banalità del male, se non fosse che quel male rappresentato dal totalitarismo si lega a una coazione pervasiva di ogni comune sentire. La paura, ma anche la tonalità di un consenso piegato alla propaganda, non conosce scampo. Se alcuni trovano il modo per salvarsi, fosse anche solo con l’uso della ragionevolezza, altri risultano affidarsi a una forma destinale vittimistica. Difficile uscirne vivi. «Solo in rari momenti di chiarezza che mutava in spavento si ponevano la domanda riguardo a chi avesse la responsabilità di tutto ciò. Perché, si chiedevano allora, perché seguiamo con cieca ubbidienza un destino chiamato Adolf Hitler? Perché noi tutti ubbidiamo?». L’ignavia ineluttabile fa il resto.
Ma di queste esistenze apparentemente ordinarie che non sempre hanno avuto parole per nominare l’orrore, la scrittrice racconta il passo a venire. Il Terzo Reich è così metafora dell’inerziale soggiogamento dinanzi al mostruoso che comunque non smette di interrogare il nucleo rivoltoso di se stessi. Sottolinea infatti Agnese Grieco, «alle spalle di tutte le figure narrate dalla Mann, la domanda che cosa fare? risuona centrale, ineludibile: un appello alla scelta di un atteggiamento responsabile».
Forse una risposta efficace una volta per tutte non può essere data, proprio per questo il monito sul che cosa fare? deve avere la forza del ritorno al presente, nell’attenzione costante. In special modo dinanzi a ogni forma di oppressione o semplicemente di fronte alla meschinità di uno Stato che pretenda di barattare il proprio bene con la libertà di uomini e donne.

di Maria Concetta Sala

Si può giungere al racconto della propria vita quotidiana sotto la spinta di un’inquietudine oppure perché lo impone un’ispirazione che detta dentro, oppure a causa dell’ingorgo delle emozioni e del groviglio dei fili dell’esistenza, per tutte queste ragioni insieme e per molte altre ancora… lo si fa comunque e quasi sempre perché incalza una necessità. È raro che tale necessità sia determinata dalla volontà e dal desiderio di offrire «un segno tangibile e duraturo della [propria] gratitudine» alle amiche e al marito, come dichiara Vita Cosentino alla fine del suo Tam tam (pubblicato con una nota di Luisa Muraro dalle Edizioni Nottetempo).

L’autrice di questo piccolo libro della gratitudine è una donna consapevole di essere donna, una ex insegnante che non solo ha innescato il movimento dell’autoriforma della scuola coniugando pedagogia della differenza e pratica politica e si è profusa nell’organizzazione di convegni e manifestazioni sulle realtà scolastiche italiane, ma ha anche scritto testi e curato raccolte che ancora oggi offrono a chi lavora nella scuola uno sguardo differente – ad esempio, il volume collettaneo Lingua bene comune (2006) e, con Maria Cristina Mecenero, Daniela Ughetta e Mauela Vigorita, il film “L’amore che non scordo. Quattro storie di maestre e di un maestro” (2008). Su “Via Dogana”, la rivista della Libreria delle donne di Milano, continua a tenere una rubrica intitolata “E in risposta i due punti”, un verso della poetessa polacca Wisława Szymborska che ai punti interrogativi della poesia come a quelli della vita risponde con un segno di interpunzione assunto non nella sua funzione esplicativa ma come pausa e apertura ad altro.

L’immagine dei due punti mi accompagna nella lettura del libro di Vita Cosentino, che è e non è autobiografia, che è e non è diario, che è e non è cronaca: il suo racconto in terza persona tenta di restituire un’esperienza del corpo e dell’anima della protagonista, esperienza avviatasi con «una lieve fitta alla schiena», sintomo di una malattia invalidante che le cambierà la vita e che insinuerà nel suo intimo l’ansia che quell’oscuro male possa colpirla ancora. Capita una disgrazia, il corpo non risponde più ai comandi: ci si può rassegnare o rimandare al futuro la vita; Vita Cosentino sceglie, anzi decide di vivere la vita «con tutto il godimento che [le] era possibile in quella situazione».

La protagonista del suo Tam tam racconta lo shock della violenta interruzione, la fatica della riabilitazione, il ritorno a casa segnato dallo spavento e poi dall’ascolto del corpo che le permette di conseguire piccoli miglioramenti «lentissimi ma inarrestabili», la ricerca di un buon centro per continuare la fisioterapia, l’impresa di accogliere un micio, il pellegrinaggio alla ricerca di cure alternative, il travaglio per riuscire ad accettare l’assunzione di un farmaco antidolorifico… La narrazione della via crucis scorre parallelamente al racconto della presenza preziosa del marito e delle amiche, che fin dall’inizio offrono quel sostegno umano che è la vera ricchezza di cui possiamo sempre disporre, purché donato liberamente e generosamente.

Questo piccolo libro risponde al dono con la gratitudine, sia l’uno che l’altra fondati su relazioni radicate in una pratica segnata dall’umano, non per chiudere con un punto fermo il racconto dell’esperienza, ma, a mio avviso, per fermarsi sulla sponda dei due punti e da lì permettere a chi legge di avvistare un territorio nel quale malattia e salute coesistono e di esperire per empatia che ogni inizio non è altro che un seguito, sia in poesia che nella vita, come suggerisce l’amata Szymborska.

Attraverso una scrittura fortemente tesa a trattenere ogni minimo cedimento, eppure dal respiro sintattico leggero, Tam tam registra il miracolo di un’invenzione, quella che la filosofa Luisa Muraro coglie con acume nella chiusa della sua nota: «La donna che racconta, e con il racconto si aiuta, inventa un’arte di vivere di cui non ho mai letto: lei lotta per rifarsi una vita salvando quella di prima, vale a dire per creare una continuità nella tremenda discontinuità del danno patito. […] Per trovare un corrispondente di quest’arte, si pensi alle città nate nel Medioevo […] un insieme ammirevole ispirato dall’accettazione della contingenza del nostro vivere e dal gusto della convivenza degli esseri umani».

di Clotilde Bertoni

Ce ne sono, lo sappiamo, di classici intramontabili, trasversali a gusti diversi, eternamente sotto i riflettori. Ma pochi casi sono eclatanti come l’opera di Jane Austen: così legata al suo tempo eppure di moda più che mai, oggetto di citazioni, trasposizioni, riecheggiamenti, ben installata nel canone ma continuamente trascinata nel kitsch da una mastodontica fanfiction che include adattamenti per ragazzi, sequels melensi, parodie brillanti (il primo Bridget Jones fa chiaramente il verso a Orgoglio e pregiudizio ), riscritture in chiave horror o noir pullulanti di zombie e delitti. La forza di quest’opera, del resto, sta proprio nella capacità di resistere agli snaturamenti, di superare in attualità le attualizzazioni, di oltrepassare se stessa: le sue trame catturano non solo con l’incanto sempreverde delle crinoline, delle uniformi, dei viaggi in carrozza e delle feste da ballo, ma anche con una rappresentazione delle trappole della socialità e delle contraddizioni dei sentimenti che valica ampiamente i limiti d’epoca; le sue conclusive immagini di conciliazione armonica tra le classi e di giudizioso appagamento dei desideri sono implicitamente incrinate dalle precedenti, problematiche messinscene del richiamo degli interessi, della tendenza alla manipolazione, della difficoltà di conoscere gli altri e se stessi; la voce narrante che si premura di rassicurare i lettori, seguita sornionamente a provocarli . Una provocazione che si fa al tempo stesso più nascosta e più affilata nel terzo romanzo pubblicato dalla scrittrice, Mansfield Park , ora riproposto da Einaudi in una nuova edizione (traduzione di Luca Lamberti, introduzione di Roberto Bertinetti, pp. XX-486, euro 12,00): uno dei suoi libri più interessanti e meno popolari (sebbene abbia avuto la sua dose di rifacimenti e di versioni per il grande e piccolo schermo); come Bertinetti ricorda, quello che più ha spaccato la critica, quello che lascia aperti più interrogativi. Come gli altri, si incentra su un microcosmo circoscritto, ma, anziché ruotare intorno a una singola protagonista, segue un’orchestrazione più corale, frantumata in svariati punti di vista; come gli altri, racconta il passaggio da uno scompiglio temporaneo a un nuovo equilibrio, ma rendendolo particolarmente ambiguo. Il microcosmo stavolta è quello dei Bertram, una famiglia dell’aristocrazia fondiaria che comprende un padre severo, Sir Thomas, una madre indolente, una zia detestabile, due figlie ambiziose, Maria e Julia, un figlio maggiore scavezzacollo, Tom, e uno cadetto irreprensibile, Edmund, e infine una nipote povera grata e obbediente, Fanny; e a questo nucleo si aggiungono, al principio della storia, due affascinanti e anticonvenzionali vicini di casa, i fratelli Henry e Mary Crawford. Una costellazione di caratteri fin troppo classica, che però dà vita a un incastro di rapporti sempre più complesso: la prolungata libertà di cui i giovani godono grazie a un’assenza di Sir Thomas – che va a Antigua per occuparsi di un suo possedimento in crisi – innesca una girandola di corteggiamenti, innamoramenti e rivalità, che è favorita dall’allestimento di una pièce teatrale (tipica valvola di sfogo di emozioni latenti o inconfessate), e che poi – provvisoriamente interrotta ma in effetti complicata dal ritorno del capofamiglia – precipita in un crescendo di rotture e scandali di un’audacia per Austen molto insolita (c’è anche una fuga dal tetto coniugale). Pure qui, però, l’ordine si ricompone e nel modo più categorico: l’autorità di Sir Thomas è ristabilita, i personaggi a essa sottomessi sono ricompensati, la morale e le gerarchie tradizionali sembrano trionfare. Il romanzo può quindi apparire (e a molti è apparso) una testimonianza ulteriore della prudenza e del conservatorismo dell’autrice, per giunta più marcata delle altre. Perché, come ha notato uno dei suoi interpreti più famosi, Edward Said, lo svolgimento raccolto dell’intreccio sottende vaste e inquietanti implicazioni storico-geografiche: il potere che Sir Thomas esercita nella tenuta di campagna che dà il titolo al libro, ha un puntello, appena adombrato ma basilare, in quello che rinsalda nel possedimento di Antigua, piantagione mandata avanti da schiavi; la supremazia domestica del pater familias riflette la supremazia imperiale dell’Inghilterra. A ben guardare, però, questa sottoscrizione delle logiche egemoniche (e del loro sottofondo colonialista) non è così energica né così limpida. Innanzitutto, è sostenuta da istanze scarsamente convincenti: l’autorità di Sir Thomas, reazionaria quanto fragile (incapace di affrontare le deviazioni dei figli); il rigido conformismo di Edmund; e l’inscalfibile virtù – consistente soprattutto in cocciuto attaccamento ai principi appresi – di Fanny, eroina positiva giudicata da più critici (Kingsley Amis, ad esempio) francamente detestabile, ricalcata su celebri prototipi (da Cenerentola alla Pamela di Richardson) ma priva della loro amabilità. Inoltre, se le metamorfosi incalzanti del costume e le altrettanto incalzanti pressioni dei sentimenti sono in conclusione represse o sconfitte, vengono messe in toccante risalto da diverse linee del racconto: la vicenda di Henry, come il Valmont delle Relazioni pericolose seduttore sedotto, che si innamora contro le sue stesse aspettative di Fanny; la raffigurazione ellittica ma intensa, fluttuante tra empatia e severità, dell’adulterio commesso da Maria, mosso da una passione doppiamente frustrata, sanzionata dal contesto e non veramente corrisposta; e la caratterizzazione di Mary, incarnazione dell’indipendenza di spirito secondo Sir Thomas nelle ragazze «sgradevole e ripugnante più di ogni altro difetto», consorella più disinibita dell’Elizabeth di Orgoglio e pregiudizio , definita da Virginia Woolf miscuglio di bene e male, schiettamente attenta al suo futuro economico, ma anche sensibile e generosa, legata a Edmund da un amore reciproco ma miniato da una totale divergenza di vedute – di tutte le scissioni tra ragione e sentimento concepite dall’autrice, la più lancinante e insanabile. Le tensioni aperte dalla trama sono chiuse nel finale con una sbrigatività non casuale o maldestra, ma probabilmente voluta. La celebrazione dell’ordine ripristinato è così veloce da sembrare un tributo obbligato, espressione, più che di condivisione autentica, di un rispetto persistente ma intriso di disagio. E d’altra parte, lo scarso spazio concesso alla sorte dei personaggi trasgressivi è significativamente evidenziato («Lasciamo che siano altre penne a indugiare su colpe e mestizie»): quasi a sottolineare da un lato la propria impossibilità di addentrarsi nelle dinamiche della ribellione e di opporsi radicalmente ai valori ufficiali, dall’altro la propria refrattarietà alle tinte accese e ai toni melodrammatici. Qui Austen disegna contrasti più estremi del solito tra la pervicacia del vecchio e l’insorgenza del nuovo, e tra i freni del buonsenso e l’indocilità delle passioni; mai però attraverso la chiarezza della polemica o l’incandescenza del pathos, bensì sempre mediante la sua tanto elogiata (ma a volte non valorizzata abbastanza) art of allusion , la furtiva ironia battezzata da Nabokov (proprio all’interno di una lettura, peraltro piuttosto riduttiva, di Mansfield Park ) la sua «fossetta speciale». Un’ironia che qui si fa insieme più impalpabile e più acuminata, e perciò più sollecitante; che invita a passare dalla lettura alla rilettura, e a dilatare il godimento del testo in prolungato affondo nei suoi sensi impliciti.

 

(il Manifesto, 10 agosto 2013)

recensione di Luisa Muraro

 

Era nata nel 1920 da genitori ebrei ucraini in fuga verso l’America attraverso un’Europa che si stava riprendendo dalla follia della Grande guerra e non sapeva di andare incontro a peggiori tragedie, ma sulla strada dei fuggiaschi un mostro era già appostato, l’antisemitismo. Arrivarono vivi in Brasile, i genitori e le tre figlie. Clarice, la minore, tornerà in Europa alla fine della seconda guerra mondiale (nel 44-46 la troviamo a Napoli), sposa di un diplomatico che la portò anche negli Usa, una vita che non le piaceva e cui pose fine con il divorzio. Tornò a vivere a Rio con i suoi due bambini, e riprese la sua strada che era di scrivere. “Non potrei vivere senza scrivere”, dirà. Il suo primo romanzo era apparso nel 1943. Di sé confidò pubblicamente: “Come nacqui? Per un quasi. Potrei essere un’altra. Potrei essere un uomo. Fortunatamente sono nata donna. E vanitosa. A un elogio sul giornale, preferisco che esca una mia buona foto”. Come mostra l’immagine di copertina di Le passioni e i legami, Clarice Lispector era una donna bella che nelle foto sorride raramente. Scrivendo, sempre tra fine notte e prima mattina, aveva l’abitudine di fumare; l’alba del 15 settembre 1966, nel suo appartamento di Rio de Janeiro, si addormentò con la sigaretta accesa e scoppiò un incendio che, dopo mesi di ospedale e sofferenze, le lasciò la mano destra e le gambe offese. Morì di cancro nel 1977, aveva cinquantasette anni.

Ma tutto questo che ho detto e il tanto altro che si può dire di lei, diventa superfluo in presenza della sua opera. Devo spiegare come. Nella sua opera c’è il molto e il tanto altro di ogni esistenza umana, tra gli estremi coincidenti del silenzio e del reale, ma è tutto preso nel processo del suo diventare impersonale: “io ho l’impersonale dentro di me e non è corrotto né corruttibile dal personale che talvolta mi inganna: ma mi asciugo al sole e sono un impersonale dal nocciolo secco e germinativo” (Acqua viva, Sellerio 1997, p. 27). In altre parole, la sua materia prima è il vivere e il sentire che per forza di cose sono il suo proprio vivere e sentire, che lei disfa perché si veda di che cosa sono fatti. La parola è l’agente di questa operazione, che lei, Clarice, asseconda.

Il fascino della sua scrittura è grande e strano, difficilmente analizzabile; una componente ne è il senso di liberazione che dà a chi legge, per una silenziosa decantazione dell’anima dalle cose che ingombrano, ma senza che niente di essenziale sia perduto, anzi: quello che era andato perduto ora è ritrovato e salvo.

I letterati del suo paese non hanno tardato a percepire la potenza innovatrice della sua scrittura, accostandola ai grandi della letteratura occidentale. Lei, che aveva fatto studi giuridici, obiettò con semplicità: io non li ho letti.

Davanti a un autore, qui un’autrice, di prima grandezza, tutti i commenti vanno bene e nessuno va bene. Conta la lettura.

Perciò facciamo festa al librone recentemente pubblicato da Feltrinelli che raccoglie i titoli maggiori dell’opera di Lispector, a cominciare da La passione secondo G.H. a L’ora della stella passando per La mela nel buio e L’apprendistato, oltre a un buon numero di racconti, in traduzioni di qualità, autrici Adelina Aletti e Renata Cusmai Belardinelli. Dico librone perché si tratta di ottocento pagine e quaranta euro, costoso per le persone scarse di soldi, scomodo da maneggiare per tutti. Credo di aver trovato un senso a questa operazione editoriale: la vedo come un ritorno in forze, dopo che i singoli libri di Lispector, immessi uno per uno nel mercato, non avevano ricevuto la risposta che meritavano. Con questo investimento massiccio, l’editore dice al mercato: io ci credo.

Non ripasserò la storia che ho visto dall’osservatorio della Libreria delle donne di Milano, aperta poco prima che la scrittrice brasiliana arrivasse in Italia grazie a La Rosa di Torino che pubblicò Un apprendistato (1981) e La passione secondo G.H. (1982). Preferisco cercare il perché della finora inadeguata ricezione italiana. Un motivo sta nella scarsa o nessuna sinergia tra pensiero femminista e cultura intellettuale, in Italia. Feltrinelli, per esempio, ha pubblicato di preferenza le femministe Usa di successo, ignorando il pensiero femminista italiano. Lispector, che non è mai stata femminista, è molta più vicina al femminismo “latino”, che rivendica la fortuna di nascere donna, che a quello nordico della gender theory.

Un altro, diverso, motivo sta nella mancata percezione dell’attrito tra lei e la cultura cosiddetta postmoderna. Le parentele tra Lispector e le avanguardie letterarie del Novecento sono innegabili ma sono superficiali. Lei pratica consapevolmente la decostruzione della fiction narrativa e ne rende partecipe la lettrice o il lettore, ma lo fa per l’esigenza di rendere dicibile il vero e non per approdare alla sua insensatezza. Lo dice il finale della Passione secondo G.H., che consideriamo il suo capolavoro, e meglio ancora lo dice l’impianto dell’Ora della stella. Qui, in una forma altamente godibile, l’autrice spoglia sé stessa e la sua opera dalle maschere che inventa per riuscire a vincere l’interdetto che colpisce la verità, e lo fa davanti a noi, ma non è uno spogliarello di relativismo postmoderno. Lo fa perché a noi che leggiamo, almeno a noi, arrivi quel vero la cui esigenza la spinge a scrivere. “Finché avrò domande e non avrò risposte continuerò a scrivere”, dichiara Rodrigo S.M, il suo alter-ego.

(Luisa Muraro, “Alfabeta2” n. 31, luglio-agosto 2013)

 

– intervista Luce Irigaray

 

 

Luce Irigaray “Elogio del toccare” – il Melangolo pp. 80, € 7

 

Un pamphlet della filosofa elogia il “toccare”

“Dobbiamo restituire all’altro la nostra pelle,

fino a raggiungere un’intima comunione”

 

L’ultimo saggio di Luce Irigaray, la pensatrice belga che negli Anni Settanta infiammò la scena filosofica e psicanalitica con Speculum e la teoria della differenza, è un libro piccolo e densissimo appena tradotto in Italia dal Melangolo.

 

Signora Irigaray, nell’«Elogio del toccare» lei denuncia la perdita di significato del tatto nella cultura occidentale, dominata dal «logos» maschile: secondo lei, siamo dunque una grande testa che continua a pensare ma che ha dimenticato la pelle?

 

«E’ così. Il fatto che l’uomo abbia costruito la propria cultura attraverso la dominazione della propria origine naturale e della prima relazione con la madre gli ha impedito di coltivare la dimensione sensibile dell’identità umana. E dunque il tatto non è stato considerato un modo di entrare umanamente in comunicazione con l’altro(a), di restituire all’altro(a) la propria pelle attraverso le carezze, di avvicinarsi l’uno(a) all’altro fino a un’intima comunione grazie al tocco delle mucose».

 

Poi sono arrivati i computer, le macchine che si frappongono ai corpi. Ci si guarda attraverso gli schermi e ci si relaziona in modo virtuale. Eppure, i modelli più richiesti di tablet e cellulare si definiscono proprio «touch» e mettono l’accento sulle proprie qualità tattili. Non lo trova paradossale?

 

«L’industria lo fa per motivi commerciali, per dare l’idea di un contatto da lontano immediato e permanente. Certo il privilegio della vista nell’elaborazione della cultura occidentale non ha contribuito a una coltivazione del tatto. E l’uso della tecnica per dominare la natura ha trascinato con sé lo sviluppo di tutte le tecnologie che ci allontanano sempre più dal toccarci reciprocamente».

 

Che cosa è successo quando, per i postumi di un incidente, ha cominciato a fare yoga?

 

«Lo yoga e le tradizioni orientali mi hanno riportato ad abitare il corpo da cui la tradizione occidentale mi aveva invece esiliata, sia riducendomi a una semplice naturalità a disposizione di una cultura al maschile sia attraverso la sottomissione della mia energia corporea a valori soprasensibili. La pratica dello yoga, specialmente la cura del respiro, mi ha aiutata a superare a poco a poco la scissione fra corpo e mente, corpo e anima, dalla quale si è elaborata la tradizione occidentale. Il respiro è ciò che ci permette di passare da una vitalità soltanto naturale a una vitalità e perfino a una possibile condivisione spirituali, che restano radicate nel corpo e lo trasformano in un corpo spirituale che può fare da mediatore tra di noi. La pratica dello yoga mi ha perfino portata a un’interpretazione del messaggio cristiano dell’incarnazione che non mi era stata insegnata, benché sia fedele a parole del Vangelo. Ho in parte reinterpretato in questo modo l’evento dell’Annunciazione nel piccolo libro Il mistero di Maria (ed. Paoline 2010). Ma già in Amante Marina alludo all’importanza della fedeltà alla natura e del toccare nella vita del Cristo stesso, il mediatore fra appartenenza naturale e appartenenza divina».

 

La salvezza sta ancora nel desiderio?

 

«Il desiderio è una fonte di energia naturale di cui il nostro corpo ha bisogno per crescere e fiorire. E’ come un sole interiore che si manifesta e si irradia attraverso il nostro corpo: per mantenere e portare a compimento la nostra vita dobbiamo coltivarlo, anche prendendoci cura della nostra bellezza naturale».

 

Come lei scrive, «trasformare il proprio corpo in un’opera d’arte, non con voluttà narcisistica, ma per rendere possibile un’umana condivisione di bellezza con l’altro». Eppure lei, che tanto ama la cultura greca e che si è addirittura identificata nella figura di Antigone, conclude che coltivare la propria differenza coincide con un destino tragico.

 

«Rispettare la propria appartenenza sessuata implica sempre una parte di tragedia perché ognuno di noi deve assumerla e coltivarla nella solitudine. Per di più il desiderio aspira all’infinito e all’assoluto, mentre dobbiamo incarnarci in un mondo e una storia che sono finiti. Inoltre, dobbiamo rinunciare alla soddisfazione immediata del nostro desiderio per rispettare la differenza tra le nostre identità sessuate, e anche opporci alla riduzione della nostra identità sessuata all’universalità di un individuo neutro. Sono le due chiavi del tragico insegnamento di Antigone, che come ricordo nel libro All’inizio, lei era, appena uscito da Bollati Boringhieri, prima di unirsi al fidanzato Emone deve dare sepoltura al fratello Polinice. Obbedendo a un ordine più alto, a leggi non scritte che il nuovo ordine rappresentato da Creonte intende abolire. Ma forse l’attuale nostalgia di un ritorno alla cultura greca significa un voler tornare al nostro sé, un sé da cui la nostra tradizione ci ha sempre di più esiliati(e). Si tratta allora di tornare a un’autoaffezione di cui l’età d’oro della Grecia ci aveva già privati(e) sottoponendo il nostro essere globale a una dominazione del mentale. Ora l’autoaffezione ci è necessaria come il pane, perché è la prima condizione della dignità umana».

13/06/2013 La Stampa – Tuttolibri

di Valerio Magrelli

“La morte del padre”, il romanzo di esordio nel ’78 di Alice Ceresa.

Una famiglia borghese è alle prese con qualcosa d’ingestibile come la sepoltura di un patriarca. Quattro gli attori, madre, figlio, figlia maggiore e figlia minore (il personaggio autobiografico dell’autrice). Sette le sezioni, che esaminano il modo in cui ciascuno di loro vive la scomparsa del capofamiglia. Così, nell’introdurre La morte del padre di Alice Ceresa (et al./edizioni), Patrizia Zappa Mulas descrive la “radiografia poetica” di un funerale degno delle figure maciullate di Bacon. Uscito nel ’78, il libro fu accolto da un Alfredo Giuliani entusiasta: «Mirabile: c’è una pacata visionarietà che fa pensare a certi racconti magici e fantasmatici di Kipling e di Henry James».

Nata nel 1923 a Basilea, la Ceresa abbandonò la casa paterna a sedici anni, spostandosi tra il Sud della Francia e Zurigo. Qui strinse amicizia con molti fuoriusciti, tra cui Comencini, Fortini e Silone, che nel ’50 l’avrebbe chiamata a Roma come redattrice di Tempo presente. Solo due i suoi titoli pubblicati, oltre a quello già citato: La Figlia prodiga, 1967, e Bambine, 1990. L’esordio fu esplosivo. Coronato dal Pre- mio Viareggio, il volume fu apprezzato da Parise, Vittorini, Calvino e in particolare Manganelli: «Alcuni, e io tra questi, lo trovarono un libro affascinante, per certi versi unico».

All’origine di tanto successo, stava la qualità del suo stile di “emigrata”. Dopo aver vagabondato fra tedesco e francese, questa lettrice e traduttrice coltissima scelse infatti un italiano del tutto personale, «che ha un inconscio fondo germanico » (Zappa Mulas). Inversioni sintattiche, interruzioni, rallentamenti ritmici, disposizioni abnormi di articoli, avverbi e digressioni, producono una prosa scandita, notava Manganelli, quasi in versetti. Quanto al tema della sue opere, è presto detto: l’unica cosa che la interessava, era mettere in luce l’ineguaglianza femminile, analizzarne l’inesorabile sviluppo. Infatti, è ancora Giuliani a osservarlo, la Ceresa «sembra la più dotata e insieme la più trascendentale esploratrice di quel fenomeno che è il disastro di crescere».

Il disastro di crescere e di morire, viene da aggiungere di fronte al libro appena ripubblicato, poiché anche la scomparsa assume qui un aspetto speciale. Secondo la curatrice, il colpo di genio del racconto consisterebbe nell’intuizione che la morte non sia un distacco istantaneo, bensì un lento processo. Ecco perché il defunto, “impossibilitato a ogni personale intervento nel procedimento altrove svolto intorno alla sua persona, si trova finalmente indifeso alla mercé dei vivi”. Così, se nella sua prima notte di morto il padre vaga ancora «nei meandri del suo proprio corpo alla ricerca di una impossibile uscita», nella seconda, egli abbandonerà anche l’ultima occupazione di sé per venir meno «come entità munita di un proprio io». La morte, insomma, sopravviene «come una glaciazione », una ritrazione e una sparizione definitiva.

Le immagini si susseguono, stupefacenti: «Adesso la figura del padre stranamente inizia una sua lunga serie di metamorfosi molto simili alle laboriose spoliazioni di certi rettili della famiglia degli anellidi». Il suo corpo, cioè, emigrerà per sempre, travasato nel ricordo altrui. Di più: l’elaborazione del lutto corrisponderà a una vera e propria operazione cannibalesca: «Il padre viene così incorporato un poco per volta senza che sia possibile, poiché effettivamente di una specie di materiale pasto si tratta, evitare macinanti movimenti della mascella e perfino schioccare di labbra, nonché successivamente appunto le pigre e impartecipi pause di quella che senz’altro si dovrebbe chiamare l’invisibile e personalissima digestione».

Nella scrittura di Alice Ceresa l’intensità è proporzionale alla brevità. Forse ciò spiega perché il suo modello letterario fosse un pittore, Paul Klee, che fece della concentrazione un’arte dello sguardo.

di Virginia Woolf*

Sono le parole le vere colpevoli. Sono tra le cose più indisciplinate, più libere, più irresponsabili e più riluttanti a lasciarsi insegnare. Certo, possiamo sempre prenderle, suddividerle e metterle in ordine alfabetico nei dizionari. Ma le parole non vivono nei dizionari; vivono nella mente. Se ne volete una prova, pensate a quante volte, nei momenti di maggiore emozione, vi capita di non trovarne nessuna quando più ne avreste bisogno. Eppure il dizionario esiste; e lì, a vostra disposizione, ci sono mezzo milione di parole tutte in ordine alfabetico. Ma potete davvero usarle? No, perché le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente. Consultate il dizionario. Lì, senza alcun dubbio, si trovano drammi più splendidi di Antonio e Cleopatra; poesie più belle dell’Ode dell’usignolo; romanzi al cui confronto Orgoglio e pregiudizio e Davide Copperfield non sono altro che rozzi esercizi da dilettante. La questione è solo quella di trovare le parole giuste e di metterle nell’ordine giusto. Ma non possiamo farlo perché esse non vivono nei dizionari, ma nella mente. E come vivono nella mente? Nei modi più strani e svariati, non molto diversamente dagli esseri umani; vagando qua e là, innamorandosi e accoppiandosi. E’ indubbio che siano molto meno limitate di noi dalle convenzioni e dai cerimoniali. Parole regali possono permettersi di accoppiarsi con le più comuni. Parole inglesi sposano parole francesi, tedesche, indiane, e di colore se gli salta in mente di farlo. Di fatto, quanto meno indaghiamo nel passato della nostra cara madrelingua inglese, tanto meglio sarà per la reputazione di quella Signora. Perché è diventata una di quelle donne che passano di continuo da una persona all’altra.

 

Per questo, imporre regole a tali impedimenti vagabondi è del tutto inutile. Le poche regole di grammatica e di ortografia esistenti sono le uniche restrizioni che potremmo imporre loro. Al massimo possiamo dire loro – man mano che le spiamo dal profondo limite della caverna scura e male illuminata in cui vivono – che sembrano preferire la gente che sente e pensa prima di usarle, ma non deve essere gente che sente e pensa a loro, ma a qualcosa di diverso. Perché sono molto sensibili, e si sentono facilmente a disagio. Non amano che si discuta della loro purezza o della loro impurità. Se fondate un’Associazione a favore dell’Inglese Puro, esse mostreranno il loro disappunto fondandone un’altra a sostegno dell’Inglese Impuro – da cui deriva l’innaturale violenza di molti discorsi moderni; che altro non vuole essere se non una protesta contro i puritani. Le parole sono anche molto democratiche; pensano che una parola sia buona come un’altra; che le parole rozze valgano quanto quelle educate; che quelle incolte siano uguali a quelle colte; non esistono classi o titoli di merito nella loro società. E non amano essere sollevate in punta di penna ed esaminate una per una. Restano sempre unite in frasi, in paragrafi, e a volte per intere pagine di fila. Odiano essere utili; odiano dover far soldi; odiano andare in giro a tenere conferenze. In breve, odiano qualsiasi cosa imponga loro un unico significato, o che le immobilizzi in un’unica posa, perché cambiare fa parte della loro natura.

 

E forse è proprio questa la loro caratteristica più sorprendente: il loro bisogno di cambiare. Perché la verità che cercano di affermare ha tante facce; e proprio perché loro stesse sono molto sfaccettate riescono a comunicarla, illuminando ora un volto, ora un altro. Per questo possono significare una cosa per una persona e un’altra cosa per un’altra; per questo risultano incomprensibili a una generazione e del tutto scontate per quella successiva. Ed è proprio grazie a questa loro complessità che esse sopravvivono. Allora, forse uno dei motivi per cui oggi non abbiamo grandi poeti, grandi romanzieri, o grandi critici è che neghiamo alle parole la loro libertà. Le inchiodiamo a un unico significato, al loro significato utile; a quello che ci fa prendere un treno e che ci fa superare gli esami. E quando le parole vengono inchiodate a un unico significato, ripiegano le loro ali e muoiono. In conclusione, e con più veemenza, come noi stessi, le parole, per vivere a loro agio, hanno bisogno di agire per conto proprio. Senza dubbio a loro fa piacere che noi sentiamo e pensiamo prima di usarle; ma vogliono anche che ci concediamo una pausa; che diventiamo incoscienti. Il nostro inconscio è la loro privacy; la nostra ombra è la loro luce… Quella pausa è stata fatta, quel velo d’oscurità è stato calato per indurre le parole a unirsi in uno di quei matrimoni veloci che si traducono in immagini perfette e producono bellezza eterna. Eppure stasera niente di tutto questo accadrà. Quelle monelle sono adirate; scortesi; disobbedienti; mute. Cosa staranno confabulando?

 

«Il tempo è scaduto! Silenzio!»

* Questo magnifico testo è la trascrizione di una trasmissione radiofonica del 20 aprile 1937. Ed è contenuto in un libricino piccolo piccolo, edito da La Tartaruga nel 1996, insieme con tre saggi della nostra maestra Virginia Woolf. Sono: Come si legge un libro?, apparso su Yale Review nell’ottobre 1926; Lo scrittore e la vita (New York Herald Tribune, novembre 1926) e L’arte della narrativa (New York Herald Tribune, 1927). La traduzione è di Daniela Daniele. Ogni singola parola di quello libretto sarebbe da imparare a memoria. (Paola Ciccioli)

Niente ci fu, di Beatrice Monroy, è una storia siciliana avvenuta nel 1965. La protagonista è Franca Viola, diciassettene, rapita e violentata che disse no al matrimonio riparatore


di Mirella Mascellino

 

 

Niente ci fu, di Beatrice Monroy, è una storia siciliana dolorosa ed emblematica, avvenuta nel 1965. La protagonista è Franca Viola, all’epoca una ragazza diciassettenne, di Alcamo, paese mafioso in provincia di Trapani, dove come in altri paesi siciliani era comune la pratica di rapire le donne che rifiutavano i pretendenti e dopo il ratto, secondo l’articolo 544 del Codice Rocco, il matrimonio riparatore premiava il rapitore, senza chiedere l’opinione della preda. Franca Viola fu la prima donna che ha detto “no” al matrimonio col carnefice Filippo Melodia, malacarne di famiglia mafiosa, che per otto giorni la rapì e violentò, in una casa di campagna. Dalla sua parte Franca ebbe i genitori forti e determinati, Bernardo e Vita. Benché semplici, si opposero al matrimonio riparatore e con “Niente ci fu”, espressione tipicamente siciliana per indicare un nonnulla, incoraggiarono la figlia a rifiutare le nozze riparatrici che per il Codice penale fascista perdonava lo stupratore. La Monroy, da brillante narratrice quale è, fa si che Franca Viola, attraverso il suo No di libertà, dia voce alle tante donne sopraffatte dal dolore della violenza, nel silenzio e nella vergogna senza resistervi, soccombendo talvolta e rimanendo ferite a vita. Un racconto tra il mito e la realtà, la storia della Sicilia di cinquant’anni fa, fra le voci di Danilo Dolci, Leonardo Sciascia e Lodovico Corrao, deputato e avvocato di Franca Viola, le pagine del quotidiano L’Ora con la cronaca dei tempi, lo stupro durante la guerra in Kossovo e l’attualità della violenza contro le donne. Franca diventa un’eroina, Melodia, condannato a undici anni di carcere con sentenza senza precedenti, finirà la sua vita ammazzato. Nel 1968, la Viola si sposerà in abito bianco con un uomo che ama, vivendo, tuttora, in riservatezza, consapevole della rivoluzione, cui è legata la sua vita, che cambiò la Sicilia, l’Italia e la storia di noi donne.

Beatrice Monroy, Niente ci fu, Ed La Meridiana, pagg 110, euro 13,50