Luisa Muraro, Gugliema e Maifreda Storia di un’eresia femminista, La Tartaruga, 1985/2003

Edizione digitale della Libreria delle donne di Milano, 2015

Questo libro intenso e ormai introvabile nelle librerie torna a parlarci in digitale delle vicende di Guglielma Boema, di Maifreda da Pirovano e degli altri suoi seguaci.

Negli ultimi decenni del tredicesimo secolo fiorì a Milano un movimento religioso, relazionato con la vicina abbazia di Chiaravalle, cui presero parte donne (in maggioranza) e uomini, religiosi e laici, gente del popolo e membri di eminenti famiglie milanesi.

Figura centrale di questo gruppo eterogeneo e socialmente trasversale fu una donna laica, Guglielma, che giunse a Milano con un figlio tra il 1260 e il 1270. Non si sa quale potesse essere la meta del suo viaggio, comunque a Milano si stabilì. Secondo i suoi seguaci era di famiglia reale e proveniva dalla Boemia. In seguito fu nota come Guglielma Boema. Luisa Muraro argomenta a favore di quell’origine e discendenza (una questione su cui gli storiografi rimangono discordi).

Il gruppo di Guglielma privilegiava la terza persona della trinità cristiana, lo Spirito Santo, l’elemento dell’amore. Un punto, questo, comune a tanti altri movimenti religiosi di quell’epoca piena di tensioni e anche di ansia rinnovatrice. Gioacchino da Fiore, sul finire del secolo precedente, aveva profetizzato l’avvento di una nuova era, quella dello Spirito Santo, che sarebbe succeduta e avrebbe superato quella del Padre (Vecchio Testamento) e quella del Figlio (Nuovo Testamento). Gioacchino prefigurava inoltre una nuova comunità (Monasterium) in cui sarebbero confluite spiritualità diverse e di cui avrebbero fatto parte anche i laici sposati e le loro famiglie.

La grande singolarità del gruppo milanese stava nel fatto che Guglielma era considerata l’incarnazione attuale dello Spirito Santo, per lo meno nel pensiero dei suoi due principali seguaci, la suora Maifreda e il laico Andrea Saramita: Dio si era fatto donna in Guglielma come si era fatto uomo in Gesù.

Guglielma morì di morte naturale nel 1281 o nel 1282, e fu subito oggetto di ulteriore grande venerazione presso i suoi seguaci e nella stessa abbazia di Chiaravalle, dove le si dedicava un culto particolare e furono eseguite pitture che la raffiguravano con la Madonna o nelle sembianze di sante già canonizzate.

L’idea che in Guglielma fosse incarnato lo Spirito Santo non era gridata ai quattro venti, ma coltivata nell’ambito più ristretto del gruppo e non è dato sapere se e quanto gli stessi frati di Chiaravalle ne avessero sentore.

Il culto di Guglielma era espresso prevalentemente nelle forme tradizionali della devozione cattolica per figure di grande spiritualità, tanto che Guglielma sarebbe potuta diventare un’altra santa del popolato pantheon cattolico se non fossero giunte all’Inquisizione milanese voci o delazioni in relazione a pratiche e credenze non ortodosse dei guglielmiti.

Nell’anno 1300 fu celebrato un definitivo processo per eresia in cui, nel corso di vari mesi, furono interrogate molte persone del gruppo e loro parenti o conoscenti. Al termine del processo i principali inquisiti furono condannati al rogo. Ad altri, pentiti, furono comminate pene lievi. Con ogni evidenza fu messo al rogo anche il corpo di Guglielma, appositamente esumato dalla sua sepoltura in Chiaravalle.

Di quel processo, in Gugliema e Maifreda Luisa Muraro offre un resoconto ragionato basandosi in primo luogo sull’esame rigoroso dell’unico verbale superstite.

Muraro propone inoltre un’avvincente ricostruzione delle relazioni interne al gruppo prima e dopo la morte di Guglielma, interrogandosi in particolare sulla figura di Maifreda come “sostituta” di Guglielma.

Maifreda, dopo la morte di Guglielma, divenne la leader del gruppo, a capo di una sorta di chiesa parallela o alternativa fondata sul culto di Guglielma: risulta che, oltre ad amministrare sacramenti al pari di un sacerdote, avesse introdotto nel cerimoniale che la riguardava atti di venerazione che erano dovuti esclusivamente al Papa.

Fu, probabilmente, una delazione relativa a una messa celebrata da Maifreda nel giorno di Pasqua dell’anno 1300 a provocare un giro di vite nel processo inquisitorio già in corso.

Muraro sottolinea come il culto celebrato da Maifreda non fosse eterodosso nella forma, rimanendo nel solco della liturgia cattolica eccetto che per il fatto, questo sì scandalosamente eterodosso, che era condotto da una donna.

 

«Suor Maifreda disse messa – sono parole di Sibilla Malconzato – e aveva l’ostia e la elevò e fece tutte le cose che fanno gli altri sacerdoti per la messa». La conformità del rito metteva in risalto, per contrasto, l’elemento assolutamente nuovo rappresentato dal sesso del celebrante. Per quanto possa suonare paradossale, suor Maifreda non era un’eretica riformatrice, non aveva cioè in mente di rinnovare la Chiesa in senso morale o spirituale. Quello che pensava e voleva era un mutamento dello stato femminile […]

 

Una questione centrale affrontata nel libro è quale fosse stato il pensiero della stessa Guglielma sul tema dell’incarnazione. La questione, tra l’altro, era importante per gli inquisitori che cercavano, con il fine di poter stroncare il movimento guglielmita alla radice, qualcosa che dimostrasse che la stessa Guglielma era caduta nell’eresia prima di morire: un compito non facile, perché gli inquisiti facevano normalmente riferimento a cose che avevano sentito dire da Maifreda o da Andrea, non da Guglielma.

Gli inquisitori, osserva Muraro, non potevano comprendere appieno il mutamento simbolico implicito nella spiritualità di Guglielma, né sarebbero stati in grado di affrontarlo su un piano dottrinale complesso. E in ogni caso avevano tutto l’interesse a non parlarne:

 

La questione teologica che l’inquisitore vuole evitare è infatti quella della differenza sessuale in rapporto all’incarnazione di Dio. Del Dio incarnato in Gesù Cristo si insegna che lo ha voluto e che ha voluto essere ebreo ed essere povero e nascere a Betlemme e che ha voluto morire in croce. Ha voluto anche essere uomo piuttosto che donna? E che senso si deve dare a ciò? La ricerca spirituale di Guglielma riguardava questo tema.

 

Gli inquisitori si concentrarono piuttosto su questioni di dettaglio, chiedendo per esempio alle persone inquisite se ritenevano Guglielma superiore alla Madonna: una risposta affermativa sarebbe stata eretica in base a un punto ben definito della dottrina cattolica.

Alla fine trapelò comunque qualcosa di fondamentale riguardo a Guglielma e al suo coinvolgimento nell’eresia:

 

Guglielma stessa avrebbe insegnato che il suo corpo e quello di Cristo erano un medesimo corpo, quello dello Spirito Santo. E che di conseguenza era superato il regime della salvezza attraverso il sacrificio di Cristo.

Leggiamo le parole del verbale: Guglielma, quando viveva, disse che «dal 1262 in avanti non si sacrificava né consacrava il corpo di Cristo soltanto ma insieme al corpo dello Spirito Santo, che era la stessa Guglielma […] Perciò, continua il testo, Guglielma diceva che «a lei non interessava vedere il corpo di Cristo né il suo sacrificio, perché vedeva se stessa».

Guglielma parlava del suo corpo come luogo di una passione che si compie senza sacrifici cruenti ma semplicemente per il suo essere un corpo di donna. Si tratta dunque della passione della differenza sessuale.

 

Riguardo a ciò che veramente Guglielma abbia detto, insegnato, pensato, Muraro fa presente che noi conosciamo il pensiero di Guglielma solo indirettamente, attraverso le parole di altri e le idee elaborate da altri, oltretutto semplificate e schematizzate dalle procedure processuali.

Ciononostante, il libro riesce a restituire Guglielma come una figura di grande respiro, una donna che non si esprimeva in modo dottrinale ma sapienziale. Le affermazioni che le sono attribuite durante il processo non furono il contenuto di prediche pubbliche, bensì parole dette in situazioni concrete, personali, in una intimità di soggetti. Più di una volta qualcuna/o del gruppo chiese a Guglielma se era vero, come aveva sentito dire da altri, che lei era lo Spirito Santo. Guglielma negava incollerita dicendo che era una donna in carne ed ossa, nata da una donna e da un uomo ecc.: un atteggiamento che si può attribuire alla saggia volontà di proteggere il gruppo dei seguaci insieme con se stessa, ma anche al rifiuto di essere incasellata dentro una formula, una definizione teologica.

 

(www.gasparastampa.es, maggio 2015)

 

la politica e la poesia richiedono entrambe l’immaginare radicale del non-ancora, del se-soltanto”

In un’ intervista del 1991, Adrienne Rich critica il suo uso della metafora del taglio di diamanti in una poesia di 30 anni prima, The Diamond Cutters (I tagliatori di diamanti), in quanto a quel tempo non prendeva in considerazione la realtà della vita dei lavoratori sud-africani.
Alla domanda, ‘allora la scelta di una metafora comporta una responsabilità politica?’ Rich risponde con un ‘si’ risonante. Per Rich, la parola scritta non può che essere politica, perché non esiste cesura tra la nostra storia personale (my story) e quella condivisa con tutti gli altri che abitano e hanno abitato il nostro mondo (History). In risposta alla famosa frase del poeta W.H. Auden, “La poesia non fa succedere niente”, Rich risponde che la poesia non ha senso se non viene per cambiare qualcosa, se serve solo per conservare lo status quo in un paese invecchiato e depresso, guidato da presidenti collusi con “trafficanti / di gas nervino”, vergognosi rovesciamenti del Lincoln cantato da Whitman nel famoso “Capitano! mio Capitano!”. La poesia per Rich è la ricerca di un linguaggio comune (perché scrivere è ri-nominare), la creazione di un atlante per districarci in questo difficile mondo dove per sopravvivere è necessario creare legami tra il personale e il politico, tra la “mia” e la “tua” storia. Nei suoi testi in poesia e in prosa è in atto una re-visione, è data voce a chi è stato tradizionalmente zittito dalla storia, per capire che “questo modo di soffrire/è condiviso, non necessario/è politico” e che la politica non è qualcosa “là fuori ma qui dentro”.

Con i suoi sessanta anni di scrittura poetica e saggistica, Adrienne Rich ha profondamente segnato la scena letteraria e intellettuale americana per più di mezzo secolo. Nata a Baltimora di padre ebreo, professore di patologia alla John Hopkins, e di madre di buona famiglia protestante del sud, a Rich l’appartenenza ebraica viene negata, quasi nascosta: è persino battezzata metodista per motivi di convenienza. In seguito, riappropriarsi dell’appartenenza ebraica è il primo passo verso una ri-creazione, un allargamento, della propria identità che la porterà a riconoscersi lesbica dopo essere prima sposa e madre, come prevedeva il ruolo femminile degli anni ’50 (interessante qui ilconfronto con la contemporanea Silvia Plath).1 Da sempre studentessa brillante, la Rich si laurea al prestigioso Radcliffe College e pubblica la sua prima raccolta di poesie A Change of World nel 1951, che vince il prestigioso Yale Younger Poets Award. Come nella vita privata, anche nelle prime poesie Rich si conforma ai modelli dominanti – difatti, nella sua introduzione al libro, il poeta W.H. Auden loda la “grazia e la modestia di questa voce”. È della metà degli anni ’60 l’inizio del suo risveglio politico, intimamente intrecciato con quello personale (la protesta contro la guerra in Vietnam, il divorzio, il lesbismo) e il relativo cambiamento della sua poesia, che passa ad affrontare temi sociali attraverso il verso libero. La svolta è completa nella raccolta Diving into the Wreck del 1973, dove rivisita i parametri mitici del rapporto uomo-donna. Quando il libro riceve il prestigioso National Book Award, la Rich lo riceve, insieme alle altre vincitrici, le afro-americane Audre Lorde e Alice Walker, in nome di tutte le donne. Accanto alle poesie la Rich produce un rilevante corpus di opere in prosa, la cui influenza rischia in un certo senso di mettere in ombra la produzione poetica, in America ma ancor più in Italia. Di questo corpus ricordiamo qui solo Of Woman Born: Motherhood as Experience and Institution del 1976 (più volte ristampate in Italia dal Garzanti come Nato di Donna, ma oramai fuori commercio). Altrettanto importante, per l’influenza che ha avuto, è il suo lavoro come insegnante di scrittura creativa in numerose scuole e università in tutti gli Stati Uniti. Tantissime sono le raccolte poetiche (l’ultima, Tonight No Poetry will Serve: Poems 2007-2010 è del 2011). Purtroppo, di tutta questa vasta produzione le poche traduzioni in italiano sono attualmente fuori commercio, comprese le due belle antologie curate da Maria Luisa Vezzali per conto dell’editore Crocetti, Cartografie del silenzio del 2000 e la recente (ma già quasi introvabile) La guida nel labirinto (2011).

1 Della riappropriazione della sua identità ebraica parlerà in Split at the Root: an Essay on Jewish Identity (1982), pubblicata in Italia in 1985 con la traduzione di Liana Borghi, insieme alla raccolta ‘Sources’ e un’importante postfazione della curatrice. Mentre l’esperienza del matrimonio e della maternità è sviluppata nel saggio sul tema della condizione femminile e della scrittura, When We Dead Awake: Writing as Re-vision (1971), e ovviamente nel citato Of Woman Born.

Il testo presentato è quello scritto e letto il 18-03-2014 da Brenda PorsterIl testo presentato è quello scritto e letto il 18-03-2014 da Brenda Porster nell’ambito della rassegna fiorentina “Perchè poeti in tempo di libertà” nell’ambito della rassegna fiorentina “Perchè poeti in tempo di libertà”. Ringrazio Brenda a nome di tutta la redazione per il prezioso dono.

 

(poetarumsilva.com/2014/03/27/adrienne-rich-1929-2012-la-responsabilita-della-parola/, 26/5/2015)

di Luisa Muraro

Conoscete Séraphine de Senlis? È una pittrice francese nata da nullatenenti di campagna, nel 1864, quasi subito orfana e cresciuta in un collegio di suore, poi donna a ore nella città di Senlis, al nord della Francia, vissuta povera tranne alcuni anni di fortuna (grazie a Wilhelm Uhde, mercante d’arte), morta nel 1942 in un manicomio della Francia occupata (e chi conosce la storia sa che cosa ha voluto dire per tante e tanti: in uno stato di tragico abbandono).

Io sono una sua ammiratrice, ammiro l’opera e la persona. Di lei mi parlò Christiane Veauvy di Parigi, dandomi un catalogo da cui provengono le immagini pubblicate sul n. 65 di Via Dogana, dicembre 2010.

Nonostante la sorte avversa, con la sola cultura di saper appena leggere e scrivere, cui si aggiunse un’elementare formazione religiosa, in un ambiente sociale di provincia che non le fu ostile ma fatalmente vedeva in lei una lavoratrice manuale domestica, questa donna riconobbe presto in sé il desiderio di esprimersi, gli fu fedele e coltivò l’arte della pittura raggiungendo originalità e potenza, tanto che una parte dei suoi dipinti si salvò dalla dispersione per essere esposta e qualche quadro si trova conservato in musei importanti.

Perciò ho salutato con gioia il saggio di Katia Ricci, Séraphine de Senlis. Artista senza rivali, editrice Luciana Tufani, Ferrara 2015, ricco di notizie sull’artista, l’opera e la fortuna. E corredato da un prezioso apparato iconografico. Le ringrazio moltissimo e mi auguro che il loro impegno contribuisca ad accrescere la fama di Séraphine ripagandolo anche con le vendite.

Devo però formulare una critica. Nel risvolto di copertina, che vuole presentare la figura dell’artista, la trovo così etichettata: «Uno dei tanti esempi di donne il cui talento è stato troncato e che sono state dichiarate pazze perché non si uniformavano alle aspettative della società in cui sono vissute». Si tratta di un miscuglio di cose false e stereotipate che fa torto a Séraphine de Senlis, oltre che all’esattezza storica, ma anche all’autrice e all’editrice che le hanno dedicato questo saggio.

Non so chi abbia scritto questo falso e deprimente commento alla luminosa figura di Séraphine. E non m’interessa saperlo, perché so da dove proviene.

Proviene, in primo luogo, dal femminismo, noi comprese, quando smette di pensare e di cercare le parole, per mettersi a ripetere cose generiche che vanno bene a tutte (e a nessuna). Proviene da una storiografia a una dimensione, quella che confronta le donne agli uomini e le appiattisce. Proviene, al fondo, da una sempiterna richiesta di riconoscimento. Su questo tema mi sono soffermata recentemente parlando di un’antica maestra spirituale che ancor oggi può insegnarci ad amare e a combattere. Da questa, la beghina fiamminga Hadewijch, ricavo le parole per dire di Séraphine: ha saputo combattere tutta la notte, fino all’alba, senza arrendersi e perciò ha meritato di essere sconfitta (sottinteso: da Dio, non dagli uomini). 

(www.libreriadelledonne.it, 26 maggio 2015)

di Silvia Acierno

Nell’Amant Duras scrive che per lei è sempre stato troppo tardi. A trent’anni la sua vita era già piena di avvenimenti. C’erano stati i ritorni dalla Cocincina dove era nata, la guerra, la deportazione del marito Robert Antelme, la resistenza, i processi sommari ai collabó e l’euforia del dopoguerra. Poi la morte di un figlio appena nato, il figlio di Antelme, quel cadaverino che le suore non le avevano neanche lasciato vedere. La relazione con Dionys Mascolo, editor di Gallimard. E la pubblicazione del Barrage sur le Pacifique, quel romanzo che Marguerite aveva portato alla madre, forse anche per infliggerle una sottile sofferenza, e per il quale avevano rotto definitivamente.

 

C’è l’appartamento di rue Saint Benoit, al numero 5, quartiere Saint-Germain. È il classico appartamento parigino con i tetti alti, gli stucchi, i camini di marmo… Lei l’ha fatto suo con dei mobili comprati dai rigattieri, gli uncinetti, i fiori secchi, i suoi piatti vietnamiti, le riunioni con il circolo di amici riempite dalle sue risate rauche, i silenzi, le frasi, il suo desiderio di piacere, in un continuo gioco di seduzione e provocazione. Tutto sta per sgretolarsi di nuovo, come quando si era innamorata di Dyonis Mascolo e ci aveva fatto un figlio. Un nuovo bonheur è alle porte. La passione brutale per Jarlot, giornalista, don giovanni impenitente, roso dal desiderio di diventare romanziere. Con lui Duras conoscerà l’altra se stessa, o comincerà ad abbandonarsi davvero a se stessa, ad essere in balía di se stessa. Di quella se stessa che viene dalla strada di Ram. La strada polverosa, immersa nelle risaie e nelle maree che la ricoprono, la strada dove passano le cars dei cacciatori, la via d’uscita da quel dolce inferno.

Per le sue biografe (Adler, Petrignani) Nené, passerá ad essere Marguerite, poi la Duras, la caricatura di sé, a faire du Duras, du surduras… Assieme a Jarlot anche la scrittura cambierá, verrà stravolta.

Dopo Jarlot tutto si sgretolerà e ricomporrà di nuovo. Ancora dal bonheur al malheur, dalla vita alla morte. Perchè Marguerite è così, non conosce le mezze misure, le detesta, non sa che farsene. Poi sono venuti l’alcolismo e la solitudine, l’alcolismo e Yann Andreas, l’ultimo amante, un ventisettenne omosessuale, l’alcolismo e le disintossicazioni, il coma e le rinascite. L’alcolismo: quello che ti deforma il corpo, lo gonfia, lo strazia. Marguerite non si riconosce più. Ma continua a bere disperatamente. Con Jarlot beveva, beveva tanto per dominare quella relazione burrascosa, per domare il desiderio onnivoro di quell’uomo. Ma allora era una cinquantenne che si sentiva ancora giovane, desiderabile, desiderata. Con Yann è diverso. Quell’alcolismo si è fatto più disperato. Lo nutrono la solitudine, la perdita di tante persone amate. E la paura. E il desiderio di Yann, quel desiderio così sconveniente non riusciva a placare più niente. Faceva parte di quella solitudine, di quella paura.

Poi sono venuti la pubblicazione dell’Amante, il successo planetario, il premio Goncourt, una specie di euforia. E la scrittura, sempre la scrittura fino alla fine.

 

Duras scriverà per il teatro, comincierà a cedere i diritti cinematografici dei suoi romanzi, a comporre romanzi che sono come opere teatrali, a scarnificare il romanzo e ridurlo a dialogo teatrale (Detruire, dit-elle), a fare film, a scrivere romanzi con l’occhio del regista, a scrivere e a filmare allo stesso tempo (L’Amant de la Chine du Nord), a filmare la parola, a scrivere e a distruggere la scrittura, a scrivere e a distruggere se stessa, a salvare se stessa. Marguerite sperimenta con un genere ibrido, fa del minimalismo letterario, si ispira alla letteratura americana, fa del “nuovo romanzo” tanto che Robbe-Grillet se ne vuole appropiare, si vuole appropriare di Duras e Marguerite si lascia corteggiare per poi reclamare la propria indipendenza. Ma soprattutto Marguerite ci racconta la sua storia che solo può essere raccontata con la sua voce e il suo stile.

 

Cos’è la scrittura di Duras? È provocazione, abbandono, ossessione, cedimento. La scrittura è una visione, un momento di panico, un’emozione, un legame immerso in una storia a volte mal costruita. Quando scrive, Marguerite non si allontana mai dalla sua vita, anche quando i personaggi non sono sua madre, i fratelli, il cinese, Dyonis, lei… Anche quando i personaggi si sfibrano, non sono altro che un uomo, una donna, dei fantasmi, delle voci criptiche, indecifrabili. E tutto accade nella mente di Duras. Ed è tutto così claustrofobico. Marguerite evade dalla sua vita, dalla relazione d’amore, dalla coppia (bisessuale, omosessuale, madre-figlio, fratello-sorella), una coppia che non può congiungersi, che si evade continuamente. Però Marguerite la evade per naufragarci dentro, per perdersi dentro, nell’orgasmo della parola e del ricordo.

 

Dietro la scrittura c’è il desiderio, desiderio a cui Marguerite non può sottrarsi. Desiderio e un narcisimo drammatico. All’origine della scrittura c’è l’infanzia, o meglio una pubertà travestita d’infanzia, vergine e innocente. L’enfant del romanzo L’amant de la Chine du Nord. All’origine della scrittura c’è la memoria, una memoria che inganna se stessa. Memoria che nello sforzo brutale di rimemorare, di avvicinarsi sempre di più a quel pericoloso fantasma che ci portiamo dentro, di mostrare senza fronzoli l’inafferrabile che abbiamo dentro, si allontana dall’infanzia, mente, trasfigura e così facendo si avvicina a quello che siamo diventati. Disperatamente tesa tra quello che siamo stati e quello che siamo.

A quel qualcosa che in qualche modo è all’origine della scrittura di Duras si può dare un nome: possiamo chiamarlo Indocina. Ombra interna. L’Indocina è sempre là. È sempre stata là, tra lei e tutto il resto. Marguerite la custodisce. È il suo territorio. È il luogo del suo corpo, della distruzione del suo corpo per mezzo dell’alcolismo, è il luogo dell’amore, è il luogo della scrittura, eccitante e amara.

 

L’Indocina è la terra dell’innocenza e della perdita dell’innocenza. Marguerite, lei, l’innocenza l’ha perduta presto. L’Indocina è la terra della trasgressione. Marguerite ha quindici anni e mezzo. Porta quel famoso cappello di feltro da uomo, quel vestitino di seta sgualcito, stretto in vita da una cintura pesante, quelle assurde scarpe laminate da sera con i tacchi, le labbra carnose dipinte di rosso. Marguerite va con un cinese che non è né bello né brutto. Ma che importa! Il cinese ha la pelle color miele, lavata dalle piogge. Indossa un completo di tussor. Se ne sta timidamente nella suo Leon Bollé. Lei lo desidera perché lui la vuole, perché lui la desidera con forza e con paura. Marguerite desidera il desiderio dell’uomo di prenderla, di violare quel corpo minuto. Marguerite desidera l’ammirazione spietata che il cinese sente per lei.

 

L’Indocina è anche la terra dell’incesto, sfiorato, sussurrato, forse realizzato, forse non realizzato mai completamente. La notte scorre nei corridoi della scuola di cui la madre di Marguerite è direttrice. Marguerite si stringe al corpo del fratello minore, le petit-frère, Paulo. È un abbraccio materno. Lei lo vuole proteggere dalle angherie e dai soprusi del fratello maggiore, l’ainé, Pierre. Forse lei ha già perso la verginità con il cinese. Forse questo abbraccio è accaduto prima. Lei e Paulo si stringono nella paura del fratello più grande. La paura paralizzante e traumatizzante di Paulo. La paura di Marguerite della paura di Paulo. La paura di Marguerite che Pierre possa ammazzare Paulo. La paura di Marguerite che la madre lasci che Pierre ammazzi Paulo. Si stringono, lei e Paulo, nella paura e nella gelosia di quel fratello maggiore. Pierre la pecora nera della famiglia, un buono a nulla. Pierre che passa il tempo e butta i risparmi della madre nelle fumerie di oppio e nei postriboli. Pierre che ha preso il posto del padre, morto quando Marguerite aveva quattro anni. Pierre che li batte. Pierre che manipola la madre, le ruba soldi e gioielli. Pierre il figlio amato da Marie Donnadieu. Di un amore che è come una corrente oceanica che travolge tutto, tutto il resto.

Marguerite e Paulo si stringono nella juissance, in una parola censurata, in una parola che conoscono senza poterla pronunciare, in una parola che poi Marguerite scriverà. Coppia vulnerabile e disarmata. O armata solo del potere distruttivo di un erotismo vietato.

 

L’Indocina è anche un paesaggio che rinasce inarrestabile dappertutto, altrove. Nelle acque stagnanti di un fiume. Quel fiume è il Mekong. Nel caldo torrido di una estate. Quel caldo è quello in cui sprofonda la terra delle risaie sul bordo dell’oceano Pacifico. In un lamento terrificante. Quel lamento è la nénia di una mendicante che è arrivata a piedi nudi fino alla scuola della madre, con le piaghe ai piedi, per affidarle un neonato che non sopravviverà. Nel gorgoglío della vegetazione, dei profumi, il gorgoglío delle parole che verranno, della musica di Duras. La sua parola erotica, sensuale e il piacere di quella parola. È un paesaggio interiore che Marguerite rievoca nei romanzi e ricostruisce spartanamente nei suoi film, girati nella casa di campagna comprata a Neauphle le Chateau.

 

L’Indocina è la madre, Marie Donnadieu. La fortuna tentata dalla madre quando, giovane paesana, figlia di commercianti, decide di seguire il primo marito che è direttore di una scuola in Indocina. La solitudine e l’amarezza della madre quando resta vedova per la seconda volta con tre figli da sfamare. L’emarginazione dalla comunità bianca della colonia. L’emarginazione a cui Marie sbatte in faccia la solidarietà con gli indigeni, quando si rifugia nel bungalow di Prey Nop dove impiega tutti i risparmi di una vita per farsi dare in concessione quel terreno incoltivabile invaso per una parte dell’anno dalle maree del Pacifico. L’emarginazione a cui Marie sbatte in faccia quei suoi figli disgraziati: Pierre un mezzo criminale, Paulo, il ragazzo diverso, Marguerite la mezza prostituta. L’emarginazione a cui Marie sbatte in faccia quel suo aspetto trasandato, i capelli raccolti in una treccia indigena, i sacchi di cui si veste, la sua severità. L’emarginazione e l’umiliazione che rivivono nel desiderio di Marguerite per le luci di rue Catinat, dove si divertono i bianchi, per quello che brilla fuori mentre lei si nasconde nel buio del cinema Eden, nel desiderio avido dello sfarzo di una languida signora bianca, Anne Marie Stretter, apparizione in un ballo a cui Marguerite non parteciperà mai, o parteciperà solo senza mai esserci davvero, come Lol V. Stein, sonnambula, nascosta dietro le piante.

L’Indocina è la madre. La fatica di questa donna collassata nella chaise longue, quasi senza vita, senza voglia di vivere, abbandonata alla sua depressione. Poi l’improvviso scoppio di allegria. Pierre non c’è, è stato allontanato, rimpatriato in Francia. Le secchiate d’acqua per sciaquare i pavimenti della casa. Marie al piano. Marie che vede come per la prima volta quel famoso cappello di feltro da uomo. Una specie di sguardo complice scambiato con la figlia. La fatica e la follia annidata in quei repentini cambiamenti d’umore. La madre è anche la violenza, le botte con cui Marie si scaraventa sopra Marguerite perchè Pierre grida che se le merita altrimenti finirà come una puttana. Le botte che la madre le infligge per evitare che sia Piarre a picchiarla a morte, per calmare Pierre, la sua furia, per salvarla da Pierre e dannarla per sempre.

Di tutto questo, di questa madre, Marguerite si vendica quando la abbrutisce, mente su di lei, la dipinge come una folle, violenta, depressiva, una donna che spinge la figlia minorenne a sedurre gli uomini per farsi sposare, che prostituisce la figlia per farsi pagare i debiti di Pierre, ostinata a costruire dighe sul Pacifico che non terranno all’incalzare delle maree, una donna che nella finzione del romanzo si rovinerà in quell’impresa assurda.

Marguerite si vendica ma mai del tutto. Nello spiraglio si affaccia una donna una Marie più giovane, più bella, forse un po’ vanitosa, più mondana, una sconosciuta, quella che aveva sedotto il padre di Marguerite, suscitando l’invidia e le calunnie della comunità di maestri e istitutori venuti dalla Francia, quella che lo aveva amato alla follia, e che era ammattita dal dolore alla sua morte. Quella Marie la cui risata scoppia e crepita nelle labbra di Marguerite.

Contro questa donna e per lei Duras erige la sua scrittura.

(www.libreriadelledonne.it 29/04/2015)

TUTTA SALUTE!

Resistenze (trans)femministe e queer

In questo numero ospitiamo le riflessioni sulla salute, sul concetto di benessere, sulla medicalizzazione e sull’autodeterminazione dei corpi nella prospettiva (trans)femminista proposta da Beatrice Busi e Olivia Fiorilli, cui abbiamo affidato la cura della sezione Materia.

Nella sezione Poliedra, oltre all’intervista a Fabrizia Di Stefano, pensatrice queer con la quale DWF ha una relazione politica già avviata, pubblichiamo  in anteprima un articolo di Rosi Braidotti, «Il post-umano nella teoria femminista», che rintraccia le genealogie non lineari e le radici molteplici del post-umano come prospettiva di una nuova generazione di studiose femministe. Chiude una lunga intervista di Stefania Voli a Lea Meandri, nata da una ricerca sulla storia del
pensiero e delle pratiche politiche delle donne in Italia nel passaggio tra Novecento e Duemila.

Con questo numero DWF cambia veste con un nuovo progetto grafico firmato da Bernadette Moens, cui avevamo affidato la realizzazione del manifesto “albero di parole” che racconta la storia di DWF nel Numero Cento della rivista.

di Natalia Milan


Il testo di Natalia Milan è lungo e potrebbe apparire troppo lungo e quasi superfluo a chi non ha voglia di tornare su questioni già discusse che considera risolte. Non a chi vuole ripensare i punti meno solidi e più controversi (o semplicemente meno capiti) del pensiero della differenza. Oltre a questo lavoro di riflessione, fatto da una che conosce la materia, Natalia Milan porta di nuovo e d’importante  un punto di vista e un linguaggio che anni fa non avevamo e che di conseguenza sono lavoro di una mediazione necessaria.

La Redazione del Sito

La polemica sorta intorno all’intervista di Giovanna Pezzuoli a Luisa Muraro «Noi femministe distanti dalle donne» (quella in cui si annuncia la chiusura di Via Dogana) mi ha in un primo momento destato inquietudine perché in diversi testi ho visto un’asprezza di toni e una perentorietà di affermazioni associate a corposi e diffusi fraintendimenti nella lettura dell’intervista a Muraro[1].

Muraro è netta nelle sue affermazioni. Anche a me aveva fatto effetto, per esempio, il suo passaggio su Tina Anselmi e Nilde Iotti, però a rileggerlo mi è stato subito evidente che il riferimento era non alle militanti o alle “giovani”, ma a sottosegretarie e ministre quando esprimono posizioni di solo consenso rispetto al potere, posizioni rispetto alle quali è importante trovare strumenti di critica lucida ed efficace.

Il fraintendimento diffuso di una affermazione abbastanza chiara nel testo mi ha colpito e interrogato e, per capire, ho riletto con attenzione il testo di Pezzuoli, le risposte polemiche che ne sono seguite e la successiva risposta di Muraro.

Penso che nell’interpretazione abbiano pesato – agendo come pregiudizi – fattori maturati in precedenza: la storia delle relazioni tra i soggetti in questione o delle mancate relazioni tra di essi etc.

Qualche considerazione sui contenuti.

 

Grazie

Premetto un ringraziamento al blog Abbatto i muri che in quei giorni, all’interno di un pezzo dal titolo Per le femministe della differenza: ci avete prolassato l’utero!, ha ospitato un intervento di Irene Chias in cui Chias in modo vivace e polemico evidenzia temi molto attuali e pieni di interesse: la versione “naturale” della differenza tra maschi e femmine incontrata in un dibattito in cui una femminista presentava la “differenza” riproponendo cumuli di stereotipi sugli uomini e sulle donne, la sempre presente idealizzazione delle donne tanto congeniale alla mentalità patriarcale, il peso dei ruoli, le esistenze di chi presenta caratteri non univocamente riconducibili a caratteristiche maschili o femminili, il corpo, il chiamare in causa la biologia.

Con Irene Chias abbiamo avuto uno scambio chiaro e aperto sul blog e concordo con lei quando riscontra e avversa la versione semplicistica della differenza tra maschi e femmine per cui è come se essere maschi o essere femmine determinasse in modo meccanico e uguale per tutti o tutte degli esiti univoci e definiti: nelle storie singole, nei caratteri, nei comportamenti, peggio ancora nella bontà o cattiveria dei soggetti. Scrive Chias: «Quello che del pensiero della differenza rischia di arrivare a chi non lo studia nella sua complessità – e quindi anche a me – è proprio il suo utilizzo strumentale per il ritorno a un’idea di ‘Natura’ costrittiva e inequivocabile e di un determinismo biologico che però è anche tradimento della verità del corpo (il sangue di “noi donne” nelle pubblicità degli assorbenti per “quei giorni” è ancora blu)».

Sono grata a Irene per l’attenzione con cui ha pensato i termini della questione e per la chiarezza con cui li ha esposti: concordo completamente con lei quando denuncia quanto sia diffuso e pericoloso l’uso reazionario del pensiero della differenza sessuale. Conclude scrivendo: «Non so come possa il pensiero della differenza, quello ricco e quello serio, non prestare il fianco a questo uso reazionario. Ma se un modo per smarcarsi ci fosse, bisognerebbe ragionarci su, perché ho l’impressione che quello che sta succedendo sia un male per tutti».

Condivido con Irene questa preoccupazione e questo coinvolgimento in una impresa politica e culturale in cui possiamo tutti e tutte essere più felici.

Tornando alla polemica che ho citato, c’è molto da pensare e ci sarebbe molto da precisare su quanto è stato scritto; raccolgo qui alcune considerazioni, raggruppandole intorno a qualche idea.

 

Autorità, arroganza, desiderio e sessualità

«Siamo andate troppo avanti»: Luisa Muraro cita, riguardo all’esperienza politica di Via Dogana, questa frase di Lia Cigarini. Da qui partono molte delle polemiche e molte interpretazioni.

Che cosa significa «Siamo andate troppo avanti»?

Da un lato questo esprime un dato del reale: cioè un essere avanti delle idee e pratiche del femminismo rispetto a una diffusa condivisione sociale e a una certa diffusa consapevolezza (che spesso mancano, soprattutto se guardiamo all’Italia) di quanto è avvenuto sul piano storico e sociale e delle possibilità politiche di questo.

Dall’altro lato, questa affermazione esprime l’orgoglio del lavoro fatto. Dal mio punto di vista giustamente lo esprime, il che non ci toglie la lucidità per cogliere i limiti di questo stesso lavoro.

Una prima considerazione: le donne che dicono di essere andate troppo avanti come le donne che mettono al centro il tema della sessualità e mettono in atto pratiche politiche che vi si confrontano, le femministe della differenza sessuale come le femministe che, da qualche anno ormai, parlano di post-porno e di prostituzione sono tutte corpi politici scomodi. Utilizzo per tutte, in questo distaccandomi da lei, questa bella espressione che usa Barbara Bonomi Romagnoli; lei la riferisce alle femministe “del nuovo millennio”, a quelle che fanno politica fuori dai partiti e dalle istituzioni, a quelle «allergiche al politicamente corretto ma anche alle pratiche del maternage, dell’affidamento e delle madri simboliche».

Corpi politici scomodi definisco sia le donne che affermano con forza e danno conto del pensiero della differenza sessuale, sia le femministe che parlano di post-porno e sessualità, perché altrettanto indigeribili sono, per la mentalità e l’ordine patriarcale, il loro protagonismo politico e intellettuale e la loro ricerca di libertà.

Sono non previste nell’ordine patriarcale e post-patriarcale le loro azioni politiche e il loro pensiero. Che rimangono molto difficili da digerire sia nei movimenti politici sia nel corpo sociale in generale.

Come peraltro sono non previste, ad un livello più superficiale ma anche più pervasivo, e vengono stigmatizzate alcune caratteristiche quando riscontrate nelle donne: pensiamo agli epiteti e alle critiche rivolte alle donne arroganti, alle donne sicure di sé, alle donne assertive, libere, aggressive, alle donne che dicono di avere desideri sessuali e che ne parlano, alle donne ambiziose etc.

Con tutto questo materiale “indigeribile” dobbiamo confrontarci perché può venirne per tutte e per tutti un di più di libertà.

 

Donne non per natura

Come scrivevo in apertura, l’idea che esista una natura femminile, o delle donne, idea già diffusa nel senso comune, aleggia a volte nei dibattiti con le femministe. La questione non è facile da pensare, quindi sicuramente spesso si scivola in semplificazioni. Qui non faccio una difesa d’ufficio del pensiero della differenza sessuale, ma va detto che esso ha provato a pensare la differenza sessuale e così ha reso disponibili per tutti e per tutte strumenti per pensarla al di là delle visioni stereotipate (e presunte naturali) di quello che è e deve essere un uomo o una donna: la tradizione culturale occidentale, a partire dai Greci, ci ha tramandato un “Uomo” che include tutta l’umanità e pure le donne, ma che in realtà ricalca un profilo maschile e ha le caratteristiche che quella società attribuiva ai maschi.

In anni di pratica politica e personale, migliaia di donne e alcuni uomini hanno esplorato, messo alla prova, criticato i concetti di “uomini” e “donne” – con letture, discussioni e conflitti – in una varietà di contesti: dai saperi alle pratiche politiche, dalla letteratura alla scienza, dalla storia alla sociologia, dalla teoria della politica alle riunioni di gruppi informali o agli incontri pubblici con le istituzioni. I termini di “uomini” e “donne” abbiamo provato ad utilizzarli in modo significativo, ma non con i significati tradizionali. Abbiamo provato a “pensarli” e a praticare l’uso dei termini e dei concetti in un modo diverso da quello “ingessato” che ci è stato tramandato.

Proprio la pratica politica, fatta di confronto e anche di conflitti, dà a chi la vive la dimensione che non esiste “la donna” o il femminile, ma le donne, con tantissime differenze tra loro (il che – è ovvio – vale anche per gli uomini). E questo ancor prima delle letture del pensiero della differenza sessuale, dove mai ho letto qualcosa a proposito della “Donna”.

Per dire quanto, nel pensiero della differenza sessuale, non siano monolitici o predefiniti nelle proprie caratteristiche i concetti e i termini di “uomini” e “donne”, cito, a proposito del nascere maschi o femmine, la prima espressione che mi viene in mente: questo nascere maschi e femmine “si offre alla significazione”, cioè è qualcosa che si presta all’attribuzione di significati. Questo è per me un insegnamento del pensiero della differenza sessuale; penso che l’espressione sia testuale in Luisa Muraro, ma non sono riuscita a rintracciare il testo in cui l’ho trovata.

Il nascere con caratteri riconducibili al maschile o al femminile si offre, si presta all’attribuzione di significati: così è stato nella storia delle culture (con i ruoli sociali etc.) ed è nella vita dei singoli quando nasce un bambino o una bambina (e aggiungo: è così, in modo costrittivo, anche verso chi nasce di un terzo sesso).

Il pensiero della differenza sessuale così legge e disvela la realtà della società e della cultura, svelando insieme possibilità trasformative del reale.

In questo spazio della possibile trasformazione – lo spazio del pensiero, della parola e della politica – ogni caratteristica che si presuma appartenere a qualcuno “per natura” non è significativa di per sé: né l’essere donne o uomini, né l’essere giovani, vecchi o vecchie, lesbiche, omosessuali o eterosessuali. Perché il significato squisitamente politico in questo passaggio è il modo in cui di quelle condizioni noi ci facciamo carico, nel senso evidenziato da Hannah Arendt:

«Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale»[2].

Centrale è per il pensiero della differenza sessuale questo spazio della politica e del pensiero, non la natura o la biologia[3].

Il fulcro della questione mi pare che si collochi nell’ambito dell’elaborazione culturale di ciò che appare come naturale; sottolineo: in un gioco dinamico, in cui considerare naturale qualcosa è già un dato di cultura.

Quindi, e per me questa è un’altra lezione del pensiero della differenza sessuale, c’è un uso dei termini “donne” e “uomini” con cui indichiamo qualcosa non sul piano della natura o della biologia, ma della “realtà” nel senso in cui la intende una lunga tradizione filosofica che considera il reale non come l’ambito dei fatti «nudi e crudi», ma come l’ordine simbolico che il pensiero attribuisce al mondo[4]. Per pensiero si intende qui linguaggio, cultura e codice sociale (letteratura, miti, teorie scientifiche, codici legislativi, etc.).

Sempre riguardo al termine “donne”, un’ambiguità nel suo uso che riscontro anche nel pensiero della differenza sessuale – e che invece manterrei perché mi sembra produttiva di pensiero e di cambiamenti politici – è quella per cui “donne” significa a volte persone con caratteristiche riconoscibili come femminili, altre volte significa donne che di questa condizione della nascita si sono fatte carico in un modo politico, cioè le donne del movimento delle donne.

 

Mancate relazioni.

Scrive Barbara Bonomi Romagnoli: «Molto è stato fatto dalle donne arrivate prima di me, nata nel 1974, e molto altro lo stanno facendo le mie coetanee e quelle più giovani. Solo che non si sa, lo si racconta poco o male, e soprattutto c’è molta resistenza da parte di molte delle donne che hanno fatto le lotte degli anni Settanta a voler riconoscere autorevolezza, posizionamento politico e spazi di visibilità a chi è venuta dopo di loro».

Anche Luisa Muraro nella risposta a Bonomi Romagnoli, considerando la questione, scrive e ammette di non essere a conoscenza (lei e il sito della Libreria delle donne) di alcune di queste imprese delle donne, come la mappatura dei femminismi in Italia di Bonomi Romagnoli o il convegno nazionale di Firenze da lei citato, pur essendo p.es. questa notizia riportata dal Manifesto.

Aggiungo che mi è capitato alcune volte di sentir dire da donne impegnate in politica adesso e che hanno un’età intorno ai trenta o ai quarant’anni che con il femminismo, che pure avevano conosciuto e apprezzato, spesso non c’erano rapporti. E lo dicevano con dispiacere.

È un dato di fatto che tra gruppi politici in generale, e anche tra gruppi di femministe, a volte non vi siano contatti: come tale secondo me questo fenomeno va preso e interrogato per comprenderlo prima che per esprimere giudizi negativi su uno o un altro gruppo.

Queste mancate relazioni sono determinate da varie cause legate alle condizioni di sviluppo del pensiero e delle pratiche politiche: differenti dislocazioni territoriali, ambiti d’azione differenti, interessi differenti, pratiche e impostazioni generali differenti, fino ai contrasti personali e alle antipatie etc. etc..

Alle volte quindi quello che emerge è semplicemente un fatto: la relazione per un motivo o per un altro non si crea.

Credo che, nel caso dei gruppi femministi, questi motivi casuali o legati alle condizioni incidano molto, perché la politica delle donne in Italia si è molto sviluppata sulle relazioni tra singole e gruppi e non c’è mai stato un femminismo di stato centralizzato con sedi e incontri ufficiali in cui obbligatoriamente confrontarsi (per fortuna!).

Le relazioni, in più, richiedono tempo e dunque a volte non è possibile seguire le attività e le proposte, pur interessanti, di cui si viene a conoscenza, non è possibile parteciparvi. Questo è un limite di cui molte donne femministe hanno una accesa consapevolezza; e la politica dei partiti e dei notabili giramondo e gira-convegni dovrebbe imparare da questo senso del limite: non si può andare a tutti i convegni e a tutti gli incontri, somministrare il proprio intervento e andare via subito senza ascoltare.

In più direi che, rispetto a questo non essere di fatto in relazione tra gruppi e singole, la libertà della non relazione è da garantire: la relazione ci attraversa e ci possono essere mille motivi per cui noi non siamo libere o capaci o disponibili o desiderose di stare in relazione con qualcuno/a in un certo momento. È vero che noi siamo quello che siamo nelle relazioni in cui siamo, ma essere in relazione con qualcuno/a in particolare non è un obbligo morale o politico di per sé.

E il fatto di poter non essere in relazione fa anch’esso parte della libertà ed è una libertà per cui lottare.

Sulle conseguenze poi del non essere in relazione tra gruppi di femministe, una cosa dobbiamo dirla: l’attuale conformismo e moralismo, la battuta d’arresto nella possibilità di vivere la libertà delle donne (e degli uomini e dei soggetti che in queste definizioni non si riconoscono) viene da molti fattori sociali e storici e non è attribuibile semplicisticamente ad uno o ad un altro gruppo politico o femminista. In particolare sarebbe veramente sottovalutare la complessità di questi fenomeni darne la responsabilità alle femministe che sono tali sin dagli anni Settanta o a quelle che tali si dicono negli ultimi decenni.

Considero molto importante la politica svolta da questi gruppi, ma non nel senso che essa possa determinare esiti di questo tipo.

 

Mollare l’osso: potere e difetto d’amore. Autorità. Libertà e conflitto.

Veniamo a un altro punto nodale: Bonomi Romagnoli, prendendo come rivolta alle “nuove” femministe la critica che Muraro rivolge invece a ministre e sottosegretarie di essere “eterne seconde” rispetto alla politica post-patriarcale che le coopta, scrive: «Ammesso e non concesso che siamo “eterne seconde”, lo siamo perché le “eterne prime” non mollano l’osso, non provano a fare neanche un passo laterale».

Il passaggio è aspro ma denso e gustoso dal punto di vista delle implicazioni, e infatti lo coglie e discute Luisa Muraro (Che cosa significa quell’osso? Tre ipotesi, http://www.libreriadelledonne.it/che-cosa-significa-quellosso-tre-ipotesi/) che, giustamente secondo me, legge questo passaggio polemico come non personale.

Allora che significa mollare l’osso?

Non credo che sia l’appartenenza a una particolare generazione perché non credo all’esistenza di generazioni fortunate; penso che ogni generazione trovi criticità e imprese politiche possibili.

Mi interessano invece le altre ipotesi che Muraro fa e le trovo stimolanti su questioni che rimangono aperte.

 

Potere e responsabilità

La seconda ipotesi, scrive Muraro, è che la contesa per l’osso nasca da una responsabilità politica non assolta dalle femministe che, negli anni Settanta e Ottanta, hanno vissuto un’esperienza di felicità però non trasmettendola o non sapendo trasmetterla. Per avarizia? Si chiede Muraro. O per insipienza?

Effettivamente Muraro e il gruppo di Diotima hanno dato un segno, che può essere visto come un limite se lo si considera dal punto di vista del potere trasformativo di un pensiero, di non tramandare, non lasciare tradizione, cattedre universitarie o giornali (vedi la chiusura di Via Dogana appunto). Io la considero una scelta e una responsabilità di cui ci si assume pro e contro, e conseguenze. Non la considero una colpa, per capirci, ma sicuramente è una scelta politica di peso di cui parlare e discutere.

Una considerazione però rispetto al problema di riconoscere chi viene “dopo”: questo è un problema che spesso è tipico di chi “gestisce” qualcosa, dalle aziende di famiglia ai governi dei paesi e dei partiti nazionali. A un certo punto si pone il problema del “delfino”, del successore, dell’erede politico che deve amministrare quello che gli si lascia e che deve prendere in mano le redini del potere che fu il proprio.

Ora si può discuterla come scelta politica e riscontrarvi un limite o contestarne le modalità di attuazione, ma Luisa Muraro anche nell’intervista con Giovanna Pezzuoli cita il principio di sempre: «massima autorità con minimo di potere».

Allora se non si gestisce (o non prioritariamente e non prepotentemente) un qualsivoglia potere, che osso si può mollare? Che significa fare un passo laterale? Rispetto all’impresa personale e politica di vivere un’esistenza libera in un mondo più libero per tutti e per tutte, non può esserci una questione di un osso da mollare. Non è un’impresa che si lascia, né lasciandola si aiuta qualcun altro a realizzarla meglio.

Però, se un problema c’è, può essere un problema di potere? Cioè: un’occupazione di posizioni di potere da parte di queste femministe della differenza sessuale?

Se guardo al panorama che conosco (Palermo, la mia città, e quanto so della situazione italiana), le femministe della differenza sessuale che ho incontrato le ho incontrate a guadagnare lo spazio per ciò che dicevano con la capacità di dar conto, teoricamente e politicamente, di ciò che affermano e con il loro impegno quotidiano.

Non ne ho mai trovate in posizioni di potere costituito e, nelle parentesi di impegno nei partiti o nelle istituzioni, quelle che ho conosciuto sono state spesso “infedeli” rispetto alla linea e pronte a scartare rispetto alle lusinghe delle cariche e dei riconoscimenti.

Trovo che questo impegno e capacità di dare conto delle proprie posizioni con forza renda più forti anche la ricerca di libertà delle altre e degli altri, anche di chi non condivide i contenuti di queste battaglie. Come ho già detto, allo stesso modo in cui è un presidio per la libertà di tutte e tutti il lavoro di chi parla di sessualità, desiderio, post-porno, anche per chi non sente l’esigenza di queste lotte di liberazione. Come è un contributo alla libertà di tutte e tutti la presenza di un movimento di lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer e intersessuali, anche per chi non ne condivide le battaglie. Perché, per il fatto stesso di esserci e condurre quelle battaglie sul piano pubblico, queste attiviste e attivisti offrono l’esempio di esistenze e movimenti impegnati nella ricerca della libertà e offrono vie di elaborazione politica e comune dei vissuti.

Credo che il problema non sia l’essere dopo, ma l’essere insieme, nello stesso tempo e spazio politico; Bonomi Romagnoli dice a proposito dell’incontro di Firenze: «A Firenze in questi giorni ho imparato a non accentuare il conflitto generazionale, perché è vero che i nuovi femminismi sono abitati anche dalle donne delle generazioni precedenti». E i “vecchi” femminismi, aggiungo, sono abitati anche dalle nuove generazioni. E tutti questi diversi femminismi convivono.

 

Difetto d’amore e autorità. E ancora sul potere.

Andiamo alla terza ipotesi di Muraro su che cosa sia l’osso da mollare: ciò in cui ha mancato il femminismo di quella generazione nata tra il 1935 e il 1955 sarebbe l’amore inteso non come amore sentimentale ma come componente della passione politica, una mancanza di amore per le imprese delle altre donne.

Essere riconosciute/i dalle altre e dagli altri per quello che siamo e facciamo è sia un desiderio profondo sia un bisogno, ma in modo diverso.

La mia pratica politica in gruppi misti e femministi è iniziata poco dopo il 1992. Allora e dopo ho incontrato donne “degli anni settanta” molto diverse tra loro. Alcune hanno riconosciuto le mie capacità, mi hanno aiutato nel coltivare interessi e desideri, altre no, non ci siamo riconosciute.

Che alcune di loro riconoscessero le mie qualità l’ho molto desiderato, in alcuni casi è avvenuto, in altri, nonostante il mio impegno, no.

La differenza tra il desiderio e il bisogno di riconoscimento è che il desiderio era rivolto a persone ben precise, quindi soggetto alla frustrazione del non incontrarsi, il bisogno, per quanto più stringente, poteva essere soddisfatto da altre/altri.

Ribadisco quanto dicevo: che in generale le femministe del pensiero della differenza sessuale (penso a Muraro e a Diotima) non occupano posti di potere, ma non voglio passare sotto silenzio il fatto che, pur non rivestendone, la stima di cui godono, una certa attenzione da parte di alcuni giornalisti e giornaliste, i rapporti col mondo delle lettrici e dei lettori, nonché dell’editoria, dell’università etc. configurano rispetto alle giovani studiose o ai gruppi politici meno conosciuti una posizione di rilievo e “di potere”, nel senso di una maggiore evidenza e della possibilità privilegiata di accesso al pubblico. È naturalmente una scelta libera, ma anche politicamente significativa, se utilizzare questa possibilità anche per far conoscere e presentare gruppi ed esperienze politiche o di studio non nate all’interno del pensiero della differenza sessuale.

Ognuno si assume le sue responsabilità. Non ci sono risposte precostituite o obbligate. E fare delle scelte implica anche fare delle valutazioni di merito sul lavoro politico e teorico altrui.

La relazione tra gruppi e singole non è obbligatoria, non può essere pretesa. E ogni scelta ha pro e contro.

Però è solo nella relazione – che non sempre è quella personale e diretta, può essere quella con un pensiero, un’autrice, un autore – che accade ciò che a me ha insegnato il femminismo: il riconoscimento dell’autorità a una donna o a un uomo.

Il fulcro e il potere trasformativo dell’autorità è in chi riconosce autorità: alicui auctorem esse, cioè essere un’autorità per qualcuno. Quando sono in questa condizione, quando riconosco il di più di sapere di un’altra o di un altro, posso cambiare me stessa, migliorarmi, cambiare una parte di mondo. Se riconosco questo di più di sapere, mi sono già messa nella condizione di confrontarmi con ciò che non mi è familiare, che mi è estraneo, che è nuovo. Sono nella posizione per imparare, apprendere, fare esperienza.

Tutti e tutte abbiamo bisogno di imparare da chi sa più di noi, di avere maestre e maestri. Ma non si hanno maestri e maestre che ci insegnano tutto; ci insegnano quello che sanno più di noi, non saranno nostre maestre e maestri per sempre e non in tutte le occasioni.

 

Libertà e conflitto

Non mi spiego alcune accuse di autoritarismo e autoreferenzialità fatte ad autorevoli pensatrici e pensatori, se non in un gioco in cui l’autoritarismo e l’autoreferenzialità corrispondono ad una richiesta di autorizzazione non concessa. Ma questa è l’autorità dell’ipse dixit, non quella proposta dal pensiero della differenza sessuale. Se elaboro un pensiero e se riconosco autorità a te, devo impegnarmi a capire il tuo pensiero e a relazionarmi ad esso e capirò anche che ci sono istanze, pensieri che mi sono indispensabili e che tu (filosofa, pensatrice, autorità per me) non puoi pensare al posto mio; sarà questa la mia impresa di pensiero, in cui proverò a fare tesoro delle altre esperienze di pensiero.

D’altro canto sarebbe triste se una grande pensatrice o un grande pensatore non riconoscessero nella realtà presente nessuna/o da cui imparare qualcosa, nessuna maestra/o. Sarebbe triste perché il suo pensiero sarebbe statico, ma è possibile, come non è un obbligo la relazione.

E d’altro canto si è autorevoli per qualcuno quando si è in relazione, pur rimanendo la relazione una scelta libera.

Questi gruppi di femministe possono anche non essere in relazione tra loro, e non ne hanno alcun obbligo, ma vorrei che fosse chiaro a tutte e a tutti che nessuno di questi femminismi è nemico per l’altro. Se c’è un nemico è la società post-patriarcale che ingabbia donne, uomini, singole e singoli.

Un’attenzione politica che invece ci dobbiamo è riconoscere le differenze tra femministe e, dove necessario, esprimere e agire il conflitto, riconoscendo però, pur nel conflitto, che queste femministe e attiviste, quando sono corpi politici scomodi, siano quelle del pensiero della differenza sessuale o quelle del post-porno, quando cercano con le loro azioni e pratiche di affermare la loro libertà, contribuiscono alla mia e quella di tutte e tutti.

Da questo punto di vista e nelle questioni di libertà non c’è e non può esserci questione di osso da mollare: di libertà o ce n’è per tutte e tutti o non ce n’è abbastanza. Coltivare l’amore e il rispetto delle imprese delle altre è un tassello importante. Per cambiare noi stesse prima che i rapporti di potere nel mondo.

 

 

 

Riferimenti:

Noi femministe distanti dalle donne, di Giovanna Pezzuoli

http://archiviostorico.corriere.it/2014/dicembre/07/Noi_distanti_dalle_donne__co_0_20141207_59af9f5c-7ddd-11e4-ba8e-9177c3a4f3ef.shtml

 

http://27esimaora.corriere.it/articolo/noi-femministe-distanti-dalle-donne/

Tra i commenti quello di Barbara Bonomi Romagnoli, Un muro di gomma

 

Smettiamo di pensare che siamo «altre» (e quindi «meglio») per natura

di redazione La27ora

http://27esimaora.corriere.it/articolo/smettiamo-di-pensare-che-siamo-altree-quindi-meglio-per-natura/

Interventi di Luisa Pronzato, Cara Muraro, la forza delle donne è la libertà di idee anche distanti

Elena Tebano, Il pensiero della differenza? Non sono sicura che ci aiuti a essere più libere

 

Abbatto i muri

https://abbattoimuri.wordpress.com/2014/12/08/per-le-femministe-della-differenza-ci-avete-prolassato-lutero/

Per le femministe della differenza: ci avete prolassato l’utero! Con l’intervento di Irene Chias.

 

Che cosa significa quell’osso? Tre ipotesi

di Luisa Muraro

http://www.libreriadelledonne.it/che-cosa-significa-quellosso-tre-ipotesi/

 

[1] In coda a questo testo sono riportati i link agli interventi e agli articoli che hanno animato la polemica.

[2] H. Arendt, Vita activa, Milano, Bompiani, 1998, p. 128, nel paragrafo Il rivelarsi dell’agente nel discorso e nell’azione (pp. 127-132).

[3] Cfr. Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 75: «L’opposizione fra ciò che in noi è innato e ciò che è acquisito, fra il biologico e il culturale, il naturale e lo storico, e altre imparentate a queste, hanno una validità limitata. Non valgono dal punto di vista del venire alla vita e al mondo; da questo punto di vista tutto è innato e tutto è acquisito. […] Ebbene, qualcosa di simile è sostenibile anche per l’opposizione fra logico e fattuale. C’è un punto di vista in cui necessità logica e fattuale cessano di opporsi e sono una stessa necessità. […] Dicendo questo non intendo cancellare la distinzione fra logica e realtà di fatto, sarebbe assurdo; voglio piuttosto mettere un ponte fra le due».

[4] Cfr. A. Cavarero, Dire la nascita, in AA.VV., Diotima. Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, 1990, p. 93.


(www.libreriadelledonne.it;15 aprile 2015)

di Valentina Sonzini


Il valore del DWF 102 sta nel proporre una riattualizzazione o, meglio, nell’interrogare un certo pensiero femminista sul presente.

Judith Butler, Rosi Braidotti e Donna Haraway riempiono, dilatano, quest’ultima fatica della redazione DWF, che non si stanca di farci rintracciare sempre un valido motivo per non mettere in soffitta il femminismo.

Il fil rouge che conduce la narrazione ci fa tenere il fiato sospeso fra l’intervista a Butler di Federica Castelli e la traduzione del saggio di Athena Athanasiou.

Non possiamo, nell’additare il patriarcato, sottrarci ad un esame impietoso e tragico del capitalismo che sta sottraendo vita alle vite.

Nello sfacelo del neoliberismo e delle politiche depredatorie delle multinazionali appoggiate da lobby che rappresentano poco più che se stesse, Butler si chiede, e ci chiede, se il femminismo ha «gli strumenti concettuali necessari a comprendere cosa sta accadendo oggi».

Sono troppo affezionata alla Butler che cerca di dimostrarci che si può e si deve vivere una vita giusta, pur in un mondo eticamente e moralmente ingiusto, per non apprezzare l’intervista di Castelli. Le riflessioni che ne emergono aprono uno spiraglio, gettano uno sguardo di speranza e risoluzione, rimarcando la necessità di costruire alleanze, di reinventarsi.

Il ribadire il proprio esserci, il proprio esistere davanti all’annientamento che questo sistema produttivo ci impone, è la risposta unica e possibile, direi rivoluzionaria, per esprimere una nuova resistenza che sia espansione della propria rete di solidarietà.

Butler sembra suggerire che, se non si guarda all’altro, si diventa parte del sistema nel quale fatichiamo a trovare un senso, una rappresentazione credibile di noi.

Il senso di comunità dunque, che si traduce in un contro-potere, in una serie di relazioni di sostegno, pone nuovamente il corpo al centro della politica.

Basta l’apertura suggerita dalla filosofa per farci scorgere una rigenerazione del femminismo, che si narra, crea genealogie, ma ripensa il suo stare in relazione con il contesto. Sceglie nuove parole, si stacca dalla tradizione, per tradursi in una semantica volta ad interpretazioni innovative. Guardare alle cose ponendosi domande non scontate, non ovvie, che destrutturano e rimodellano la questione, è il compito di un femminismo di apertura, inclusivo, che si riflette nell’altro con il potere che l’individualismo neoliberista ha tentato di sottrarre al sociale: la cura della relazione, nella relazione.

Il femminismo ci serve ancora per guardare a noi stesse acquisendo la capacità di generarci come donne, ma è anche la chiave interpretativa di cui abbisogniamo per comprendere l’evoluzione dei generi, vedere il corpo non come «dato biologico, ma [come] un campo di iscrizioni di codici neo-culturali» (Rosy Braidotti). E ancora, è il mezzo per contrastare lo stigma “donna, schiavo, immigrato” (genere, classe, razza) che categorizza corpi marcati, che sono altro dal maschile che tutto definisce e modella.

La crisi che viviamo, che Athanasiou legge nel suo saggio in chiave greca, ha avuto il pregio di farci evidenziare, dicendoli a voce alta, i nomi propri delle cause.

Nessuno può infatti più sostenere che il patriarcato sia scisso dal capitalismo, e che questo porta con sé un conservatorismo oscurantista che deprime i singoli, li depaupera e svilisce per renderli merce, pura merce di scambio e di acquisto.

A tutto questo, un femminismo di apertura oppone un senso del mondo che riproduce attenzione all’altro e cura; che crea responsabilità e riempie di senso la cittadinanza (due fra le modalità di stare nella società civile delle quali oggi sentiamo un disperato bisogno di ridefinizione).

Quando non si è più responsabili di nulla, non si sente neanche più l’esigenza di abitare con consapevolezza la società in cui si vive.

Il femminismo può dare molto a chi sta rintracciando la strada per la riappropriazione del sé e per la costruzione di comunità solidali.


(www.laboratoriodonnae.wordpress.com, marzo 2015)

di SILVANA MAZZOCCHI

Mentre i lettori adulti diminuiscono, a sorpresa aumentano i piccoli fruitori di libri, almeno negli ultimi tre anni e secondo uno degli ultimi studi sulla media di chi legge in Italia. Il dato fa senz’altro ben sperare per il futuro ma, a questa tendenza, si aggiunge il merito di emanare, finalmente, una nuova e positiva luce sulla letteratura infantile, un genere, relegato nei secoli, a una sorta di emarginazione immobile e, per certi versi, contraddittoria. In un momento in cui educazione, scuola e formazione sono tornate in primo piano, interessante e densa di spunti sull’argomento, esce l’antologia Scrittrici d’Infanzia (Progedit), raccolta di saggi  che spazia “dai libri per bambini ai romanzi per giovinette” a cura di Barbara De Serio, insegnante di Storia dei processi educativi e formativi all’Università di Foggia. Un libro che descrive personaggi e contesti, rileva diverse correnti interpretative e ricorda come, a partire dal ‘700, il grande fiorire di autrici di libri destinati ai bambini e ai ragazzi, ha fatto nascere fino al XX secolo una letteratura per l’infanzia che, se da una parte veniva chiusa nel recinto dell'”invisibilità socio-culturale” e relegata in serie B in quanto scritta e destinata a soggetti “deboli” come donne e bambini, dall’altra servì a far nascere e a consolidare un settore di grande valenza educativa.

Scrittrici d’infanzia mostra quel percorso accidentato, ma ricco di stimoli che ha funzionato come un laboratorio di temi pedagogici strettamente legati al lavoro di cura mirato alla crescita infantile. E racconta come siano cambiati, nel tempo, i rapporti tra generi e come le donne abbiano sempre considerato la formazione delle nuove generazioni un trampolino per l’emancipazione sociale. Numerosi i ritratti di pedagoghe e scrittrici, esponenti della letteratura per ragazzi,, da Anna Vertua Gentile, a Maria Messina. Dalla “Contessa Lara” ad Astrid Lindgren, la creatrice della bambina protagonista, “rivoluzionaria ” (per l’epoca), Pippi Calzelunghe.

Infine è utile sottolineare quanto accennato nella prefazione. Che, secondo un’altra corrente di pensiero, la scrittura per l’infanzia non nacque per “emarginazione”, ma sia stata invece una scelta libera e consapevole, in quanto mezzo ideale “per parlare agli adulti e ai bambini che sono stati”. Probabilmente ai nostri giorni è vera questa seconda considerazione. Se il numero di lettori adulti è più basso di quello rilevato tra i più piccoli, potrebbe essere necessario, oltre che utile, rilanciare e potenziare la letteratura infantile attraverso libri che parlano “dell’infanzia” e non solo “all’infanzia”. Volano auspicabile per un futuro migliore di grandi e piccini.

Perché un libro sulle scrittrici e l’infanzia?
“La storia racconta di scrittrici d’infanzia che hanno vissuto una duplice emarginazione connessa, da un lato, alla secolare svalutazione delle donne, legittimata dall’appartenenza al genere femminile, e dall’altro lato alla scelta di scrivere per i bambini, comune a molte scrittrici, con particolare riferimento a quelle che per prime hanno coraggiosamente fatto della penna la loro ragione di vita. Individuare nell’infanzia un pubblico privilegiato ha dunque accentuato la condizione di isolamento socio-culturale del genere femminile. Ad accomunare le donne e i bambini è infatti un destino di invisibilità sociale, che ha naturalmente indotto a cogliere nelle pratiche educative loro riservate, tra cui la lettura, veri e propri dispositivi formativi per imporre rigide condotte e per tramandare un sapere stabilito, controllato e regolato sui criteri maschili di interpretazione simbolica del reale. La scelta di ripercorrere la biografia di alcune scrittrici è in questo caso legata alla volontà di valorizzare i saperi di cura, che hanno contribuito a conferire alla letteratura una dimensione formativa più accentuata. Nel binomio “scrittrici e infanzia” è infatti possibile cogliere un’opportunità per promuovere nuove e più approfondite riflessioni sui rapporti di genere, che le scritture femminili hanno inteso dischiudere, moltiplicando le occasioni di incontro e confronto per rivedere la relazione uomo-donna nell’ottica di una complementarietà. Una formazione creativa, che intende puntare sulle competenze femminili per valorizzare le differenze, di cui le donne possono farsi portavoce, e che trova nella prima età il suo destinatario principale”.

Quanto leggono oggi le bambine e i bambini?
“Le ricerche più recenti in questo settore sembrano abbastanza confortanti perché descrivono una situazione straordinariamente migliorata rispetto al passato per quanto riguarda l’attitudine dei bambini a leggere, a collezionare libri e a frequentare librerie, biblioteche e altri luoghi preposti alla promozione della lettura. Da uno degli ultimi studi relativo all’analisi della media dei lettori italiani – bambini e adulti – negli ultimi tre anni risulta che più è bassa l’età, maggiore è il consumo di libri. In altri termini sembra che i bambini leggano molto più degli adulti, contribuendo ad aumentare il numero medio dei lettori. Questi dati conferiscono un elevato valore pedagogico ai numerosi progetti di promozione della lettura avviati nel corso degli anni e orientati a sottolineare le valenze cognitive ed emotive della lettura e della narrazione sin dalla primissima età, soprattutto ai fini di un corretto sviluppo relazionale dell’individuo. Ciò che lascia perplessi è invece il basso numero di lettori adulti, che evidentemente incide sul rapporto dei bambini con la lettura. Occorrerebbe dunque moltiplicare le occasioni di incontro dei bambini con il libro a partire dalla primissima età e dall’ambito familiare. Si pensi all’utilizzo dei “libri giocattolo”, che consentono anche ai più piccoli di leggere attraverso l’uso dei sensi. Un approccio dalla forte carica emotiva, lo stesso sul quale bisogna puntare per favorire la “lettura di pancia” negli adulti. E’ chiaro il riferimento metaforico alla maternità, che non esclude la necessità di avviare percorsi di promozione della lettura già in età prenatale, attraverso la collaborazione delle madri, che dovrebbero diventare le principali mediatrici dell’incontro dei giovani lettori con la “buona” letteratura”.

Donne e linguaggio. Esiste una scrittura al femminile?
“Esiste una scrittura al femminile, quella del cuore, delle emozioni, delle “stanze tutte per sé”, della cura degli altri, ed esiste una scrittura delle donne, quella “che ha fatto la storia”, che ha speso tempo ed energie per riappropriarsi di un’identità e per conferire un nuovo senso alla realtà, che è riuscita ad affrontare l’invisibilità socio-culturale del genere femminile e ha puntato sulla capacità di mediazione, da sempre caratteristica principale del pensiero delle donne, per riflettere su alcuni valori radicali – la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà – e per costruire un nuovo rapporto con il genere maschile, fondato sulla valorizzazione della differenza, della pluralità di idee, di pensieri, di visioni del mondo. Scrittura di tras-formazioni, di costruzioni del sé e della propria identità storica e sociale; storia di denunce, di cambiamenti, di emancipazioni, che ha contribuito a conferire un carattere nuovo anche alla letteratura, con particolare riferimento alle scritture per l’infanzia. Proprio grazie ai saperi femminili la letteratura per l’infanzia si è infatti arricchita di una varietà e creatività di forme e contenuti, più capaci di educare menti critiche e plurali, libere e trasgressive, impertinenti e ribelli. Sono le menti delle giovani donne, che rivendicano con fermezza il diritto di pensare in modo autonomo, che rifiutano di rivestire ruoli sociali stereotipati e che appaiono indignate nei confronti di sistemi culturali che tendono a inibire la libertà di espressione e le molteplici possibilità di realizzazione, della donna come dell’uomo”.

Scrittrici d’Infanzia
A cura di Barbara De Serio
Progedit
Pagg.186, euro 20

 

di Anna Simone

Era il gennaio del 1996, quando un numero del «Sottosopra», storica rivista della Libreria delle donne di Milano, annunciava la fine del patriarcato attraverso un testo lungo e appassionato che provava a trarre le somme del lavoro politico fatto dal pensiero della differenza in Italia. Un pensiero e un annuncio che turbò e fece discutere non poco.

A distanza di molti anni è uscito un libro, «Post-patriarcato», scritto da Irene Strazzeri, sociologa presso l’Università di Foggia e femminista legata allo stesso pensiero della differenza, che comincia così: «Il titolo di questo libro non è un annuncio. Non siamo di fronte ad una nuova era e non si è conclusa quella precedente. Possiamo, tuttavia, percepire i sintomi del declino di un ordine sociale e simbolico, quello patriarcale. Sono i sintomi di un’agonia» (Post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico, pp. 129, € 10, Aracne/donne nel Novecento, con una bella introduzione di Elettra Deiana).

In questo paziente lavoro di traduzione dei sintomi di un’agonia, la stessa “fine del patriarcato”, già evocata anni fa, diventa qualcosa di più complicato. Intanto, se parliamo di un ordine in agonia non possiamo dire che sia del tutto scomparso, in secondo luogo la sua risignificazione, compiuta attraverso la complessa narrazione di una condizione definita dall’autrice «crisi delle crisi» – intesa come pericolo e opportunità insieme – può e deve tracciare ponti tra l’analisi della profonda mutazione antropologica e sociale in cui siamo immersi nel neoliberismo, la genealogia del pensiero femminista italiano e internazionale e la teoria sociale. La parola dell’autrice qui si muove con intelligenza, perché non teme di “incepparsi”, attraversa molti ambiti, ma non traduce nulla in uno slogan.

Il primo gesto di Strazzeri, infatti, non è quello di elevare il “post-” a condizione paradigmatica che getta alle ortiche ciò che è stato per collocarsi solo sul presente – come spesso accade quando si usa il prefisso nelle scienze umane e sociali – ma cerca di considerare il prefisso stesso come un “campo” di analisi, per usare un termine caro alla sociologia di Bourdieu, in cui giocano sullo stesso piano andate e ritorni, contraddizioni, discontinuità, sintomi e sfide, posizionamenti e conflitti. Cosicché il post-patriarcato, nonostante corrisponda ad un ordine in agonia, nonostante corrisponda alla “crisi delle crisi”, può anche essere passibile di ritorni improvvisi, sotto altre vesti, di rovesci inattesi che, appunto, inceppano lo spazio liscio degli slogan, come il “paternalismo” dell’inclusione differenziale che paradossalmente genera forme di “sessismo democratico” o come “neo-patriarcato”, illusorio, performativo, prestazionale, segno e sintomo di un vuoto da riempire (un esempio fra tutti è il ritorno delle destre fasciste nella crisi).

I sintomi di questa crisi del maschile, che è anche crisi di un modello di ordine sociale e simbolico, di una misura che il mondo si era dato attraverso il lavoro e i diritti sociali conquistati con le lotte, le pratiche di riconoscimento dell’altra/altro si danno – secondo l’autrice – in vuoti non ancora sostituiti, in transizioni mai compiute, oppure in rovesci violenti. Tuttavia, questi sintomi ci mettono anche dinanzi a nuove sfide in grado di superare l’impasse e riaprire il campo delle politiche trasformative.

Difficile stabilire cosa viene prima o dopo, cosa cambia e cosa resta, perché al fondo è lo stesso neoliberismo ad essere un pensiero senza capo né coda, eppure con un unico e solo obiettivo che si articola su tre piani: scomporre tutto, includere ogni potenza trasformativa delle soggettività indocili per azzerarle, fare del capitalismo una vera antropologia universale, definitivamente sganciata dai contenimenti, dalle regolazioni e dalle misure che hanno caratterizzato il Novecento, nel bene e nel male, per tradurre tutto in marketing, in saperi e politica-spettacolo, in parola performativa.

Molto interessanti sono i passaggi in cui l’autrice analizza i rovesci della “femminilizzazione”; così come le sue analisi sulla scomposizione del lavoro, l’inclusione, la de-soggettivazione che ne deriva, il reddito di auto-determinazione come superamento di questa stessa condizione; il gioco permanente e conflittuale tra l’essere cittadine, nel senso universale del termine ed essere al contempo differenti; l’analisi della violenza maschile contro le donne letta non solo come crisi del maschile, ma anche e soprattutto come patologia sociale, come rovescio; l’analisi dell’identità e dei posizionamenti di tante differenze, non solo di quella legata alla norma eterosessuale; l’approccio critico al vuoto di parola, da parte di un pezzo del femminismo italiano, sul capitalismo contemporaneo e sulla sua crudeltà senza precedenti. Ma qual è la vera novità di questo libro, oltre a quella dell’aver messo insieme questo enorme mutamento sociale, diviso in tanti pezzi, sotto l’egida di un paradigma che possiamo convenzionalmente chiamare post-patriarcato?

Per me è la capacità, ben tradotta in parola da Irene Strazzeri, di aver scomposto e ricomposto il pensiero di femministe statunitensi come Nancy Fraser, molto legate ad una forma di eguaglianza basata sul ripristino della giustizia sociale e dei dispositivi di redistribuzione della ricchezza, nonché come gesto minimo delle politiche votate al “riconoscimento” con il pensiero della differenza italiano. La necessità di recuperare un desiderio votato al recupero dell’autorevolezza, in questo libro, cammina in parallelo con un’idea ancora più grande: quella secondo cui la potenza trasformativa che le donne possono mettere in campo dandosi e dando autorevolezza deve anche saper attraversare il piano della rivendicazione e della “restituzione”, se vogliamo, per tutte e tutti, per sé e per il mondo. Non solo un “al di qua”, quindi, ma anche una presa in carico del conflitto che occorre mettere in campo per cambiare il mondo, così come si presenta oggi ai nostri occhi.

Due le immagini trasformative che mi sono venute alla mente dopo aver letto questo testo. La prima rimanda alle rovine che, in quanto tali, ci parlano di qualcosa che non c’è più, che possiamo conservare perché facenti parte della nostra storia, ma su cui non possiamo attivare un controllo totale: è proprio dalle rovine che nascono le piante più durature e selvagge, indocili come il femminismo. La seconda è profondamente legata al pensiero di Jacques Lacan. Sì, il post-patriarcato non è del tutto un nuovo inizio, il fantasma del pater può sempre tornare e manifestarsi come «oggetto = x». Ed è, ancora una volta, la parola femminista che può fare la differenza. Non importa se a metterla in gioco, siano le donne o gli uomini.

 

Irene Strazzeri

Post-patriarcato. L’agonia di un ordine simbolico
Introduzione Elettra Deiana
Aracne (2014) Collana Donne nel Novecento
pp. 129, € 10,00

 

(alfapiù,3 marzo 2015)

È disponibile in formato pdf la versione aggiornata al 2014 (163 pagine – 2,5 MB) della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it

di Vittorio Lingiardi

La riflessione freudiana sull’autorità «ha luogo in un mondo esclusivamente maschile. La lotta per il potere si svolge tra padre e figlio; la donna non vi ha parte alcuna, se non come ricompensa o perché induce alla regressione, oppure come terzo vertice di un triangolo. Non c’è lotta tra uomo e donna in questa storia; anzi, la subordinazione della donna all’uomo è data per scontata, invisibile». Ma la teoria femminista «non può accontentarsi di conquistare per le donne il territorio degli uomini». Il femminismo, quando incontra la psicoanalisi, ha un compito più complesso: trascendere la contrapposizione. Perché questo avvenga è però necessario che la psicoanalisi rinunci a quelle certezze che, con mano maschile, ha scritto sul corpo delle donne. Rinunci alla polarizzazione di genere, «origine profonda del disagio della nostra civiltà». Apra la gabbia teorico-evolutiva della «scissione tra un padre simbolo di liberazione e una madre simbolo di dipendenza», perché per i bambini di entrambi i sessi tale scissione significa che «l’identificazione e l’intimità con la madre devono essere barattate con l’indipendenza» (e dunque «diventare soggetto di desiderio comporta il rifiuto del ruolo materno», se non della stessa identità femminile). Impari a pensare alla madre «come soggetto a pieno diritto» e non «semplice prolungamento di un bambino di due mesi». La vera madre non è semplicemente oggetto delle richieste del suo bambino, ma «è un altro soggetto il cui centro indipendente deve restare al di fuori del bambino se dovrà sapergli concedere il riconoscimento che cerca». Solo se la madre diventa soggetto, e non solo oggetto d’amore del bambino, prenderà vita quel reciproco riconoscersi che per tutta la vita nutrirà le relazioni d’amore.
È il 1988 e così scriveva Jessica Benjamin in Legami d’amore, il saggio psicoanalitico e femminista sui rapporti di potere nelle relazioni amorose che la rese famosa nel mondo. Tradotto a regola d’arte da Anna Nadotti per Rosenberg & Sellier, ma da tempo introvabile, il volume viene oggi riproposto da Raffaello Cortina, a conferma dell’interesse della sua casa editrice per un pensiero psicoanalitico d’eccellenza. La nuova edizione, un rosso cuore annodato in copertina, comprende una riflessione dell’autrice sull’attualità del suo saggio, e un testo introduttivo («Vivi in presenza di un altro uguale») a cura di chi scrive e di Nicola Carone.
«Come se avessimo bisogno di una qualche prova della persistenza del patriarcato – scrive Benjamin 25 anni dopo, cioè oggi – la passività e la sottomissione non hanno abbandonato il discorso del femminile». Ma anziché indagare il tema del sadomasochismo dal punto di vista dell’«indignazione morale», lo considera da quello della psicoanalisi e delle cicatrici psichiche prodotte dai percorsi obbligati del binarismo di genere. «In che modo il dominio è radicato nei cuori di coloro che vi si sottomettono?». Perché Cinquanta sfumature di grigio è diventato un bestseller per giovani madri e per donne manager? Le prime risposte di Benjamin (una delle quali è «perché queste donne vogliono arrendersi al controllo, vogliono perdersi») risalgono al 1967, quando Histoire d’O, letto dal mio gruppo poco dopo de Beauvoir, mi ha consentito di capire le molte permutazioni del desiderio che avrebbero trovato espressione culturale anni più tardi». Domande solo apparentemente pop che trovano risposte complesse nell’analisi della dinamica servo-padrone di hegeliana memoria, o nel concetto di «complementarità scissa», cioè un sistema dinamico in cui ciascuna incarnazione del partner (sadico, masochista; colui che agisce, colui che viene agito) «dipende dall’altro». Un’idea che diventerà centrale per la comprensione delle impasse cliniche, ma anche delle relazioni tra carnefice e vittima e di quelle «relazioni simmetriche nelle quali ciascuna persona si sente di subire, ciascuna persona sente di aver ragione, ciascuno ha paura di essere incolpato». Non stupisce che oggi Benjamin si stia dedicando al progetto politico-psicoanalitico di declinare la sua teoria del riconoscimento in una teoria della testimonianza. In The Discarded and the Dignified, ultimo scritto non ancora pubblicato, racconta la sua collaborazione, da cinque anni a questa parte, con il Community Mental Health Programme di Gaza. La scommessa è quella di costruire un dialogo con i professionisti della salute mentale israeliani e palestinesi. Di fronte ai traumi, dice, spesso reagiamo appellandoci al senso di «ciò che è giusto o sbagliato» e perdiamo la possibilità di avvicinarci in maniera autentica all’esperienza di chi soffre. Essere testimoni e non spettatori indignati rientra invece in un più ampio processo di umanizzazione di vittime e carnefici, in cui le prime non aspirino a una qualche fantasia di vendetta o, al contrario, di rassegnazione malinconica per rimediare alla perdita di persone care o alla violazione di parti di sé e le seconde prendano contatto con parti dolorose di sé dissociate.
Nato per fare luce sul perché spesso preferiamo «il dolore che accompagna la sottomissione» al «dolore che accompagna la libertà», Legami d’amore ha nei fatti inaugurato il progetto di una psicoanalisi relazionale e intersoggettiva. Il motivo per cui sono diventata psicoanalista, dice Benjamin, è stato «la ricerca di una guarigione e di un’integrazione personale». Come intellettuale, genitore, clinica, attivista politica, aggiunge, «cercherò di essere più integrata e di fare in modo che ciò che dico vada insieme a ciò che faccio per tutte quelle parti che non riguardano solo la mia guarigione personale, ma si estendono anche al lavoro e allo stare con gli altri». Creatura di confine, spigolosa e sincera, Benjamin riesce a far dialogare posizioni diverse e spesso in conflitto. «Per quanto mi riguarda – dice – sono arrivata alla convinzione che l’esperienza di essere spinta in più di una direzione nello stesso momento è una cosa fondamentale per la mia vita psichica».

(Il Sole 24 Ore, 22/02/2015)

di Alessandra Macci

Una versione parziale di questa recensione di Alessandra Macci è apparsa su “Il Mattino” (edizione nazionale) il 7 febbraio 2015. Qui la si propone nella sua versione completa.

 

 

άνευ µητρός/senza madre L’anima perduta dell’Europa. Maria Zambrano e Simone Weil (La scuola di Pitagora, Napoli 2014) di Stefania Tarantino, filosofa e musicista napoletana, è un libro di grande interesse che tiene insieme il pensiero delle donne dell’Europa del Novecento senza tralasciare quelle della propria città natale. Che cosa significa “senza madre” riferito all’Europa e perché è importante domandarsi cosa significa che l’Europa ha perduto l’anima? Queste le domande cui l’autrice cerca di dare una risposta. Lo fa percorrendo la storia dell’Europa a partire dal passaggio che ha luogo in Grecia dalla tradizione orfico-pitagorica a quella platonico-aristotelica. È noto che, nella prima tradizione, era prevalente il rapporto con il mistero della vita, con la physis, mentre, nella seconda, in particolare nel salto concettuale aristotelico, la Sostanza diventa l’Essere. In questo slittamento si perde il corpo e più specificamente si perde il corpo femminile che procreando dà vita alla vita stessa. Contrariamente il maschile, pensando, dà vita al concetto. Ed è tra la vita corporea e la vita filosofica, tra la genealogia femminile e la “maieutica” maschile che si gerarchizza la prevalenza della seconda sulla prima. Il Concetto produce un effetto di padronanza sulla realtà e rende l’uomo simile a Dio, mette in competizione la creatura con il creatore dando origine al processo storico che porta al dominio della Forza. La Forza deve sottomettere la natura al destino umano e così questo entra in competizione con Dio. La storia che ha vinto in Europa è la storia della Forza, della competizione, del conflitto tra gli uomini, ma, dice la Tarantino, un’altra Europa è possibile se ritorna il rimosso. Facendo leva sulla vita e sul pensiero delle donne si ritorna alla materia, al corpo, al materno che è vita e grazia. Per far tornare il rimosso serve un metodo, una strada, una via, tracce da ripercorrere, sentieri interrotti da riaprire, riattivare. All’azione rivolta al conseguimento dell’obiettivo, bisogna contrapporre l’azione/inazione, quell’azione cioè che si lascia vivere di inerzia, che si abbandona al destino, che ama il destino e che sa vivere di necessità. Un’azione che non vuole, che non ambisce a niente, che non ha scopo, che nella sottrazione e nel vuoto coglie il senso profondo del sacro. Esattamente ciò che fa Maria Zambrano, cui il testo si riferisce, ripercorrendo le tracce della migliore tradizione mistica spagnola da Seneca, il vero eroe della filosofia spagnola, a Giovanni della Croce, fino ai più profondi interpreti del misticismo spagnolo medioevale. Così come la Weil, l’altro grande faro cui guarda il libro della Tarantino, che orienta una diversa tradizione culturale europea. Per la Weil l’esperienza del sacrificio della vita è accompagnato ad una rigorosa destrutturazione della “persona”. La persona è il punto su cui convergono tutte le incorreggibili distorsioni delle eredità storiche europee. La persona come soggetto di diritto non è altro che il maschio-bianco-proprietario-occidentale, gli altri non sono persona, meno che mai lo è la donna, l’unica che sa fare del dovere una via. Il dovere è impersonale, anonimo, non chiede nulla. È nuda materia e si offre alle necessità del destino. La saggezza dell’impersonale recupera la profonda eredità della civiltà mediterranea prima di quella greco-romana. I romani hanno con il loro diritto imposto l’imperialismo della forza, della guerra, del dominio mentre il pensiero greco si collega al pensiero orientale, ben più profondo. Nel nostro tempo l’Europa farebbe bene a ritrovare queste radici guardando a Oriente, leggendo i testi sacri della Cina e dell’India che tracciano, insieme alle esperienze orfico-pitagoriche, la strada di una pratica vitale fatta di azioni non-azioni. Bisogna, dunque, essere coraggiosi per scendere negli inferi, nella profondità oscura della propria anima e lì incontrare il sacro che è contatto “intimo” con la materia.

Amica e figura mediatrice tra la pensatrice spagnola e la pensatrice francese fu la scrittrice e poetessa Cristina Campo. Traduttrice e lettrice attenta delle due filosofe, la Campo metterà in luce, tra l’altro, come, in un tempo in cui si è divorati da se stessi, dai propri e altrui personaggi, e da un sociale che continua a fare da specchio ai soli rapporti di forza che forse basterebbe iniziare a liberarsi dall’ossessione di sé per avere “la forza di accettare insieme l’ordine del mondo e ciò che di continuo lo supera”. Così la politica, quella per la quale vale la pena di spendere la propria vita, non può essere più solo tecnica, conquista, espansione ma poesia, religione, arte, mistica. La Tarantino, musicista-filosofa, richiama i versi della canzone di Fabrizio De André, “Il Testamento di Tito”: “Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”, dove si coglie pienamente il cuore del dolore del cristianesimo. Ascoltando questi versi, quante volte ci siamo chiesti perché Tito non prova dolore? Ma proprio quando questo si trova di fronte a qualcuno che ha sofferto per lui e che si è fatto carico delle sofferenze altrui per amore, solo allora, comprende e ci fa comprendere quel dolore, mai provato per il male che ha/abbiamo causato, e dice: “ho imparato l’amore”, ha imparato ad amare. Perché all’amore ci si educa. Nell’amare è insita la gratuità dell’atto, una grazia che può venire solo dall’azione educatrice semplice e tenera della madre, delle madri. E solo così un possibile “incipit vita nova” per l’Europa a venire.


(www.libreriadelledonne.it, 13/2/2015)

di Alessia Dro

 
Le trame del dialogo che Maria Luisa Boccia tesse con Carla Lonzi ancora una volta si dipanano con passione politica in fili che, da un’interlocuzione speciale durata una vita, ci portano ad affrontare con ravvivato coraggio i nodi cruciali del presente che viviamo, forse oggi più che mai. Dopo l’Io in Rivolta, pubblicato nel 1990 con la casa editrice Tartaruga e riproposto nel 2011 con una nuova prefazione, passano quasi trent’anni per la pubblicazione di Con Carla Lonzi. La mia vita è la mia opera, e scorgiamo le variazioni delle trame tessute nel tempo, scucite e ricucite con maestria, con l’esperienza data da chi ha vissuto e vive in rispondenza di una riflessione assidua e mai conclusa, a stretto contatto con l’incontro ininterrotto dei testi e con il proprio vissuto. “Non potrebbe esserci esito peggiore per me, di risultare una specialista lonziana” afferma Maria Luisa Boccia nelle prime pagine. Ho il ricordo vivo di un’altra sua precisazione, circa tre anni fa, quando invitata a Siena per tenere una relazione in seguito alla visione del documentario su Carla Lonzi Alzare il cielo (diretto da Gianna Mazzini, 2002), aveva affermato come Carla Lonzi disprezzasse parlare di sé come teorica femminista, e ci aveva raccontato come non amasse le interpreti e le intellettuali mimetiche del maschile, come fosse ingiusto qualsiasi tentativo di sistematizzazione del suo pensiero.

Se si facesse, si cadrebbe in un modo preciso di fare teoria, criticato nell’introduzione al libro: “Di norma, quanto più il pensiero adotta i criteri dell’oggettività, parla un linguaggio neutro, disincarnato, tanto più merita credito «universale». È ritenuto espressione di verità, dunque valido per tutti e tutte. Opposto a questo è il criterio da adottare per Lonzi. Il suo testo ha la fecondità della parola incarnata […] Scrivere «con» Lonzi è il modo che ho scelto di parlare del mio femminismo”. (p.9) E nella sua presa di posizione, risuonano le parole scritte da Carla Lonzi in Mito della proposta culturale: “Scrivere è un atto pubblico. Si scrive per esprimersi e per dare risonanza, perchè un’altra possa esprimersi e dare risonanza” (M. Lonzi, A. Jaquinta, C. Lonzi, La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1978, p. 137). È nella natura esistenziale dell’agire e del pensare che viene mantenuto il rigore tra coscienza di sé e parola. Immaginiamo allora come gli effetti di rispondenza, generati dalla ricezione degli scritti, dislocata nello spazio e nel tempo, possano essere dei “moltiplicatori per differenti processi di soggettivazione, quando si vuol essere all’altezza di un universo senza risposte” (C. Lonzi, Sputiamo su Hegel in La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1974, p. 18), quando la radicale rinuncia a una univoca Risposta, “frantuma la Domanda in una miriade di espressioni di coscienza che richiamano nel dialogo miriadi di rispondenze” (M. Lonzi, A. Jaquinta, C. Lonzi, La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1978, p. 148). C’è un forte nesso tra memoria storica, rispondenza e trasmissione: allaccio qui i fili alle considerazioni che Michela Pereira ha condiviso l’anno scorso a Pistoia, all’interno del seminario Anzi parliamo…dialoghi su Carla Lonzi. Proviamo infatti a esperire e a pensare alla scrittura come traccia del corpo che permette di impostare un lavoro nuovo sulla tradizione, allargandone lo spazio: qui la scrittura è corpo che si fa parola; è, attraverso la rispondenza di chi legge, un aprirsi al futuro. Il dono da parte di Lonzi “di una tessitura continua della sua presa di coscienza (p. 8)” fa sì che si possa continuare a scriverne.

Senza creare una traduzione concettuale o un facile compendio, Maria Luisa Boccia apre con chiarezza nuove inattuali questioni sul mito storico che viviamo, dialoga con Lonzi e, contemporaneamente, con noi. Sull’accento posto nei processi di soggettivazione, sui poteri e i meccanismi che strutturano l’ordine dominante, sul rifiuto della norma sociale, politica e sessuale, sulla critica all’identità, specie se imposta e funzionale, assoggettata alla governamentalità del mercato o sussunta e integrata a titolo di uguaglianza, Carla Lonzi, sembra riferirci Maria Luisa Boccia, apre non poche questioni, che ci possono parlare direttamente e differentemente.

Son più che profetiche in Sputiamo su Hegel le parole sul lavoro: “Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dell’egemonia dell’efficienza (p. 51)”. E pensiamo cosa può significare oggi, creare uno spostamento, nei confronti delle relazioni umane tutte, se viene messo in questione proprio il potere come loro necessario punto d’origine e d’appoggio. Sembra poi imprescindibile riflettere sulla critica operata da Lonzi sulle forme dell’agire politico, qualora queste siano basate sull’oggettivazione, sulla capacità di produrre mondo e sull’estricarsi nella realtà. La rivoluzione ontologica, che con Lonzi si fa rivolta in Rivolta Femminile, consiste nel mutare radicalmente modo d’essere del pensiero e della vita. Sono le relazioni fatte di desiderio, di piacere, ma anche di immensa fatica e di estrema sperimentazione che vanno modificate per cambiare la realtà, la società con le sue strutture, le sue regole, i suoi fini. E per arrivare a far questo per Carla Lonzi è stato necessario lasciare tutte le assunzioni certe, emancipatorie, e fare vuoto, mettendosi su un altro piano. Approfittando della differenza, fare tabula rasa, può richiamarci ancora oggi a fare un atto di incredulità. Che sia atto di critica e di decostruzione delle precomprensioni culturali assorbite, lontano da un processo ideologico o intellettuale, che faccia ristabilire il senso delle nostre vite su questo mondo, cercando nuovi sbocchi nella possibilità di trasformarlo.

Per Lonzi infatti fare vuoto non è solo una negativa decostruzione, è un atto positivo perchè indica i momenti della nostra appartenenza alla coscienza dell’umanità. Lontano da accuse d’intimismo, l’atto di incredulità si mostra come un processo di soggettivazione intrinsecamente relazionale che mette in risalto le imposizioni culturali contro la fedeltà a sé, in una dimensione esistenziale concreta. Domandiamoci quali siano le nostre parole guida, quelle che, con la promessa della loro efficacia, chiamiamo parole d’ordine. E riflettiamo sul fatto che la parola, in Lonzi, come ci spiega Maria Luisa Boccia, “può essere significativa solo se è frutto di una diversa pratica, se cioè viene modificata la funzione e non solo il significato della parola stessa (p.17)”.

Colpisce alla fine, la scelta dell’Appendice, staccata e tuttavia in continuità con il dialogo serrato dei sei capitoli che compongono il testo. Dedicata ai movimenti degli anni Settanta – intesi da Maria Luisa Boccia non solo come espressione di figure sociali vecchie o nuove ma come l’emersione di una differenza politica – sembra un invito rivolto alla lettrice o al lettore: l’invito a fare i conti in modo critico con il declino delle forme già note della politica, attraverso i nessi tra soggettività e relazioni e contesti di lotta. A capire come, per quanto alcune questioni sembrino rimaste invariate nel tempo, sono invece mutate radicalmente. Ancora, sembra un invito, diretto anche a noi, ad essere abitanti consapevoli del nostro tempo. Chi s’immerge nel libro scritto da Maria Luisa Boccia, con Carla Lonzi, può conoscere impreviste acquisizioni, lucide sensazioni di forza, l’esigenza di rigorosità, ma anche la voglia di osare verso spazi immaginativi impensati. E se attraverso i tagli netti con le forme del pensiero e dell’agire politico, attraverso lo sbarazzarsi continuo di ogni certezza, Carla Lonzi può aver reso difficile, in un’incontentabile ricerca di senso, in una critica alla conoscenza oggettiva a favore della relazione tra singoli e singole, un percorso di chiara comprensione dei suoi scritti agli occhi degli abitanti e delle abitanti del suo tempo, c’è, invece, oggi, un diffuso ritorno agli studi e alle riflessioni sul suo pensiero e sul suo vissuto. Penso all’Argentina, dove l’odierno recupero dei testi ha permesso riallacci creativi con la pratica dell’autocoscienza, tradotta e svolta, lì, durante gli anni della dittatura. E per Maria Luisa Boccia non si tratta di “un ritorno motivato da esigenze di ricostruzione storica. Ha piuttosto il segno di un ricominciamento, di una ripresa volta a trovare nuove vie, nuove soluzioni, nella consapevolezza di muoversi in una realtà radicalmente modificata (p. 11)”.

(Alessia Dro in DWF (102) Pensiero stupendo, 2014, 2)

di Raffaele Ibba

 

C’è un librino che vi serve.

Lo dovete assolutamente leggere.

Farà bene ai vostri 18 anni e non importa quante volte li avete già fatti.

Per esempio io i miei 18 anni li ho già fatti 3 volte e mezza, ma tutti e tre questi i miei diciotto anni sono contenti e si sono messi a giocare, e così pure i nove anni di avanzo lo sono, anche non hanno capito tutto.

Il librino si intitola «Non si può insegnare tutto».

L’ha raccontato Luisa Muraro parlando affettuosamente e rigorosamente con Riccardo Fanciullacci. Costui è un docente di filosofia morale a Venezia. E dev’essere bravo.

Luisa Muraro è, invece, una filosofa.

Dov’è la differenza?

Nel fatto che Luisa Muraro discute a cuore aperto, restando nelle realtà del mondo, e interpretando le sue vite – perché lei come ciascuna di noi ha molte vite. E lei l’ha fatto e lo fa con comunità e gruppi di pensiero e vita, come la Libreria delle donne a Milano o il gruppo filosofico Diotima.

Cioè Luisa Muraro si offre alla discussione perché è importante e bello che nelle sue vite si intreccino fili e discussioni – conflitti, tregue e paci – con altre vite e pensieri. Liberamente in ascolto.

 

di Pamela Marelli

 

Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista, apicoltrice, tra le ideatrici dello Sciopero delle donne, è l’autrice di Irriverenti e libere. Femminismi nel nuovo millennio, prezioso testo che raccoglie le numerose esperienze delle femministe nate a partire dagli anni ’70, bambine all’epoca in cui molte donne diedero vita alla rivoluzione che ha segnato storicamente un punto di non ritorno.

 

Il libro nasce dalla raccolta di volantini, mail, documenti, ricordi, interviste, appunti, riguardanti quei contesti femministi che dal 2000 ad oggi «non hanno fatto notizia» nonostante la rilevanza dei temi toccati, e che, grazie allo sguardo ed alla partecipazione di Barbara, trovano ora la giusta visibilità.

 

L’autrice attraversa con curiosità e passione i diversi luoghi animati dalle donne con l’intento di farne patrimonio comune. Il testo si articola come l’archivio affettivo e politico di Barbara che prende chiara posizione contro certo femminismo moralizzatore, catalogante le donne in perbene e permale, a cui va ricordata l’importanza del liberatorio slogan «né puttane né madonne finalmente solo donne».

 

Bonomi Romagnoli inizia la sua narrazione dalle lotte del Comitato per i diritti civili delle prostitute: «la prostituzione è uno dei grandi nodi irrisolti del dibattito nei movimenti femministi e femminili» perché al centro pone il complesso legame tra l’uso del proprio corpo e lo scambio sessuale-economico. Per un confronto rispettoso delle differenze è necessario riconoscere che «l’autodeterminazione è soggettiva, non deve essere imposta dalle altre», ognuna è in grado di scegliere il percorso più autentico per sé.

 

La rete dei femminismi del nuovo millennio ha il suo inizio simbolico a Genova nel 2001, con il convegno «Punto G: genere e globalizzazione», dove in tante ci troviamo un mese prima del vertice dei G8, e «discutiamo dell’ordine sentimentale della globalizzazione, ossia di come gli intrecci economici, culturali, politici e tecnologici influenzano la vita quotidiana delle persone, le loro relazioni e le loro emozioni». Con che lungimiranza si parlò dell’allora futura crisi, di precarietà delle esistenze e della necessità di forme di resistenza collettiva.

 

Alcune delle «parole chiave dei femminismi, dall’autodeterminazione alla libertà di scelta, dal partire da sé e dai propri desideri al rispetto per le differenze» transitano da Genova al resto della penisola negli anni successivi. Si trovano nei collettivi e nei convegni che si occupano di tecnologia, laicità, riproduzione assistita, precarietà, migrazioni, sessualità, ecologia, comunicazione, queer, intercultura. Al centro di pratiche, riflessioni, mobilitazioni molto spesso c’è il corpo, «le sfumature dei corpi che abitiamo», la necessità di rompere gli schemi normativi e mercificanti, per liberare l’immaginario «che bisogna riconnettere alle infinite forme del desiderio» per dirla con le parole delle Sexyshock.

 

Le femministe del nuovo millennio non solo si incontrano alle arricchenti scuole estive, da Raccontar(si) alle Giacche lilla, non solo sperimentano identità sessuali liberate dal genere come ai laboratori delle Ladyfest, ma, quando ci vuole, scendono in piazza, rumorose, numerose, autoconvocate e con parole radicali. E’ accaduto a Roma il 24 novembre 2007, quando attraverso la rete Sommosse siamo scese in corteo a migliaia «per affermare senza giri di parole che la maggior parte delle violenze avviene in ambiti domestici e nelle relazioni di coppia, dove il rapporto di potere tra i sessi continua ad alimentare i paradigmi della cultura patriarcale. Per ricordare che la maggioranza delle aggressioni accade per mano di padri, fratelli, mariti, fidanzati, cugini o ex. Ripetendo fino alla noia che la violenza non ha confini e attraversa i continenti, le religioni, le etnie, e i generi». «L’assassino ha le chiavi di casa» è l’azzeccato slogan della manifestazione che sposta il problema della violenza dalla sfera privata a quella politica, ponendolo come urgenza sociale e rifiutando misure securitarie e razziste per fingere di risolverlo.

 

Tutte queste tematiche e mobilitazioni fanno parte degli emozionanti archivi femministi del presente che Barbara delinea con cura, tracciando una sorta di «autoritratto di gruppo» della nostra generazione di quarantatrentenni, che non intendono perdere «l’azzardo di osare, di continuare ad essere quel soggetto imprevisto che ha fatto irruzione nella solita Storia raccontata da altri e che non ha mai tenuto conto delle nostre storie, di donne irriverenti e libere».

 

[…]

(Mariana Yonusg Blanco, “Con te”)

Barbara Bonomi Romagnoli, Irriverenti e libere. Femminismi del nuovo millennio, Editori internazionali riuniti, 2014, 224 pagine, 16 euro
Ora anche in versione eBook
http://www.barbararomagnoli.info/irriverenti-e-libere-anche-in-ebook/

di Serena Fuart

Narrare la gioia e la serenità di una storia d’amore vissuta con passione da due ragazze che, sottraendosi a logiche maschili che le vorrebbero rivali e in competizione, sono invece innamorate l’una dell’altra, complici e strettamente legate, si rivela una mossa politica importante. Il racconto in L’altra parte di me, il nuovo libro di Cristina Obber, oltre a essere una lettura godibile e piacevole è quindi una mossa politica che mette in rilievo come l’amore tra due donne vissuto in modo profondo, con creatività ed entusiasmo, riesce a superare le difficoltà e l’omofobia delle famiglie delle due, delle amiche e del resto del mondo. Il tutto semplicemente vivendo con felicità, evitando reazioni violente e di contrapposizione diretta agli attacchi omofobi e maschilisti.

 

Un amore dolce, intenso, prima segreto, sussurrato, infine dichiarato. Bello ma con non poche difficoltà. Giulia e Francesca sono due adolescenti che si conoscono su internet, vivono in città lontane, Francesca al nord, Giulia al sud, eppure la passione, il desiderio e la reciproca fiducia e lealtà l’una verso l’altra permettono loro una storia tra le più belle che ho letto. Una storia che racconta l’amore tra donne che c’è, esiste, è pieno di tenerezza e magica complicità, proprio molto lontano da quello dei racconti dei maschi, ovvero che due donne stanno insieme per piacere di più agli uomini o perché non hanno ancora trovato il fidanzato giusto.

 

Il libro racconta con semplicità e emozione chi è Giulia, chi è Francesca e chi sono Giulia e Francesca insieme, coinvolgendo il lettore nella loro esperienza bella anche se con dei momenti difficili, in particolare quando Francesca dichiara alla famiglia che ha una fidanzata e non un fidanzato. La reazione dei genitori non è buona e Francesca vivrà la loro ostilità con un gran senso di solitudine e disorientamento. Ma i suoi guai non finiscono qui. Francesca deve accettarsi lesbica e farsi accettare non solo dalla famiglia ma dal mondo. Tutt’altro che facile. Ma in tutte le sue vicende Giulia che, seppur sia sua coetanea, ha più esperienza di lei, la guiderà teneramente.

 

Alla fine la loro perseveranza e il loro amore riesce a fare “miracoli”.

Ho letto il libro d’un fiato. Con passione. E il guadagno politico, non scontato, è che mi ha fatto guardare la realtà con occhi diversi da prima.


(serenafuart.over-blog.it, 20-12-2014)

di Clotilde Barbarulli

 

Quest’anno si comincia a colmare la grave lacuna culturale della mancanza di traduzione in italiano di libri di Audre Lorde: prima con Sorella outsider ora con l’autobiografia, apparsa nella collana àltera con una interessante cronologia comparata. L’autrice, «afro-caraibica-americana-lesbo-femminista» (1934-1992) con Zami – il cui nome a Carriacou denota le donne che lavorano insieme da amiche e da amanti – ci offre «una fiction costruita da molte fonti» con elementi «di biografia storia e mito» come spiega, una auto-bio-mitografia. Il libro viene pubblicato nel 1982, quando Lorde ha ottenuto la laurea in biblioteconomia ed ha già al suo attivo raccolte di poesie. Alla frammentata struttura della biografia legata a momenti particolari fa da collante il vivere la nerezza, «una mappa nascosta in piena vista», come la sessualità «e il rapporto con le donne che incontra e che perde», recuperandole nella scrittura del ricordo (Borghi). Ma Zami è soprattutto un raccontarsi per spiegare il suo percorso di formazione politica. Figlia di immigrati caraibici. Lorde nasce e cresce ad Harlem attraversata dalla “linea di colore” che richiede comportamenti appropriati: i genitori, cattolici, non parlano di razzismo, e, per orgoglio e dignità, insegnano ai figli non a resistere ma a passare indenni. Cresce così senza parole per le discriminazioni e questo determina difficoltà a scuola e insuccessi nel lavoro: i silenzi non la proteggono.

 

«Diventai nera come il mio bisogno di vita, di affermazione, d’amore – copiando da mia madre ciò che era in lei, irrealizzato […] Le parole di mia madre imparate dalla lingua dell’uomo bianco attraverso la bocca di suo padre, mi insegnavano ogni genere di astuzia e di diversivi per difendermi»: grazie a queste difese, dice, era sopravvissuta ma anche «un po’ morta». Così, anche se certi problemi non si potevano discutere in casa, ben presto scopre la durezza del colore, la linea che divide, come quando a Washington nel dopoguerra la famigliola viene invitata ad uscire da un bar perché può comprare il gelato ma non sedersi a gustarlo: i genitori,anche se offesi, non vogliono parlare di quella ingiustizia, perché è il loro modo di affrontare il razzismo americano, ma quel giorno, racconta Lorde, «in cui smisi di essere una bambina» tutto era bianco, dalla cameriera alla canicola, come il gelato che non poté mangiare. Al centro di Zami sta dunque il corpo nero come mediatore del ricordo di eventi.

 

Gli anni di contestazione a scuola, il suo stare con le altre amiche nere “marchiate”, una sorellanza ribelle (1946-49), i suoi primi amori lesbici con i relativi dolorosi distacchi, gli anni del maccartismo in cui protestare ed in più essere lesbica era un problema, il conseguente soggiorno in Messico, il rientro e i ritrovi lesbici, costituiscono momenti e esperienze che scorrono nel libro in una temporalità non lineare, ma discontinua tra fratture e scarti. Dall’affresco emergono le pagine sul lavoro in fabbrica negli anni ’50 come operatrice di una macchina a raggi X alla Keystone Electronics, dove nessuno diceva che il tetracloruro di carbonio distrugge il fegato e provoca il cancro ai reni, e dove lavoravano solo portoricani e neri.

 

«Ricordo come ci si sentiva a essere giovane e Nera e gay e sola»: da una parte il senso della verità e della ricchezza, dall’altra il vuoto, perché non c’erano né madri, né sorelle, né eroine. Negli anni ’50 con il ritorno in massa della donna americana al ruolo di dolce mogliettina, le sembrava che solo le gay nere e bianche fossero le uniche a parlarsi oltre la vuota retorica del patriottismo e dei movimenti. Si accorge tuttavia che le differenze permangono anche negli spazi alternativi del lesbismo bianco, e l’identità sessuale non cancella la razza, perciò l’incontro con Ketty/Afrekete reintegra Lorde nella comunità nera. Lorde non la vedrà più dopo la sua partenza ma afferma che la «sua impronta rimane sulla mia con la risonanza e la forza di un’emozione tatuata».

 

«Essere ragazze gay insieme non bastava. Eravamo diverse»: ma«“ci volle del tempo per capire che il nostro posto era proprio la casa della differenza piuttosto che la sicurezza di una particolare differenza», ci vollero anni – spiega – per capire che la paura non rende impotenti. Sono gli anni dei movimenti e Lorde sottolinea che le lesbiche nere dal ’63 hanno fatto parte di ogni lotta per la libertà. Anche nel femminismo bianco Lorde si dedicherà, come Adrienne Rich, a far emergere le richieste inascoltate delle Nere, «destrutturando modelli di monolitiche identità razziali e sessuali».

 

Come nota Borghi nella sua approfondita e attenta introduzione, in Zami Lorde racconta la sua assunzione di identità «come un processo instabile, in divenire», che la conduce al «lesbo-femminismo outsider dei ruggenti anni ’70-80 con il suo tentativo politico-culturale di superare il biologismo razziale e le normative di classe e genere».

 

Nel romanzo si vede in filigrana crescere il valore della rabbia per l’esclusione e per le “cecità razziali”, diventare consapevolezza in un sistema in cui razzismo e sessismo sono cardini primari, insieme alla convinzione che in un sistema di potere patriarcale bianco le trappole usate per neutralizzare le donne Nere e le bianche non sono le stesse e finiscono per dividerle. Quello che da adolescente e poi da giovane vive con disagio, con depressione, con rabbia – all’inizio senza trovare le parole – sarà poi teorizzato e organizzato politicamente, per cercare nuovi modelli di relazioni nella differenza, nelle sue modalità di vita, nei suoi scritti, in particolare nella poesia che rappresenta una necessità vitale per nominare ciò che è senza nome e intravedere un futuro di cambiamento. Una riflessione importante, quella di Lorde, per chi oggi s’interroga sul sociale storico, una lezione di vita e di pensiero critico per una rilettura anche dei femminismi tra memorie ed esperienze, emotive e politiche, dissonanti.

 

Audre Lorde, Zami. Così riscrivo il mio nome, traduzione di Grazia Dicanio. Introduzione e cura di Liana Borghi, edizioni ETS 2014, pp. 301, euro 19,00

 

Audre Lorde, Sorella outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, Traduzione di Margherita Giacobino e Marta Gianello Guida, Il dito e la luna 2014.

 

Rosanna Fiocchetto, Sorella outsider, LeggereDonna, n. 43, marzo aprile 1993.

 

Audre Lorde, da Harlem ai Caraibi, il manifesto, 8 marzo 2014.

di Mara Pace

 

Tempo di regali, e quindi anche di pacchi misteriosi e di sorprese. Una scatola gialla (trad. Laura Pignatti, Sinnos, 2014, 40 pagine, 11 euro, da 4 anni) di Pieter Gaudesaboos, autore e designer fiammingo, è un albo illustrato perfetto da leggere nell’attesa dei doni, per pregustare la magia dei pacchetti da scartare. La scatola gialla protagonista del racconto è una gigantesca scatola di legno. Che cosa ci sarà dentro? «Ci sarà un elefante» pensa il comandante, e con grande attenzione carica la scatola sulla sua nave. Durante il viaggio, però, il legno si spacca, svelando un’altra scatola identica, ma più piccola, dentro la quale il macchinista del treno immaginerà ci sia un rinoceronte. Il gioco si ripete fino a che il pacco non diventa piccolissimo e raggiunge la sua destinataria, una bambina. E sarà proprio lei a svelare il misterioso contenuto, minuscolo eppure capace di trasformare in realtà tutto ciò che si era soltanto immaginato. La lettura, oltre al gioco della sorpresa e all’incanto di un regalo davvero speciale, offre al lettore bambino una serie di personaggi, paesaggi e mezzi di trasporto – dall’aereo alla bicicletta – da esplorare con lo sguardo, illustrazione dopo illustrazione, guidati dal tratto preciso e ricco di dettagli di Gaudesaboos.

La rivista Andersen ha lanciato proprio in questi giorni la campagna #ilmiolibropernatale2014, e pensando ai doni da mettere sotto l’albero torna subito in mente L’uomo del camion (Corraini editore, 15,50 euro, da 5 anni) di Bruno Munari, dove si racconta il viaggio di un altro regalo: non una scatola gialla, ma un pacchetto ben incartato. Anche qui sono tanti i mezzi di trasporto utilizzati nel viaggio, dall’automobile ai piedi nudi. E a rendere ancora più speciale il libro, quasi una scatola a sorpresa, sono le scelte cartotecniche dell’autore, grande designer italiano e autore di indimenticabili libri per l’infanzia.

ANDERSEN è il mensile italiano di informazione sui libri per l’infanzia. La rivista promuove ogni anno il PREMIO ANDERSEN, assegnato alle migliori opere dell’annata editoriale, con un’attenzione particolare alle produzioni più innovative e originali.

8 Dicembre 2014
www.lastampa.it

di Guido Caldiron

 

Le sem­plici regole di scrit­tura che le ave­vano assi­cu­rato un suc­cesso costante e senza fron­tiere per più di quarant’anni, le aveva rive­late al grande pub­blico solo di recente in Tal­king About Detec­tive Fic­tion, tra­dotto nel nostro paese con il titolo di A pro­po­sito del giallo, e pub­bli­cato lo scorso anno da Mon­da­dori. il suo edi­tore ita­liano. Quat­tro i punti pre­sen­tati come «deci­sivi»: «Un mistero cen­trale da risol­vere, quasi sem­pre un omi­ci­dio; una pic­cola cer­chia di sospetti; un detec­tive, improv­vi­sato o pro­fes­sio­nale ma che possa incar­nare sim­bo­li­ca­mente una qual­che giu­sti­zia; un per­corso a testa bassa verso la ricerca della soluzione».

Phyl­lis Doro­thy James, meglio cono­sciuta come P. D. James, scom­parsa gio­vedi nella sua casa di Lon­dra a 94 anni, era nata a Oxford nel 1920, si era pre­sen­tata così, sfog­giando il biglietto da visita di quello stile che le era valso il titolo ono­ri­fico di «regina del cri­mine» e, a coro­na­mento di una car­riera scan­dita da oltre una ven­tina di romanzi, molti dei quali dive­nuti dei bestsel­ler in Gran Bre­ta­gna, i para­goni della stampa lon­di­nese con alcune delle pio­niere del giallo, come Mar­gery Allin­gham e soprat­tutto Aga­tha Christie.

Pro­ta­go­ni­sta indi­scusso di alcuni dei più noti lavori della scrit­trice, l’ispettore e poi coman­dante a Sco­tland Yard, Adam Dal­gliesh, un uomo segnato per sem­pre dalla per­dita del figlio e della moglie morta di parto, incarna per­fet­ta­mente quella volontà di iscri­versi nella tra­di­zione dei clas­sici del genere che que­sti romanzi espri­mono fin nei det­ta­gli. Al tempo stesso sbirro e poeta, cere­brale e sen­si­bile, pro­vo­ca­tore e paziente, Dal­gliesh ini­zia spesso le sue inda­gini fis­sando inte­sa­mente il volto della vit­tima, pro­met­tendo di ren­der­gli giu­sti­zia acciuf­fando il suo assassino.

Altra carat­te­ri­stica delle sto­rie di P. D. James, quella di muo­vere sem­pre da un luogo pre­ciso e facil­mente rico­no­sci­bile, una chiesa, un tri­bu­nale, una scuola o un museo e di con­durre il let­tore a sof­fer­marsi su quei det­ta­gli appa­ren­te­mente insi­gni­fi­canti che celano però indizi deci­sivi per la solu­zione del mistero. Il tutto, seguendo Dal­gliesh passo dopo passo, senza lasciarlo mai. «Uno scrit­tore — aveva con­fes­sato in un’intervista apparsa su Le Monde nel 2009 -, è qual­cuno che va a dor­mire alla stessa ora dei suoi per­so­naggi, che si alza con loro e che ne cono­sce, quando non le con­di­vide, tutte le pic­cole manie quo­ti­diane. Qual­cuno che sa anche dove hanno “nasco­sto” le chiavi della mac­china che non rie­scono più a trovare…».

Avvi­ci­na­tasi alla scrit­tura gra­zie all’amore per autori come Doro­thy L. Sayers, Gra­ham Greene e Eve­lyn Waugh, anche se aveva più volte ammesso che il suo prin­ci­pale modello era Jane Austen del cui Orgo­glio e pre­giu­di­zio ha scritto anche una sorta di seguito poli­zie­sco, Morte a Pem­ber­ley.

P.D. James aveva pub­bli­cato il suo primo romanzo solo nel 1962, Copri­tele il volto, pro­ta­go­ni­sta Adam Dal­gliesh, dopo che era stata dap­prima costretta ad inter­rom­pere gli studi a soli 16 per volontà del padre, ultra­con­ser­va­tore, che rite­neva che una gio­vane donna non neces­si­tasse di una par­ti­co­lare istru­zione, e poi dovendo tro­vare un impiego nella pub­blica ammi­ni­stra­zione per man­te­nere le figlie e il marito, un medico della Royal Army, tor­nato trau­ma­tiz­zato dalla guerra in India e che non si sarebbe mai più ripreso.

Spesso con­trap­po­sta ai più recenti autori di noir, per­ché con­si­de­rata poco inte­res­sata alle con­trad­di­zioni sociali, la scrit­trice bri­tan­nica aveva stu­pito tutti, spie­gando — l’intervista è citata da Luca Crovi nel suo Noir, istru­zioni per l’uso, Gar­zanti — come in realtà, con­si­de­rasse il romanzo poli­zie­sco come «il vero romanzo sociale dei giorni nostri. Anzi, lo è stato fin dai suoi esordi: era più facile farsi un’idea di come fosse l’Inghilterra di un certo periodo attra­verso que­sta let­te­ra­tura di genere che attra­verso i romanzi mainstream».

Nomi­nata baro­nessa di Hol­land Park dalla regina nel 1990, P. D. James era entrata alla Camera dei Lords dove sedeva sui ban­chi del Par­tito Con­ser­va­tore. Faceva anche parte della Com­mis­siome litur­gia della Chiesa angli­cana, isti­tu­zione che aveva per altro pas­sato al setac­cio per scri­vere Morte in semi­na­rio un romanzo popo­lato di pre­lati per­versi e di preti pedofili.

(il manifesto, 29 novembre 2014)






Ursula Le Guin

 

«A chi mi ha dato questo bellissimo premio, grazie. Dal cuore. Alla mia famiglia, ai miei agenti, ai miei editor dico: sappiate che se sono qui è anche merito vostro, e questo premio è tanto vostro quanto mio. E mi piace l’idea di accettarlo e condividerlo con tutti quegli scrittori che sono stati esclusi dalla letteratura così a lungo, i miei colleghi autori di fantasy e fantascienza, scrittori dell’immaginazione, che per cinquant’anni hanno visto questi bei premi andare ai cosiddetti “realisti”.

Sono in arrivo tempi duri, e avremo bisogno delle voci di scrittori capaci di vedere alternative al modo in cui viviamo ora, capaci di vedere, al di là di una società stretta dalla paura e dall’ossessione tecnologica, altri modi di essere, e immaginare persino nuove basi per la speranza. Abbiamo bisogno di scrittori che si ricordino la libertà. Poeti, visionari, realisti di una realtà più grande.

Oggi abbiamo bisogno di scrittori che conoscano la differenza tra la produzione di una merce e la pratica dell’arte. Sviluppare materiale scritto per venire incontro a strategie di vendita con lo scopo di massimizzare il profitto di una società e la resa pubblicitaria non è la stessa cosa rispetto a scrivere e pubblicare libri in modo responsabile.

Io vedo il reparto vendita prendere il controllo su quello editoriale. Vedo i miei stessi editori, stupidamente nel panico dell’ignoranza e dell’ingordigia, chiedere alle biblioteche pubbliche sei o sette volte il prezzo praticato ai clienti normali per un e-book. Abbiamo appena visto un profittatore cercare di punire un editore per la sua disobbedienza, e gli scrittori minacciati da una fatwa corporativa. E vedo molti di noi, coloro che producono, che scrivono i libri e fanno i libri, accettare tutto questo. Lasciando che i profittatori commerciali ci vendano come deodoranti, e ci dicano cosa pubblicare e cosa scrivere.

I libri non sono merce. Gli scopi del mercato sono spesso in conflitto con gli scopi dell’arte. Viviamo nel capitalismo, e il suo potere sembra assoluto. ma attenzione, lo sembrava anche il diritto divino dei re. Gli esseri umani possono resistere e sfidare ogni potere umano. La resistenza spesso comincia con l’arte, e ancora più spesso con la nostra arte, l’arte delle parole.

Ho avuto una lunga carriera come scrittrice, una buona carriera e con  una buona compagnia. Ora, alla fine di questa carriera, non voglio

vedere la letteratura americana essere svenduta. Noi che viviamo di scrittura e di editoria vogliamo e dobbiamo chiedere la nostra parte

della torta. Ma il nome di questo riconoscimento non è profitto. È libertà.»