Fuochi. La cucina di EstiaChe cosa ci fanno nella cucina del Circolo della rosa di Milano sei donne diverse, che non sono cuoche di professione? Cucinano, ovviamente, ma per chi? per altre donne e uomini che frequentano la Libreria delle donne e amano quello che significa: una politica delle relazioni e della soggettività femminile libera. In questo contesto, c’è più gusto a cucinare e, cucinando, a parlare di sé e del mondo. Come mettersi intorno al focolare che scalda e cuoce, in un cerchio che si allarga. Estia era l’antica dea del focolare. Preparato con passione e arte, il cibo dalla cucina passa tra i tavoli a nutrire la buona conversazione, creando cultura condivisa. Affiora così il legame tra convivenza civile e preparazione del cibo, che è uno dei grandi contributi delle donne alla civiltà. Loro, le sei signore della cucina, la chiamano cucina relazionale. In questo piccolo libro, Fuochi, hanno riposto alcuni dei loro segreti e dei loro vissuti. Sono racconti, pensieri, fatti e naturalmente… ricette.



24 luglio 2014: Bella intervista di Bruna Miorelli a Stefania Giannotti su Radio Popolare

 

Ecco alcune recensioni, già pubblicate sul sito, uscite in questi mesi:

 

14 luglio 2015, 27esimaora.corriere.it, Sei cuoche seguaci della dea Estìa di Giovanna Pezzuoli
18 luglio 2015, donnealtri.it, Scambi simbolici tra i fornelli di Letizia Paolozzi
12 agosto 2015, l’Unità, Anche le femministe sanno cucinare di Stefania Scateni
11 settembre 2015, Corriere della sera, Sebben che siamo cuoche, il femminismo a tavola tra braci e padelle di Nicoletta Melone
14 luglio 2015, VIDEO DELLA PRESENTAZIONE A EXPO

di Luciana Tavernini


Come si può spiegare l’interesse in costante crescita per l’opera complessiva e l’esperienza di vita di Antonia Pozzi, poeta e fotografa milanese degli anni Trenta, morta suicida a soli ventisei anni?

Infatti intorno a lei si stanno moltiplicando le tesi e i convegni universitari, gli spettacoli teatrali e i film, la pubblicazione di edizioni sempre più accresciute dei suoi scritti – poesie, diari, lettere –, gli interventi critici che ne mettono in luce l’originalità e ne riscoprono la vicenda esistenziale.

Eppure, da viva, aveva visto pubblicato solo un saggio su Aldous Huxley e nel 1939, l’anno dopo la sua morte, il padre curò un’edizione ridotta ed epurata delle poesie dal titolo Parole. Successivamente da Garzanti apparve la tesi di laurea sulla formazione letteraria di Flaubert, con la prefazione di Antonio Banfi, il filosofo razionalista, suo professore, che l’aveva però scoraggiata rispetto al fare poetico.

Nel 1943 uscì per Mondadori un’edizione più cospicua del corpus poetico, curata dall’amico Vittorio Sereni. La recensione di Montale che, nel dicembre 1945, ne metteva in luce il valore letterario sul “Mondo “ di Firenze divenne la base per l’introduzione a un volume più ampio, inserito nella prestigiosa collana “Lo Specchio” nel 1948 e poi nel 1964. Montale riconobbe ad Antonia Pozzi la capacità di “ridurre al minimo il peso delle parole”, la “purezza del suono e la nettezza dell’immagine” e notò che i suoi testi suscitano in chi li legge una sorta di “fuoco”, ma ricollegò la sua esperienza a quella di Ungaretti e dei poeti ermetici del verso libero.

A metà degli anni Ottanta iniziò, invece, una vera e propria riscoperta, dovuta soprattutto a Onorina Dino, curatrice dell’Archivio di Antonia a Pasturo, e ad Alessandra Cenni, che con attenta ricerca filologica ripristinarono le versioni originali delle poesie, liberandole dalle censure e dagli interventi paterni, e cominciarono anche la pubblicazione di lettere e diari, facendola così conoscere a un pubblico più vasto.

Ma in particolare negli ultimi dieci anni è progressivamente cresciuto l’interesse verso di lei, a partire dalla biografia critica di Graziella Bernabò Per troppa vita che ho nel sangue, dove appare inscindibile il nesso tra arte e vita, tanto caro alla Pozzi. Si tratta di un lavoro che ricostruisce con una rigorosa attenzione alle fonti e attraverso il dialogo con numerosi testimoni la vicenda esistenziale e l’impegno artistico di Antonia, illuminando attraverso di lei la situazione storica degli anni Trenta. È un modo di scrivere la biografia di una donna che utilizza un’attenzione empatica del tutto differente dalla facile immedesimazione, riuscendo a mostrare le difficoltà e le possibilità di un protagonismo al di fuori degli stereotipi femminili e dell’omologazione al maschile. Un metodo fruttuoso che Bernabò ha replicato nella complessa biografia di Elsa Morante, La fiaba estrema, ma che possiamo riconoscere anche nell’avvincente lavoro di Martina Corgnati, Afferrare la vita per la coda, sulla vita e le opere dell’artista Meret Oppenheim.

Da allora si sono moltiplicate le iniziative. Ne accennerò solo alcune: il sito, curato da Tiziana Altea, http://www.antoniapozzi.it/ , ricchissimo di informazioni e con una bibliografia aggiornata, a cui rimando anche per alcuni testi qui accennati e ormai introvabili; il grande convegno del 2008, nel settantesimo della morte, all’Università degli Studi di Milano, dove Antonia si era laureata, seguito dalla pubblicazione degli atti; le numerose tesi universitarie (ormai superano la ventina); i diversi spettacoli teatrali, tra cui L’infinita speranza di un ritorno con la drammaturgia e l’interpretazione di Elisabetta Vergani per la regia di Maurizio Schmidt, in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita nel 2012; il film di Marina Spada, Poesia che mi guardi, presentato al festival di Venezia nel 2009, che, attraverso una narrazione originale, immagini nitide e pregnanti, documenti d’archivio inediti, ha saputo rendere il valore che l’opera poetica e fotografica di Antonia Pozzi acquista oggi, soprattutto per le giovani generazioni; il documentario del 2014 di Sabrina Bonaiti e Marco Ongania Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa. Antonia Pozzi (1912-1938), che ci restituisce la capacità, veramente straordinaria in Antonia, di introspezione e di relazione; la lettura di testi poetici e in prosa Tra arte e vita: Antonia Pozzi poeta (1912-1938), che costituisce una sorta di biografia, curata dal gruppo della web radio http://www.donnediparola.eu/.

Quest’importanza crescente che ha assunto la figura della Pozzi in ambito non solo europeo ha avuto possibilità di dispiegarsi grazie alla costante attenzione di Onorina Dino per l’Archivio Pozzi, da lei non soltanto attentamente curato, ma creato e accresciuto nel tempo, e consegnato nel 2014, già ordinato con una prima classificazione, al Centro Internazionale Insubrico di Varese. Certamente la ripubblicazione in varie edizioni, anche se a volte parziali, non solo delle poesie, ma anche delle fotografie, dei diari e delle lettere, le traduzioni in diverse lingue, i molti saggi critici hanno permesso l’ampliarsi della conoscenza di Antonia Pozzi da parte di un pubblico non specialistico, generando una vera e propria passione verso di lei..

Ma perché questo è accaduto, e perché soprattutto le donne, le maggiori lettrici oggi, vogliono incontrarla sempre più direttamente?

Quando una donna riesce a mantenere viva la sua voce originale e riesce a farla udire, andando oltre i canoni letterari e artistici del suo tempo, anche a costo di morirne, suscita in noi la voglia non solo di attingere alla sua opera ma di indagarne la vicenda umana. Aspiriamo infatti a “comprendere quelle vite femminili che contemplano il rischio e il desiderio di una realizzazione personale del mondo insieme a, o al posto di, un amore coniugale”, come diceva Carolyn Heilbrun (Amanda Cross), già nel 1988, nel suo libro Come scrivere la vita di una donna (p. 56).

Nella poesia della Pozzi, infatti, troviamo immagini e parole che ci restituiscono un sentire che tiene conto della corporeità; una poesia che sa essere vicina alle persone nella pienezza della loro umanità, sapendone cogliere la singolarità nei momenti quotidiani, tragici e gioiosi, dell’esistenza, magari solo attraverso un gesto, un elemento del vestire, un’emozione. Antonia sa essere vicina anche agli animali e alle cose, di cui vuole “rubare l’anima”, e dunque riesce a comunicare la forza dei luoghi: le montagne che amava scalare, le città di cui coglie la musica, la campagna lombarda e la periferia milanese, luoghi in cui lei stessa è presenza viva. Infatti lei “vive della poesia come le vene vivono del sangue” (lettera, 29 gennaio 1933), sa che nella scrittura è “necessario non recidere il legame vitale che intercorre tra problema di vita e problema d’arte” e che dunque “la risoluzione di un problema letterario […] rappresenta di per se stessa la risoluzione vivente di un problema di vita”.(Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, pp. 8-9). Per questo nei suoi testi opera un cambiamento del simbolico, come il femminismo radicale chiama il mettere in parole, che la significhino fedelmente, l’esperienza umana, in particolare quella delle donne. Questo suo impegno – non capito dall’ambiente alto borghese in cui era nata e nemmeno dagli amici intellettuali del gruppo di Banfi, critici verso il fascismo ma incapaci di aprirsi alla differenza femminile – ora viene invece apprezzato e sentiamo che Antonia con le sue parole apre la strada a un senso nuovo dell’esistere.

La Pozzi è dunque un esempio di inestricabile intreccio di vita e opere, emblematico di alcuni percorsi, non certo facili, per mantenere la propria autenticità, che ancor oggi come donne siamo interessate a riconoscere. Per questo la pubblicazione dell’epistolario nel bel volume Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938 ci offre la possibilità di avere una fonte diretta sul suo modo di sentire, creare e relazionarsi. Sono testi che si leggono come un romanzo, per la bellezza, la vivacità e, via via, la maggiore intensità della scrittura, in cui vediamo innanzi tutto emergere la “virtù della resistenza” come Carol Gillligan chiama lo sforzo che le giovani compiono per non cedere alle deformazioni che l’ordine patriarcale vorrebbe imporre loro. Possiamo cogliere ciò che la rafforza, come la profonda relazione con alcune amiche, con cui in alcuni momenti condividere quella splendida energia che viene generata dallo svolgimento con altre di un’attività nella sfera pubblica, penso all’amicizia tra Antonia Pozzi, Elvira Gandini e Lucia Bozzi, a cui sono dedicate delle poesie e indirizzate lettere sincere e toccanti che mostrano anche come sia difficile destreggiarsi tra l’amore dei e verso i genitori (pensiamo alla figura affettuosa e fragile della madre di Antonia e a quella generosa ma autoritaria del padre) e l’essere fedele al proprio sentire. Su consiglio delle amiche Lucia ed Elvira, conosciute alla biblioteca Braidense, la Pozzi si era iscritta all’indirizzo di Filologia Moderna presso la facoltà di Lettere e Filosofia della Regia Università di Milano (la “Statale”) ed Elvira l’aveva introdotta ai seminari del giovedì di Giuseppe Antonio Borgese, docente di Estetica. Con lei aveva condiviso anche un campeggio CAI a Breil nell’estate 1933 e discuteva del lavoro poetico e del dispiacere che le aveva provocato il giudizio negativo su di esso di Banfi. La “Cia”, Lucia Bozzi, fu la prima ad apprezzarne la vocazione poetica e la sostenne in momenti difficili. Interessante è anche il rapporto con Elisa Buzzoni di cui Antonia parla con Sereni in una lettera dove rivela un’acuta sensibilità nell’accettare tranquillamente di provare moti di sensualità per un’amica. Certo queste amicizie non si configurano come una società femminile, al cui interno si viene elaborando una consapevole e condivisa visione del mondo, ma furono ugualmente importanti perché consentirono ad Antonia di continuare il lavoro di sperimentazione su una parola autenticamente legata alla sua esperienza di vita. Anche con gli uomini l’amicizia è sentita da lei come scambio e confronto su comuni passioni – in questo caso la poesia e la letteratura – come con il suo grande amico Vittorio Sereni e in particolare con il poeta Tullio Gadenz, con il quale intrattenne un ricco scambio epistolare in cui rivela la complessità della sua poetica.

Nelle lettere ai familiari, scritte con una prosa vivace, possiamo seguire l’educazione cosmopolita di una giovane emancipata, i viaggi in Inghilterra e in varie località italiane, la pratica sportiva, dallo sci al tennis all’arrampicata, le letture colte, le visite ai musei, l’assiduità ai concerti e all’opera lirica presso la Scala e il Conservatorio di Milano, che rivelano come possa essere affascinante il nuovo modo di imprigionare una figlia amata in un ruolo più sottilmente convenzionale.

Come per molte scrittrici la concezione dell’amore e del rapporto con l’uomo era basata su un dialogo aperto: non vi era in lei il desiderio di conquistare, ma di essere compresa nella sua interezza. Per prima Antonia si innamorò di Antonio Maria Cervi, il suo ex insegnante del liceo di diciotto anni più vecchio di lei. Lo si capisce dalle lettere in cui la giovane passionale trascina l’uomo in questo rapporto, ostacolato dal padre di lei. Se Antonia ne ammirava la nobiltà d’animo e ne rispettava le convinzioni, tuttavia non accettava finzioni per compiacerlo. Ad esempio, riguardo ai tentativi di lui di accostarla al cristianesimo, mentre lei era volta a una ricerca di Dio al di fuori di ogni schema confessionale, dice che “sarebbe disonesto verso la mia coscienza il fingermi un dovere che non comprendo e non sento” (lettera 1° marzo 1932). Se di fronte al rifiuto del padre Antonia era disposta a combattere e se dalle sue lettere, a volte struggenti, sentiamo emergere un desiderio di superare le convenzioni sociali, Cervi invece cedette e le accettò.

Anche agli altri uomini con cui ebbe legami amorosi, Remo Cantoni e Dino Formaggio, Antonia propose un confronto serrato sulle sue aspirazioni intellettuali, sul lavoro di ricerca per la tesi su Flaubert, su scritti e progetti di scrittura, sul rapporto tra vita e poesia (un tema tanto sentito in ambiente banfiano, ispirato dal Tonio Kröger di Thomas Mann), sul lavoro fotografico, sulla frequentazione della periferia milanese, in particolare della zona di piazzale Corvetto. Purtroppo questa modalità di rapporto, intenso e insieme intimo, fuori dagli schemi del rapporto di coppia tradizionale, non venne corrisposto: nelle sue lettere appare evidente l’apertura all’altro, propria dell’intelligenza d’amore di molte donne, che tuttavia subisce lo scacco di un maschile che pretende di essere universale.

Dunque in queste lettere, ordinate cronologicamente, e nelle fotografie che le accompagnano vediamo svolgersi la vita di una donna di talento che ha lottato perché non fosse messa a tacere la sua autentica voce. E noi, continuando a leggere e osservare le sue opere, possiamo dire che c’è riuscita.

 


(Leggendaria, N.111, maggio 2015, pp. 37-39)

 

Antonia Pozzi, Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, Premessa di Antonio Banfi, a cura di Matteo Mario Vecchio, Ananke, Torino 2013, 362 pagine, 24 euro. 

Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Àncora, Milano 2007, 112 pagine, 22 euro.

Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi. La più ampia raccolta di poesie finora pubblicata e altri scritti. A cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, con approfondimenti critici di Fulvio Papi, Dino Formaggio, Gabriele Scaramuzza, Eugenio Borgna, Giovanna Calvenzi, Goffredo Fofi e un intervento di Roberta De Monticelli, con dvd del film di Marina Spada, Poesia che mi guardi (2009, 50′, Italia, Miro Film), Luca Sossella Editore, Bologna 2010, 650 pagine, 20 euro.

Antonia Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo: lettere 1919-1938, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, con un contributo di Marco Dalla Torre; Postfazione di Tiziana Altea, Àncora, Milano 2014, 390 pagine, 26 euro.

Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue: Antonia Pozzi e la sua poesia, Viennepierre, Milano 2004. Ora riedito, con stesso titolo e prefazione di Onorina Dino, Àncora, Milano 2012, 340 pagine, 24 euro.

Graziella Bernabò, Onorina Dino, Silvia Morgana, Gabriele Scaramuzza (a cura di), … e di cantare non può più finire…: Antonia Pozzi (1912-1938), atti del convegno, Milano 24-26 novembre 2008, Università degli Studi – Dipartimento di Filologia Moderna – Dipartimento di Filosofia; a cura di, Viennepierre, Milano 2009, 433 pagine, 30 euro.

Graziella Bernabò, La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2012, 340 pagine, 24 euro.

Martina Corgnati, Meret Oppenheim. Afferrare la vita per la coda, Johan &Levi editore, Monza 2014, 540 pagine, 35 euro.

Carol Gilligan, La virtù della resistenza. Resistere, prendersi cura, non cedere, Moretti & Vitali, Bergamo 2014, 167 pagine, 16 euro.

Carolyn Heilbrun Come scrivere la vita di una donna, La Tartaruga, Milano 1990, 172 pagine.

Sabrina Bonaiti e Marco Ongania, Il cielo in me. Vita irrimediabile di una poetessa. Antonia Pozzi (1912-1938), (2014, Italia, Emofilm in collaborazione con Acel Service e Comune di Pasturo).

Marina Spada, Poesia che mi guardi (2009, 50′, Italia, Miro Film).

Carissime Luciana e Marina,

ho appena finito di leggere il libro da voi curato Mia madre femminista. Storia da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015) e vorrei comunicarvi, a caldo e con semplicità, le impressioni che mi ha suscitato.

Prima di tutto mi ha lasciato un senso di contentezza, anzi di benessere.

Certamente questo è dipeso in buona misura dal mio interesse per l’argomento trattato: il mondo delle donne negli ultimi cinquant’anni circa, partendo dal Sessantotto. Aggiungo poi che l’ottica della differenza, chiaramente privilegiata nel libro rispetto a quella dell’emancipazione, mi trova da tempo consenziente e, quindi, mi comunica un senso di appartenenza positiva. Ma le mie impressioni sono derivate anche da altri elementi. Il vostro libro è estremamente ricco e, in larga misura, esaustivo, però non è né un tradizionale resoconto storico né, tantomeno, un semplice repertorio. Al dialogo vivo tra una madre e una figlia che fa da cornice si intrecciano infatti costantemente le testimonianze di donne che, in campi diversi, hanno avuto nel movimento un ruolo importante e che, nel loro racconto, vanno al cuore delle vicende cruciali che le hanno viste protagoniste, restituendole con molta vivezza e con una forte consapevolezza della loro importanza per il presente. Il tono che ne deriva non è perciò di nostalgia ma di forza. A maggior ragione perché le testimonianze riguardano anche donne più giovani che mostrano di non aver disperso l’eredità delle loro madri simboliche, così come mostra di comprenderlo, strada facendo, la figlia a cui la madre indirizza il proprio racconto, rendendosi conto a più riprese dei vantaggi che le specifiche lotte delle donne nei campi più vari, e soprattutto le pratiche con cui hanno portato avanti le loro lotte (in particolare l’autocoscienza e l’affidamento con riconoscimento dell’autorità femminile), hanno determinato, per la propria generazione come per quelle successive, in termini di libertà, di agio e di vera grandezza femminile. La stessa rete di testimonianze, fondamentale nella struttura dell’opera, rimanda a una pratica viva di relazioni, riguardante sia le molte testimoni sia voi stesse nella relazione diretta o indiretta con loro. Da qui il tono fermo, ma caldo e cordiale, e il senso di apertura alla molteplicità delle esperienze che sta alla base dell’intero libro e che non poco contribuisce a creare, nel corso della lettura, una sensazione positiva.

Infine mi è sembrato molto giusto l’inserimento, nel titolo, del richiamo letterale al femminismo. Molte donne infatti, pur libere e apparentemente aperte, si sottraggono assurdamente a questa parola, non rendendosi conto che anche l’emancipazione individuale può essere un guscio vuoto, se scissa dal rapporto consapevole con le altre e dalla gratitudine per ciò che esse, in vari campi, hanno fatto nel passato, o che fanno nel presente, non solo per una difesa dei diritti tradizionali, ma anche e soprattutto per il nostro esistere nel mondo a partire veramente da noi stesse.

In questo senso il vostro lavoro potrà essere prezioso, in termini di consapevolezza, per tante donne, e soprattutto per le giovani. In ogni caso è stato molto importante per me.

 

Graziella Bernabò

di E. C.

 

Questa indagine sulle donne che vivono da sole illumina una condizione tanto diffusa quanto poco conosciuta e raccontata. La presentazione dei risultati della ricerca, svolta secondo i criteri della sociologia, è preceduta da un’ampia parte di analisi su dimensioni e cause dell’aumento di famiglie formate da una sola persona, fenomeno in crescita in tutto il mondo e non solo nei paesi occidentali, come spiega l’autrice: negli Stati Uniti «le famiglie composte da una sola persona rappresentano ormai la più diffusa forma di organizzazione sociale, ben più comune della famiglia nucleare e della famiglia stessa», mentre in Giappone, Cina, India e Brasile la crescita del fenomeno appare «vertiginosa». Una metamorfosi alla quale linguaggio e immaginario non hanno ancora avuto tempo di adeguarsi, tanto che un capitolo del libro è dedicato ad approfondire il disallineamento culturale e politico tra la realtà e la sua rappresentazione.

Sono milanesi, italiane native e hanno già compiuto 45 anni le 250 donne che hanno risposto al questionario diffuso da Graziella Civenti con l’intento principale di «comprendere quali siano le risorse relazionali a cui il campione di donne intervistate può fare riferimento nella quotidianità e quale tipo di sostegno queste siano in grado di garantire».

Milano offre un osservatorio privilegiato perché qui, come in tutte le aree urbane, si anticipano modelli di

comportamento, e perché i mutamenti demografici avvenuti negli ultimi decenni si esprimono con evidenza qui più che in altre città italiane. A Milano il 52% dei nuclei familiari è costituito da una sola persona, la media italiana è del 31% (dato del 2011). A Milano ci si sposa meno e più tardi, si formano più frequentemente nuove coppie e più che altrove con partner stranieri, le unioni civili sono addirittura il doppio del valore nazionale e così le nascite fuori dal matrimonio e la natalità di coppie in cui la mamma o il papà è straniero.

Perché solo donne? È proprio nel mutamento della condizione femminile che si trova il motore delle trasformazioni della famiglia italiana negli ultimi 60 anni. Non a caso l’autrice si è trovata di fronte a due generazioni diverse, quella indicativamente tra i 45 e i 65 anni e quella che ne ha più di 65, con la differente collocazione generazionale rispetto allo spartiacque degli anni Settanta, in cui si è manifestata la crisi dei modelli familiari tradizionali.

Crisi e rinnovamento delle strutture sociali tradizionali che hanno portato allo scenario attuale, in cui ancora e sempre domina la “matrimoniomania” a dispetto del fatto che il matrimonio o la convivenza di lunga durata sia un evento sempre più raro. Forme di convivenza alternative alla coppia non si sono diffuse, almeno per ora. E così molte, moltissime donne si trovano a fare i conti con vantaggi e svantaggi della condizione di single, termine generico e impreciso per dire di una grande varietà di casi: la vedova, la divorziata, la nubile, chi ha un o una amante che vive altrove, chi non ne ha e non ne vuole, chi è madre e chi non lo è. L’autrice si muove attraverso le loro parole e nel costruire percorsi di senso attinge sia dalla sociologia che dalla letteratura.

Scopriamo così le molte facce del vivere sola. Tra queste, certo, la dimensione della solitudine, nella sua doppia valenza di pieno e vuoto, di gratificazione e di disagio. La dimensione dell’intimità, goduta o perduta. La dimensione della disponibilità, di sé a sé, a progetti, a una molteplicità di relazioni. E la dimensione del bisogno, che apre sul grande e dolente nodo del welfare: come dovrebbe cambiare la cura della non-autosufficienza nel nuovo e sconosciuto mondo della singolitudine? Come, e se, si sta muovendo la politica? Quali possibili soluzioni concrete?

Una casa tutta per sé. Indagine sulle donne che vivono da sole di Graziella Civenti, ed. Franco Angeli, 2015, 205p.; 26 euro.

(unionefemminile.it; 18 settembre 2015)

Il potere è rifiutato, in quanto slegato dai corpi, dai bisogni, dalle esperienze e luogo di alienazione delle soggettività e, con esso, viene rifiutata l’idea di un’uguaglianza tra i sessi

di Federica Castelli

Le lotte e le esperienze portate avanti dalle donne del movimento femminista sperimentano pienamente le caratteristiche del gesto di rivolta: fuori dal dispositivo simbolico della Sovranità, della cittadinanza e dell’istituzione della rappresentanza, il femminismo offre l’occasione per poter pensare quanto finora elaborato solo a livello teorico nel suo intreccio con l’esperienza. Va anche detto che i tumulti che popolano gli scenari politici attuali sperimentano pratiche e forme di lotta a cui il taglio femminista ha dato spazio, elementi di rottura e innovazione a cui le donne hanno dato corpo e voce: il partire da sé, dove il soggetto è inteso come corpo, esperienza, vissuto, relazioni, e lo spostamento rispetto al piano della presa del potere a vantaggio della costruzione di orizzonti simbolici e di pratiche alternativi.

 

Pubblichiamo un estratto da Corpi in rivolta (Mimesis, 2015)

 

Negli anni Settanta, numerose pratiche e riflessioni di donne hanno portato ad esperienze e a contesti in cui la contraddizione crescente tra rivolta e spirito di rivoluzione, ingabbiato nelle maglie della logica sovrana, del potere, e dei suoi corollari violenti, apodittici e ideologici, è divenuta oggetto di discussione e spostamento, inaugurando una vera e propria rivolta sessuata al cuore del concetto di rivoluzione. Gli scritti di Rivolta Femminile e le riflessioni di Carla Lonzi, così come tutta l’esperienza del femminismo in Italia, sono elementi essenziali ai fini di una esaustiva comprensione della rivolta nel suo esser altro dalla rivoluzione e dalle logiche del potere sovrano. Le pratiche di rivolta sessuata portate avanti dalle donne durante il femminismo degli anni ’70 portano alla rottura con un’intera tradizione simbolica di potere, sia fuoriuscendo dalla logica dell’Uno a garanzia del corpo politico, aprendo alla differenza e alla molteplicità, sia sottraendosi al procedimento dialettico che incastra il processo rivoluzionario nelle pesanti contraddizioni che abbiamo visto.

Il fatto che nella tradizione occidentale il femminile sia stato l’escluso del discorso, normato e riammesso nello pseudo-concetto di neutralità universale, offre l’occasione di uno spostamento: da sempre esclusa dalla narrazione del patto sociale, l’esperienza politica delle donne diviene il luogo per poter pensare la rivolta fuoriuscendo, attraverso il rifiuto delle pratiche politiche tradizionali e neutralizzanti, dalle contraddizioni che inficiano l’atto rivoluzionario. L’irruzione della donna scompagina il discorso del potere e sposta i termini del conflitto altrove, in altre pratiche, in altre narrazioni, che nascono dal sé e dalla politica delle relazioni, dell’agire di concerto e dello spazio politico condiviso, anche quando è conflittuale. Il femminismo, soprattutto quello italiano, ha rimesso in discussione i termini del simbolico politico tradizionale nel suo porsi rivoluzionario e violento, in un gesto di schivata che ricorda quello di Pentesilea, regina delle Amazzoni, figlia di Ares, che spostandosi rispetto al piano della violenza maschile e della mera riproposizione di un modello di scontro politico frontale, non obbedisce agli ordini di Priamo e ripensa la forza e il conflitto a partire dal proprio essere donna, inaugurando così un nuovo modo di porre lo scontro. Fuoriuscendo dalla logica dello scontro binario, che sembra contraddistinguere il Politico fin dalle sue origini, le donne, come Pentesilea, si sottraggono all’opposizione frontale con il potere; aprono nuovi spazi e nuove pratiche percorrendo i bordi del discorso sovrano; si muovono sui confini, in posizione decentrata, lontane dal rischio di lasciarsi assorbire dalle istituzioni costituite. Come Pentesilea, le donne del femminismo hanno dislocato i termini del conflitto, rompendo tutti i codici dello scontro frontale tradizionale che caratterizza la logica dicotomica della rivoluzione come scontro fra poteri. Fuori dalla logica del potere, della sovranità statuale, il femminismo intacca anche le regole della lotta contro il potere già costituito.

 

Il posizionamento sessuato apre alle donne la possibilità di fuoriuscire dai canali tradizionali della presa di parola in politica, che prevede per le donne l’emancipazione come declinazione di un canone neutro (maschile), che sommerge il differenziale di esperienza, sapere e pensiero che la differenza sessuale porta sulla scena. Il potere è rifiutato, in quanto slegato dai corpi, dai bisogni, dalle esperienze e luogo di alienazione delle soggettività e, con esso, viene rifiutata l’idea di un’uguaglianza tra i sessi. Il Politico, si è visto, esclude e reintegra il femminile normandolo secondo dei canoni già dati, corrispondenti ad una autorappresentazione del corpo politico come spazio neutro e omogeneo, razionale e non conflittuale. Tale narrazione chiude il femminile nel già detto, nel già previsto della politica, ed è funzionale alle gerarchie e alle tassonomie sociali su cui la società si struttura. In un contesto simile la presa di parola delle donne, lungi dall’essere momento di maggiore libertà, non fa che rafforzare la realtà preesistente. L’ideologia dell’uguaglianza è rifiutata e smascherata nei suoi esiti omologanti, violenti, politicamente improduttivi. Fare vuoto, operare tagli, discontinuità e reiterate rotture: ciò che distingue le donne degli anni Settanta dal femminismo dell’emancipazione e dei diritti è proprio il togliersi da una posizione già attribuita, sottraendosi a valori e misure eteronomi partendo da sé, dal proprio corpo, dalla propria esperienza, per elaborare una pratica politica radicata nelle vite e che tiene conto della differenza sessuale.

Una politica che è radicalmente altro rispetto al potere che invece, crescendo ed espandendosi, tende a sradicarsi dai corpi, passando sopra le singolarità e le differenze, imponendo il proprio registro narrativo e la sua nuda logica. Contro tale unificazione, il femminismo pensa la pluralità dei poteri e delle pratiche del partire da sé. Il femminismo opera questi spostamenti giocando sulla propria asimmetria rispetto al Politico. Non vi è scontro con il potere, dal momento che non vi è confronto. Il femminismo non si pone come alternativa politica antagonista al sistema già dato, ma come ordine altro rispetto al simbolico politico tradizionale. Le logiche della Sovranità vengono messe in discussione alla radice e con esse l’idea che personale e politico, pubblico e privato siano distinzioni di riferimento; esse sono invece distinzioni eteronome e imposte dalla forza di legge, che producono legge a loro volta.

 

La differenza sessuale è un posizionamento qualitativo non rappresentabile attraverso i modi classici della democrazia

 

Per le donne del movimento femminista dire che il personale è politico non significa ridurre tutto al discorso politico, né che tutto è politica; significa, però, che ogni aspetto dell’esistenza può diventarlo. La divisione classica tra pubblico e privato non aderisce all’effettiva esperienza che una donna fa della realtà, in cui cultura, relazioni, lavoro, tutto è intriso di politicità ed è stato politicamente normato. Il corpo sessuato viene riportato nella polis, rendendo l’esperienza del femminismo inedita rispetto a tutte le rivoluzioni precedenti. Legato alle soggettività incarnate, il femminismo porta sulla scena il senso politico del corpo, sia come luogo di potere – poiché da sempre il corpo femminile è stato il luogo di applicazione di tassonomie e dispositivi di potere – sia come punto di leva per scardinare le logiche di potere astratte, ideologiche e fallologocentriche nelle loro accezioni più pervasive.

Cade l’idea che la politica si riduca esclusivamente a ciò che avviene all’interno e per mezzo delle istituzioni e viene meno l’idea della necessità di una rappresentanza femminile: le donne, infatti, non sono un gruppo sociale omogeneo e compatto come altre realtà socialmente oppresse; le donne hanno posizionamenti differenti, progetti individuali e collettivi diversi, laddove non dichiaratamente in contrasto. La differenza sessuale è un posizionamento qualitativo non rappresentabile attraverso i modi classici della democrazia, quantitativi, numerici. La politica delle donne è una politica che si costruisce nelle pratiche di ogni donna assieme alle altre donne, giorno per giorno; non può darsi una volta per tutte. Per questo, il femminismo non può cristallizzarsi in idee, punti, ideologie già date.

 

Rifiuto di chiudersi in un organismo e di sottomettersi ad un linguaggio unico; impianto antiautoritario, libertario, incentrato sul corpo, sull’esperienza di ogni singola: chiudersi in forme organizzative tradizionali è impossibile. Anziché formalizzarsi in un’organizzazione data, con richieste e obiettivi specifici, la politica sessuata si basa su pratiche radicate nella concretezza dei soggetti. La rivolta femminista è dunque un movimento che si pone sul piano del simbolico e delle pratiche di vita che a questo si legano.

Il continuo radicamento a sé e al pensiero dell’esperienza rende il movimento femminista più radicale rispetto al movimento antiautoritario del 1968, cui pure si avvicina per alcuni punti, come la lotta per la partecipazione e la democrazia diretta e il rifiuto della delega politica. Alcuni dei primi gruppi femministi nascono in Italia proprio nel contesto delle occupazioni e del movimento studentesco che però, per quanto antiautoritario e in lotta contro lo sfruttamento e l’alienazione, misconosce la forma prima e più antica di ogni rapporto di potere, quella dell’uomo sulla donna, e non tiene in considerazione l’alienazione profonda che il dispositivo di identificazione di donna, corporeità, funzione riproduttiva e oíkos – di contro all’associazione uomo-razionalità-libertà-politica – mette in atto. La rottura portata avanti dal femminismo in Italia durante gli anni Settanta, non solo pone il rifiuto del potere costituito e delle istituzioni governative tradizionali ma, scagliandosi contro l’intero simbolico politico neutralizzante e patriarcale, entra in collisione con gli stessi gruppi politici rivoluzionari.

Nell’iniziale slancio antiautoritario del movimento studentesco le donne sanno intuire gli esiti più burocraticizzati e alienanti della settarizzazione che aspetta il movimento: la nascita dei partiti marxisti-leninisti e la riproduzione all’interno dell’organizzazione degli stessi meccanismi di dominio e passività, così come la ricerca di un leader, che riconducono ai vecchi schemi e ai vecchi giochi di potere. Ponendosi come soggetti radicati, incarnati e legati alle pratiche di relazione politica, le donne entrano in netto ed immediato contrasto con la logica dell’organizzazione partitica e movimentista tradizionale e si pongono in rotta di collisione con l’idea stessa di rivoluzione; in virtù delle loro pratiche e del loro posizionamento, esprimono una forte critica al “rivoluzionario” a partire dal suo stesso bagaglio teorico e ideologico.

 

La logica rivoluzionaria, incentrata sulla dialettica servo-padrone, è per le donne muta ed alienante Le donne rifiutano la rivoluzione ipotetica del marxismo, che le ha vendute e sacrificate al domani, riconoscendo come ogni rivoluzione popolare, in cui la donna combatte a fianco degli uomini, si concluda infine con una messa da parte delle donne e un ripristino camuffato delle vecchie gerarchie e tassonomie sociali. «Permetteremo quello che di continuo si ripete al termine di ogni rivoluzione popolare quando la donna, che ha combattuto insieme con gli altri, si trova messa da parte con tutti i suoi problemi?». Il movimento femminista denuncia le contraddizioni che l’azione rivoluzionaria porta con sé. La lotta di classe esclude la donna, come molte altre teorie rivoluzionarie che, mirando alla presa di potere, non possono agire sul piano della liberazione delle donne.

L’ombra in cui le donne vengono relegate dalla rivoluzione non segna semplicemente un limite che rende mute e inefficaci le politiche dei partiti e i processi rivoluzionari tradizionali, ma riflette una più generale inadeguatezza della politica istituzionale nei confronti della complessità dell’esperienza. Il femminismo mantiene la radicalità dell’asimmetria tra i sessi, rifiutando il neutro e la sintesi dialettica; mantiene la centralità dell’esperienza e il partire da sé contro la stessa militanza, che in linea con il politico tradizionale, sposta il proprio oggetto fuori di sé, su un soggetto a venire, un’idea da inverare. Viene messa in discussione la tensione progettuale del rivoluzionario che, spostando in un lontano futuro gli esiti del proprio agire, finisce per schiacciare i corpi e le esistenze che ne abitano il presente. Non vi è un fine dato verso cui orientarsi, né un un futuro in virtù del quale sacrificarsi: vi sono i corpi, di ognuna, di ognuno, e le relazioni politiche che costruiscono alleanze, conflitti, orizzonte politico.

 

La politica è creare un senso nuovo della realtà

 

Occorre premunirsi contro le derive ideologiche, rifiutando il cristallizzarsi di pratiche, le personalità di riferimento, così come l’idea di una identità collettiva. Le donne del femminismo rifiutano la solidarietà ideologica per preservare come distinta ogni singola coscienza e si sottraggono al ricatto implicito alla pretesa di unità, che mitizza anziché demitizzare. Si cerca l’autenticità del gesto di rivolta, del taglio e della cesura, senza sacrificio all’organizzazione e all’Idea. Così, il femminismo intraprende un percorso di liberazione senza modalità fisse che viene definito dalle stesse donne come non scontato, non uniforme, non edificante, non rivoluzionario.

Quello che viene messo in campo nel “tra donne” del femminismo, è qualcosa che va oltre e non rappresenta la versione “di genere” della dialettica rivoluzionaria, piuttosto il suo scompaginamento. Rifiutando la scissione tra mezzi e fini, il femminismo si centra sulle pratiche e sulle relazioni politiche, allontanandosi in modo netto dalle contraddizioni che la dialettica rivoluzionaria incontra sul proprio cammino.

La politica è creare un senso nuovo della realtà, creazione di simbolico: lontano dai modi tradizionali della mobilitazione generale e dell’assemblea, il femminismo pone al centro il soggetto incarnato, colto nel suo essere innanzi tutto sessuato, complicando così col desiderio la pretesa di razionalità che il Politico da sempre si attribuisce. In questo spostamento radicale, uno dei momenti fondamentali è stato quello della pratica separatista: sottraendosi all’idea di un rapporto dialettico tra i sessi, rifiutata rivendicando un altro piano di pensiero e di esperienza, si è creato uno spazio politico e di relazione tra donne, in base alla necessità di ripensare e regolare i propri rapporti in assenza del maschile e della tradizione che esso porta con sé, elaborando delle mediazioni femminili che il sistema dei rapporti sociali tradizionale non dispone.

 

La parola, legata ai corpi e alle esperienze diviene pilastro di quel movimento che caratterizza la pratica politica delle donne

 

La pratica del separatismo femminista, non porta con sé l’idea di una spartizione del mondo, di un’incomunicabilità tra i sessi o una chiusura del femminismo ai rapporti con gli uomini. L’idea di parzialità, infatti, richiama quella della complementarietà, che il femminismo rifiuta. Il separatismo fu per le donne l’occasione di una messa a tema della propria libertà, facendo leva sulle contraddizioni della società, che ognuna viveva in sé senza che ne fosse nominata la valenza politica Contro la politica dell’organizzazione e del proselitismo, le donne avviano la pratica delle riunioni in piccoli gruppi. Il gruppo di autocoscienza diviene l’unità di misura elementare, in cui le donne possono operare una centratura sulla propria esperienza e sulle contraddizioni che vivono individualmente e collettivamente all’interno della società. Punto di partenza: la consapevolezza che la mancanza di comunicazione tra donne nel contesto contemporaneo non è imputabile a difficoltà personali nell’interazione con l’altra, ma ha una radice culturale nei modelli eteronomi che da sempre gravano sulla soggettività femminile.

La parola, legata ai corpi, alle esperienze e alla materialità delle esistenze in gioco, diviene pilastro di quel movimento tra dentro e fuori, interiorità e mondanità che caratterizza la pratica politica delle donne. Partire da sé non è raccontare un vissuto, ma definirsi in un contesto; così l’autocoscienza non è un ripiegarsi su se stesse, sulla propria esperienza individuale o di piccolo gruppo, ma è un movimento ininterrotto che porta ognuna a partire da sé per poi separarsene e andare altrove. Non conduce a nessuna verità ultima, univoca, apodittica; la verità del partire da sé nasce dalla contingenza e ad essa si lega, mostrandola in modo sapiente e consapevole. Il femminismo porta avanti in modo sessuato quel taglio radicale che la rivolta disegna, marcando decisamente la propria distanza dall’esperienza rivoluzionaria e dalle sue contraddizioni e ambivalenze. È pura esperienza dello slancio di rivolta che non paga il prezzo dell’immissione nel percorso storico e si mantiene fuori dalla logica del potere, delle istituzioni, del partito e dell’Idea, senza per questo perdersi nel dissipamento delle forze e del desiderio.

Questo è possibile grazie allo spostamento rispetto al simbolico politico tradizionale e alla centratura sulle pratiche relazionali in cui la soggettività è mantenuta viva, radicata al proprio essere, alla propria esperienza, in relazioni politiche radicate e vissute. Autenticità, condizioni materiali e personali, produzione delle condizioni della propria esperienza sono il modo in cui le donne del femminismo allontanano l’ideologia, la gerarchia, la sclerotizzazione dell’organizzazione.

 

(www.che-fare.com, 16/09/2015)

Festivaletteratura di Mantova. Jana Simon, nipote di Christa Wolf e oggi brillante giornalista, presenta il suo libro nato dalle conversazioni, ad alta densità politica e letteraria, con i suoi due nonni molto speciali

 

di Alessandra Pigliaru

 

«Cara Jana, questo regalo di Natale è forse un po’ egoista. Ma penso che tu sia (quasi) cresciuta e da tempo avresti dovuto prendere confidenza con la mia scrittura». È il 1988 e una ragazzina di sedici anni riceve in dono undici volumi, tra romanzi e rac­conti. Insieme al diso­rien­ta­mento provato all’epoca per la mole delle letture che la attendevano, in quel sug­ge­ri­mento severo e affettuoso vi era il pri­vi­le­gio di avere una nonna d’eccezione: Christa Wolf.

Jana Simon oggi è una giornalista brillante, col­la­bora dal 2004 con il settimanale Die Zeit, è autrice di numerose inchie­ste, repor­tage e inter­vi­ste, scrive libri ma, soprattutto, in questi anni non ha mai smesso di stare in rela­zione con Christa e Gerhard Wolf.

Un legame cer­ta­mente faci­li­tato da ragioni familiari ma anche dal costante scambio tra loro. «Lei e mio nonno hanno sempre seguito la mia for­ma­zione, abbiamo discusso molto di poli­tica, let­te­ra­tura, scrittura. Mi manca ancora oggi soprattutto il dialogo con lei».

Quest’anno c’è anche Jana Simon al Festi­va­let­te­ra­tura di Mantova, partecipa al focus dedicato a Christa Wolf. Pensato da Annarosa Buttarelli con la pre­senza fon­da­men­tale di Anita Raja, tra­dut­trice ita­liana e amica di Wolf, Anna Chiarloni, tra le mas­sime auto­rità ita­liane in ger­ma­ni­stica, e e letture dell’attrice Anna Bonaiuto. L’occasione è for­nita da due recenti tra­du­zioni inedite della scrit­trice tede­sca, Parla, così ti vediamo (recensito su questo giornale il 25/3/2015) ed Epi­taf­fio per i vivi. La fuga (recen­sito il 30/04/2015), entrambe edite da e/o.

Quando Jana Simon si rende conto di non avere stru­menti adeguati per codi­fi­care lo stra­vol­gi­mento poli­tico e culturale che, alla fine degli anni Ottanta, inve­ste la Ger­ma­nia, comincia dun­que a riflet­tere sull’importanza di domandare a chi, per scelte let­te­ra­rie ma soprattutto politi­che, quel tumulto prima e quel pas­sag­gio sto­rico poi, ha avuto il coraggio di metterlo in parola. Così, ulti­mati gli studi tra Lon­dra e Ber­lino, dal 1998 – men­tre già lavo­rava presso la reda­zione del quo­ti­diano Tagesspiegel – comin­cia a incon­trare siste­ma­ti­ca­mente Christa e Gerhard Wolf. Ini­ziano dieci anni den­sis­simi, colmi di col­lo­qui su temi tra i più diversi, dall’amicizia all’amore, dal nazio­nal­so­cia­li­smo alla vita nella Ddr e nella Ger­ma­nia dopo la caduta del Muro.

È in que­sto modo che prende forma il volume Sei dennoch unverzagt (Ullstein, 2013), in cui Jana Simon ha rac­colto e ordinato cinque lunghe con­ver­sa­zioni intrattenute con i nonni dal 1998 al 2012. Le prime quat­tro fino al mag­gio del 2008 e l’ultima nel 2012 – quindi solo con Gerhard Wolf, un anno dopo la morte della sua ado­rata moglie.

 

Il titolo scelto è un verso del poeta tede­sco Paul Fleming che non a caso esorta a rima­nere impa­vidi. «Sono stati molti i momenti in cui hanno dimo­strato auda­cia e coraggio», sot­to­li­nea Jana Simon che risponde a qual­che nostra domanda. «Per esem­pio penso all’undicesimo Plenum del comi­tato cen­trale della Sed nel dicem­bre 1965. In quell’occasione, che viene ricor­data come il Plenum-del-Disboscamento, mia nonna è stata l’unica a intervenire con forza con­tro la linea ostile verso l’arte pro­po­sta dall’apparato buro­cra­tico del par­tito. Per lei era irri­ce­vi­bile la messa al bando di film e del lavoro di molto scrit­tori e intellettuali».

Nel frat­tempo i libri della nonna li aveva letti tutti, certo, ma senza cono­scerne pro­fon­da­mente i con­flitti, le lotte, ciò che aveva con­trad­di­stinto l’esistenza di chi l’aveva pre­ce­duta. In quel momento Jana Simon, ven­ti­seienne, ha pen­sato che se un giorno avesse avuto un figlio avrebbe desi­de­rato par­lar­gli della pro­pria pro­ve­nienza.

I temi trattati nel volume Sei dennoch unverzagt sono molti, alcuni più controversi di altri. Cominciano dall’infanzia sotto la guerra, la vita di un tempo scuro e inizialmente indecifrabile, «sicu­ra­mente tutto ciò non è stato vano. Come non può essere vano affinare contemporaneamente lo sguardo su ciò che chiamiamo presente».

È tuttavia il ruolo della politica che innerva tutte le con­ver­sa­zioni. La vita nella Ddr, l’ingresso nel par­tito comu­ni­sta, l’entusiasmo di sentirsi parte di un progetto anti-fascista e di giustizia sociale.

Poli­tica, amore e sodalizi irri­pe­ti­bili, così come l’incontro tra Christa e Gerhard Wolf, poco più che ventenni, la prima gra­vi­danza e la nascita nel 1952 della prima figlia Annette, madre di Jana. Sembra quasi di sentirla ancora quella irrequietudine anche se a rife­rirne sono due set­tan­tenni che a Woserin in un pomeriggio asso­lato rian­no­dano i fili di un’unione spe­ciale per rac­con­tarli alla propria nipote.

È la seconda con­ver­sa­zione, seguita da una lunga pausa. Solo nel 2008 si sono svolti e inten­si­fi­cati gli ulteriori col­lo­qui, tutti docu­menti storico-politici che percorrono l’arco di più di quarant’anni di storia tedesca ed europea.

La gene­ra­zione di cui fa parte Simon è stata definita da Christa e Gerhard «non politica». È lei stessa ad ammetterlo. «Credo che per un lungo periodo di tempo questo sia stato vero nel senso della man­canza di atti­vi­smo come lo hanno sem­pre inter­pre­tato loro, in questa totale aderenza tra vita, affetti, scelte cul­tu­rali e poli­ti­che. Anche su que­sto aspetto però mi hanno insegnato molto: lo sce­na­rio attuale è talmente com­plesso e ingar­bu­gliato che non si può non avere uno sguardo politico, bisogna cercare di capire. E agire. Ora ho una bambina di sette anni, Nora. Questo libro l’ho imma­gi­nato anche per lei».

Ricette condite di ricordi in un volume nato nelle cucine della Libreria delle donne di Milano

di Nicoletta Melone

Antipasto: Virginia Woolf. «Non si può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si è cenato bene». Con un dubbio di contorno. E se quella famosa «stanza tutta per sé» fosse una cucina? Magari assediata da un’ondata di chef vagamente maschilisti, sicuramente narcisisti, affamati di gloria e di potere? Una domanda che si spande, insinuante come il profumo di una torta sotto una porta, dalle pagine di un ricettario esile e colto, sfornato dalla Libreria delle donne di Milano: Fuochi – La cucina di Estia. Il nome della dea greca del focolare. Ma anche di un gruppo di inedite cuoche – sì, ma non soltanto – impegnate a nutrire «sia il corpo sia la tradizione del pensiero femminile» nella cucina del Circolo della Rosa, appendice cultural-gastronomica della libreria. Un luogo simbolo che affonda le radici negli anni Settanta della Milano in piazza con gli zoccoli. Tra slogan, impegno e sorellanza. «Il salotto più comodo del femminismo più scomodo». Ma il cammino è stato lungo. Accomodatevi ragazze che mangiamo qualcosa. Lo firmano, collettivamente come in altri tempi, con la sigla «cuoche varie», sei donne variamente impegnate, diverse q.b., ma comunque unite in un protettivo cerchio magico intorno al profilo di un piatto, di un tegame che ribolle. Da Rossella Bertolazzi a Ottavia Colabella, da Ida Farè a Clelia Pallotta e Annamaria Rigoni. Signore e storie assai assortite tenute insieme dal collante di un’impresa – politica e gastronomica – che non ha paura delle facili etichette, ugualmente distante dagli angeli del ciclostile e da quelli del focolare. Una passione comune, srotolata tra ricette e aneddoti, con divertita misura. Capace di avvolgere, dolce e consolatoria, il dolore di una madre che perde un figlio («Ho creduto – scrive Ida Farè – che il calore dei fuochi potesse sciogliere un poco il gelo dell’anima»). E impastata, sempre, di amicizie «nutrienti e nutrite senza secondi fini», come racconta Clelia Pallotta tra un patè e un bianco mangiare. Un gran fare, uno «strano sentire» buono per l’anima. Fresco come l’eco di un gruppo di giovani in costume che ride e giura, su uno scoglio, la bocca piena di focaccia: «Diventeremo grasse e intelligenti». Profumo di grandi promesse nell’aria, sullo sfondo il fumo – di sigarette e di tegami – di una combattiva cucina autogestita che soffrigge sogni in un sottoscala. «Dalle braci alle padelle». E pazienza se poi la vita cambia menu senza avvisarti.

(Corriere della sera, 11/9/2015)

di Graziella Pulce

Fitto di intrecci ina­spet­tati e di colpi di scena, il quinto romanzo che Iris Mur­doch pub­blicò nel 1961 e dal quale trasse una pièce tea­trale nel ’64, esce in una nuova tra­du­zione (di Gioia Guer­zoni, a cura di Cri­stina Tizian, Il Sag­gia­tore, pp. 251, euro 19,00). Una testa tagliata è una sto­ria poli­cen­trica che si sot­trae a inter­pre­ta­zioni uni­vo­che e sem­pli­fi­ca­trici ed esige una let­tura cir­co­stan­ziata, lungo le tra­iet­to­rie impre­ve­di­bili dei per­so­naggi asse­diati dalla neb­bia di Lon­dra. Pro­ta­go­ni­sta Mar­tin, qua­ran­tenne com­mer­ciante di vino, spo­sato con Anto­nia che tra­di­sce con la gio­va­nis­sima Georgie.

Quando Anto­nia gli annun­cia la sua rela­zione con Pal­mer, il suo psi­coa­na­li­sta e grande amico di Mar­tin, l’uomo vede crol­lare in un attimo quel mondo ordi­nato che cre­deva di poter tenere sal­da­mente sotto con­trollo. Altre rive­la­zioni segui­ranno e i sette per­so­naggi (tre uomini e quat­tro donne) che com­pa­iono nel romanzo saranno coin­volti in un suc­ce­dersi di muta­menti repen­tini quanto immo­ti­vati. Cia­scuno muta aspetto, dire­zione, volontà come se un dio potente, cui nes­suna forma può essere pre­clusa, sce­gliesse gli esseri umani e li gestisse a pro­prio pia­ci­mento come marionette.

La vicenda prende ini­zio dalla deci­sione di Anto­nia di rom­pere con il marito, e una delle chiavi del romanzo può tro­varsi nel gioco delle cop­pie che si for­mano e si scom­pon­gono con­ti­nua­mente sotto i nostri occhi. Molto rilievo è stato dato alla figura enig­ma­tica e sini­stra di Honor, sorella di Pal­mer, che incombe come una divi­nità capace di rimet­tere in moto ogni situa­zione. Ma Honor, con il suo auto­con­trollo e la sua con­sa­pe­vo­lezza, è sem­pli­ce­mente la figura anti­po­dale di Mar­tin, che narra in prima per­sona e fil­tra dun­que l’insieme degli eventi dalla sua pro­spet­tiva, così che il let­tore crede di cono­scerne pen­sieri, esi­ta­zioni e gesti. È un essere moral­mente flut­tuante, immerso in una sorta di neb­bia che non è solo quella tipica della metro­poli lon­di­nese, ma che si eleva a ele­mento sim­bo­lico della inca­pa­cità di vedere e di com­pren­dere. Mar­tin non rie­sce a impa­rare dall’esperienza. Di Honor non si sa nulla se non che ha tratti ebraici e mani­fe­sta la durezza di un angelo ven­di­ca­tore, un angelo prov­vi­sto di spada. Quando lei com­pare qual­cosa di irre­pa­ra­bile sem­pre accade.

Una testa tagliata è una com­me­dia che sfiora con disin­vol­tura temi clas­sici: l’amore, l’amicizia, la lealtà, la libertà, temi tut­ta­via attra­ver­sati in maniera del tutto irri­flessa dalla mag­gior parte dei per­so­naggi, segnati da un’evidente imma­tu­rità. «L’amore è la capa­cità di cogliere l’individuale. Amore signi­fica com­pren­dere», ha scritto Iris Mur­doch in uno dei suoi saggi. Ele­mento cru­ciale nella nar­ra­tiva e nella filo­so­fia dell’autrice, l’amore è infatti la con­di­zione che con­sente di uscire da sé, l’unica che per­mette di pren­dere coscienza di ciò che non è io e di instau­rare con que­sta realtà esterna una rela­zione pro­dut­tiva. Amore e cono­scenza, eros e sapienza non risul­tano mai tanto pros­simi come in Iris Mur­doch, che ha scritto di sé: «Sono oscura a me stessa, non coin­cido con la mia vita», e ha dedi­cato la pro­pria opera filo­so­fica e nar­ra­tiva allo spa­zio che inter­corre tra l’accidentalità dell’esistenza, gover­nata da strut­ture dure come divi­nità pagane, e la pie­nezza della vita e delle sue innu­me­re­voli potenzialità.

Eppure que­sta è una com­me­dia: si sus­se­guono sco­perte e colpi di scena che disat­ten­dono ogni aspet­ta­tiva, si cam­bia casa o part­ner con leg­ge­rezza e faci­lità, gli amanti ven­gono abban­do­nati quando si riten­gono all’apice della loro for­tuna, si sco­prono verità amare, ma nulla di dram­ma­tico accade, per­ché ognuno viene subito assor­bito nel gioco di sedu­zione e di potere di un altro per­so­nag­gio. Il vento delle pas­sioni sof­fia dove vuole senza discer­ni­mento, e ben pre­sto tutto diventa comico per­ché nulla ha mag­giore durata di una sbronza o di un sogno. Joyce Carol Oates ha osser­vato che con la sua sequenza di delu­sioni e i suoi per­so­naggi pastic­cioni, la cosmo­lo­gia di Iris Mur­doch pre­senta una vita dopo tutto comica, per nulla tra­gica. Anche Una testa tagliata con­ferma che l’esistenza è nient’altro che una somma di pen­sieri e di atti ridi­coli. «Non riu­scivo ad imma­gi­nare che esi­stesse un essere onni­po­tente e sen­ziente tanto cru­dele da aver creato il mondo in cui viviamo», riflette Mar­tin che infatti si aggira senza meta in una realtà priva di fon­da­menti morali. Quando si trova alle strette sa solo vagheg­giare il ritorno agli amati studi sto­rici su Wal­len­stein e Gustavo di Sve­zia, e que­sto par­ti­co­lare costi­tui­sce un indi­zio signi­fi­ca­tivo, per un verso comico vista la debo­lezza e la pochezza di Mar­tin, per l’altro verso sim­bo­lico: per­ché allude alla vio­lenza e agli intri­ghi delle bat­ta­glie che hanno luogo tra i per­so­naggi del romanzo.

«La nostra imma­gi­na­zione è imme­dia­ta­mente e con­ti­nua­mente al lavoro sulla nostra espe­rienza»: la nota risale al ’47 e aiuta a con­si­de­rare con mag­giore atten­zione il sor­pren­dente titolo del romanzo, che si rife­ri­sce alle teste che Ale­xan­der, lo scul­tore fra­tello di Mar­tin, rea­lizza pren­dendo come modelli fami­liari e amici. Di lui non cono­sciamo molto ma sap­piamo che ottiene quello che vuole senza sforzi e le sue ‘teste’ rive­lano la loro natura di ele­mento arcaico del potere. Masche­rato dalle regole della civiltà, il pri­mi­tivo agi­sce fino ad oggi e l’artista come un guer­riero esi­bi­sce ciò che ha con­qui­stato: in que­sto caso, una donna. Seb­bene l’autrice pre­senti il per­so­nag­gio dello scul­tore in una posi­zione defi­lata, pro­prio su di lui potrebbe con­ver­gere l’insieme delle sto­rie, per­ché Ale­xan­der si rivela ben capace di muo­vere fili invi­si­bili per far cadere la preda nella sua rete: un tema pros­simo a quello dell’Incantatore.

Le sto­rie di Iris Mur­doch si sot­trag­gono a una siste­ma­tiz­za­zione ulti­ma­tiva e anche que­sta resta di fatto incom­pleta e in gran parte inspie­gata, a dimo­stra­zione del fatto che la cono­scenza razio­nale non arriva mai a cogliere per intero gli acca­di­menti della vita. Filo­so­fia e let­te­ra­tura ten­dono alla con­qui­sta della verità, che passa sem­pre attra­verso il tes­suto dell’esperienza, ele­mento deci­sivo su cui ha richia­mato l’attenzione Luisa Muraro, quando – ana­liz­zando gli scritti filo­so­fici di Iris Mur­doch – ha dimo­strato come per lei l’esperienza resti cen­trale e diventi auten­tica quando arriva a inve­stire il piano sim­bo­lico e dun­que ad acco­gliere l’impensato. Non pos­siamo infatti tra­scu­rare il fatto che i due per­so­naggi cui spetta un ruolo cru­ciale, Honor e Ale­xan­der, sono gli unici a esi­bire il frutto della loro espe­rienza, e del loro potere, con­cen­tran­dolo in un oggetto: la spada giap­po­nese che Honor maneg­gia con peri­zia davanti a Mar­tin, e la testa tagliata scol­pita da Ale­xan­der: tra­mite que­sti due oggetti il let­tore saprà che chi li pos­siede non ha vis­suto invano e nel cuore della vita ha ripor­tato un segno tan­gi­bile di vittoria.

Nell’ultima pagina del romanzo Honor evoca la sto­ria di Can­daule e Gige, rife­rita da Ero­doto, miste­riosa e tru­cu­lenta nella spro­por­zione tra l’errore – mostrare la nudità della pro­pria moglie a un estra­neo – e le sue con­se­guenze, che sono la morte di Can­daule e la con­qui­sta di un regno da parte di Gige. Tanto alta dun­que la posta in gioco della sfida lan­ciata da Honor a Mar­tin, a con­ferma del fatto che un’esperienza cru­ciale può com­por­tare vio­lenze non ripa­ra­bili e, insieme, acqui­si­zione e possesso. Solidarność

 

(Alias – il manifesto, 6/9/2015)

di Marina Terragni

 

La cucina per le donne è stata luogo di detenzione –in certi posti del mondo lo è ancora- e ad un tempo luogo di relazione e di creazione (quanti uomini hanno raccontato di se stessi bambini nascosti sotto il tavolo a spiare il segreto del mondo altro delle donne).
In Toscana si dice crudelmente “donna da acquaio” per indicare quella prigionia. Ma la sapienza delle cuciniere -economia, buon uso delle risorse, amore, bellezza, salute- portata fuori di lì saprebbe riaggiustare le cose storte del mondo.
“Fuochi- La cucina di Estia”, scritto da Cuoche Varie e pubblicato dalla Libreria delle Donne di Milano, racconta il cucinare come gesto politico praticato in un luogo (la Libreria) di libertà femminile.
Si comincia un bel po’ di anni fa, per fermarsi a cena dopo una riunione e un dibattito e scivolare in una convivialità felice, fatta di buon cibo e buone conversazioni. Nel nome di Estia, piccola dea dimenticata: l’emancipazione le ha sempre preferito Atena, messa al mondo direttamente dal padre saltando la genealogia femminile.
Nei resoconti di Ida, Stefania, Clelia, Rossella e delle altre che si alternano nella cucina-backstage-antro alchemico della Libreria, i racconti di vita non si separano dall’intento politico e dal dono di ricette antiche, eredità di madri e zie (amatriciana comme il faut) o innovative (Bliny con salmone marinato all’aneto e panna acida).
Sempre attente alle indicazioni di Estia, spesso ignorate dagli chef-star: avere cura, “stabilire relazioni e risolvere conflitti”, saper rimediare e trovare la misura, “lotta tra il troppo e il troppo poco che in cucina si esprime con il misterioso q.b.”.

(Io donna, 29/8/2015)

di Leonetta Bentivoglio

Con generoso narcisismo, la scrittrice belga Amélie Nothomb ama narrare tutto di sé. Eppure sembra che occulti più o meno tutto. Nei suoi vendutissimi romanzi, che ogni anno in Francia volano ai vertici delle classifiche ( tra un paio di settimane uscirà il prossimo, “Le crime du comte Neville”, atteso in Italia a fine febbraio, ed edito come gli altri da Voland), non smette mai di esporre lembi della propria vita.

I suoi numerosi fan conoscono sua madre (che nella realtà si chiama Danièle Scheyven, ed è moglie del barone Patrick Nothomb), la sua ossessione per il corpo (sensibilità dolorante, edonismo iperbolico, reiterati autolesionismi), il suo culto del Giappone (sfrenatamente disegnato in Stupori e tremori e in Metafisica dei tubi ) e le sue varie manie (l’esigenza di scrivere ogni giorno all’alba e a digiuno, il tè nero fortissimo che beve mentre lavora, gli assurdi e imponenti cappelli, i look neri da star del pop o della moda grunge, le esibizioni solipsistiche da  nerd di successo).

Letteratura ed esistenza, per Amélie Nothomb, paiono correre sul medesimo binario. Malgrado ciò ha una volatilità che la rende inaccessibile. È come se, nel suo perenne denudarsi (inAntichrista le due protagoniste, che compongono una sorta di Amélie sdoppiata, lo facevano con ostinazione davanti allo specchio), stimolasse il lettore a osservare la superficie per non mostrargli il fondo. Nelle sue storie nitide e feroci, talvolta surreali, spesso sanguinose, inaspettatamente esilaranti, tende a non dargli l’anima. Comunica inafferrabilità e leggerezza. Gioca le proprie carte nella distanza tra la persona vera e il suo personaggio di scrivente.

Anche quest’intervista sulla madre, figura dominante nei suoi racconti, si svolge all’insegna di un andamento impalpabile. Amélie accetta di parlarne per lettera, e dopo aver ricevuto le domande manda le risposte scritte a mano. La calligrafia è inviolabile e ben curata, con delle sinuosità di parvenza quasi ideogrammatica. Le frasi sono corte ed essenziali, e le sviluppa a partire da una premessa: “Non ho vaste teorie sul tema, ma sono sicura che essere amati o no dalla propria madre sia il fattore più determinante di ogni destino. Dalla mia mi sono sempre sentita amata: posso dire di essere nata con questo privilegio, sfociato in una fame d’amore ancora più grande, che mi ha fatto diventare ciò che sono”.

C’è quindi un rapporto esplicito tra sua madre e il suo estro letterario?
“Mi sono innamorata di mia madre quando lei mi portava nella pancia. A nove anni, di fronte alla mia eccessiva richiesta d’amore, mi ha detto: “Seducimi”. E io, per farlo, sono diventata una scrittrice. L’operazione ha funzionato. Mia madre è una donna di bellezza sovrana, e lo sa. Oltre a essere una dea, è l’incarnazione della gioia e dell’entusiasmo”.

E’ stata gelosa della relazione tra sua madre e sua sorella Juliette, la quale riceveva le lodi materne in quanto leggeva Gautier e dimostrava gusti “colti”? Dai suoi libri emerge un rischioso triangolo sentimentale.
“A dire il vero nel nostro triangolo amoroso non c’era gelosia, poiché io ero innamorata anche di Juliette che era un po’ una copia di mia madre in piccolo. Seducendo mia madre, sono riuscita a sedurre anche mia sorella. Se mia madre è una regina, Juliette è una fata”.

Ha riferito di aver attraversato fasi di anoressia durante l’adolescenza, e ha affrontato a più riprese l’argomento, soprattutto in “Biografia della fame”. Il legame con sua madre è connesso a questo passato?
“Certo. Ma il rapporto era anche o soprattutto con mia sorella: entrambe a un certo punto abbiamo smesso di mangiare per non uscire dall’infanzia. Restare bambine voleva dire rimanere insieme. Restare bambine significava rimanere per sempre le creature di mia madre”.

Si ha l’impressione che i personaggi femminili che la riflettono, nei suoi libri, non siano in grado di accettare il corpo, percepito come proiezione della madre.
“Sì, è possibile. Mia madre era la mia divinità. Avere un corpo sublime come il suo, un corpo di donna che lei ha portato sempre con fierezza, sarebbe stato come invadere un territorio sacro. Non voglio dire che lei abbia impedito quest’invasione. Sono stata io a decidere di non addentrarmi”.

Ne “La nostalgia felice”, uscito in Italia l’anno scorso, lei parla della sua tata giapponese come di una seconda madre.
“Lo è stata. Sono nata a Kobe, in Giappone, e ho trascorso i miei primi anni in vari paesi asiatici, seguendo i trasferimenti di mio padre diplomatico. A Kobe la mia adorata tata Nishio-san mi chiamava Amélie-chan e mi lasciava mangiare dal suo piatto. Quando tornai in Giappone, qualche tempo fa, in occasione del cortometraggio sulla mia vita realizzato da Laureline Amanieux e Luca Chiari, Une vie entre deux eaux, l’ho potuta rincontrare dopo decenni. Era ottantenne ed è stato troppo emozionante “.

Troppo?
“Prima di ritrovarla credevo che quest’esperienza sconvolgente avrebbe dovuto essermi proibita. Ma dopo averla abbracciata ho pensato che dovrebbero esserlo anche le separazioni. Nishio-san e io tremavamo come reattori. Lei diceva di vergognarsi e io pure. Mi sono sorpresa a pensare di voler essere altrove.
Quando avevo cinque anni ero più forte di così. Poi ho stretto a me la donna sacrosanta e me ne sono andata. Insomma, ci siamo riviste, le ho detto ciò che andava detto, ho lasciato che tra lei e me circolasse un amore terribile e siamo sopravvissute”.

Lei è stata sempre una lettrice compulsiva. Quali madri letterarie l’hanno affascinata o ispirata di più?
“Alcune di queste madri erano uomini, che però non erano padri, ma proprio figure materne: la Comtesse de Ségur, Proust, Madame de La Fayette, Henry de Montherlant e Oscar Wilde”.

Amélie Nothomb è la madre dei suoi romanzi?
“Sono, in effetti, emanazioni di me stessa. Non ho mai voluto creare esseri umani, neanche da piccola. Mai avuto fantasie del genere. Tutta la mia energia materna è stata convogliata nella produzione letteraria”

“Fuochi. La cucina di Estia” raccoglie scritti e ricette: tramandare la sapienza delle madri

di Stefania Scateni

 

Che cosa ci fanno nella cucina del Circolo della rosa di Milano sei donne diverse, che non sono cuoche di professione? Cucinano, ovviamente, ma per chi? Per altre donne e uomini che amano quello che significa: una politica delle relazioni e della soggettività femminile libera. In questo contesto, c’è più gusto a cucinare e, cucinando, a parlare di sé e del mondo. Come mettersi intorno al focolare che scalda e cuoce, in un cerchio che si allarga. Il libro di cui parliamo in questa pagina nasce in nome di Estia, dea greca del focolare e del nutrimento, una dea zingara, felice dell’accoglienza che ogni città le riserva piuttosto che della statica presa di posto alla mensa degli dei dell’Olimpo.

Leggendo Fuochi, che raccoglie scritti e ricette di Ida Farè, Stefania Giannotti, Annamaria Rigoni, Clelia Pallotta, Rossella Bertolazzi e Ottavia Colabella, e curato da Liliana Rampello ci vien da pensare che alla dea, come scrive Stefania Giannotti, «piaccia la politica delle donne e il femminismo della differenza. Dopo aver viaggiato e viaggiato si è poi fermata a Milano, in Via Calvi 29 al Circolo della rosa». È infatti «Estia» il nome della piccola comunità delle cuoche varie che firmano questo libro di non molte pagine ma di grande sapienza non solo culinaria. «Chi leggerà queste pagine, miniera preziosa di ricette, memoirs, sapienza politica in rapporto alla propria esperienza, sapere nel

senso più ampio, ci dice la curatrice – c’è anche un delizioso glossario dei termini usati e indicazioni di lettura delle novità sul tema più interessanti – se non ha già gustato le cene al Circolo della Rosa del collettivo Estia è invitato a farlo al più presto: oltre a rallegrare la mente e lo stomaco potrà prendere parte in prima persona a «un’unica impresa politica e un’impresa politica unica».

Da qualche anno assistamo al boom del cibo e della cucina, decisamente invadenti su tutte le piattaforme televisive; al culmine della mania mangereccia, anche l’editoria ha sfornato libri che hanno scalato le classifiche dei libri più letti in Italia, non solo nella categoria «varia», ma anche in assoluto. E continuiamo ancora oggi a veder spuntare sulle vetrine e gli scaffali delle librerie titoli su titoli. Spesso la reazione è vagamente di disgusto, come se anche su carta il cibo provocasse una indigestione… Ma non è il caso di questo delizioso libro che parla sì di cibo, ma è anche una storia del cibo, delle tradizioni e di sentimenti, cultura, incontri, insomma della Vita con la maiuscola.

Una delle protagoniste, Ida Farè, ci racconta del loro desiderio di dar voce a un «sapere/potere chiuso nel segreto della cucina, fatica oscura e quotidiana che è stata da sempre il sale della Terra e che da che mondo è mondo garantisce la vita dei corpi». La relazione è il filo d’oro che unisce le cuoche in un vincolo tanto importante e riuscito quanto più è leggero, ed è la medesima relazione che lega, con chi è in cucina e con il luogo che li ospita, le donne e gli uomini che vanno a gustare. Un cibo che non nasce solo dai testi dei grandi autori che hanno fatto la storia della cucina, quali ad esempio Pellegrino Artusi e Ippolito Cavalcanti, con attenzione poi ai grandi innovatori stellati fino ai giorni nostri, ma da

un sapere esperienziale e relazionale, che inizia con una bambina che, magari in piedi su una panchetta, guarda sua madre o la nonna o un’altra donna, impegnata ai fornelli.

Cucina di relazione e di memoria, quindi, se per memoria intendiamo anche il tramandare il buon cibo alle nuove generazioni che rischiano di non trovarlo più sulle tavole e nei luoghi di ristorazione di un mondo sempre più globalizzato. Cucina come attività manuale e di pensiero che diventa arte, passione, fissazione.

«Fare autorevole e servizievole insieme senza riprodurre il rapporto servo-padrone, conclude Clelia Pallotta. A questo punto, però, non vogliamo lasciarvi a bocca asciutta!

Per voi, la ricetta della pastella per fritture: un uovo, 100 grammi di farina, un cucchiaio di olio,un cucchiaio di acquavite, un po’ di sale, acqua q.b. Spegnete la farina con l’acqua e gli altri ingredienti lasciando da parte l’albume dell’uovo, ma non fatene una pasta troppo molle. Lavoratela bene con un cucchiaio di legno e lasciatela riposare per diverse ore. Al momento dell’uso incorporate la chiara d’uovo montata a neve. Anche se i cuochi del giorno d’oggi dicono che non è necessario, la chiara montata a neve va sempre accorpata con delicatezza usando il cucchiaio di legno che girate

dall’alto in basso e non va mescolata in orizzontale come fosse una polenta.

 

(l’Unità, 12 agosto 2015)

di Leonetta Bentivoglio


“Mia madre vive nel Maine, la terra in cui sono nata”, riferisce la scrittrice statunitense Elizabeth Strout. “Si chiama Beverly Bean Strout e nel tempo è rimasta sempre identica, cioè non affettuosa dal punto di vista fisico e severamente critica verso gli altri. Penso che questa sua attitudine mi abbia condotta, per reazione, ad applicarmi alla scrittura tentando di non giudicare troppo me stessa. È stato l’influsso più determinante che ha avuto sul mio lavoro”. Mia madre. Esiste un “mia madre” per ciascuno di noi, e non c’è persona in grado di esaurire questo tema. Rimpianti, nostalgie, contraddizioni, sacche di non detto, rancori e nodi inestricabili, come ha capito Nanni Moretti, s’intrecciano senza scampo nel rapporto con chi ci ha messo al mondo, nel segno di un’ambivalenza che in misure diverse ci riguarda tutti.

Per una narratrice di estremo spessore introspettivo come Elizabeth Strout, la madre è stata il motore di partenza del viaggio. Anche in senso tecnico: “È probabile che io sia divenuta scrittrice grazie a lei, che m’incoraggiò sin dall’infanzia “, spiega l’autrice lanciata nel 2009 dal Premio Pulitzer vinto con Olive Kitteridge , suo terzo titolo. “Quand’ero bambina mi spingeva a buttare giù in forma scritta di giorno in giorno quel che mi succedeva. Per esempio, se andavamo a comprare un paio di scarpe, voleva che io annotassi con cura l’aspetto del venditore. Accumulavo quaderni di appunti, e così ho iniziato a coltivare una visione della realtà sviluppata in termini di frasi”.

Strout aveva già firmato i romanzi Amy e Isabelle e Resta con me prima di Olive Kitteridge , affresco psicologicamente acuto di vicende umane in apparenza minime ambientate in un’oppressiva cittadina del Maine, e collegate dal trait d’union di una solida e rude professoressa di matematica. Poi è stata la volta de I ragazzi Burgess , approdato in Italia due anni fa: una parabola magistrale sull’America post-11 settembre e sulla solitudine dell’individuo nel contesto familiare. Uscirà tra breve un suo nuovo libro, Mi chiamo Lucy Barton , basato su una relazione madre-figlia. Anzi, meglio, “sulla vita di una donna che ha una madre e che è madre lei stessa”, precisa la scrittrice, sottolineando che questa coppia femminile “è il centro del racconto, che però comprende anche molte altre cose”. Dopo un’accesa battaglia “al rialzo” per la sua acquisizione, l’opera segna il passaggio della Strout dall’editore Fazi a Einaudi, che ne annuncia la traduzione italiana in primavera. Considerata un’esponente tipica della cultura Wasp (bianca, anglosassone, protestante), Elizabeth è il frutto di un milieu che non esita a definire “puritano e rigoroso nel mettere al bando l’espressione delle sofferenze personali”.

Dalle figure di madri proposte nei suoi lavori si deduce che l’intransigenza e l’autocontrollo appartenessero anche a sua madre.
“Nessuna fra le madri dei miei plot corrisponde davvero alla mia. D’altra parte non conosco abbastanza in profondità mia madre per poterne scrivere in maniera diretta, né ho voglia di scriverne per come lei è”.

Com’è, appunto? O com’era?
“Era una donna che avrebbe desiderato molto fare la scrittrice, ma non ci riuscì. Sospetto che sia stata incapace di liberarsi dall’impaccio di un’eccessiva consapevolezza di sé, operazione necessaria per l’impresa. Insegnava scrittura nei licei e nelle università ed era dura con gli studenti: in molti ne parevano terrorizzati”.

Anche la sua Olive Kitteridge è una docente, per di più d’indole assai ruvida.
“In effetti Olive può mostrare qualche analogia con mia madre, ma semplicemente non è lei. Tra i miei personaggi di madri Olive è forse quello che le si avvicina di più. Comunque mi sembra pericoloso dirlo, dato che Olive non è affatto mia madre, capisce cosa intendo?”

Il sentimento che unisce Olive e suo figlio Christopher è denso e complicato per entrambi.
“Olive adorava il proprio padre e lo vorrebbe rivedere in Christopher, caricandolo quindi di un peso insostenibile. Credo che sia una buona madre, ma ha troppi bisogni e non ce la fa ad esserlo con un andamento costante. Sa dimostrare pietà solo se non si sente troppo vicina a qualcuno, come le accade quando s’imbatte in una ragazza anoressica o in un uomo che guida sulla costa intenzionato a suicidarsi. Si può permettere di aiutarli perché a loro non è legata, mentre al figlio sì”.

Sua madre era sicura della vocazione di scrittrice della figlia?
“Ne era assolutamente certa fin dai miei primi anni e mi trasmise con fermezza questa convinzione”.

La incitava alla lettura?
“Sì. Mi fece leggere prestissimo libri per adulti, da Il buio oltre la siepe , che affrontai a otto anni, fino a Piume di piccione di John Updike. Benché molte cose io non le capissi, da quelle pagine ricavavo una sensazione tipo: wow! Ecco come ragionano gli adulti! Molto eccitante. Poi sono passata al Giovane Holden e a tutto Hemingway, uno degli autori che mi sono tuttora più cari”.

Sua madre dichiara ammirazione per i suoi romanzi?
“Quando ho cominciato a pubblicare storie, l’idea che lei le leggesse mi dava imbarazzo. In principio non faceva commenti: riguardo a Amy e Isabelle si limitò a dirmi che le era piaciuto. Poi, ogni volta che usciva un mio libro, lo leggeva velocemente per due volte di seguito, e alla fine mi diceva sempre che era meraviglioso e superiore al precedente”.

Avete attraversato periodi conflittuali?
“Disapprovò il mio trasferimento a New York negli anni Ottanta, e tra noi ci sono stati a lungo rapporti tesi. Ma in certi momenti molto difficili, mia madre mi ha sorpreso sostenendomi in modo inaspettato. Però sapevo di non poterci contare. Ora vado spesso a trovarla nel Maine e lei sembra moderatamente contenta di vedermi”.

Vi somigliate?
“Non abbiamo molto in comune. Non nella fisionomia. Tuttavia mi pare di aver ereditato da lei un sostanzioso intuito per le faccende umane e una buona percezione in questo campo”.


(la Repubblica, 12/08/2015)

di Livia Manera

Suicidio, voglia di vivere, complicità nel romanzo lieve e feroce di Miriam Toews Radici Al capezzale di Elf, Yoli parla, scherza, e ricorda l’infanzia di una piccola comunità mannonita

È possibile scrivere un libro sul suicidio e intanto brindare alla vita fino all’ultima stilla? È possibile. Ma è un miracolo. E di questo miracolo si è incaricata la quarantenne scrittrice Miriam Toews (pronuncia «Teis»): «una rosa del Canada» capace di fiorire nei terreni più aridi come Alice Munro e Mavis Gallant. I miei piccoli dispiaceri (Marcos y Marcos), tradotto con magica sintonia da Maurizia Balmelli, è proprio questo: un romanzo tragicomico sulla depressione suicida di Elfrida, una giovane donna che avrebbe tutto per essere felice – bellezza, talento, amore del prossimo – scritto da Yolandi, la sorella sciamannata ma piena di vita e di senso dell’umorismo che cerca di salvarla con la tenerezza e la complicità. E quando proprio Yoli ha esaurito ogni risorsa, dopo aver gridato «Senti! Se c’è qualcuno che dovrebbe ammazzarsi, quella sono io», perché nella vita non ne ha imbroccata una – non ha un lavoro degno di questo nome, e ha una situazione famigliare disastrata – arriva per sfinimento a immaginare di paracadutare Elf «in un posto ostile e ignoto tipo Mogadiscio o Corea del Nord, dove sarebbe costretta a sopravvivere da sola e in modi del tutto inediti», strappandoci il più improbabile dei sorrisi con la sua cura da cavallo di realismo. Yoli, la sorella sana ma «svitata», voce narrante di questo romanzo bello, diseguale e molto autobiografico (Miriam Toews ha perso padre e sorella, entrambi suicidi), scrive libri per ragazzi e si definisce «Una specie di esperimento sociale. Scherzo. Una specie di fallimento sociale», perché è una fricchettona senza un soldo che ha due figli adolescenti da due uomini diversi, ed è separata da entrambi. Elf, invece, è una pianista di fama mondiale adorata dal marito e baciata da un talento tanto irresistibile quanto i suoi occhi verdi spaventati. Pur senza separarle, la vita ha portato le due sorelle su strade opposte. Elf vive in un mondo colto, agiato, internazionale. Yoli è una canadese della frontiera. «E tu cosa stai leggendo, Yoli?», le chiede una zia. « Viaggio al termine della notte di Céline», risponde lei. E si sente in dovere di aggiungere: «Uno scrittore francese, morto, non la cantante del Quebéc».Al capezzale di Elf, che non ne vuole sapere di vivere e prova di tutto – digiuno, rasoio, candeggina – per mettere fine alle proprie sofferenze, Yoli parla, scherza e ricorda la loro infanzia in una piccola e isolata comunità mennonita, la chiesa anabattista che predica modestia e povertà, dove una ragazza con un libro in mano costituiva un nemico pubblico e suonare il pianoforte era vietato perché evocativo di piaceri sfrenati. Inutile dire che in questo ambiente castrante dove si parla una lingua orale medievale che somiglia all’olandese, le donne sono castigate da una società ferocemente maschilista. E tuttavia persino gli inflessibili saggi della comunità non riescono a mettere le briglie a due spiriti liberi come Yoli e Elf, la quale in barba al divieto di sedersi al pianoforte vince sei borse di studio e mette in fuga i sacerdoti riuniti nel salotto dei genitori, suonando furiosamente Rachmaninoff sui tasti del suo pianoforte nascosto in camera da letto. «Nella cosmologia mennonita funziona così», scrive Yoli per spiegare la disparità di trattamento tra maschi e femmine, e ciò che ne consegue. «I figli ereditano la ricchezza e la tramandano ai loro figli e i figli ai figli e i figli dei figli ai figli, mentre le figlie se la prendono allegramente nel culo… comunque sia, noi discendenti della genealogia delle ragazze, non avremo forse sostanze né vere e proprie finestre nelle nostre spelonche, ma almeno abbiamo la rabbia, e con quella costruiremo imperi, signori miei». E così è. Non ha, forse, Miriam Toews, una ragazza sopravvissuta a quell’ambiente arcaico, scalato la classifica dei bestseller in Canada con il più improbabile dei libri, un romanzo quasi senza trama sulla depressione suicida come questo straordinario, persino esilarante, a tratti, I miei piccoli dispiaceri ? E tuttavia non è la rabbia a guidare la penna di questa giovane donna che ha al suo attivo già sei romanzi. Piuttosto, è la struggente, meravigliosa complicità che anche nella più drammatica delle situazioni, le fa dire della sorella adorata: «Lei voleva morire e io volevo che vivesse ed eravamo due nemiche che si amavano». Due lati della stessa medaglia: quella di una femminilità allegra e feroce e disperata e consapevole, perdente e vincente nella stessa, smagliante, maniera.

Manera Livia

 

di Miopia online

Si intitola Fa’ che non si perda tutto questo amore! il quaderno a cura di Adriana Sbrogiò, Tilde Silvestri e Maria Cristina Solari pubblicato nel giugno scorso in memoria di Maria Leporini, spentasi il 31 gennaio di quest’anno.

Il fascicolo comprende note biografiche su Maria e alcuni brevi scritti in cui lei stessa manifesta le proprie scelte di vita, come quella di “praticare la Libertà femminile possibile, tutta quella che posso vivere con le donne povere con cui sto in relazione”.

Seguono i testi letti nel corso di una celebrazione “essenziale” e senza rito eucaristico, come Maria aveva chiesto, e numerose testimonianze di donne e uomini, ragazze e ragazzi con cui Maria aveva lavorato in vari gruppi e laboratori in Tor Bella Monaca, nella periferia romana.

Il quaderno è corredato da un bel repertorio fotografico, in cui seguiamo il viso intenso di Maria in tante situazioni di lavoro o politiche e in compagnia delle persone che più le sono state care.

Maria Leporini aveva collaborato alla stesura del quaderno Può accadere il meglio con amore e libertà femminile – Le nuove beghine (aprile 2014), edito dall’Associazione Culturale Identità e differenza. Maria aveva inoltre curato insieme con Tilde Silvestri un altro quaderno, di particolare interesse documentario, intitolato Vocazione e coscienza – Desiderio Profondo – Il merito della libertà (maggio 2014), in cui sono pubblicate le articolate lettere di dimissioni dall’Ordine delle Stimmatine rese da Carla Dell’Aglio, Maria Leporini e Tilde Silvestri nel 2008–2009. Seguono note storiche su Anna Fiorelli (1809–1860), fondatrice dell’Ordine delle Stimmatine, nello spirito della quale si sono mosse le suore dissidenti che hanno scelto di restare a vivere e operare in mezzo alla gente povera della periferia romana. Una terza parte del quaderno ospita le “lettere di nutrimento condivisione e solidarietà” di tante donne e uomini. Alcune notizie su Maria Leporini si possono leggere in calce al Pensiero per Tilde con Maria da Adriana riportato in questo sito, Marzo 2015. Per ulteriori informazioni si può consultare il sito di Identità e differenza.

(www.gasparastampa.es, luglio 2015)

 

 

di Alessandra Pigliaru

«L’amore estremo ha un appe­tito insa­zia­bile». In que­ste poche bat­tute com­pare il segno di Iris Mur­doch, per la pre­ci­sione di ciò che fa dichia­rare a uno dei suoi per­so­naggi let­te­rari, Mar­tin Lynch-Gibbon pro­ta­go­ni­sta del romanzo del 1961, A Seve­red Head, ora Una testa tagliata (Il Sag­gia­tore, pp. 251, euro 19) a cura di Cri­stina Tizian e tra­dotto da Gioia Guer­zoni. La cifra distin­tiva dell’agiato qua­ran­tenne lon­di­nese Mar­tin è, tut­ta­via, al cen­tro di una nar­ra­zione più obli­qua della furia amo­rosa e le sue cadute. È infatti nelle abi­tu­dini di Mur­doch intrec­ciare molte esi­stenze sin­go­lari, dare loro il carat­tere tor­men­toso e corale di chi si fa pun­go­lare dall’eventualità e dal desi­de­rio di com­pren­sione, rinun­ciando all’algidità del con­cetto per andare alla ricerca dei corpi e di ciò che accade tra loro.

Niente è casuale nella costru­zione dei rac­conti a cui ci ha abi­tuati l’autrice, nono­stante nella sua scrit­tura let­te­ra­ria vi sia espli­ci­ta­mente più leg­ge­rezza, libertà di movi­mento. È lei stessa a farlo intuire in una con­ver­sa­zione con Brian Magee (1978), quando afferma che la let­te­ra­tura intrat­tiene e fa molte cose, men­tre la filo­so­fia ne fa solo una. Nono­stante per tutta la vita le abbia pra­ti­cate e maneg­giate entrambe con sapienza, la filo­so­fia e la let­te­ra­tura sono state per Mur­doch i punti di un dop­pio passo che non ha inteso giu­sti­fi­care né risol­vere. Anche se è dif­fe­rente la dif­fi­coltà della mate­ria da cui par­tono, sia l’una che l’altra – lo ammette — hanno a che vedere con la verità. E in par­ti­co­lare la let­te­ra­tura quando si misura con la memo­ria e in alcuni casi rende addi­rit­tura felici, capace com’è di mostrarci il mondo. Ecco la qua­lità della scrit­tura che sa con­fron­tarsi con le con­trad­di­zioni coria­cee del reale, che abban­dona il rigore sil­lo­gi­stico per espli­ci­tare come si possa arri­vare a un pen­siero che sia incar­nato, e al con­tempo imperfetto.

Una sepa­ra­zione incarnata

Una testa tagliata è dotato di grande carica sim­bo­lica fin dal titolo, con­duce a domande imme­diate. Durante la let­tura veniamo subito a cono­scenza che il taglio e ciò che ne rimane cir­co­lano nelle con­ver­sa­zioni tra i pro­ta­go­ni­sti su più livelli. Cioè se di crani e teste moz­zate è san­gui­no­sa­mente colma la sto­ria – più o meno dal paleo­li­tico a oggi — il taglio che qui si illu­mina è una sepa­ra­zione, intanto nella con­sa­pe­vo­lezza che «certe per­sone sono più il loro corpo di altre» e che «la testa ci rap­pre­senta più di tutto il resto, è l’apice della nostra incar­na­zione», insieme alla con­se­guenza di con­si­de­rare ser­vi­bile una rela­zione con chi si priva di parti di sé. Dice infatti Mar­tin: «non credo che mi piac­cia molto, una testa senza il corpo (…) Mi sem­bra un van­tag­gio sleale, una rela­zione ille­cita e incompleta».

Nes­sun esito tru­cu­lento allora, è invece sull’orlo delle rela­zioni quo­ti­diane che si spa­lanca la sto­ria di Mar­tin, Honor, Anto­nia, Pal­mer, Geor­gie in cui l’unica pri­va­zione visi­bile è ciò che media­mente si mette in scena – affet­ti­va­mente ed ero­ti­ca­mente, attra­verso tra­di­menti, scambi, pre­va­ri­ca­zioni e lan­guori fuori tempo mas­simo. Seguendo i per­so­naggi e le per­so­nagge di Mur­doch può acca­dere di essere indul­genti verso le altrui e le pro­prie ambi­va­lenze, le distanze cal­co­late, le ambi­guità con­cesse come vie di fuga, fino ad arri­vare al punto impor­tante: il «filo d’intimità» di cui chiac­chie­rano i pro­ta­go­ni­sti quando viene scam­biato mala­mente con la familiarità.

Il nodo dell’intimità

D’altro canto, Mar­tin è in cerca di sal­vezza: «un amore potente e colos­sale, che non avevo mai cono­sciuto prima di allora». Un’insistenza tota­liz­zante, insomma, che attra­verso la vul­ne­ra­bi­lità di cui si è fatti si scon­tra con la ridda tumul­tuosa degli altri, pre­ve­dendo spesso «un brutto gar­bu­glio di inti­mità e amore». Allora nella resti­tu­zione del rituale tanto ben descritto da Mur­doch, per bocca della miste­riosa Honor si trova forse un’ulteriore let­tura: «Sono come una di quelle teste tagliate che usa­vano le tribù pri­mi­tive o gli alchi­mi­sti; le unge­vano d’olio, e met­te­vano una scheg­gia d’oro sulla lin­gua per­ché con­di­vi­des­sero le loro pro­fe­zie. E chissà, forse una lunga con­sue­tu­dine con una testa tagliata potrebbe por­tare a una cono­scenza dav­vero ano­mala delle cose. Ma tutto ciò è lon­tano dall’amore».

Che l’idea di inti­mità sia tan­gente a quella di amore è un dato che attra­versa la sto­ria del pen­siero e delle sue nume­rose rap­pre­sen­ta­zioni. Altret­tanto nota è la con­fu­sione che spesso viene a con­fi­gu­rarsi tra i due ter­mini — limi­trofi, sci­vo­lo­sa­mente con­ti­gui ma che a ben guar­dare non sono sino­nimi. Del resto «ci sono per­sone, com­prese quelle accop­piate o spo­sate, che mai, in tutta la loro vita, sono entrate in inti­mità». Hanno vis­suto per anni l’una accanto all’altra ma senza per que­sto imma­gi­nare di spor­gersi, anzi «non ne hanno nem­meno sospet­tato la pos­si­bi­lità; non hanno mai oltre­pas­sato que­sta soglia, non ci hanno nem­meno pen­sato (…) L’Altro è diven­tato un essere fami­liare ma non intimo». Con­cen­tran­dosi invece sull’intimità come risorsa, si può fare uno spo­sta­mento; di que­sto ci informa Fra­nçoise Jul­lien nel suo De l’intime. Loin du bruyant amour (Gras­set, 2013), fine­mente tra­dotto da Rosella Prezzo. Ideal­mente seconda parte del ragio­na­mento comin­ciato nel 2011 con Phi­lo­so­phie du vivre (Gal­li­mard 2011), il sag­gio di Jul­lien Sull’intimità. Lon­tano dal fra­stuono dell’amore (Raf­fello Cor­tina, pp. 191, euro 14) apre a una accu­rata disa­mina della que­stione, anzi­tutto pre­ci­sando che l’intimità è il con­tra­rio dell’intimistico. Ha piut­to­sto a che vedere con il para­dosso dell’accostarsi al limite. Accolta molto meno di quanto si imma­gi­ne­rebbe, nell’uso comune rap­pre­senta ciò che è celato, adden­sato all’interno delle cose e al fondo della sog­get­ti­vità, poi rin­trac­cia­bile anche in un fuori che deter­mina una rela­zione con altro da sé.

L’intimità è infatti una pros­si­mità con se stessi e con altri, deter­mi­nando secondo Jul­lien il dop­pio segno di rac­co­gli­mento — stando pro­fon­da­mente presso di sé – e di con­di­vi­sione – toc­cando altret­tanto pro­fon­da­mente l’altro da sé. Il pas­sag­gio ulte­riore sta­bi­li­sce l’implicazione di interno ed esterno, cioè quando si arriva al pro­prio intimo, al limite di un interno, si trova anche l’apertura verso gli altri, le altre.

Una morale indiziaria

Idea sug­ge­stiva, in molti hanno pro­vato a pen­sarla: «L’intimità non è tanto la feli­cità per­fetta quanto l’ultimo passo per arri­varci». Sten­d­hal nel suo De l’amour sem­bra esserne sicuro, un po’ meno Roland Bar­thes quando nei suoi famosi e bel­lis­simi Frag­ments cita l’intimità in rela­zione alla ferita nel cen­tro del corpo, più è aperta e «più il sog­getto diventa sog­getto»; tale, pro­se­gue, è la ferita d’amore che non rie­sce a richiu­dersi. Secondo Jul­lien più sem­pli­ce­mente «in un mondo che si rove­scia, in un totale ribal­ta­mento, l’intimità, a sua volta, si rove­scia e fa pre­ci­pi­tare». E quindi spesso viene scan­sata pro­vo­cando per­dita e mise­ria affet­tiva – che è sem­pre simbolica.

Per Jul­lien è così impor­tante porla all’attenzione che può essere addi­rit­tura con­si­de­rata l’inizio di una morale sep­pure indi­zia­ria, senza quindi un fon­da­mento neces­sa­rio ma aperta alla cate­go­ria della pos­si­bi­lità – e, come direbbe il filo­sofo, di vita­lità. Si chia­ri­sce meglio cosa Jul­lien intenda quando avverte che l’intimità non è un valore, né tanto meno una virtù, non si ammanta di nes­sun dover essere. E anche se non rimanda imme­dia­ta­mente a una respon­sa­bi­lità è pur vero che sce­glien­dola ci si impe­gna. Si può rispon­dere al suo appello, oppure no.

Forse è suf­fi­ciente dire che sia l’intimità che l’amore, espe­rienze entrambe, pos­sono acco­starsi peri­co­lo­sa­mente al fra­stuono se non se ne capi­scono i segnali; insieme a Lily Bri­scoe creata da Vir­gi­nia Woolf nel suo To the lighthouse, potremmo spin­gerci allora a con­si­de­rare che desi­de­rare l’intimità stessa è cono­scenza. Anche Iris Mur­doch e Fra­nçoise Jul­lien non potreb­bero che essere d’accordo. In fondo «Chi sa che cosa siamo? Che cosa pro­viamo? Chi sa, per­fino nel momento dell’intimità, que­sto è sapere?»


(il manifesto, 21/7/2015)

di Letizia Paolozzi

 

Sono nel Gruppo del mercoledì, quello che riflette sulla cura delle relazioni. Ci incontriamo più o meno ogni dieci giorni. Prevalentemente a casa mia, oppure di Elettra. Verso le otto di sera, dopo discussioni, appassionamenti sballati, un girare a vuoto e l’intuizione che finalmente balugina dai nostri discorsi, arrivano le “fiancheggiatrici” ovvero le relazioni inseparabili di ognuna di noi. Giacché abbiamo parlato o discusso o questionato fino a quel momento, la cena va preparata in anticipo: sugo per la pasta, verdura da ripassare, piatto che “basta scaldare nel forno”? Bisogna escludere l’aglio che sennò Fulvia diventa un vampiro; evitare la carne perché Bia è vegetariana. Quando arrivano gli apprezzamenti, anche la riunione acquista un sapore più buono. Ho pensato a questo legame tra cibo e politica ascoltando alla Cascina Triulza, appiccicata al Padiglione Corea dell’Expo, la presentazione di «Fuochi. La cucina di Estìa» della Libreria delle donne di Milano, con Liliana Rampello, Sabina Ciuffini, Rosaria Guacci e alcune tra le autrici che si firmano “Cuoche Varie”. Ma intanto, chi è Estìa? La dea del focolare. A lei si deve l’arte del costruire. Protegge i poveri e i mendicanti. Non prende parte alle guerre degli uomini e degli dei. Le piace viaggiare e fermarsi nelle città greche dove viene bene accolta. Tanto da aver lasciato a Dioniso il suo posto alla mensa degli dei. Le “cuoche varie” che compongono il gruppo di Estìa sono Ida Farè, Stefania Giannotti, Annamaria Rigoni, Clelia Pallotta, Rossella Bertolazzi, Ottavia Colabella. Varie nei mestieri: architetta, esperta in comunicazione, precaria, docente al Politecnico, formatrice, giornalista. Varie nel carattere: una lunatica, l’altra bizzarra; l’altra ancora dispotica, prepotente, mite, taciturna. Però tutte «legate da un piacere, un vizio, una passione, una mania, una fissazione comune: cucinare» scrive Liliana Rampello, che di questa varietà femminile ha incrociato i fili seguendone il tragitto. Un tragitto altalenante tra il fare e il donare dove bisognava tracciare «una circolarità tra l’alto e il basso, tra il mangiare, il pensare, il discutere». Diciamo così: bisognava mettere in parola la memoria attraverso una vera e propria strategia narrativa dei ricordi, dei lutti che ti assalgono all’improvviso, delle esperienze, delle conoscenze accumulate da sei donne. Che sono personaggi e sono protagoniste, capaci di comporre una storia comune, quella di un luogo del femminismo dove è cambiata la vita di tante. A partire dalla sua fondazione, nel 1975. La vita di tante è cambiata anche per via della cucina. Ora, a via Calvi 29, è spaziosa, con il tavolo d’acciaio al centro e fuori, nel cortile, persino un glicine. Una radio e un apparecchio permette alle “cuoche varie” di ascoltare gli incontri che si svolgono in sala. Verso le sette una di loro, il viso arrossato dal fuoco dei fornelli, con il grembiule, si presenta in sala e scandisce: gnocchi di semolino alla romana, gnocchetti di ricotta e spinaci, involtini di carne alla palermitana, insalata di finocchi e arance, Tarte Tatin. Chi si ferma? Alzi la mano. Prosegue il dibattito. Poi ci sarà la cena. Dalle parti del Circolo della Rosa – Libreria delle donne, la cucina custodisce i corpi e i pensieri, il gusto e l’intelligenza domestica, il necessario e l’amore materno. Operazione non semplice dal momento che «la cura in cucina si gioca tra competenza e affanno, curiosità e sicurezza, e soprattutto nell’incontro con l’imprevisto. Ma c’è un ultimo fattore, raccomandato dalla dea, che forse è il più importante, ed è la misura. La misura è una lotta tra il troppo e il troppo poco, che in cucina si esprime con il misterioso q.b.» osserva Ida Farè. Peraltro, se ci pensate bene, la cucina è nemica di qualsiasi ipotesi colorata di manicheismo: deve agglomerare, fondere, mescolare. Impedire che un sapore prevalga sull’altro ma imporre che ogni sapore (e odore, profumo) abbia la sua ragion d’essere. Prima dunque della cena, a turno oppure insieme “cuoche varie” sminuzzano, tagliano, impastano, friggono, montano le uova (con il frullino elettrico, con la frusta che batte a mano). Escogitano ma si piegano al ripetitivo e al quotidiano. Sovente si arrangiano perché «si cucina con quel che c’è» dice Annamaria Rigoni e racconta che oggi non esisterebbe «se i miei antenati, poveri montanari, non avessero potuto allevare mucche, pecore, capre, galline, che si nutrivano di ciò che c’era nei prati e davano loro carne, latte, uova. Erano anche un po’ coltivatori, seminavano l’unico cereale che a malapena giungeva a maturazione, il “formenton” (o grano saraceno), e un po’ di verdure nell’orto, ma non sarebbe certo stato sufficiente per consentire loro di vivere. Anche per la loro capacità di resistere in un ambiente ostile, ho scelto di mangiare “quel che c’è”, che la vita vegetariana è vita di pianura, dove il grano e le verdure crescono in abbondanza». Il gruppo di Estìa pesca dalle tradizioni, dai gesti che contengono un antico ordine del mondo. Quest’ordine non deve sparire. Assieme all’invenzione di un mondo nuovo che il libro ci consegna, con le ricette e un glossario finale. D’altronde, il cibo è un linguaggio. Annota Stefania Giannotti che «il cibo è percorso facile e abbreviato, per favorire la comunicazione. È un piacere da donare e condividere, per di più un piacere del corpo, quindi forte,ma anche praticabile e spendibile con leggerezza. Non ci sono altri modi per scambiare il piacere del corpo oltre al sesso, assai più problematico. In questo senso è oltre e di più del mero nutrimento e se ne va lontano dal ruolo e dall’accudimento. Entra nella gratuità della relazione». Provate a friggere le olive ascolane e vedete se continuate a versare lacrime sul fidanzato che vi ha lasciate. «Il fritto chiede concentrazione e leggerezza, il suo tempo e il tempo di farlo arrivare caldo a chi lo mangerà. Caldo e non tiepido e men che meno freddo. Friggere è una forma primaria del cucinare per me; ad Ascoli Piceno, la città da cui provengo, si frigge quasi tutto» si stupisce Clelia Pallotta che in cucina ci sta “in modo non servile ma servizievole”. Tutto questo è la “cucina relazionale” del gruppo di Estìa. A dimostrazione che gli scambi simbolici passano anche attraverso il senso che viene attribuito al far da mangiare.

di Alessandra Pigliaru


«Sarà una narrazione scivolosa, in un imperfetto continuo, assoluto, che divori via via il presente fino all’ultima immagine di una vita». Così chiosa Annie Ernaux, riferendosi al suo libro pubblicato in Francia nel 2008 e di recente tradotto da Lorenzo Flabbi per L’orma editore con il titolo Gli anni. Conclusa la lettura, un senso di gratitudine potrà pervadervi senza alcun preavviso. In questo splendido, sorprendente e a tratti commovente volume, Annie Ernaux restituisce infatti una scrittura, la sua, di impareggiabile eleganza e profonda competenza. Per sua stessa ammissione, si tratta di un’autobiografia impersonale, dando a questa accezione il carattere potentemente materiale di chi preferisce il noi collettivo a un io singolare, passando specularmente a un «lei», cioè a questo «continuamente altro».

Se è vero che siamo impastati dal tempo, è altrettanto vero che per Ernaux il mondo non finisce in una totalità di fatti e che la storia, avendo il coraggio di vedere cosa si agita alle proprie spalle, non è una sola catastrofe che accumula rovine. L’occhio di una scrittura sapiente sa che la lungimiranza è anche un’attitudine da applicare al tempo. Saper tessere corpi e memorie significa dunque non solo una mera passione antiquaria verso la ricostruzione, né la tentazione di trovare un inventario – seppur preciso – da condividere nostalgicamente. Imbastire un’autobiografia impersonale come quella di Ernaux risulta invece un gioco più crudele e azzardato, un transito terso di date e accadimenti affilati che dal dopoguerra arriva ai giorni nostri, una posta in gioco che spinge lontano dall’ineffabilità di un mondo intermittente e che invece viene convocato, ancora e ancora, per appropriarsi della realtà, della letteratura come «strumento di lotta», e della lingua con cui «contava di agire su ciò che la faceva ribellare».

Che la materialità dell’esistenza sia il punto di partenza di Annie Ernaux è un dato incontrovertibile. Lo ricorda appena possibile, commentando anche i suoi libri apparentemente più introspettivi – come Il posto, sulla morte del proprio padre – che invece confessano l’indiscutibile guadagno della sua formazione politica e culturale, del suo sentirsi transfuga da una classe sociale a un’altra, del suo aderire al femminismo materialista francese, del suo nomadismo dalla provincia alle periferie parigine. Gli anni acquista tuttavia maggiore scavo, il processo inesorabile a cui sottopone la propria memoria è il ritratto di una intera coscienza collettiva che dagli anni ’40 del post-liberazione arriva fino ai nostri giorni. Anni descritti perimetrando i molti mutamenti conosciuti: dalla lingua dell’infanzia, miscuglio di francese e patois ricordata come indissolubile dai familiari «corpi stretti» dalle tute da lavoro, fino al suo disconoscimento verso una lingua appresa in età scolare, estranea e al contempo rigenerante. Tutti elementi che vanno a costituire un lessico corrispondente alla contingenza: dapprima la funzione precisa degli oggetti, ogni cosa dotata di un preciso valore d’uso doveva infatti trovare una adeguata sistemazione in un’economia della scarsità, del mondo, delle spiegazioni, l’astuccio, il barattolo dei biscotti, i giornali, il collo delle camicie e i cappotti aggiustati in un sottofondo silenzioso che cercava nominazione, insieme al tempo che si aveva di «desiderare le cose. Possederle non deludeva mai». E quelle che invece non c’erano ma che venivano computate interiormente nel confronto con le altre e gli altri. Il rigore, che ancora non si era depurato dalla vergogna, per la propria coscienza sociale e il cruccio di metterlo in parola.

Gli anni Cinquanta si inanellano per Ernaux alla prima cognizione rispetto ciò che accade fuori di lei, una distanza siderale tra passato e presente di cui però avverte solo lo stridore della personale misura critica non ancora individuata. Aggirandosi come un Roquentin sartriano, racconta, con l’imbarazzo di non riuscire ad autorizzarsi verso l’opacità del reale, Ernaux sa che l’Europa è già tagliata in due e che l’Algeria è imbrattata di sangue. Comincia però a mutare il catalogo della cultura materiale anche se il progresso non ha ancora un aspetto tempestoso: se ne avevano i mezzi, «grazie alle cose le persone potevano contare su un’esistenza migliore». E quel «lei» della scrittura che prende il proprio corpo tra le mani e comincia a rivolgersi alla propria sessualità, al mercato matrimoniale che si faceva sempre più consistente, con ragazze in abito bianco che sei mesi dopo danno alla luce paffuti bambini rigorosamente prematuri. La lingua comincia a diventare il significante di un conflitto non agito e di lì a poco potentemente espresso, gli anni Cinquanta volgono al termine e anche se non si riesce ancora a dire che no, l’esistenza dei corpi non può essere data in pasto agli imperativi categorici e all’ontologia, la giovane Annie tocca finalmente la necessità del proprio di corpo, nonostante «da noi ci si aspettava che accettassimo con naturalezza il perpetuarsi delle cose. Messi di fronte a quel futuro prestabilito avevamo confusamente voglia di restare giovani a lungo».

È a quest’altezza il desiderio di una nuova grammatica che possa dire la materialità su un piano più stringente, di verità. Immanenza, cattiva coscienza e alienazione ma anche la pretesa di impadronirsi del mondo e rovesciarlo di segno. Un ribaltamento che da lì a poco, per la prima volta, non coinciderà più con uno straniamento singolare, le foto che ogni tanto inframezzano la narrazione – che sono poi foto di Ernaux che lentamente muta il proprio corpo, capelli e luminosità dello sguardo – improvvisamente e già coincidono brutalmente con il passaggio a un mondo lontano da quello operaio e del negozietto dei suoi genitori. È a questo punto, nell’irriducibile coscienza di sé e degli anni a venire, che si spezzetta il passato in una dislocazione di piani e ricordi. «Più ancora che un modo per affrancarsi dalla miseria, gli studi le paiono lo strumento di lotta privilegiato contro quell’impantanarsi femminile che le suscita pietà». È tuttavia ancora sicura di non avere una personalità ben delineata, «non c’è nessun rapporto tra la sua vita e la Storia, tuttavia le tracce di quest’ultima sono già strettamente collegate a sensazioni personali, il freddo grigiore di un mese di marzo – sciopero dei minatori -, l’umidità di un fine settimana di Pentecoste – la morte di Giovanni XXIII -, la frase di un amico Tra poco scoppia un’altra guerra mondiale – la crisi di Cuba».

Si ritrova madre prima di poter immaginare la decostruzione del meccanismo di riproduzione. Sposata e con un posto fisso, accoglie l’intelligenza di dire per la prima volta io, di sentirne il rintocco in un tempo che diventa abbacinante e che trasforma la repressione silenziosa in un’esaltazione collettiva. Le parole dei filosofi che si sono affrettati a interpretare il mondo non hanno capito che bisogna mutarlo. Rovesciare la dialettica e guardarla dal basso. «Il 1968 era il primo anno del mondo». Il Maggio francese arriva per Ernaux come un punto bruciante, da lì in poi agognato nella sua replica che non tornerà più. È tuttavia il momento più alto della nominazione del mondo, che continua a rimanere imperfetto rispetto tutto ciò che accade ma che si solleva potente come la rivoluzione a un soffio. La distanza tra passato e presente ora prende un’altra forma per lei, quella di una nuova e perversa domesticazione subita, in cui allo stridore di ciò che poteva significare una nascita inedita si affianca l’avvio di una narrazione degli anni Settanta all’insegna del rimosso, la lotta armata, le impiccagioni in carcere e quel desiderio costante di rivoluzione che solo a sperarla ancora «era diventato ignominioso». Compare un soggetto che deve misurarsi con la complessità di quel presente, dove «il tempo dei figli rimpiazzava il tempo dei morti».

Così Ernaux arriva a delle dense pagine sul passaggio alla cosiddetta crisi degli anni Ottanta, al cambio di segno cui sono state sottoposte le ideologie e alla «legge naturale» dell’impresa come possibilità di salvare il mondo. La complicanza della lingua ridotta a un vicolo cieco mentre «lo stupore si affievoliva». Quindi l’elezione di Mitterand e la rottura dopo le sue dichiarazioni di guerra contro Saddam, «saranno le armi a parlare», infine la difficoltà – anche nella prossemica -, spiegata in maniera magistrale, di confrontarsi con le proprie e i propri studenti rispetto un’esperienza di totalità impossibile da trasmettere e comunicare. Soprattutto la sua esperienza di donna, soprattutto i punti del già acquisito e sudato che puntellano un percorso di libertà, la contraccezione, l’aborto che usciva dalla clandestinità e una sessualità femminile urgente, inaggirabile.

Il lavoro letterario e politico svolto da Ernaux è talmente vasto che «la sua vita potrebbe essere raffigurata da due assi perpendicolari, su quello orizzontale tutto ciò che le è accaduto, ha visto, ascoltato in ogni istante, sul verticale soltanto qualche immagine, a sprofondare nella notte».

La dissoluzione delle categorie per leggere il contemporaneo non chiude Gli anni che invece resta aperto alla discussione e al dibattito come un lungo, ispirato e imperdibile documento sia politico che culturale, incarnato nella voce di una donna che non smette di tendere un filo verso se stessa. A questo proposito, è interessante come la lontananza dal centro di una politica svuotata di significazione, si presenti come contrappunto al ricordo della propria madre – a cui, si dica per inciso, Annie Ernaux dedica un libro di notevole bellezza, Une femme (trad. it Una vita di donna, 1988). La mente va in particolare agli ultimi anni vissuti con la propria madre, malata di alzheimer. In quelle frasi materne dettate dalla malattia riemerge alla memoria il corpo «per sempre appannaggio di un solo essere al mondo, sua madre». Non i consigli ritornanti ma comuni a molte altre, non le consuetudini di accudimento ma quelle specifiche frasi alterate rispetto la realtà codificata che tuttavia aprivano una breccia tra le due. E nella mancanza di linearità, nell’abbandono di una esigenza spiegatizia a tutti i costi, la curvatura del tempo fa uno strano giro e consente ad Ernaux di abbracciare nuovamente il mondo, e molto di più di ciò che si riesce a scucire e restituire: «forse un giorno saranno le cose e la loro denominazione a essere scollegate e lei non potrà più nominare la realtà, ci sarà soltanto un reale-dicibile (…), salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più».

*

Annie Ernaux, Gli anni, L’orma editore, pp. 266, euro 16

*

(www.societadelleletterate.it, 07/2015)

Un percorso nel volume Prospettive femministe (Caterina Botti, Espress Edizioni 2012) di Laura Colombo


Poche decine d’anni sono nulla in confronto ai millenni di egemonia nella storia del pensiero (e non solo) eppure le donne, in un soffio, sono riuscite a dare alla loro presenza il segno forte della consapevolezza e così il pensiero femminista oggi può dare un ricco contributo alla riflessione morale, “quando essa si articoli intorno ad alcune questioni che caratterizzano la nostra quotidianità”[1]. Questa la tesi che sottende il volume di Federica Botti Prospettive femministe, che si addentra nei temi classici della bioetica – aborto, pma, neonati estremamente prematuri, fine vita – orientandosi con l’elaborazione femminista per proporre una nuova visione. Il corpo femminile è stato il luogo di conflitto fra uomini e donne, la posta in gioco essendo il controllo del corpo fertile e il dominio maschile. “L’idea che le donne siano più prossime al mondo materiale, ai sensi, alla generazione, all’animalità, alla natura e lontane o prive di ragione e, in quanto tali, soggetti inferiori o più deboli o comunque da tutelare, resiste anche al variare dei paradigmi filosofici e delle interpretazioni di questi stessi termini, come anche ai cambiamenti sociali che avvengono nei secoli successivi”[2].

Tuttavia a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la Storia è stata attraversata da forti passioni politiche, dalla ribellione dei giovani, dalla ricerca di culture alternative a quella occidentale e in questo clima prende avvio il movimento delle donne, o meglio, il femminismo della seconda ondata. Come spiega bene Caterina Botti nella prima parte del suo volume, si possono “distinguere due strategie femministe. La prima è quella cha ha per fine l’emancipazione (o liberazione) della donna da una condizione di oppressione e discriminazione. […] Venendo, invece, al femminismo radicale e poi a quello della differenza, lo scopo in questo caso è quello di conquistare la libertà (e non l’emancipazione o la liberazione) delle donne; soprattutto la libertà di rappresentare se stesse a partire da sé, non negandosi nella figura dell’androgino o dell’astratto «essere umano», né assimilandosi all’uomo né tantomeno rimanendo prigioniere della rappresentazione maschile della donna”[3]. A mio parere è precisamente questo il punto: in un clima politico attraversato dai movimenti, il femminismo della seconda ondata nasce distaccandosi dalle loro ideologie, dal loro linguaggio, dalle loro pratiche, nasce con il gesto della separazione dalla politica degli uomini per formare gruppi di sole donne. È stato un gesto pratico e simbolico di enorme portata: non era contro gli uomini ma per l’indipendenza da loro sguardo e dal loro giudizio, in altri termini era la fuoriuscita delle donne dall’ordine simbolico patriarcale. Per questo quella femminista è stata definita l’unica rivoluzione riuscita del Novecento, per aver incrinato un ordine che sembrava immutabile. È stata una rivoluzione dell’ordine simbolico: pensiamo al rapporto tra i sessi, cambiato completamente a causa del femminismo. La modificazione è stata rapidissima rispetto alla storia millenaria del patriarcato, che legittimava (nel senso di un’ovvietà insita nel rapporto stesso) il dominio maschile sul corpo femminile. Non sono finiti i soprusi e le violenze maschili, ma l’ordine simbolico che nella storia ha significato l’inferiorità femminile, la sottomissione delle donne e la loro costrizione in un destino già scritto è tramontato. Le femministe radicali non chiedono di essere incluse nella civiltà maschile. Invitano piuttosto ad approfittare dell’assenza dalla Storia, per ripensare la vita e il mondo.

Ritengo che la posizione radicale sia anche oggi essenziale, perché i temi bioetici hanno come fulcro il corpo femminile, corpo capace di generare, su cui continua il conflitto fra uomini e donne. Così Caterina Botti, facendo tesoro degli sviluppi del pensiero femminista che non si arrende al nichilismo o al relativismo morale, parte dall’importanza della virtù della cura per mettere al centro la virtù della consapevolezza. Si tratta di una virtù che ha a che fare con la capacità di sospendere i giudizi senza sospendere la cura, anzi di fare della sospensione del giudizio una forma di cura, una trasformazione di sé verso gli altri. Per Caterina Botti, dunque, il punto di partenza per scardinare l’universalismo della morale è l’etica della cura, che “pone al centro la capacità (data o da sviluppare, femminile o umana, a questo punto non è rilevante) di essere solleciti nei confronti dei bisogni degli altri individui nella loro particolarità e nella loro matrice relazionale. L’etica della cura dunque è una moralità dell’agente, più che dell’azione, centrata sull’attenzione alle relazioni e ai diversi contesti in cui gli individui interagiscono, più che su procedure razionali che astraggono dal contesto e dalle particolarità di ciascuno proprie invece delle morali universalistiche”[4]. Per il passaggio dalla virtù della cura a quella della consapevolezza Caterina Botti fa leva sulla possibilità di percepirsi immaginativamente. È, dico io, una posizione pratica che le donne sanno molto bene non a causa di una loro particolare essenza o natura, ma proprio per le invenzioni che hanno saputo trovare dentro a una condizione che le voleva mancanti, invenzioni che hanno portato alla scoperta della singolarità. Le donne hanno saputo fare della singolarità un microcosmo (che è un universo) fatto di materia e spirito insieme, superando la dicotomia patriarcale fra alto e basso, anima e corpo, natura e cultura. Di più, la scoperta della singolarità è già superamento dell’individualismo, per la capacità di percepirsi come essere umano in carne e ossa, già preso in una serie di relazioni. A partire da questa particolare posizione, quindi, è possibile spingersi oltre l’etica della cura e Caterina Botti pone “accanto alla virtù della cura o della sollecitudine, la centralità di una virtù della critica di sé, della consapevolezza dei propri limiti o dell’umiltà. […] Questa virtù dovrebbe rinviare alla consapevolezza che andare incontro agli altri vuol dire anche mettere in discussione ciò che si pensa di sé e di loro, cioè esporsi, ascoltarli e trasformarsi, pur non potendo nel fare questo uscire completamente e da sé e dai propri limiti”[5].

A partire da queste premesse l’autrice, nella seconda parte del suo libro, inizia a descrivere il contributo del pensiero femminista in bioetica, affrontando gli interrogativi morali posti dalle procedure mediche che hanno modificato la nascita, la riproduzione e la fine della vita. Ripercorrendo i punti di vista del femminismo, sottolinea come nell’applicazione ai casi della bioetica il paradigma morale della cura abbia riscosso particolare interesse. Recentemente su questo tema è uscito il libro di Letizia Paolozzi Prenditi cura (et al. 2013), che dà conto delle ultime riflessioni femministe in questo ambito, facendone materia politica, a partire da un documento di un gruppo della Casa Internazionale delle donne di Roma.
Caterina Botti fa riferimento a quella concezione della morale in cui è cruciale la capacità o la virtù di essere solleciti nei confronti dei concreti bisogni degli altri. Capacità o virtù che richiede l’ascolto, il dialogo e l’immaginazione. Quest’ultima ci mette in grado di rivedere e allargare il nostro punto di vista e sentire meglio ciò che è in gioco in una determinata situazione. A mio parere il discorso intorno al corpo diventa filosoficamente e politicamente interessante quando non è separato dalla pratica politica originaria del femminismo radicale, racchiusa nella famosa formula “il personale è politico”, proprio perché da qui può nascere una nuova politica e un nuovo pensiero. La stessa Federica Botti è familiare a questa pratica quando scrive. Possiamo citare, oltre a questo libro, anche il meno recente Madri cattive (il Saggiatore 2007) in cui, a partire dalla sua esperienza, si interroga coraggiosamente sui motivi del silenzio intorno alla gravidanza e sul perché il discorso pubblico eviti di riconoscere le donne come soggetti e agenti morali già in relazione, anche durante la gestazione.

Tornando alla storia che ha accompagnato la legislazione sull’aborto, vediamo come la politica istituzionale abbia dovuto (o avrebbe dovuto) confrontarsi con il discorso femminile sul corpo che proponeva la possibilità di depenalizzare, ovvero sottrarre all’intervento legislativo, un aspetto intimo della realtà umana femminile. Lo Stato sull’aborto non doveva legiferare, ma lasciare alla volontà, ai desideri e alla competenza delle donne la possibilità di risolvere la contraddizione posta da una gravidanza non desiderata, materia che esige il desiderio femminile. Sappiamo bene che il dibattito sulla depenalizzazione è ritornato attuale nel caso del referendum sulla procreazione assistita del 2005. Il punto politico forte del femminismo radicale è quindi, più in generale, che non si tratta di battersi per i diritti delle donne (dove lo Stato è la controparte), ma che lo Stato faccia un passo indietro quando si tratta del corpo delle donne, puntando sullo scambio tra donne, sulla misura e la capacità di autoregolarsi che deriva dalle relazioni e dalle pratiche tra donne. Quindi se guardiamo all’aborto, alle tecnologie riproduttive, alle questioni del fine-vita e in generale alla bioetica, la lotta politica del femminismo radicale è stata ed è la capacità di creare un vuoto di norma e di farne un luogo di effettiva libertà (non di pura licenza) per donne e uomini, con senso di viva responsabilità verso le persone più deboli. Caterina Botti, a partire da questo punto politico, propone una “ricostruzione della moralità […] che parta, in primo luogo, da una considerazione relazionale della condizione umana, che consideri cioè che gli individui nascono, si sviluppano e vivono in reti di relazioni […]; in secondo luogo, che consideri che la moralità o la virtù degli individui si caratterizzi nei termini del loro essere solleciti nei confronti degli altri con cui sono in relazione e abbia quindi a che fare con il saper gestire tali relazioni”[6]. In merito all’aborto, per esempio, Caterina Botti tenta di sciogliere il nodo della presunta colpa etica di chi abortisce, mettendo a tema la competenza morale delle donne. Il valore della scelta femminile, di fronte a una gravidanza o all’aborto, non va rivendicata sulla base di uno spazio vuoto di libertà, ma di uno spazio pieno di responsabilità, che emerge dalla peculiarità dell’esperienza stessa della gravidanza. “La donna è quindi sì libera di decidere, ma non lo fa come una persona qualsiasi, lo fa come colei che è in quella specifica relazione e se ne sente responsabile”[7]. I conflitti ci sono, in primis con l’altro sesso, ma sulla riproduzione la prima parola e l’ultima va lasciata alle donne e ciò non significa negare la parola agli uomini ma dare valore al conflitto, sia quello interno a sé che quello con l’altro, proprio perché vi è una forte asimmetria delle parti in causa che deve essere riconosciuta per creare lo spazio in cui la parola può darsi. Nella gravidanza il corpo femminile fa esperienza dell’essere due in una, posizione che scalza immediatamente quella dei diritti contrapposti (il diritto alla vita dell’embrione, quello della donna di abortire, quello dell’uomo di diventare padre): è dall’accettazione profonda da parte della donna della vita che ha dentro, dal consenso che intimamente lei dà, che può svilupparsi una relazione con la creatura che porta in grembo e una nuova vita umana. Per questo sull’aborto Caterina Botti riprende la posizione della depenalizzazione, per rimettere al centro la responsabilità delle donne. Dando valore alla loro scelta e competenza di diventare o meno madri, viene riconosciuta la responsabilità esercitata nelle relazioni, a partire da quella con l’embrione e poi quella con l’eventuale partner e gli altri significativi per sé.

Il tema della responsabilità, insieme a quello dell’asimmetria tra i sessi, ritorna anche quando si parla di procreazione assistita. Caterina Botti ci tiene però a ribadire che non c’è misura esterna che possa dire cosa è giusto fare, non c’è un ordine superiore, ma si tratta di fidarsi e di confidare nelle relazioni. L’unica cosa che, di nuovo, può fare ordine è il primato della soggettività femminile, con le sue competenze e il suo maggiore coinvolgimento, non solo mentale e immaginativo, ma anche fisico. “La mia tesi è che a causa della specialissima relazione che instaurano con il feto durante la gravidanza, le donne avvertono […] in modo più pressante la responsabilità della scelta e quindi decideranno con più attenzione e scrupolosità, ponderando in modo migliore le informazioni disponibili, ovverosia in modo responsabile”[8]. Passando dal livello morale al livello legale, ancora una volta queste considerazioni dovrebbero portare a scegliere impianti normativi leggeri. Speriamo che Botti in un futuro libro affronti in modo più approfondito le problematiche che riguardano la procreazione surrogata (la scelta della maternità per altri), qui solo accennate.

Anche riguardo al delicato tema del fine-vita e del testamento biologico, Caterina Botti parte dalla consapevolezza delle competenze delle donne, che da sempre si sono occupate non solo di nascite e bambini, ma anche di malati, anziani e moribondi. Ancora una volta, il principio morale della libertà (non disincarnata) e della responsabilità può offrire un orientamento, perché si basa sulla centralità della soggettività e della relazione con l’altra, l’altro. Così Caterina Botti presenta un ulteriore rovesciamento di prospettiva: partendo dai diritti dei malati arriva ad argomentare l’indifendibilità, da un punto di vista morale, di un medico che non tenga conto delle volontà del paziente. Certamente il discorso della soggettività e della scelta del paziente è più delicato e c’è forte disparità tra medico e paziente. Tuttavia, sulle relazioni “dispari” l’esperienza femminile del prendersi cura di una creatura piccola, totalmente dipendente, ha molto da dire. Quindi di nuovo assume una posizione di primo piano la relazione, l’unica dirimente: in questo caso si tratta della relazione medico-paziente, ma anche della relazione tra il paziente e la persona di fiducia scelta, se si tratta di un eventuale testamento biologico.

In conclusione, questo libro ci mostra che in questo momento storico a dir poco difficile, assumere come orientante il punto di vista soggettivo delle donne con le loro competenze relazionali, ci permette di ripensare la civiltà, tenendo insieme responsabilità e libertà.

[1] C. Botti, Prospettive Femministe, Espress Edizioni, Torino, 2012, p. 89

[2] Ivi, p. 20

[3] Ivi, p. 29

[4] Ivi, p. 47

[5] Ivi, p. 56

[6] Ivi, p. 109

[7] Ivi, p. 111

[8] Ivi, p. 163


(BIOETICA Rivista Interdisciplinare, Anno XXII n. 1-2, dicembre 2014)

di Gemma Pacella

Riflessioni sul libro La Grammatica la fa … la differenza!
Casa Editrice Mammeonline

 

Ho partecipato attivamente alla nascita del progetto che si è concluso con la redazione di questo libro.

La grammatica la fa… la differenza! non è solo un libro sul linguaggio sessuato, non prova a spiegare cos’è il linguaggio non sessista né tanto meno a dettare regole ottriate su come usarlo. Semplicemente lo pratica. Le filastrocche, le fiabe e i giochi sono stati scritti rispettando il genere grammaticale. E’ rivolto alle bambine e ai bambini di età scolare, negli anni in cui si apprendono le regole della grammatica. Vuole rinforzare la conoscenza della sintassi in relazione al sé, alla consapevolezza del sé sessuato. Raggiunge anche le loro e i loro insegnanti allo scopo di sciogliere alcuni dubbi e fornire loro uno strumento di orientamento pratico, per non scivolare in paradossi sessisti. Naturalmente, l’idea è quella di far emergere la radice sessuata degli aspetti non linguistici, la scelta politica del nominarsi, la cura delle parole, argomenti trattati nell’opuscolo collegato al libro.

L’idea iniziale è scaturita dal desiderio di raccontare del mio rapporto con il linguaggio sessuato. Indagare la mia relazione intima, profonda, cresciuta col tempo, con il linguaggio. L’incipit è stato: voglio significare la mia differenza con un linguaggio diverso.

Non ricordo quando, per la prima volta, ho scelto di utilizzare il linguaggio sessuato. So solo che inizia dal pensiero della differenza, madre del mio indagare. Il linguaggio sessuato è forma della differenza sessuale, una differenza che è corpo, fisico, materia, il cui pensiero si mostra proprio attraverso il linguaggio. La differenza sessuale vuole dirsi, desidera parlare, si vuole significare. E cosa può renderlo possibile se non il linguaggio? Spesso sento dire che il linguaggio sessuato è solo una questione di forma. Il ragionamento non regge di fronte al fatto che la lingua riflette un pensiero che a sua volta riflette il modo di essere, di viversi donna. Le parole indicano la differenza e le danno voce. Il punto è questo: che cosa vogliamo. Se la lingua è veicolo, canale della differenza di genere allora va utilizzata per dare un senso alle parole. Bisogna inventare parole diverse? A volte. Soprattutto è necessario prendere le distanze da quelle a cui siamo sempre state abituate/i, ovvero un linguaggio sessista, tendenzialmente neutrale (in realtà maschile) fatto da e per maschi, in cui, da donna non mi riconosco. Spesso, in passato, avvertivo un forte disagio nell’usare la lingua italiana. Avvertivo la sua estraneità. Col tempo ho capito che il linguaggio riflette un pensiero unico, patriarcale che si è appropriato della forma e del senso delle parole. Carla Lonzi afferma: “Il senso attribuito ad una cosa è sempre stato maschile, a tal punto che se io donna provavo ad attribuirvi il mio senso, paradossalmente la cosa dava ragione, obbediva a lui, al maschio. Perché è sempre stato così”. Il problema sta nell’abitudine, nell’aver subito nel tempo una lingua monca, fossilizzata su suoni, sensi, parole e aggettivi non rappresentativi di una cittadinanza femminile, soffocante anche per quella maschile. Una cittadinanza che è rimasta a lungo intrappolata, perché non la si diceva e nominava. Come insegnano le madri femministe, la conclusione è che ciò che non si dice non esiste. Il mondo ha bisogno di una lingua non più neutrale, non più accondiscendente agli schemi unicamente maschili, non riproduttiva di una gerarchia tra i sessi che non appartiene alle donne. Le madri femministe ancora una volta ci insegnano che le donne non hanno un equivalente della misoginia: non terrorizza il rapporto con il maschio, non si esclude la relazionalità con gli uomini. Allo stesso modo la lingua della differenza non riproduce la gerarchia e la subalternità che gli uomini hanno creato e fomentato nel tempo. Adriana Cavarero in Il potere tra i sessi, intervista Rai, ricorda: “Bianco diverso da nero uguale a bianco meglio del nero; ricco diverso dal povero uguale a ricco migliore del povero; uomo diverso da donna uguale a uomo migliore di una donna”. Ebbene, questa gerarchia non è contemplata in un linguaggio che si fa espressione della differenza sessuale. Un linguaggio non sessista non prevede l’esclusione di uno dei due sessi, non prevede l’ostracismo o l’olocausto di uno dei generi. Bensì li comprende, distinguendoli, entrambi. L’accento va posto sulla differenza. Una differenza che, in forza del suo nominarsi anche nel lessico, crea trasformazioni e civiltà. Il rapporto tra forma e sostanza (genere grammaticale e genere sessuale) è vivo, ricco di possibilità e negoziazioni.

Un’ulteriore conferma di quanto ho appena precisato sta nel fatto che questo volume è anche un libro che lavora sugli stereotipi legati ai ruoli, il che è un lavoro meraviglioso: è meraviglioso dire ad una bambina che da grande farà la medica, sicuramente non farà il medico. Maria Luisa Boccia in La differenza politica afferma che il linguaggio sessuato non significa solo mettere al centro la produzione di idee, la diffusa e crescente attività intellettuale, che pure c’è, né valorizzare le capacità femminili che pure sono pregevoli, ma il linguaggio e il pensiero della differenza può e deve manifestarsi ovunque, in modalità e su contenuti delle diverse discipline.

Ritornando al libro, non è facile utilizzare un linguaggio sessuato, proprio perché non è curato nelle scuole, nonostante l’opera meritevole di tante docenti.

La grammatica la fa… la differenza! non ha l’arroganza di porsi come una specie di bibbia, è uno strumento per poter parlare e lavorare assieme sul linguaggio sessuato. Se questa intenzione fosse rimasta solo un’idea, solo una bella idea senza la forza della condivisione non avrebbe avuto senso. Grazie ad un intreccio di relazioni tra donne e alla competenza indispensabile di Donatella Caione, con la sua casa editrice Mammeonline, questo libro è venuto al mondo e torna nel mondo. La forma (e la forza) del pensiero è diventata corpo, materia. A chi obietta che il linguaggio sessuato è cacofonico, che suona male, rispondo prendendo a prestito le parole di Lewis Carroll in Alice nel paese delle meraviglie: “Bada al senso che i suoni baderanno a se stessi”.

(libreriadelledonne.it 19 giuno 2015)