Di capitolo in capitolo, e in ciascuno un libro intorno al quale ruotano incontri, aneddoti, riflessioni, Laura Lepetit racconta la sua storia e quella della sua casa editrice, La Tartaruga. Una autobiografia costruita come una galleria di ritratti, quelli delle amiche e delle autrici della casa editrice, che attorno a quel progetto formavano una comunità sempre in movimento.
Laura Lepetit ha creato e diretto una delle più belle case editrici italiane: La Tartaruga. Una casa editrice che pubblicava solo donne, ma con criteri letterari, non politici, e che ha contribuito a far conoscere molte delle più grandi scrittrici del nostro tempo: Doris Lessing, Alice Munro, Gertrude Stein, Edith Warton, Virginia Woolf, per dire solo di alcune. Lo ha fatto con quella grazia svagata con cui ora ci racconta la sua vita: l’esperienza del femminismo con Carla Lonzi, i viaggi per conoscere le sue autrici, Radio Popolare, la Libreria delle Donne, i gatti, i cavalli, mescolando al racconto le sue considerazioni ‘distratte’, il suo sguardo sulla vita pieno di humour e di candore. Un libro fatto di incontri, amicizie, epifanie che hanno segnato la storia culturale e editoriale italiana nello sfondo di una Milano nella sua stagione più viva, colta, europea.
Laura Lepetit, intellettuale e femminista, nel 1965 acquista con Anna Maria Gandini la libreria Milano Libri e nel 1975 fonda la casa editrice La Tartaruga, che ha diretto fino al 1997, quando dovendo sottostare alle leggi di un mercato editoriale sempre più rigido, ha venduto marchio e catalogo alla Baldini & Castoldi. La Tartaruga retta da Lepetit resta, nella storia dell’editoria italiana, una casa editrice di enorme importanza nella diffusione del pensiero e della letteratura femminile.
Laura Lepetit
Autobiografia di una femminista distratta
nottetempo editore
collana: cronache
pp. 112 – euro 12.00
di Antonio Gnoli
L’editrice, intellettuale e femminista, nasce a Roma nel 1932, ma nel 1944 si trasferisce a Milano. Ha fondato e diretto fino al 1997 la casa editrice La Tartaruga
Esercitare le virtù del femminismo – che poi vuol dire avere un possesso e una sensibilità diversa del proprio corpo e della propria anima – non è stata una cosa semplice. Me ne accorgo leggendo questa Autobiografia di una femminista distratta (Nottetempo) con cui Laura Lepetit ha rimesso ordine nella propria vita di ricordi e di emozioni. C’è qualcosa di leggero quando scrive e di istintivamente guardingo nel modo di parlare e di porgersi al suo interlocutore, quasi che appartenere all’universo maschile rappresenti ancora se non un ostacolo alla conversazione almeno un piccolo inciampo alla comprensione. Intendiamoci: c’è eleganza, cortesia, disponibilità nel modo che Laura Lepetit mostra nell’accogliermi nella piccola casa milanese. E se grande era il disordine sotto il cielo in quei lontani anni Settanta, si dovrà pur ammettere che poco è restato di quelle danze, di quei volteggi, al sole di sgargianti vesti colorate, di quelle importanti rivendicazioni che ruppero la cupezza degli anni di piombo: “Non credo di dover parlare a nome di tutte le compagne con cui ho condiviso il cammino e le idee. Ma so che per molte di noi quegli anni – con le spinte al cambiamento che incubarono già prima del 1968 – furono la rappresentazione di un modo nuovo di intendere la vita e i rapporti tra le persone”.
In ogni momento di forte cambiamento c’è come la sensazione che si debba mettere in discussione tutto.
“Quando si è nel mezzo di un forte vento tutto si scompiglia intorno a te e tu non ne esci indenne. Ma la parola indenne non rende l’idea. È come un’ebbrezza che ti avvolge e ti spinge alla trasformazione”.
Quando il vento cala?
“Ci si può chiedere se ne valeva la pena. Per me ne è valsa la pena”.
Come guarda oggi al suo passato?
“È strano, delle cose che potevano sembrare allora insignificanti, oggi capisco che sono state fondamentali; mentre fatti ritenuti importanti sono diventati trascurabili. Se c’è qualcosa che regge la mia vita sono pochi dettagli, le cose minime che mi sono accadute”.
Un atteggiamento antieroico.
“L’eroismo è una qualità praticata soprattutto dall’universo maschile. Eroine ce ne sono poche e di solito fanno una brutta fine. Non mi schiero né con Madame Bovary né con Giovanna d’Arco. Ricordo che fin da bambina i modelli che ci proponevano in famiglia e nella scuola dovevano personificare il sacrificio domestico. Poi c’era chi se ne allontanava. Quasi sempre la strega di turno che finiva sul rogo; o la sognatrice di virtù borghesi che seguendo i suoi impulsi amorosi finiva puntualmente suicida”.
Quando la sua vita è cambiata?
“Ho studiato nelle scuole di suore: prima a Roma dalle Orsoline e poi a Milano dalle Marcelline. Mio padre era ingegnere; ci trasferimmo subito dopo la guerra. Poi il liceo e infine l’Università: la Cattolica”.
Un’educazione molto tradizionale.
“Per la quale ho conservato profonda riconoscenza. Le suore non erano così becere come di solito si è portati a pensare. Mi chiedeva quando è cambiata la mia vita? Se ripenso agli anni Cinquanta mi appare questa specie di mistica della femminilità che copriva ogni angolo esistenziale della donna: dal cinema, ai vestiti, al modo di pensare. Sono cambiata grazie al femminismo che ha aperto le porte della coscienza”.
A chi deve questa scelta o, meglio, questa nuova consapevolezza.
“Una donna fondamentale nella mia vita è stata Carla Lonzi. Ricordo un suo provocatorio pamphlet: Sputiamo su Hegel. Era il suo modo per uscire allo scoperto. La filosofia era stato soprattutto un affare maschile e la donna considerata un ricettacolo di banalità. Il libello uscì nel 1970, quasi in coincidenza con la fondazione del gruppo Rivolta femminile. Mi colpì che definiva le donne l’imprevisto della storia”.
Come la conobbe?
“Casualmente. Un’amica mi invitò a partecipare a una riunione di autocoscienza. E lì vidi Carla. Era una donna affascinante e spiritosa. La prima volta indossava dei pantaloni di pelle nera e una camicetta bianca. Una mise inusuale per l’epoca. Era di una bellezza fuori dai canoni. Nel passato era stata allieva di Roberto Longhi e aveva esercitato la critica d’arte. Aveva scoperto Carla Accardi, Kounellis, Twombly e Pietro Consagra. Con quest’ultimo ebbe una lunga storia che si concluse nel 1979”.
Anche tra di voi ci fu una rottura.
“Fu una scelta abbastanza drammatica. Carla mi pose di fronte a un’alternativa secca: o sei con me o sei fuori dal gruppo di Rivolta femminile”.
Cosa era accaduto?
“Pensavo che il movimento si dovesse avvalere di una casa editrice propria, capace di rappresentare le istanze femministe. Lei reagì male”.
Perché? Dopotutto era abbastanza naturale che un movimento si dotasse di una casa editrice.
“In effetti, all’inizio Carla sembrò interessarsi al progetto. Poi prevalsero i dubbi. Infine la certezza che la casa editrice ci avrebbe obbligato a venire a patti con i circuiti commerciali. Non a caso lei aveva sempre pubblicato per editori sconosciuti e spesso distribuiva a mano i suoi libri. Era una donna che non amava i compromessi. Rispettavo le sue posizioni, ma sentivo la necessità di una struttura più solida”.
E crea la casa editrice “La Tartaruga”, come mai un titolo così?
“Fu piuttosto strano. Anche perché il panorama internazionale era popolato da “Édition des femmes”, “Women’s Press”, “Virago Press”. Scelsi “La Tartaruga” perché l’animaletto simboleggiava una lentezza e un’autonomia proverbiali. Non volevo correre e, soprattutto, non volevo dipendere eccessivamente dal mercato. Ricordo che ne parlai con Erich Linder, il più straordinario tra gli agenti letterari, allora anche l’unico. Lo conobbi alla Milano libri, dove tra l’altro avevo lavorato. Somigliava a Erich von Stroheim. Mi ascoltò mentre gli illustravo l’idea di una casa editrice al femminile, ma attenta alla qualità della scrittura. Fu prodigo di consigli. E generoso”.
Che anno era?
“Uscii dal gruppo di Rivolta nel 1974 e fondai la casa editrice l’anno successivo”.
Ha più rivisto Carla Lonzi?
“Solo una volta, ci incontrammo casualmente per strada. Due parole di circostanza e niente più. In cuor mio sapevo che prima o poi l’avrei rivista in un modo più autentico. E invece non accadde. Morì troppo presto. Se ne andò nel 1982 per il riacutizzarsi di un tumore. Non sapevo che era malata. È doloroso pensare alla vita di alcune persone che hanno segnato parte del tuo cammino e poi perderle definitivamente, senza un chiarimento, una risposta, uno sguardo di intesa”.
Ci sono due donne sulle quali si esprime con giudizi opposti: Virginia Woolf e Simone de Beauvoir.
“Appartengono a due esperienze differenti. Virginia sembrò darci un’idea della donna vista dall’interno. Simone esteriorizza, ne parla come farebbe una mentalità maschile. Quando lessi Il secondo sesso non capivo a chi volesse rivolgersi. Non mi emozionai leggendolo. Spirava un vento freddo in quelle pagine che mi gelarono le dita. Oltretutto, mi insospettiva l’immagine che dava di sé: accanto a Sartre, incorniciata da certi ridicoli turbanti, come una signora intelligente della buona borghesia, destinata a governare un salotto letterario”.
E la Woolf?
“Intanto era bellissima. Conobbi bene la nipote Angelica Garnett, figlia di Vanessa Bell. Andai a trovarla dove viveva, in un villaggio della Provenza. Ci vedemmo nella piazza del paese. L’attesi seduta a un caffè. Arrivò radiosa e mi condusse a casa. Un bel giardino e poi notai le pareti affrescate di suoi disegni e una grazia nel portamento snello. Somigliava in maniera impressionante a Virginia. Lo stesso volto allungato, il naso che sembrava una piccola spada e gli occhi. Occhi grandi, chiari e sempre spalancati sullo stupore del mondo”.
Cosa pensava della zia, del suo suicidio?
“Credo che avesse messo quell’episodio tragico tra parentesi. Non ricordo nessuna allusione. Del resto, era poco più che ventenne quando la Woolf morì. Allora non sapeva che fosse una grande scrittrice”.
Però era vissuta in un ambiente di artisti, in quel clima di Bloomsbury dove ciascuno, come in una meravigliosa recita, interpretava una parte.
“Bloomsbury era una garanzia di creatività e libertà tra le persone”.
Libere e promiscue.
“Cosa intende?”
Mi pare che Angelica era nata da un unione illegittima tra Vanessa Bell e Duncan Grant. Vanessa era infatti sposata a Clive Bell. La promiscuità è che tutti andavano con tutti. Sessualmente viaggiavano senza passaporto. E in seguito Angelica sposerà lo scrittore David Garnett che era stato l’amante di Duncan Grant.
“Era una comunità sessualmente molto libera, dove le donne avevano un ruolo tutt’altro che subordinato”.
Lei perché volle incontrare Angelica?
“Perché era l’ultima testimone diretta di quel mondo nel quale aveva conosciuto tutti. Fu generosa e quando le dissi che avrei volentieri pubblicato il saggio Le tre ghinee – che io considero tra le cose più belle che Virginia Woolf abbia scritto – fu molto felice. In quel libro profetico, che uscì nel 1938, insieme all’imminente tempesta che avrebbe sconvolto l’Europa, si percepiva il ruolo fondamentale che Virginia assegnava al movimento delle donne”.
C’è qualcosa di analogo tra le scrittrici italiane che le abbia suscitato gli stessi sentimenti?
“No, la Woolf fu un caso di ineguagliabile talento nella scrittura e profonda visione sociale. Però una scrittrice italiana che mi ha affascinato è stata Anna Banti. Apparentemente quanto di più distante dal mio mondo. Era la moglie di Roberto Longhi e per avere un contatto con lei mi rivolsi a Cesare Garboli. Ricordo che Cesare mi invitò a pranzo in un ristorante dalle parti di Viareggio, dove viveva. Passammo un paio d’ore in cui brillò per intelligenza e teatralità”.
Era certamente lui.
“Alla fine mi sorprese, perché dopo aver chiesto il conto pregò il cameriere di preparargli un cartoccio con i resti del pesce. Se lo mise in tasca e tornammo verso casa. Dove ad accoglierlo c’erano cinque o sei gatti, ai quali distribuì gli avanzi. Fu Cesare a mediare il mio incontro con la Banti. Avevo letto il racconto Lavinia è fuggita, tanto bello da reggere perfino il confronto con la Woolf. Le spiegai l’intenzione di voler pubblicare una sua raccolta di racconti. Alla fine, dopo qualche perplessità legate al fatto che Mondadori preparava un Meridiano su di lei, accettò”.
Mentre parlava pensavo che è sempre difficile stabilire il grado di autonomia di una donna, o magari di un uomo, dentro una coppia. La Banti scrittrice mentalmente molto libera costruì un muro di protezione attorno a Longhi.
“Credo che sapesse essere molto autonoma e al tempo stesso protettiva. Non dimentichi che era nata alla fine dell’800, allevata nei valori della borghesia, da cui in parte ha saputo emanciparsi. Quando la incontrai vidi una donna che aveva saputo dare un senso nuovo alla parola solitudine”.
Cosa vuole dire?
“Di solito la donna sola è sempre un po’ compianta. È senza qualcosa. La solitudine ha anche il suo lato positivo. Dopo anni vissuti in famiglia la si può apprezzare e non esserne vittima perché ci manca qualcosa o qualcuno. La solitudine per me è disporre del proprio tempo, dei propri desideri. Essere se stesse”.
L’accosterebbe dunque alla vecchiaia?
“Non necessariamente, anche se è facile che le due cose camminino insieme. Nella vecchiaia si allentano o si perdono tutti i legami precedenti: sei stata figlia, poi moglie e infine madre e magari nonna. La vita per un lungo tempo è affollata di presenze. Poi, a un certo punto, si perde questa folla e si entra in una nuova dimensione. La vecchiaia è una stagione con le sue particolarità”.
Tra queste c’è anche la riscoperta della fede?
“Per quanto mi riguarda mi interessa molto di più la laicità. La religione è stata per lungo tempo per me una cosa quotidiana. Presente nella scuola, soprattutto. Poi ne ho capito il folclore. E lì l’ho abbandonata”.
Cos’è l’amore per lei?
“Credere nel sentimento amoroso ma non nel sentimentalismo”.
Ha figli?
“Due e vari nipoti”.
Perché “femminista distratta”?
“Perché non sono metodica. Seguo l’ispirazione del momento. E spesso mi distraggo”.
Un antidoto contro la noia. Ha paura di annoiarsi?
“La noia, quella profonda, è un sintomo del fatto che le cause in cui credevi non erano poi così interessanti. Quel tipo di noia non mi ha afflitto. Non ho rimpianti né pentimenti. Ho vissuto da donna e da femminista. Due condizioni che hanno trovato un corretto equilibrio”.
(Repubblica, 28 febbraio 2016)
di Silvia Mazzucchelli
“Per anni ho sentito parole agitarsi dentro di me: ubbidienza, sacrificio, gratitudine, lavoro, onestà, castità, maldicenza, verginità, educazione”, “ora questa montagna di parole si è condensata ed è esplosa: non sarò mai più la stessa, ma voglio essere me stessa”. È il 1975 e queste sono le parole con cui la fotografa e scrittrice Carla Cerati conclude il suo romanzo Un matrimonio perfetto, appartenente alla trilogia pubblicata con il titolo di Una donna del nostro tempo, ispirata alla sua vita, a cui ne seguiranno molti altri.
La protagonista, archetipo della casalinga disperata, versione anni Sessanta, non ha scampo: è imprigionata in un ruolo di moglie e di madre, senza alcuna via di fuga, nemmeno nelle illusorie scappatelle extraconiugali a cui tenta disperatamente di aggrapparsi. Non esiste alcun universo alternativo, mitico, favoloso, sognante o liberatorio. “Io fedele Penelope stavo a casa”, “e Fabrizio altrove”, dice la protagonista del romanzo. Nessuno spiraglio, nemmeno sulla carta. Ma sin qui domina pur sempre la finzione letteraria. Il passo successivo sarebbe quello di irrompere nella realtà. E Carla Cerati ci riesce: continua a scrivere per tutta la vita, affidando alla scrittura l’analisi del suo passato e con la macchina fotografica si immerge nel presente e nella ricerca del proprio sguardo.
Com’è quello sguardo? Ribelle, libero, anticonformista? Non solo. Si tratta di uno sguardo particolare, affidato a quello di un personaggio femminile che è tuttora di estrema attualità: Antigone, forse nella sua versione più intensa, a cui la fotografa ha dedicato molte delle sue immagini. Questa è la storia della sua genesi.
Carla Cerati, scomparsa in questi giorni, inizia la propria carriera come fotografa di scena. Nel 1960 fissa su pellicola Aspettando Godot di Tullio Pendoli, lavora per la compagnia del regista Franco Enriquez, fotografa il ballerino di flamenco Antonio Gades conosciuto nel 1969 quando era a Milano per uno spettacolo alla Scala, immortala la pièce Wielopole Wielopole di Tadeusz Kantor rappresentata a Firenze nel 1980 e nello stesso anno una performance del gruppo Bread and Puppet di Peter Schumann.
E poi fotografa il Living Theatre, la creatura Off-Broadway, sorta nel 1947 a New York dall’incontro fra Judith Malina e Julian Beck, che rappresentano molti dei loro spettacoli anche in Europa. Gli scatti di Carla Cerati fissano i volti degli attori e le vibrazioni dei loro corpi: dapprima l’Antigone nel 1967 al Teatro Durini di Milano, poi le figurazioni allucinate del Frankenstein nel 1968 a Modena, e nello stesso anno le fotografie di Paradise Now, scattate nell’ambito del Festival del teatro di Avignone due mesi dopo il Maggio francese, le stesse immagini che nel 1970 Franco Quadri include nel suo saggio dedicato al famoso happening.
Ma è l’Antigone ad affascinare in maniera particolare la fotografa. Lo spettacolo che lei immortala nel 1967, scaturisce dallo studio dell’album fotografico e delle note dell’Antigone sofoclea tradotta da Hölderlin, ma rivisitata in chiave politica da Bertolt Brecht nel 1948. Non solo nel 1974 Carla Cerati espone ottanta fotografie di scena dell’Antigone in una mostra alla galleria Primopiano di Torino, ma in seguito riprende le immagini del Living, le scruta, le modifica, le stravolge. Realizza otto fotografie che lei denomina Elaborazioni sull’Antigone. In seguito ne isola alcuni particolari ampliando la drammaticità del dettaglio; nel 1983 ingrandisce nuovamente le fotografie e sperimenta diversi viraggi, ottenendo “ingrandimenti sgranati che paiono sindoni di anime torturate”, scrive Uliano Lucas.
Perché tanta insistenza? Cosa accomuna lo sguardo di Antigone, la giovane fanciulla che disobbedisce alle leggi del tiranno Creonte e decide di seppellire il fratello Polinice, allo sguardo della fotografa? Cosa vuole suggerire Carla Cerati attraverso il volto di Antigone/Judith Malina? Non si tratta forse di quello sguardo sconvolto ma allo stesso tempo lucido e tenace, che oppone la fragilità al dispotismo del potere?
Ma chi è davvero Antigone? E ancora: “quanto l’Antigone nei nostri anni ci parla dell’Antigone sofoclea e quando invece di noi?”, si chiede Rossana Rossanda in un suo saggio. Antigone è un insieme di doppi: la persona e lo stato, ciò che è legge e ciò che è giusto, l’amore e la morte. Sono questi i dilemmi che ne caratterizzano il destino. Ma un ben moderno destino, scrive ancora la Rossanda, se è vero che Antigone è definita dal Coro “autónomos, come colei che da sola si dà la sua legge”, al massimo della “coscienza di una solitudine a nessuno imputabile se non a sé”.
“Ōmós è il suo carattere, dirà ancora di Antigone il Coro (…) letteralmente al di là dell’umano, un’ostinazione inflessibile”, sino all’estrema conseguenza. Per questo, anche prese la dovute distanze, conclude la studiosa, “ci scopriamo come Antigone nelle sue ultime ore. Come lei non crediamo alla sacralità dei potenti (…), come lei siamo determinati ad affermare, in solitudine, l’io, anche se il suo io non ha molto a che fare col nostro. Ci uniscono il principio d’autonomia e di disobbedienza”.
Così è lo sguardo di Carla Cerati: disobbediente e ostinato perché autonomo. Per lei, madre di due bambini, sposata e casalinga, fotografare ha voluto dire “uscire dalla gabbia”, scoprire l’universo fuori dalla porta di casa, ma anche se stessa: i desideri, le aspirazioni, la possibilità di esprimersi. “Per me fotografare”, racconta Carla Cerati, “ha significato la conquista della libertà e anche la possibilità di trovare risposte a domande semplici e fondamentali: chi sono e come vivono gli altri? Lavorano? E se sì, dove lavorano? Quali sono i mestieri, le professioni e i luoghi in cui le svolgono? Come trascorrono il tempo libero?”.
Un bisogno di indipendenza e “autonomia” che giunge direttamente alle sue immagini in cui essa arriva a creare un’istante ideale, dove riesce a far vivere i soggetti che fotografa in una dimensione di libertà illimitata, un imprescindibile diritto ad esistere, senza rinunciare al suo punto di vista, al bisogno di guardare in modo nuovo il mondo che la circonda.
In questo spazio fluido, vero e proprio luogo di incontro tra diverse soggettività, i volti degli uomini, i corpi, le città – nient’altro che quegli uomini, quei volti, quelle città – vivono unicamente della loro essenza, nel singolo istante fissato dall’obiettivo, e tuttavia incarnano l’idea della fotografa e il suo bisogno di trasmetterla, una pulsione verso il cambiamento e la trasformazione di una data realtà, come se la fotografia (e la scrittura) avessero il potere di spingersi al di là della stessa rappresentazione, per poi tornare al cuore del soggetto rappresentato.
Per questo lo sguardo di Carla Cerati è allo stesso tempo trasparente e bulimico, uno sguardo a cui non può sfuggire nulla, poiché tutto intorno a lei è degno (come per la sua vita) di avere il proprio spazio di libertà e “autonomia”, dato dall’irriducibile autonomia dell’immagine fotografica.
Il mondo intero entra nel suo obiettivo, con l’ostinazione di chi non intende tralasciare alcun dettaglio: l’esperienza sconvolgente e indimenticabile del fotografare i malati dei manicomi con Gianni Berengo Gardin, poi confluita nel celebre volume Morire di classe (1969) curato da Franco Basaglia, che essa considerava come la sua “eredità simbolica”. O ancora l’eccentricità e l’opulenza delle classi protagoniste del boom economico, anticipazione della “Milano da bere”, i cui soggetti sono raffigurati come maschere deformate in Mondo Cocktail (1974), il corpo femminile con le immagini di una scultorea bellezza nel libro intitolato Forma di donna (1978) e quelle a colori di Forma Movimento Colore. Nudo Danza, realizzate nel 1987-1988 con la collaborazione della danzatrice Valeria Magli.
E poi i foyer della Scala, i mutamenti della città e le sue ferite nel ciclo intitolato Milano Metamorfosi (duecentodiciassette fotografie divise in capitoli come un romanzo), le lotte studentesche, i funerali di Giangiacomo Feltrinelli e degli studenti uccisi negli anni Settanta, il processo Calabresi-Lotta Continua, il mondo della scuola, quello delle balere degli immigrati nella vecchia Milano, i ritratti degli intellettuali: Eugenio Montale, Elio Vittorini, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini.
E infine cosa può insegnare oggi il lavoro di Carla Cerati? Il coraggio, il rifiuto di ogni ipocrisia, la forza della propria irrinunciabile unicità. Alle soffocanti convenzioni del mondo borghese, in cui la donna era solo una presenza invisibile e silenziosa, la fotografa/scrittrice oppone nell’unione con il tutto e nel sentirsi parte dell’universo, una conoscenza vissuta come capacità di liberarsi da ogni forma di egoismo, per partecipare, nelle vesti di attrice e spettatrice, al fluire degli eventi.
Una disposizione all’apertura verso la realtà, che fa dell’erranza una condizione necessaria, affinché sia possibile restituire alla cultura e alla politica, come suggeriva Lea Melandri, “quel retroterra di esperienza, confinata nelle case e nel corpo delle donne”, poiché insieme al corpo possa prendere posto “nella polis, la “persona”, vista nell’interezza delle sue molteplici identità e appartenenze, sociali, sessuali, linguistiche, culturali”.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente in forma diversa e più estesa sulla rivista “Nuova Prosa”.
Armata di sigaretta, matita e carta
di Benedetta Centovalli
«Nei giorni successivi alla sua morte, non si fece che pensare ai libri: come quando una persona se ne va e si lascia alle spalle qualcosa di non autonomo, qualcosa di dipendente da sé, e allora si dicono quelle frasi, E adesso con chi staranno, i figli? Chi si porta a casa le piante? E il gatto, chi si prenderà cura di questo gatto?». Solo che nel caso di Grazia Cherchi non c’erano figli o piante o animali, c’erano solo i libri, i libri degli altri, quei libri che a pensarci bene non sono solo degli autori, non bastano gli autori a prendersene cura. Così sono rimasti soli, abbandonati al loro destino. I libri e i loro autori. È uscito da poco il libro Grazia Cherchi di Michela Monferrini (pp. 126, € 12, Ali&no editrice, Perugia 2015), nella collana “Le farfalle” diretta da Clara Sereni, con fotografie di Vincenzo Cottinelli e un puzzle di voci autorevoli e amiche per ricordare la grande Grazia (1937-1995) a vent’anni dalla sua morte («Non durano eterni / neanche i Quaderni / ma eterna si spazia / la gloria di Grazia», scriveva Franco Fortini). Un ritratto vivo e parlante – a noi smemorati operatori del mondo del libro – sul suo lavoro culturale in decenni difficili e densi di trasformazioni, dai sessanta ai novanta, lavoro caduto in ombra, sommerso, dimenticato, cancellato (introvabili la sua raccolta di racconti, Basta poco per sentirsi soli, Tringale, Catania 1986; E/o, Roma 1991, con prefazione di Alfonso Berardinelli, e il romanzo Fatiche d’amore perdute, Longanesi, Milano 1993), mentre è indispensabile recuperare la sua militanza nella letteratura contemporanea, e ricordare che ci sono state intellettuali ed editor donna, letterate editrici, di capacità e di valore che hanno fatto scelte consapevoli e indipendenti rispetto al mainstream della carriera e del potere, e che hanno contribuito in modo significativo alla crescita del discorso culturale nel nostro paese.
Un viaggio nel mondo di Grazia
Michela Monferrini ci guida con mano ispirata e leggera alla scoperta del mondo di Grazia: libri e sigarette, treni autobus e taxi, caffè e redazioni, Milano di pioggia e di sole, viaggi e incontri, amici e politica. Amava le scritture irregolari, cercava sempre in un libro stile (sobrio, magro) e contenuti, sapendo quanto fossero un pieno a perdere. Odiava gli aggettivi ridondanti e gli avverbi in “-mente”. Appassionata e brusca, “romantica” e zarina, incurante di sé e dedita alla cura degli altri, priva di spirito pratico e schierata contro i conformismi di ogni specie, Grazia Cherchi rivive in questo racconto costellato di memorie di chi le è stato vicino con la sua “faccia bellissima un po’ sarda un po’ da india amazzonica” (Stefano Benni) e i gesti di una intellettuale fuoricentro, eretica e ironica, per la quale proviamo un’acuta nostalgia.
È indispensabile ricordare che ci sono state intellettuali ed editor donna, letterate editrici che hanno fatto scelte consapevoli e indipendenti, contribuendo in modo significativo alla crescita del discorso culturale italiano.
Ha lavorato con tanti autori: da Sandro Onofri a Maurizio Maggiani e Massimo Carlotto, da Clara Sereni a Lalla Romano, da Franco Fortini a Giovanni Giudici, da Gianni Riotta a Oreste Pivetta e Enrico Franceschini, da Paolo Di Stefano a Enrico Deaglio e Gad Lerner. Ha contribuito alla scoperta di nuovi talenti (Alessandro Baricco, Stefano Benni, Gianfranco Bettin, Claudio Piersanti, Dario Voltolini), è stata amica di Camilla Cederna, Vincenzo Consolo, Silvana Mauri Ottieri, Valentina Fortichiari, e si è mossa con intelligenza tra la piccola e la grande editoria (ha collaborato con Feltrinelli, Garzanti, Rizzoli, e/o, Manni). Tante di queste voci prendono la parola in questo volume polifonico.
Venerava come maestri Bilenchi, Morante, Volponi, Sereni. Ho incontrato negli anni ottanta il nome di Grazia Cherchi proprio a casa di Romano Bilenchi, scrittore che lei considerava uno dei maggiori del Novecento anche se tra i meno riconosciuti, il cui stile è stato guida e modello non solo nella formazione del gusto di Grazia ma anche per il suo lavoro di selezione e riscrittura dei testi. Scrivere tutto e togliere quasi tutto, diceva Bilenchi, citando Čechov. Insieme a quel non avere paura di nessuno, che era stato il suo modo di diventare adulto nonostante la continua enigmatica attrazione per il tempo bambino, e che lo aveva reso testimone scomodo, a orologi spenti, controtempo. Quel non avere paura in cui Grazia si era riconosciuta appieno. Per più generazioni Grazia Cherchi è stata un punto di riferimento con la sua attività di intellettuale militante, libera e intransigente, con la passione del minoritario, prima sulla rivista “Quaderni piacentini”, che ideò e diresse con Bellocchio e Fofi, poi sulle testate a cui collaborò (“Linus”, “Linea d’ombra”, “L’Indice”, “Panorama”, “Il Manifesto”, “Il Secolo XIX”, “L’Unità”), e nelle rubriche affilate e provocatorie che tenne (Da leggere e da non leggere, Consigli/Sconsigli, Letture, Vistosistampi, Polemiche, Un po’ per celia). Si può consultare (si fa per dire perché anche questo libro non è stato più ristampato) una scelta dei suoi articoli, recensioni, ritratti e interviste a partire dagli anni ottanta in Scompartimento per lettori e taciturni, uscito postumo nel 1997, a cura di Roberto Rossi, testi introduttivi di Giovanni Giudici e Piergiorgio Bellocchio, presso Feltrinelli.
Lettrice accanita e appassionata, Grazia considerava la narrativa contemporanea un nutrimento necessario per comprendere quello che la circondava, il filtro personale di uno scrittore erano gli occhiali speciali con cui osservare il mondo. Nel lavoro culturale il suo metro era la responsabilità di abitare il proprio tempo, di stare nella società e nel discorso civile, di fare reagire la tensione morale con l’intelligenza del cuore perché il mondo potesse cambiare in meglio: «Era il secondo tempo della sua vita: dopo aver fondato e diretto riviste, fatto la giornalista, la redattrice, dopo e contemporaneamente alla critica letteraria», scrive Monferrini, ecco che quella passione principale – la lettura – prende una nuova forma di impegno lavorativo, quella dell’editing-editing, occuparsi in buona sostanza e dal di dentro dei libri degli altri.
Nel lavoro culturale il suo metro era la responsabilità di abitare il proprio tempo, di stare nella società, di far reagire la tensione morale con l’intelligenza del cuore perché il mondo potesse cambiare in meglio.
Ma forse c’è di più, si tratta sempre della vocazione di Grazia a interpretare il lavoro culturale come progetto collettivo, piuttosto che assecondare la componente individualistico-narcisistica dello scrittore (Piergiorgio Bellocchio). Come era avvenuto ai tempi dei “Quaderni”, dai sessanta ai settanta, quando l’attività di coordinamento redazionale aveva preso il sopravvento sulla stesura in proprio di interventi, dagli anni ottanta in avanti cresce, accanto alla scrittura pubblica, il lavoro di lettrice-consulente editoriale e di editor. Un destino in ombra fatto di accudimento, di sollecitazione, di messa a punto, che fu anche il suo modo di eludere e resistere alla patina corrosiva degli anni ottanta. Era “un certo modo di stare al mondo”, che secondo la testimonianza di Baricco è la sua eredità più grande. Così per chi meditava di intraprendere o aveva intrapreso la strada del lavoro editoriale, Grazia era diventata un esempio per il puntiglio, la precisione, l’etica sempre sorvegliata, la capacità di capire un testo in profondità, mettendo a nudo funzioni e artifici.
Grazie a questo piccolo e prezioso libro su Cherchi torniamo a indagare quell’anonimato, quell’iceberg che è il lavoro editoriale e in particolare il versante oscuro dell’editing, la cui parte visibile è di gran lunga meno imponente di quella che non si vede. Argomento per catacombe, di frequentazione rapsodica, di cui restano aneddoti, ricordi e auspicate ricerche di archivio (segnalo la documentata tesi di laurea magistrale di Giulia Tettamanti appena discussa alla Statale di Milano). Tra le ragioni di quest’ombra che avvolge il mestiere di editor c’è senz’altro l’incerto riconoscimento del lavoro editoriale come lavoro a pieno diritto culturale: perché è fatto in squadra, è condizionato dalla casa editrice, dal profitto, dal mercato, perché è un lavoro di mediazione. Una delle foto di Cottinelli racconta con precisione la relazione autore-editor, ci sono lei e il giovane Baricco, e proiettata sul muro alle spalle di Baricco l’ombra ingrandita di Grazia. Dicevamo incerto riconoscimento intellettuale. Come se fare editing non riguardasse una scelta di postura nel mondo, di orientamento dello sguardo. Come se fosse un mestiere privo di direzione e di possibilità di direzioni diverse. Come se quello sguardo non potesse essere orientato verso l’autore o verso il lettore e ciò non facesse la differenza.
Apologia dell’editor
«Personalmente, fare editing è il lavoro che preferisco in campo editoriale». E quasi trent’anni fa su “Panorama” scriveva: «L’editing è un lavoro che richiede una forte dose di masochismo. Bisogna infatti tuffarsi nell’altrui personalità (anche stilistica) abdicando alla propria; (…) è un lavoro che resta rigorosamente anonimo, di cui si è ringraziati solo verbalmente». Fatti e questioni, oggetto d’ironia, rimasti tali e quali. Nessuna novità sostanziale. Se non in peggio. Un editor è un lettore competente al servizio dell’autore e non dell’editore, spiega Grazia, pur sapendo che già tirava un vento opposto nel mondo editoriale destinato a capovolgere il senso di questa relazione. Aveva già registrato le prime avvisaglie della più recente trasformazione antropologica dei funzionari editoriali in procuratori di calciatori. Nella forbice tra narrativa d’intrattenimento e narrativa letteraria, il ruolo dell’editor è una lama sottile che rischia di invadere un terreno non suo, tagliando la polpa troppo vicino o lontano dal cuore di chi scrive.
Grazia Cherchi riflette a più riprese nei suoi interventi sul valore e sul significato della riscrittura (quasi tutti gli scrittori hanno bisogno di editing, cioè di suggerimenti e consigli, si tratta di sapere esercitare un “potere affettuoso” come lo aveva definito l’amico Berardinelli), si impegna per il riconoscimento aperto di questa professione, lavora per la chiarezza e la comprensibilità dei testi come etica necessaria per il lettore, oppone alla casualità e alla sciatteria la disciplina quotidiana di letture e revisioni. Che cosa fa un editor quando lavora su un testo? Ieri come oggi: taglia, sfoltisce, sfronda, asciuga, ricuce, rattoppa, aggiusta con la finalità sempre di portare a maggior nitore e coesione la storia e lo stile dell’autore. Ma non omologa, non uniforma, non appiattisce, non livella, è pronto ad accogliere lo straniero (Antoine Berman), l’altro da sé, dato che “la lingua degli altri ci mette regolarmente in crisi, perché collide con la nostra, la scuote, prende a ceffoni le nostre inclinazioni e le nostre certezze” (dall’introduzione di Giorgio Pinotti a Editori e filologi. Per una filologia editoriale, a cura sua e di Paola Italia, Bulzoni, Roma 2014). Prendersi cura dei testi, accordarli, vuol dire mettersi in ascolto e aprirsi all’altro, fare entrare lo straniero, è abitare una terra senza frontiere.
E cosa resta di questo viaggio senza approdo? Cosa resta di tutto quello che si fa intorno a un libro, con uno scrittore? Domanda di necessità pensando al lavoro di Cherchi, di cui cospicua parte resta nascosta dentro le pagine delle riviste, nei progetti, nei libri degli altri. Lavorare sui testi è come viaggiare in compagnia dell’autore, vale il viaggio più della destinazione, e un testo non è un porto ma è una nave che affronta il mare aperto, la lettura un viaggio senza sosta. Cosa resta di una vita spesa sui libri e per i libri degli altri? Una risposta ce la offrono le parole affettuose di Maggiani, «puntualmente litigavamo perché io per principio accettavo cinque correzioni ogni dieci proposte, non di più…», «Grazie a lei io ho visto come si lavora: io che pensavo di fare la rivoluzione, negli anni settanta, la rivoluzione con le idee (…) ma la rivoluzione l’ha fatta meglio lei, e in tutt’altro modo». Restano – oltre le pagine scritte e pubblicate – quelle diventate un campo di battaglia, tutte cancellature e segni, suggerimenti e lampi, generosità e talento, amicizia dolcissima e severa.
bcento@tiscali.it, 27 febbraio 2016
di Gabriella Freccero
“Secondo le ipotesi degli archeologi e degli storici la civiltà implica un’organizzazione politica e religiosa di tipo gerarchico, un’economia bellica. […] Io contesto la tesi che la civiltà si associ esclusivamente a società guerriere androcratiche. Il principio su cui si fonda ogni civiltà si trova al livello della sua creatività artistica, nei suoi progressi estetici, nella produzione di valori non materiali e nella garanzia della libertà individuale che rendono significativa e piacevole la vita di tutti i cittadini, nel quadro di un equilibrio di potere equamente ripartito tra i sessi”. (M. Gimbutas, La civiltà della dea, 1991)
L’antropologa inglese Margaret Murray già nel 1921 con la pubblicazione del volume The witch cult in western europe formulava l’ipotesi che alla base del culto occidentale delle streghe vi fosse una antichissima religione pagana che risaliva a tempi molto più remoti dell’insediamento indoeuropeo nel vecchio continente, al cui centro vi era l’adorazione di una dea madre e di un dio cornuto (Horned God) da parte di una congregazione femminile di sacerdotesse ed adepte con diversi gradi di iniziazione, un culto aperto a donne e uomini che credevano in una profonda connessione tra le forze della natura, gli esseri umani e le forze soprannaturali preposte al culto della rigenerazione cosmica. La Murray nasce come egittologa e al momento dell’uscita del libro ha alle spalle due decenni di pubblicazioni, in qualità di assistente del professor William Flinders Petrie, di resoconti delle campagne di scavo ad Abido e Saqqara che le diedero successo e celebrità e contribuirono a diffondere nel regno britannico l’egittomania. Mentre nel mondo accademico svolgeva un ruolo di mentore per altre donne che incoraggiava a dedicarsi alla professione archeologica era impegnata nel movimento femminista con marce, dimostrazioni e volantinaggi. Nel 1933 con Il dio delle streghe ripropone in uno stile più adatto al grande pubblico i risultati degli studi sul folclore britannico; lo scetticismo con cui viene accolta la sua teoria dal mondo accademico contrasta nettamente con il favore del pubblico che consacra lo studio della Murray alcuni decenni dopo come la base ideologica del movimento neopagano della Wicca.
La ricostruzione della Murray, per quanto ispirata da una solida conoscenza sul campo delle culture antiche che comprese dopo l’Egitto anche scavi a Malta e nell’isola di Minorca, era tuttavia priva di una concreta base documentaria; solo con il lavoro pionieristico di Marija Gimbutas prese davvero corpo l’ipotesi che in Europa si fosse perpetuata in tempi storici lunghi anzi lunghissimi e all’interno di culture rurali più che urbane una religione basata su un divino immanente centrata sul corpo femminile, la natura e i cicli cosmici di eterno rinnovamento.
La biografia di Marija Gimbutas è fondamentale per studiare il suo metodo rivoluzionario di lavoro. Nata a Vilnius in Lituania nel 1921 da due medici appassionati di tradizioni folcloriche che decisero di non iscrivere la figlia alle scuole pubbliche ma di darle un’educazione privata che comprendesse l’approfondimento dell’arte, della musica e delle tradizioni popolari, che l’occupazione russa prima e quella polacca poi avevano tentato di sradicare. Marija perse il padre a 15 anni e decise di continuare la sua opera, in particolare lo studio dei riti funerari precristiani; a 16 anni registrò personalmente più di 5000 canti popolari con cui i contadini lituani accompagnavano i lavori, le feste e gli eventi della vita. L’invasione tedesca della Lituania nel 1939 e l’anno dopo quella sovietica la convinsero a lasciare l’Europa; appena laureata con la prima figlia per una mano e la tesi nell’altra emigrò negli Stati Uniti. Iniziò la carriera universitaria alla Harvard University come traduttrice dalle lingue slave ed in seguito, riconosciuta la sua competenza nel mondo preistorico, pubblicò diversi volumi dedicati alle antiche civiltà dell’Europa centrale. Nel 1963 ottenne una cattedra presso l’Università della California a Los Angeles ove svolgerà il suo insegnamento fino al 1989 come titolare della cattedra di Archeologia Europea e Studi Indoeuropei.
Durante le campagne di scavo condotte tra il 1968 ed il 1980 nei siti neolitici lungo il bacino del Danubio, nella Grecia nordorientale, in Macedonia, Bosnia e nell’Italia meridionale rinvenne più di 2000 manufatti databili tra il 6000 e il 3000 a.c. tra ceramiche dipinte, modellini di templi, altari, vasellame per le offerte; più del 90% degli oggetti erano statuine antropomorfe femminili, spesso con maschere animali sulla testa (uccello, orso, serpente, rana), decorate con un complesso sistema simbolico a spirali, zigzag, cerchi, a X oppure a onde. Si trattava comunque di reperti totalmente diversi da quelli rinvenuti fino ad allora nelle sepolture indoeuropee; gli stessi siti individuati d’altronde presentavano ubicazione, insediamento, resti delle abitazioni totalmente diversi da quelli di epoche successive. La Gimbutas si rese quindi conto che tali materiali non erano da considerare poco più che curiosità della storia dell’arte, da immagazzinare nei depositi dei musei senza alcun ordine né classificazione, ma che erano vere e proprie chiavi utili a riportare alla luce una civiltà europea tanto remota da essere ormai totalmente dimenticata. In assenza di una qualsiasi chiave di lettura già codificata costruì un suo metodo di lavoro cui darà il nome di archeomitologia e nominò questa perduta civiltà Società dell’Antica Europa.
Per l’analisi dei reperti sviluppò un approccio fortemente interdisciplinare utilizzando gli strumenti della linguistica, dell’ archeologia, dell’ etnologia, della paleografia che lei padroneggiava dai tempi delle sue precoci ricerche sul folclore lituano, in controtendenza rispetto alla eccessiva specializzazione del sistema accademico moderno. Partendo dall’assunto che le cosmologie sacre rappresentano il centro di tutte le società antiche e che le credenze fortemente radicate sono soggette a trasformazioni lentissime e tendono a riaffiorare come substrato culturale anche in tempi in cui risultano ufficialmente abbandonate, le immagini non rimangono mute ma forniscono la testimonianza di contesti sociali viventi, il loro studio va fatto per raggruppamenti a seconda dell’intima corenza oppure per classi di significato e di occupazione di un ben specifico posto nell’immaginario sacro dei popoli che le crearono.
Marija Gimbutas vide così riaffiorare nei misteriosi manufatti disseppelliti in Europa Centrale i testimoni di un sistema di credenze estremamente familiare, legato all’adorazione della terra come madre fonte di ricchezze e nutrimento inesauribili che i contadini baciavano all’alba andando ai campi e al tramonto ritornando dal lavoro. L’idea è riproposta dalle innumerevoli rappresentazioni femminili della Dea come contenitore, recipiente, brocca, utensile per conservare cibi e dalle statuine della dea gravida della vegetazione. Le maschere animali che coprono il viso dell’idolo fanno riferimento alla forma immanente dell’eterno ciclo del rinnovamento: il viso di uccello evoca le migrazioni dei volatili che partendo e ritornando secondo cicli ben precisi scandiscono il succedersi delle stagioni; la dea serpente accovacciata in posizione yoga con le estremità avvolte in spirali è un potente simbolo di rigenerazione suggerito dal cambiamento della pelle dell’animale; l’orsa suggerisce con il letargo invernale e la riapparizione primaverile con i piccoli il simbolo della nuova vita ed anche la presenza divina durante il parto (credenza trasmessa anche alla Grecia storica). Le immagini della Dea a postura rigida o a forma di uccello rapace dai grandi occhi aperti nella notte testimoniano che da quelle popolazioni la morte era venerata al pari della vita, come un passaggio senza il quale il ciclo eterno vita-morte-rigenerazione sarebbe cessato. “Il concetto di rigenerazione e rinnovamento è forse il più sorprendente e drammatico tema che percepiamo in questo simbolismo” scrisse la Gimbutas nel 1989.
Il nome di dea che l’archeologa attribuì alle statuine scoperte suscitò la perplessità degli studiosi abituati a riconoscere come tali ben individuabili figure dei pantheon divini dei tempi storici e timorosi che si intendesse rinnovare l’interesse per un generico culto della fertilità ed un matriarcato mitico quanto indimostrabile. Gimbutas sostiene che il termine dea vuole esattamente intendere il contrario, cioè che la simbologia femminile presiede agli aspetti tanto creativi che distruttivi dei cicli cosmici, andando ben al di là del puro culto della fertilità; la dea è tale in quanto distrugge tanto quanto crea: è la dea avvoltoio che scarnifica le carni dei cadaveri per finire il lavoro della distruzione e rimettere in circolazione il nutrimento, ma è anche la dea della vegetazione nel cui impasto di terracotta sono ritrovati i semi di cereali che garantiscono la sopravvivenza degli umani.
Dagli scavi sono venuti alla luce resti di villaggi che fanno pensare ad una struttura sociale piuttosto egualitaria. Non si vedono abitazioni più ricche ed altre più povere, appaiono invece tutte addossate le une alle altre come alveari con i morti seppelliti al di sotto per consentire agli antenati di continuare a proteggere la famiglia e la casa. Il tempio non risulta in posizione dominante o appartata rispetto alle case ma si trovava in mezzo ad esse con dimensioni appena di poco più grandi; dai modellini di templi in terracotta e dagli scavi emerge una struttura templare a due piani: al piano terra grandi forni per cuocere le offerte a base di grano, torte e focacce oppure il vasellame cultuale, al piano superiore si trovavano altari, oggetti sacri, simboli di rigenerazione come soli, serpenti, uova, spirali, centri concentrici, con resti di pittura alle pareti in ocra rossa simbolo di vita; dai modellini in ceramica si riconoscono tamburelli, troni sedili, tavoli e sedie che fanno pensare ai templi come ritrovi in cui la musica avesse un ruolo importante. Nelle sepolture non sono state rinvenute armi nè resti di individui che facciano pensare a re o principi per la ricchezza del corredo come nelle successive inumazioni indoeuropee; le sepolture piu’ ricche di oggetti cultuali sono di donne, spesso anziane, quelle maschili hanno corredi di oggetti legati al lavoro come asce di pietra per lavorare i metalli o di conchiglie che fanno pensare al commercio con paesi lontani, in entrambe le sepolture si trovano attrezzi per frantumare il grano, facendo pensare alla condivisione dei lavori destinati alla sopravvivenza del gruppo tra i sessi.
Dal quinto millennio a.c. iniziano a trovarsi negli stessi siti le enormi sepolture a tumulo il cui nome indoeuropeo è Kurgan, col quale la Gimbutas denomina le popolazioni centro europee che mano a mano sostituirono la civiltà dell’Antica Europa. Nelle grandi tombe i corredi funerari splendidi di potenti guerrieri a cavallo suggeriscono la comparsa di nuovi valori: il culto per la ricchezza, la gerarchizzazione della società, la svalutazione del femminile, l’esaltazione della forza e delle armi. Alla fine del terzo millennio a.c. il passaggio è completato.
I risultati di decenni di studi sul territorio europeo sono contenuti nell’ultima grande opera di Gimbutas La civiltà della dea che in Italia appare in traduzione solo tra il 2012 e il 2013 per i tipi di Stampa Alternativa di Viterbo. Anna Schgraffer recensendo l’uscita del primo volume nel 2012 sottolinea che la pubblicazione non a caso avviene ad opera di una casa editrice che non si chiama “Stampa di Regime o Taci e Acconsenti”; evidenziandone i contenuti rivoluzionari fa notare come la disponibiltà al pubblico italiano solo dopo ben 21 anni dall’edizione originale segnali il ritardo culturale del nostro paese e la miopia della classe intellettuale italiana (editori compresi) rimasta sostanzialmente indifferente a ciò che nelle accademie non è materiale più che accreditato in quanto innocuo e non certo innovativo.
La stessa Gimbutas si era d’altronde meravigliata che le pubblicazioni delle sue prime ricerche negli anni ‘70 e ‘80 piuttosto che dagli studiosi e dai colleghi venissero acquistate da donne, spesso non specialiste della sua materia ma che intravedevano in questa accurata ricostruzione di un passato tanto diverso dalla loro condizione attuale una formidabile possibilità di ispirazione culturale e di critica al patriarcato, non più condizione storica immutabile ma databile storicamente.
Mariagrazia Pelaia, curatrice dell’edizione italiana de La civiltà della dea, in un intervento sulla rivista Le simplegadi dell’Università di Udine, attribuisce all’archeologa lituana Gimbutas il merito di aver dato nome a materiali e simboli totalmente incomprensibili ai nostri tempi poiché andato distrutto l’universo di significato che essi esprimevano; quando conia le espressioni Dea Uccello, Dea Avvoltoio, Dea Civetta oppure Dea Occhio, Dea della morte e rigenerazione, Dea gravida della vegetazione, o lo stesso nome di Antica Europa, rinomina interamente un mondo perduto e lo rimette al mondo; condizione assai simile a quella del movimento femminista quando si trovò a costruire da capo un soggetto femminile perduto senza avere parole per significarlo. Gli stessi termini di matrismo o società matristica furono inventati e adottati dalla Gimbutas al posto di matriarcato, per rimarcare che nelle società da lei scoperte non vigeva l’opposto del patriarcato, cioè il dominio delle donne sugli uomini.
Gimbutas inoltre scopre una vera e propria forma di scrittura sui reperti neolitici, che oltre ai simboli già menzionati di zig zag, spirali, cerchi e losanghe in alcuni casi presentano un vero script di simboli collegati in stringhe o grappoli a formare evidentemente una paleo-scrittura ancora indecifrata. Interessanti somiglianze sono state evidenziate con la scrittura antico-cipriota e antico-cretese per cui ancora manca una decodificazione; la nascita della scrittura parrebbe pertanto non risalire al mondo mesopotamico, ma al vecchio continente nascendo sotto una spinta religiosa anziché per scopi archivistici e burocratici come ci è stato insegnato.
A Marjia Gimbutas va riconosciuta non soltanto la rivoluzionaria opera scientifica ma anche il grande esempio di fedeltà al suo sguardo femminile, che si è tradotto nella capacità di fare ricerca tenendo insieme tutta se stessa, il mondo degli affetti con lo spirito scientifico, come ha dimostrato riconoscendo valore e verità alle parole della madre, nel modo in cui fanno per istinto le bambine, attendibilità ai loro racconti; proprio quei racconti cui spesso agli studiosi viene chiesto di rinunciare in nome di una obbiettività razionale senza radici, senza sesso e quindi anche senza fondamento.
(www.eredibibliotecadonne.wordpress.com, 12 febbraio 2016)
di Alessandra Pigliaru
«Dal corpo sottile, dal suo volto pensoso, illuminato dal pallore della fronte, emanava un fascino che agiva infallibilmente su coloro che si sentono attratti dalla tragica grandezza dell’androgino». Se Ella Maillart ha potuto definire in tal modo Annemarie Schwarzenbach è perché davanti a quell’«angelo devastato» – come l’aveva chiamata Thomas Mann – non esistevano molte parole per raccontare il proprio smarrimento. L’incanto scompigliante da parte di chi ha incontrato la scrittrice svizzera ha assunto spesso connotazioni eteree; di «arcangelo Gabriele» parlava anche Marianne Breslauer e di «angelo inconsolabile» Roger Martin du Gard. Eppure ad abitare tanta indecifrabile bellezza era una ragazza in carne e ossa, di un’intelligenza obliqua, di una sofferenza bruciante, di un amore verticale per la propria scrittura – narrativa e giornalistica — e, non ultimo, verso le donne. Ne ha incontrate e amate diverse, immaginate e descritte altrettante in romanzi, novelle e lettere.
Apparsa in Francia nel 2004, Annemarie Schwarzenbach ou le mal d’Europe, è una completa biografia della scrittrice composta da Dominique Laure Miermont che riprende nel titolo le considerazioni di Catherine Pozzi, perché «accanto a lei si ha una curiosa sensazione di instabilità. Ti dà il mal d’Europa». Tradotta in Italia, Una terribile libertà (Il Saggiatore, pp. 343, euro 25), da qualche tempo fuori commercio, è di nuovo disponibile per le cure di Tina D’Agostini e ritrae la personalità di una tra le figure più contraddittorie del Novecento, vissuta per soli 34 anni e pioniera del foto-reportage in Medio Oriente, Stati Uniti e in Africa, giornalista raffinata e amante degli eccessi. Nata a Zurigo nel 1908 in una famiglia alto-borghese, la giovane Annemarie patirà per tutta la vita il peso di etichette e convenzioni sociali, cercando prima di fuggire via dalla tenuta di Bocken, poi da se stessa nell’attesa di farsi toccare dal mondo.
Affamata di risposte, ha sedici anni quando aderisce al movimento Wandervogel, pacifista e socialista, che propone un ritorno alla natura e riflette su alcune questioni etiche rilevanti. È in questi pressi che fa la conoscenza del pastore Ernst Merz, un’interlocuzione che le porrà molte inquietudini. Alcune di queste, legate al disorientamento dell’età, la conducono presto alla contezza di altre lacerazioni, di un’Europa che precipita senza rimedio nell’orrore del nazionalsocialismo. La libertà che Schwarzenbach sceglie di agire per sé è la stessa desiderata per l’umanità diroccata che incontrerà da lì a breve nei suoi viaggi. Una libertà che non può che essere terribile, nello scontornamento di sé tra morfina e alcol. Eppure meravigliosa, come la fragilità insostenibile che le era propria, quando si assume l’esistenza come un progetto di senso, etico e politico che vuole fare i conti la realtà. Le scritture prendono corpo in collaborazioni con riviste, giornali e con la preparazione delle prime novelle e romanzi. Quasi 300 gli articoli e reportage fotografici pubblicati tra il 1930 e il 1942, sono più di 100 invece quelli dattiloscritti e mai pubblicati, così i 2000 negativi che insieme ad alcuni carteggi e altri manoscritti giacciono conservati e ancora inediti agli Archivi letterari di Berna. Ciò nonostante alcune traduzioni italiane ne restituiscono la portata, tra le tante La via per Kabul. Turchia, Persia, Afghanistan 1939–1940 (2002), Ogni cosa è da lei illuminata (2012), La notte è infinitamente vuota (2014), Gli amici di Bernhard (2014).
Grazie alla lettura del bel ritratto che Dominique Laure Miermont fa nella biografia, emergono alcuni dettagli interessanti della vita della scrittrice, fuori dall’aneddoto o dal puro avvicendamento cronologico. Nonostante si tenda a dimenticarlo, per esempio è stato di Schwarzenbach il progetto della rivista letteraria antifascista Die Sammlung, pubblicata dal 1933 al 1935 in Germania, che nelle intenzioni doveva accogliere voci di intellettuali che si opponessero al regime. Nonostante vi abbia partecipato solo con piccoli scritti, da Brecht a Cocteau, Huxley, Hemingway, Lasker-Schüler, Heine e altri hanno aderito con convinzione. Ma quando le viene offerto di accompagnare un gruppo di archeologi in Medio Oriente non esita un istante. Per sette mesi viaggia da Istanbul ad Ankara, percorrendo l’Anatolia, la Siria, da Beirut a Damasco e Gerusalemme fino a Baghdad e a Teheran, qualche anno dopo in Congo e in Marocco. Lavora già per importanti settimanali e quotidiani elvetici e registra non solo i siti visitati, bensì i modi di vivere di donne e uomini, ne commenta le difficoltà, scoprendo che quel mal d’Europa si assottiglia in doppio presagio, di sfascio per la guerra a venire e di malinconia per un tempo irreparabile in cui lei, forse, non sarà più. La prima parte degli articoli e appunti di viaggio, che andranno a corredare i suoi diari, terminano il 15 aprile del 1934. Lo sguardo di Schwarzenbach mantiene tuttavia ancora per anni uno speciale nitore anche ad altre latitudini. Così negli Stati Uniti, prima soffermandosi sulle città industriali della Pennsylvania poi consegnando alcuni quadri sulla condizione dei braccianti agricoli e dei problemi razziali negli stati del sud. Fino alla morte sopraggiunta nel 1942: «l’ho ritrovato, infine, il silenzio, come se un angelo, senza pronunciare nemmeno una parola avesse alzato la mano».
(il manifesto, 6/2/2015)
Gentilissime della Libreria delle donne,
vi scrivo per ringraziarvi di tutto cuore per aver voluto tenere nella vostra casa a Milano e per aver messo nella “vetrina” del vostro sito il libro di Annie Leclerc «Della paedophilia e altri sentimenti».
Questo libro destinato a cambiare la mia vita è un gioiello di profondità, poesia, verità e spregiudicatezza partorito da un’anima straordinaria.
Bisognerebbe essere dei poeti per potervi ringraziare davvero e veramente porgere la giusta gratitudine al destino che attraverso le mani amorevoli di diverse donne mi hanno portata vicino a pensieri così finalmente moderni e vivi nel presente per forma e qualità su un tema indispensabile da affrontare oggi.
Grazie a ciascuna di voi!
Un caro saluto
a presto Francesca Gatti
di Alessandra Pigliaru
Solo l’altro ieri Federico Motta, presidente dell’AIE (Associazione Italiana Editori), si è dimesso dal cda della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura e, pur rimanendo tra i fondatori del Salone del Libro di Torino, non farà più parte dell’aspetto organizzativo della kermesse. «Profondi cambiamenti» o divergenze di punti di vista? Certamente Ernesto Ferrero – che quando a settembre venne chiamato al telefono da Piero Fassino per prendere il posto di Giulia Cogoli, dimissionaria solo dopo tre mesi dalla carica di direttrice della Fondazione, autodefinì se stesso come un soldato sabaudo che dice di sì ai compiti con sollecitudine – si mostra deluso dalla decisione di Motta.
Come infatti dichiara al «Corriere della Sera», avrebbero desiderato dall’AIE «un apporto più propositivo. I cambiamenti di cui parla Motta e che alludono all’ingresso tra i soci di ministeri e di importanti istituti bancari, vanno nel senso del consolidamento e rafforzamento del progetto Salone». Per Cna Editoria Piemonte, che rappresenta oltre 2300 imprese ed era certa ci si sarebbe congedati dalle lacunose gestioni precedenti per aprirsi a una interlocuzione più stringente proprio con i piccoli editori si tratta «un segnale di crescente distacco» del Salone del Libro di Torino «dalla realtà editoriale». E aggiungono «abbiamo chiesto e richiesto di poterci confrontare con la nuova dirigenza della Fondazione – concludendo – ma ad oggi non vi è stata nessuna attenzione nei nostri confronti».
La decisione di Motta, al di là delle indiscrezioni che chiarirebbero un conflitto rispetto l’entrata massiccia di gruppi che marginalizzerebbero l’AIE all’interno delle scelte del cda, arriva in un momento particolarmente difficile per gli editori italiani che, proprio grazie all’AIE, si sono già misurati con i dati del Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2015 e con i più recenti dati Istat sulla lettura per l’anno 2015. La sintesi va in una direzione di calo dei lettori, nonostante la proiezione dell’AIE apparisse più confortante di così e promettesse «cambiamento». Perché i dati andrebbero guardati con attenzione, nell’ultimo semestre del 2015 infatti «la decrescita» potrebbe addirittura azzerarsi. Nonostante i ripetuti segni negativi, soprattutto in capo alla lettura, vi sono segnali da leggersi in un mutamento in atto. Gli e-book crescono, crescono anche i piccolissimi editori (1190 che hanno pubblicato più di 10 titoli nel solo 2014, per esempio) ma i lettori calano.
Come leggere questo dato contraddittorio? Ginevra Bompiani, storica editrice per Nottetempo e attenta osservatrice del mercato editotoriale, si dice contenta, tuttavia lo sarebbe di più se invece di crescere solamente prosperassero anche. «Le due cose sono ben diverse, e con il calo dei lettori non vedo come potrebbero prosperare. Ciò che è auspicabile e importante è infatti che l’editoria possa lavorare con una buona qualità dei libri che pubblica, delle traduzioni, dei materiali che utilizza, delle professionalità insomma di cui ha bisogno; tutto ciò si affievolisce nei grandi gruppi editoriali fino quasi a scomparire; purtroppo c’è questo rischio anche nelle esperienze di editori molto piccoli, eroici e da sostenere però che fanno fatica in mezzo a molte difficoltà». E se i prezzi di copertina dei libri sono in leggero calo, Bompiani è altrettanto netta: «il contrario di una vittoria culturale, si rischia di andare incontro alla facilità che non aiuta la diffusione alla lettura eporta con sé una qualità scadente. Gli editori che praticano sconti, promozioni e in generale adottano questa politica di riduzione hanno drasticamente determinato la qualità scadente dei libri».
E se è vero che in questo scenario a precarizzarsi ulteriormente è anche la filiera delle professioni intorno al mondo del libro «vi sono già margini di guadagni esigui, figuriamoci quando il prezzo di copertina si riduce non si è a favore di nessuno, né della qualità, né di chi lavora, né della cultura in generale. E ancor meno i lettori. Nei libri come in qualasiasi altra cosa, la riduzione del prezzo è sempre a scapito di qualcosa. Ma nei libri la qualità è tutto». Le cose sembra vadano diversamente in Francia, racconta Bompiani, le proiezioni sono confortanti per la lettura in tutto il 2015 e anche il 2016 è cominciato positivamente. «Credo si tratti di una reazione alla paura, al tempo che stiamo vivendo che ci spinge alla riflessione e a stare più dentro casa. Non vorrei fosse così e sono sicura che nonostante le previsioni sconfortanti la lettura riprenderà anche in Italia con cifre importanti, perché in fondo è un po’ come diceva Anna Maria Ortese: leggere è come fare ritorno a casa e in un momento di spaesamento come questo forse è ciò che possiamo augurarci».
(il manifesto, 4 febbraio 2016)
Link all’articolo di Elena Stancanelli su D (Repubblica)
http://www.lormaeditore.it/download.php?id=VTJGc2RHVmtYMThvamZqekx4S2hLSktVTTJNVkRiVDQ3Wkp0NzQ2a2h6Zz0
Intervista. Un incontro con la scrittrice e giornalista inglese Sarah Helm, ospite a Forlì del 900 Fest, festival europeo di storia del Novecento. Il suo libro sul lager nazista per sole donne, «Il cielo sopra l’inferno», è uscito per Newton Compton
Donne polacche nel campo di Ravensbruck
di Linda Chiaramonte
È stato l’orrore nazista declinato al femminile, Ravensbruck, il campo di concentramento per sole donne, aperto nel maggio 1939 a nord di Berlino. Vi venivano rinchiuse e torturate donne definite asociali: senza fissa dimora, malate di mente, disabili, testimoni di Geova, oppositrici politiche, attiviste della resistenza, comuniste, zingare, lesbiche, vagabonde, prostitute, mendicanti, ladre, e, solo in minima parte, ebree. Donne considerate di razza inferiore e reiette che andavano corrette, punite ed estirpate dalla società per evitare che contagiassero gli ariani. Una struttura voluta da Himmler e da cui in sei anni transitarono circa 130mila prigioniere, provenienti da più di venti paesi europei. Si stima che le vittime furono fra le trenta e le novantamila donne, un dato incerto per la scarsa documentazione rimasta dopo che le carte furono distrutte per insabbiare i crimini compiuti alla vigilia della liberazione. Nel campo le donne subirono sevizie, esperimenti medici, torture, sterilizzazioni e aborti, esecuzioni sommarie oltre a ritmi estenuanti di lavori forzati. Dal campo di Malchow, un sottocampo di Ravensbruck, fu liberata nel ’45 l’italiana Liliana Segre.
La storia dell’unico campo di concentramento femminile, rimasta per molti anni nell’ombra, è al centro del libro Il cielo sopra l’inferno (titolo originale If this is a Woman, parafrasando Primo Levi) della giornalista inglese Sarah Helm, da poco uscito in Italia, edito da Newton Compton. L’autrice è stata ospite a Forlì del 900 Fest, festival europeo di storia del Novecento, sul tema delle donne nei totalitarismi.
Perché ha deciso di raccontare la storia di Ravensbruck?
Avevo già scritto di Vera Atkins, straordinaria ebrea tedesca che lavorava per l’intelligence britannica a un’operazione segreta voluta da Churchill, reclutando e addestrando donne a paracadutarsi in Francia per aiutare la resistenza. Dopo la cattura, le agenti non tornarono più e non furono mai cercate. Atkins seguì le loro tracce, queste la portarono a Ravensbruck, dove molte erano state rinchiuse. Raccolse molte testimonianze e il processo per crimini di guerra perpetrati nel campo fu istruito dalle autorità britanniche grazie alle sue ricerche.
Che attualità assume oggi questo racconto a distanza di settant’anni?
Le testimonianze, le sofferenze e il coraggio di quelle donne sono centrali. È una storia rimasta ai margini dei margini. Si è trattato di un crimine contro l’umanità. Le donne furono torturate, fatte soffrire in maniera inaudita, separate dai bambini che videro morire sotto ai loro occhi. Fu compiuta una sterilizzazione di massa, oltre ad aborti atroci. A Ravensbruck i nazisti praticarono il controllo della riproduzione, fu un laboratorio per applicare sui loro corpi vari metodi e studiare come reagivano ai trattamenti. Le vittime praticarono sistemi di sopravvivenza estremi e uno straordinario coraggio. Si realizzarono forme di solidarietà da parte delle dottoresse del campo e di piccoli gruppi di sostegno a chi aveva perso i familiari. Si creò un’anomala forma di società. Le guardie erano donne, altro aspetto non trascurabile, i crimini quindi erano commessi da donne sulle donne. Aver marginalizzato la storia di Ravensbruck ha significato accantonare questa crudeltà. La più terribile storia di orrore fu applicata nella stanza dei bambini. Le Ss cercarono di prevenire ed evitarne la nascita: volevano far estinguere le razze considerate inferiori, ma verso la fine della guerra, nel 1944, le prigioniere in stato di gravidanza raggiunsero numeri tali che la situazione sfuggì al controllo e non si riuscì più a praticare in tempo la sterilizzazione né l’aborto. Si permise di far nascere i bambini nella consapevolezza che sarebbero morti. Difficile immaginare qualcosa di più crudele: permettere alle donne di dare alla luce i loro piccoli per vederli morire di stenti. A Ravensbruck questa è forse stata una delle più orribili azioni di crudeltà nazista che era assolutamente necessario ricordare.
Cosa rende atrocemente speciale e diverso dagli altri il campo nazista di Ravensbruck?
La capacità delle donne di resistere e combattere contro quello che stava accadendo. Sopravvivere. È una storia di coraggio, determinazione e volontà. Le giovani studentesse polacche di Lublino, ad esempio, arrivate nel 1941, e scelte per gli esperimenti medici. I conigli, come furono soprannominate per la loro andatura zoppicante, subirono atroci esperimenti alle gambe. Himmler chiese ai dottori di ricreare le condizioni dei campi di battaglia, le ragazze furono mutilate e infettate con la gangrena gassosa per testare i farmaci che potevano essere efficaci per i soldati. Le testimonianze degli esperimenti sono dettagliate. Una giovane polacca volle far sapere al mondo quello che stava accadendo grazie alla scrittura con un inchiostro invisibile usato a margine delle lettere indirizzate alla famiglia. Le missive raggiunsero i parenti, in particolare una madre a capo di un gruppo di resistenza a Lublino che mandò le informazioni alla Svezia che le girò a Londra che, a sua volta, le inviò al comitato internazionale della croce rossa svizzera, che tuttavia le ignorò. Questo ebbe conseguenze terribili. Dopo la fuga di notizie però nel campo fu deciso di ridurre gli esperimenti.
Il racconto delle efferatezze compiute ai Ravensbruck ha insegnato qualcosa alle generazioni future?
Vorrei rispondere di sì, ma non posso. Molte delle donne intervistate non avevano mai parlato prima. Pensarono che la loro testimonianza fosse necessaria per impedire che la barbarie si ripetessero, ma non è stato così. Le convenzioni di Ginevra per la protezione dei civili sono continuamente ignorate. Basti guardare a cosa accade in Siria, nessuno si sta impegnando per proteggere la popolazione, lo stesso è avvenuto con i bombardamenti a Gaza l’estate scorsa. La mia impressione è che si stia regredendo e non si sia imparato nulla da ciò che è successo in passato.
Nel campo finirono donne considerate arbitrariamente pericolose, deboli, reiette. Questo fa pensare che nessuna possa dirsi mai al sicuro…
È vero, chiunque potrebbe finire in un campo come quello. Il regime nazista arrestava donne di ogni estrazione, origine, nazionalità e colore. C’erano contesse francesi, senza fissa dimora, prostitute, esponenti della resistenza, donne dell’armata rossa, infermiere. Molte scrittrici, giornaliste, artiste, come Milena Jesenskà, intellettuale ceca che fu amante di Kafka. Oggi non viviamo sotto la minaccia nazista, ma bisogna mantenere alta l’attenzione. Vivere in una democrazia, avere libertà di espressione, non mette al riparo da derive pericolose, come non si può ignorare ciò che ci accade intorno. La realizzazione del libro è stato un processo lungo e lento, come mettere insieme diversi tasselli di un puzzle. Convivere con una storia così terribile per tanto tempo è stato possibile grazie agli incontri con persone che mi sono state di grande ispirazione. Come le donne dell’Armata rossa, impegnate per difendere la Crimea poi tradite da Stalin, catturate, portate a Ravensbruck e dimenticate. Sono rimaste unite, guidate da Eugenia Klemm, un’insegnante di storia di Odessa, che le ha aiutate a sopravvivere. Tornate in Urss sono state di nuovo rinchiuse perché accusate di collaborazionismo con il regime nazista, mandate in Siberia o uccise e perseguitate. La loro storia è rimasta sepolta finché non ne ho rintracciate alcune, felici di raccontarmi quello che avevano vissuto. Per il prossimo libro, fra i vari progetti, vorrei invece occuparmi di Gaza.
La redazione del sito della libreria delle donne suggesisce anche il libro di Daniela Padoan “Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz” (Bompiani 2004) riporta tre conversazioni con Liliana Segre, Goti Bauer e Giuliana Tedeschi – italiane deportate ad Auschwitz e prigioniere nel campo femminile di Birkenau nel 1944.
(Manifesto 22/10/2015)
Parlano giovani donne invogliate ad intervenire dalla lettura di “Mia madre femminista”
Durante le presentazioni del libro Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015) alcune giovani hanno partecipato con scritti, interventi introduttivi e dal pubblico, mostrando un modo originale di intendere e dare continuità all’essere femminista, un modo imprevisto e da noi desiderato.
Il testo di Gemma è la sua presentazione in occasione dell’incontro a Foggia il 3 dicembre 2015 ed è il terzo che pubblichiamo. Della parte finale dell’incontro esiste un filmato su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=LZ-kMKbiCco
Luciana e Marina
di Gemma Pacella, studente universitaria.
C’è stato un prima e un dopo del mio rapporto con il libro Mia madre femminista. Un prima durante il quale, leggendo l’indice e i nomi di Luisa Muraro, Lea Melandri, Clara Jourdan, Lia Cigarini, Sara Gandini, Maria Grazia Campari, Marirì Martinengo, María Milagros Rivera Garretas e delle altre donne che hanno firmato alcune brillanti pagine del libro, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un saggio, un genere con cui ero già abituata a confrontarmi.
Poi mi è sembrato un romanzo epistolare: il filo della narrazione è condotto attraverso due lettere scambiate tra una madre e una figlia, a cui si aggiungono le testimonianze di altre donne, più due uomini.
Ma ad esse s’intrecciano, come in un diario, foto, confidenze, racconti di giornate, emozioni. Chi legge si sente parte di un mondo, di una rivoluzione che ha segnato la vita di tante e cambiato la storia per sempre. Ricordo che anch’io, fino a pochi anni fa, passavo il mio diario alle mie compagne e loro ci appuntavano pensieri e racconti e s’inserivano nelle mie confidenze affiancandoci le loro. Era uno scambio: io ricevevo qualcosa da loro, e loro qualcosa da me. Lo stesso valeva per le foto, che non mancavano mai di arricchire quelle pagine.
Così, Mia madre femminista.
Uno scambio, un dono reciproco tra chi legge e chi scrive.
Basterebbe questa sensazione di stretta e intima confidenza per confermare quel dopo, quel momento in cui mi sono resa conto che il libro mi ha cambiata.
Mi spiego meglio: il titolo di questo libro è la dichiarazione della mia genealogia di ragazza ventiseienne che prova a dirsi femminista oggi, mentre ancora osserva e prova a relazionarsi con le pratiche di tante altre donne che nella mia città, Foggia, forgiano legami e creano stimoli culturali, artistici, politici. Penso alle amiche dell’Associazione Donne in rete, alle tante donne e uomini del Circolo La merlettaia, a Katia Ricci, mia indimenticabile professoressa del liceo, che ancora oggi ispira il mio modo di significarmi donna, ad Antonietta Lelario, che mi sta insegnando l’autenticità e l’onestà dei miei pensieri.
E in particolare penso a mia madre, Lina Appiano e al legame inscindibile e primario con tutto ciò che mi ha mostrato e al suo modo di agire nel mondo rompendo gli schemi maschili e patriarcali.
I loro preziosi doni hanno rappresentato un modo per chiarire a me stessa chi ero e da dove venivo, forse mi mancava il dove andavo.
Nonostante la mia giovane età, spesso, ho avuto la paradossale sensazione di sentirmi più simile alle madri che alle figlie. L’incontro con la loro differenza, prima ancora che dai libri l’ho appresa dall’esperienza che ha segnato la mia crescita e la mia consapevolezza di donna.
Però assumere il loro punto di vista, imparare la loro pratica e agire seguendo quel modello mi pareva, a volte, inaccessibile perché, di fatto, non mio.
Spesso ho provato un pizzico di gelosia per non aver vissuto gli eventi degli anni Settanta: l’autocoscienza, scendere in piazza per la depenalizzazione dell’aborto, formare i primi collettivi di ragazze e donne, come racconta la ricca documentazione del libro. Pensavo al coraggio di quelle giovani donne, all’enormità della loro rivoluzione e sentivo crescere un senso di soggezione.
Poi, è successo che, riflettendo sulle storie descritte nei capitoli Le parole per dirlo, Noi e il nostro corpo, Le tre ghinee, mi sono collocata da una prospettiva da cui io non mi ero mai guardata: sono figlia, come lo erano le donne che si sono confidate tra quelle pagine, che hanno espresso le loro paure, la loro passione nel creare spazi di relazioni per se stesse. Ho riconosciuto loro autorità e mi sono presa la mia autorità.
Scrive Liliana Rampello: «Una relazione di questo genere si fonda sul riconoscimento che l’altra è più grande di te (non sempre per generazione), sulla capacità di ammirarla perché il suo esserci apre la stessa possibilità anche a te»[1].
L’esserci delle ragazze di ieri ha significato la possibilità di creare il mio spazio ed entrare in autentica relazione con loro: io accetto il dono e scopro come posso utilizzarlo per me, per la mia libertà e perché io trovi il mio modo di pensarmi e di agire. Ritorna lo scambio, la traditio di cui beneficio. Realizzo che autorità non significa emulare e conformare il modo di agire alla pratica delle madri. Posso, invece, determinare il mio modo di essere e di significare me stessa e la mia differenza di donna, a partire da ciò che mi hanno mostrato, come hanno fatto loro. Il senso di soggezione si dissolve ed io mi sento parte della mia genealogia. Penso al rapporto saldo e all’intreccio ben stretto tra madri e figlie e mi viene in mente una porta scorrevole dell’architettura giapponese e il simbolo che rappresenta nel passaggio da una stanza all’altra di una casa. Un movimento di apertura e di chiusura non definitivo, come, invece, è il tira e spingi occidentale. Tra il femminismo delle madri e quello di noi figlie c’è un cambiamento, un passaggio, ma non brusco e soprattutto non interruttivo, bensì di accompagnamento.
Io non ho numeri o statistiche[2] per dire se le mie coetanee ventenni o trentenni riescano a significare la loro differenza di giovani donne[3], però vedo una luce negli occhi di tante, che si accende quando c’è bisogno di forgiare una solida trama di relazioni e una comune insistenza nelle cose, cioè assumere un atteggiamento, inserirsi in dibattito pubblico, prendere decisioni . Ricordo quando mia madre mi diceva guarda la luce nelle altre, negli altri e questo, per me è stata una rivelazione. Voglio dire non sempre siamo coscienti che il nostro agire di giovani donne sia un agire femminista, ma c’è sempre un momento in cui questo semplicemente si mostra. Quel momento è magico.
Ne parlavo con un’amica, qualche sera fa. Lei mi ha chiesto se io mi dichiarassi femminista. Lì per lì le ho risposto che non mi capita spesso.
Eppure quella domanda mi ha fatto riflettere: autodefinirsi è un primo passo, perché innanzitutto fa emergere la consapevolezza di collocarsi da una prospettiva, riconoscerla, negoziarla, mediarla nel rapporto con le altre e gli altri e, soprattutto, con me stessa. Mette in luce un desiderio prezioso, una volontà che va assecondata e interrogata, esplorata: «Lo so perché lo sono»[4], ha detto Luisa Muraro, in un altro contesto. Prendo in prestito le sue parole e dichiaro: io lo so che il femminismo c’è, perché lo sono, perché se mi tocco, lo sento dentro e fuori di me.
[1] Liliana. Rampello, L’altra che ti vede, in Mia madre femminista, p. 54.
[2] Al contrario, Antonella Cammarota ha realizzato delle interviste a ragazze e donne adulte, interrogandole su cosa significhi la parola femmina, donna e femminista, in Il femminismo e la ricerca di identità, in http://ww2.unime.it/donne.politica/materialedidattico/06giugno/1.%20CAMMAROTA_Femminismo%20e%20identità%20di%20genere.pdf.
[3] Si veda L’Espresso, Le donne hanno perso, 15 ottobre 2015. E sul Corriere della sera diversi articoli in tal senso di Maria Laura Rodotà e Susanna Tamaro.
[4] Luisa. Muraro, Lo so perché lo sono, Via Dogana, settembre 2010, p. 4.
di Cecilia D’Elia
Un’attiva presenza femminile nelle aule giudiziarie produce trasformazioni e aiuta a individuare ipotesi di procedure e norme più attente alle donne. Femminismo e processo penale (Ediesse, pp. 340, euro 16) di Ilaria Boiano non è solo il saggio di una giurista femminista, ma è il libro di un’avvocata impegnata a fianco delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza.
È un testo che nasce da un posizionamento dichiarato e rivendicato, che ambisce a mostrare il nesso tra norme penali ed esperienza concreta che le donne fanno della violenza. L’autrice scommette sull’utilità dei diritto per la trasformazione della vita delle donne. Conclusione che non è figlia di una lettura ingenua, né della violenza né del diritto.
Al contrario, Ilaria Boiano si fa forte dell’attraversamento critico che il femminismo ha fatto del diritto per mostrare l’uso efficace che di esso se ne può fare. Il punto di vista è quello delle giuriste che, in questi anni, hanno accompagnato e sostenuto le donne che decidevano di denunciare e che hanno cercato di utilizzare le norme per sostenere il loro percorso di fuoriuscita dalla violenza.
Questa esperienza è proposta come terzo modo di elaborare il rapporto tra femminismo e diritto. Definita come “ritorno alle pratiche”, si affianca a quello del “sopra la legge” (Cigarini) e della produzione di vuoti legislativi, e a quello che invece ha visto nella legge un terreno di negoziazione, con il rischio però di appiattire i conflitti politici nella sola dimensione giuridica. Seguendo Tamar Pitch, che firma anche una delle due introduzioni al testo, Boiano avverte però che la lettura delle divisioni all’interno del femminismo italiano sul diritto non attiene alla sua utilità, ma piuttosto agli obiettivi e alle pratiche.
A partire dalle vicende di cinquanta donne che si sono rivolte all’associazione Differenza Donna, l’esperienza del “ritorno alle pratiche”, la cui complessità è narrata anche nell’introduzione di Teresa Manente, viene raccontata mostrando come un’attiva presenza femminile nelle aule giudiziarie produca trasformazioni e aiuti a individuare concrete ipotesi di procedure e norme più attente alle donne. Tanto più necessarie alla luce della resistenza al cambiamento della cultura giuridica, del permanere tra gli operatori della giustizia di stereotipi e atteggiamenti culturali discriminatori nei confronti della vittima.
Questo approccio consente all’autrice di sostenere che politiche di empowerment delle donne e riconoscimento della loro condizione di vittime, all’interno di un procedimento di querela di un reato di violenza, non siano azioni contraddittorie. Distinguendo tra vittima e vittimismo sottolinea l’utilità di tale definizione per ricorrere alle risorse giuridiche a disposizione e meglio tutelare la donna che ha subito violenza. Mostra le diverse strategie messe in atto, restituisce la discussione che si è sviluppata attorno al nodo della violenza sessuale, in ambito nazionale e internazionale.
Riesamina così in tutto il suo spessore la vexata quaestio tra procedibilità d’ufficio o querela di parte, recentemente riproposta dalla temporanea irrevocabilità della denuncia per atti persecutori (legge n.119/2013). In gioco c’era la prevalenza dell’autodeterminazione delle donne in un sistema penale che ha contribuito a legittimare la violenza maschile nei loro confronti oppure la necessità di sancire la gravità del delitto e liberare in questo modo le donne dal ricatto. Eppure la prassi suggerisce che, a prescindere dal regime di procedibilità o meno, urgono altre questioni, come quella di assicurare l’esercizio del diritto alla difesa della donna offesa sin dall’inizio del procedimento. Rimane aperto il nodo della definizione della violenza contro le donne; il libro mostra il significato delle diverse locuzioni usate: violenza di genere, violenza maschile contro le donne, femminicidio.
Questa restituzione del pluralismo del discorso femminista sulla violenza, del modo in cui normative nazionali e internazionali la definiscono è uno dei pregi del libro. Tanto più prezioso oggi. Dopo il recepimento della Convenzione di Istanbul, infatti, stenta ad attivarsi una politica integrata e globale, efficace nel sostenere il cambiamento che le donne hanno prodotto e nell’interrogare il rapporto degli uomini con la violenza. Diventa così utile provare a nominare precisamente di cosa stiamo parlando in un momento in cui – per dirla con le parole di Patrizia Romito, richiamate dall’autrice – dal silenzio di un tempo si è passati al rumore di oggi. Il rumore, si sa, può stordire, ma soprattutto nasconde tanto quanto il silenzio.
(Pubblicato su Il Manifesto, 3 dicembre 2015)
Parlano giovani donne invogliate ad intervenire dalla lettura di “Mia madre femminista”.
Durante le presentazioni del libro “Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua” (Il Poligrafo, Padova 2015) alcune giovani hanno partecipato con scritti, interventi introduttivi e dal pubblico, mostrando un modo originale di intendere e dare continuità all’essere femminista, un modo imprevisto e da noi desiderato.
Luciana e Marina
di Simona Lecchi, operaia e assistente alla poltrona.
Brescia 27 novembre 2015
In una paginetta riassumo la mia esperienza nel lavoro e nella vita quotidiana, esperienza che considero positiva: qui intendo trasmettere ciò che ho ricevuto.
Sono passati 14 anni dal mio primo giorno di lavoro in fabbrica.
Avevo 16 anni frequentavo le scuole superiori, avevo scelto l’indirizzo grafico pubblicitario, ma a metà anno decisi di non voler più continuare. Così, dopo aver affrontato il discorso a casa con i miei genitori, un pomeriggio mia mamma mi accompagnò per un colloquio di lavoro nella fabbrica dove lei lavorava da molti anni.
Dopo il colloquio mi assunsero con contratto a termine. Per me entrare in fabbrica voleva dire sentirmi più grande e indipendente, inoltre la figura di mia madre era rassicurante. Sentivo, dai suoi racconti, che stavo entrando in un luogo di lavoro importante dove essere operaia non significava fare un lavoro degradante o poco rispettato ma riconosciuto anche socialmente. In quella fabbrica sentivo che le persone contavano.
L’inserimento nel contesto della fabbrica fu piacevole, alcune donne le conoscevo già perché amiche di mia mamma. La cosa che mi ha colpito è che tutte loro conoscevano me: io ero la figlia di Rosa. Rosa Piantoni.
Trovai un ambiente tranquillo e sereno, le colleghe erano per la maggior parte coetanee, le univa il fatto di aver iniziato tutte da giovanissime nella stessa fabbrica.
Il lavoro in sé mi piaceva, a volte poteva essere un po’ monotono, a volte mi capitava di lavorare da sola, altre volte su macchine con 3 o 4 donne. Mi capitava, ma raramente, di lavorare in coppia con mia madre.
Sicuramente questa esperienza della fabbrica è stata positiva grazie alla presenza di mia madre, con lei presente mi sembrava tutto più semplice e andare al lavoro, anche facendo i turni non mi pesava, la sua presenza era importante anche per le altre operaie e infatti lei rappresentava il sindacato e quindi il punto di riferimento per i lavoratori e le lavoratrici.
Restai in fabbrica per circa 2 anni, con contratti a termine, poi a me ed altre ragazze non rinnovarono il contratto. Cercai un altro lavoro e dopo pochi mesi lo trovai presso uno studio dentistico dove facevo l’assistente alla poltrona, lavoro che faccio ancora anche se in un altro studio.
Ripensando alla mia esperienza lavorativa in fabbrica, mi considero fortunata, era una fabbrica sindacalizzata, vedevo all’opera l’altro aspetto di mia madre: quello di sindacalista. Ho potuto vedere e vivere a pieno l’agire sindacale: assemblee, scioperi, discussioni politiche, conflitti con l’azienda e, anche quando le situazioni erano tese, non si oltrepassavano mai certi limiti, prevaleva sempre il buon-senso e la discussione. Ho imparato a farmi rispettare, a far valere il lavoro che faccio con cura e attenzione, anche se dove sono ora non siamo organizzati sindacalmente, ho coscienza del fatto che tutto il lavoro politico e sindacale, fatto dalle donne, come mia madre, oggi permette a me e ad altre di godere di diritti politici e sociali importanti, che a volte, sbagliando, diamo per scontati.
Ho imparato ad apprezzare il “lavoro” perché fa parte della vita e non lo percepisco come un sacrificio e nemmeno lo riduco a una pura questione economica.
Anche il rispetto è importante e puoi farlo valere solo se a tua volta rispetti chi ti sta di fronte.
Non sono una femminista come mia madre, la mia lotta sindacale è stata breve e partecipativa non agita in prima persona, non vado di mia spontanea volontà a manifestazioni o altre iniziative, non frequento gli ambienti sindacali o di partiti. Non so perché ma per ora non ne sento il bisogno. Comunque so farmi rispettare, nel mio agire quotidiano cerco di essere rispettosa nei confronti dell’ambiente che mi circonda. I valori che mia madre mi ha trasmesso fin da piccola sono dentro di me, fanno parte della mia vita; l’onestà per poter andare a testa alta e guardare tutti negli occhi, la dignità, perché tutto ciò che si ha deve essere guadagnato onestamente per stare bene con se stesse e non essere ricattabili. Mia madre mi disse che non avrebbe mai chiesto alla Zucchi, la ditta dove lavoravamo, di assumermi. Era amareggiata per la mancata conferma del contratto a termine, ma mi ha spiegato cosa avrebbe significato per lei questa richiesta: perdere la sua libertà di agire nei confronti dell’azienda e la perdita di rispetto da parte delle e dei suoi colleghi di lavoro. A me dispiaceva lasciare la Zucchi, anche perché non sapevo che altro lavoro avrei potuto trovare, ma ho capito e apprezzato cosa intendeva mia madre. Anche il suo agire libero nei confronti di mio padre man mano che crescevo l’ho sentito sempre più fondamentale: ho imparato a non considerare gli uomini più liberi e più importanti di me, a non avere un atteggiamento di sottomissione ma a esigere il confronto anche aspro se necessario ma sempre rispettoso delle reciproche diversità e bisogni. Questo e molto altro ho ricevuto da mia madre e a mia volta cercherò di trasmetterlo.
Parlano giovani donne invogliate ad intervenire dalla lettura di “Mia madre femminista”.
Durante le presentazioni del libro “Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua” (Il Poligrafo, Padova 2015) alcune giovani hanno partecipato con scritti, interventi introduttivi e dal pubblico, mostrando un modo originale di intendere e dare continuità all’essere femminista, un modo imprevisto e da noi desiderato.
Luciana e Marina
di Martina Giulietti, studente, 18 anni. Livorno 4 novembre 2015
Leggendo il libro Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, sono rimasta colpita e affascinata dalla frase che dice la figlia nell’ultima pagina dell’ultimo capitolo intitolato Immagina che il lavoro. La frase è una citazione da Marilyn Monroe: “Le donne che cercano di essere uguali agli uomini mancano di ambizione”. Per me Marilyn è sempre stata l’incarnazione della grandezza femminile e della difficoltà di essere donna in un mondo dominato dagli uomini. Per questo in terza media decisi di dedicarle la mia tesina! Io, come la figlia, mi reputo ambiziosa e mi sento libera, voglio la mia indipendenza economica e di pensiero e vivere la mia vita secondo i miei desideri.
L’esperienza che ho avuto con il femminismo non l’ho vissuta, purtroppo, in prima persona ma ne sono venuta a conoscenza attraverso i racconti di Giuliana, mia zia femminista, del video della Libreria delle Donne di Milano La politica del desiderio (L’altravista-Libreria delle donne, 74’, 2010) e di questo libro. Attraverso questa breve ma intensa esperienza, ho acquisito più forza nell’essere donna e la consapevolezza di essere diversa dall’uomo e mi sono resa conto che la libertà femminile non è un diritto, bensì una continua battaglia.
Pur non avendo una pratica politica del femminismo con altre donne, posso comunque dire che la condivisione delle mie esperienze con le mie amiche è fondamentale, perché credo che sia proprio il mettersi a nudo, ovvero rivelare quelle cose che ci spaventano, che creano dentro di noi dei disordini e ci ostacolano nel vivere liberamente il nostro essere donne, senza misure stabilite da altri, a creare l’intesa e a fortificare il rapporto. La relazione con le mie amiche e lo scambio con loro mi aiuta, mi dà forza e sicurezza.
di Bia Sarasini
«È stata una sensazione personale, diretta. Come se tutto il mondo in guerra avesse fatto irruzione dentro i confini della mia patria. Siria, Iran, Iraq sono entrati nelle nostre vite. Prima degli attentati a Parigi del 13 novembre scorso gli interventi francesi in Mali non sembravano riguardare i cittadini, ora invece sappiamo che li riguardano, eccome» dice Annie Ernaux, la signora delle lettere francesi, ospite importante della fiera della piccola e media editoria “Piu libri, più liberi” in corso a Roma fino a domani 8 dicembre con il suo libro culto “Gli anni” (L’Orma, 266 pagine, 16 euro). «Ho letto su un sito un’espressione che mi ha colpita: sono i nostri morti ma non è la nostra guerra. Io chioserei: sono i nostri morti ma non è la nostra politica». E aggiunge: «Non si deve mai vivere con la paura, anche se penso che ci saranno altri attentati. Non si poteva comunque andare avanti con la supremazia dei paesi occidentali che dimenticano l’altra parte del mondo». Quanto al suo libro, non ammette equivoci: «Ho scritto del passato, ma non c’è traccia di nostalgia», ha detto a un pubblico che l’ascoltata con attenzione, dopo essersi messo pazientemente in fila per vederla e farsi firmare il libro. «Direi anzi che non c’è proprio nessun sentimento. Il mio scopo è afferrare la realtà, il passaggio del tempo così come avviene. La nostalgia falsifica tutto». Ma di cosa parla “Gli anni”? «Non si tratta né di memoria né di ricordo. Si tratta di risalire il tempo. Trovare la bambina, la ragazza, la donna matura che sono e che sono stata, insieme alle tracce degli eventi, delle cose, dei fatti, dei cambiamenti che hanno fatto il corso del tempo. In altre parole, quello che fa, della mia vita, la mia vita dentro i fatti della mia generazione».
Annie Ernaux, che è nata a Lillebonne nel 1940, fa iniziare dal 1945 quella che si potrebbe definire una specie di registrazione, di documentazione ad uso di altri, oltre che per sé stessa. Comincia dal dopoguerra. «Il volto pieno di lacrime di Alida Valli mentre ballava con George Wilson nel film “L’inverno ti farà tornare”. Oppure, la foto virata seppia di un «neonato grassoccio».
Fatti, sentimenti, immagini, oggetti, frasi, pubblicità messi uni accanto agli altri, che insieme disegnano una striscia ininterrotta, un nastro senza fine proprio come la vita, che dal passato arrivano al presente. «Non c’è l’io, non c’è la prima persona» dice Ernaux «C’è il noi, il noi dei bambini, dei giovani che siamo stati. E c’è lei, la terza persona femminile, che sono io, insieme a tutti quei noi. E l’io non è più lo stesso io». È un’autobiografia di tutti, quella che mette insieme la scrittrice francese di cui a poco a poco la critica ha imparato a riconoscere la grandezza. Una scrittrice a cui spesso si attribuisce la maternità dell’autofiction, definizione che respinge: «Non c’è un grammo di fiction nella mia scrittura. Io cerco la realtà. Dico il cambiamento personale dentro il cambiamento della società, come in uno specchio». L’io e il noi, l’interiore e l’esteriore.
«Siamo dentro e fuori della società, in bilico. Spero che questo libro abbia un respiro europeo. Francia e Italia hanno storie simili: le classi contadine che si modernizzano nel dopoguerra, le lotte politiche». Non manca nulla, dalla ricostruzione del dopoguerra al ’68, dalla rivoluzione sessuale alla liberazione della donna. Sono interessanti anche le parole, che cambiano, con il tempo. «Sì, anche il linguaggio fa parte del tempo. Nella stessa maniera in cui si era detto ‘dopo Auschwitz’, ora si dice ‘dopo l’11 settembre’, un giorno speciale. Lì cominciava qualcosa, non sapevamo cosa. Anche il tempo si globalizzava, diventava unico». Non è un dettaglio da poco, per chi scrive per salvare il tempo di tutti. Come si conclude il libro: «Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più». Perché morte e vita non appartengono all’io, alla voce singola, sono di tutti.
(www.societadelleletterate.it, 7/12/2015)
LIBRI / le femministe odiano cucinare, vuole un vecchio cliché. Smentito da Fuochi, opera della Libreria delle donne di Milano
di Stefania Barzini
Faccio parte, per età anagrafica, di una generazione di donne che negli anni ’70 del secolo scorso un bel giorno si sono guardate allo specchio, hanno buttato nel secchio grembiule di cucina, padelle, mestoli e detersivi per i piatti, e sono scese in strada, per rivendicare il diritto ad una vita “altra”, che non ci vedesse legate ai fornelli, che non prevedesse un perenne sorriso e una tavola sempre pronta per il ritorno del guerriero.
Anche io sono scesa in piazza come tutte le mie amiche ma… una piccola differenza c’era. Il fatto è che io amo cucinare. Da sempre. E dunque per me lo sfaccendare intorno alla stufa non aveva nulla di avvilente, di frustrante, di umiliante. Al contrario. Per anni ho cercato di spiegare alle mie amiche, che in quegli anni si sentivano invase da furori creativi, dipingevano, cantavano, scrivevano, recitavano, di spiegare dunque che anche le padelle, se affrontate nel modo giusto potevano liberare cuore e mente. Fatica sprecata, la mia passione per pentole e casseruole infatti, in quel turbolento decennio, è stata vista con sospetto, segno di tradimento, un terribile segreto da nascondere nell’angolo più buio della casa. Per anni insomma ho dovuto cucinare di nascosto.
Ma i tempi (e meno male, aggiungo io) son cambiati e i segni del cambiamento sono ovunque. E’ da poco uscito in libreria “Fuochi- La cucina di Estia”, Estia dunque, dea del focolare. E’ un libro di pensieri e ricette. E fin qui nulla di nuovo, il mercato è inflazionato di libri simili, basta fare un giro in qualsiasi libreria del Regno per accorgersene. A scriverlo è un gruppo di donne, e anche qui, direte voi, nessuna novità. Però il libro, qui sta la sorpresa, è pubblicato dalla Libreria delle Donne di Milano e le signore in questione sono tutte femministe di peso, alcune di loro inventano palazzi, altre scrivono, altre curano le menti stanche, tutte fanno parte della mia generazione, tutte sono, allora, scese in piazza, tutte si occupano ancora di politiche femminili e tutte hanno un vizio, una passione, un piacere in comune: amano cucinare. Potete immaginare che gioia sia stata per me essere stata invitata da queste donne a presentare il loro libro. Finalmente il momento della rivalsa! Reso ancora più completo dall’uscita di un articolo, apparso sul sito “The Salt” a firma di Nina Martyris, dal titolo: “How Suffragists Used Cookbooks As A Recipe fo Subversion” ovvero “Come le suffragette usarono i libri di cucina come ricetta per la sovversione”, dove si racconta come le suffragette per finanziare le loro campagne, pubblicassero per l’appunto libri di cucina. Se dunque persino le suffragette usavano la cucina a scopi nobili, come quello del diritto al voto, forse è giunto il momento di fare un ulteriore passo in avanti. “Fuochi” va in questa direzione. Non è certo la prima volta che le donne scrivono di cibo, tante di noi lo fanno o lo hanno fatto, ma è sempre stato un cammino individuale, una scelta personale, vissuta anche, quantomeno dalle donne della mia generazione, con un certo senso di colpa, quasi che scrivere di fornelli fosse un’attività di cui vergognarsi. “Fuochi” è il primo libro però scritto da un gruppo di donne, e da un gruppo di donne femministe. Un libro liberatorio per chi, come me, ama pentole e padelle. E’ il segno che finalmente anche quegli strumenti che per anni sono stati visti come minacciosi, come il segno lampante del tentativo, da parte maschile, di imprigionarci, di tenerci recluse, segregate nelle case, quegli stessi strumenti adesso sono stati sdoganati, è il segno che il femminismo, le donne, che molti anni fa hanno riempito le piazze e svuotato le cucine, adesso si fermano a riflettere e a chiedersi se quelle prigioni che abbiamo abbandonato fossero davvero solo celle asfittiche, croci da sopportare, eterno calvario delle nostre esistenze. E se non sia invece possibile riscoprire un potere antico, se non si possa liberare la maga che c’è in ciascuna di noi, quella che preparava filtri, incantesimi, pozioni, che tramandava le sue magie di madre in figlia, di nonna in nipote, che nutriva, non solo il marito, i figli, la famiglia, gli amici, ma il mondo stesso. Rose Boycott, giornalista inglese e femminista storica, nel 1970 scriveva sul suo magazine “Spare Rib” contro ogni singolo istante passato ai fornelli, oggi ci ha ripensato e ammette sul “Guardian” che: “Per il nostro modo di pensare, cucinare era per persone frivole e dunque politicamente pericoloso. Ma ci sbagliavamo”. L’imperativo dell’oggi, quello che condiziona la nostra vita di donne è l’abusato slogan americano “Women can have it all”, “Le donne possono avere ogni cosa”, casa, carriera, figli, marito, amici, hobby. Uno degli imperativi più frustranti di questi ultimi anni, perché tutto nessuno riesce mai ad averlo. E allora non sarebbe invece liberatorio poter finalmente dire che no, non vogliamo affatto tutto, che vorremmo poter scegliere cosa debba o non debba far parte della nostra vita e farlo senza condizionamenti esterni? E alcune di noi magari sceglieranno i fornelli, prenderanno possesso della cucina, facendola diventare un luogo di azione e non più di reclusione, rivendicheranno un ruolo storico, sociale, politico, mai sufficientemente riconosciuto, quello di depositarie della memoria gustativa del nostro paese. Saremo noi allora, quelle donne, a scendere in piazza gridando a chi ci vuole ascoltare: Tremate, tremate, le cuoche son tornate!”
(Pagina99, 21/27 novembre 2015)
di Daniele Biaggi
Chirù ha 18 anni, vive a Cagliari e ha un profilo facebook. È un ragazzo pieno di vita, più di quella che ci si aspetterebbe da un personaggio fittizio. Chirù, infatti, è il protagonista del nuovo romanzo di Michela Murgia (Chirù, Einaudi Editore), scrittrice sarda vincitrice del premio Campiello 2010.
Murgia è una narratrice: lo è al punto tale da non riuscire a imprigionare le sue creature all’interno della pagina, permettendo loro di vivere una vita che superi lo spazio del racconto.
Quello che ha fatto è semplicissimo, tanto da chiedersi come mai nessuno ci avesse pensato prima: nelle settimane precedenti l’uscita del romanzo, ha donato una prima vita a Chirù, creandogli un profilo Facebook, un Tumblr e un account Spreaker. Non solo, non bastava: ha ingaggiato i suoi follower/futuri lettori, grazie a quella che potremmo definire una call to action letteraria, seminando oggetti dimenticati dal protagonista per la città, chiedendo di inviare libri che lo consolassero da ferite d’amore e postando continui aggiornamenti sui suoi spostamenti.
Ha rotto insomma un’incomunicabilità, intrinseca nella finzione letteraria, tra personaggi e lettore.
Tanto semplice l’idea, tanto complesse le implicazioni a livello letterario ed editoriale, che ci hanno spinto a contattarla per scambiare quattro chiacchiere riguardo la questione.
Innanzitutto, quando e come è nata l’idea?
A luglio scorso, il giorno dopo aver consegnato la stesura definitiva del romanzo, non avevo esaurito la spinta narrativa. Sentivo che la voce di Chirù diciottenne aveva un respiro proprio, ma che non erano le pagine del romanzo il posto in cui poteva esprimerla. Così ho aperto una pagina Fb e ho iniziato a scrivere dei post come se fosse lui medesimo a muoversi sulla bacheca. Poiché nessuno ne era a conoscenza, è rimasto senza amici fino alla prima settimana di ottobre.
Una delle regole auree della letteratura sancisce l’incomunicabilità tra lettore e personaggio, cosa che ha in un certo senso violato e che aumenta il livello di sospensione dell’incredulità. Come spiega il superamento di questa barriera?
La barriera in realtà è apparente, perché anche Facebook è uno spazio narrativo. La sequenza dei post degli utenti sulla bacheca si chiama timeline, ma se si chiamasse storyboard sarebbe ancora più chiaro che la scelta dei contenuti – testo, foto, video, emoticons – risponde a una volontà narrante. Sui social siamo tutti allo stesso tempo lettori, narratori e personaggi.
Il lettore viene a conoscenza di particolari successivi a un evento, prima di aver conosciuto l’evento stesso raccontato nel romanzo. È una rivoluzione letteraria a livello del patto narrativo con il lettore, ne è consapevole?
Che la storia non si esaurisca nella carta è una cosa vera da sempre, considerato che non è sulla carta che è cominciata. La narrazione comincia nel mondo dell’oralità, la carta è un’evoluzione molto tardiva e gli strumenti narrativi tecnologici raccolgono lo stesso testimone, lo stesso “c’era una volta” partito da un cerchio di persone intorno a un fuoco e a un trovatore centinaia di anni fa. Il patto non cambia: si espande.
Superato il limite, si potrebbe delegittimare il potere della carta stampata. È, in parte, il riconoscimento che nella società di oggi il libro non ha più un fascino sufficiente per certi lettori?
In un paese dove 6 italiani su 10 non leggono nemmeno un libro l’anno e dove il 46% è considerato analfabeta funzionale, la delegittimazione della carta è già certificata: chi scrive libri per mestiere è consapevole di farlo per un’élite in via di estinzione. La sfida dei narratori futuri è anche quella di capire come i nuovi sistemi di organizzazione del linguaggio e dei contenuti possono salvare le storie, anche se si perde la carta.
Possibile che una soluzione alla crisi di lettura in Italia si possa trovare proprio grazie a una narrazione crossmediale che coinvolga più mezzi di comunicazione?
L’informazione si è posta il problema molto prima e, pur non avendo smesso di uscire in edicola, si muove da tempo sulla rete nell’ottica del mobile first. Non riguarda la mia generazione, già vecchia, ma i millennial. I ventenni di domani hanno bisogno di storie quanto noi, ma i luoghi in cui le trovano somigliano ai nostri quanto un chicco di grano somiglia a una spiga, e non è detto che sia peggio. Gli spazi fortemente connettivi in cui loro si muovono con naturalezza ci dicono una verità che la retorica dello scrittore solitario ci aveva per anni indotti a negare: la narrazione è prima di tutto relazione.
Questo comporta una preparazione impartita dall’autore nei confronti dei suoi futuri lettori, creando un narratario ideale della storia.
Per esempio, Chirù è appassionato di musica, lo si vede nei suoi post, e in questo modo i lettori avranno una maggiore consapevolezza. Possiamo definirla una facilitazione per l’autore?
Credo che l’autore si esponga al contrario a un rischio notevolissimo. Chi ha vissuto l’esperienza multimediale del prequel su Fb si approccerà al libro con un’idea del personaggio Chirù che il lettore tradizionale non avrà. Leggeranno due libri diversi, non solo perché tutti i lettori sono diversi, ma perché la partenza avviene da blocchi sfalsati. Per gli utenti di Facebook, Chirù non è un misterioso estraneo raccontato da una voce amica, ma un amico che incontra una misteriosa estranea. Al digital divide corrisponde in questo caso anche un divario letterario.
È una storia in fieri, potenzialmente infinita: se e quando si dice basta?
Dire basta spetta al lettore. Quando cessa la sua disponibilità alla relazione, la narrazione è finita. Non sono mai stata il tipo di autrice che scrive per se stessa”.
(www.wired.it, 12 novembre 2015)
Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua è il titolo del libro che, scritto a più mani e curato da Marina Santini e Luciana Tavernini della Comunità di storia vivente di Milano creata da Marirì Martinengo, racconta attraverso la voce delle protagoniste e il commento a tante foto inedite, quella straordinaria e unica rivoluzione simbolica e sociale, iniziata negli anni ’60, continuata negli anni ’70/80 del secolo scorso fino ad arrivare a oggi e che porta il nome di femminismo della libertà. Un lavoro quello delle curatrici durato sette anni, durante i quali – raccontano – «alcune ci hanno aperto le case, recuperando scatole di documenti dalle cantine e cominciando narrazioni fiume. Con altre ci sono state ripetuti scambi di mail. Molte ci hanno ringraziato perché abbiamo ripercorso tratti della loro e della nostra esperienza. A volte il racconto è partito da una fotografia, altre volte, invece, è stata cercata un’illustrazione. A noi interessava andare oltre l’immaginario riduttivo delle grandi manifestazioni» per raccontare quel femminismo che «non è possibile insegnare. Non è un oggetto di studio. Trasforma se ci si lascia toccare. Dopo il mondo non è più lo stesso». È quanto nel libro raccontano le tante donne, facendo rivivere l’atmosfera irripetibile di quegli anni, le emozioni, i sentimenti, i pensieri, gli episodi, le fatiche, le gioie, le scoperte, la creatività di una generazione di donne che ha cambiato la propria vita e il mondo intorno a sé. Perché raccontare? Per chi e a chi? Non per “censire il femminismo” – avvertono le curatrici – ma per «il desiderio di dialogo con le nuove generazioni», sollecitate dalle domande e dalla curiosità «delle allieve […] di un istituto linguistico, dopo aver visto la mostra sul movimento delle donne a Milano» e perché non se ne perda «la memoria e neppure che un’altra storia le venga soprapposta, facendone svanire il senso».
«Ma doveva proprio capitarmi una madre femminista?» è la provocazione di una figlia a sua madre, da cui il libro prende le mosse per raccontare. La madre reagisce scrivendo alla figlia una lunga lettera per aprire un dialogo con lei e spiegarle, raccontarle, la sua esperienza di femminista. È intorno a quel dialogo madre-figlia che si snodano i racconti delle altre donne, sempre a partire da sé, ripercorrendo cinquant’anni di storia italiana attraverso quattro parole, quattro capitoli: corpo, linguaggio, luoghi e lavoro. Pratica dell’autocoscienza, piccoli gruppi, collettivi, movimento delle donne, abbandono della politica della parità, abbandono di molte donne dei gruppi misti, pratica dell’inconscio e relazione tra donne, passando dalla riflessione sulla relazione con la madre; entrata in massa delle donne nelle scuole e scoperta della non neutralità del linguaggio e della cultura che lì si insegnava/insegna, e avvio negli anni ’80 della pedagogia della differenza. Centrale la ricerca di parole nuove «per raccontare le trasformazioni avvenute». «Attraverso la parola scambiata avveniva la presa di coscienza e si portava sulla scena pubblica materie private come la sessualità, la violenza, la maternità. Il personale divenne politico». Si organizzavano le 150 ore per le casalinghe, si scopriva il proprio corpo, la propria sessualità, si sperimentavano le autovisite con lo speculum di plastica e la contraccezione. Emma Bonino si autodenunciava con il Cisa per gli aborti clandestini, a Roma (1976) nasceva il primo centro antiviolenza e sulla Rai (1979) veniva trasmesso il documentario su un processo per stupro, si avviava l’esperienza degli asili autogestiti. Si sperimentava la pratica del fare e della creatività femminile, fondando librerie, case editrici, riviste, quotidiani di donne, festival di cinema, musica, teatro autogestiti. Quel femminismo non è morto, continua a vivere nelle tante donne di quella generazione che, ancora in vita, ne ha trasmesso l’“eredità” alle figlie. Il libro si chiude, infatti, con la consapevolezza della figlia – a partire dal suo desiderio del doppio sì, al lavoro e alla maternità – di essere cambiata anche lei. «Cara mamma ti sei accorta di come sono cambiata? Che ne dici? Sono forse diventata femminista?» Il libro si presta ad essere utilizzato come testo scolastico, non per insegnare il femminismo, ma per dare alle ragazze che frequentano le nostre scuole consapevolezza della propria storia e conoscenza delle origini del loro cambiamento, del loro essere “femministe”, anche se non lo sanno.
Mia madre femminista – Voci da una rivoluzione che continua, a cura di Marina Santini e Luciana Tavernini. Ed. Il Poligrafo, pagg.249, € 20,00
di Barbara Mapelli
La filosofa francese, figura centrale del femminismo, racconta uno dei tabù più diffusi e meno “pensati”, quello della pedofilia.
E indaga sul nesso tra bellezza, amore e violenza che caratterizza i nostri rapporti con i bambini e le bambine, soggetti – e oggetti – senza parola delle relazioni con il mondo adulto.
Non so se quanto scrivo si possa definire una recensione. Mi sembra che il mio desiderio sia soprattutto quello di parlare del testo Paedophilia, di Annie Leclerc, per condividere i contenuti di un libro che ha il coraggio di affrontare ciò di cui si parla poco e male, solo o prevalentemente a livello di notizie di cronaca, distorcendo i significati della parola, distorcendo, impoverendo e banalizzando i signficati di quel che accade e che risuona potentemente in tutti e tutte noi. Desidero condividere emozioni, per quanto possibile, e contenuti e il coraggio dell’autrice che tratta un tema oscuro, che suscita orrore, scavalcando i manierismi dei/delle benpensanti, di coloro che dividono il mondo con sicurezza in bene e male. E non c’è dubbio dove collochino se stessi/e. Scrivo, o almeno tento, un dialogo con l’autrice seguendo puntualmente le sue pagine, pur nella brevità obbligata delle mie di pagine, ma certamente non sono soltanto una cronista fedele di questo libro, né desidero esserlo, io ci sono nelle scelte delle parole, dei brani citati, delle sottolineature di contenuti che particolarmente mi hanno colpito.
C’è un lupo, scrive Annie Leclerc, che si è mangiato una parola – e proseguendo nella lettura ci abituiamo progressivamente al suo linguaggio, alle immagini che si susseguono, fioriscono in ogni pagina, compaiono e poi rapidamente spariscono, ma restano incise nel pensiero e nell’emozione di chi legge. Ma chi è il lupo, o i lupi? Qual’ è la parola?
La parola è paedophilia, il titolo stesso di questo piccolo libro, ed è una parola che viene usata spesso, anche se divorata nei suoi significati o meglio resa ambigua negli anni fino ad assumere il senso più negativo, quello che suscita orrore, che semina il terrore, il silenzio e la morte. Se il termine significa letteralmente amore per i bambini, diviene nel tempo qualcosa che evoca solo il male più grande. Eppure l’amore per i bambini è un sentimento che abbiamo tutti e tutte, è il sentimento della vita, della gioia, della fiducia e come e perché si trasformi, si sia trasformato è un pensiero su cui poco o nulla si è riflettuto.
Ovunque i bambini e le bambine inondano i cartelloni pubblicitari, le pubblicità in tv, sono i mezzi più sicuri per vendere di tutto, non solo prodotti per l’infanzia, vengono presentati e presentate come piccoli angioletti bonbon che ci vengono serviti in tutte le salse…Eppure, a fronte di tutto ciò sembra che ai pensatori dell’umanità tutto questo importi poco, e che si stenda un silenzio inspiegabile, forse indecente, sulla fascinazione irresistibile di un’infanzia che ci induce a comprare cibi surgelati, detersivi, carta igienica…e più i loro corpi piccini, il loro sorriso e i passi incerti vengono esposti, più l’amore, il desiderio per loro si espande, diviene sentimento diffuso e santificato nella sua apparente purezza, nella gioia senza ombre che offre. Al di là di questo inespresso ed edificante sentire collettivo domina il silenzio, rotto solo dalle denunce delle violenze, senza che vi sia alcun tentativo di mettere in comunicazione, di rompere la rigida divisione tra bene e male. Silenzio, come il silenzio del bambino, della bambina aggredita sessualmente. D’altronde, ricorda l’autrice, l’etimologia di infanzia, infans, è costituita dalla particella privativa in e fans, partcipio del verbo fari, parlare: l’infante è colui/colei che non parla (ancora). Eppure la bambina violata – e Annie Leclerc introduce ora direttamente la sua storia – vorrebbe parlare, rompere la solitudine in cui il silenzio la chiude, ma la sua è l’esperienza dell’indicibile, lei è preda prigioniera del segreto dell’altro. All’uomo del sentiero – colui che l’ha fermata e violata in un luogo a pochi passi da casa – non ha potuto dire nulla, ai genitori nemmeno perché non ci sono parole per quanto è accaduto. La bambina, Annie da piccola, non vuole (non può) intaccare la fiducia assoluta che accorda agli adulti…Non vuole pensare: è davvero cattivo, mi vuole fare del male (…) La benevolenza degli adulti per i bambini è tutt’uno per lei con l’ordine del mondo: è la legge. Vuole restare, qualunque sia il prezzo da pagare, annidata nella legge della benevolenza come un feto nel ventre di sua madre (…) assume su di sé l’affonto e non fiata. E poi parlarne rende la cosa reale, una volta detta non si può più cancellare o dimenticare, e così alla vergogna per ciò che è accaduto si aggiunge la vergogna del silenzio, che la rende complice del crimine abominevole.
Ma Annie Leclerc si spinge ancora più in là ed è in questo coraggio ‘scandaloso’ che consiste, a mio parere, il merito maggiore del tuo testo.
Perché, lei afferma, davanti a un mondo adulto che si erge con grande sicurezza come giudice del crimine abominevole, e decide senza esitazione dove sia il bene, dove sia il male e si schiera in modo così risoluto contro il Male, il bambino già abusato da un adulto può, al posto dell’aperta antipatia davanti al suo carnefice che ci si aspetta da lui, al posto di questa dichiarazione di ostilità a cui è chiamato, riavvicinarsi al boia, all’ombra della vergogna dei deboli, in una solidarietà molto inquietante e insidiosa con ciò che conosce troppo bene: la solitudine di un inconfessabile segreto, la minaccia atroce della vergogna portata alla luce, questo stesso destino di terrore intimo e quotidiano…
L’indignazione e l’orrore adulto non crea solo distanza tra bene e male, crea barriere invalicabili, crea impossibilità di varchi, indicibilità e non volontà di cercare veramente di penetrare il segreto, i mille segreti della pedofilia ‘delicata’ racchiusi in ciascuno.
La divisione appare e viene dichiarata con sicurezza come netta e insormontabile tra una pedofilia gentile, attenta, amorosa, vale a dire pedagogica, e la volgare brutalità dei violentatori sanguinari, c’è una distanza infinita, insuperabile e indicibile. Il giorno e la notte. La bontà e la cattiveria. La grazia e la bestialità.
Ciò che ci si rifiuta di considerare è che l’amore stesso per i bambini e le bambine, il significato originario della parola pedofilia, può essere all’origine del disastro, della violenza. Porre barriere mette al sicuro l’indignato benpensante all’interno del recinto rassicurante della bontà, della tenerezza, della commozione innocente nei confronti del miracolo seducente dell’infanzia. Ma impedisce ogni sforzo di comprensione. E a questo punto la denuncia dell’autrice è precisa e netta.
Se non si cerca di capire cosa può accadere a coloro la cui sessualità si realizza a scapito dei bambini, se non ci preoccupiamo d’altro che di metterli in prigione, e di impedire con qualche coercizione originale che possano nuocere ancora una volta, non solo non si va al cuore del problema, ma lo si mantiene in vita. L’impensabile genera l’indicibile. L’indicibile allarga ulteriormente lo spazio del segreto in cui agisce il pedofilo. I mezzi per pensare l’impensabile li abbiamo: la comune passione per i bambini, il desiderio sessuale, ma anche qualche traccia in noi stessi, incancellabile, di infanzia oltraggiata: ferita segreta di sé, vergogna ridotta al silenzio senza la quale il pedofilo non avrebbe trovato la sua pastura.
Quanto Annie Leclerc scrive dunque su questo tema ‘lascia senza parole’, come annota Lea Melandri nella sua bella prefazione al volume, e lascia senza parole ‘dover ammettere che vita e morte, tenerezza e violenza, così come le abbiamo conosciute finora, si danno inspiegabilmente intrecciate’. Eppure l’autrice afferma, in una delle ultime pagine del libro, di non credere all’ineluttabilità della violenza, alla naturalità dell’homo homini lupus, una favola triste, dolente e oscura, aggiungo io, inventata dagli uomini cui anche noi donne abbiamo in parte creduto e abbiamo in parte soggiaciuto. Questa presunta naturalità è il frutto di una cultura antica, ma non originaria, su cui si può dunque riflettere e agire per trasformare.
Con le parole di Annie Leclerc. Che si sappia soltanto che non credo in effetti ad alcun impulso primario nell’uomo di aggredire, di nuocere, di stuprare e di uccidere. Penso che non abbiamo altra passione che quella di vivere – portare a compimento la vita fino alla sua fine che a ciascun passo l’assedia, vale a dire fino alla morte – e che la violenza, l’omicidio, la guerra sono delle passioni rivolte contro la vita.
Annie Leclerc, Della paedophilia e altri sentimenti, prefazione di Lea Melandri, traduzione di Luciana Piddiu e Giovanna Stancanelli, ed. Malcor D’, Catania 2015
(Leggendaria. Libri letture linguaggi – n. 111- maggio 2015)
di Bia Sarasini
È un grande piacere leggere Sei romanzi perfetti, il bel libro che Liliana Rampello ha dedicato a Jane Austen. Lo stesso piacere che si prova a leggere i sei testi in questione, da Ragione e sentimento a Persuasione, da Orgoglio e pregiudizio a Mansfield Park, per finire con Emma e L’abbazia di Northanger. Rampello trova, nell’accostarne l’opera, lo stesso tono lieve e leggero che ne caratterizza la scrittura, una speciale forma di sintonia, che fa sì che nel trascorrere dal commento critico alle numerose citazioni che intessono il ragionamento, non si avverta un salto. Insomma il libro si legge come un romanzo, per usare una formula abusata eppure efficace. Il disvelamento di alcune strutture narrative, la messa a fuoco delle caratteristiche peculiari di personaggi e personagge, ha l’andamento della scoperta di un segreto, si struttura come un plot in cui è piacevole immergersi.
E cosa dice Liliana Rampello di una scrittrice così nota, così letta, così amata? Un’autrice che dall’angolo di campagna inglese in cui ha vissuto e che ha raccontato tra il Settecento e l’Ottocento, è arrivata fresca e intatta fino a noi, mentre i suoi romanzi vengono letti e riletti, si moltiplicano gli adattamenti, le versioni cinematografiche d’epoca e moderne, i fan club. L’obiettivo non è svelare ancora una volta il segreto di una scrittura essenziale, calibrata, attenta ai particolari e mai leziosa, equilibrata nello svolgimento e feroce nei dettagli. Rampello pone all’attenzione soprattutto il chi e il come Jane Austen racconta.
Insomma, a interessare Rampello non è la mirabile osservatrice di trame sociali, quella qualità che anche i più ingenerosi dei critici sono stati costretti a riconoscerle, per esempio Vladimir Nabokov, che seppure definisce Mansfield Park “l’opera di una signora”, le attribuisce “una vena di genio”. Anche se parte da questa notazione: «Acuta e silenziosa osservatrice, la scrittrice posa sugli uomini uno sguardo impavido, poco tradizionale, anzi molto moderno, perché interno non alla logica ma alla complementarietà dei sessi, ma quella dello scambio».
Impavida narratrice, la signorina Austen mette in scena una storia inedita, mai raccontata, che non si ispira a nessuna precedente tradizione. La storia delle relazioni tra donne e uomini, ragazzi e ragazze anzi, «nell’età più lieve e di massima responsabilità: forse è per questo che parla ancora ai giovani di quell’età, cui oggi non sono date più né leggerezza né responsabilità, e a chi, con un passato alle spalle, sa che tutto in effetti è capitato allora».
Il gioco massimamente serio che passa tra quelle ragazze e quei ragazzi è ovviamente quello del matrimonio. Che non ha nulla a che fare con il sogno d’amore, con la trappola che imprigiona le donne, quella è una narrazione successiva. Il matrimonio, nella prospettiva di Jane Austen, è realtà concreta, fatta di relazioni, sentimenti, ragionamenti. E patrimoni.
Il denaro ha una parte centrale. Per questo queste ragazze, queste donne sono libere. Perché scelgono, pensano, ragionano per quanto possibile, sul loro destino. Non lo subiscono. E forse è questo il segreto che possono condividere con le ragazze di oggi, che hanno tra le mani un sogno d’amore in frantumi, e non hanno chiaro come comporre il loro futuro.
Rimane un punto da vedere, per comprendere come le personagge di Austen agiscono, cosa effettivamente raccontano, nell’«invenzione della narrazione del mondo, scoppiettante riga dopo riga fino all’esplosione finale, che non è il matrimonio, ma la felicità».
E questo è il punto centrale dell’interpretazione di Liliana Rampello. I romanzi di Jane sono romanzi non di formazione di un io definito come è nelle storie maschili, ma di trasformazione di sé. E il dialogo, la conversazione sono l’azione necessaria e sufficiente perché la trasformazione avvenga. Sembra semplice, è un passaggio essenziale, che apre una nuova finestra nella ricerca sulla narrazione da parte delle donne.
Ogni romanzo viene riletto alla luce di questa chiave critica, che apre nuove porte per ogni singolo testo. Chiudo questo viaggio nel racconto del libro che racconta Jane Austen, con la chiusura del libro, dedicata alle passioni, alla “straordinaria libertà interiore” regalata dall’autrice alle sue eroine.
«Le immagini che abbiamo della cultura materiale e immateriale dei due secoli, della loro temperie morale e culturale, sono attraversate da lei con il leggero e miracoloso equilibrio di chi conosce e accetta le proprie radici senza paura dell’autenticità complessa della natura umana e degli inevitabili cambiamenti umani e sociali. Perché tra le sue mani Jane Austen tiene stretto il desiderio di felicità di una donna».
Liliana Rampello, Sei romanzi perfetti, Il Saggiatore, pp. 200, euro 18
SIL – Società Italiana delle Letterate (http://www.societadelleletterate.it/ 9/10/2015)