da L’Altravoce il Quotidiano
Non è usuale raccontare la Resistenza attraverso i libri delle scrittrici partigiane. È quello che fa Annachiara Biancardino nel suo libro Scritture partigiane – La Resistenza nella letteratura d’autrici, Stilo Editrice. Un libro originale, che invoglia a leggere o rileggere le scrittrici della Resistenza, di cui lei ci parla. Attraverso i romanzi quali L’Agnese va a morire di Renata Viganò, il Diario di Ada Prospero, Raccontiamoci com’è andata di Gina Lagorio, Tetto Murato di Lalla Romano e Dalla parte di lei di Alba de Céspedes, l’autrice analizza e interroga le forme di partecipazione delle donne alla Resistenza e i motivi che le hanno spinte a scegliere di unirsi alla lotta partigiana. Romanzi, che affondano le radici nella vita delle loro autrici, scritti tra «la grande stagione memorialistica partigiana» del dopoguerra, quando tra chi aveva partecipato alla lotta partigiana si diffonde l’«urgenza di raccontare la guerra civile» e «fissare sulla carta i propri ricordi», e «i tardi anni Cinquanta» quando «ciò che inizialmente era cronaca comincia a diventare letteratura» per «comunicare l’essenza ideologica di quella battaglia anche attraverso il ricordo delle vite che per essa si sono sacrificate». Le scrittrici partigiane ci insegnano che «la lotta partigiana non è solo una questione di eroismo militare, ma soprattutto di resistenza», «non glorificano il conflitto» ma scelgono di «descriverlo come un’esperienza umana» fatta di solidarietà tra donne, di «episodi bizzarri» come l’organizzazione di matrimoni tra partigiane e partigiani in un «clima di spensieratezza», di «scene di vita quotidiana», riunioni, conversazioni private, momenti di vita domestica come provvedere al cibo, cucinare e prendersi cura dell’altra/o, come fa Agnese, ribattezzata “mamma Agnese”. È la “Resistenza senza armi”, non violenta, comune a molte donne coraggiose che «mettono a disposizione la propria casa, accolgono e nascondono qualcuno, lo sfamano, gli prestano assistenza», esponendosi «al pericolo di una perquisizione, alla deportazione del capofamiglia e distruzione dell’abitazione». Atipico in questo panorama è il romanzo “introspettivo” di Lalla Romano. Tutte raccontano la Resistenza come “scuola di emancipazione” per le donne ed è Alba de Céspedes che narra la “frustrazione” sua e di molte donne, dopo la Liberazione, per «il mancato riconoscimento della partecipazione femminile alla Resistenza e la mancanza di una vera emancipazione». Protagoniste dei romanzi, spesso, sono le “staffette” o le “mater dolorose”, donne il cui antifascismo nasce «nel segno del lutto» dopo l’uccisione di un figlio, di un marito (come per Agnese), di un padre o di un fratello. In quanto donne vengono sospettate, più degli uomini, di tradimento col nemico, perché «ritenute più sensibili ai condizionamenti del cuore». Ed è il cuore che spinge Ada Prospero alla “pietas” verso i nemici che «restano comunque esseri umani», «perché sono anche loro dei figli di altri, ma pur figli». Scrivere per comunicare gli ideali della Resistenza alle generazioni successive è quello che spinge Prospero nel 1957 e Lagorio nel 2003, per preservare un ricordo che, per la prima, rischia di essere dimenticato e, per la seconda, distorto e cancellato dai «nuovi fascismi» che «si stagliano all’orizzonte».
Il libro si conclude con tre giovani scrittrici della letteratura “postmemoria”, nata nell’ultimo decennio del ’900. Simona Baldelli con il romanzo Evelina e le fate si ispira alla memoria della madre, Paola Soriga con Dove finisce Roma, storia di una staffetta adolescente, si ispira alle “antenate”, alle “scrittrici partigiane” e Nicoletta Verna con il suo romanzo storico I giorni di vetro. Tornare alle scrittrici partigiane, aiuta a pensare il presente.
da DoppioZero
Modernità esplosiva, sottotitolo: Il disagio della civiltà delle emozioni, è uno dei tre saggi che aprono la collana einaudiana dei nuovi Maverick: interessante novità di aprile 2025. In copertina guardiamo da vicino un occhio chiaro che a sua volta ci guarda. Il libro, tradotto molto bene da Valentina Palombi, l’ha scritto Eva Illouz, sociologa che da più di trent’anni si occupa di relazioni amorose, intimità e più in generale di emozioni. Ha iniziato a farlo con dei libri di nicchia, alcuni dei quali mai tradotti in italiano, come Consuming the Romantic Utopia: Love and the Cultural Contradictions of Capitalism, che è uscito nel 1997, quando pochi altri nel mondo prendevano sul serio le forme contemporanee del fenomeno amoroso o, se non altro, se ne occupavano. Dopo quel testo ne sono seguiti tanti altri, ma in particolare due degni di nota: Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi (che in italiano è uscito la prima volta nel 2007, per Feltrinelli) e Perché l’amore fa soffrire (2013, Il Mulino – parlo sempre della pubblicazione italiana numero uno). Per chi si appassioni ai temi e alla mente di Eva Illouz esistono svariati saggi da recuperare, ma vale la pena di chiamare in causa questi tre perché Modernità esplosiva ne costituisce l’ultimo atto. Tutte le domande che Illouz si è fatta in questi anni al riparo dell’accademia esplodono ora in una questione di dominio (felicemente) pubblico: il malessere che proviamo è una «conseguenza inevitabile della modernità»? O anche: «In quali modi la modernità – un concetto vago e complesso – si è manifestata nella nostra vita emozionale»?
La tesi di Illouz è che le emozioni non si formino «nel sé più di quanto il linguaggio risieda nel sé». In breve, le emozioni rappresentano raffinati codici di reazione all’ambiente che sono, però, meno istintivi di ciò che crediamo. Questi codici vengono di volta in volta ridiscussi e forgiati dai cambiamenti della società e sarebbe un errore interpretarli sempre nello stesso modo, privatamente, come identiche reazioni animali a uno stimolo esterno, senza adattare lo sguardo allo stile della civiltà in cui si stanno manifestando. Per questa ragione, delle emozioni non si devono occupare solo gli psicologi, ma pure e soprattutto i sociologi. Se stiamo male, oltre a lavorare su noi stessi, possiamo cercare di capire quello che non dipende da noi. Infatti, come scrive Illouz nelle sue pagine inaugurali: oggi «la nostra psiche soffre di un eccesso di auto-attenzione emozionale, come se il nostro obiettivo collettivo consistesse oramai semplicemente nel “sentirsi bene”. Se questo libro ha un’ambizione è quella, paradossale, di aiutarci a distogliere lo sguardo dai nostri sé emozionali».
In effetti, da Intimità fredde in avanti, Illouz è sempre più critica verso certe derive consumistiche della società terapeutica, ma il saggio va da un’altra parte, e quest’altra parte è precisamente guardare come le emozioni si sono trasformate nella società moderna fino ai giorni nostri.
Che cosa vogliono dire le emozioni adesso? E quali emozioni si nascondono sotto i dati?
Se la speranza, per esempio, ha dato luogo alla coloritura prevalente dei tempi moderni, ora non è più vero. Se siamo meno speranzosi è perché aumentano le disuguaglianze, le istituzioni democratiche sono in crisi, la tecnologia ci estrania della nostra vita quotidiana, e poi il lavoro è precario, così come sono inaffidabili relazioni sentimentali e matrimoni.
Può sembrare un cammino pessimistico e sconfortante, in realtà è l’opposto: Eva Illouz oppone ai «sé emozionali» dei “noi emozionali”. Che effetto fa? Alla fine della lettura ci si sente meno soli, perché le emozioni che siamo soliti introdurre con un: “io provo” o con un: “io sento”, sono invece diventate oggetti collettivi in qualche modo esterni alla psiche, oggetti di studio più interessanti che spaventosi. Leggendo il saggio si cambia prospettiva. Il «disagio delle emozioni» si rivela una mappa utile a indicare quali sono gli aspetti della società che potremmo voler trasformare, così da provare insieme emozioni migliori. È un po’ la differenza tra temere di avere una brutta malattia e mettersi a studiare cellule impazzite con la strumentazione più adeguata. Se ne ritrae un conforto di tipo intellettuale e non psicologico, unito alla curiosità rispetto a un oggetto che quando appariva generico ci metteva più ansia – sempre a proposito di stati d’animo.
Tra le tante cose che Eva Illouz ha messo a punto negli anni, affinando il suo stile, ce n’è una che nel saggio salta particolarmente all’occhio ed è l’utilizzo della letteratura come materiale sociologicamente rilevante, tanto più nello studio delle emozioni; quindi, le pagine sono una miniera di riferimenti e immagini prese dai romanzi, per lo più dai classici, ma non solo. La densità è elevata, il materiale infiammabile. Così come il titolo, che si spiega pensando alla mescolanza esplosiva di emozioni intense in confitto tra loro. Nelle pieghe degli esempi e dei ragionamenti, tipico dell’autrice è seminare delle definizioni particolarmente memorabili, come quella che dà dei romanzi, che sarebbero: «il luogo in cui la mente si aggiorna su chi sente una data cosa, dove e perché» o delle emozioni stesse che sarebbero: «momenti stilizzati di essere». Le emozioni sono diventate progressivamente più importanti perché, secondo la sociologa, nella contemporaneità sono sempre legate al lavoro di autodefinizione di sé che ciascuno porta avanti instancabilmente per misurare non solo come sta, ma anche se è un fallito oppure no. Se fino a qualche decennio fa le emozioni individuali erano schermate dall’educazione del carattere a certi valori morali, ora che questo apprendistato caratteriale è in declino, sono le emozioni a dire di noi quanto la nostra vita sia realizzata o mancata: se stiamo bene, siamo vincenti, se proviamo emozioni negative ecco che si misura un primo grado di fallimento da riparare con una cura. Per dirlo con le parole di Illouz: «La realtà diventa così intensamente emozionale, si trasforma in una serie di transazioni emotive che possono rivelarsi esplosive, proprio perché il contenuto della vita emozionale è diventato il principale fondamento della realtà e l’oggetto stesso di queste transazioni. Le emozioni sono diventate la realtà degli individui e il loro campo di battaglia, ciò che si sforzano di plasmare e controllare e ciò per cui lottano con gli altri».
Le emozioni che la sociologa scandaglia sono in particolare dieci, raccolte in tre sezioni che organizzano il libro: nella prima parte, che si concentra su luci e ombre del sogno americano, si prendono in esame speranza, delusione e invidia; nella seconda è la volta di ira, paura e nostalgia, che per Illouz sono le emozioni di riferimento se si parla di nazionalismo o democrazia; infine seguono le emozioni della sfera intima, cioè la coppia di vergogna e orgoglio, la gelosia, e in ultimo quel complesso conglomerato a cui diamo il nome riassuntivo di ‘amore’. In tutti i casi la linea del tempo non è mai il mancorrente che aiuta a seguire le scale del ragionamento, l’autrice si muove con disinvoltura e rapidità avanti e indietro. In ciascun caso, i quadri letterari aiutano a intendersi sul modo in cui si scatena l’emozione oppure a portare avanti la tesi.
Un caso particolarmente emblematico di come lavora Eva Illouz è rappresentato dall’ira.
Si parte tipicamente da Achille, ma poi si ragiona su come essere arrabbiati oggi non sia per forza una ragione di orgoglio sociale: dipende. L’ira non è sempre la difesa eroica da un oltraggio morale. Se a essere arrabbiato è qualcuno che non può permetterselo, perché non ha una voce abbastanza ferma da interpretare con successo il copione omerico, l’ira collassa in una forma di vergogna, nel risentimento. E, la maggior parte delle volte, l’ira sta al confine tra la virtù e l’affermazione spesso egoistica di un io frustrato. Per questo l’ira viene definita dalla sociologa un «enigma dell’anima», perché è molto ambigua, muta di valore da una situazione all’altra, da un agente all’altro, e pure quando erompe in difesa della giustizia può trasformarsi in una violenza peggiore di quella denunciata o subita.
Una sintesi altrettanto affilata riguarda l’invidia che viene detta: «l’emozione muta». Chi è invidioso, infatti, non può che tacere il suo sentimento, perché esplicitare l’invidia verso qualcuno sarebbe come ammettere la propria inferiorità, ma soprattutto vorrebbe dire oggettivare che la vita fortunata e migliore è quella dell’altro. Chi è invidioso, per il solo fatto di ammettere che lo è, viene considerato un perdente.
Queste considerazioni non sono vere in generale, soprattutto non sono sempre state vere: dal futuro o dal passato le nostre emozioni potrebbero essere difficili da comprendere così, nel significato che hanno per noi adesso.
Nel guardare a come si sono contorte le emozioni intorno alla società e ai suoi mutamenti, Eva Illouz risolve anche dei rebus che ci aiutano a mettere a fuoco alcuni meccanismi emozionali collettivi. Prendiamo l’orgoglio, per esempio. L’orgoglio va in coppia con la vergogna perché rappresenta il suo opposto, oppure la controffensiva che la psiche mette in campo quando l’imbarazzo è troppo grande e ingiustificato. Allora è lì che subentra l’orgoglio.
Su questa emozione la sociologa fa un rilievo importante: l’orgoglio è un’emozione positiva, talvolta nazionale, in grado di portare avanti miglioramenti sociali, a condizione però che sia provvisoria. Quando si radica nel tempo, l’orgoglio si svuota del suo significato reattivo e smette di essere «quieto», l’orgoglio diventa «un’identità autocompiacente» che non è più disposta a confrontarsi con le altre. Un mite orgoglio, al contrario, è un’arma intelligente da usare contro la discriminazione, così come è avvenuto col movimento pride in tutto il mondo.
Nelle parole di Illouz le emozioni si svuotano completamente del loro valore patetico: diventano lenti per leggere il contemporaneo e la cronaca, più volte usata per addentrarsi nello spettro emotivo. Un’ultimissima cosa da sottolineare è che le quaranta pagine di bibliografia, raccolte in trent’anni di studio, sono una miniera d’oro per chiunque voglia restare in tema. La voce autorevole di Eva Illouz fa venire una grande curiosità nei confronti dei futuri nuovi Maverick.
da il manifesto
Da Hannah Arendt a Audre Lorde. Un percorso di saggi, biografici e storici. «Il vostro silenzio non vi proteggerà», di Caterina Venturini (Solferino); «Eroine», di Kate Zambreno (Nottetempo); «Filosofe», di Francesca Romana Recchia Luciani (Ponte alle Grazie)
Esiste ormai un vero e proprio filone di scrittura saggistica e biografica dedicato alle artiste e pensatrici del passato. A volte vi si riscontra anche un gioco di rispecchiamenti e rimandi tra le istanze personali delle autrici contemporanee e quelle delle eroine protagoniste. Ne è un esempio Il vostro silenzio non vi proteggerà. Una storia di Audre Lorde di Caterina Venturini, edito da Solferino (pp. 160, euro 15.50), nato in seno al progetto di podcast di Inquiete festival di scrittrici a Roma: «Genealogie».
Venturini, seguendo una delle istanze tra le più liberatorie del femminismo, quella del partire da sé, inizia la sua analisi sulla scrittrice afroamericana, raccontando il frangente nel quale si trova quando le viene chiesto di partecipare al progetto. È stata operata alla gola per un esteso tumore alla tiroide e si trova completamente afona in ospedale. Si sa quanto il tema della voce, dell’espressione, sia fondamentale per Audre Lorde che in Sorella Outsider. Scritti politici (Meltemi, 2022) dichiara: «quello che è più importante per me deve essere detto, verbalizzato e condiviso, anche a rischio di vederlo ferito o equivocato».
E infatti Venturini sottolinea che: «leggere Lorde significa trovare incarnata la frase più bella del femminismo: il personale è politico». In questo gioco di specchi Venturini non dimentica però il dato di fatto del razzismo, che non può essere ignorato dalle donne bianche che non lo subiscono e che invece «devono considerarlo una differenza biografico-politica fondamentale e dirimente».
Anche Filosofe. Dieci donne che hanno ripensato il mondo di Francesca Romana Recchia Luciani, edito da Ponte alle Grazie (pp. 240, euro 18) ed Eroine di Kate Zambreno per Nottetempo (pp. 336, euro 19.90), con la traduzione di Federica Principi, si inseriscono a pieno titolo in questo nascente genere letterario. Si tratta di due testi molto diversi fra loro, uniti in qualche modo dal desiderio di rendere omaggio a pensatrici e figure cruciali, soprattutto del ’900, la cui importanza non è stata riconosciuta, o abbastanza sottolineata, a causa di discriminazioni maschiliste.
In particolare, l’istanza di riparazione domina nel libro di Kate Zambreno che deriva dal suo blog Francis Farmer is my sister. A un certo punto, in un momento di smarrimento personale dovuto a un trasferimento a seguito del marito, l’autrice statunitense trova conforto nella lettura e si rende conto che: «queste donne esistite nel chiuso del letto, della stanza, intrappolate in casa: ecco cosa ho bisogno di fare. Raccontare le loro storie».
In Eroine è predominante, infatti, il racconto di vicende accadute a diverse scrittrici che sono state dimenticate o fraintese. Nei brani da cui il libro è composto, e che sono quelli che Zambreno nel tempo pubblicava nel blog, ritorna spesso, per esempio, la figura di Zelda Fitzgerald, il racconto delle ingiustizie che ha subito a causa della sofferenza mentale, nonché di come il suo talento sia stato trascurato se non del tutto ignorato.
Tra le pagine di Zambreno troviamo inevitabilmente anche Virginia Woolf, la cui sofferenza viene qui comparata a quella di Gustave Flaubert, con la differenza che: «a lui non dissero mai di stare in guardia dal proprio genio. A lui non dissero mai che avrebbe finito per ammalarsi». La struttura del testo composto da brani di anche poche righe permette una lettura diluita nel tempo e rispecchia il costante lavoro di ricerca, nonché la sincera spinta politica che ha condotto Zambreno alla scrittura di questo libro che è anche frutto di un’esperienza collettiva femminista online.
Molto diverso il volume di Francesca Romana Recchia Luciani, intanto per l’impianto decisamente più classico. Il testo è infatti è diviso in capitoli tutti circa della stessa lunghezza, una ventina di pagine, dedicati a grandi filosofe del ’900: Simone Weil, Simone de Beauvoir, Hannah Arendt, ma anche Lou Salomé, María Zambrano, Audre Lorde, Carla Lonzi.
Il punto di vista che innerva ogni approfondimento è che: «teoria e biografia si co-appartengano e che la filosofia resti muta e vuota senza la vita vissuta di chi la produce e le relazioni interpersonali in cui va a incarnarsi». Per questo ogni parte analizza in una sintesi agile e allo stesso tempo accurata, non tanto le opere delle autrici, quanto il loro percorso filosofico inteso anche come percorso di vita, all’interno di uno specifico contesto storico. Si tratta di un approccio particolarmente interessante perché fa emergere come per queste pensatrici la pratica politica fosse un elemento cruciale, affatto secondario rispetto a quella della scrittura. Del resto, Hannah Arendt lo sapeva: «ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione».
da Il Fatto Quotidiano
«Il cromosoma Y impone regole precise alle quali si deve obbedire». Così si apre Cose che ai maschi nessuno dice. Baciare, fare, dire (Feltrinelli), l’ultimo libro di Alberto Pellai, psicoterapeuta e padre con introduzione di Gino Cecchettin. Ma le regole di cui parla non sono scritte nel DNA: sono incise nella cultura, trasmesse sottovoce, scolpite nei silenzi tra padri e figli. Regole che insegnano a non piangere, a non chiedere aiuto, a soffocare tutto ciò che può sembrare debole. Come se essere uomo volesse dire solo questo: trattenere, nascondere e resistere. Anche quando fa male.
Con il suo stile diretto e empatico, Pellai costruisce un libro che è un ponte tra padri e figli. Tra l’adulto e l’adolescente. Tra chi ha imparato a sopravvivere senza parole, e chi invece vorrebbe provare a vivere con più verità. Non è un manuale, né un saggio teorico. È un dialogo aperto, un invito alla vulnerabilità condivisa. E, forse soprattutto, è un modo per scardinare una società patriarcale. Perché raccontare le emozioni – e dare loro spazio, valore e dignità – in un mondo che le associa al “femminile” è già un modo per scardinare un potere maschilista.
Il cuore del libro è proprio la relazione padre-figlio: non solo come vincolo biologico, ma come occasione educativa. Pellai parte da conversazioni reali con suo figlio adolescente, le usa come input per esplorare temi scomodi e fondamentali: il dolore emotivo, la violenza, la pornografia, la sessualità, le dipendenze, il corpo e i social. Ogni capitolo è una lente puntata su un aspetto della crescita maschile che troppo spesso viene lasciato al buio, o peggio ancora distorto da modelli tossici. Il rischio, dice l’autore, è che i ragazzi, non potendo esprimere paura o tristezza, finiscano per comunicare solo rabbia e disgusto. Dietro l’aggressività, spesso per Pellai, c’è un dolore senza linguaggio.
Da questa assenza di alfabetizzazione emotiva, suggerisce l’autore, possono derivare conseguenze che vanno ben oltre la sfera personale. La difficoltà maschile nel riconoscere e comunicare ciò che si prova può contribuire a un clima relazionale fragile, segnato dal bisogno di controllo, dalla paura del confronto, dalla tendenza alla sopraffazione. Un’educazione sentimentale negata o distorta, dice Pellai, non resta senza effetti: può diventare rabbia, chiusura e violenza. E se oggi la cronaca racconta ogni giorno storie di femminicidio, forse è anche perché per troppo tempo ai maschi non è stato insegnato ad abitare le emozioni, ma solo a reagirvi con rabbia e violenza.
Ecco allora che il libro si fa strumento: per decostruire lo stereotipo del “vero uomo” – forte, dominante, inossidabile – e costruire invece uomini, capaci di ascoltarsi, di rispettarsi, di riconoscere la propria fragilità senza vergogna. Non si tratta di “femminilizzarsi”, come una parte della società vuole catalogare. Si tratta di umanizzarsi secondo l’autore. Di tornare al centro, alle emozioni primarie che ci abitano dalla nascita, indipendentemente dal genere.
Ciò che rende questo libro ancora più prezioso è il dialogo costante con i ragazzi. Pellai non parla ai giovani, parla con loro. Le loro voci sono riportate in ogni capitolo, come risposte, come controcanto, come specchio di una nuova generazione più consapevole. Raccontano come si sentono quando si innamorano, quando hanno paura, quando si confrontano col proprio corpo o con quello degli altri, quando si sentono forti o inadeguati. La scrittura di Pellai accoglie tutto questo con rispetto e senza paternalismi.
Il messaggio finale è chiaro: essere maschi è un dato biologico. Diventare uomini è una scelta. Una costruzione. Un progetto. Non più imposta da fuori, ma generata da dentro. E per farlo serve una guida. Non un comandante, ma un padre che sa raccontarsi. Che non ha paura di dire: «anch’io ho avuto paura».
Cose che ai maschi nessuno dice è un libro che sarebbe comodo archiviare tra gli scaffali dell’educazione genitoriale. Ma in realtà parla a tutti. Ai padri, certo. Ai figli. Ma anche a tutti gli uomini, che continuano a crescere in un sistema che li vuole divisi: emotivi o forti, sensibili o virili. Pellai ci ricorda che si può – e si deve – essere entrambe le cose. Anzi, che essere uomini veri significa proprio questo: non scegliere tra le emozioni, ma imparare a viverle tutte.
da Pangea
Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, «per l’insistenza di ciò che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo scopo». Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare istitutrice; voleva fare l’artista.
I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901. Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare indemoniato, «barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante». Aveva da poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi, soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà “degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: «Vieni qui al lume della candela. Non ho paura/ di contemplare i morti», scrive il poeta, abissale, come sempre – riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.
A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq, l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque, tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani: è tratto dal «verso 38 della Quinta elegia di Rilke», mi dice l’autrice. Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.
Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale, con lento candore, sembra un po’ “cannibalizzare” la pittrice. Che idea si è fatta di Rilke?
Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio libro.
Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.
Libera, energica, interrotta.
Che cos’è la “libertà” per Paula; che cos’è la “libertà” per Marie, una scrittrice che vive nel 2025?
Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e di amare, liberamente.
Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il titolo del libro?
Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di Joseph-François Angelloz.
Quali sono stati i “lari”, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma mai “confessionale”, precisa fino al diamante?
Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.
Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale quello che ha scelto di tenere in ombra?
Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra, oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…
Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula. Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la maternità è ambiguo, affascinante.
Esiste a suo avviso una diversità “genetica” tra opere d’arte femminili e maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio “di genere”?
Nulla di “genetico”, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia, sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli. Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento e dell’emarginazione, e una certa centralità domestica. Lo sguardo di Paula sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza imposti da uno sguardo patriarcale.
Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: «Ci siamo guardati, con un brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una porta dietro la quale c’è Dio». I quadri di Paula emanano una sacralità frugale, che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto con il “sacro”, con l’invisibile?
Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte. L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di sacralizzarlo.
La “carne” è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker: un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico, palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del “toccare” come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…
Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho ancora finito…
Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le strade di Parigi, città che adorava, si sentiva “nuda” sotto lo sguardo insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale, come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca, gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere, accettavano di posare nude per pochi spiccioli.
Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale. Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e “morali”, si fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere all’IA?
Spesso pongo delle domande a ChatGPT (beh, non troppo spesso, visto che ogni volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico, non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.
Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare un gesto “politico”?
Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista” possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della Vergine Maria!
da CarmillaOnline
L’autrice del libro recensito, Valentina Pisanty, ha partecipato come relatrice all’incontro “Verso il Giorno della memoria. Ricordare al tempo di Gaza”, organizzato da Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace il 19 gennaio 2025 presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli a Milano.
(La redazione del sito)
Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13.30.
Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.
Contrariamente al senso comune, ci ricorda l’autrice, l’antisemitismo non acquisisce centralità nel discorso pubblico subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale quando si scopre l’orrore del genocidio nazista degli ebrei. E questo vale anche per lo Stato di Israele che, subito dopo la sua nascita, è impegnato a prendere le distanze dall’immagine dell’ebreo come vittima che nella Shoah aveva avuto la sua massima espressione. D’altronde, una parte consistente dell’opinione pubblica internazionale era stata favorevole allo stato israeliano nei suoi primi venti anni di vita. Ma le cose iniziano a cambiare con la guerra dei Sei Giorni del 1967 che porta Israele a occupare e a colonizzare Cisgiordania, Striscia di Gaza e alture del Golan. Cresce la solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi, fino a quel momento sostanzialmente ignorati, fino a che, nel 1975, su iniziativa dell’Unione Sovietica, l’Assemblea dell’Onu vota la Risoluzione 3379 nella quale si afferma che «il Sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale» (risoluzione che sarà abrogata nel 1991). L’ostilità nei confronti del sionismo cresce nel 1982 con l’invasione israeliana del Libano durante la quale vengono perpetrati i massacri di inermi civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila. Fioccano allora i paragoni tra Israele e il Terzo Reich invertendo la retorica della Shoah che, nel frattempo, si stava affermando come legittimazione dello Stato sionista per opera dei conservatori israeliani, andati per la prima volta al governo nel 1977 con il partito Likud.
Anche a seguito degli eventi storici brevemente tratteggiati, il governo israeliano inizia a interessarsi alla lotta contro l’antisemitismo nel mondo. Solo nel 1988 viene istituito l’Inter-Ministerial Forum for Monitoring Anti-Semitism, cui viene affiancato lo Stephen Roth Institute for the Study of Contemporary Antisemitism and Racism dell’Università di Tel Aviv. Il fatto è che la nuova centralità assunta dall’antisemitismo si afferma insieme al discorso sul nuovo antisemitismo, inizialmente riferito alla citata risoluzione dell’Onu. Il sionismo delle origini aveva rifiutato l’idea di un “eterno antisemitismo” quale fondamento dell’ostilità dei paesi arabi perché questo avrebbe portato a immaginare un futuro di guerra perpetua. In contrasto con questa visione «guadagnò terreno la narrazione mitica […] del destino di Israele come un ciclo ininterrotto di catastrofi e redenzioni», rafforzata dalla retorica delle leadership arabe, non sempre esenti dall’attingere all’archivio antiebraico importato dall’Europa.
Il passaggio dal nuovo antisemitismo all’antisionismo come forma per eccellenza dell’odio antiebraico necessita di un passaggio intermedio: l’idea, sostenuta dalla politica estera del Likud, di Israele come “ebreo collettivo”. Idea in base alla quale chi critica lo stato sionista vuole in realtà colpire tutti gli ebrei. In primo luogo bisogna notare il fatto paradossale che identificare Israele con tutte le persone di fede giudaica, attribuendo a tutti gli ebrei le responsabilità degli atti compiuti dal governo di Tel Aviv, è proprio uno di quegli atteggiamenti che è stato giustamente identificato come caratteristica di un antisemitismo mascherato da antisionismo. Insomma, l’idea di Israele come “ebreo collettivo” assomiglia molto a una forma di antisemitismo rovesciata di segno. Ma c’è di più. Parlare di “ebreo collettivo” significa personificare intere comunità nazionali o religiose (non solo Israele ovviamente) e immaginare questi “personaggi-sineddoche” come soggetti che si combattono nell’agone storico assumendo, attraverso grossolane semplificazioni, «tratti caratteriali semi-permanenti, biografie storiche, tradizioni ancestrali e motivazioni psicologiche profonde». In breve la figura dell’ebreo e quella dei suoi nemici vengono essenzializzate.
Ma è proprio questo tipo di operazione concettuale che costituisce uno dei nuclei fondanti dell’antisemitismo.
Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli antisemiti essenzializzano gli ebrei, riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo. Ma la naturalizzazione delle categorie socialmente costruite è tipica di ogni discorso razzista.
Chi invece aspira a liberarsi dalla narrazione antisemita, sostiene Pisanty, considera l’avversione contro gli ebrei come un fenomeno storicamente variabile interrogandosi sulle dinamiche che hanno di volta in volta reso possibile la sua insorgenza. Quando analizziamo queste dinamiche possiamo rilevare che l’antisionismo attinge allo stesso repertorio storico del pregiudizio antiebraico? Perché è proprio questo che bisognerebbe dimostrare, caso per caso, quando si cerca di identificare antisionismo e antisemitismo. Una dimostrazione tanto più necessaria alla luce del fatto che la storia ci dimostra come filosionismo e antisemitismo non siano mutuamente esclusivi. Il caso più clamoroso è probabilmente quello di Lord Arthur Balfour, il ministro degli esteri della Corona britannica che, con la sua famosa Dichiarazione del 1917, dà il via libera all’emigrazione ebraica della Palestina con l’obiettivo dichiarato di scongiurare il rischio di un’infiltrazione giudaico-bolscevica nel suo paese. Sta di fatto che la dimostrazione della suddetta identità, afferma l’autrice, non viene mai fornita. La coincidenza tra i due tipi di fenomeni viene semplicemente presupposta.
E allora chiediamoci chi è questo mitico ebreo bersaglio dell’odio antisemita.
Gli attributi antitetici di cui è portatore si ricompongono in un unico personaggio da feuilleton la cui caratteristica più saliente è per l’appunto la doppiezza. Come si fa a essere simultaneamente capitalisti e comunisti, apolidi e nazionalisti, prepotenti e servili, e chi più ne ha più ne metta? Basta immaginare che tutte le contraddizioni siano artifici di copertura. L’“Ebreo” non è mai colui che dice di essere. Dietro la maschera della povera vittima si nasconde il più perfido dei manipolatori.
Se la doppiezza è la caratteristica essenziale presa di mira dal classico odio antiebraico «il nemico immaginario degli antisemiti non ha gli stessi tratti del nemico degli antisionisti, che di Israele detestano l’arroganza, la belligeranza, la ruvidezza, la chutzpah».
Ma tutto ciò viene bellamente ignorato da chi, per comminare scomuniche o addirittura sanzioni legali, brandisce la Working definition dell’antisemitismo adottata nel 2016 dalla International Memorial Holocaust Alliance (Ihra). Questo atto ufficializza, di fatto, l’equivalenza tra antisionismo e antisemitismo. Abbiamo utilizzato l’espressione “di fatto” perché, come racconta dettagliatamente Pisanty, la Ihra in realtà accoglie soltanto la definizione generale della Working definition mentre, dopo un’aspra discussione tra i rappresentanti dei suoi trentacinque Stati suoi membri, esclude esplicitamente gli esempi che ne costituiscono la parte più cospicua, consapevole della loro problematicità soprattutto per la parte che riguarda l’assimilazione tra antisemitismo e antisionismo. Nel 2018, tuttavia, vari sostenitori della versione integrale cominciarono ad affermare che l’accordo raggiunto due anni prima riguardava l’intera definizione e chi affermava il contrario era un “antisionista antisemita”. Questa è la versione oramai comunemente accettata della storia tanto che l’Eumc, l’organismo indipendente che aveva originariamente ideato la definizione operativa come mero strumento per individuare possibili fenomeni di antisemitismo, finisce per rinnegare la sua stessa Working definition.
Insomma in questa vicenda i paradossi si accumulano. Tra questi uno dei più preoccupanti è quello che porta a sottovalutare le reali nuove insorgenze di odio antiebraico perché l’antisionismo non viene soltanto considerato come un equivalente dell’antisemitismo, ma soprattutto come l’unica forma realmente rilevante di antisemitismo. L’esempio più lampante di questa dinamica è il caso, evidenziato dall’autrice, dell’ungherese George Soros, individuato come nemico per eccellenza nella campagna elettorale del 2008 dal presidente magiaro Viktor Orbán. Si tratta di una trovata escogitata dai consulenti delle campagne elettorali di Netanyahu che, assoldati da Orbán sotto consiglio dello stesso premier israeliano, non si sono fatti scrupolo di mobilitare un intero arsenale di argomentazioni antisemite nei confronti del finanziere ebreo Soros. Argomentazioni riprese poi a piene mani da moltissimi leader politici di altri Paesi. Tra questi gli italiani Salvini e Meloni che hanno aggiunto a carico di Soros un altro classico della propaganda antiebraica: accusato di finanziare i flussi migratori verso l’Europa, il finanziere ungherese viene considerato l’architetto occulto di una nuova sostituzione etnica, secondo i dettami del famigerato piano Kalergi. Questa galleria degli orrori non può che finire con Netanyahu che accusa Soros di essere l’eminenza grigia dietro ai suoi guai giudiziari e con il figlio del premier che pubblica un meme, raffigurante il finanziere ungherese, dal tono inequivocabilmente antisemita.
La cosa più grave di tutta questa vicenda è che, nonostante il gran parlare del pericolo antisemita, «attraverso il mito di Soros, frammenti dell’archivio antiebraico siano stati riscattati dalla latenza e abbiano ricominciato a circolare non solo nei circuiti dell’estrema destra, ma anche nei settori della cultura mainstream». Ma c’è anche di peggio, sottolinea con dolore Pisanty: se si consolida l’idea che opporsi al massacro dei palestinesi significa essere antisemiti, l’antisemitismo stesso può, nel più tragico dei paradossi, acquisire un’accezione positiva per il senso comune.
Se questi sono i risultati, sembra proprio che la difesa dagli ebrei da nuove insorgenze di antisemitismo non sia la principale preoccupazione di chi ha imposto come dogma di fede, in molti casi giuridicamente vincolante, il nuovo antisemitismo. In effetti in gioco sembra esserci qualcosa di diverso. Pisanty accenna a questo ordine di problemi quando sostiene che la già citata International Memorial Holocaust Alliance «è l’organizzazione internazionale cui si deve il progetto di riempire il vuoto ideologico creato dal crollo del comunismo con la narrativa “cosmopolita” dell’Olocausto che ha plasmato l’immaginario politico occidentale dell’ultimo quarto di secolo». In questo immaginario, sottolinea l’autrice, hanno trovato comodamente posto i diversi partiti di estrema destra che negli anni duemila hanno acquisito sempre più consenso. Il vecchio antisemitismo, incistato nel loro DNA, è stato prontamente condonato in cambio del ripudio del nuovo antisemitismo, cioè dell’appoggio incondizionato alle politiche di Israele. Lo Stato sionista gli ha così conferito una patente di democratica rispettabilità, noncurante del razzismo di cui sono ancora i campioni. È sufficiente che questo non si eserciti, almeno esplicitamente, nei confronti delle persone di fede e cultura ebraica.
Nel nuovo immaginario, invece, non trovano spazio l’anticolonialismo, l’antimperialismo e l’antiamericanismo che vengono demonizzati in quanto correnti politiche ispiratrici di un antisionismo equiparato tout court all’antisemitismo. Insomma, ce n’è abbastanza per respingere senza indugio il nuovo dogma, come fa Pisanty nella conclusione del suo libro dove introduce, purtroppo solo di sfuggita, il tema del clima bellico in cui tutta questa vicenda sembra inscriversi.
Chiunque impieghi il termine antisemita nel senso imposto dalla definizione IHRA deve sapere in quale catena di prepotenze, non solo linguistiche, si sta collocando. A meno di non prendere atto che il mondo è entrato in una fase di guerra senza quartiere, o si vince o si muore, di cui la retorica della prevaricazione è il naturale corollario.
da Diotimafilosofe.it
Recensione ad Antonietta Potente, M. Milagros Rivera Garretas, Quando Lei viene. La scrittura ispirata, traduzione dallo spagnolo di Sara Bigardi e Paola Bellomi, Edizione indipendente, Pietra Ligure 2024
Ho letto il dialogo tra Antonietta Potente e Milagros Rivera sulla parola che ispira, la parola creatrice, poetica, e subito me ne sono innamorata, perché dice di un’esperienza della scrittura sulla quale mi sono tanto interrogata.
Quindi inizio a parlare di me, che non è la cosa più corretta volendo presentare un libro, però quel che ho capito e imparato nel mio percorso è il motivo che mi ha fatto entusiasmare del libro, proprio quello per cui ora lo presento. Del resto all’inizio di Quando Lei viene. La scrittura ispirata si legge espressamente che «Questo piccolo libro è stato scritto per essere letto con calma, contemplando ciò che si legge fino a sentirlo profondamente e aggiungere le proprie visioni o contributi». Ora, l’ho letto e riletto, ma senza calma, perché l’entusiasmo affretta la lettura e porta sui punti essenziali. Quelli più amati.
Il dialogo tra Antonietta e Milagros tocca qualcosa che mi sono trovata a vivere nella scrittura filosofica che è una delle esperienze più importanti della mia vita. Come dice soprattutto Antonietta, anch’io tante volte non ero soddisfatta di quel che scrivevo. Mancava il gusto, il piacere della scrittura. Sapevo scrivere sì, ma volevo qualche cosa d’altro. Ricordo una studentessa che scriveva la tesi portandomi un blocchetto di pagine solo ogni tanto. Riusciva a scrivere con rigore nel momento in cui il godimento della parola le permetteva di mettere a posto come in un disegno perfetto tutti i concetti. Altrimenti i concetti andavano ognuno per loro conto a caso. Così io. La possibilità di pensare aveva – ed ha – il bisogno di un godimento della scrittura. Mi sentivo fuori posto rispetto al contesto, ma il lavoro iniziato da Luisa Muraro sulla lingua materna, che poi in Diotima abbiamo ripreso e continuato, mi ha fatto scoprire ciò che in realtà già sapevo per esperienza: abbiamo a disposizione le potenzialità di una lingua affettiva corporea in cui le cose e le parole si rimandano. E per lo più, quando ora perdo il filo di questa partecipazione alla lingua nella sua genesi, leggo testi poetici che amo come quelli di Mariangela Gualtieri, di Marina Cvetaeva, Marguerite Duras, e questo mi rimette in sintonia con questa sorgente di parole, pensiero, cose, corpo, che si rimandano tra loro.
Proprio perciò, dato che ora so riconoscere quando agisco creativamente la scrittura – e sono i momenti in cui vado rischiando sui significati, procedendo senza garanzie – so apprezzare anche quello scrivere che è un fare chiarezza dentro di sé riguardo a certe idee già pensate per restituirle arricchite, intensificate e rese luminose.
Il dialogo di Antonietta Potente e di Milagros Rivera si concentra solo sulla pratica di scrittura creativa, poetica, che loro chiamano ispirata. È una bella parola “ispirata”. Rimanda a spirito, a soffio, a pneuma. Qualcosa ti soffia dentro la parola. Qualcosa di impersonale che possiamo accogliere oppure no. Ricorre la figura dell’Annunciazione nel loro testo. L’angelo annuncia a Maria il desiderio che il Signore ha nei suoi confronti e Maria accoglie ed accetta quel che le dice l’angelo. Pronuncia un sì a quelle parole impreviste, fuori dal già noto e conosciuto. La sua vita sarà trasformata da quell’annuire e far essere. Così è la parola ispirata nella scrittura. Avviene, è imprevedibile. È profondamente trasformativa. Avvia in un percorso di cui si sa come si inizia e non si sa dove si arriverà. Antonietta e Milagros lo ripetono: iniziare a scrivere in modo inspirato implica che non sappiamo che cosa diremo eppure procediamo in modo orientato. Del resto, è proprio così per ogni testo in cui si rischia e sentiamo creativo. Si trasforma con la scrittura e noi stessi ci trasformiamo con esso. Alla fine del testo saremo diverse da come abbiamo iniziato.
Ricorre nel dialogo l’idea che è la notte, quando si veglia, la culla della parola ispirata. Nel silenzio, quando tutto tace. Nella solitudine. Allora soffia lo spirito, prende forma un’idea, una parola, una frase che attendevano e non sapevano quale sarebbe stata. I sogni sono anche i luoghi in cui tante situazioni indeterminate trovano il soffio orientante a cui possiamo poi dare forma concreta.
È anche divertente e vero quel che dicono, che allora è tutto un appuntare, tenere foglietti a portata di mano, biglietti dell’autobus. Per non dimenticare. E questo avviene anche di giorno, ovviamente. Ma la notte è per loro il momento propizio. Come favorevole è la solitudine. Aggiungerei, perché così a me capita, una solitudine che si può vivere anche in mezzo agli altri.
Centrale nel dialogo è dunque il fatto che le idee non sono soggettive, né costruibili né tanto meno controllabili. Avvengono indipendentemente dalla nostra volontà. Di qui l’atteggiamento di umiltà rispetto ad esse, al pensare. Viene ripresa una figura che si incontra in tanti testi di donne medievali che segue la formula che potrei ricostruire in questo modo: «Io non sono nessuno, se non un’umile donna. Eppure, ho ricevuto la parola e ne parlo per obbedienza». In questo modo quelle donne medievali come quelle di oggi, che non costruiscono idee ma si pongono nella posizione di accoglierle, divengono mediatrici viventi. Mediatrici di qualcosa che non sanno, ma fanno essere via via nella scrittura.
Anche nel caso di Antonietta e Milagros, la loro autorità dipende dall’aver rinunciato alla centralità dell’io, al narcisismo, e dall’aver accettato che l’ispirazione venga da altrove e che solo così risulti lievito per una scrittura trasformativa.
Entrambe si pongono una domanda a questo punto fondamentale: da dove viene la parola ispirata? È una questione che nel loro testo non ha una risposta univoca, ma quel che ne dicono rimanda alla realtà, alla vita, all’enigma che essa è per noi. Dunque è la realtà vivente ad ispirare la parola. Per Antonietta in particolare Mistero e vita sono parole quasi equivalenti.
Ma cosa si intende allora per realtà e in che rapporto noi stiamo con essa? Ognuna può rispondere singolarmente a questa domanda in base alla propria esperienza, ma a me sembra che l’invito essenziale del testo sia di capire i nostri legami con la realtà, per cui, quando scriviamo in modo arrischiato, senza balaustre, poetico, rispondiamo alla realtà, esprimendola. È proprio allora che obbediamo ad essa e al suo enigma.
Alcune divergenze sulla questione della realtà tra Antonietta e Milagros sono interessanti da seguire. Sicuramente l’ispirazione non viene direttamente dal contesto; eppure, allo stesso tempo dipende da quello che la realtà ci sollecita a dire. Per Milagros le donne che le chiedono di parlare di certe questioni mettono in campo nella domanda il loro rapporto con il mondo. E Milagros, andando loro incontro, mette a sua volta in gioco il proprio legame ispirato con il reale, che non necessariamente coincide con il loro.
Più complesso quel che dice Antonietta. La vita è tessuta simbolica enigmatica, che si dischiude in visioni a chi ne è in attesa. Solo chi presta attenzione e si dispone all’ascolto ne verrà coinvolto. Cercare e desiderare il significato dell’esistenza sono la condizione perché la parola ispirata avvenga. Occorre pazienza orientata, apertura interiore. L’esistenza non è solo quella delle grandi, piccole o mediocri imprese umane, ma anche le grandi distese di acqua, di rocce, di deserti e di boschi. Storie umane e non umane dai tempi diversi, costantemente intrecciate. Tutto è scrigno di significati potenziali.
Come passare per la porta stretta, come trovare la piccola chiave d’oro perché un profilo del reale si distenda davanti e risuoni in noi? Certo, si interrogano le persone, la vita, le cose. Si desidera conoscere il mondo. A volte questo trova una risposta e la visione, la parola ispirata ci coinvolgono allora come se fossimo stati ascoltati ed esauditi.
Milagros pone una questione, ragionando su una impasse vissuta con donne di Duoda, il centro di ricerca delle donne dell’università di Barcellona. Sebbene abbiano più volte espresso il desiderio di scrivere, molte non sono riuscite, nonostante l’invito a farlo. Ha a che fare questa difficoltà con quello che Zambrano scrive in Verso un sapere dell’anima, quando dice che certe cose non possono essere dette, ma solo scritte? E che cosa impedisce loro di formulare quel segreto a cui solo la scrittura fa accedere? La risposta di Milagros è che la parola ispirata coinvolge in una verità che a volte può essere troppo grande per essere accolta. Il fatto è che il soffio ci pone in un rapporto con noi stesse a partire da qualcosa che sentiamo estraneo, come se fosse esterno a noi, ma che riconosciamo come vero per noi, così da invitarci ad un percorso di trasformazione. Questo può provocare l’attraversamento di strati di dolore e comunque di piani d’essere profondamente sconosciuti. Ci si può spaventare e ritrarsi. La verità apre un orizzonte a volte troppo grande rispetto a quello che possiamo soggettivamente sopportare.
Belle le parti del dialogo dedicate ai libri. Fa parte anche della mia esperienza il fatto che – come loro dicono – ci siano libri ispirati che ispirano. Per questo tornare ogni tanto a leggerli, citandoli a memoria, è costitutivo del processo di creazione, trasformazione, illuminazione. Sono libri che divengono così testi sacri nel nostro percorso esistenziale. Scrive Antonietta: «Di per sé i testi ispirati ti obbligano, ti obbligano, come quando Giacomo, un autore delle scritture cristiane, nella sua lettera scrive: “Tenere fisso lo sguardo sulle scritture per capirle”. Potrebbe anche voler dire che è una scrittura, ma ti darà la possibilità di una visione, perché si incarna nella tua vita». In sintonia con questo, per tanti anni all’università ho invitato le studentesse e gli studenti di filosofia a leggere e studiare i testi molto amati che davo in programma come fossero testi sacri, invitando a meditare la parola, perché si incarnasse nella loro vita. Diventasse esperienza vissuta.
Per concludere, vorrei parlare delle critiche che Antonietta Potente e Milagros Rivera portano al mondo universitario. Da una parte è verissimo che le norme accademiche di scrittura, di presa di parola, di standard di qualità proposti sono delle vere e proprie tecniche di disciplinamento e disegnano dei rapporti di potere precisi. Ne è esclusa qualsiasi pensabilità di idea ispirata. Porto un esempio. Se si pubblica un saggio in una rivista, è richiesto che ci siano dei lettori anonimi, che chi ha scritto non deve conoscere e viceversa. Questi portano osservazioni e proposte di cambiamento del saggio che occorre seguire per poter arrivare alla pubblicazione. È una precisa strategia di assoggettamento. Uno degli effetti più deleteri è che viene tagliato alla radice il legame di autorità tra una maestra o maestro e chi si è affidato a loro. Non si possono più avere consigli per cercare la via per andare all’essenziale di quel che si sente di esprimere, in fedeltà al soffio. Anche i legami di amicizia nello studio vengono distrutti. Ovviamente qualsiasi idea di parola ispirata sembrerebbe ai revisori anonimi dei testi un assurdo. Così anche ha ragione Milagros quando racconta che per avere fondi di ricerca occorre stilare un progetto in cui si dicano gli obiettivi e i risultati da perseguire. Il che è estraneo a qualsiasi pratica di ricerca di pensiero, che sa più o meno da dove parte – l’intuizione inziale, la parola ispirata – ma non sa cosa otterrà e quali saranno le scoperte e le trasformazioni. Solo alla fine infatti si può dire quel che il testo è diventato e noi che scriviamo con lui.
Se dunque da un lato la critica è giusta, dall’altro però è anche vero che l’università è un luogo dove si possono compiere azioni libere e ispirate, come invitare le, gli studenti a rapportarsi ai testi filosofici come testi sacri da incarnare e sperimentare, come ho fatto per anni. Oppure, come nel caso di Milagros, aver vissuto lezioni ispirate dove le studentesse e gli studenti smettono di prendere appunti e stanno ad ascoltarla perché si rendono conto che altro sta avvenendo in aula. La voce della docente apre ad un evento irriproducibile di cui loro si sentono partecipi.
Posso aggiungere che all’università sono nate esperienze come quella di Duoda e come quella di Diotima, dove donne autorevoli hanno saputo trasformare il gusto per la libertà in pratiche precise e fondative di un mondo. E questo in fedeltà a quello che sentivano.
da Diotimafilosofe.it
Il Quaderno di via Dogana Esserci davvero è composto dalla conversazione integrale tra Clara Jourdan e Luisa Muraro, svolta a Milano nel 2003, su richiesta di Cristina Segura Graíño della Universidad Complutense di Madrid per la “Biblioteca de Mujeres”. È stata pubblicata in una versione ridotta nel 2006, con il titolo Vida y obra. Conversando con Luisa Muraro, insieme a una cronologia e una piccola antologia di scritti. In questo volume invece il catalogo – che contiene libri, articoli, saggi, atti di convegni, seminari, dibattiti, interventi sul web e finanche articoli su giornali femminili – occupa i due terzi del testo, testimonianza del fervente impegno teorico-politico della Muraro, ma anche della perizia e accuratezza della Jourdan che ha catalogato e aggiornato il profilo di Luisa.
Ho ricevuto l’invito a recensire questo lavoro a ridosso dell’8 marzo, data simbolica per le donne, da Wanda Tommasi, con la quale ho mantenuto sempre vivo il mio rapporto che risale agli anni della fondazione di Diotima. La mia più che una recensione è una restituzione a Luisa di quel che mi ha dato e che le devo.
Il primo incontro
Con Luisa ho avuto un forte legame che precede, anche se di poco, quello con Wanda Tommasi e Chiara Zamboni. Risale a quando, insieme a Laura Capobianco e alla giovanissima Silvana Totaro, la incontrai per la prima volta a Verona. Era il 1984 e le portai il mio primo libro non ancora pubblicato, che era già un libro sul Pensiero della differenza e che, per condiscendenza verso la mia coautrice Clara Fiorillo, architetta, chiamai Pensiero Parallelo. Grazie a questo incontro sono stata partecipe fin dall’inizio del movimento del pensiero della differenza (anni ’80) che fece di Napoli uno dei poli più importanti insieme a Milano e a Roma.
Luisa ci parlò già allora del progetto di Diotima che era sul punto di essere varato. Non sapevo a quel tempo che ne avrei fatto parte insieme ad Angela Putino e che Luisa e Diotima divenissero tanto determinanti per la mia pratica politica e filosofica. Ci fu dopo quell’incontro un periodo fervido di seminari anche con donne importanti come Luce Irigaray, di cui Luisa già aveva tradotto i primi due testi. Iniziammo con un seminario a porte chiuse del 1985 presso l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli, non documentabile ma molto importante perché lì nacque in Italia, tra “lacrime e sangue” (ci furono scontri, conflitti e donne in lacrime) il Movimento femminista italiano della Differenza sessuale. Erano presenti Luisa Muraro con tutto il gruppo Diotima, Alessandra Bocchetti e Angela Putino che conoscemmo tutte in quella occasione. Provammo anche a fare una saldatura non molto riuscita con il femminismo degli anni Settanta, erano state, infatti, invitate Nadia Fusini, Carla Ravaioli e Anna Rossi Doria.
Il rapporto con le donne del PCI e la rottura con Luce Irigaray
In quegli anni si è tentata anche un’altra saldatura, quella tra Femminismo della differenza e donne del PCI ad opera principalmente di Franca Chiaromonte (PCI) e Alessandra Bocchetti (Virginia Woolf). Importante fu la manifestazione tra donne del PCI e del femminismo sui temi del lavoro a Napoli, nel dicembre 1987. Al comizio finale partecipò, sotto mio invito, Angela Putino, ma non Luisa Muraro. La cosa non mi sconvolse, avevo notato la freddezza con cui si rapportava alle donne del PCI, soprattutto quelle che ricoprivano ruoli apicali. Mi confessò, in una delle tante chiacchiere che si facevano a latere di importanti iniziative, che a lei del PCI piacevano donne come Giglia Tedesco, donne vere. Mi disse anche che aveva avuto incontri con Livia Turco e con altre, anche con Marisa Rodano, una “cariatide” del PCI, a Roma, a Milano, e che per lei questi incontri non avevano dato risultato e che erano cose che seguiva di più Lia Cigarini. A lei queste donne sembravano “non essere veramente lì presenti” materialmente, le trovava astratte. Non c’era nessun pregiudizio, ma erano incontri senza passione e coinvolgimento. D’altronde, come ribadisce nell’intervista, lei quando non viene coinvolta si chiude nella sua identità e diventa oppositiva.
Luisa è una donna apparentemente semplice, perché non usa maschere e manifesta le sue contraddizioni, i suoi alti e bassi, senza infingimenti. Ogni incontro è per lei un nuovo incontro, anche se si tratta della stessa persona. Luisa qui giustifica il suo comportamento altalenante, affermando che: «non sapevo affatto, e ancora non so bene, relazionarmi con qualcuna che è altro. Altro, lo riferisco anche a uomini, ma nel caso della donna è molto più problematico. Non so relazionarmi con una in cui non riesco a specchiarmi per cose molto importanti. Allora compare questo altro – lo dico al neutro perché lei perde un po’ quella dote che hanno per me tutte le donne, che è di essere mie simili – e in quel momento mi diventa estranea, e in una maniera molto disturbante perché è una donna. Se fosse un uomo, potrei mettere sul conto della differenza maschile quello su cui sono contraria».
Per tutti altri motivi, anche con Luce Irigaray, Luisa non è riuscita a trovare una corrispondenza emotiva. Ero stata presente con Alessandra Bocchetti, Angela Putino e altre, durante un pranzo in una trattoria di Campo de’ Fiori alla loro rottura. Questo rapporto si consumò proprio al cospetto della magnifica statua di Giordano Bruno. Avevo pensato che si trattasse di un dissapore contingente, ma ho capito alla luce di questa conversazione, quanto fosse stato difficile il suo rapporto con Luce Irigaray fin dall’inizio, perché Luisa cerca – come qui ci dice – nelle persone che ammira una misura, un equilibrio, che Luce non poteva darle, cosa che invece è avvenuto e avviene tuttora con Lia Cigarini.
La scrittura
Sapevo che Luisa amava scrivere e che ha anche insegnato scrittura femminile, ma non sapevo che fosse un desiderio precedente alla pratica e teoria del “simbolico”. Il cuore della conversazione tra le due autrici s’incentra proprio sulla scrittura che non s’identifica tout-court con la costruzione del “simbolico”. Fin da bambina Luisa si cimenta con la scrittura, impara quasi prima a scrivere che a leggere. Scrive, infatti, un romanzo, una storia tremenda in stile deamicisiano. Poi vince a dodici anni anche un premio di 5.000 lire con cui compra un’intera collana di libri della Bur. Cerca poi da adulta di trovarsi sempre in “situazioni” culturali dove le richiedono di scrivere. La rivista L’erba voglio è stata il suo trampolino di lancio e con il femminismo lei intuisce che troverà il terreno più fertile per farlo. Sono molte le filosofe, anche non femministe, che hanno trovato nella scrittura il loro essere al mondo, la loro esistenza sociale, addirittura anche il senso della sopravvivenza fisica per cui, esaurita la carica di creatività, hanno messo fine alla propria vita. Un esempio è la Bespaloff e ancora più eclatante il suicidio della Kofman. La scrittura per lei era come una necessità esistenziale. Si suicida proprio quando appura che la sua capacità di scrivere si è esaurita. Poi c’è l’esempio delle letterate, non solo delle filosofe. Letterate folli, come si evince dal bel libro di Wanda Tommasi, Le parole per scriverlo. La ferita e la Parola. Un esempio del fatto che non sempre la scrittura è pacificatrice è che molta scrittura femminile nasce da forme di dolore e da situazione-limite che non trovano consolazione. Agata Kristof è afflitta dallo sradicamento dell’esilio; Flannery O’Connor è affetta da un lupus che la porterà a una morte prematura; Anna Maria Ortese è ferita dalla morte del giovane fratello; Irène Némirovsky e Marie Cardinal sono prese dall’odio per le loro madri negative, addirittura in una sequenza genealogica (sono rispettivamente madre e figlia), perché non sono state capaci di imparare ad amare la madre. La scrittura di Luisa nasce dal desiderio e dal piacere di scrivere, ma anche dal fatto che la relazione materna sia stata un punto importante, sia della sua elaborazione politica-filosofica che della sua forza esistenziale. Non è stato così fin dalla nascita perché amare la madre non è una esperienza immediata, ma un sapere che si apprende, come ci dice Luisa ne L’ordine simbolico della madre. Il sapere amare la madre è stata per lei una conquista: amare la madre comporta la convinzione profonda non solo della necessità della potenza materna, ma del fatto che colei che ci ha dato la vita non è nemica della nostra indipendenza, anzi ne è la condizione. In questo è riposta la grande pacificazione con sé stesse. La madre è soprattutto la lingua: lei non ci ha dato solo la vita, ma anche la parola. Luisa scrive per il piacere di scrivere, e questo ha giovato anche alla pratica politica di costruzione del simbolico femminile, che è una pratica di messa in parola di esperienze ed eventi che non trova nella cultura maschile, ancora profondamente omosessuale, le parole per dirlo. La nostra realtà si costituisce nominandola, il nostro rovesciare il mondo non è qualcosa che avviene all’esterno di noi, ma noi cambiamo il mondo nel cambiare noi stesse.
Luisa ha imparato con Lia pratiche come l’affidamento e il partire da sé. Ma, a differenza di Lia, che prima pensa e poi scrive, Luisa articola le intuizioni che ha direttamente nella scrittura. Pensiero e scrittura si evolvono sincronicamente. Infatti, così dice:
«Ci sono persone che pensano indipendentemente dalla scrittura: Lia Cigarini, lei pensa, poi si mette a scrivere. Anche lei ha un momento di trattativa tra il suo pensare e la scrittura, ma la scrittura è piuttosto uno strumento. Mentre per me la scrittura – e della scrittura la sintassi – è una specie di stampo, in cui vado. Perché ci vado, con questo bisogno, quando ancora non ho niente da dire? Questa è una cosa che non so. Io so che c’è. È come se dovessi fare ordine simbolico dentro di me, oppure come se dovessi riprendere il processo di contrattazione con la madre, con mia madre, con tutto quello che è lo strato primario del mio vivere. Infatti, lo scrivere mi dà, quando la scrittura è riuscita, un senso di intimo, profondo, grande, star bene, vicino a uno stato di felicità, di beatitudine».
La mistica
Ma, oltre a questo piacere quasi fisiologico, cosa veramente distingue Luisa Muraro da Cigarini, da altre e dalla stessa Luce Irigaray? La mistica. Da qui Luisa trae il modello di scrittura ma anche la necessità di affidarsi alle pratiche.
«Dalla lettura delle scrittrici mistiche io ho affinato l’orecchio per captare il silenzio, la presenza di un silenzio. […] L’assenza si iscrive come una forma di presenza cava, una forma di cavità in questa scrittura che si arresta nell’ascolto di qualcosa che non può risuonare effettivamente. Questa capacità femminile di scrittura (mi si potrà dire: anche nei mistici; ma negli uomini non tiene, poi si trasforma sempre in un discorso compiuto), questa capacità di discorso sospeso, incompiuto, permette di scrivere quello che non è storia», ossia la storia scientifica. Per Luisa che ha appreso, come tutte noi della nostra generazione post-guerra, la storia da racconti familiari, è difficile accettare l’“oggettività” della storia.
Anche la “teologia favolosa”, rischia di divenire teologia scientifica e allontanarsi da quella teologia in lingua materna che inizia «quando si comincia a parlare di Dio in volgare, in lingua materna, e su questo passaggio sono le donne che si fiondano e hanno una loro letteratura fiorentissima». La teologia intesa come scienza, con tutte le classiche operazioni della cancellazione della differenza femminile e della presenza di donne, è esattamente come le altre discipline. Ma nella mistica, finché la mistica resta mistica, questo non avviene. C’è una letteratura mistica che non si trasforma in teologia scientifica. Per Luisa c’è un legame forte tra la mistica e la politica delle donne, perché in entrambe c’è il tema dell’alterità, del vuoto come rimando all’alterità; quindi, un divenire che non si colma ma che lascia aperto alla differenza sessuale. Un punto importante è quello del “c’è altro” che segna il senso della incompiutezza e della fragilità e che va salvaguardato. Non siamo in una visione nichilista, né al colmo della disperazione, anzi dalla mistica Luisa ha appreso che si può chiedere alla politica anche la felicità. Luisa qui ci sottolinea che il tema della politica e della felicità c’è già nella Costituzione degli Stati Uniti ma che si può trovare la felicità facendo anche ricerca scientifica. Michela Pereira «anche lei in chiave di polemica coi limiti della modernità e della scienza moderna, ha rivendicato alla tradizione alchemica di fare della felicità un tema centrale della ricerca scientifica stessa». Cosa che Luisa ritrova insieme alle pratiche in Margherita Porete. Il primato delle pratiche è una caratteristica di ogni tradizione mistica «perché l’iniziazione mistica deve avvenire secondo modalità che non sono capriccio personale: per uscire dal sé fasullo che la cultura e la società ti costruiscono è necessario farlo avendo un maestro, una guida. […] Il primato delle pratiche lo troviamo anche nel movimento politico delle donne; non nella sua componente solo accademica, perché le femministe solo accademiche hanno adottato le pratiche del mondo accademico necessarie per la ricerca scientifica». Su questo s’innesta un altro discorso molto importante per Luisa, il suo rapporto con l’istituzione universitaria che la porta insieme a Chiara Zamboni a proporre un progetto di autoriforma universitaria.
L’autoriforma
Apro qui una parentesi. Ci sono stati momenti di frizione tra me e Luisa, soprattutto quando nel 1998-99 Massimo D’Alema, primo Presidente del Consiglio dei ministri di sinistra, mandò truppe italiane nella guerra del Kosovo. Luisa s’aspettava da me non una semplice critica, ma un gesto di vera rottura che non feci. Mi accontentai delle solite giustificazioni correnti, ossia la difesa della popolazione, la democrazia etc. Tra l’altro minimizzai anche il suo dissenso che fu abbastanza duro, perché interruppe con me lo scambio di lettere allora scritte a mano, che io ancora conservo, e le sue venute a Napoli a eventi da me organizzati. Minimizzavo anzi, ci scherzavo su, per esorcizzare la sua disapprovazione, dicendo che Luisa, da vera “badessa” (così la chiamavamo scherzosamente nel riconoscerle Autorità femminile) mi aveva scomunicata. Una grande intesa con Luisa, invece, ci fu proprio sul progetto di autoriforma universitaria. Come lei, ho vissuto una profonda estraneità verso quel luogo, che da studentessa, durante la rivolta del ’68, era diventato la mia casa. Ma poi, dopo quegli anni fervidi di lotte e di speranze, l’Università ha subito un lento e forte processo di restaurazione, a colpi di riforme istituzionali che sembravano introdurre piccoli cambiamenti, ma che invece contenevano grandi disegni restauratori. Ne è un esempio l’introduzione dei crediti formativi: sembrava una cosa piccola, ma ha, soprattutto nelle facoltà umanistiche, rotto ogni possibilità di fare dell’Università una comunità di relazioni umane e culturali, che sono alla base di un “corretto” modo di fare ricerca scientifica e didattica.
L’autoriforma, che prese l’avvio da una lettera inviata da Luisa Muraro e Chiara Zamboni a tutte le università italiane, proponeva di avviare un mutamento visibile dell’Università, attivando comportamenti “anticonformistici” e “pratiche di relazione” invece di burocratiche riforme legislative. A questo appello risposero molte università italiane e risposi anche io con un documento che a Luisa piacque molto, intitolato “Lista di rinuncia al concorso” nel quale, invece di rivendicare il diritto di essere ammessi al Concorso, sancivo il diritto di rinunciarvi. Quel “concorsone” non serviva a fare una vera selezione, ma era un paravento di vecchi metodi baronali. Non era la mia solo una provocazione, ma era una denuncia verso una Lista (una vera lista d’attesa) in cui chi vinceva formalmente rimaneva iscritto finché non veniva “chiamato” da qualche università italiana, pena la decadenza se la cosa non si verificava entro tre anni. Il tal caso quindi poi si doveva ripetere tutto daccapo. Era una vera presa in giro, una riproposizione mistificatoria del modello della cooptazione universitaria, che perpetuava le relazioni di potere baronale. La rinuncia non fu solo una proposta, io la realizzai alla lettera non presentandomi mai al Concorso di associato. Ho dedicato le mie energie alla ricerca in un ambito come il Pensiero della differenza, non considerato scientifico dall’Accademica e quindi che non faceva titolo, ma che rispondeva al mio desiderio di fare filosofia in un certo modo e che mi ha dato molta felicità.
Mi accorgo che più di parlare del Quaderno ho parlato dei miei ricordi con Luisa. Partendo da me ho trasgredito “il canone” che governa le recensioni che le vuole neutre e oggettive e quindi ho immesso nella sua biografia ricordi autobiografici che riguardano la nostra relazione. Non è stato per puro egocentrismo ma non credo nell’oggettività della scienza, della storia e della scrittura e quindi non so fare recensioni canoniche.
da La Stampa
«Non avrei mai potuto scrivere una vera autobiografia, non mi piace l’autocelebrazione. E poi è più facile viverla, la vita, che raccontarla». Piccolina, capelli corti, occhi mobilissimi e battuta pronta, Monica Giorgi pare sul punto di scattare a rete come quando giocava in doppio con Adriano Panatta («voleva fare smash solo lui») o sfidava l’amica Lea Pericoli ai Campionati Italiani. Non è quindi un’autobiografia Domani si va al mare (Fandango), scritto con Serena Marchi e presentato al Salone in questi giorni di gioie e dolori per il tennis italiano, insieme all’editore e appassionato di gesti bianchi Domenico Procacci. Piuttosto è una partita a tennis con la vita, con il primo set in cui la livornese Giorgi, classe ’46, mette alla prova il fisico minuto con allenamenti sempre più intensi e inizia una carriera brillante, da Wimbledon al Roland Garros, spinta «dalla voglia di bello. Ho imparato con l’esperienza che ciò che è bello è vero. E il tennis è bello: l’eleganza del gesto, la leggerezza, il divertimento, il gioco. Non tanto la competizione. Perché si vince, è vero, ma si perde anche tanto». Che di vincere non le sia mai importato troppo lo provano i Campionati italiani 1971, Firenze, quando sul match point contro l’amica Lea Pericoli – una che la chiama «Monicaccia» e «mi ha sempre considerata per quella che sono» – alza le mani, si interrompe, la lascia vincere. Game over. L’amicizia è più importante, forse per questo Giorgi è così brava in doppio.
Il secondo set della vita di «Monicaccia» è più oscuro, pare scritto dal suo autore favorito Franz Kafka: già, perché oltre al tennis, Giorgi ama letteratura e filosofia e all’università si avvicina ai movimenti femministi, pacifisti e anarchici, Gandhi e Martin Luther King. Sono gli Anni 70 «difficile spiegare quell’atmosfera a chi non c’era» e infatti la coautrice Serena Marchi, classe 1981, per districarsi nelle memorie della tennista ha dovuto fare «un viaggio negli anni di piombo, tra lettere ingiallite e articoli di giornale, respirare quell’atmosfera, capire la rabbia e la sofferenza di una generazione». Giorgi insieme agli anarchici livornesi comincia una campagna per i diritti dei carcerati con la fondazione Niente più sbarre. Nel 1972 è la capitana della nazionale italiana alla Federations Cup di Johannesburg e per protesta contro l’apartheid mette una maglietta con la scritta «No al razzismo» e «due piedi bianchi avvinghiati a due piedi neri, belli come il sole, in un evidente rapporto sessuale». Uno scandalo, la Federazione la squalifica. «Proprio quella maglietta – spiega Procacci – mi ha dato l’idea del libro. Stavo girando Una squadra e raccontavo di quando Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, alla finale di Coppa Davis del 1976 in Cile, indossarono la maglietta rossa per protesta contro la dittatura di Pinochet. Giorgi, naturalmente, quella finale l’avrebbe voluta boicottare. E la sua, di maglietta, l’ha pagata ben più cara».
D’altronde «mi sono sempre esposta, in prima persona, mai nascosta – dice lei. – Ci metto il nome, la faccia, l’anima, per le cause in cui credo. Nell’impegno sociale e nel tennis». Anche quando accade l’impensabile: un pentito («un agente provocatore» precisa) la chiama in causa e Giorgi finisce in carcere, da innocente, per reati di banda armata e tentato sequestro. Resterà detenuta per due anni: un periodo buio, in cui deve far appello a tutta la forza mentale allenata sui campi da tennis per non cedere. «Ho bisogno che il mio fisico batta un colpo, che la fatica mi faccia sentire di nuovo viva». Quando infine viene scarcerata sbotta nel liberatorio «Domani si va al mare» che dà il titolo al libro. «Il mare simboleggia tante cose – dice oggi, lo sguardo lontano – le mie radici, la libertà».
Verranno altre avventure, altri incontri: il matrimonio in Svizzera, dove vive tuttora, per prendere la cittadinanza e allontanarsi dalla giustizia italiana – «Non ho più molta fiducia nei tribunali…» – il lungo viaggio in Sri Lanka dove incontra Podi, «mio figlio», un bambino tamil che la conquista con cinque semplici parole: «Bring me in your country». La spina dorsale di «Monicaccia» resta d’acciaio, lo spirito arguto, il gusto della provocazione vivo, ma il sorriso è dolce. Il terzo set della vita lo sta vincendo a modo suo: servizio, discesa a rete, velocità.
da Altraeconomia
Dalle fabbriche alle foreste, dalle discariche al nucleare, le donne scienziate raccontate nel libro “Scienziate visionarie. 10 storie di impegno per l’ambiente e la salute” (Ed. Dedalo, 2024) hanno ridefinito il panorama scientifico, portando la ricerca fuori dai laboratori e andando ostinatamente controcorrente.
Cristina Mangia e Sabrina Presto, ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e socie dell’associazione Donne e Scienza, pagina dopo pagina ricostruiscono le appassionanti biografie di queste scienziate che, a partire dai primi del Novecento, hanno affrontato pregiudizi e contestato l’apparente neutralità e il disimpegno della scienza per trasformarla in una disciplina radicata nel mondo, capace di trasformazione sociale e tutela della salute pubblica.
“Spesso chi è marginalizzato porta visioni lontane dal mainstream, appunto visionarie, così hanno fatto le donne nella scienza -spiegano le due ricercatrici-. L’immaginario dominante vede ancora la scienza come oggettiva e neutrale, con una formazione tecnico-scientifica che rafforza la separazione tra saperi esperti e non esperti”.
Da Rachel Carson che per prima negli anni Sessanta denunciò gli effetti del Ddt e altri pesticidi sugli ecosistemi e sulla salute delle persone, scontrandosi con le lobby dell’agrofarmaco (che cercarono in ogni modo di screditarla), a Beverly Paigen che già nel 1974 criticava gli scienziati accademici “che tendono a non farsi coinvolgere, si considerano osservatori distanti e obiettivi, alla ricerca della verità”. Paigen intuiva che bisognava connettersi alle comunità inquinate. Caso volle che fu chiamata proprio dalle mamme di Love Canal, un piccolo paese vicino alle cascate del Niagara, disperate per lo stillicidio di aborti e malattie che flagellava la loro comunità. Con questionari alla popolazione locale e ricerca sul campo la scienziata scoprì che le malattie erano connesse ad una gigantesca discarica di rifiuti tossici interrata, aiutando quindi la popolazione a pretendere bonifiche, risarcimenti e delocalizzazioni. “La vicenda di Beverly Paigen è emblematica: mentre il gruppo di ricerca governativo mantiene il distacco dalla popolazione per garantire l’obiettività dello studio, dall’altro, Paigen collabora con le comunità, riconoscendo il valore della conoscenza locale nel migliorare la qualità della ricerca senza comprometterne il rigore. I risultati le daranno ragione”, sottolineano le autrici del libro.
Un modo di approcciarsi alla ricerca molto attuale, vista la crescente consapevolezza della necessità di coinvolgere le comunità nei processi di ricerca ambientale. Alcuni progetti si stanno muovendo in questa direzione attraverso la citizen science. Secondo le due ricercatrici però questi progetti “sono spesso limitati alla raccolta di dati come misurazioni dell’aria o delle acque, riducendo le popolazioni a semplici sentinelle ambientali. È invece fondamentale ampliare la partecipazione, consentendo alle comunità di contribuire alla definizione delle domande di ricerca, allo svolgimento degli studi e all’individuazione di soluzioni. La formulazione dei quesiti scientifici e la distribuzione dei finanziamenti orientano le risposte degli studi e ne determinano l’utilità per i gruppi di ricerca e/o per le popolazioni coinvolte”.
Cristina Mangia si occupa di inquinamento atmosferico e del suo impatto sulla salute, confrontandosi spesso con le comunità alle prese con problemi ambientali: “Molte delle domande poste dalle scienziate nel libro sono state anche le mie, a partire da quelle di Beverly Paigen e Laura Conti sull’accettabilità del rischio e sul diritto di una popolazione a essere informata quando vive in un’area a rischio. A volte le preoccupazioni degli abitanti sono diventate le nostre domande di ricerca, come a Brindisi riguardo le malformazioni congenite o l’impatto delle centrali a carbone. O anche a Taranto quando abbiamo contribuito alla revisione della misura dei ‘wind days’, che imponeva alla popolazione di regolare l’apertura delle finestre in base ai venti provenienti dalla zona industriale. In altre occasioni, abbiamo lavorato in stretta collaborazione con le le comunità territoriali coinvolgendole in tutte le fasi del processo scientifico. È accaduto a San Donaci (BR) e a Manfredonia (FG), dove i cittadini hanno preso parte alla definizione delle domande di ricerca, all’analisi dei dati e alla condivisione dei risultati, contribuendo all’elaborazione di strategie concrete. Molto spesso ho affiancato le comunità nell’interpretazione di documenti tecnici sugli impatti ambientali e sanitari che riguardavano i loro territori, al fine di renderle più consapevoli e autonome nelle loro battaglie per la salute e la giustizia ambientale”.
Le donne sono state pionere anche sulla salute nei luoghi di lavoro. Il libro ripercorre la vita di Alice Hamilton medica e fondatrice della medicina del lavoro, che con la sua “epidemiologia di strada” andava quotidianamente nelle fabbriche, parlava e visitava gli operai e i loro familiari, e fu la prima a denunciare la tossicità delle lavorazioni a base di piombo, mercurio, arsenico e altre sostanze alle quali i lavoratori erano costantemente esposti. Hamilton denunciò il precariato nel lavoro, strettamente legato al tasso di avvelenamento, ma anche le fabbriche degli esplosivi che producevano armamenti. Chiedeva più fondi per la ricerca e denunciava l’utilizzo degli operai come “cavie umane” a fronte della produzione di sempre nuove sostanze chimiche utilizzate dalle industrie, senza prove sufficienti sulla loro innocuità.
Poi ancora Alice Stewart che per prima scoprì e denunciò la nocività delle radiazioni durante la gravidanza e studiò gli effetti dell’esposizione a basse dosi delle radiazioni sulla salute, diventando la scienziata di riferimento dei movimenti antinuclearisti; Suzanne Simard, con le sue ricerche sulle connessioni sotterranee tra gli alberi, Lynn Margulis, Sara Josephine Baker, Donella Meadows, con la critica alla crescita economica e ai famosi “limiti dello sviluppo”, fino a Wangari Maathai, la scienziata che piantava gli alberi.
Senza dimenticare la coraggiosa scienziata giapponese Katsuko Saruhashi che per prima denunciò gli effetti devastanti dei test con la bomba a idrogeno, studiando fin dove arrivava il fallout (pulviscolo di particelle radioattive). La sua competenza venne messa in dubbio dagli scienziati (quasi tutti uomini) americani, ma lei dimostrò che erano loro a sbagliare. Solidarizzò con il movimento pacifista e antinuclearista, denunciando l’uso a scopi militari del plutonio generato dai reattori e la difficoltà di smaltimento delle scorie radioattive. Rivolgendosi ai ricercatori del progetto Manhattan scrisse: “Come possono difendere la loro innocenza? Gli scienziati avrebbero dovuto sapere”.
Tematiche ancora attuali, perché le lobby industriali e militari possono ancora, come un tempo, influenzare e piegare la scienza. “La ricerca ha bisogno di soldi e gli investimenti pubblici non sempre sono sufficienti -confermano le due ricercatrici-. Questo apre la porta all’influenza di lobby industriali e militari, che ancora oggi hanno un ruolo determinante nel definire le priorità della scienza. Oltre a orientare lo sviluppo tecnologico, spesso questi gruppi influenzano la ricerca, alimentando dubbi su questioni cruciali come il cambiamento climatico o la nocività di alcune sostanze, ritardando decisioni politiche e normative. È successo in passato con il fumo di tabacco, più recentemente con alcuni pesticidi e sta accadendo oggi con i Pfas. L’influenza delle grandi industrie si estende anche al settore energetico, incluso il nucleare, con il rischio di condizionare il dibattito pubblico e scientifico. Per concludere, crediamo che la scienza abbia ancora bisogno di scienziate visionarie, figure del calibro di Katsuko Saruhashi o Lynn Margulis, la scienziata che rifiutò un cospicuo finanziamento vincolato alla riservatezza dei risultati, affermando: se non è pubblica, non è scienza”.
da il manifesto
“Il femminismo della mia vicina”, di Ginevra Bompiani e Luciana Castellina
«Per un bel pezzo io mi sono vergognata di essere una donna». «Io no». Questo l’incipit del primo capitolo di “Il femminismo della mia vicina” da oggi in libreria per Manni editore (pp. 101, euro 14). A cominciare il dialogo è Luciana Castellina, a risponderle è Ginevra Bompiani. Che due personalità di tale levatura abbiano deciso di interrogarsi sul loro rapporto con il femminismo, inteso come vissuto storico e politico, è una buona notizia. Simile a un memoir in relazione (che non si sarebbe potuto realizzare se non in questa modalità del pensare appassionato e insieme) il volume va a illuminare un tratto di strada che ha radici e collocazioni precise, in primis vi è l’amicizia di Castellina e Bompiani iniziata circa sedici anni fa e coltivata con determinazione e scambio anche nelle divergenze. Volendosi bene, come accade e si rinnova tra di loro, i disaccordi sono dichiarati ma con ascolto reciproco: il primo è che Luciana Castellina si è mossa sempre in una dimensione collettiva e Ginevra Bompiani in una individuale. Questa “vicina” presente nel titolo è allora l’orlo affettivo in cui si trovano una e l’altra, nel sapersi stare accanto pure nella diversità. Seguiamo dunque lo schietto scambio di due magnifiche signore che si immaginano frontali a raccontarsi tra scena pubblica e vita privata.
Nella marca conviviale e mai nostalgica adottata da entrambe, apprendiamo numerosi aneddoti e altrettante tappe fondanti ciò che dal movimento delle donne conduce ai primi collettivi e ai primi guadagni della libertà femminile. Ancora prima da lunghe militanze – non femministe ma femminili – anzitutto nel Pci. Se Castellina affonda ancora più a ritroso citando la stessa relazione tra la Resistenza e ciò che ha rappresentato la nascita dell’Udi, Bompiani rammenta la sua adesione, seppur breve, al gruppo di Rivolta femminile. Dalle svolte di ciascuna, la prima all’interno di un partito e la seconda no, si iniziano a delineare i primi momenti – e ne descrivono diversi con discreta e godibile ironia – in cui hanno riconosciuto che essere donna non sarebbe stato esclusivamente un affare biologico o contingente bensì avrebbe comportato un mutamento dello sguardo, della posizione fino a quell’istante assunta. Per esempio, la coscienza di essere donne in un mondo organizzato dai maschi, in opposizione a una famiglia patriarcale (nel caso di Bompiani) o nelle contraddizioni interne al Pci (nel caso di Castellina).
Essere donne nel senso di una differenza sessuale consente a ciascuna di loro di scassinare lo sgabuzzino simbolico in cui per secoli il patriarcato ha creduto di rinchiuderci. Cosa ci sia dentro quel pertugio di sopraffazione, di violenza epistemica e storica, è un passaggio che spiegano con una certa dovizia a partire da loro stesse e da un punto di avvistamento non solo italiano ma internazionale. «Ci sono molti punti in comune tra il colonialismo e il patriarcato», scrive Castellina e mette in gioco l’identità, nominata più di una volta che tuttavia per Bompiani non esiste se non come invenzione o questione burocratica. Ci sono infine i corpi, le storie di tutte e tutti noi e i nodi più recenti che il femminismo ha affrontato, non tutti comprensibili, con alcune asperità insieme alle inquietudini sul futuro e sull’avanzare delle destre, nel frattempo.
da Il Corriere della Sera
Yasmina Reza è Yasmina Reza. Scrittrice, drammaturga, nessuna di queste. Definirla significherebbe circoscrivere l’esistenza. Cos’è Yasmina Reza? Per afferrare la portata della scrittrice parigina, autrice di una ventina di opere, dobbiamo smetterla di mentire. Ammettere chi siamo, a favore del mondo. Leggere Reza è estrarre la verità dalla retorica: riappropriarci di certi sguardi inconsueti, saper maledire il passare del tempo, imparare a goderci chi si arrabatta al posto nostro. Liberazioni.
I suoi libri sono questo. Questo, più qualcosa che sfugge, come succede a un grande autore finché non arriva un testo che lo contiene tutto. La vita normale è Yasmina Reza per intero. Un romanzo a più ritratti? Una raccolta di racconti? Chiarirlo è ridurre un dipinto di Rothko a uno sfondo colorato. O una partitura di Bach a un susseguirsi di note musicali. Si potrebbe banalizzare così: cinquantacinque spari narrativi tra Venezia e i tribunali francesi, con Reza a testimoniare il corso naturale delle cose. Di più non si può.
E se invece esistesse una parola, una sola parola, per catturare l’iridescenza di quest’opera?
«Se una parola simile esistesse – e non esiste – io sarei l’ultima a trovarla. Non ho uno sguardo critico né tantomeno speculativo sul mio lavoro. Lei adopera un termine che mi piace molto, l’iridescenza, una proprietà magica che dipende dall’angolo visuale. Intuitivamente lo approvo e ne sono commossa. Nel mio libro si affiancano, senza alcun ordine gerarchico, racconti apparentemente anodini o domestici e racconti di processi che sembrano esulare dall’ordinario. A seconda del modo in cui li osservo, assumono tutti i molteplici e sconcertanti colori della “vita normale”».
Forse dobbiamo scomodare Céline: la normalità è l’abisso. Quanto ha deciso questo libro e quanto è venuto naturale come la vita stessa?
«Sono anni che vado ad assistere a processi. All’inizio era per semplice curiosità e per il desiderio di sottrarmi alla specificità sociologica del mio ambiente professionale. Non avevo intenzione di farne un libro, e per un bel pezzo non ho neanche preso appunti. Finché poi ho cominciato a prenderne, e a scrivere brevi resoconti personali, come faccio da sempre in svariate situazioni. Così sono nati Hammerklavier e Nulle part. Fotografie soggettive della vita. Un giorno mi sono resa conto che quei testi si facevano eco e come da contrappunto gli uni con gli altri. La vita non è suddivisa in compartimenti stagni, è incasinata, e passa in un batter d’occhio dall’estremamente banale all’eccezionale».
È un libro che vince la morte, perché ne contrasta il patetico. Dopo averlo letto è più facile confrontarsi col destino. “Spoon River” mi fece lo stesso effetto.
«Oh, quanto mi piacerebbe! Lei è troppo generoso. La mia prima commedia si intitolava Conversazioni dopo un funerale. Ho cominciato a scrivere, per così dire, con lo sguardo rivolto a una tomba. E non ho mai smesso. Vedo ogni cosa alla luce del limite. Si ricorda qual era, per Epicuro, il rimedio alla morte? “Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi”. È vero, ma solo al livello dello stato di coscienza. Per il resto, la morte è onnipresente, come inclusa in noi stessi, e viene esperita, ahimè, quando si tratta degli altri».
“Spoon River” gioca con i rimpianti nella tomba. “La vita normale” lo fa con i rimpianti in corso, forse. Ma forse sotto sotto dà una possibilità ai suoi personaggi di invertire la rotta, avvicinandoli a una forma di tenerezza.
«La sua domanda mi ricorda, ammesso che sia necessario, a che punto un libro appartiene al lettore. Personalmente, non mi sembra che nella Vita normale si parli poi tanto di rimpianti, tranne forse in un paio di testi. In compenso, la vera costante, secondo me, è l’irreversibilità del tempo. Sono felice, tuttavia, che lei citi la tenerezza. Su questo sì che sono d’accordo».
Vorrei confidarle una cosa: leggendolo, mi è venuta in mente una riflessione di Goliarda Sapienza sugli effetti imprevedibili dei libri nei lettori. Diceva: quando un libro è stato scritto in libertà – la vera libertà – dopo farà quel che gli pare. C’è un sentimento (o un’urgenza), magari sottotraccia, di cui si è nutrito?
«Lei mi tortura, caro Marco! Ma la frase di Goliarda Sapienza è assolutamente giusta. Penso che qualsiasi scrittura dotata di un qualche valore scaturisca da una ricerca sotterranea e ostinata. Proprio in questa ricerca risiede la libertà. Le parole non dicono che una parte visibile, in realtà costruiscono un certo silenzio. Il silenzio è predominante, è ciò che resta, e ciascuno lo interpreta a modo suo. Per quanto riguarda la sua domanda, ho cercato invano una risposta. Forse è qualcosa di indicibile».
La questione del silenzio è capitale. Avevamo definito “acquari” gli spazi in cui i suoi personaggi si muovono, perimetri teatrali dove vanno in scena non-detti. “La vita normale” ha acquari e silenzi già nella struttura, brevi racconti dove le anime nuotano nell’esistenza. In questo, il capitolo su Roberto Calasso mi sembra esemplare. L’attendere il taxi di Calasso, il sospetto che si annoi e che tempo dopo la verità su questa noia venga a galla. Perché Calasso come scelta? Cosa trasforma una persona in qualcosa che valga la pena di essere raccontato?
«Se una persona si inscrive nel tuo universo sensibile te ne accorgi subito. Io ho un debole per quelle angosciate e quelle inclassificabili. Ero a conoscenza delle formidabili qualità intellettuali dell’uomo. Ma Roberto Calasso “dal vivo” mi è subito piaciuto enormemente. Il suo terrore di essere costretto a fare conversazione con un nuovo scrittore (terrore che capisco benissimo), la sua incapacità di fingere un’amabilità mondana, la sua immediata facilità alla noia (che si annoiasse non era un sospetto, per me, era un dato di fatto inequivocabile). Il cappotto abbottonato fino al collo come un bambino che aspetta che vengano a prenderlo! Tutto questo è materia preziosa».
Il cappotto abbottonato di Calasso, ma anche la postura «leggermente curva» di Bruno Ganz al tavolino. Mentre si legge il racconto che gli ha dedicato, la sensazione è di una malinconia luminosa (e a sorpresa) che ci sfugge. È come se questo libro l’avesse catturata, ma ho il sospetto che sia stato possibile perché il narratore ne è testimone a pelle viva. Una prima persona singolare normale e proprio per questo, totale.
«Le sue parole mi colpiscono. In quanto narratrice mi situo sempre esattamente alla stessa altezza delle persone che osservo. Non saprei che cosa aggiungere, dato che lei descrive alla perfezione ciò che tento di cogliere ogni volta, nell’aula di un tribunale come nella vita quotidiana».
Ma gli eventi giudiziari non la corrompono? Truman Capote disse che con i potenziali criminali rischiava di perdere la giusta distanza perché gli regalavano storie meravigliose.
«Truman Capote aveva stabilito un legame reale, fisico, con gli imputati. Si era addirittura affezionato a loro. Anch’io mi affeziono. Ho un debole per alcuni, ma resto a distanza, tra me e loro non esiste alcun rapporto. Nessuno mi ha raccontato storie meravigliose! Nella frase di Capote intravedo un lieve romanticismo. Ma capisco quello che dice, dal momento che appena ci si avvicina davvero alle persone le affinità umane alterano il giudizio morale».
E siamo arrivati a Venezia. La città di questo libro, una delle sue città. Che storia c’è tra Yasmina Reza e Venezia?
«Un amico mi aveva detto: è una città propizia all’ispirazione letteraria. Lui ci stava girando un film. Sono andata sul set ed è stato un colpo di fulmine. La bellezza, la storia incredibile, la libertà di movimento, i rumori notturni, la strana e incomprensibile laguna… Il mio attaccamento alla città non è mutato, ma Venezia non è quasi più una città reale. È ormai totalmente in balìa di quella calamità che è il turismo di massa, e si sta tragicamente spopolando. Da quando ci abito una parte dell’anno, il mercato si è ridotto della metà. I negozi chiudono l’uno dopo l’altro per diventare o ristoranti o assurde bottegucce di souvenir. Tutto ciò mi rattrista enormemente».
Sa cosa diceva W.G. Sebald? A un certo punto rischiamo di innamorarci di una città che rispecchia la nostra architettura di storie. Se penso a Venezia, e a libri come “Felici i felici”, “Babilonia”, “Serge”, gli scritti teatrali, “La vita normale”, ecco, mi appare che la sua pagina sia questa mappa: per le “isole” circoscritte che crea nelle strutture, la brevità, gli ambienti dove incontrarsi quasi per caso e svelarsi, il mondo della notte, l’invasione dei destini altri, una certa dose di disincanto rispetto al passato.
«Un’osservazione che mi sconcerta, la sua. Non ci avevo mai pensato – del resto, non rifletto mai sulla mia scrittura –, ma non posso negare che lei abbia ragione. Sì, certo, gli spazi circoscritti, le unità classiche di tempo e di luogo, un certo mondo conchiuso, il caso che governa gli incontri, gli eventi che si producono all’angolo di una calle e sono come catastrofi in miniatura. Anche la questione del tempo è onnipresente a Venezia. Il tempo che lascia un segno sui muri, la schiuma dei canali, l’abbandono in cui versano tante sue zone. Credo si possa trovare traccia di tutto ciò nelle emozioni che mi guidano e su cui si basano i miei testi. Ma lei l’ha detto meglio di me. Mi viene in mente un’altra cosa: in genere, i posti in cui agiscono i miei personaggi mi diverto a inventarli. Invento nomi di città, di strade. Venezia è la sola città di cui cito i veri toponimi».
Probabilmente perché è un teatro a cielo aperto. In questo Venezia unisce le sue arti capitali, la drammaturgia e la narrativa, attraverso il passare inesorabile del tempo, che forse è la sua più grande ossessione.
Quanto fa incazzare il passare inesorabile del tempo. Secondo lei i libri, la vita normale che scorre nei libri, ne sono antidoto?
«Sarebbe stupendo se fosse così! Direi, piuttosto, che i libri confermano la fuga inesorabile del tempo. La vita normale che scorre nei libri è ancora più effimera della vita normale che viviamo. È una vita che si è già svolta. Nel passato. Anche se la narrazione è al presente si tratta di un presente compiuto. In un certo senso, la letteratura è incapace di fissare il presente. Nel migliore dei casi illumina un presente universale che potrebbe riprodursi ma che ci ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, che la vita è fragile e breve. La lettura, in compenso, è un atto che, come la preghiera, consiste nel sottrarsi al tempo».
Da lettrice, ha libri – o autrici, autori – che l’hanno sottratto alla maledizione del tempo? Ne “La vita normale” cita “Tempo di seconda mano” di Svetlana Aleksievič.
«Non è una questione di autori: parlo del semplice fatto di leggere. Leggere ci separa dal contesto immediato. È un una pausa tecnica, se me lo consente. Il tema centrale di Tempo di seconda mano sono proprio le epoche, la nostalgia, il senso della perdita. Un capolavoro, questo, che non può in alcun modo strapparci alla percezione del tempo».
Una domanda da non fare mai a Yasmina Reza: a questo punto della sua esistenza, e del suo percorso artistico, e contro lo scorrere del tempo, cosa la rende felice?
«Anche ammesso, caro Marco, che io fossi disposta a rispondere a una simile domanda, non ci riuscirei! La gioia è inattesa, ci prende alla sprovvista. Anzi, non sono nemmeno sicura che dipenda dalle circostanze. In passato, quando ritenevo di star costruendo la mia esistenza, ero più eccitata, più nervosa, ma certo non più gioiosa. In definitiva, le cose che contano sono sempre le stesse. E sono infinitamente banali. Camminare nella natura, discutere dei massimi sistemi e ridere con i miei cari, con i miei amici».
Era un interrogativo che avrei voluto porre ai suoi personaggi. Soprattutto alle anime della Vita normale. Cosa li rende felici? Non sapevo immaginare una risposta e forse ho capito perché: perché la banalità della gioia è un atto straordinario. Normali i normali, ribaltando Borges.
«In Babilonia la narratrice, pur travolta da eventi tragici, accenna alcuni passettini di danza al centro del salotto di casa. Nella Vita normale il personaggio di N., dopo una serata in cui non ha fatto altro che lamentarsi, canta scendendo le scale. Sempre nello stesso libro, un assassino di donne ride nel sentire la frase di una delle sue vittime miracolosamente scampata alla morte. E anche la vittima ride, di cuore, e anche la corte. Niente a che vedere con la felicità, in tutto ciò: sono solo attimi di gioia. La gioia per effrazione. La gioia insolente che si intrufola nella vita, spesso controcorrente. Si trovano molti esempi di questo tipo di gioia nelle mie opere teatrali e nell’insieme dei miei testi. È una forma di frivolezza esistenziale. Ho sempre pensato che sia questa predisposizione a salvarci».
La gioia insolente, oltre la felicità. E la leggerezza, intesa come sostanza delle parole nella loro precisione e necessità. Il prossimo Salone del Libro di Torino avrà come tema proprio questo essere leggeri – attraverso la parola – nell’incontro con il mondo. Lei lo inaugurerà, e trovo la sua partecipazione puntualissima, vista la spinta che ha nel delineare la realtà.
«La leggerezza non si impone per decreto. È un’attitudine originaria, diciamo così. Nella vita come nella letteratura. Spesso la si confonde con un difetto di sostanza o di profondità. È un errore. Mi piace, inoltre, il nesso che lei stabilisce tra leggerezza e precisione. Sì, la leggerezza presuppone la precisione».
«Gli annegati parlano ai vivi». È l’incipit di uno dei tasselli de “La vita normale”. Potrebbe avere a che fare con l’intero suo percorso artistico. Una sorta di richiamo, che viene dall’abisso, e che tocca chi è su questa terra, avvertendolo che il destino nascosto nella normalità è sempre «prendere il mare e non tornare più in porto». Lo sente come filo conduttore dei suoi scritti?
«Sì, noi tutti prendiamo il largo, ci imbarchiamo, e non facciamo mai ritorno al porto da cui siamo salpati. Mi viene da citare un poeta francese che ammiro, Charles Pennequin: “Prima della notte del vivente c’è la notte del prima di vivere. La grande notte. E dopo, poi, c’è la grande notte del dopo. E a noi dicono di vivere proprio al centro”. Il che mi ricorda una frase di uno degli epitaffi di Spoon River: “Entrate nella stanza – ovverosia nascete;/ e poi dovete vivere – affaticarvi l’anima”. La letteratura fa eco alla letteratura. È una grande sfida mantenere il proprio posto di vivente quando la destinazione finale è opaca. Questo miscuglio di slancio vitale e incertezza non è forse il filo conduttore di tanti scrittori?».
da il manifesto
La verità – questo vincolo donato dai fatti alla libertà dell’opinare, e insieme quest’ultima barriera all’arbitrio del potere sul pensiero –, dunque la verità nella sua relazione con la libertà umana, l’autonomia personale e la democrazia: questo è il tema profondo e il filo non invisibile dei cinque scritti qui raccolti (Fascismo e democrazia, traduzione di Elena Cantoni, in libreria dal 24 di aprile per le edizioni Fuoriscena, pp. 96, euro 12, ndr). Furono pubblicati fra il 1940 e il 1945 da George Orwell, nom de plume di Eric Blair, nato nel 1903 a Motihari, nell’India britannica, e morto a Londra nel 1950. Sono interventi scritti quando l’autore aveva fra i trentasette e i quarantadue anni, dopo che aveva attraversato con il corpo e con l’anima l’Oriente colonizzato e l’Occidente sconvolto da totalitarismi e guerre.
Uno sguardo a volo sulla vita di Orwell ci aiuterà a mettere meglio a fuoco questa chiave di lettura. Transfuga del college di Eton, dove aveva appreso la lingua e la letteratura francesi da Aldous Huxley, a diciannove anni fu spedito nell’estremo avamposto orientale dell’Impero britannico, in Birmania, per divenirvi ufficiale della polizia imperiale, ma già a venticinque anni lasciò la carriera di funzionario coloniale per farsi esploratore e partecipe della miseria degli ultimi nelle metropoli europee, raccoglitore di luppolo nelle campagne del Kent, girovago e barbone per conoscere la vita delle prigioni britanniche. Ferito quasi a morte fra i combattenti del Poum (Partido Obrero de Unificación Marxista) nella Guerra civile spagnola del ’36, e sfuggito miracolosamente all’eccidio staliniano degli antistalinisti che concluse tragicamente la sconfitta della rivoluzione spagnola, quest’uomo sembra un discendente di Erodoto, con un’anima francescana e uno spirito critico sulfureo, ignaro di orizzonti celesti, una sorta di viandante cherubico intriso di humour britannico. Scrittore e pensatore fra i più lucidi dell’intero Novecento, capace di sopravvivere ai mestieri più umili della campagna e alle redazioni dei quotidiani metropolitani, voce che si levava inconfondibile e identica dalle pagine di prestigiose riviste accademiche, dai microfoni della Bbc, dalle colonne dell’Observer, di cui fu corrispondente di guerra, Orwell bruciò la sua breve vita come divorato da una passione di conoscenza esatta ed empirica delle leggi dell’anima nel suo rapporto con le società e le loro istituzioni: tradizionali, coloniali, liberali, democratiche, totalitarie. A proposito di verità, o della sua ricerca.
Gli scritti raccolti in questo libro furono pubblicati appena prima che il loro autore raggiungesse finalmente il successo mondiale con La fattoria degli animali (1945), la novella satirico-swiftiana che nel suo fiabesco humour inscena, con il nitore e la levità di un teatrino di marionette, l’involuzione di una società dell’eguaglianza verso una società totalitaria. Che avviene precisamente attraverso l’accettazione collettiva, più o meno impotente, più o meno corriva, di una manipolazione graduale e sistematica della verità da parte di pochi; la quale presto si fa manipolazione del linguaggio e della sua anima logica, fino al celeberrimo «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri», unico e nuovo comandamento rimasto al posto dei sette a cui si era ispirata la gloriosa rivoluzione degli animali di Manor Farm.
La manipolazione del linguaggio: passaggio obbligato perché si costituisca quel «rapporto obliquo con la verità» in cui si di sfa ogni vincolo di ragione e ogni limite all’arbitrio del potere, come si disfa ogni vincolo etico quando si dissolvono quelli logici. Nessuno più di Orwell ci aiuta a esplorare il senso della celebre frase di Musil: «Ciò che chiamiamo cultura non usa direttamente come proprio criterio il concetto di verità, e tuttavia nessuna cultura può fondarsi su un rapporto obliquo con la verità». Ed ecco, troneggiante sulle nostre città, la luccicante piramide bianca del ministero della Verità, con iscritti i Principi del bipensiero (doublethink): La guerra è pace, La libertà è schiavitù, L’ignoranza è forza.
Di lì a poco, nel 1949, uscirà 1984, il capolavoro che crea una nuova categoria dello spirito, o piuttosto dà nome a una nuova qualità del demoniaco: «orwelliano»; dove lo humour satirico della Fattoria degli animali vira al tragico e lo studio della decostruzione dell’identità personale attraverso la rinuncia alla distinzione fra il vero e il falso raggiunge livelli di profondità – e di attualità – da mozzare il fiato.
La verità nella sua relazione con la politica e con l’esercizio del potere, con l’etica e con il coraggio di pensare con la propria testa, addirittura con la costruzione della propria identità, con il pensiero critico e la democrazia, non costituisce certo un tema nuovo. Non dovrebbe stupire che un tema simile sopravviva al secolo passato, non sbiadisca in seguito al crollo dei totalitarismi novecenteschi e ridiventi tanto attuale in questo, se già lo era ai tempi di Socrate, che per primo lo portò alla luce del pensiero. Forse non è solo il filo rosso della meditazione saggistica e narrativa di Orwell, forse è il filo stesso della filosofia, ogni volta che si sfila dalla sofistica. Non aveva torto Simone Weil quando consigliava di scrivere di cose eterne per essere attuali. Ma ora dobbiamo vederle più da vicino, le due cose: il filo del pensiero di Orwell sulla verità, da un lato, e l’attualità di questo pensiero per noi dall’altro. Cominciamo dalla seconda. Proprio là dove sono stati istituiti, in «Oceania», la «libera ricerca della verità oggettiva e (il) libero scambio delle idee e delle cognizioni», che compongono il diritto umano fondamentale cui è dedicata la carta dell’Unesco, sono oggi di nuovo a rischio.
La ragione di questo pericolo più che incombente non è difficile da scoprire: quando la politica uccide la sua stessa ragion d’essere, che è quella di risolvere i conflitti senza guerra, essa diventa letteralmente una continuazione della guerra con altri mezzi. E la guerra è da sempre la più grande nemica della verità anche nello spazio pubblico delle democrazie, che è certamente lo spazio del confronto delle idee e delle ragioni, ma anche – e in modo più basilare – dell’informazione sui fatti. Anzi: sui fatti e sulle norme, per esempio quelle del diritto internazionale vigente, appunto. Anche se «nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra», secondo una pagina famosa di Hannah Arendt, questi rapporti cessano del tutto quando la politica si rovescia, suicidandosi, nella guerra. Oggi sull’arena internazionale tutte le potenze dominanti investono soltanto nella legge del più forte, calpestando e irridendo il diritto; ma per farlo su così vasta scala anche in «Oceania» occorre prima rimuovere la verità dei fatti dallo spazio dell’opinione pubblica. Peggio: non rimuoverla sempre, ma ora sì e ora no, secondo convenienza. È la bomba logica dei doppi standard, per cui se invadi, uccidi e deporti sei un criminale di guerra ed è giusto che ne sopporti le conseguenze anche giudiziarie, nel caso tu sia – poniamo – l’autocrate russo; ma se per caso sei il premier israeliano stai solo difendendo il diritto di Israele a esistere. «La cosiddetta oggettività» la stessa Arendt l’aveva definita, a mio parere del tutto infondatamente, «questa curiosa passione, sconosciuta al di fuori della civiltà occidentale».
Ma il fenomeno oggi più pervasivo – e insieme il più ignorato – è che la distruzione dell’oggettività sia più insidiosamente praticata, nei media e sulla stampa più influente, anche in «Oceania», dove, almeno per i media di grande tradizione democratica, non si può contare sul metodo «Pravda», che ha il suo antidoto (non credere a una sola parola). Ciò a cui assistiamo è invece che il verificabile, l’inverificabile, le omissioni, i doppi standard e l’attribuzione al destino delle più sciagurate pulsioni (l’illusione della pace è finita, la guerra è un male necessario) sono equamente distribuiti. Certo, tutto questo non accade per la prima volta. E ben lo sapeva Orwell, che nell’ultimo degli interventi qui raccolti ricorda il cumulo di menzogne che abitavano la stampa di entrambe le parti durante la Guerra civile spagnola nel ’36, e ricorda anche con quale sconcerto aveva «visto i giornali londinesi ripetere le stesse bugie, intellettuali volonterosi costruire intere sovrastrutture emotive su eventi che non avevano mai avuto luogo».
da Il Fatto Quotidiano
Cinquant’anni fa, il 20 novembre del 1975, il presidente del governo spagnolo Carlos Arias Navarro annunciò la morte del dittatore fascista Francisco Franco. Due giorni dopo, il re Juan Carlos di Borbone giurò come re di Spagna e nuovo capo dello Stato. Un anno dopo, le Cortes approvarono una legge che aprì le porte alla democrazia. Per ricordare la ricorrenza, l’editore Giunti ha pubblicato il romanzo La pasadora della scrittrice barcellonese Laia Perearnau. Si tratta di un omaggio vibrante al contributo dato dalle donne di Spagna, a lungo ignorato oppure rimosso, alla causa antifascista e antinazista. In particolare riporta alla luce quelle donne, soprattutto catalane, come Teresa Carbò, che militarono nelle reti di resistenza portando in salvo (come passadores, portatrici, appunto) dai tedeschi che occupavano la Francia partigiani del maquis, ufficiali delle missioni alleate, ebrei, sulle montagne dei Pirenei. Diverse di loro alimentarono poi anche la lotta clandestina contro il franchismo, che si attivò, principalmente per opera degli anarchici, dopo la sconfitta della Repubblica nel 1939.
In epigrafe al suo libro, peraltro molto ben costruito e appassionante, Laia Perearnau, classe 1972, giornalista televisiva e narratrice, ha voluto citare la frase di una di quelle donne straordinarie, Antonina Rodrigo, “Mujer y exilio”: «Gli uomini hanno partecipato alla guerra, alla Resistenza […] e sono passati alla storia ricevendo onorificenze e monumenti a loro dedicati. Anche le donne hanno fatto la guerra, hanno preso parte alla Resistenza […] eppure sono ancora assenti dai libri di storia, le loro battaglie non sono state registrate».
L’autrice de La pasadora ha spiegato che «nei libri di storia, nei documentari e in tutte le fonti scritte che ho consultato, nessuna testimonianza attestava il coinvolgimento attivo di donne nell’immane compito di aiutare migliaia di individui ad attraversare le montagne per poter sfuggire al Terzo Reich. Per questo ho deciso di mettere da parte i libri, tutti sostanzialmente scritti da uomini, e di addentrarmi nel mondo degli storici e delle storiche locali, delle testimonianze orali e della documentazione degli archivi storici». Nonostante «tale silenzio autoimposto, tuttavia, sono riuscita a trovare qualche nome e delle storie, alcune più epiche di altre ma tutte ugualmente degne di essere salvate dall’oblio».
Tre di quelle donne compaiono nel romanzo. Una di loro si chiama Conxita Grangé. Faceva «da intermediaria con i guerriglieri e i maquis di Tolosa. Lei e sua zia Elvira Ibarz furono consegnate alla Gestapo, imprigionate e torturate in quella stessa città francese, dalla quale in seguito furono deportate in Germania. Attraversarono la Francia da sud a nord insieme ad altri settecento detenuti nel cosiddetto “treno fantasma”, in un viaggio durato due mesi sotto i bombardamenti alleati e gli attacchi del movimento maquis. Il 9 settembre furono internate nel campo di concentramento di Ravensbrück. Conxita fu insignita dal governo francese della Legion d’Onore e della Medaglia della Resistenza, e dedicò buona parte della propria vita a raccontare la sua esperienza nelle scuole e a mantenere viva la memoria delle donne deportate».
da il manifesto
Da uno scherzoso componimento liceale a una strofa buttata giù alla vigilia della morte: le poesie «disperse» vengono ora raccolte da Andrea Ceccarelli sotto il titolo «Racconto antico», da Adelphi
Cimentandosi nel 1996 in quel particolarissimo genere letterario che è il discorso di accettazione del premio Nobel, Wisława Szymborska deplorava con la consueta ironia il carattere «nient’affatto fotogenico» del proprio mestiere. Nessun regista, a suo dire, si sarebbe mai arrischiato a girare un documentario sulla vita quotidiana di un individuo che «fissa con lo sguardo immobile la parete o il soffitto, di tanto in tanto scrive sette versi, dopo un quarto d’ora ne cancella uno, dopodiché passa un’ora in cui non accade nulla… Quale spettatore reggerebbe uno spettacolo simile?» Peggio ancora, questa sequenza soporifera si sarebbe verosimilmente conclusa con l’attimo in cui il poeta insoddisfatto, dopo tante tribolazioni, annienta i frutti imperfetti del proprio lavoro.
All’esercizio dell’auto da fé Szymborska si dedicava in effetti con una certa ostinazione – lo dimostra il fatto che al momento dell’attribuzione del Nobel fosse autrice di soli nove esili volumetti di poesie, di cui due (quelli degli esordi real-socialisti risalenti a mezzo secolo prima) disconosciuti e mai più ripubblicati.
Eppure nel suo caso il reiterato ricorso al cestino della carta straccia – da lei ritenuto lo strumento più prezioso per chi scrive – non era motivato esclusivamente da una spasmodica tendenza all’autocritica. Altrettanto stringente doveva sembrarle l’imperativo etico di utilizzare con morigeratezza quel potere quasi stregonesco che offre la scrittura: retrocedere al «paradiso perduto della probabilità», addentrarsi tra gli interstizi del possibile e fondare così, sulla base degli elementi trascelti, un ordine diverso da quello esistente. Se scrivere è innanzitutto «la vendetta di una mano mortale», ovvero la creazione di un mondo alternativo di cui l’autore stringe strettamente in pugno le «sorti indipendenti», è chiaro che di un simile dono non si dovrebbe abusare, pena l’incorrere in quei pericoli che Szymborska aborriva, e cioè nel chiacchiericcio o, peggio, nella falsità.
In un lungo arco temporale
Considerando la propensione dell’autrice verso questa sorta di ecologia della creazione, sembra tanto più straordinario che a tredici anni ormai dalla sua scomparsa escano ancora poesie inedite, non incluse in nessuna raccolta pubblicata in vita, ma nemmeno distrutte. Poesie che difficilmente potrebbero essere raggruppate sotto una rubrica diversa da quella di «disperse» scelta da Andrea Ceccherelli per il sottotitolo di Racconto antico, proposto ora da Adelphi a sua cura (pp. 140, € 13,00). L’ampiezza dell’arco temporale (si va da uno scherzoso componimento liceale a una strofa messa su carta alla vigilia della morte), nonché l’ovvia eterogeneità dell’intonazione, rendono infatti impossibile individuare fra questi versi un minimo comune denominatore. Al contempo, non è difficile intravedervi quell’interrogazione tenace e spesso stupita del reale che costituisce la cifra inconfondibile della poetessa polacca. Così come pressoché immutata nel tempo rimane la sua tendenza a procedere secondo una logica accumulativa, che ai risvolti concreti dell’essere affianca innumerevoli varianti irrealizzate.
Queste eventualità inopinatamente scartate dal destino talora restano, a volte, perfino implicite, consegnate a un pudico, quanto scherzoso non detto: «Se mai le cose potessero parlare – / ma se parlassero, potrebbero anche mentire. / Soprattutto quelle ordinarie e poco apprezzate, / per attirare finalmente l’attenzione. // Mi spaventa l’idea / di cosa mi direbbe il tuo bottone caduto, / e a te la mia chiave di casa, / vecchia mitomane».
Altrove, la vita potenziale degli oggetti si condensa in apologhi spassosi, invariabilmente conclusi da appelli edificanti alla gioventù comunista. È il caso di Favole sulla vita delle cose inanimate del 1949, dove la poetessa – allora ventiseienne – immagina le possibili sorti di un libro che, non essendo mai stato letto da nessuno, decida di leggersi da solo; inoltre, di una stufa intenzionata a cambiare quotidianamente nome, a seconda del santo o della santa celebrati quel giorno: e, ancora, di un letto pigro, convinto che non esista nulla di meglio del sonno.
L’alternativa del «se mai» assume tonalità affatto diverse in La dialettica e l’arte, forse una delle poesie più «dissenzienti» di Szymborska, uscita a Parigi sulla rivista dell’emigrazione polacca «Kultura» nel 1985 sotto pseudonimo, e significativamente non inclusa nella raccolta successiva, Gente sul ponte, uscita l’anno seguente. Qui l’autrice passa in rassegna le prevedibilissime conseguenze derivanti per un poeta dal sottomettersi supinamente alle direttive del potere politico o, al contrario, dall’ignorarle: «La tua opera, artista, è sulla bilancia della sorte / Se dirai Sì / subito acquisterà peso / Se dirai No / ne perderà all’istante / Se dirai Sì / diventerai finalmente / migliore dei peggiori / perché i peggiori saranno quelli che hanno detto No».
Quando tutto è bianco o nero
Umori non meno sediziosi trapelano da La tribuna, dissacrante ritratto di non meglio specificate autorità militari e civili, che evoca alla mente i Generali dipinti da Enrico Baj. Più malinconica è invece la riflessione metapoetica contenuta nel componimento dedicato a František Halas, poeta ceco che, malgrado la sua militanza di sinistra e il ruolo attivo svolto nella Resistenza, divenne oggetto di una sorta di damnatio memoriae in epoca staliniana. Irridendo il manicheismo propagandato dall’alto («Semplifichiamo il mondo. L’erba sappia / che anche il suo colore o è bianco o è nero»), la poetessa polacca osserva ironicamente come le «vie di un tempo, non perfettamente rette» non siano ormai più tollerate.
Forse ha origine proprio da questa constatazione la sua successiva tendenza a deviare dagli schemi precostituiti («Sono, ma non devo / esserlo, una figlia del secolo») per progettare «un mondo nuova edizione /, riveduta», che risponda unicamente alle regole della scrittura. È la prospettiva aperta in Racconto antico, forse la più bella tra le «poesie disperse», riemersa dall’archivio del marito dell’autrice Adam Włodek. Sancendo qui per la prima volta l’autonomia assoluta dell’universo letterario rispetto a quello reale, Szymborska afferma scherzosamente il carattere veridico di ogni narrazione, dal momento che chi scrive non può fare a meno di condividere, soprattutto nei momenti più lieti, le esistenze di carta dei suoi personaggi: «L’autore giura che era lì al banchetto / con gli sposi, a bere vino centenario, / che nel mondo non descritto è troppo caro».
da L’Altravoce il Quotidiano
Il 23 marzo 1944, in un pomeriggio di sole, nella Roma occupata dai nazifascisti, un gruppo di giovani partigiani dei Gap (Gruppi di azione patriottica), organizzazione clandestina armata del Partito Comunista, in via Rasella fa strage di tedeschi. Ritanna Armeni con il suo ultimo romanzo A Roma non ci sono le montagne edito da Ponte alle Grazie, ci catapulta in quel pomeriggio. Protagonisti sono giovani borghesi, colti, studenti, assistenti universitari o docenti, qualche operaio, che hanno scelto la lotta armata contro i tedeschi e i loro servi fascisti, in attesa dell’arrivo degli alleati (4 giugno 1944). Carla Capponi (nome di battaglia Elena), Sasà Bentivoglio (Paolo), Carlo Salinari (Spartaco), Franco Calamandrei (Cola), Maria Teresa Regard (Piera), Mario Fiorentino (Giovanni), Lucia Ottobrini (Maria): sono questi i loro nomi e quel pomeriggio ognuno/a è al proprio posto. Giorgio Amendola, dirigente del Partito comunista e componente del Cnl (Comitato di liberazione nazionale) e Spartaco, comandante del Gruppo, controllano che tutto vada secondo i piani. Tutto doveva avvenire entro le 14.00 quando il battaglione Bozen formato da 150 tedeschi, cantando e marciando, avrebbe attraversato via Rasella, secondo il racconto di Mario e Lucia che dalla loro finestra, ogni giorno, sentivano le voci e il rumore degli stivali. Tutti aspettano. Aspetta Sasà vestito da spazzino con il suo carretto pieno del tritolo portato da Carla, andando su e giù per le strade controllate dai tedeschi. Lei aspetta, con la borsa piena di bombe a mano, davanti al portone del “Messaggero” con un impermeabile al braccio che poi darà a Sasà. Tutti gli altri aspettano con pistole e bombe a mano costruite da Giulio, il giovane laureato in fisica. Perché i romani non prendono le armi, non si ribellano contro gli occupanti che in città seminano terrore e morte? «Perché – risponde l’autrice – a Roma non c’erano le montagne dove nascondersi come i partigiani del resto del Paese. Per nascondersi si poteva contare solo sui portici, sulle strade strette del centro, sui quartieri che in periferia si intrecciavano e si confondevano con le chiese o dei conventi. Le truppe naziste non si annunciavano, apparivano all’improvviso, sfilavano per le strade, perquisivano i cantieri, entravano nei portici. Toglievano il respiro […] sfinivano con la loro presenza». Terrore e odio seminava, insieme ai fascisti, Herbert Kappler, comandante della Gestapo, con arresti e torture. Aveva svuotato il Ghetto e deportato gli ebrei dopo averli ingannati facendosi consegnare 50 chili di oro in cambio della deportazione. Intanto a via Rasella il tempo passa ma dei tedeschi non c’è traccia. Sono alla festa nostalgica dei fascisti per l’anniversario della nascita del Partito (23 marzo 1919). Minuto dopo minuto l’autrice ci rivela i sentimenti contrastanti dei partigiani che stanno per annullare l’operazione militare quando alle 15.45 il battaglione arriva, marciando e cantando. L’esplosione è terribile, una strage (33 morti, un ragazzo lì per caso e molti feriti). I partigiani fuggono, i tedeschi sotto shock reagiscono subito, colpiscono le finestre, entrano nei portoni e nei negozi, fanno saltare le serrature, perquisiscono gli appartamenti, prendono i civili, compresi donne e bambini, separano gli uomini dalle donne. Da Berlino arrivano gli ordini di una rappresaglia esemplare che faccia “tremare il mondo”. Hitler vuole fucilati dai 30 ai 50 italiani per ogni tedesco ucciso, ma per paura di una insurrezione si decide 10. E fu l’eccidio delle Fosse Ardeatine (320 innocenti). Nella ricorrenza di quegli eventi come non pensare a Gaza dove, dopo il massacro del 7 ottobre, la rappresaglia è diventata genocidio di un popolo e le Fosse Ardeatine un abisso di odio, disumanità e morti tra cui migliaia di bambine/i innocenti?
(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 29 marzo 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)
da il manifesto
Per un comunismo della cura di Gian Andrea Franchi edito da DeriveApprodi (pp. 192, euro 18) è un testo fondamentale per chi voglia riflettere sul presente, il recente passato e avere una visione del futuro in cui i fenomeni migratori, per ragioni climatiche e scenari di guerra, sono destinati ad aumentare drasticamente. Franchi è uno dei fondatori di Linea d’Ombra, un’organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 che riunisce gli attivisti che accolgono i profughi della rotta balcanica, diretti soprattutto verso il nord Europa, nella piazza antistante la stazione di Trieste, ribattezzata Piazza del Mondo.
Si tratta di un’esperienza che nasce da un’azione spontanea di Lorena Fornasir che di fronte allo scenario di uomini e donne coi piedi martoriati dal cammino lungo e difficoltoso, decide di occuparsi di quelle ferite, per aiutarli a proseguire nel loro percorso. Del resto, scrive Franchi, «la cura si esprime efficacemente nel contatto fra i corpi».
La cura, come indica il titolo, è uno dei temi fondamentali di questo testo così denso e allo stesso tempo lucido: «la cura è politica o non è cura» chiarisce però Franchi. In un contesto quale quello neoliberista in cui viviamo, la cura viene rimossa perché non è funzionale al sistema capitalista che è, come già Marx indicava, mortifero più che votato alla salvaguardia della vita.
Del resto, come viene chiarito qui, quando a dominare è la produzione e quindi il tempo deve essere interamente votato al profitto, «il lavoro di riproduzione», cioè la cura, viene declassato o reso invisibile, nonostante sia ciò che garantisce la vita della specie umana, risaputamente vulnerabile. Gian Andrea Franchi sottolinea, poi, come la tanto millantata sicurezza, parola entrata nel discorso pubblico ormai da tempo e che sembra essere diventata l’unico obiettivo dei governi occidentali, abbia la sua etimologia nell’assenza di cura, derivando proprio da sine cura. C’è nel modo in cui l’autore descrive l’esperienza nella Piazza del Mondo qualcosa di miracoloso, non tanto per il valore etico evidente di quello che vi accade, ma per la lucidità con la quale analizza il posizionamento di Linea d’Ombra.
Significativamente in diversi punti del testo Franchi chiarisce che occuparsi degli altri significa prendersi cura di sé: «Chiunque si occupi, in qualsiasi chiave, umanitaria o politica di singoli, gruppi o popolazioni che subiscono gli effetti di situazioni tragiche, lo fa, prima di tutto, perché ne riceve senso per la sua esistenza». Linea d’Ombra affronta appunto la cura degli «esuli» scrive Franchi, utilizzando un’espressione che ha rimandi ben diversi da migranti o profughi: gli esuli sono persone che non possono più vivere nel loro paese per ragioni politiche, a loro volta conseguenze delle azioni colonialiste dei governi occidentali.
Per questo, nominandone la complessità e talvolta i risvolti fallimentari, definisce gli incontri con gli esuli un «furto di senso». Esiste, infatti, quella che Franchi chiama «la linea abissale» che separa noi discendenti dai colonizzatori da loro vittime del colonialismo, una differenza che descrive ulteriormente distinguendo la nostra condizione di «avere un corpo» da quella degli esuli di «essere un corpo». «Avere un corpo» comporta che il sistema capitalista lo voglia ingabbiare e controllare, «essere un corpo» impone di aderire al senso dell’esistenza che presuppone la morte, ma non in termini di castrazione estrema, bensì come parte della vita.
Non c’è un punto in questo testo in cui Franchi definisca il sistema neoliberista migliore o auspicabile rispetto al «game» dell’esilio e la sua visione sorge da un’osservazione diretta, dal «farne esperienza».
Nell’epoca contemporanea prevale, però, l’impedimento dell’esperienza, scrive Franchi, a causa di «quel radicale conformismo» dominante, cioè la normalizzazione imposta dal sistema capitalista. È da qui che deriva secondo lui l’indifferenza dilagante che è a sua volta origine del razzismo. Per un comunismo della cura è un testo in cui coesistono riflessioni a partire dall’esperienza, appunto, nella Piazza del Mondo, ma anche maturate dallo studio costante della filosofia, da Marx a Judith Butler. Infatti, Franchi non solo puntualizza come «l’inferiorizzazione razziale delle donne sia stata la prima e più radicale forma di razzismo», ma ribadisce spesso che il femminismo è l’espressione più efficace della politica di Re-esistenza che lui si auspica. «La tenacia nella durata è un’arte assai difficile» scrive ancora Franchi che la pratica nel suo impegno quotidiano con gli esuli a Trieste, nei suoi studi e nel tentativo indefesso e delicato di comprendere la realtà che ci circonda e che spesso ci curiamo di rimuovere.
(il manifesto, 29 marzo 2025, Trieste, la rotta balcanica e quella linea abissale | il manifesto)
da Minima&Moralia
“Se mai un giorno scrivessi un’autobiografia dovrebbe intitolarsi Troppo. Troppo povera, troppo malata, troppo grassa, troppo debole. Per tutta la vita c’è sempre stato qualcosa di me che era troppo poco. Oppure troppo”.
Sono estratti di una confessione tra le pagine di Bugie su mia madre (L’orma, trad. di Flavia Pantanella) di Daniela Dröscher. La scrittrice e drammaturga tedesca si interroga sulla possibilità che ciascuno abbia tre vite: una pubblica, una privata e una segreta, prendendo in prestito le parole di Gerald Martin in Vita di Gabriel García Márquez. Si muove tra passato e presente con continui flashback per narrare gli anni della sua infanzia, segnati dall’infelicità di sua madre, con cui oggi intesse un dialogo per cercare di dare risposte a drammi che le erano in parte incomprensibili da bambina.
L’autrice ripercorre i primi anni Ottanta sino al disastro nucleare di Chernobyl, isolando il periodo del trasferimento della sua famiglia da Monaco a un piccolo centro, Obach. La ristretta dimensione urbana contribuisce a enfatizzare alcuni aspetti affrontati nell’opera, come il peso del pregiudizio, la calunnia, la necessità di perpetuare una finzione continua per salvare le apparenze, la difficoltà a riconoscere le possibilità di emancipazione e l’indipendenza economica femminile (solo nel 1977 alle donne in Germania è riconosciuto il diritto all’autodeterminazione in ambito lavorativo). Dröscher indaga il corpo della madre, lo scarto tra l’armonia con cui la donna convive con la propria fisicità e l’effetto disturbante che quel corpo genera agli occhi del marito e della comunità.
Il corpo di mia madre rappresentava la visibilità in un mondo che puntava tutto sull’invisibilità.
L’atto politico della rivendicazione di sé attraverso il corpo reso nell’immagine di una donna irriverente, ironica, determinata e sicura di sé sul lavoro, che si piace e che avanza con gioia nell’esistenza, si scontra con i limiti di una visione patriarcale grassofobica che imputa a un aspetto fisico difforme rispetto a una presunta norma il motivo primario di imbarazzo e vergogna altrui. L’inesorabile condanna del dimagrimento forzato costringe la donna a una routine umiliante, come doversi pesare ogni sabato mattina davanti al marito (con vani stratagemmi come appoggiarsi al bastone lavapavimenti per alleggerire il peso). Le proibizioni subite sanciscono un’esclusione sociale e famigliare deleteria, come il divieto di partecipare alle vacanze estive al mare o alla cena natalizia di lavoro. Quel corpo diventa il simulacro di ogni fallimento, dalle cause processuali alla mancata promozione aziendale del marito, al faticoso avanzamento sociale nello scarso riconoscimento da parte della piccola comunità.
In un certo senso è come se mio padre, per tutta la vita, avesse confuso mia madre con una casa. Con la differenza che in una casa si possono fare degli interventi di valorizzazione senza chiedere il permesso, sul corpo di un’altra persona no.
Dröscher rintraccia nella dimensione domestica della sua infanzia il prisma attraverso cui osservare lo smarrimento dell’individuo e della società e dare forma a uno studio narrativo sulla scarsa attenzione verso la depressione, l’isolamento sociale, l’insicurezza emotiva; sull’esposizione infantile alla precarietà economica e affettiva con conseguente inversione di ruoli tra genitori e figli; sul mancato riconoscimento del sovraccarico emotivo e fisico di donne imprigionate nei doveri famigliari che trascorrono la maggior parte della vita a mettere da parte desideri e ambizioni in funzione delle responsabilità verso ruoli prestabiliti; sul velo tragico e triste che sovrasta esistenze condivise, trascorse permanendo in una condizione di estraneità reciproca.
Nel Kammerspiel che chiamiamo «famiglia» il bambino spesso finisce per diventare il parafulmine delle forze cui la donna è sottomessa nel patriarcato. Potrei stilare un lungo elenco dei gesti drammatici di mia madre. Il canovaccio scaraventato in cucina. La pentola sbattuta sulla tavola. Il cucchiaio di legno e il grembiule buttati via e lei che se ne va di punto in bianco lasciando ogni cosa sul fuoco. Lei che sale in macchina con lo sguardo inferocito e sfreccia via. Che all’improvviso smette di spazzare e getta la scopa in un angolo. Che si striglia i capelli lisci a colpi di spazzola. Anche mio padre possedeva questa drammaticità. È il linguaggio di tutta una generazione.
Bugie su mia madre si regge su ingrandimenti continui su scene del quotidiano che manifestano la complessità delle dinamiche relazionali, il significato della sorellanza, il ricatto della vacua armonia famigliare che sottende fratture tra accessi d’ira, silenzi e assoluta abnegazione, con miniature pervase di tristezza. Lei affacciata al balcone, che scruta il cielo con occhi nostalgici. Lei che inforna una torta con l’ultimo briciolo di forza che ha in corpo. Lei che sopporta stoicamente il dolore che le provoca ogni movimento. Ma la cosa peggiore era il suo sguardo. Ci brillava dentro una solitudine grave e grigia come il piombo.”
L’autrice si sofferma sul peso di condizionamenti culturali e sociali infestanti persino per il suo sguardo bambino, aggravati dalla diffidenza verso una donna considerata straniera perché figlia di tedeschi di Slesia immigrati nella provincia renana quando lei aveva sei anni. Tale aspetto è centrale nel comprendere la necessità della donna, in una comunità pervasa da stereotipi, di farsi largo anzitutto attraverso una cura estrema per il linguaggio e per la parola esatta, nella convinzione che la lingua sia la moneta in grado di definire l’appartenenza.
La storia personale si fa portatrice di una condizione condivisa per denunciare anche il paradosso esportato dagli Stati Uniti in particolare nel secondo Novecento in merito alla nuova attenzione riservata alla donna come consumatrice protagonista del mercato e al contempo vittima di canoni estetici irraggiungibili. Aspetti analizzati nell’opera attraverso un continuo rimando linguistico, a partire dalla riflessione sul momento in cui corpo e mente decidono di capitolare, rassegnandosi alla resa definitiva di fronte a un potere superiore.
L’opera è anche uno studio sulla figura del padre, su un patriarca non dominante ma insicuro, che vive un rapporto singolare con l’autorità, inesorabilmente assoggettato a una visione del lavoro con meccanismi proiettati sulla famiglia, e in linea con l’ideologia dilagante dal dopoguerra tedesco basata sulla ricostruzione, sul benessere e sul miracolo economico. Segnato dallo spauracchio del passato di povertà, nel desiderare il benessere finanziario l’uomo finisce per incarnare la figura del self-made man con contraddizioni come l’accettazione dello sbilanciamento salariare e dello sfruttamento di alcune tipologie di lavoratori. Nel profondo di tale visione si cela “la psicologia dell’uomo soldatesco, «corazzato», che traccia confini intorno a sé e li difende”.
Leggere Bugie su mia madre permette di interrogarsi sulla profonda attualità delle istanze sollevate dall’autrice nel porre implicitamente a confronto la società di quarant’anni fa e quella odierna a partire dal riconoscimento della necessità di una rivoluzione per contrastare la tendenza del patriarcato ad assoggettare le donne attraverso il controllo dei corpi, con una riflessione sul ruolo della scrittura come mezzo per indagare l’animo umano sulla soglia di menzogna e verità, sostanza e apparenza.
Scrivere non è una fuga. È fare un passo indietro. Fermarsi. Scrivendo posso abitare il confine tra fuggire e combattere. Senza paralizzarmi.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.
(Minima&Moralia, 27 marzo 2025, https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/contro-lassedio-patriarcale-del-corpo-bugie-su-mia-madre-di-daniela-droscher/)
da il Corriere della Sera
Il libro che Viktorija Amelina voleva scrivere era il diario di un’investigatrice di crimini di guerra. Il libro che ha lasciato incompiuto è molto di più. La mattina del 24 febbraio 2022, quando è iniziata l’invasione su larga scala, quando i carri armati russi sono arrivati in un attimo alle porte di Kiev e gli elicotteri hanno cercato di conquistare l’aeroporto strategico di Hostomel’ (senza riuscirci), Viktorija Amelina stava rientrando da una vacanza in Egitto.
Ha scoperto che i voli per l’Ucraina erano stati cancellati, lo spazio aereo chiuso. Per alcune ore si è trovata in un non luogo. Non era nemmeno certo che l’Ucraina esistesse ancora. Da persone, gli ucraini erano «diventati la guerra». Amelina non poteva partire, non poteva restare. Alla fine, insieme ad altri, è riuscita a imbarcarsi su un volo per Praga. Solo dopo l’atterraggio si è messa a piangere. «“Mamma, perché piangi?” chiede mio figlio. “Perché siamo a casa” rispondo. “Ma qui non siamo in Ucraina” dice lui confuso. “Questa è Europa” rispondo».
Amelina lascia il figlio al sicuro in Polonia e prosegue il suo viaggio. Farà avanti e indietro molte volte, ma alla fine deciderà che il suo posto è l’Ucraina invasa, lontano dal figlio. Chiederà a un’altra poeta e autrice di libri per l’infanzia, Kateryna Mikhalitsyna, di aiutarla a trovare le parole giuste per spiegare al figlio quella scelta.
Nella prefazione a “Guardando le donne guardare la guerra” che esce per Guanda, Margaret Atwood parla di Viktorija Amelina come dell’Angelo Registratore, «che annota le buone e le cattive azioni». Definisce la sua scrittura «ispida, urgente, personale, dettagliata e sensuale». Io posso solo aggiungere che ho aspettato a lungo questo libro, ma leggendolo ho dovuto fermarmi più di una volta. Per lasciar depositare, per riprendere fiato.
Nella postfazione, invece, è Amelina stessa a spiegarsi: «Dal 24 febbraio 2022, da scrittrice sono diventata investigatrice di crimini di guerra, e poi ho dovuto imparare a fare entrambi i mestieri per raccontare a voi, al mondo, la storia della ricerca di giustizia da parte della società civile ucraina. Qui dovrebbe esserci anche la storia di come sto reimparando a essere madre per mio figlio di undici anni».
Amelina è cresciuta a Leopoli, accanto a una base militare, ma una parte della sua famiglia abitava a Lugansk, nel Donbass, quindi la sua infanzia si è svolta anche lì. Le zone ora occupate dai russi e che forse, chissà, verranno presto cedute in un negoziato ingiusto, rappresentavano per lei il luogo delle vacanze. L’invasione del 2014 le aveva rese irraggiungibili, aveva messo del filo spinato anche attorno alla memoria di Amelina: la linea di contatto, scrive, «mi separa dalla bambina russificata che sono stata in passato». Di quei luoghi irraggiungibili evoca le notti, l’Orsa Maggiore brillantissima in cielo. «Le stelle per me sono associate all’infanzia e a Lugansk. Sono cresciuta, Lugansk è stata occupata dai russi, il mondo è cambiato ma io non ho imparato a riconoscere nessun’altra costellazione».
Il libro incompiuto è pieno d’immagini così, dove la cronaca si fonde con il privato, la storia con la memoria, e cade ogni barriera fra testimonianza e diario intimo, fra scrittura giornalistica e romanzesca. «Tutto ciò che riguarda la guerra russo-ucraina è personale», ma solo una scrittrice di romanzi e una poeta poteva colmare la distanza residua fra attualità e sentimento che esiste ancora in molti di noi.
È per questo che “Guardando le donne guardare la guerra” sarà il libro sull’invasione dell’Ucraina. Anche fra vent’anni, quando ne saranno stati pubblicati molti altri, più compiuti, formalmente perfetti. Leggendolo, guardiamo una scrittrice guardare la guerra, ma non solo: la guardiamo abitarla, subirla e contrastarla, tentare di comprenderla con ogni strumento intellettuale a sua disposizione. «Ogni istante è pieno di significato e consapevolezza, o addirittura può essere cruciale».
Ci ricordiamo qual è il contributo insostituibile degli scrittori, cosa aggiungono alle migliaia di pagine di cronaca, ai filmati, alle analisi: i dettagli. I dettagli marginali, trascurabili eppure pieni di significato, memorabili. Come il momento in cui Amelina raggiunge la sua casa di Kiev, a pochi chilometri dal fronte, dopo il viaggio faticosissimo dall’Egitto attraverso la Repubblica Ceca e la Polonia, e nella dispensa trova «i biscotti comprati prima dell’invasione», che «non sono ancora andati a male».
Spesso le donne che Amelina intervista, tutte forti, determinate, crollano parlando degli animali. Il racconto ne è pieno. Cani, conigli, mucche e pecore uccise senza motivo, uno scarabeo portato in salvo nel mezzo di un bombardamento. È un tratto comune a molte guerre: le atrocità subite dagli esseri umani raggiungono presto un livello di saturazione emotiva, ma la violenza che si rovescia sugli animali innocenti scatena ancora delle reazioni. Il 12 marzo 2022 Amelina accoglie un’amica giornalista, Olena Stepanenko, alla stazione di Leopoli. Olena è riuscita a fuggire da Buča. Con un distacco raggelante le dice: «Ho visto cose terribili durante la fuga, ma non riesco a ricordarmele». Però si mette a piangere poco dopo, parlando del gatto che ha chiuso in casa nella speranza di tornare a nutrirlo. Olena si augura che i russi abbiano sfondato la porta e lui sia potuto fuggire. Strani, paradossali, i desideri che la guerra produce.
All’improvviso un appunto a pagina 109 ci fa sobbalzare. Amelina scrive: «Lo vedo, il futuro. Certo, possiamo essere colpiti da un Iskander da un momento all’altro, ma in qualche modo io vedo l’Ucraina dopo la guerra». È una premonizione. Un missile Iskander la ucciderà il 27 giugno 2023, mentre si trova nel ristorante Ria di Kramators’k. Un collaboratore dei russi verrà condannato per aver fornito le coordinate del bersaglio. Il resto della premonizione, vedere l’Ucraina dopo la guerra, rimarrà così una fantasia. Lo è ancora. Il tempo che è seguito all’assassinio di Amelina è bastato a finire il volume al suo posto, a tradurlo, a pubblicarlo anche qui, senza che la guerra di fermasse.
Proseguendo, la lettura diventa più difficile. Non solo perché il libro si frantuma in una raccolta di appunti, ma perché proprio la frantumazione lascia scaturire la violenza senza più mediazione, senza ritegno. Le torture, gli stupri, le detenzioni, le deportazioni, le mutilazioni. Le tre curatrici e il curatore di “Guardando le donne” hanno fatto bene a lasciare le frasi di Amelina interrotte, non sarebbe stato giusto confezionare una guerra ancora in corso, tentare di ripulirla. Solo Amelina avrebbe potuto farlo. Se ne avesse avuto il tempo avrebbe lavorato le sue note, levigandole, invece ci vengono consegnate crude, e anche per questo diventano all’istante una parte indispensabile della letteratura europea: «Abbiamo trovato Valya, ma non ne sapeva nulla. L’abbiamo abbracciata, perché ha perso suo figlio, e mi ha dato un sacchetto pieno di noci».
Nelle pagine si trovano molte considerazioni teoriche – su come istituire una nuova Norimberga, sul significato profondo della parola “genocidio” e sui limiti della definizione, sul proprio ruolo di scrittrice-investigatrice – ma non ci viene mai permesso di astrarre la guerra in considerazioni geopolitiche, in fantasie. Subito veniamo risbattuti a terra. Sono i dettagli a farlo, ancora una volta, i dettagli che Amelina raccoglie:
«Balaklija, giugno-agosto 2022: condizioni di detenzione disumane, minacce di essere usato come cavia per lo sminamento, tortura con pistola stordente, percosse con manganelli;
«Vesele: 2 persone, torture per annegamento in un secchio d’acqua… torture per impiccagione, percosse…;
«Husarivka: finte esecuzioni;
«Balaklija, aprile 2022: stupro».
Guardiamo Amelina guardare la guerra, perdere via via la capacità di trasfigurarla, aderire sempre di più al piano di realtà. Diventare in tutto e per tutto un’investigatrice di crimini, attenta al chi, al cosa, al come, al quando, perché la vera giustizia potrà iniziare solo così, da una documentazione meticolosa e ripetitiva, lontana dal sensazionalismo.
Il suo destino si salda a quello degli intellettuali ucraini uccisi in altre epoche. Il Rinascimento Giustiziato degli anni Trenta. Gli scrittori e gli artisti degli anni Sessanta. Vittime dei sovietici, della Russia che desidera più di ogni altra cosa eliminare ogni traccia della cultura ucraina, come se non esistesse. Ma ogni generazione indaga su quello che è accaduto alla precedente, evitando che accada.
In uno dei suoi viaggi di ricerca nelle zone liberate dalla controffensiva, Amelina ha fatto la scoperta più importante della sua vita. Sepolto nella terra del cortile della sua casa di Kapytolivka, ha trovato il diario di Volodymyr Vakulenko, uno scrittore come lei, sequestrato e ucciso dai russi. Ne ha curato la pubblicazione, lo ha mostrato al mondo. Un atto letterario che va oltre la letteratura, un atto civile che va oltre la civiltà.
Nell’ultima pagina di “Guardando le donne” Viktorija – “Vika” per tutti i suoi amici – è sul balcone della casa di Kiev e si accinge a scrivere la prefazione al diario di Vakulenko.
È cosciente che quello sarà il suo contributo alla storia dei massacri che proseguono nei secoli, ma non sa che non sarà il suo contributo più importante. Guardando i missili della contraerea levarsi in cielo annota queste frasi: «Non devo combattere alcuna paura. Non ho più paura di morire. Riesco perfino a immaginare quando tutte le donne che ho raccontato alla fine si incontreranno al mio funerale. Sono così prese a lottare per la giustizia che quella non sarà solo una buona occasione, bensì l’unica. Ma poi mi ricordo che devo ancora finire questo libro, guardare mio figlio crescere e forse, tra qualche anno, anche arruolarmi nell’esercito. Così lascio il mio balcone e questa magnifica seppure pericolosa vista e torno a scrivere».
Il volume
“Guardando le donne guardare la guerra. Diario di una scrittrice dal fronte ucraino”
di Viktorija Amelina (Leopoli, Urss, ora Ucraina, 1° gennaio 1986-Dnipro, Ucraina, 1° luglio 2023) esce il 18 aprile per Guanda (introduzione di Margaret Atwood, traduzione di Yaryna Grusha, pp. 330, euro 20). Viktorija Amelina è stata una scrittrice, saggista e poetessa. Si definiva una “investigatrice di crimini di guerra”. Nel 2021 Amelina aveva vinto il Joseph Conrad Literary Award per le opere in prosa ed era stata finalista allo European Union Prize for Literature e allo UN Women in Arts Award; nel 2024 le è stato assegnato postumo il Prix Voltaire Special Award. È morta quattro giorni dopo essere stata ferita da un attacco russo su Kramators’k.
da Doppiozero
«Anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.» Primo Levi, I sommersi e i salvati
«Se la solidarietà del genere umano deve essere basata su qualcosa di più solido della giustificata paura riguardo alle demoniache capacità dell’uomo, se la nuova e universale vicinanza di tutte le nazioni deve avere come risultato qualcosa di più promettente del terrificante aumento di odio reciproco e di una alquanto generale irritabilità di tutti contro tutti, allora deve verificarsi su scala macroscopica un processo di reciproca conoscenza e di crescente comprensione di sé.» Hannah Arendt, Humanitas mundi
Un duplice esergo, che segue una dedica: «A PalFest e JVP, due fari», dove abbreviazione e acronimo stanno per Palestine Festival of Literature e Jewish Voice for Peace.
Si apre così Il mondo dopo Gaza (tr. it. di Tiziana Lo Porto, Guanda 2025), saggio storico e politico in tre parti più un prologo e un epilogo fulminanti, pubblicato simultaneamente negli Stati Uniti, in Inghilterra, Germania, Spagna, Italia. Ne è autore il saggista e narratore indiano Pankaj Mishra, noto in Italia per i romanzi I romantici (Guanda 2020) e Figli della nuova India (Guanda 2023) e per le sue collaborazioni con le principali testate angloamericane – “Guardian”, “London Review of Books”, “New York Times”, “New Yorker” – e il settimanale italiano “Internazionale”. Nonostante la sua densità e la sua multidisciplinare erudizione, lo si legge in un soffio, come se la passione e la magnifica penna narrativa di Mishra, il suo sguardo acuto e sghembo di “osservatore distante”, la sua dichiarata alterità culturale producessero nel lettore occidentale quel tipo di spaesamento fertile che si prova quando ci si scopre non più detentori assoluti della visione e dunque dell’interpretazione.
Pankaj Mishra conosce perfettamente la storia occidentale, l’ha studiata, letta, osservata, potremmo dire che l’ha vissuta sulla propria pelle come cittadino di un paese che è stato colonia dell’Impero britannico fino al 15 agosto del 1947, giorno in cui fu proclamata l’indipendenza e sancita la partizione del subcontinente indiano in due stati sovrani, il Pakistan (poi Repubblica islamica del Pakistan) e l’Unione dell’India (poi Repubblica dell’India).
La sua dunque è una “posizione eccentrica”, che gli permette di non impigliarsi nelle storie altrui, ma di riconoscersi in esse per via di comparazione, empatia e immaginazione. La sua prospettiva non è la nostra: è più ampia, meno locale. E tuttavia ciò che ha segnato il nostro orizzonte storico lo interpella al punto da farglielo sentire anche suo. Lo sapevamo, vero, che il Centro – troppo a lungo ritenuto coincidente con l’Occidente – è così autoriferito da essere cieco? È dai cosiddetti margini, la porzione più grande di mondo, che si vede con nitidezza. In questo particolare momento della storia ciò che da lì si vede deve essere assai simile a una mischia per vedere chi è il più forte.
Il mondo e Gaza, dunque. Da un lato, uno spazio geografico immenso e un’entità politica variegata, disomogenea, conflittuale; dall’altro, un’esile striscia di terra, 360 km² in tutto, oggi in via di rapido, progressivo restringimento. Una popolazione complessiva di oltre 8,2 miliardi di persone (dati aggiornati al 21 marzo 2025) contro una popolazione di 2 milioni e trecentomila persone (dati ottobre 2023), oggi falcidiata dall’operazione “Spade di ferro” condotta dalle forze armate israeliane a partire dall’ottobre del 2023 e dall’evacuazione in corso con il beneplacito dell’Occidente e dei paesi arabi.
Tra i due termini, l’autore ha scelto di collocare un avverbio di tempo: dopo. Come se Gaza non fosse un luogo, ma un evento periodizzante, uno spartiacque epocale che disegna una nuova, disastrosa cartografia. Trasformata in camera della morte, sottoposta a una radicale opera di sbancamento, la Striscia parla di un prima in via di cancellazione e di un dopo che alternativamente somiglia – per usare i termini adottati dal primo ministro di Israele e dal presidente degli Stati Uniti – a un “inferno” e a un gigantesco “cantiere”.
Per Pankaj Mishra tale scansione temporale non riguarda solo quel lembo di terra e il popolo che lo abita, bensì appunto il mondo e tutte e tutti noi. «Le mie origini indiane e il mio interesse per le società non occidentali», scrive, «mi hanno predisposto a guardare all’apocalisse razziale europea di metà Novecento insieme, piuttosto che separatamente, ad altre atrocità subite dalle minoranze e dai popoli colonizzati nell’era moderna». È questo che gli permette di individuare il «dispotismo intellettuale» che oggi governa il pensiero e le azioni delle istituzioni occidentali e di reagire scrivendo un libro il cui fine è «alleviare il mio sconcerto di fronte al degrado morale generalizzato e invitare i lettori ad approfondire, a cercare spiegazioni più urgenti che mai in questo periodo buio».
La sua è altresì una motivazione personale: non si può essere spettatori silenti e passivi della barbarie senza esserne corresponsabili. Movente e motore della scrittura sono dunque «il senso di colpa, una condizione umana diffusa dopo la distruzione in diretta di Gaza, e il dovere che i vivi hanno nei confronti dei morti innocenti».
Per capire bene la magnitudine e il coraggio dell’operazione compiuta da Mishra va detto che il suo saggio può essere letto come un romanzo di formazione: dall’originaria fascinazione per il nascente stato di Israele del 1947/48 e le sue successive imprese di conquista territoriale alla consapevolezza sempre più critica della natura coloniale del progetto sionista in terra di Palestina. «Crescendo in India negli anni Settanta», scrive Mishra, «avevo sulla parete una foto di Moshe Dayan, ministro della Difesa israeliano durante la Guerra dei sei giorni», aggiungendo subito dopo che quell’infatuazione per gli eroi israeliani «era irresistibile anche perché in India era fascinosamente illecita». Ed ecco il personale autobiografico intrecciarsi per contrapposizione all’allineamento politico dell’India di Nehru, che insieme all’Iran e alla Jugoslavia sostiene un piano per includere due stati autonomi, uno arabo e l’altro ebraico, in una Palestina federale unificata. Bocciato quel piano, l’India si unirà ai paesi asiatici e africani votando contro la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite, che il 27 novembre 1947 approvano il Piano di partizione della Palestina, e fino al 1992 resterà saldamente dalla parte dei palestinesi e dei loro diritti di popolo usurpato.
Nella prima parte del saggio, intitolata “L’aldilà della Shoah”, Mishra indica altresì un diverso intreccio, che potremmo definire generazionale e transculturale. La sua educazione sentimentale alla storia e alla geopolitica avviene sulle stesse opere che all’epoca facevano piangere e sognare gli adolescenti d’Europa e d’America: Exodus di Leon Uris, Dossier Odessa di Frederick Forsyth, 90 minuti a Entebbe di William Stevenson. Il “discorso” fortemente persuasivo e toccante in cui l’Olocausto si inquadra a livello globale ha finito per eclissare la storia e il ruolo modernizzante giocato dagli ebrei proprio là dove sono stati sterminati, cancellandoli due volte. «Di certo», commenta Mishra, «nessun gentile poteva competere in quanto a passione per l’uguaglianza con Karl Marx, Rosa Luxemburg e Lev Trockij. In tutto l’Occidente molti tra coloro che sostenevano i diritti uguali e inalienabili dell’uomo e i concetti di legge naturale universale e sovranità popolare erano ebrei. Ma questa identificazione con il cosmopolitismo liberale e l’universalismo sociale non fece altro che contribuire ulteriormente a identificare gli ebrei con tutti gli odiati turbamenti dell’umanità».
C’è, in questa prima parte del libro, una messe di citazioni che si propongono come una sorta di bibliografia ideale – da Einstein a Freud, Arendt, Zweig, Amery, Levi, Klemperer, Musil, Bauman – contro la tentazione nazionalistica. Nel 1919 Zweig, oppositore del sionismo immaginato da Herzl, scrive: «Politicamente vedo il compito degli ebrei nello sradicare il nazionalismo in tutti i paesi». E Victor Klemperer, autore di LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, nel 1934 annota nel suo diario: «Per me i sionisti, che vogliono tornare allo stato ebraico del 70 d. C. (distruzione di Gerusalemme da parte di Tito), sono offensivi tanto quanto i nazisti. Con il loro fiuto per il sangue, le loro antiche “radici culturali”, il loro in parte snob, in parte ottuso riavvolgere il mondo, sono assolutamente tali e quali ai nazionalsocialisti». E nel 1939 ribadisce: «Le comunità ebraiche in Germania oggi sono tutte fortemente inclini al sionismo, e a me sta bene quanto potrebbe starmi bene il nazionalsocialismo o il bolscevismo. Liberale e tedesco per sempre».
Nella seconda parte del saggio, intitolata “Ricordare per ricordare la Shoah”, Mishra affronta di petto due temi scomodissimi: da un lato, la mancata denazificazione della Germania e al contempo la sua non paradossale transizione «dall’antisemitismo al filosemitismo»; dall’altro, «l’americanizzazione dell’Olocausto». Quello che ci propone è un ragionamento sulla memoria e sulla sua strumentale manipolazione. Il nazismo, ci ricorda l’autore, oltre alla sua opera di sterminio, ha creato centinaia di migliaia di rifugiati. «Ma né il dipartimento di stato americano né il ministero degli Affari Esteri britannico desideravano salvarli. Al contrario: temevano costantemente, e lavoravano per evitarla, una situazione in cui la Germania e le potenze del suo schieramento avrebbero costretto decine di migliaia di ebrei a consegnarsi nelle mani degli Alleati.»
Ecco perché, oggi, è indispensabile indagare tanto l’aspetto morale e ideologico della simbiosi americano-israeliana quanto l’irrigidimento filoisraeliano della Germania. A che cosa e a chi giova quel patto, che non può essere solo frutto di un senso di colpa inestirpabile. Come si spiegherebbe, se no, che quei due paesi siano così ciechi e consenzienti, se non direttamente complici, del genocidio in atto a Gaza e del piano di espulsione e annessione che sta investendo la Cisgiordania? E se, si domanda Mishra, Israele facesse da testa di ponte ridisegnando la morale e indicando un futuro in cui le regole democratiche maturate nel secondo dopoguerra non valgono più? Che sia un caso che le tecniche di “contenimento” e repressione delle IDF siano migrate nelle strade dei quartieri neri e ispanici degli USA, nelle piazze della contestazione studentesca a fianco della resistenza palestinese, ai confini sempre più vigilati dell’Occidente?
Tenete d’occhio «la linea del colore», suggerisce l’indiano Mishra, e dal magma nebuloso del presente comincerete a vedere affiorare forme chiare e distinte: l’“altro”, il nemico interno ed esterno, lo straniero, l’immigrato, il richiedente asilo, colui/colei che attenta alla bianchezza e ai suoi privilegi.
Ed è su questo punto che il saggio si chiude, sull’incapacità di un Occidente sempre più inconsistente e inquieto di andare “Al di là della linea del colore”, di prendere in considerazione «che l’evento più importante del Ventesimo secolo potesse non essere la Prima o la Seconda guerra mondiale, la Shoah, la Guerra Fredda o, per estensione, il crollo del comunismo, bensì la decolonizzazione». Schematici, pigri o forse semplicemente autoriferiti, gli opinionisti occidentali della seconda metà del secolo scorso, cresciuti in «un mondo privo di scelte difficili, economiche o politiche» si sono assestati nella comoda riorganizzazione post-1945 in tre sfere geopolitiche: l’Occidente, l’Unione Sovietica e il Terzo Mondo. Attribuendo alle democrazie occidentali il ruolo di garanti della libertà e di rappresentanti della civiltà di contro a nemici totalitari o autoritari e, a partire dagli anni Novanta, irreversibilmente votati al terrorismo, parola passe-partout o chiave universale per indicare ogni forma di resistenza, insubordinazione, rivolta. Un mondo sempre più in bianco e nero, conclude Mishra, sempre più diviso in “noi” e “loro”.
Il confine tra etnie, religioni, razze è tuttavia del tutto artificiale, poroso e instabile. Per renderlo invalicabile è necessario fare un assillante lavoro di propaganda. Ed è qui, con un atto di omaggio tra i più commoventi del libro, che lo scrittore cede la parola all’autore di I sommersi e i salvati: «Primo Levi avvertiva nel suo ultimo libro che anche le testimonianze dei sopravvissuti, “al di là della pietà e dell’indignazione che suscitano”, dovrebbero essere lette con “occhio critico”», dal momento che la memoria tende a una stilizzazione e a una semplificazione eccessiva. Levi deplorava la «tendenza manichea» nei resoconti storici «che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro».
Eppure quella tendenza è di nuovo tra noi ed è particolarmente insidiosa, perché nasce dalla paura, da un vero e proprio panico da “sostituzione”, come se non ci fosse spazio per noi e loro insieme. Il paradigma di Gaza non illustra proprio questo? Una furia di annientamento, contagiosa perché – ove necessario – ogni Occidente è capace di crearsi il proprio irredimibile “altro” e di attrezzarsi per sterminarlo. A questa «psicosi di sopravvivenza», che ha prodotto «i crimini di Gaza e i numerosi atti di complicità e voluta indifferenza che li hanno resi possibili», stanno oggi rispondendo, proprio nel cuore dell’Occidente, i più giovani. Feriti nell’anima da un mondo che inscena con orgoglio lo sterminio “giustificato” di bambini, donne e uomini innocenti, i ragazzi e le ragazze – ed è su questa nota che conclude Mishra – non esitano a scendere in piazza. «Non hanno fatto, e probabilmente non faranno, cambiare idea all’indurita opinione pubblica occidentale. […] Ma le manifestazioni di indignazione e gli atti di solidarietà che hanno avuto luogo in questi mesi potrebbero avere in qualche modo alleviato la grande solitudine del popolo palestinese.»
Per approfondire
Segnalo, accanto all’imperdibile libro di Pankaj Mishra, il “dopo Gaza” delineato da una serie di altre preziose pubblicazioni degli ultimi mesi:
– Raja Shehadeh, Che cosa teme Israele dalla Palestina? (Einaudi, 2024)
– Samah Jabr, Il tempo del genocidio. Rendere testimonianza di un anno in Palestina (Sensibili alle foglie, 2024)
-Jean-Pierre Filiu, Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vinto (Einaudi, 2025)
– Lorenzo Kamel, Israele-Palestina in trentasei risposte (Einaudi, 2025)
– AA.VV., Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza (Fazi, 2025)
– Rashid Khalidi, Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza (Laterza, 2025)