da Minima&Moralia

“Se mai un giorno scrivessi un’autobiografia dovrebbe intitolarsi Troppo. Troppo povera, troppo malata, troppo grassa, troppo debole. Per tutta la vita c’è sempre stato qualcosa di me che era troppo poco. Oppure troppo”.

Sono estratti di una confessione tra le pagine di Bugie su mia madre (L’orma, trad. di Flavia Pantanella) di Daniela Dröscher. La scrittrice e drammaturga tedesca si interroga sulla possibilità che ciascuno abbia tre vite: una pubblica, una privata e una segreta, prendendo in prestito le parole di Gerald Martin in Vita di Gabriel García Márquez. Si muove tra passato e presente con continui flashback per narrare gli anni della sua infanzia, segnati dall’infelicità di sua madre, con cui oggi intesse un dialogo per cercare di dare risposte a drammi che le erano in parte incomprensibili da bambina.

L’autrice ripercorre i primi anni Ottanta sino al disastro nucleare di Chernobyl, isolando il periodo del trasferimento della sua famiglia da Monaco a un piccolo centro, Obach. La ristretta dimensione urbana contribuisce a enfatizzare alcuni aspetti affrontati nell’opera, come il peso del pregiudizio, la calunnia, la necessità di perpetuare una finzione continua per salvare le apparenze, la difficoltà a riconoscere le possibilità di emancipazione e l’indipendenza economica femminile (solo nel 1977 alle donne in Germania è riconosciuto il diritto all’autodeterminazione in ambito lavorativo). Dröscher indaga il corpo della madre, lo scarto tra l’armonia con cui la donna convive con la propria fisicità e l’effetto disturbante che quel corpo genera agli occhi del marito e della comunità.

Il corpo di mia madre rappresentava la visibilità in un mondo che puntava tutto sull’invisibilità.

L’atto politico della rivendicazione di sé attraverso il corpo reso nell’immagine di una donna irriverente, ironica, determinata e sicura di sé sul lavoro, che si piace e che avanza con gioia nell’esistenza, si scontra con i limiti di una visione patriarcale grassofobica che imputa a un aspetto fisico difforme rispetto a una presunta norma il motivo primario di imbarazzo e vergogna altrui. L’inesorabile condanna del dimagrimento forzato costringe la donna a una routine umiliante, come doversi pesare ogni sabato mattina davanti al marito (con vani stratagemmi come appoggiarsi al bastone lavapavimenti per alleggerire il peso). Le proibizioni subite sanciscono un’esclusione sociale e famigliare deleteria, come il divieto di partecipare alle vacanze estive al mare o alla cena natalizia di lavoro. Quel corpo diventa il simulacro di ogni fallimento, dalle cause processuali alla mancata promozione aziendale del marito, al faticoso avanzamento sociale nello scarso riconoscimento da parte della piccola comunità.

In un certo senso è come se mio padre, per tutta la vita, avesse confuso mia madre con una casa. Con la differenza che in una casa si possono fare degli interventi di valorizzazione senza chiedere il permesso, sul corpo di un’altra persona no.

Dröscher rintraccia nella dimensione domestica della sua infanzia il prisma attraverso cui osservare lo smarrimento dell’individuo e della società e dare forma a uno studio narrativo sulla scarsa attenzione verso la depressione, l’isolamento sociale, l’insicurezza emotiva; sull’esposizione infantile alla precarietà economica e affettiva con conseguente inversione di ruoli tra genitori e figli; sul mancato riconoscimento del sovraccarico emotivo e fisico di donne imprigionate nei doveri famigliari che trascorrono la maggior parte della vita a mettere da parte desideri e ambizioni in funzione delle responsabilità verso ruoli prestabiliti; sul velo tragico e triste che sovrasta esistenze condivise, trascorse permanendo in una condizione di estraneità reciproca.

Nel Kammerspiel che chiamiamo «famiglia» il bambino spesso finisce per diventare il parafulmine delle forze cui la donna è sottomessa nel patriarcato. Potrei stilare un lungo elenco dei gesti drammatici di mia madre. Il canovaccio scaraventato in cucina. La pentola sbattuta sulla tavola. Il cucchiaio di legno e il grembiule buttati via e lei che se ne va di punto in bianco lasciando ogni cosa sul fuoco. Lei che sale in macchina con lo sguardo inferocito e sfreccia via. Che all’improvviso smette di spazzare e getta la scopa in un angolo. Che si striglia i capelli lisci a colpi di spazzola. Anche mio padre possedeva questa drammaticità. È il linguaggio di tutta una generazione.

Bugie su mia madre si regge su ingrandimenti continui su scene del quotidiano che manifestano la complessità delle dinamiche relazionali, il significato della sorellanza, il ricatto della vacua armonia famigliare che sottende fratture tra accessi d’ira, silenzi e assoluta abnegazione, con miniature pervase di tristezza. Lei affacciata al balcone, che scruta il cielo con occhi nostalgici. Lei che inforna una torta con l’ultimo briciolo di forza che ha in corpo. Lei che sopporta stoicamente il dolore che le provoca ogni movimento. Ma la cosa peggiore era il suo sguardo. Ci brillava dentro una solitudine grave e grigia come il piombo.”

L’autrice si sofferma sul peso di condizionamenti culturali e sociali infestanti persino per il suo sguardo bambino, aggravati dalla diffidenza verso una donna considerata straniera perché figlia di tedeschi di Slesia immigrati nella provincia renana quando lei aveva sei anni. Tale aspetto è centrale nel comprendere la necessità della donna, in una comunità pervasa da stereotipi, di farsi largo anzitutto attraverso una cura estrema per il linguaggio e per la parola esatta, nella convinzione che la lingua sia la moneta in grado di definire l’appartenenza.

La storia personale si fa portatrice di una condizione condivisa per denunciare anche il paradosso esportato dagli Stati Uniti in particolare nel secondo Novecento in merito alla nuova attenzione riservata alla donna come consumatrice protagonista del mercato e al contempo vittima di canoni estetici irraggiungibili. Aspetti analizzati nell’opera attraverso un continuo rimando linguistico, a partire dalla riflessione sul momento in cui corpo e mente decidono di capitolare, rassegnandosi alla resa definitiva di fronte a un potere superiore.

L’opera è anche uno studio sulla figura del padre, su un patriarca non dominante ma insicuro, che vive un rapporto singolare con l’autorità, inesorabilmente assoggettato a una visione del lavoro con meccanismi proiettati sulla famiglia, e in linea con l’ideologia dilagante dal dopoguerra tedesco basata sulla ricostruzione, sul benessere e sul miracolo economico. Segnato dallo spauracchio del passato di povertà, nel desiderare il benessere finanziario l’uomo finisce per incarnare la figura del self-made man con contraddizioni come l’accettazione dello sbilanciamento salariare e dello sfruttamento di alcune tipologie di lavoratori. Nel profondo di tale visione si cela “la psicologia dell’uomo soldatesco, «corazzato», che traccia confini intorno a sé e li difende”.

Leggere Bugie su mia madre permette di interrogarsi sulla profonda attualità delle istanze sollevate dall’autrice nel porre implicitamente a confronto la società di quarant’anni fa e quella odierna a partire dal riconoscimento della necessità di una rivoluzione per contrastare la tendenza del patriarcato ad assoggettare le donne attraverso il controllo dei corpi, con una riflessione sul ruolo della scrittura come mezzo per indagare l’animo umano sulla soglia di menzogna e verità, sostanza e apparenza.

Scrivere non è una fuga. È fare un passo indietro. Fermarsi. Scrivendo posso abitare il confine tra fuggire e combattere. Senza paralizzarmi.

Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.

(Minima&Moralia, 27 marzo 2025, https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/contro-lassedio-patriarcale-del-corpo-bugie-su-mia-madre-di-daniela-droscher/)

da il Corriere della Sera

Il libro che Viktorija Amelina voleva scrivere era il diario di un’investigatrice di crimini di guerra. Il libro che ha lasciato incompiuto è molto di più. La mattina del 24 febbraio 2022, quando è iniziata l’invasione su larga scala, quando i carri armati russi sono arrivati in un attimo alle porte di Kiev e gli elicotteri hanno cercato di conquistare l’aeroporto strategico di Hostomel’ (senza riuscirci), Viktorija Amelina stava rientrando da una vacanza in Egitto.

Ha scoperto che i voli per l’Ucraina erano stati cancellati, lo spazio aereo chiuso. Per alcune ore si è trovata in un non luogo. Non era nemmeno certo che l’Ucraina esistesse ancora. Da persone, gli ucraini erano «diventati la guerra». Amelina non poteva partire, non poteva restare. Alla fine, insieme ad altri, è riuscita a imbarcarsi su un volo per Praga. Solo dopo l’atterraggio si è messa a piangere. «“Mamma, perché piangi?” chiede mio figlio. “Perché siamo a casa” rispondo. “Ma qui non siamo in Ucraina” dice lui confuso. “Questa è Europa” rispondo».

Amelina lascia il figlio al sicuro in Polonia e prosegue il suo viaggio. Farà avanti e indietro molte volte, ma alla fine deciderà che il suo posto è l’Ucraina invasa, lontano dal figlio. Chiederà a un’altra poeta e autrice di libri per l’infanzia, Kateryna Mikhalitsyna, di aiutarla a trovare le parole giuste per spiegare al figlio quella scelta.

Nella prefazione a “Guardando le donne guardare la guerra” che esce per Guanda, Margaret Atwood parla di Viktorija Amelina come dell’Angelo Registratore, «che annota le buone e le cattive azioni». Definisce la sua scrittura «ispida, urgente, personale, dettagliata e sensuale». Io posso solo aggiungere che ho aspettato a lungo questo libro, ma leggendolo ho dovuto fermarmi più di una volta. Per lasciar depositare, per riprendere fiato.

Nella postfazione, invece, è Amelina stessa a spiegarsi: «Dal 24 febbraio 2022, da scrittrice sono diventata investigatrice di crimini di guerra, e poi ho dovuto imparare a fare entrambi i mestieri per raccontare a voi, al mondo, la storia della ricerca di giustizia da parte della società civile ucraina. Qui dovrebbe esserci anche la storia di come sto reimparando a essere madre per mio figlio di undici anni».

Amelina è cresciuta a Leopoli, accanto a una base militare, ma una parte della sua famiglia abitava a Lugansk, nel Donbass, quindi la sua infanzia si è svolta anche lì. Le zone ora occupate dai russi e che forse, chissà, verranno presto cedute in un negoziato ingiusto, rappresentavano per lei il luogo delle vacanze. L’invasione del 2014 le aveva rese irraggiungibili, aveva messo del filo spinato anche attorno alla memoria di Amelina: la linea di contatto, scrive, «mi separa dalla bambina russificata che sono stata in passato». Di quei luoghi irraggiungibili evoca le notti, l’Orsa Maggiore brillantissima in cielo. «Le stelle per me sono associate all’infanzia e a Lugansk. Sono cresciuta, Lugansk è stata occupata dai russi, il mondo è cambiato ma io non ho imparato a riconoscere nessun’altra costellazione».

Il libro incompiuto è pieno d’immagini così, dove la cronaca si fonde con il privato, la storia con la memoria, e cade ogni barriera fra testimonianza e diario intimo, fra scrittura giornalistica e romanzesca. «Tutto ciò che riguarda la guerra russo-ucraina è personale», ma solo una scrittrice di romanzi e una poeta poteva colmare la distanza residua fra attualità e sentimento che esiste ancora in molti di noi.

È per questo che “Guardando le donne guardare la guerra” sarà il libro sull’invasione dell’Ucraina. Anche fra vent’anni, quando ne saranno stati pubblicati molti altri, più compiuti, formalmente perfetti. Leggendolo, guardiamo una scrittrice guardare la guerra, ma non solo: la guardiamo abitarla, subirla e contrastarla, tentare di comprenderla con ogni strumento intellettuale a sua disposizione. «Ogni istante è pieno di significato e consapevolezza, o addirittura può essere cruciale».

Ci ricordiamo qual è il contributo insostituibile degli scrittori, cosa aggiungono alle migliaia di pagine di cronaca, ai filmati, alle analisi: i dettagli. I dettagli marginali, trascurabili eppure pieni di significato, memorabili. Come il momento in cui Amelina raggiunge la sua casa di Kiev, a pochi chilometri dal fronte, dopo il viaggio faticosissimo dall’Egitto attraverso la Repubblica Ceca e la Polonia, e nella dispensa trova «i biscotti comprati prima dell’invasione», che «non sono ancora andati a male».

Spesso le donne che Amelina intervista, tutte forti, determinate, crollano parlando degli animali. Il racconto ne è pieno. Cani, conigli, mucche e pecore uccise senza motivo, uno scarabeo portato in salvo nel mezzo di un bombardamento. È un tratto comune a molte guerre: le atrocità subite dagli esseri umani raggiungono presto un livello di saturazione emotiva, ma la violenza che si rovescia sugli animali innocenti scatena ancora delle reazioni. Il 12 marzo 2022 Amelina accoglie un’amica giornalista, Olena Stepanenko, alla stazione di Leopoli. Olena è riuscita a fuggire da Buča. Con un distacco raggelante le dice: «Ho visto cose terribili durante la fuga, ma non riesco a ricordarmele». Però si mette a piangere poco dopo, parlando del gatto che ha chiuso in casa nella speranza di tornare a nutrirlo. Olena si augura che i russi abbiano sfondato la porta e lui sia potuto fuggire. Strani, paradossali, i desideri che la guerra produce.

All’improvviso un appunto a pagina 109 ci fa sobbalzare. Amelina scrive: «Lo vedo, il futuro. Certo, possiamo essere colpiti da un Iskander da un momento all’altro, ma in qualche modo io vedo l’Ucraina dopo la guerra». È una premonizione. Un missile Iskander la ucciderà il 27 giugno 2023, mentre si trova nel ristorante Ria di Kramators’k. Un collaboratore dei russi verrà condannato per aver fornito le coordinate del bersaglio. Il resto della premonizione, vedere l’Ucraina dopo la guerra, rimarrà così una fantasia. Lo è ancora. Il tempo che è seguito all’assassinio di Amelina è bastato a finire il volume al suo posto, a tradurlo, a pubblicarlo anche qui, senza che la guerra di fermasse.

Proseguendo, la lettura diventa più difficile. Non solo perché il libro si frantuma in una raccolta di appunti, ma perché proprio la frantumazione lascia scaturire la violenza senza più mediazione, senza ritegno. Le torture, gli stupri, le detenzioni, le deportazioni, le mutilazioni. Le tre curatrici e il curatore di “Guardando le donne” hanno fatto bene a lasciare le frasi di Amelina interrotte, non sarebbe stato giusto confezionare una guerra ancora in corso, tentare di ripulirla. Solo Amelina avrebbe potuto farlo. Se ne avesse avuto il tempo avrebbe lavorato le sue note, levigandole, invece ci vengono consegnate crude, e anche per questo diventano all’istante una parte indispensabile della letteratura europea: «Abbiamo trovato Valya, ma non ne sapeva nulla. L’abbiamo abbracciata, perché ha perso suo figlio, e mi ha dato un sacchetto pieno di noci».

Nelle pagine si trovano molte considerazioni teoriche – su come istituire una nuova Norimberga, sul significato profondo della parola “genocidio” e sui limiti della definizione, sul proprio ruolo di scrittrice-investigatrice – ma non ci viene mai permesso di astrarre la guerra in considerazioni geopolitiche, in fantasie. Subito veniamo risbattuti a terra. Sono i dettagli a farlo, ancora una volta, i dettagli che Amelina raccoglie:

«Balaklija, giugno-agosto 2022: condizioni di detenzione disumane, minacce di essere usato come cavia per lo sminamento, tortura con pistola stordente, percosse con manganelli;

«Vesele: 2 persone, torture per annegamento in un secchio d’acqua… torture per impiccagione, percosse…;

«Husarivka: finte esecuzioni;

«Balaklija, aprile 2022: stupro».

Guardiamo Amelina guardare la guerra, perdere via via la capacità di trasfigurarla, aderire sempre di più al piano di realtà. Diventare in tutto e per tutto un’investigatrice di crimini, attenta al chi, al cosa, al come, al quando, perché la vera giustizia potrà iniziare solo così, da una documentazione meticolosa e ripetitiva, lontana dal sensazionalismo.

Il suo destino si salda a quello degli intellettuali ucraini uccisi in altre epoche. Il Rinascimento Giustiziato degli anni Trenta. Gli scrittori e gli artisti degli anni Sessanta. Vittime dei sovietici, della Russia che desidera più di ogni altra cosa eliminare ogni traccia della cultura ucraina, come se non esistesse. Ma ogni generazione indaga su quello che è accaduto alla precedente, evitando che accada.

In uno dei suoi viaggi di ricerca nelle zone liberate dalla controffensiva, Amelina ha fatto la scoperta più importante della sua vita. Sepolto nella terra del cortile della sua casa di Kapytolivka, ha trovato il diario di Volodymyr Vakulenko, uno scrittore come lei, sequestrato e ucciso dai russi. Ne ha curato la pubblicazione, lo ha mostrato al mondo. Un atto letterario che va oltre la letteratura, un atto civile che va oltre la civiltà.

Nell’ultima pagina di “Guardando le donne” Viktorija – “Vika” per tutti i suoi amici – è sul balcone della casa di Kiev e si accinge a scrivere la prefazione al diario di Vakulenko.

È cosciente che quello sarà il suo contributo alla storia dei massacri che proseguono nei secoli, ma non sa che non sarà il suo contributo più importante. Guardando i missili della contraerea levarsi in cielo annota queste frasi: «Non devo combattere alcuna paura. Non ho più paura di morire. Riesco perfino a immaginare quando tutte le donne che ho raccontato alla fine si incontreranno al mio funerale. Sono così prese a lottare per la giustizia che quella non sarà solo una buona occasione, bensì l’unica. Ma poi mi ricordo che devo ancora finire questo libro, guardare mio figlio crescere e forse, tra qualche anno, anche arruolarmi nell’esercito. Così lascio il mio balcone e questa magnifica seppure pericolosa vista e torno a scrivere».

Il volume

“Guardando le donne guardare la guerra. Diario di una scrittrice dal fronte ucraino”

di Viktorija Amelina (Leopoli, Urss, ora Ucraina, 1° gennaio 1986-Dnipro, Ucraina, 1° luglio 2023) esce il 18 aprile per Guanda (introduzione di Margaret Atwood, traduzione di Yaryna Grusha, pp. 330, euro 20). Viktorija Amelina è stata una scrittrice, saggista e poetessa. Si definiva una “investigatrice di crimini di guerra”. Nel 2021 Amelina aveva vinto il Joseph Conrad Literary Award per le opere in prosa ed era stata finalista allo European Union Prize for Literature e allo UN Women in Arts Award; nel 2024 le è stato assegnato postumo il Prix Voltaire Special Award. È morta quattro giorni dopo essere stata ferita da un attacco russo su Kramators’k.

da Doppiozero

«Anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.» Primo Levi, I sommersi e i salvati

«Se la solidarietà del genere umano deve essere basata su qualcosa di più solido della giustificata paura riguardo alle demoniache capacità dell’uomo, se la nuova e universale vicinanza di tutte le nazioni deve avere come risultato qualcosa di più promettente del terrificante aumento di odio reciproco e di una alquanto generale irritabilità di tutti contro tutti, allora deve verificarsi su scala macroscopica un processo di reciproca conoscenza e di crescente comprensione di sé.» Hannah Arendt, Humanitas mundi

Un duplice esergo, che segue una dedica: «A PalFest e JVP, due fari», dove abbreviazione e acronimo stanno per Palestine Festival of Literature e Jewish Voice for Peace.

Si apre così Il mondo dopo Gaza (tr. it. di Tiziana Lo Porto, Guanda 2025), saggio storico e politico in tre parti più un prologo e un epilogo fulminanti, pubblicato simultaneamente negli Stati Uniti, in Inghilterra, Germania, Spagna, Italia. Ne è autore il saggista e narratore indiano Pankaj Mishra, noto in Italia per i romanzi I romantici (Guanda 2020) e Figli della nuova India (Guanda 2023) e per le sue collaborazioni con le principali testate angloamericane – “Guardian”, “London Review of Books”, “New York Times”, “New Yorker” – e il settimanale italiano “Internazionale”. Nonostante la sua densità e la sua multidisciplinare erudizione, lo si legge in un soffio, come se la passione e la magnifica penna narrativa di Mishra, il suo sguardo acuto e sghembo di “osservatore distante”, la sua dichiarata alterità culturale producessero nel lettore occidentale quel tipo di spaesamento fertile che si prova quando ci si scopre non più detentori assoluti della visione e dunque dell’interpretazione.

Pankaj Mishra conosce perfettamente la storia occidentale, l’ha studiata, letta, osservata, potremmo dire che l’ha vissuta sulla propria pelle come cittadino di un paese che è stato colonia dell’Impero britannico fino al 15 agosto del 1947, giorno in cui fu proclamata l’indipendenza e sancita la partizione del subcontinente indiano in due stati sovrani, il Pakistan (poi Repubblica islamica del Pakistan) e l’Unione dell’India (poi Repubblica dell’India).

La sua dunque è una “posizione eccentrica”, che gli permette di non impigliarsi nelle storie altrui, ma di riconoscersi in esse per via di comparazione, empatia e immaginazione. La sua prospettiva non è la nostra: è più ampia, meno locale. E tuttavia ciò che ha segnato il nostro orizzonte storico lo interpella al punto da farglielo sentire anche suo. Lo sapevamo, vero, che il Centro – troppo a lungo ritenuto coincidente con l’Occidente – è così autoriferito da essere cieco? È dai cosiddetti margini, la porzione più grande di mondo, che si vede con nitidezza. In questo particolare momento della storia ciò che da lì si vede deve essere assai simile a una mischia per vedere chi è il più forte.

Il mondo e Gaza, dunque. Da un lato, uno spazio geografico immenso e un’entità politica variegata, disomogenea, conflittuale; dall’altro, un’esile striscia di terra, 360 km² in tutto, oggi in via di rapido, progressivo restringimento. Una popolazione complessiva di oltre 8,2 miliardi di persone (dati aggiornati al 21 marzo 2025) contro una popolazione di 2 milioni e trecentomila persone (dati ottobre 2023), oggi falcidiata dall’operazione “Spade di ferro” condotta dalle forze armate israeliane a partire dall’ottobre del 2023 e dall’evacuazione in corso con il beneplacito dell’Occidente e dei paesi arabi.

Tra i due termini, l’autore ha scelto di collocare un avverbio di tempo: dopo. Come se Gaza non fosse un luogo, ma un evento periodizzante, uno spartiacque epocale che disegna una nuova, disastrosa cartografia. Trasformata in camera della morte, sottoposta a una radicale opera di sbancamento, la Striscia parla di un prima in via di cancellazione e di un dopo che alternativamente somiglia – per usare i termini adottati dal primo ministro di Israele e dal presidente degli Stati Uniti – a un “inferno” e a un gigantesco “cantiere”.

Per Pankaj Mishra tale scansione temporale non riguarda solo quel lembo di terra e il popolo che lo abita, bensì appunto il mondo e tutte e tutti noi. «Le mie origini indiane e il mio interesse per le società non occidentali», scrive, «mi hanno predisposto a guardare all’apocalisse razziale europea di metà Novecento insieme, piuttosto che separatamente, ad altre atrocità subite dalle minoranze e dai popoli colonizzati nell’era moderna». È questo che gli permette di individuare il «dispotismo intellettuale» che oggi governa il pensiero e le azioni delle istituzioni occidentali e di reagire scrivendo un libro il cui fine è «alleviare il mio sconcerto di fronte al degrado morale generalizzato e invitare i lettori ad approfondire, a cercare spiegazioni più urgenti che mai in questo periodo buio».

La sua è altresì una motivazione personale: non si può essere spettatori silenti e passivi della barbarie senza esserne corresponsabili. Movente e motore della scrittura sono dunque «il senso di colpa, una condizione umana diffusa dopo la distruzione in diretta di Gaza, e il dovere che i vivi hanno nei confronti dei morti innocenti».

Per capire bene la magnitudine e il coraggio dell’operazione compiuta da Mishra va detto che il suo saggio può essere letto come un romanzo di formazione: dall’originaria fascinazione per il nascente stato di Israele del 1947/48 e le sue successive imprese di conquista territoriale alla consapevolezza sempre più critica della natura coloniale del progetto sionista in terra di Palestina. «Crescendo in India negli anni Settanta», scrive Mishra, «avevo sulla parete una foto di Moshe Dayan, ministro della Difesa israeliano durante la Guerra dei sei giorni», aggiungendo subito dopo che quell’infatuazione per gli eroi israeliani «era irresistibile anche perché in India era fascinosamente illecita». Ed ecco il personale autobiografico intrecciarsi per contrapposizione all’allineamento politico dell’India di Nehru, che insieme all’Iran e alla Jugoslavia sostiene un piano per includere due stati autonomi, uno arabo e l’altro ebraico, in una Palestina federale unificata. Bocciato quel piano, l’India si unirà ai paesi asiatici e africani votando contro la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite, che il 27 novembre 1947 approvano il Piano di partizione della Palestina, e fino al 1992 resterà saldamente dalla parte dei palestinesi e dei loro diritti di popolo usurpato.

Nella prima parte del saggio, intitolata “L’aldilà della Shoah”, Mishra indica altresì un diverso intreccio, che potremmo definire generazionale e transculturale. La sua educazione sentimentale alla storia e alla geopolitica avviene sulle stesse opere che all’epoca facevano piangere e sognare gli adolescenti d’Europa e d’America: Exodus di Leon Uris, Dossier Odessa di Frederick Forsyth, 90 minuti a Entebbe di William Stevenson. Il “discorso” fortemente persuasivo e toccante in cui l’Olocausto si inquadra a livello globale ha finito per eclissare la storia e il ruolo modernizzante giocato dagli ebrei proprio là dove sono stati sterminati, cancellandoli due volte. «Di certo», commenta Mishra, «nessun gentile poteva competere in quanto a passione per l’uguaglianza con Karl Marx, Rosa Luxemburg e Lev Trockij. In tutto l’Occidente molti tra coloro che sostenevano i diritti uguali e inalienabili dell’uomo e i concetti di legge naturale universale e sovranità popolare erano ebrei. Ma questa identificazione con il cosmopolitismo liberale e l’universalismo sociale non fece altro che contribuire ulteriormente a identificare gli ebrei con tutti gli odiati turbamenti dell’umanità».

C’è, in questa prima parte del libro, una messe di citazioni che si propongono come una sorta di bibliografia ideale – da Einstein a Freud, Arendt, Zweig, Amery, Levi, Klemperer, Musil, Bauman – contro la tentazione nazionalistica. Nel 1919 Zweig, oppositore del sionismo immaginato da Herzl, scrive: «Politicamente vedo il compito degli ebrei nello sradicare il nazionalismo in tutti i paesi». E Victor Klemperer, autore di LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, nel 1934 annota nel suo diario: «Per me i sionisti, che vogliono tornare allo stato ebraico del 70 d. C. (distruzione di Gerusalemme da parte di Tito), sono offensivi tanto quanto i nazisti. Con il loro fiuto per il sangue, le loro antiche “radici culturali”, il loro in parte snob, in parte ottuso riavvolgere il mondo, sono assolutamente tali e quali ai nazionalsocialisti». E nel 1939 ribadisce: «Le comunità ebraiche in Germania oggi sono tutte fortemente inclini al sionismo, e a me sta bene quanto potrebbe starmi bene il nazionalsocialismo o il bolscevismo. Liberale e tedesco per sempre».

Nella seconda parte del saggio, intitolata “Ricordare per ricordare la Shoah”, Mishra affronta di petto due temi scomodissimi: da un lato, la mancata denazificazione della Germania e al contempo la sua non paradossale transizione «dall’antisemitismo al filosemitismo»; dall’altro, «l’americanizzazione dell’Olocausto». Quello che ci propone è un ragionamento sulla memoria e sulla sua strumentale manipolazione. Il nazismo, ci ricorda l’autore, oltre alla sua opera di sterminio, ha creato centinaia di migliaia di rifugiati. «Ma né il dipartimento di stato americano né il ministero degli Affari Esteri britannico desideravano salvarli. Al contrario: temevano costantemente, e lavoravano per evitarla, una situazione in cui la Germania e le potenze del suo schieramento avrebbero costretto decine di migliaia di ebrei a consegnarsi nelle mani degli Alleati.»

Ecco perché, oggi, è indispensabile indagare tanto l’aspetto morale e ideologico della simbiosi americano-israeliana quanto l’irrigidimento filoisraeliano della Germania. A che cosa e a chi giova quel patto, che non può essere solo frutto di un senso di colpa inestirpabile. Come si spiegherebbe, se no, che quei due paesi siano così ciechi e consenzienti, se non direttamente complici, del genocidio in atto a Gaza e del piano di espulsione e annessione che sta investendo la Cisgiordania? E se, si domanda Mishra, Israele facesse da testa di ponte ridisegnando la morale e indicando un futuro in cui le regole democratiche maturate nel secondo dopoguerra non valgono più? Che sia un caso che le tecniche di “contenimento” e repressione delle IDF siano migrate nelle strade dei quartieri neri e ispanici degli USA, nelle piazze della contestazione studentesca a fianco della resistenza palestinese, ai confini sempre più vigilati dell’Occidente?

Tenete d’occhio «la linea del colore», suggerisce l’indiano Mishra, e dal magma nebuloso del presente comincerete a vedere affiorare forme chiare e distinte: l’“altro”, il nemico interno ed esterno, lo straniero, l’immigrato, il richiedente asilo, colui/colei che attenta alla bianchezza e ai suoi privilegi.

Ed è su questo punto che il saggio si chiude, sull’incapacità di un Occidente sempre più inconsistente e inquieto di andare “Al di là della linea del colore”, di prendere in considerazione «che l’evento più importante del Ventesimo secolo potesse non essere la Prima o la Seconda guerra mondiale, la Shoah, la Guerra Fredda o, per estensione, il crollo del comunismo, bensì la decolonizzazione». Schematici, pigri o forse semplicemente autoriferiti, gli opinionisti occidentali della seconda metà del secolo scorso, cresciuti in «un mondo privo di scelte difficili, economiche o politiche» si sono assestati nella comoda riorganizzazione post-1945 in tre sfere geopolitiche: l’Occidente, l’Unione Sovietica e il Terzo Mondo. Attribuendo alle democrazie occidentali il ruolo di garanti della libertà e di rappresentanti della civiltà di contro a nemici totalitari o autoritari e, a partire dagli anni Novanta, irreversibilmente votati al terrorismo, parola passe-partout o chiave universale per indicare ogni forma di resistenza, insubordinazione, rivolta. Un mondo sempre più in bianco e nero, conclude Mishra, sempre più diviso in “noi” e “loro”.

Il confine tra etnie, religioni, razze è tuttavia del tutto artificiale, poroso e instabile. Per renderlo invalicabile è necessario fare un assillante lavoro di propaganda. Ed è qui, con un atto di omaggio tra i più commoventi del libro, che lo scrittore cede la parola all’autore di I sommersi e i salvati: «Primo Levi avvertiva nel suo ultimo libro che anche le testimonianze dei sopravvissuti, “al di là della pietà e dell’indignazione che suscitano”, dovrebbero essere lette con “occhio critico”», dal momento che la memoria tende a una stilizzazione e a una semplificazione eccessiva. Levi deplorava la «tendenza manichea» nei resoconti storici «che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro».

Eppure quella tendenza è di nuovo tra noi ed è particolarmente insidiosa, perché nasce dalla paura, da un vero e proprio panico da “sostituzione”, come se non ci fosse spazio per noi e loro insieme. Il paradigma di Gaza non illustra proprio questo? Una furia di annientamento, contagiosa perché – ove necessario – ogni Occidente è capace di crearsi il proprio irredimibile “altro” e di attrezzarsi per sterminarlo. A questa «psicosi di sopravvivenza», che ha prodotto «i crimini di Gaza e i numerosi atti di complicità e voluta indifferenza che li hanno resi possibili», stanno oggi rispondendo, proprio nel cuore dell’Occidente, i più giovani. Feriti nell’anima da un mondo che inscena con orgoglio lo sterminio “giustificato” di bambini, donne e uomini innocenti, i ragazzi e le ragazze – ed è su questa nota che conclude Mishra – non esitano a scendere in piazza. «Non hanno fatto, e probabilmente non faranno, cambiare idea all’indurita opinione pubblica occidentale. […] Ma le manifestazioni di indignazione e gli atti di solidarietà che hanno avuto luogo in questi mesi potrebbero avere in qualche modo alleviato la grande solitudine del popolo palestinese.»

Per approfondire

Segnalo, accanto all’imperdibile libro di Pankaj Mishra, il “dopo Gaza” delineato da una serie di altre preziose pubblicazioni degli ultimi mesi:

– Raja Shehadeh, Che cosa teme Israele dalla Palestina? (Einaudi, 2024)

– Samah Jabr, Il tempo del genocidio. Rendere testimonianza di un anno in Palestina (Sensibili alle foglie, 2024)

-Jean-Pierre Filiu, Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vinto (Einaudi, 2025)

– Lorenzo Kamel, Israele-Palestina in trentasei risposte (Einaudi, 2025)

– AA.VV., Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza (Fazi, 2025)

– Rashid Khalidi, Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza (Laterza, 2025)

da il manifesto

Nell’ancoraggio a sé Carla Lonzi trova il punto di partenza per affrancarsi dagli assunti oppressivi della metafisica patriarcale, e della psicoanalisi, rivale ombra della filosofia: “Taci, anzi parla”, 1972-1977

A due anni dal “Manifesto di Rivolta Femminile” (1970) e dai primi esplosivi scritti femministi, l’anima radicale di Carla Lonzi avverte la necessità di avanzare in prima persona. Incompleto sul piano delle domande, teso nelle relazioni fra donne, il passaggio storico di Rivolta l’aveva mantenuta “in incognito”, intenta a schivare o mimetizzare l’espressione diretta di sé: «rischiavo di continuare a cogliere in me stessa dati di coscienza generali per il femminismo, piuttosto che ricostruire i momenti che li avevano prodotti». Senza conoscere il movente di quei dati, i capisaldi di Rivolta le parevano un lessico di intuizioni senza collegamento con possibilità reali della sua vita. Restava sospesa nelle generalità anche «l’illuminazione improvvisa» che le aveva rivelato quel suo rifugio incognito e misconosciuto come «il nuovo campo di soggettività della donna».

Le proclamazioni teoriche di “Sputiamo su Hegel” (1970) e di “La donna clitoridea e la donna vaginale” (1971), dopo aver fornito il propellente ai gruppi separatisti di autocoscienza e all’avanzata del femminismo di seconda ondata, andavano esposte alla prova di fuoco dell’esperienza personale.

L’opera che ne esce è un diario, la diuturna scrittura in prima persona congeniale alle donne tacitate. Comparso nei libretti verdi di Rivolta nel 1978, “Taci, anzi parla – Diario di una femminista 1972-1977” viene ora riedito a cura di Annarosa Buttarelli come tappa imprescindibile dell’opera omnia, in corso di pubblicazione per La Tartaruga (ora nel catalogo di La Nave di Teseo, pp.1082, € 25,00).

«Questo lavoro mi ha assorbito anni, giorno dopo giorno», «mi teneva in uno stato di concentrazione fortissima», «immersa in un’impresa al limite delle mie forze». Preso congedo da ogni programma di emancipazione e dalle promesse dell’oggettività – trappole tutte del patriarcato – il diario di Lonzi attraversa la densità dell’esistenza tenendosi alla sola fune dell’autenticità e di una caparbia fedeltà a sé: «Mi sono incamminata senza seguire nessuno».

Una struttura ardita articola i resoconti quotidiani con sogni, lettere non spedite, citazioni, vecchi scritti, poesie – registrazioni sensibilissime tanto dei moti di coscienza quanto delle vibrazioni sotterranee dell’incoscienza.

Tutte le scritture sono riportate alla dimensione generativa del presente e qui si riattivano e si connettono fino a rendere leggibile il profilo di una vita intera. Nessuna identità personale vi compare come già data e neppure è conquistata una volta per tutte – «Mi sento come una pupilla al variare della luce, sono un continuo dilatarmi e restringermi»; al lavoro sono piuttosto le relazioni – oppressive o liberatorie, sempre condizionanti e cariche di illusioni – col padre e la madre, con l’uomo e le amiche.

Una lunga introspezione, condotta «all’apprendistato di ciò che vivevo» e affidata a lettere, diari di adolescenza, poesie, era rimasta chiusa nel baluardo della cittadella interiore fino alla prova di fiducia ricevuta da Ester (Carla Accardi), che aveva sgretolato la prima cerchia di difesa facendo prorompere il femminismo e i gruppi di autocoscienza.

Quasi epilogo e traguardo della fase di Rivolta, è il riconoscimento imprevisto di Sara – l’atto circolare per cui si diventa soggetti «reciprocamente, cioè di fatto e non solo nelle intenzioni» – che consente a Lonzi, ancora inceppata nell’autodifesa, di proiettarsi in una vita nuova «con tutta la freschezza di persona inespressa».

Risalire la corrente della messa in secondo piano – quella che lei chiama inferiorizzazione – richiede in realtà costosissimi sforzi di coerenza sul piano delle relazioni e gesti radicali di svuotamento dalle acquisizioni culturali interiorizzate. In primis dalla dialettica, che era stata il lasciapassare di Lonzi per entrare nel mondo della cultura e reggere il confronto con il «momento più alto raggiunto dall’uomo». Dopo la sicura confutazione di “Sputiamo su Hegel”, è ora la volta di «sputare questo Hegel che ho dentro di me».

Sparite come “assoluti” e sganciate da ogni meccanismo necessario, arti, religioni e filosofie compaiono nel diario come estrazioni impreviste dalla fucina del singolare presente, «atti vitali per superare la solitudine, il dubbio, la disperazione». Il braccio della filosofia in particolare cessa di essere armato di teorie per caricarsi di tonalità personali: «Adesso ogni filosofo che incontro mi sembra di ritrovarlo dentro di me». Leggendo Bergson: «vi ho trovato quello che sto facendo, cioè registrare tutti i mutamenti della coscienza, che sono infiniti»; quanto a Spinoza: «L’ho letto d’un fiato: come tutto è chiaro, comprensibile, quante riflessioni in comune», «è proprio uno che parla di sé, ha la certezza dall’avere trovato in sé. Certo, questo è il filosofo, cosa pensavo che fosse?».

Una a cui scappa da ridere

In questo ancoraggio a se stessi senza altre garanzie Lonzi trova il punto di partenza per la liberazione dagli assunti oppressivi non solo della metafisica patriarcale, ma anche della concezione psicanalitica, che crede a una normalità senza autocoscienza.

Anche la psicoanalisi – rivale ombra della filosofia e della filosofa Carla Lonzi – viene infatti superata d’un balzo assieme all’intero costrutto dei sensi di colpa: «Inconscio, tu e io andiamo alle Bahamas. Non mi metterai più bastoni tra le ruote, adesso ti colgo sul fatto, te e i tuoi simboli»; e, ancora, «Se ti affacci, in qualsiasi enigma tu sia travestito, mi butto su di te. Ti spoglio in quattro e quattr’otto». 

Nella pulsazione tra discese fino alla perdita del senso di sé e risalite spensierate verso la leggerezza del proprio essere – «sono una a cui scappa da ridere» – affiora nell’animo di Lonzi una mancanza di unità mai saturata, anzi quasi salvaguardata come premessa autentica del sé.

Nessuna conciliazione armonica risolve le fratture della coscienza, che sono tenute insieme solo dal filo ininterrotto della scrittura.

Fra sdegno e dolore

Nelle poesie giovanili come nel procedere concentrato dei primi scritti femministi, Lonzi trova il grande piacere della corrispondenza a sé: «ci vedevo il riserbo, la lucidità, il tremito impercettibile che ha il mio modo di ragionare tra lo sdegno contenuto e la sofferenza risolta ma non dimenticata e il giro del pensiero che sdrammatizza il contenuto e raffredda l’urgenza espressiva».

Scrivere si rivela strumento necessario proprio nella sua funzione originaria di fermare i pensieri, precisarli e renderli comunicabili, immetterli nella relazione. Una modalità a un tempo espressiva e architettonica, che non richiede vocazioni e talenti eccezionali, né ambisce a inserirsi nelle forme della cultura maschile, ma è alla portata di tutte e di ciascuno, sulla via di una società «basata sui rapporti umani». 

Proprio in virtù di una scrittura priva di movenze letterarie, che pare aderire direttamente ai moti del pensiero, pagina dopo pagina il diario trova l’eloquenza splendente di una lingua senza eguali e può apparire con la sua “montagna di parole” il romanzo avventuroso di una vita esaminata.

da L’Altravoce il Quotidiano

Guerre che ho (solo) visto è il titolo dell’ultimo libro della filosofa Rosella Prezzo edito da Moretti & Vitali. L’autrice ci fa riflettere sulle guerre che hanno “costellato” negli anni la vita di chi, come lei e me, è venuta/o dopo la seconda guerra mondiale/europea, dalla guerra in Vietnam passando per la guerra in Jugoslavia fino a quelle più vicine a noi. Guerre viste solo attraverso le immagini televisive che arrivano nelle nostre case e che lei da spettatrice vuole mettere “a fuoco” per capire e ragionare su come e perché, a partire dalla prima guerra nel Golfo, il linguaggio di guerra è cambiato, cambiata è la figura del soldato e delle vittime, cambiata è la guerra stessa con i progressi della tecnoscienza e l’avvento dell’intelligenza artificiale. È cambiato il linguaggio usato per giustificare la guerra agli occhi dell’opinione pubblica, si sono inventati termini come guerra “giusta”, “preventiva”, “difensiva”, “chirurgica”, “di bassa intensità”, “al terrore”, in nome del “diritto d’ingerenza”, “umanitaria”, “per la liberazione delle donne”. È scomparsa la figura del guerriero, del soldato che fronteggia la morte in battaglia, su cui gli uomini per secoli hanno costruito lo stereotipo della virtù virile e dell’identità del “vero uomo” e la retorica dei caduti in battaglia. Al reduce della prima guerra mondiale, al “sopravvissuto” dei lager della seconda, è subentrato il soldato tecnologico e burocratizzato che “sgancia l’ordigno sul bersaglio e va via”. Il suo corpo, vivo o morto, viene messo fuori scena, occupata questa dalle immagini di droni, missili, robot killer interconnessi, in grado di operare attraverso un algoritmo per individuare un bersaglio e attaccarlo, dando la “garanzia” di non mettere a rischio i propri uomini e di colpire i “corpi altrui” senza alcuna considerazione. «Come durante la guerra fredda furono alcuni scienziati a mettere in guardia rispetto ai pericoli di un conflitto nucleare spingendo i governi ai trattati di non proliferazione, anche oggi gli scienziati cercano di fare lo stesso per l’intelligenza artificiale applicata ai conflitti armati, al potere distruttivo della tecnoscienza.» Armi micidiali di una guerra “disumanizzata”, “spersonalizzata”, “postumana”, “vigliacca”. Quand’è che in Europa è iniziato il processo di “riabilitazione della guerra”, in antitesi al “ripudio” della guerra quale strumento di offesa e mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali? Quando è avvenuta la rottura del tabù della guerra sancita dalla carta di Helsinki del 1975, che prospettava un’Europa del dialogo e di pace, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale con i suoi 60 milioni di morti e il fungo atomico? È con la guerra nell’ex Jugoslavia, risponde l’autrice, con il coinvolgimento degli stati europei e la loro “operazione umanitaria”. Nella guerra delle armi micidiali della tecnoscienza emerge una nuova figura della “vittima”, la/il “profuga/o” che diventa la/il “rifugiata/o” e “richiedente asilo”. Pensare e dire la pace, oggi, significa «pensare l’impensato della pace» in quanto si tratta di uscire dal pensare la pace come assenza o conclusione della guerra. E per pensare l’impensato l’autrice convoca tre grandi scrittrici e pensatrici del novecento: Simone Weil, Virginia Woolf e Maria Zambrano, che «ci porgono un filo per uscire dal labirinto in cui sembriamo perderci, tra rinnovati massacri, stupidità guerrafondaia, svuotamento della democrazia». È il filo del «combattere con la mente» per fabbricare idee nuove e pensare «il destino del mondo», una «nuova costituente europea», «re-immaginare la democrazia», e combattere «contro le idee acquisite dal dominio patriarcale» come quella che la pace si crea con la forza delle armi. Il libro, molto intenso, si chiude con un’antologia di testi, scelti per ulteriori approfondimenti.

(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 15 marzo 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)

da Avvenire

Don Riccardo Mensuali (Pontificia Accademia per la vita) riflette sui riferimenti culturali per gli uomini del nostro tempo: abbiamo un modello antropologicamente sicuro, quello di Gesù nei Vangeli

Maschi contestati e processati, ai margini delle relazioni sociali e di quelle familiari. Ma maschi anche che hanno deciso di costruirsi una nuova identità, più presentabile e interessante. La traccia potrebbe essere rappresentata da quell’antropologia cristiana che sull’argomento offre, a chi li sa cercare, modelli spiazzanti proprio perché ispirati all’immagine maschile di Gesù nei Vangeli. È la lunga cavalcata alla ricerca del maschio, del padre, del marito presentata da don Riccardo Mensuali nel libro Pieno di grazia. La sfida cristiana per il maschio del nostro tempo (San Paolo, pagg,192, euro 18).

Le quotazioni della paternità non sono mai state così basse, ma le statistiche ci dicono che i ragazzi – più delle ragazze – raccontano che a loro piacerebbe avere molti figli, desiderio che poi nella maggior parte dei casi non viene realizzato. Perché questa contraddizione?

Si potrebbe banalmente dire che i ragazzi sono meno consapevoli di quanto “costi” una maternità. Invece credo che nel cuore di un giovane esista un vero desiderio di realizzarsi anche a partire dalla paternità, da un servizio che per forza ci porta a renderci più gentili, più attenti e pazienti, più impegnati nella cura. Come se tanti ragazzi avvertissero che l’antidoto a violenza, modi bruschi, durezza è far da padre ad un figlio. È un po’ quello che ha cantato a Sanremo Lucio Corsi: Non sono nato con la faccia da duro / Ho anche paura del buio.

Il maschio, programmato da secoli di vita sociale a usare la parola in pubblico, nella vita familiare sceglie spesso il mutismo, o al massimo i monosillabi. Perché imparare ad esprimere emozioni e sentimenti attraverso la parola può essere una via privilegiata per far crescere la qualità delle relazioni?

La scarsa loquacità maschile nelle relazioni è quasi proverbiale, come se dovessimo spendere le nostre energie solo davanti a un gran pubblico. Ma anche questo comincia a diventare uno stereotipo vecchio. Ai corsi matrimoniali ormai si parla moltissimo, anche di sé, e lo fanno volentieri anche i futuri mariti. Per noi cristiani, figli della Parola, è una grande occasione. Dare le giuste parole alle emozioni, descrivere con sobrietà e saggezza quel che si sente non è solo da lettino da psicologo. È da vero uomo. Ricco di interiorità.

Qualcuno ha ipotizzato che la crisi del maschio è andata in questi decenni di pari passo alla crescita di responsabilità e di ruoli della donna, come se la parità fosse il più grande problema dell’uomo. Traguardo, sotto sotto, inaccettabile. Quanto c’è di vero in questa posizione?

Bisogna stare attenti a come si parla. Perché si fa presto a dire che siccome l’uomo non accetta di buon grado l’emancipazione, fa fatica, allora la colpa è delle donne. Qualcuno non solo lo pensa, ma lo dice pure. Direi, più precisamente, che troppi maschi li troviamo arretrati, impreparati al nuovo mondo, più femminile, dove prevale la forza del cervello, dell’empatia, della ricchezza di capacità relazionali. In questa nuova e buona “gara” bisogna allenarsi. Se il maschio rimane indietro, è colpa sua. Come lo è reagire con l’istintiva e non curata violenza del frustrato.

Molto interessante, tra le tante riflessioni che lei propone, quella sull’ultima paternità, quella dei grandi anziani che spesso hanno figli prossimi alla pensione. Si tratta però di valorizzare il loro ruolo e rispettare la storia che c’è alle spalle di ciascuno di loro. Come riuscirci?

Spesso non ci si riflette molto su quanto non sia semplice invecchiare bene, con serenità e costituire buoni padri anche sugli ottanta, novant’anni. Si dà per scontato che sia tutto sorgivo. Non è così. Si impara anche a diventare vecchi. Lo spirito cristiano ci propone di essere figli e discepoli del Maestro sempre. Prepararsi bene e con cura a lasciare questo mondo per entrare nella vita eterna può costituire una testimonianza importante per figli ormai molto adulti, che ricorderanno di certo come il padre se n’è andato.

Perché ritiene che il modello di uomo, di maschio, di marito offerto dall’antropologia cristiana possa rappresentare una strada percorribile e auspicabile per “vivere da uomini”, oltre tutte le contraddizioni e i luoghi comuni?

Semplicemente perché noi uomini potremmo, con qualche scaltrezza, quasi “approfittare” del fatto che abbiamo già un vero modello d’uomo nella figura di Gesù, come emerge dai Vangeli. Lo sappiamo, non era sposato né aveva figli, ma chi più di lui è maestro d’amore, maestro privilegiato di relazioni umane? Sapeva avvicinare una donna come un uomo, sapeva parlare o ascoltare a seconda del momento, adirarsi o essere maschio dolce e diverso da tutti quando occorreva. Sapeva sbrigarsi ma anche fermarsi. Ha saputo far da padre agli Apostoli delegando loro poteri e responsabilità, li ha fatti scontrare coi loro limiti perché li superassero. E quando tutti volevano che rimanesse, se ne è andato per agire attraverso di loro, cioè di noi e della Chiesa. Non vedo, al mondo, modello di maschio più efficace ed attraente. Un uomo che conquista.

da Doppiozero

Una donna incinta, nuda, siede sul letto. Rivolge un sorriso complice e sereno al bambino dentro di lei, con una mano accarezza la pancia, mentre l’altra la sostiene dolcemente dal basso. In questo gesto semplice e potente c’è tutto il senso dell’attesa, della trasformazione, della vita che sta per nascere. È l’idea che percorre il volume Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta (Einaudi, 2024), con le fotografie di Paola Agosti e il commento di Benedetta Tobagi. Noi non eravamo artisti, noi eravamo dei reporter, eravamo dei testimoni del nostro tempo, l’arte c’entrava relativamente poco, noi facevamo quel lavoro per vivere, afferma la fotografa con asciutta schiettezza.

Eppure in “quel lavoro” c’è qualcosa che si spinge oltre la semplice testimonianza. Come la donna incinta accarezza il futuro che porta in sé, lo sguardo della Agosti dà vita a qualcosa che sta nascendo, un mondo femminile che si svela, si afferma e reclama il proprio spazio. Donne tra loro differenti, legate dalla forza con cui hanno cercato un destino diverso, dal coraggio con cui hanno sfidato le regole di un mondo che le voleva silenziose, sottomesse, chiuse fra le mura di casa. E grazie a loro, il cammino di chi è venuta dopo si è fatto più libero.

È questa determinazione che lega Paola Agosti alle donne, un filo teso tra lo sguardo e l’azione, tra chi racconta e chi si fa racconto. Determinare non è solo fissare un confine, dare un contorno netto alle cose, ma è anche un atto di volontà, una scelta precisa. Significa tracciare un sentiero là dove sembrava non esserci strada, prendere posizione accanto a chi è stato troppo a lungo escluso dalla narrazione ufficiale. È un gesto che incide, segna e restituisce dignità a chi, altrimenti, resterebbe nell’ombra. La Agosti non si limita a osservare, mette a fuoco. E nel farlo, si schiera.

Sono stata femminista come molte. Mi riconoscevo sicuramente nelle lotte che il movimento portava avanti. Grazie al lavoro mi consideravo una donna emancipata; tra l’altro venivo da una famiglia dove le donne erano tenute in grande considerazione e avevano studiato e lavorato.

Fra le fotografie del suo archivio, ben ventimila dedicate alle donne, ci sono le anziane militanti del Partito comunista, le donne dell’Udi, le avanguardie femministe radicali, le singole attiviste fra cui la linguista Alma Sabatini con un enorme cartello, la scrittrice Dacia Maraini che guida un corteo, la radicale Adele Faccio arrestata durante una conferenza internazionale sul divorzio, Gigliola Pierobon con l’avvocata ed ex-partigiana Bianca Guidetti Serra che la difendeva contro l’accusa di aver abortito a diciassette anni.

Se il personale è politico è il principio con cui le femministe mettono in discussione la società, per la Agosti è il filtro da porre sull’obiettivo, la sfumatura che dà una tonalità nuova al reale. La maternità al lavoro, la sessualità femminile, la violenza domestica, non sono semplici questioni private, ma riflettono strutture di potere e disuguaglianze radicate nella società. Compagni nella lotta, padroni nella vita, con questa ambiguità facciamola finita è il pensiero che anima sindacaliste, operaie, casalinghe, impiegate e studentesse, nella manifestazione organizzata a Roma dai metalmeccanici il 2 dicembre 1977.

Grazie al fatto di essere una donna, e di avere una fotocamera, la Agosti viene accolta all’interno dei collettivi e delle manifestazioni con una confidenza che difficilmente sarebbe stata concessa a chi non ne condivideva l’impegno. Le femministe, infatti, erano consapevoli del potere dell’immagine e della necessità di raccontarsi con un proprio sguardo, senza mediazioni esterne che potessero distorcere il loro messaggio. In un contesto in cui i media tradizionali banalizzavano o travisavano le istanze femministe, il lavoro della Agosti era visto come una forma di militanza.

Si aprono le porte dei consultori, quelle delle case dove le donne lavorano a domicilio e accudiscono i figli, quelle di Radio città futura,emittente romana legata alla sinistra extraparlamentare, che all’interno del palinsesto quotidiano concede due ore alle femministe, una delle quali è riservata alla trasmissione Le donne escono dalle cucine.

Si aprono le porte delle redazioni, EFFE, Quotidiano Donna, e poi quelle di Noi Donne,la rivista dell’Udi con cui la Agosti collabora per più di vent’anni. È stato un lavoro molto, molto bello… Ho girato l’Italia, e grazie a Noi donne sono entrata nelle case di chi faceva una vita ben diversa dalle ragazze che sfilavano a Roma nei cortei femministi: le operaie, le mondine, le vecchie partigiane […], per me rimane una tappa fondamentale della mia vita di fotografa e di donna.

Nel 1976 molte di quelle immagini confluiscono in Riprendiamoci la vita, un libro pubblicato dall’editore Savelli da cui sono germogliati altri progetti, nati quasi per necessità, per il bisogno di continuare a raccontare. Con Firmato Donna, Agosti ha dato un volto a cinquantasei tra le più grandi scrittrici italiane del Novecento, donne che con le parole hanno costruito nuovi spazi di libertà. Con La donna e la macchina (1983), è entrata nelle fabbriche del Nord-Ovest, mostrando le operaie nel loro quotidiano, rivelando la fatica di chi ha avuto un posto nel mondo del lavoro, ma quasi mai nel racconto ufficiale.

Nel 1977 Paola Agosti sente il bisogno di allontanarsi dalla frenesia della vita in città, dai tempi stretti della cronaca, dalla ressa dei fotografi. Chiede a Nuto Revelli, che conosceva sin da bambina perché era stato partigiano con suo padre, di poter ripercorrere con la sua macchina fotografica l’itinerario di Il Mondo dei vinti (1977) e di L’anello forte. La donna: storie di vita contadina (1985). Dai suoi numerosi viaggi nelle Langhe nascono Immagine del mondo dei vinti (1979) e Il destino era già lì (2015).

Se Riprendiamoci la vita era il grido di battaglia del femminismo, un’esortazione a spezzare vincoli e ridefinire il proprio cammino, Il destino era già lì evoca invece il peso di una storia già scritta, di un futuro tracciato ancor prima che si possa scegliere. Nate in famiglie contadine, spesso numerose, queste donne si trovavano fin da bambine immerse in una realtà di fatica e privazioni, il lavoro nei campi era l’unico orizzonte possibile ed i ruoli erano rigidamente definiti. Fotografarle non significa solo raccontare, ma riconoscere. Significa dare un volto e una voce a chi è stato relegato ai margini della storia, celebrare la forza silenziosa delle donne che, senza dichiararlo apertamente, hanno lottato per procurarsi un frammento di libertà.

Qui la sua determinazione di fotografa è anche un atto di resistenza, un modo per non lasciare che quelle storie svaniscano, una resistenza presente anche nel carattere delle donne ritratte, che con il loro radicamento alla terra e il lavoro manuale raccontano una lotta quotidiana per rimanere ancorate alla propria esistenza. Su quei visinon c’è traccia di autocommiserazione, mostrare la loro “solitudine” non veicola né rassegnazione né sconfitta, ma la volontà di sancire l’orgoglio umano di essere al mondo. L’anziana donna seduta come su un trono in mezzo alla sua cucina, le contadine, divertite e divertenti, ad onta della fatica e delle dure condizioni di lavoro, mentre giocano con i loro cani, esprimono una condivisione di sentimenti che crea solidarietà.

Riusciamo, oggi, a cogliere fino in fondo il valore che queste foto avevano quando comparvero per la prima volta sulla carta stampata? Allora non erano icone. Lo sono diventate nel tempo, perché hanno saputo parlare, emozionare, raccontare storie in cui un numero incalcolabile di donne si è riconosciuto. Il loro potere non sta solo nell’immagine, ma nel modo in cui sono state vissute, condivise, fatte proprie. Per raccontare davvero qualcosa, bisogna esserci dentro. Non basta osservare, bisogna immergersi, vivere la situazione. Le sue foto sono diventate simboli perché le donne le hanno diffuse, riprodotte, fatte circolare ovunque, manifesti, riviste, volantini, libri. Hanno smesso di essere semplici scatti per trasformarsi in pezzi di vita, tracce di un’esperienza collettiva. Davanti a una fotografia, ognuno di noi deve decidere se ignorarla o lasciarsene attraversare, se renderla parte della propria memoria e delle proprie lotte, se usarla per conoscere, per capire, per agire.

Alla fine del libro le autrici accostano due immagini. Nella prima alcune giovani donne appendono uno striscione con la scritta Le streghe son tornate, nella seconda, un’anziana, sola nella sua cucina, solleva un pentolino da cui si sprigiona un vapore denso. Il confronto svela due modi diversi di esistere, da un lato, giovani donne che gridano per rivendicare il diritto alla parola e all’autodeterminazione, dall’altro, un’anziana che, con un gesto silenzioso ma carico di significato, compie un rito di magia bianca. Le femministe si riappropriano di un passato simbolico attraverso la figura della strega non più vittima della persecuzione patriarcale, l’anziana rivela un sapere prezioso trasmesso di donna in donna; le une rivendicano il diritto a trasformare il proprio destino, l’altra lavora per dissolvere un destino avverso. Due modi diversi di agire, due forme di lotta che sembrano lontane e invece si parlano, le urla delle donne che vogliono cambiare il mondo ed i sussurri di chi lo ha sfidato in silenzio.

da Agenzia Cult

Una voce che continua a interrogare il presente

Ci sono voci che attraversano il tempo senza perdere urgenza, che sembrano disperdersi ma tornano con rinnovata intensità, capace di interrogare il presente, e Carla Lonzi ne è un esempio. Nata a Firenze nel 1931 e morta a Milano nel 1982, Lonzi ha attraversato il secondo Novecento con uno sguardo tagliente, sempre teso a mettere in discussione i codici della cultura dominante, facendo della scrittura un gesto radicale di autenticità. Fondatrice di Rivolta Femminile, nei primi anni Settanta ha dato vita a una casa editrice che è stata molto più di un marchio editoriale: uno spazio di elaborazione collettiva e un luogo di parola in cui il femminismo ha preso corpo e si è fatto linguaggio. I suoi libri – Sputiamo su Hegel (1970), il Manifesto di Rivolta Femminile e Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978) – hanno segnato generazioni di lettrici, aprendo possibilità di libertà e nuove forme di vita.

Negli ultimi anni l’interesse per la sua opera si è rinnovato grazie a un importante lavoro editoriale, prima con le ripubblicazioni di Et al. Edizioni, poi con La Tartaruga, che ha avviato la pubblicazione dell’opera completa sotto la cura di Annarosa Buttarelli. In questa direzione si inserisce anche Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, edito da Moretti & Vitali nella collana Pensiero e pratiche di trasformazione, che esplora il rapporto tra scrittura e soggettività nell’opera di Lonzi, restituendone la complessità e l’attualità.

La scrittura come pratica di trasformazione

Il corpo delle pagine è un libro prezioso sia per il valore introduttivo alla vicenda intellettuale e politica di Carla Lonzi, sia e soprattutto per il suo taglio inedito, che mette al centro la scrittura come pratica viva, processo in divenire, luogo di trasformazione. Per Carla Lonzi scrivere era un atto primario, un gesto continuo e necessario che ha accompagnato ogni giorno della sua vita sin dall’infanzia. Non un semplice strumento di espressione, ma il luogo stesso in cui la soggettività prende forma, in cui il pensiero si fa esperienza concreta, mai separato dalla vita. Il libro di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini esplora questa materia viva, arrivando al cuore della scrittura lonziana e restituendone tutta la forza trasformativa e il carattere radicale.

Questa ricerca si manifesta con particolare evidenza nell’ultimo capitolo, una conversazione tra le due autrici che non si limita a un confronto teorico, ma si fa pratica, esperimento, esposizione. Qui la riflessione su Carla Lonzi si traduce in un atto che richiama l’autocoscienza femminista, un dialogo che diventa esperienza di scrittura, in cui il pensiero si incarna nella relazione tra le due autrici. Raccontare Lonzi significa infatti misurarsi con un pensiero non separato dalla vita, una parola che nasce dal corpo e al corpo ritorna. Il libro diventa quindi un’esperienza di scrittura che si fa carico del suo senso più profondo, trasformandosi in un corpo a corpo l’eredità lonziana.

A confermare il valore del volume è anche la preziosa bibliografia conclusiva, che per la prima volta raccoglie in ordine cronologico tutte le sue pubblicazioni, comprese le edizioni successive, le traduzioni in lingua straniera e i testi apparsi su periodici e quotidiani. Si tratta di un repertorio inedito, che assume un’importanza fondamentale come strumento di consultazione e cometraccia del percorso di Carla Lonzi, un lavoro che rende questo libro ancora più prezioso nel panorama della riscoperta lonziana, offrendo finalmente una mappa per orientarsi nella sua opera.

Scrittura, autocoscienza, libertà

Il libro ripercorre i temi fondamentali del pensiero e della pratica di Carla Lonzi, restituendo la forza della sua critica alla cultura patriarcale. Il gesto di scrivere, per Lonzi, non è mai stato separato dalla vita, né concepito come un prodotto da offrire al consumo culturale, ma piuttosto come un atto politico e trasformativo, un processo continuo di autocoscienza attraverso il quale sottrarsi all’ordine simbolico maschile e costruire un linguaggio proprio, capace di esprimere un’esperienza femminile autonoma. Per questo la scrittura non è per lei un semplice strumento espressivo, ma il luogo della libertà, della rottura con le aspettative imposte e della costruzione di una soggettività non conforme ai modelli patriarcali della femminilità. La differenza femminile, in questa prospettiva, non è un dato biologico o un’identità predefinita, ma la possibilità di significare liberamente il proprio essere donna, sottraendosi alle strutture del dominio e ai modelli imposti.

Nel contesto degli anni Sessanta e Settanta, questa presa di parola prende forma nell’esperienza dei gruppi di autocoscienza, spazi in cui le donne iniziano a riconoscersi reciprocamente come soggetti autonomi ribaltando il paradigma della storia: da sempre raccontate da altri, le donne cominciano a trovare parole fedeli alla propria esperienza, fuori dalle categorie della cultura maschile. In questo quadro, Carla Lonzi sviluppa una riflessione che sposta l’attenzione dal prodotto finale della scrittura alla sua pratica, dove non è l’opera compiuta a essere imprescindibile, ma il processo, la relazione tra le donne, la parola che circola senza farsi sistema.

Scrittura, parlato e registrazione: un nuovo rapporto con il tempo

Proprio su questa tensione tra scrittura, parlato e presenza si innesta l’originalità del libro di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, che esplora in profondità un aspetto ancora poco indagato nel pensiero lonziano: l’uso della registrazione come strumento di autocoscienza e di rifiuto della linearità del discorso. Carla Lonzi e il gruppo di Rivolta Femminile utilizzano la registrazione come pratica fondativa del loro processo creativo, non solo per documentare il confronto nei gruppi di autocoscienza, ma anche per sovvertire il rapporto tradizionale tra parlato e scritto, tra presenza e memoria. In questo libro, le autrici riprendono e analizzano questa pratica, mostrando come la registrazione introduca una frattura nel tempo lineare, interrompendo la logica della produttività e aprendo la possibilità di ritornare continuamente sulle parole e recuperare ciò che rischia di essere rimosso o scartato. «L’uso della registrazione spezza l’ordine cronologico, poiché consente di tornare continuamente su quanto avrebbe potuto essere scartato, rimosso ed è in grado in questo modo di aprire al nuovo, all’imprevisto». [1]

Questo slittamento temporale è fondamentale nel pensiero lonziano, poiché mette in discussione l’idea di storia come processo lineare e progressivo. Le donne, escluse dalla narrazione storica, possono far leva su questa assenza, evitando la trappola dell’integrazione in un sistema che le ha sempre relegate ai margini: «La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l’inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo?» [2]

L’assenza femminile dalla storia non è una mancanza da colmare, ma un punto di partenza per costruire un altro modo di stare nel mondo, un’altra temporalità, che non risponda alle logiche del progresso e della produttività capitalista. In questo senso, la registrazione diventa uno strumento di attivazione del passato nel presente, un modo per riarticolare il rapporto tra sé e il tempo, sottraendosi alla fissità del già detto e del già scritto.

Nel loro dialogo le autrici mostrano come questa concezione del tempo sia ancora oggi politicamente necessaria. La possibilità di interrompere la linearità storica, di rifiutare l’integrazione in modelli prestabiliti, di rimanere fedeli a una ricerca di autenticità che non accetta compromessi è una questione ancora aperta, una pratica che riguarda tutte le soggettività non conformi.

Un libro che è anche esperienza

Ciò che rende Il corpo delle pagine un libro esemplare è la capacità di tenere insieme l’analisi teorica e l’esperienza vissuta e questa tensione trova la sua massima espressione nell’ultimo capitolo, che segna un punto di svolta nella lettura. Qui il testo abbandona la forma più tradizionale dell’analisi critica per farsi spazio di esperienza, mettendo in atto un confronto diretto tra le due autrici. Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, infatti, scelgono di pubblicare tre giorni di dialoghi tra loro. Il punto di partenza di questa conversazione è la mostra mai realizzata su Carla Lonzi, un progetto a cui la sorella Marta Lonzi ha lavorato dal 1997 al 2004. L’assenza di questo originale, il suo perenne differimento, diventa una chiave di lettura per l’intero libro e per il modo in cui il pensiero di Lonzi continua ad agire nel presente. Come scrivono le autrici: «A partire dallo studio dei materiali d’archivio e dall’immaginare una mostra mai realizzata, un originale assente, la nostra conversazione andava soprattutto tornando sugli aspetti del pensiero e della pratica di Lonzi non storicizzabili, quelli in grado di illuminare, ancora oggi, il nostro posizionarci, spesso con scomodità, rispetto alla cultura e alle sue istituzioni». [3]

Il confronto tra le due studiose è una riflessione sulla loro stessa esperienza politica e intellettuale, sulla possibilità di praticare oggi un pensiero non addomesticato, che non risponda alle logiche di efficienza e produttività che regolano il mondo accademico e culturale: «Il nostro tempo di scrittura, di pensiero e di progettazione è incontrovertibilmente incompatibile con i tempi e i modi attuali del lavoro intellettuale». [4]

Questa tensione è parte dell’eredità lonziana: il rifiuto di aderire a forme imposte di sapere, il privilegiare un rapporto tra soggettività che sia espressione di libertà e non di funzione. Il dialogo finale del libro è un corpo a corpo con i limiti e le contraddizioni del presente. Il differimento, quella continua sospensione tra il desiderio e la sua realizzazione diventa una forma di resistenza, non un fallimento: «Se si intende tenere legati il senso di sé e il proprio fare, pensando alle nostre esistenze come espressioni di questo legame […], non si può che esporci maggiormente al fallimento della mancata realizzazione». [5]

In questo libro, il pensiero di Carla Lonzi non è un archivio da esplorare ma una pratica da esperire, un modo di stare al mondo e di stare nella scrittura. Il dialogo tra le due autrici, proprio come le deregistrazioni di Rivolta Femminile, si fa gesto politico, abbandona la rigidità del saggio per restituire un movimento, un processo, un’apertura. Un esempio concreto di come la scrittura possa essere ancora oggi un atto radicale di autenticità.

Note e riferimenti bibliografici

[1] Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, Moretti&Vitali, Bergamo 2024, p. 85

[2] Ibid., p. 86 dove si riporta la citazione di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1974

[3] Ibid., p. 186

[4] Ibidem

[5] Ibid., p. 187

Abstract:

Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi by Linda Bertelli and Marta Equi Pierazzini explores Lonzi’s writing as a political and transformative act. Founder of Rivolta Femminile, Lonzi saw writing not as a finished product but as an ongoing process of self-awareness and liberation from patriarchal structures. The book’s originality lies in its analysis of her use of recording as a tool for collective consciousness, breaking linear time and traditional discourse. The final chapter, a dialogue between the authors, embodies this method, merging theory and experience. With a comprehensive bibliography, the book is both an introduction and a critical engagement with Lonzi’s work, reaffirming her legacy and the radical power of writing as an act of resistance.

da il manifesto

Femministe di un unico mondo, un libro di Bianca Pomeranzi (per Fandango), e Il gruppo del mercoledì, un volume di Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Letizia Paolozzi e Stefania Vulterini (per Futura editrice). I volumi verranno presentati venerdì e sabato a Roma, nell’ambito dell’ottava edizione di “Feminism”, fiera della editoria delle donne

«Mai come ai giorni nostri il mondo ci è apparso così brutale. Un piccolo pianeta animato da sopraffazione e prepotenza, ma al tempo stesso luccicante “fiera” del possibile». Nel chiaroscuro di un tale passaggio, epocale e incerto, si apre il volume di Bianca Pomeranzi, Femministe di un unico mondo (pp. 247, euro 18.50) pubblicato postumo da Fandango per le cure di Carla Cotti (sabato 1° marzo ne discuterà a Roma nell’ambito di «Feminism» con Carla Pagano in Sala Zalib alle 17), che dà conto di una vita sovvertita dalla passione inaggirabile per la politica. Si comincia da un incontro, nel caso di Pomeranzi (1950 – 2023) carico di epifanie, foriero di un mondo sì terribile eppure dotato di innumerevoli strade, nel loro farsi e disfarsi, in cui la parola delle donne assume la potenza tellurica transnazionale di un percorso. Il femminismo, convocato e chiarito lungo le pagine del libro da Pomeranzi, è l’esperienza attraversata, trasformativa di quel «partire da sé» che si misura con il mondo diventando antidoto agli «inganni della memoria» – da cui in larga parte, e con dolo, questo presente è assediato.

Due i punti cruciali che collocano l’autrice in un orizzonte situato di presa di coscienza: il primo è il lesbismo, perché il «partire da sé» per Bianca Pomeranzi ha coinciso con la ricerca di un modo di vivere la sessualità allargandosi in uno sguardo sul mondo. La questione non ha riguardato solo quegli anni Settanta che l’hanno vista protagonista e interna al collettivo separatista di Pompeo Magno, eppure il suo primo nominarsi lesbica avviene pubblicamente proprio in un’assemblea romana. É il 1976 e l’iniziativa è stata una tappa fondamentale perché nel novembre dello stesso anno prende corpo la manifestazione contro la violenza sessuale «Riprendiamoci la notte». Convergenza, taglio vivente che rende il femminismo una esperienza generativa è riscontrabile anche nella costante dimensione transnazionale. Separatismo, violenza maschile, legge 194, insieme con le pratiche che andavano mutando e le lotte intraprese in Italia in quel decisivo torno di anni, davano il segno di un agire politico e di una libertà femminile che nel percorso di Pomeranzi erano presenti nello scenario internazionale. È il caso delle quattro Conferenze (convocate dalle Nazioni Unite) che, «spazio dell’apparire» non privo di contraddizioni, vengono descritte come occasioni di confronto su temi fino ad allora sfiorati o a cui perlomeno mancavano discussioni tra donne. Razzializzazione, differenze di classe, oppressione coloniale, materialità delle vite e non solo delle latitudini, molti sono gli episodi che emergono tra cui uno importante che avviene tra la prima conferenza mondiale a Città del Messico (1975) e quella di Copenaghen (1980) – cui seguiranno Nairobi, Pechino (di cui ha seguito la preparazione e l’attuazione), New York e Milano.

L’evento è l’arrivo di Kate Millett a Roma nel marzo del 1979, espulsa dall’Iran e accolta a via del Governo Vecchio dalla lungimiranza anzitutto di Alma Sabatini. La cooperazione internazionale era allora uno degli aspetti di cambiamento dell’immaginario che non potevano più ignorare la scena internazionale. Attivista e saggista, leggere Femministe di un unico mondo permette di solcare insieme a Bianca Pomeranzi le strade che lei stessa, e spesso per prima, ha spalancato. Componente dal 2013 al 2016 del Cedaw, ha diretto a lungo la cooperazione italiana in Senegal e in Africa Orientale, oltre ad aver fondato insieme ad altre l’ong Aidos e il Centro internazionale Alma Sabatini. Nel 2008, insieme a Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti (che aderirà presto ad altri progetti), Bia Sarasini, Rosetta Stella e Stefania Vulterini, Pomeranzi è stata anche tra le fondatrici del Gruppo del mercoledì.

Questa storia femminista, che continua ancora oggi, è un libro, mancava e la sua pubblicazione è da salutarsi con gioia e vivo interesse perché sono questi volumi che si fanno strumenti utili per la apertura di discussioni collettive, prestandosi inoltre alla ricostruzione di storie e comunità viventi assai preziose. Soprattutto in questo presente così fosco di guerre, morte e passioni tristi. Il gruppo del mercoledì (Futura editrice, collana «Sessismo e razzismo», pp. 119, euro 15) è a firma di Bandoli, Boccia, Paolozzi (che ha scritto anche l’introduzione) e Vulterini (le autrici ne discuteranno a Roma venerdì 28 febbraio nell’ambito di Feminism con Marina D’Amelia e Manuela Fraire in Sala Lonzi alle 19).

L’acuta e preziosa postfazione al volume, che si rivolge alle pratiche, è di Viola Lo Moro. Si tratta di una raccolta di testi e documenti – ricollocati e ulteriormente commentati in relazione al contemporaneo – che a iniziare dal primo, proprio del 2008, “Dire No… manifesto alla sinistra” fino all’ultimo, del 2022, “La cura maltrattata”, rammenta e tesse una discussione pubblica stagliata in oltre quindici anni di incontri prendendo parola su questioni e problemi a partire da sé. Ancora una volta è questo l’elemento non negoziabile ed è esattamente da ciò che avvia il lavorio dell’autenticità, per cui non sorprenderà leggere di percorsi biografici e politici diversi: l’operaismo, il pensiero della differenza sessuale; il giornalismo, il Pci e i modi diversi con cui ne hanno osservato la svolta, insieme alla Carta delle donne comuniste, e tanto altro.

Quelle donne però, d’accordo sul tramonto delle liturgie partitiche, mortifere e foraggiate da una politica maschile ormai inservibile oltre che disinteressata alla realtà, sono intervenute su parole e scommesse cruciali: dalla fine del corpo alla fine della sinistra (il testo è del 2009); la cura del vivere (pubblicato come supplemento al numero di settembre 2011 di “Leggendaria” e ancora adesso di grande e controversa attualità); c’è poi “Mamma non mamma” che nel 2017 interrogava l’esperienza delle donne a partire dai non pochi, e non pacificati, desideri. Il salto dalla espressione di questi desideri alla loro validità per tutte e tutti può essere spericolato, oltre che insensato. Ed è appunto una forza sorgiva ad abitare quei documenti, pungoli a un presente non ricomponibile. Il volume affronta infine i nodi della violenza, della pandemia, dei luoghi della nostra libertà e il movimento che dall’io arriva (o potrebbe arrivare) al noi, soprattutto parole importanti, perché dal limite vanno all’inconsumabile, ovvero quel che si sottrae al divoramento sfrenato. Che tiene vive alle proprie esperienze, alle pratiche politiche, alle relazioni.

SCHEDA. A Roma, da venerdì a lunedì, tavole rotonde e focus per interrogare l’oggi

Feminism, la fiera della editoria delle donne è arrivata alla ottava edizione e aprirà le danze venerdì 28 febbraio per concludersi lunedì 3 marzo negli spazi della Casa Internazionale delle Donne di Roma. Con oltre 70 case editrici coinvolte, le quattro giornate della fiera – realizzata da Archivia, dalla Casa internazionale delle donne, dalla rivista Leggendaria, dalla collana sessismo&razzismo di Futura editrice, della casa editrice Iacobelli – saranno anche l’occasione di ascoltare molte scrittrici, autrici e attiviste che interverranno in tavole rotonde e presentazioni su temi stringenti del presente. In gioco i nostri corpi, le pratiche, fino ai percorsi della interiorità. Già l’inaugurazione, alle 15 di venerdì in Sala Lonzi, offrirà la possibilità di ammirare due madrine d’eccezione: Manuela Fraire e Giulia Caminito. Sabato un focus sul fare rete tra micro-editrici e librerie indipendenti alla presenza di Marta Capesciotti, Cristina Anichini, Maria Corona Squitieri, Alessandra Barbero e Hanna Suni con il coordinamento di Silvia Di Tosti e Maria Palazzesi (tra le impareggiabili organizzatrici e ideatrici di Feminism). Domenica da non perdere Senka Maric (il suo Corpo Kintsugi è stato recensito su queste pagine); inoltre Giuliana Sgrena dialogherà, insieme a Chiara Cazzaniga di Femminicidi d’onore, con le curatrici Isabella Peretti e Ilaria Boiano; sempre domenica Luisa Passerini, Alessandra Chiricosta, Cecilia Dalla Negra, Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini saranno in dialogo con Fraire sull’autocoscienza. Tanti i libri importanti e gli scambi in presenza; interverranno tra le altre Nicoletta Dentico, Maria Rosa Cutrufelli, Daniela Finocchi, Gloria Zanardo, Donatella Franchi, Annarosa Buttarelli, Rosella Prezzo, Monica Pietrangeli, Amal Oursana, Claudiléia Lemes Dias. E ancora Paola Cavallari, Gabriella Caramore, Antonia Tronti, Luciana Percovich, Neria De Giovanni, Floriana Coppola, Gisella Modica, Elvira Federici, Nadia Tarantini, Maristella Lippolis, Silvia Neonato. La fiera ha il sostegno di ADEI – associazione degli editori indipendenti – della SIL – Società italiana delle letterate – del Concorso Nazionale Lingua Madre; con la collaborazione del Centro giovani del I Municipio e dell’associazione culturale Zalib.

Il programma completo qui: www.feminismfieraeditoriadelledonne.com

da L’Altravoce il Quotidiano

Ci sono libri di profonda sapienza femminile, come l’ultimo della teologa e suora domenicana Antonietta Potente In Amorosa Fedeltà – Leggere e trasmettere le Scritture, edito Paoline, che vanno letti lentamente, ascoltati, meditati prima di poterne scrivere qualcosa. Un libro scritto con affetto, a partire dalla propria esperienza, sulle Scritture ebraicocristiane – il termine è scritto volutamente tutto attaccato perché «le scritture ebraiche hanno fatto nascere quelle cristiane […], e il cristianesimo esiste grazie all’ebraismo». Un libro che non ha capitoli ma temi sparsi e che l’autrice non vuole venga classificato tra i libri esegetici, commentari e riflessivi su alcuni testi biblici. Il tema principale non sono le Scritture in quanto oggetto di studio, ma l’esperienza delle parole scritte e tramandate da secoli. Scrive non «per convincere qualcuno riguardo a una via da seguire» o per «difendere una trasmissione orale e scritta come l’unica tradizione possibile, e soprattutto, non per evangelizzare» ma perché in questo momento storico «c’è grande confusione su ciò che è tradizione e molta ignoranza sulle Scritture». Scritture che vanno schiodate dalle “pareti della storia” e le loro parole rese vive, prendendo ciò che serve per vivere (poesia, passione per la verità, bellezza, ispirazioni e visioni) e lasciando andare ciò che è contro la vita (guerre, violenza, patriarcato, esclusione). Esse appartengono a tutta l’umanità e se non si leggono è per l’errore delle religioni ebraica e cristiana che se ne sono appropriate «pensando di dire tutto di essi senza permettere che altre e altri li possano toccare». Come ricollocare questi testi […] nel mondo di oggi, come suscitare un interesse non per fare proselitismo, ma per il gusto della bellezza e del Mistero? Perché non fare delle Scritture un dono e una ricchezza della cultura universale? Perché chi fa studi classici dedica ore a studiare la letteratura della Grecia antica con tutti i suoi miti e non sa niente o poco dei testi biblici? «Nessuno è proprietario delle Scritture» e si possono comprendere solo «guardando la vita» e imparando a considerarli «non tanto come sacri e proprietà delle religioni» ma come «tradizione letteraria di differenti popoli», come «storia umana» con le sue contraddizioni e le «interpretazioni che talvolta facciamo di lei». A ogni pagina del libro, l’autrice ci esorta a leggere lentamente, ci chiede ascolto e ci lascia pagine in bianco per meditare e aggiungere ai suoi pensieri i nostri, perché «è così che la Scrittura “cresce” con chi legge o l’ascolta». La seguiamo nella volontà di trovare in quei testi «il filo del legame ancestrale con l’origine materna e allo stesso tempo divina» che con abilità i biblisti e coloro che li hanno seguiti nei secoli hanno cancellato, «instaurando un nuovo legame, quello con il padre e solo con il padre», come anche nel racconto della parabola del figliol prodigo «dove tutto gira attorno alla figura paterna e a quella di due figli maschi. La casa oltre che un luogo è un simbolico materno. Ma la madre non c’è». Tutto delle Scritture ha origine da una lunga tradizione orale che prima di essere scritta passa «di bocca in bocca», «di orecchio in orecchio». Fatti, esperienze, fiabe, visioni, detti, ascoltati e narrati «secondo punti di vista e modi di sentire la vita così diversi tra loro». Una tradizione simile a quella che «la gente comune crea di nonna in madre e figlia o figlio. La nonna ha detto qualcosa alla madre che lei, a sua volta, racconta alla figlia o al figlio», come certamente Maria che, per prima, racconta a Gesù le sue parabole, nate dalle leggende ebraiche. L’invito finale è di «restare in piedi» per respirare dalle Scritture la vita e il Mistero che la abita. Un libro profondo, da leggere più che raccontare.

(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 22 febbraio 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)

da Le parole e le cose

Nei suoi primi lavori si è occupata di Platone e Locke e la sua formazione filosofica è passata per la partecipazione al gruppo di ricerca sui concetti politici fondato dal professor Giuseppe Duso presso l’Università di Padova. In seguito è stata fondatrice, assieme a Luisa Muraro, della comunità filosofica Diotima di Verona. Ricostruirebbe questo passaggio dall’inizio della sua formazione filosofica a Padova all’apertura dell’orizzonte della differenza sessuale a Verona?

Cavarero: Padova per me è stata molto formativa come esperienza. Innanzitutto, perché ho imparato a leggere i classici con rigore, possibilmente in lingua originale. Mi sono formata con impegno, studiando sodo. Ho partecipato al gruppo di ricerca sui concetti politici con Duso ed altri, tra cui anche Pierangelo Schiera, che ci raggiungeva da Trento. Ho beneficiato particolarmente della sua presenza perché ci indicava testi fondamentali come quelli di Schmitt – ovviamente – ma anche di Hobbes, Locke, Rousseau, Hegel… Ma sin dall’inizio ciò che studiavo di più era Platone, sotto la guida di Franco Chiereghin. Ho conosciuto Hannah Arendt approcciandola come critica della filosofia platonica. Al tempo Arendt era davvero poco nota ma la profondità della sua lettura di Platone ha catturato da subito il mio interesse. Così ho scoperto la sua genialità, che mi ha spinto a leggere praticamente tutta la sua produzione. Alcuni testi non erano tradotti in italiano o erano difficili da reperire. Infatti, riuscii a trovare e leggere in italiano – se non ricordo male – solo Le origini del totalitarismo e Vita activa, il resto lo lessi in inglese. Da allora non l’ho più abbandonata poiché reputo che il suo pensiero offra una metodologia di indagine e di scrittura che è assolutamente originale. Per farsi un’idea, basti pensare che lei – in quell’epoca molto polarizzata tra tendenze marxiste e tendenze liberali (o cattoliche, soprattutto in Italia) – era stata in grado di elaborare una posizione autonoma e critica nei confronti di entrambe. Si tratta pertanto di un pensiero in grado di resistere alle polarizzazioni ideologiche. Al tempo trovai che quella di porre al centro della riflessione politica la categoria di nascita, così come la morte al centro della metafisica, fosse un’indicazione davvero preziosa. Mi sono poi trasferita a Verona semplicemente per comodità personale perché abitavo lì, avevo un bambino e quindi mi pesava molto questa pendolarità. A Verona ho incontrato Luisa Muraro, che era già una femminista di punta e aveva tradotto Irigaray del cui pensiero, perciò, aveva una buonissima conoscenza. Parlando con lei mi sono convinta che la differenza sessuale fosse un tema estremamente innovativo, se non eversivo. L’assunzione di questo problema centrale ha comportato, nella tradizione femminista, un lavoro di critica al patriarcato: la cosiddetta decostruzione. Questa operazione mi risultava abbastanza facile, perché se si conosce bene il testo della tradizione – non solo per sentito dire o di seconda mano, ma si frequentano direttamente i testi di Hegel, di Platone, di Aristotele – farne poi la decostruzione critica diventa molto più agevole. Sapevo come muovermi nei testi per individuare i punti deboli nella loro tessitura, riuscivo a comprendere dov’era celata una lacerazione o dove la logica conduceva ad un’aporia. Quindi abbiamo fondato Diotima che consisteva, da un lato, nella decostruzione del testo occidentale (ripeto, questa era la parte più facile) e, dall’altro, intendeva rispondere all’invito di Irigaray per cui la differenza sessuale è ciò che la nostra epoca ha da pensare. Così, si è cominciato a discutere in gruppo, a scrivere, e ne è nato il primo libro pubblicato per La tartaruga1, ovvero Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, nel quale il mio contributo era quello maggiormente teoretico.

Da cosa è scaturita l’idea della sua ultima pubblicazione, scritta con Olivia Guaraldo: Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa)?

Cavarero: L’idea nasce sulla base di una proposta di Mondadori. Mi hanno contattata chiedendomi di scrivere un libro sul femminismo in grado di fare chiarezza sul vocabolario che circola attualmente, spesso in modo molto confuso e concettualmente non fondato. Mi riferisco al linguaggio che ruota intorno a categorie come gender, transgender, intersex, fluidity, nonbinary… La parola gender viene utilizzata in maniera completamente diversa, da un lato, da coloro che fanno studi di genere o dalla comunità LGBTQIA+ e, dall’altro, da coloro che contrastano ideologicamente questo tipo di impostazioni come le forze neocattoliche e conservatrici. Avendo altri lavori in corso, mi sono avvalsa della collaborazione di Olivia Guaraldo che è stata, diciamo, una mia allieva e ora è professoressa ordinaria di filosofia politica a Verona. Olivia, come me, ha sempre studiato il femminismo e Hannah Arendt, del cui pensiero è una specialista. È stata una grande scommessa perché lo abbiamo scritto veramente a quattro mani: io facevo un pezzo, lei faceva un pezzo, poi ce lo scambiavamo e ognuna correggeva lo scritto dell’altra, cancellava e aggiungeva. Questo processo è stato naturalmente accompagnato da molte discussioni e mi ritengo soddisfatta del risultato. Certo, come tutti i testi è imperfetto, però è la nostra proposta. Insomma, il fine del testo è fare chiarezza sul linguaggio che circola, sui concetti che lo organizzano, tentando anche di spiegare posizioni che spesso vengono fraintese come quella di Judith Butler. I fraintendimenti derivano dal fatto che i testi di Butler sono molto difficili, per cui mi sembra che molti e molte di quelli che citano Butler non l’abbiano compresa fino in fondo. La sua scrittura è molto complessa e bisogna fare la fatica di seguire il suo ragionamento che si sviluppa attraverso tutta una serie di interrogativi, servendosi di un linguaggio molto articolato, quasi contorto. Per queste ragioni, abbiamo fatto anche un capitolo su Butler, cercando di fare chiarezza. L’idea, dunque, è stata in primo luogo della casa editrice, anche se io, Olivia e altre studiose pensavamo da tempo fosse necessario un intervento di chiarificazione del lessico femminista contemporaneo e degli equivoci a cui si espone. A noi che abbiamo seguito tutta la vicenda fin dagli albori e che conosciamo il panorama americano, internazionale, europeo, italiano, risultava insopportabile il livello di confusione nell’uso del vocabolario inerente al genere. Si pensi a quando le forze neocattoliche conservatrici hanno inventato la fantomatica “teoria gender”. Non esiste alcuna “teoria gender”, esistono gli studi di genere. La teoria gender è un’invenzione polemica.

Quali punti di continuità e di discontinuità possono esserci fra il suo pensiero e la prospettiva di Judith Butler? Ha parlato di una “radice filosofica” del pensiero di Butler che sarebbe in qualche modo venuta meno nella circolazione contemporanea del pensiero dell’autrice. Che cosa intende?

Cavarero: Judith Butler ha ottenuto il dottorato di ricerca all’Università di Yale, terminandolo con una dissertazione su Hegel. Inoltre, durante il dottorato ha avuto l’opportunità di soggiornare per un anno ad Heidelberg in Germania, dove ha potuto approfondire maggiormente il pensiero dell’autore. Questo denso percorso di formazione filosofica si sente nella sua scrittura. Intanto dal punto di vista della complessità: voi sapete che il linguaggio di Hegel – basti pensare alla Fenomenologia dello Spirito – non è proprio un linguaggio semplice. Dopodiché sono da tenere in considerazione anche le altre sue due radici filosofiche principali: Michel Foucault, che tramite il suo insegnamento a Berkeley ha esercitato una forte influenza sul pensiero americano post-moderno, e J.L. Austin da cui Butler ha tratto la nozione di performatività, mutuandola dal celebre How to do things with words. Il pensiero di Butler riposa, pertanto, almeno su questi tre importanti fondamenti filosofici. Inoltre, lei procede per problematizzazioni, per domande su domande che si specificano in altre domande ancora. Questo è un carattere – per così dire – rabbinico della sua argomentazione, probabilmente derivato dalla sua educazione ebraica. Altro tratto stilistico che, insieme alla già menzionata complessità del linguaggio, rende lo sviluppo del suo pensiero molto interessante ma al contempo molto complesso da seguire. Questo riguarda in particolare le sue prime opere come Gender Trouble: feminism and the subversion of identity (1990) e Bodies That Matter (1993) che ho fatto tradurre io stessa per Feltrinelli con il titolo Corpi che contano, scrivendo l’introduzione. Infine, Butler condivide con pressoché tutte le studiose e gli studiosi americani suoi contemporanei il riferimento alla psicanalisi, che complica ulteriormente le cose. Per ciò che concerne il mio rapporto con Butler – a parte l’amicizia personale che risale al 1990 – l’affinità principale è stata, almeno all’inizio, la critica al patriarcato. Mi sono occupata di elaborare una critica decostruttiva del patriarcato – per esempio – in Nonostante Platone, traendo da essa l’occasione per la parte costruttiva. Relativamente a questa pars construens ho un metodo su cui insisto spesso e che consiste nel riprendere dei concetti o delle figure del macrotesto patriarcale tentando di decodificarli per risignificarli diversamente. In questo modo intendo elaborare concetti o categorie che possano offrire una prospettiva femminista sulla differenza sessuale. Judith non ha questo metodo, ha piuttosto quello che definirei un “metodo a carrarmato hegeliano-rabbinico” che opera non tanto una risignificazione quanto una parodizzazione. Butler prende quelli che sono ritenuti i fondamenti del sistema patriarcale sovvertendoli. Come fa, ad esempio, in Gender Trouble, dove valorizza il potenziale eversivo del drag. Per Butler, infatti, lo scambio di genere posto in atto attraverso il travestimento non è uno scambio a somma zero bensì uno scambio che destabilizza e mette in ridicolo. Secondo lei questa destabilizzazione è un’operazione sovversiva che può avere un forte impatto critico sulla saldezza del sistema patriarcale e sulla sua immaginazione. Dunque, le nostre proposte sono molto diverse anche se abbiamo sempre dialogato con grande amicizia. Lei mi ha introdotto negli Stati Uniti, facendo tradurre i miei libri in inglese e scrivendone i blurb. Nel 2005 ha pubblicato il testo Giving an account of oneself dove dedica un capitolo al mio libro sulla narrazione [n.d.r. Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione (1997)]. Lei stessa ha dichiarato pubblicamente più volte che le ho insegnato a leggere Lévinas, lo dice sempre: «Adriana Cavarero taught me how to read Lévinas». Dunque il nostro è sempre stato uno scambio intenso. Inoltre, ultimamente la parte più teoretica, prettamente filosofica, del nostro lavoro intellettuale si è sempre più avvicinata, convergendo sul pensiero di Hannah Arendt. Nella nostra ultima produzione, io e Butler siamo entrambe interessate a concetti arendtiani come quelli di vulnerabilità, esposizione e soggetto relazionale. Io la cito molto nei miei libri e lei mi cita molto nei suoi. Trovo interessante il fatto che per ambedue si sia un po’ sopito l’interesse per i problemi relativi a sesso e genere mentre è aumentato l’interesse strettamente politico relativo a violenza, non-violenza e comunità.

Il suo pensiero e quello di Butler interrogano in modo molto determinato il concetto di ordine simbolico. Potrebbe spiegare in che cosa si differenziano i vostri approcci in relazione a questa nozione?

Cavarero: Sostanzialmente usiamo la nozione di ordine simbolico in maniere molto diverse. Butler, come ho detto, frequenta la psicanalisi e Jacques Lacan. Il pensiero dello psicoanalista francese era molto diffuso in America. Al tempo non si poteva assistere ad un talk, anche di un giovane ricercatore o di una giovane ricercatrice, che non cominciasse chiamando in causa il mirror stage di Lacan. Stava diventando veramente un ritornello ripetuto. Oggi non è più così in voga, per fortuna. Ad ogni modo, per chi studia Lacan, il Simbolico ha un significato tecnico che si può comprendere solo se lo si colloca tra gli altri due registri dell’Immaginario e del Reale. Per quanto mi riguarda invece, utilizzo la nozione di ordine simbolico come la possono usare gli antropologi o gli storici delle religioni. Preferisco questo genere di riferimenti culturali al Lacan “americano” con cui si confronta Butler. Per me le parole ordine simbolico indicano semplicemente quell’insieme di interpretazioni e di valori che è predominante. Quindi, uso questo concetto in una maniera più ampia e meno specifica di Butler che invece lo adopera in un senso più vicino a quello lacaniano. Sinceramente il pensiero di Lacan mi interessa poco. Per ciò che concerne la psicoanalisi ho letto con piacere Freud, Jung, Klein… Naturalmente come studiosa sono informata di queste teorie. Tuttavia, non mi affascinano e detesto l’uso che spesso se ne fa. Mi sembra che ci sia una tendenza a ricondurre tutto all’inconscio e che questa esponga al rischio di semplificare un po’ troppo.

Nel testo Nonostante Platone: figure femminili della filosofia antica (1990), cui ha fatto cenno, lei opera una risemantizzazione in chiave femminista di varie figure appartenenti alla cultura patriarcale dei greci. Ricostruirebbe l’operazione che ha effettuato sulla figura di Penelope per fornire un esempio di ciò che lei intende con risignificazione?

Cavarero: Certo, la figura di Penelope è una di quelle su cui mi sono maggiormente concentrata in Nonostante Platone. A ottobre ho tenuto una conferenza su Penelope a Roma, è stata organizzata una mostra che prevede una serie di incontri su Penelope la tessitrice. Ho trovato la mostra molto interessante perché è anche un omaggio a Maria Lai, la grande artista italiana che faceva opere con la tessitura e la filatura. Nel suo paese natale, in Sardegna, metteva fili di lana che attraversavano tutta la città. Penelope è una figura ancora viva, che non appartiene solamente al passato. La mia tesi in Nonostante Platone è che accanto alla Penelope canonica, tradizionale – la moglie fedele che sta nella stanza dei telai a filare con le ancelle, dove è destinata dall’ordine simbolico e sociale dell’epoca – ce ne sia un’altra, ben più interessante, che si tratta di far emergere. Ci sono dei segni, degli strappi, dei sintomi nel testo omerico che divengono rivelatori di altre possibili interpretazioni, qualora se ne faccia una lettura attenta. Ad esempio, quando torna dal suo viaggio, Ulisse è riconosciuto da tutti tranne che da Penelope. Altro elemento che non torna è l’attesa dei Proci: si può presumere avessero una minima intelligenza; eppure, credono che ci vogliano dieci anni per tessere il sudario di Laerte, il padre di Ulisse. Questa storia ripetuta da sempre è attraversata da alcune stranezze. Approfittando di questi due punti ambigui del racconto omerico, ho ricostruito la figura di Penelope rendendola una donna che non aspetta il marito e che, quando Ulisse torna, capisce che ciò significa la fine della sua funziona politica ad Itaca. Con il suo trucco di tessere e disfare, Penelope teneva di fatto in scacco il potere sull’isola. Attraverso questa ricostruzione ho offerto un’immagine, un simbolo all’esperienza femminista del separatismo, perché lei sta separata nella stanza delle ancelle e con la loro complicità elabora il trucco del sudario. Come il marito, ha una metis che non si esaurisce in un solo campo. L’uomo è guerriero, la donna tessitrice, questi sono i doni di Atena. Ma la metis di Ulisse non è solo guerriera, come dimostrano l’invenzione del cavallo di legno e l’inganno teso ai troiani facendo leva astutamente sulle comuni credenze religiose. In maniera analoga Penelope non è solamente tessitrice: stando nella stanza del telaio ed elaborando il suo stratagemma, tiene in scacco la politica, ambito al quale non dovrebbe avere accesso. Anche se, quando si reca nelle stanze dove si tengono le discussioni tra uomini, Telemaco le intima di tornare nella stanza del telaio, da questa Penelope riesce nondimeno a gestire la politica della città. Questa figura dà fiducia alle donne, simboleggia il fatto che anche a partire dal confinamento domestico o dalla costrizione a farsi carico della maggior parte del lavoro riproduttivo, come Penelope si può trovare il coraggio di sfidare il patriarcato e costruire la propria autonomia. Ma Penelope è solo un esempio, io non rubo una sola figura, ne rubo molte. Possono esserci molte vie di risignificazione dell’esperienza femminile, molti percorsi generativi.

Un riferimento significativo in Donna si nasce è quello al noto saggio Il contratto sessuale di Carole Pateman nonché a due importanti figure femminili contemporanee ai fatti della Rivoluzione francese, quali Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft. Che ruolo svolgono queste autrici nell’economia complessiva del vostro libro?

Cavarero: Dovreste porre questa domanda ad Olivia Guaraldo perché questa parte è stata scritta da lei! Ad ogni modo, approvo e condivido le sue tesi, quindi credo di poter rispondere in questo modo. Il discorso di Pateman sul contratto sessuale è molto interessante perché si pone in dialogo con l’antropologia e con la struttura portante della teoria politica moderna, ovvero il giusnaturalismo. Pateman ha come riferimento autori che a me e Guaraldo sono molto noti: Hobbes, Rousseau, Locke. In poche parole, i pensatori del contratto sociale, che è una specialità tutta moderna. Nessuno aveva mai teorizzato prima nulla di simile, la dichiarazione di un’uguaglianza e una libertà come determinazioni di ogni individuo. De Gouges e Wollstonecraft, invece, sono proprio sul terreno in cui queste cose si realizzano concretamente. Sia chiaro, non si tratta di studiose, di filosofe che si occupavano della teoria giusnaturalista. Wollstonecraft era una scrittrice inglese che aveva seguito da vicino gli eventi immediatamente successivi alla Rivoluzione francese, così come de Gouges che aveva pubblicato proprio in quegli anni alcuni pamphlet rivendicando l’uguaglianza delle donne agli uomini. Queste autrici si trovano di fronte a queste novità straordinarie vedendole trasformarsi, da puri concetti astratti, in elementi costituzionali, temi di operatività politica. Le teorie di Hobbes e Locke, prima di allora non avevano ancora avuto un risvolto pratico effettivo. Circolavano come pure teorie, come quelle mie e di Butler. Con la Rivoluzione americana e, soprattutto, con la Rivoluzione francese, quelle teorie e quei concetti avevano fatto irruzione nella scena della storia. Queste donne agiscono e scrivono mentre questi fatti si stanno verificando. Si capisce dunque che l’idea che donne e uomini siano titolari degli stessi diritti è davvero molto avanzata al tempo. Wollstonecraft è forse ancor più interessante di De Gouges, perché si avvicina molto alla struttura teorica della differenza sessuale sostenendo che vi sia una specificità femminile, come una maschile, che non deve però essere utilizzata come base per una discriminazione e una subordinazione. Questa specificità non corrisponde, infatti, a quella imposta al femminile dall’ordine simbolico patriarcale, cioè al fatto che le donne, a differenza degli uomini, non possono studiare, sono relegate in casa, devono essere lavandaie – se povere – o bamboline in attesa di marito – se appartenenti a famiglie abbienti. Questo è il giogo imposto dagli uomini sulle donne. Le donne, in forza della loro libertà e dell’uguaglianza agli uomini, sul piano dell’estensione dei diritti, devono avere accesso all’istruzione e alla libertà di movimento. Ma questo, sottolineo, non significa per Wollstonecraft che esse debbano identificarsi con gli uomini. Secondo lei, le donne hanno una certa esperienza di cura, di riflessione, che possono essere valorizzate nella costruzione complessiva di una buona società. Il suo orizzonte è quello di una società giusta, costituita da uomini e donne con uguali diritti ma differenti specificità. Divengono, a questo punto, complementari. Certo, io da sempre contesto la teoria della complementarietà dei sessi, ma se la si contestualizza nell’epoca in cui scrive Wollstonecraft, se ne comprende la dirompenza.

Le chiediamo, in riferimento a quest’ultimo tema, per quale ragione la sua riflessione sulla maternità, sviluppata nell’ultima parte del testo, giunga alla conclusione che la gestazione per altri riproduca surrettiziamente il controllo patriarcale sul corpo della donna?

Cavarero: Io parlerei proprio di una riproduzione diretta, nemmeno surrettizia. Nel senso che il vecchio padre della famiglia tradizionale controllava quando le donne potevano accoppiarsi, quando potevano rimanere incinte. Si trattava di un controllo immediato, esplicito per così dire. Ora si profila un tipo di controllo della capacità generativa della donna che penso sia per alcuni aspetti peggiore perché si tratta di uno sfruttamento commerciale. Ciò che non finirà mai di stupirmi è che la sinistra istituzionale sostenga questo o quanto meno che non vi si opponga con durezza. Mi chiedo come la sinistra possa sostenere quella che è un’evidente operazione di mercato. Ci sono agenzie che si reclamizzano per sfruttare il corpo di donne povere al fine di produrre bambini che, a loro volta, diventano merci vendibili. Resta da chiedersi: come si è giunti a questo? Attraverso la “scienza”, certo. La scienza progredisce strutturalmente, pertanto, fare una critica della scienza dal punto di vista della tendenza allo sviluppo mi sembra del tutto deleterio. La scienza ha un intrinseco desiderio di conoscere ed esplora ogni campo possibile. Un nuovo campo possibile, ora, è diventato quello della fecondazione in vitro. All’inizio essa permetteva di ovviare a problemi organici a causa dei quali la fecondazione non poteva avvenire in utero. A partire da questa opportunità, il mercato ha assorbito la rilevanza e il profitto che potevano generarsi dalla fecondazione in vitro. Questo profitto è cospicuo perché il flusso di denaro che circola in questo settore è in crescita costante. Io non ho molto da dire, se non mettere in guardia rispetto alla falsità di alcune narrazioni nelle quali si sostiene che le donne lo facciano gratuitamente perché vogliono donare la vita. Si tratta di invenzioni di marketing. Sono ipocrite. Se persone istruite che conoscono le retoriche delle strategie di marketing accettano queste narrazioni come vere e genuine, allora io, personalmente, non posso che parlare di ipocrisia.

Nel testo ricorre più di una volta la sottolineatura di un rischio che è quello di spostare l’asse del riferimento dalla differenza sessuale a un’altra modalità di concepire la differenza, ovvero nei termini di pura diversità individuale. In particolare, questo scivolamento viene da voi attribuito alle tendenze interne ai movimenti transfemministi contemporanei, che dal punto di vista teorico appaiono essere influenzati dalle riflessioni di Butler. In cosa consiste questa distinzione? Secondo lei è possibile elaborare una critica significativa al sistema patriarcale prescindendo dal riferimento alla differenza sessuale?

Cavarero: A questa seconda domanda voglio rispondere immediatamente: no. Il patriarcato è quel sistema che gerarchizza i sessi, garantisce privilegi agli uomini e subordina le donne, in una molteplicità di modi che divergono notevolmente a seconda del contesto storico, dagli antichi alla modernità, passando per il cristianesimo. Dal mio punto di vista, se prescindiamo dalla differenza tra uomo e donna, cioè dal fatto che si tratta di due soggetti sessuati diversi, bisogna tenere in considerazione che il patriarcato – al contrario – non dimentica questa differenza. Un esempio concreto: nell’organizzazione del lavoro la relazione patriarcale è ancora in vigore sebbene sottaciuta e apparentemente oscurata dalle agende che impongono di non considerare la differenza tra uomo e donna. Questo vale solo teoricamente. Il mercato del lavoro, dal punto di vista del riconoscimento del sesso maschile e femminile, non si sbaglia. Non si può elaborare il concetto di patriarcato se non si mette in primo piano che i sessi sono due e sono disposti gerarchicamente. Per quanto riguarda la distinzione tra differenza sessuale e differenze singolari, voglio chiarire che, essendo una studiosa di Hannah Arendt, penso che scopo della politica sia garantire uno spazio di interazione alle singolarità, alle “unicità incarnate”. Su questo tema ho scritto anche un libro, Democrazia Sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt (2019). Tuttavia, la differenza sessuale è un dato strutturale che attraversa le singolarità. Chi nasce è sempre un’unicità incarnata, ma ha anche, sempre, un sesso o l’altro. Abbiamo, ciascuno, una storia di vita, un’esperienza soggettiva che è singolare e unica. Il modo di esprimere questa singolarità è l’interazione in uno spazio comune, la costruzione di movimenti politici di riconoscimento delle differenze articolate all’interno della pluralità. Sottolineo pluralità, da non confondere né con la molteplicità delle diversità individuali, il cui rovescio è la radicale indifferenza, né con la moltitudine di Toni Negri. Eppure tutti noi abbiamo due gambe. Questo, forse, ci rende uguali? Certamente no. Il problema delle due gambe si pone a molti livelli, anche a livello filosofico perché siamo animali che non corrono molto in fretta, mentre le pantere, che hanno quattro zampe disposte diversamente, corrono più veloci. Ciò significa che esse hanno una modalità di adattamento ecologico e noi ne abbiamo un’altra. Nelle cacce primitive erano le pantere a cacciare noi, non viceversa. Questo ha determinato che la civiltà umana si organizzasse diversamente. Tutti gli elementi corporei non sono secondari rispetto alla storia umana, se è la storia umana che ci interessa… Ovviamente la differenza sessuale rientra fra questi elementi, non è secondaria quanto piuttosto strutturale, esattamente come lo è possedere uno stomaco.

Adriana Cavarero è professoressa onoraria all’Università di Verona dal 2019 ed ha insegnato come Visiting Professor nelle seguenti università americane e inglesi: University of California (Berkeley e Santa Barbara), New York University, Harvard University, University of Warwick e University of Chicago. Nel 1971 si è laureata cum laude in filosofia all’Università di Padova, dove ha poi svolto il dottorato di ricerca conclusosi nel 1974 con la pubblicazione della sua tesi di dottorato: Dialettica e politica in Platone. Ha poi collaborato con il gruppo di ricerca sui concetti politici fondato dal professor Giuseppe Duso, occupandosi del pensiero politico di John Locke e David Hume. Nel 1983, insieme, tra le altre, a Luisa Muraro, ha fondato la comunità filosofica Diotima a Verona, dove è stata professoressa ordinaria. Cavarero è riconosciuta, in Italia e all’estero, come una figura decisiva del pensiero della differenza sessuale. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Nonostante Platone. Figure femminili della filosofia antica (1990), Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofie della narrazione (1997), Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt (2019) e l’ultimo testo, scritto assieme ad Olivia Guaraldo e pubblicato nel 2024 per Mondadori: Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa).

Note

  1. N.d.r.: La Tartaruga è una casa editrice italiana fondata, nel 1975, da Laura Lepetit e Anna Maria Gregorietti Gandini. Si occupa di pubblicare libri di narrativa, critica letteraria, filosofia e politica scritti unicamente da donne. Legata a doppio filo con i movimenti femministi italiani, a partire dagli anni ’70 ha pubblicato – tra le altre – le opere di Virginia Woolf e Gertrude Stein oltre che la saggistica femminista prodotta da autrici appartenenti a Diotima come Adriana Cavarero, Luisa Muraro, Wanda Tommasi e Chiara Zamboni. Dal 2017, La Tartaruga fa parte del gruppo La Nave di Teseo e, dal 2021, è curata da Claudia Durastanti. Nel 2023 la casa editrice ha ripubblicato Sputiamo su Hegel (1970) e nel 2024 Taci, anzi parla (1978) di Carla Lonzi, nel contesto di un progetto editoriale che prevede una nuova pubblicazione dell’intera opera dell’autrice fiorentina. ↩︎

da Il Corriere della Sera

Alla palestinese nel 2023 alla Buchmesse fu assegnato ma poi non consegnato il LiBeraturpreis: «Non è questa la cosa che fa male…». In Italia torna il suo romanzo “Sensi”

Adania Shibli ama ascoltare storie, quelle che sua mamma – che non sapeva scrivere – invece sapeva raccontare così bene. L’ha spiegato qualche anno fa in un’intervista al «Guardian». E c’è una mamma che non legge, che resta esclusa dal mondo della bambina alla scoperta dei libri anche in Sensi, il piccolo capolavoro che Shibli ha scritto quasi vent’anni fa, all’esordio, e che, uscito in Italia per Argo nel 2007, torna ora con La nave di Teseo.

Nel frattempo, Adania Shibli, palestinese, è diventata un’autrice di culto. Ha pubblicato pochissimo: Sensi, Un dettaglio minore, alcuni racconti e ha completato un romanzo che sta per uscire in arabo. Su Un dettaglio minore – 128 pagine, sempre per La nave di Teseo – ha lavorato dodici anni. Eppure è tra i nomi più ammirati della letteratura mondiale, fu candidata con quest’ultima opera sia al Booker Prize che al National Book Award, i due più importanti premi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Il suo nome è diventato noto a un pubblico ampio quando nel 2023 alla Buchmesse di Francoforte le fu conferito il LiBeraturpreis ma la consegna venne sospesa per non urtare certe suscettibilità tedesche, subito dopo il 7 ottobre e l’inizio della guerra di Israele contro Hamas. Ne è nata una sollevazione internazionale, con premi Nobel come Olga Tokarczuk, Annie Ernaux e Abdulrazak Gurnah intervenuti in suo favore. Quando ci risponde, dice che non vuol parlare di politica. Nessuna intenzione di tirarla a forza in polemiche, precisiamo. «Ci mancherebbe, nessun problema, non me ne potrebbe importare di meno – dice – di finire in controversie politiche. È che mi piacerebbe parlare di letteratura».

Un dettaglio minore è la storia di uno stupro, compiuto da un ufficiale israeliano su una ragazza beduina nel 1949, e la ricerca molti decenni dopo da parte di un’impiegata palestinese per conoscere la verità della ragazza. Sensi potrebbe anche essere l’educazione (esistenziale, più che sentimentale) di una ragazzina palestinese – mentre la vita del suo popolo è letta attraverso le esperienze dei suoi famigliari – fino alle nozze che lei non vuole, o non vorrebbe.

Shibli vive tra Berlino, Bir Zeit (in Palestina, dove insegna) e Londra, dove ha ottenuto un dottorato in Studi culturali. Ed è estremamente colta, con una solida base teorica, dentro il dibattito contemporaneo: si potrebbe anche dire che sia una delle voci dell’antirazzismo mondiale. Ma quando scrive, la sua è una lingua pura, fatta di pochi elementi, scorre quasi come una poesia: non a caso l’ha notata e incoraggiata a scrivere il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish. Fluisce per immagini, quasi come un’installazione letteraria. E non la si dimentica più. «È un miracolo che la fiction che Shibli compone da un materiale abbondantemente politico sia così strettamente esistenziale», ha scritto di lei l’autore e critico inglese Adam Thirlwell. Difficile trovare parole più precise.

Lei sceglie spesso ragazze giovani come soggetto dei suoi libri, o adotta il loro punto di vista. In Sensi, la protagonista è una ragazza particolare: sente suoni, a poco a poco scopriamo che è molto intelligente. Perché?

«Non sono sicura che sia così, ma è certamente vero per Sensi, e forse per altre due storie brevi. In Sensi, la dimensione di essere una ragazzina suscita incontri con il mondo a molti livelli, e questo mondo è vissuto ogni volta per la prima volta. Man mano che la protagonista cresce, il modo in cui lo percepisce cambia. Infatti, è attraverso questi cambiamenti portati dai suoi sensi che vive la crescita, piuttosto che attraverso gli strumenti usuali per misurare il tempo, come contare i giorni e gli anni».

La morte del fratello, il suicidio di un vicino che si impicca in Sensi, l’uccisione della ragazza beduina in Un dettaglio minore. La morte sembra quasi una presenza naturale.

«Ma anche la vita. I personaggi in questi romanzi sono affascinati dalla vita che continua dopo la morte o la precede; da come la vita continua con le assenze degli altri. Forse i miei testi sono segnati da queste assenze, tormentati dalla domanda su come portiamo nelle nostre vite la presenza di coloro che non sono più con noi. O su come le morti stanno formando le nostre vite, talvolta deformandole».

Perché non dà nomi ai protagonisti?

«Finora non ho incontrato un personaggio che richiedesse un nome. I personaggi richiedono cose diverse in un testo: movimenti, passati, emozioni, amore, solitudine e a volte richiedono un nome, ma non sempre. Nel nostro rapporto intimo con noi stessi difficilmente abbiamo bisogno dei nostri nomi, per esempio».

L’ufficiale-assassino non prova empatia. E forse neppure la donna palestinese che indaga. Quant’è importante per lei esplorare come si partecipa alla vita degli altri, o l’impossibilità di farlo?

«La scrittura e la lettura, e l’arte in generale, ci permettono di fare spazio in noi per gli altri. Non soltanto condividiamo qualcosa con loro, piuttosto questi altri fittizi, attraverso la lettura o la scrittura, possono abitare in noi. Spesso possiamo dimenticarci di noi stessi quando leggiamo o scriviamo, a favore di ciò che stiamo leggendo e scrivendo. E questo è ciò che alcuni definiscono come l’effetto trasformativo della letteratura e dell’arte. Non è qualcosa che pianifichiamo, piuttosto qualcosa che ci accade. Non si tratta di identificarsi con un personaggio, ma di come i personaggi risvegliano qualcosa in noi che alla fine ci rende consapevoli di un luogo dentro di noi che non conoscevamo fino a quel momento, o che non avevamo notato. Una tale consapevolezza, per esempio, è la nostra capacità di causare dolore, che l’ufficiale potrebbe risvegliare quando stupra e uccide la ragazza».

Lei ha vinto premi importanti. La consegna del LiBeraturpreis alla Buchmesse, nel 2023, fu sospesa a causa delle controversie legate alla guerra israelo-palestinese. Si è sentita ferita?

«Innanzitutto, non chiamerei questo conflitto “guerra israelo-palestinese”. Lo definirei occupazione militare israeliana e colonizzazione della Palestina da decenni. Ed è questo che fa male, fa profondamente male, la distruzione che dura da decenni e che viene inflitta ai palestinesi e agli israeliani, ciascuno con il proprio ruolo e la propria posizione all’interno di tutto ciò. C’è stata una sottomissione continua dei palestinesi mediante l’oppressione militare e politica, attivata da un sistema di dominazione basato su una gerarchia etnica che è stata implementata in Palestina/Israele. Come questo sistema di gerarchia etnica continui a essere mantenuto e le sue conseguenze, che distruggono i palestinesi ma anche gli israeliani, ciascuno in modo diverso a seconda del proprio ruolo e delle proprie azioni in questo sistema, è ciò che fa male. Non la cancellazione del premio che era previsto».

È affascinata dalla storia come materiale di scrittura?

«Piuttosto, sono attratta e incuriosita da ciò che la storia non può narrare, o da ciò che la storia abbandona. La storia è stata la materia scolastica che ho odiato di più, perché già allora era evidente la moltitudine di assenze e esclusioni su cui si basa come disciplina».

Il dolore sembra centrale nei suoi libri. Rimane sospeso, osservato, spesso sembra indicibile.

«Fin dall’inizio la scrittura mi ha insegnato come esistere nel mondo causando il minor danno possibile, e permettendomi di vivere alcune esperienze che non possono essere vissute nella realtà in sé. Ciò che ha reso possibile tutto questo è la capacità della letteratura di orientare lo sguardo verso il dolore senza la necessità di praticarlo, e senza permettergli di diventare una forza distruttiva. In Sensi, per esempio, la bambina fatica a comprendere l’entità di un massacro come quello di Sabra e Shatila nel 1982, e ciò che potrebbe essere l’esperienza delle sue vittime, ma questo le consente di cercare di tentare di comprenderlo. In altre parole, di creare una consapevolezza che va oltre la questione dell’esperienza diretta».

Le sue storie sembrano dipinti: il deserto, le stelle, i fiori di mandorlo. È perché ama le arti visive?

«Se scrivo in questo modo, è probabilmente perché amo la lingua più di quanto ami le arti visive».

Perché è necessario raccontare storie?

«Sono più attratta dall’ascoltare storie che dal raccontarle. Qual è l’importanza di ascoltare storie? Suppongo sia un’espressione d’amore: permettere all’orecchio di essere presente e vicino agli altri, in ascolto».

Sabato 8 febbraio 2025 abbiamo ospitato alla Libreria delle donne Luciana Castellina, in una giornata che per lei è stata molto intensa visto che la mattina era a Roma al funerale laico di Aldo Tortorella, compagno di tante battaglie. A 95 anni, continua a portare con sé la passione e la voglia di discutere, raccontare, confrontarsi con un’energia meravigliosa.

Aldo Tortorella è stato una figura centrale nella storia della sinistra italiana, dirigente del PCI e intellettuale di primissimo piano. Ma, come ha scritto Luciana Castellina nel suo bel ricordo su “il manifesto”, per chi ha vissuto la politica come una scelta totalizzante, non era solo un compagno di partito: era parte di una comunità in cui la politica e la vita si intrecciavano completamente. “L’impegno politico non era a quei tempi un aspetto della propria vita, era la vita stessa.”

E in fondo, La scoperta del mondo, il libro presentato in Libreria nella sua nuova edizione, è proprio questo: il racconto di una generazione che ha vissuto la politica non come qualcosa di separato dalla vita, ma come una dimensione in cui tutto si mescolava, amicizie, passioni, amori, lotte.

Ci sono libri che raccontano il passato e libri che, pur narrando eventi di un’altra epoca, parlano direttamente al presente e al futuro. La scoperta del mondo di Luciana Castellina è uno di questi. Non è solo un’autobiografia, ma un invito, un racconto che attraversa generazioni, un ponte tra chi ha vissuto il Novecento e chi oggi si interroga su come cambiare il mondo.

Luciana Castellina, nella nota che accompagna questa nuova edizione, ci dice qualcosa di potente: i giovani di oggi non sono spoliticizzati, sono solo in cerca di uno sguardo più lungo, di una visione più ampia di quella che spesso la politica ufficiale offre loro. Castellina guarda avanti, osserva i giovani con curiosità e ottimismo, li riconosce come eredi di una voglia di cambiamento che non si è spenta. E allora questo libro diventa un ponte: tra chi ha vissuto anni di grandi trasformazioni e chi oggi cerca strumenti per affrontare il presente.

Il libro ripercorre i diari giovanili di Luciana Castellina, dal 25 luglio 1943, quando Luciana ha 14 anni e sente la notizia dell’arresto di Mussolini. In quel momento, inizia anche il suo percorso politico, lei che si affaccia al mondo in un contesto fascista e non vede una reale alternativa, il suo ambiente è antifascista e anticonformista ma non attivamente partecipe alla Resistenza e intorno a lei in molti sono presi dalla propria sopravvivenza personale, c’è paura, c’è la guerra. Lentamente, attraverso incontri, letture, esperienze, si apre una breccia oltre la propaganda e la paura. E Castellina descrive questo momento con una frase che colpisce “Finalmente, anziché occuparmi dell’onore perduto della patria, esprimo qualche preoccupazione per chi non può pagare l’olio a 2200 lire il fiasco e le uova a 22 l’una. Qualcuno mi ha detto che ci sarebbero stati persino assalti si forni nei quartieri popolari. E uno sciopero generale dei lavoratori dell’Atac, della Romana Gas, del Poligrafico. La ribellione – era ora! – cominciava a piacermi” (pag. 84).

Con la fine della guerra, l’orizzonte si allarga. C’è entusiasmo, c’è voglia di capire, di agire, di prendere parte alla costruzione di un mondo nuovo.
Ma avvicinarsi alla politica non è immediato. Luciana si sente inadeguata, ha una sete di sapere che non sa dove cominciare a colmare. È un sentimento che io ritrovo nei giovani di oggi, smarriti davanti alla complessità del mondo e privi di strumenti per decifrarlo. Inizia ad appassionarsi alla pittura, ma non in modo astratto: per lei, l’arte è uno strumento politico, un mezzo per leggere e raccontare la realtà. Confrontandosi con altri giovani pittori – quasi tutti comunisti – cresce anche la sua coscienza politica. Capisce che la politica è il contrario di guardarsi l’ombelico, è la scoperta dell’altro e del mondo: “È questa dimensione nuovamente collettiva che mi aiuta a uscire dall’autoreferenzialità, che mi fa persino ritrovare il senso di quella parola – patria – che prima scrivevo con la P maiuscola, poi avevo del tutto cancellata come inganno e retorica. La pietà che comincio a sentire per il mio prossimo più lontano dal mio ghetto sociale, per i senza privilegi, gli sfollati, i disoccupati, i reduci, i martiri, mi ridà una dimensione collettiva, solidale. E che a poco a poco mi apre alla curiosità della politica, che è, appunto, il contrario del proprio ombelico” (pag. 117).

Questi sono anni in cui la felicità e l’angoscia convivono. Da un lato, la sensazione esaltante di avere tutto il mondo davanti e volerlo scoprire, una sensazione di felicità che l’accompagna spesso, come scrive (pag. 121). Dall’altro, la paura di forze enormi e incontrollabili, come la bomba atomica (pag. 120).

Il vero punto di svolta arriva con un professore del liceo, Giuseppe Petronio, che le fa capire quello che non aveva mai compreso prima. Nel libro si trovano piccole perle di curiosità, umanità e intelligenza, disseminate tra le pagine. Per esempio, Luciana annota la fine della guerra il 26 aprile del 1945 e un paio di giorni dopo l’uscita del film di animazione Biancaneve (pagg. 98-99). Oppure nel 1947 registra i lavori dell’Assemblea Costituente, che tratta anche temi come il divorzio o i figli illegittimi, scoprendo che ciò che ha sempre considerato privato è in realtà profondamente politico (pag. 142). La sua vita cambia completamente. Viaggia, partecipa a un’esperienza di lavoro volontario in Jugoslavia, entra in contatto con coetanei da tutto il mondo. Scrive: “Dopo la lunga ghettizzazione del fascismo e della guerra, il mondo ci è letteralmente scoppiato in mano: variopinto, iperplurale, inaspettato” (pag. 177).
Entra nel PCI, dove scopre un rigore morale che non ha mai vissuto nella sua famiglia. Nel 1947, a Praga, capisce che il comunismo non è solo una scelta politica, ma la possibilità di un mondo alternativo. Praga diventerà anche il simbolo di un altro momento cruciale della sua vita: la rottura del 1968, la radiazione dal PCI, la nascita de il manifesto dopo l’invasione sovietica.

Fin dall’inizio, la sua idea di politica è chiara: non è la spartizione del potere, ma un impegno collettivo per il riscatto dell’umanità: “La politica sarebbe arrivata dopo, poco alla volta. Ma per noi, che venivamo dall’università, quella è una straordinaria lezione di politica. Oggi direi di ‘politica vera’, allora non avevo nemmeno idea che potesse essercene una diversa” (pag. 200). E ancora: “Figure umane straordinarie, che regalano ore e ore della loro giornata all’impegno collettivo, senza neppure porsi il problema di un risarcimento che non sia quello ideale del riscatto dell’umanità. Cariche elettive o nomine o prebende sono lontanissime dall’orizzonte. Per anni, credo di non aver incontrato deputati o consiglieri comunali o, se li ho incontrati, non li ho distinti dagli altri militanti” (pag. 201). E questo, oggi più che mai, resta un nodo fondamentale: come si può pensare la politica senza trasformarla in puro individualismo o in gestione di cariche e di potere?

Luciana Castellina, nella sua lunga vita di impegno politico e culturale, non ha mai smesso di interrogarsi sul presente e di dialogare con il futuro. Nel 2024 ha rilasciato un’intervista a un giovane studente del Liceo Manzoni di Milano, Giaime Nisivoccia, dove pone delle domande radicali: Vi piace il mondo così com’è? Vi sembra giusto? Se no, avete pensato a come cambiarlo? In fondo, sono le stesse che si poneva a 14 anni, quando iniziava a scoprire la realtà fuori dalla bolla del fascismo. In questa intervista pubblicata sul giornalino della scuola, Luciana Castellina dice che oggi come allora, molti giovani avvertono l’ingiustizia, il disagio di vivere in una società che non offre spazio e opportunità a tutti allo stesso modo. E aggiunge che il nemico più pericoloso non è solo l’ingiustizia, ma la rassegnazione. Proprio qui il suo libro diventa importante: perché racconta la scoperta della politica non come ideologia astratta, ma come qualcosa che riguarda la vita concreta, le relazioni, le scelte quotidiane. La politica come il contrario del ripiegamento su se stessi, come lo strumento per uscire dal proprio ombelico e scoprire il mondo.

Il passato serve se è capace di parlare al presente. Questo libro lo fa, e lo fa senza retorica, senza nostalgia. È un racconto di formazione che si apre al futuro, perché chi lo legge – giovane o meno giovane – possa farsi le domande giuste. E magari trovare le proprie risposte.

da Il Quotidiano del Sud

La vita è imprevedibile, ti sorprende quando meno te l’aspetti e ti costringe a interrogarti, a guardarti dentro per capire e capirti, per cercare e dare un senso a quanto ti è accaduto quando pensavi di aver vissuto le tue esperienze amorose e nell’età del tramonto non ti aspetti più niente. Ed ecco invece che irrompe l’imprevisto, l’impensato, il non cercato, che ti apre alla conoscenza di quel lato buio e inesplorato dentro di te, messo per lungo tempo a tacere. È quello che Katia Ricci, scrittrice e critica d’arte, racconta nel suo ultimo libro, a giorni in libreria, In penombra, edito da Les Flâneurs. Un libro confessione, un romanzo tra realtà e sogno, tra vissuto e inventato che porta l’autrice, donna consapevole di sé con alle spalle anni di femminismo, a misurarsi con le sue emozioni, paure e sessualità, a lungo taciute. Emozioni e sentimenti rimasti per anni in ombra, nonostante la pratica dell’autocoscienza degli anni ’70, e portati in superficie in un tempo “impreciso” e nello spazio di una stanza in penombra, dove l’autrice, seduta su una sedia a dondolo e lo psicoterapeuta di fronte a lei, parla delle sue fobie, dei traumi della sua infanzia, delle inquietudini e incubi notturni, del vuoto e della mancanza che sente dentro di sé, mentre aleggia il fantasma del padre che l’ha accompagnata per tutta la vita, rendendo i suoi rapporti con gli uomini complicati. Tornano lontani ricordi della sua infanzia, della madre, del suo sentirsi non amata, della casa, della campagna, della natura in cui è cresciuta, di lei adolescente che nascondeva le sue fragilità e il suo bisogno di amore dietro la sfrontatezza che la faceva sembrare forte. In quella stanza in penombra, dove si sente accolta, ascoltata senza paura del giudizio, è arrivata con il bisogno di parlare delle sue paure, «capirne la ragione e possibilmente guarire», ma l’imprevisto la sorprende, la coinvolge e la interroga. A poco a poco, infatti, il rapporto medico-paziente cambia, viene travalicato e quello che poteva essere un innamoramento terapeutico diventa un sentimento di amore corrisposto, che le regala sensazioni mai provate prima. Un amore vissuto e accettato con consapevolezza, raccontato con delicatezza e gratitudine ma anche con timore di essere giudicata dalle donne, dalle amiche con cui condivide quotidianità, affetti e politica. Perché scrivere di una storia passata e che si trova a raccontare al suo psicologo? Non ha certezze. «Forse per lenire il senso di mancanza, per riempire con la scrittura un vuoto disperato. O forse per cercare di fare emergere una trama che abbia un senso in tutta la storia, oppure per chiudere un cassetto che rischia di rimanere sempre aperto e di procurarmi dolore, oppure per capire come e perché sia successo». Qualunque sia la ragione l’autrice ci regala un libro coinvolgente, in cui ci/si svela a se stessa, ripercorre i suoi pensieri, analizza cosa l’avesse «spinta a cercare conforto e rifugio in un amore tardivo», nella consapevolezza che il rapporto analitico era fallito e che lui era stato “scorretto”. Ma a lei piaceva, si sentiva coccolata, ascoltata, vista e tra le sue braccia, come nel contatto con la madre della primissima infanzia, le paure e le fobie sparivano. Si era scoperta bisognosa d’amore e di cura, e lui glieli aveva dati. Si interroga continuamente, si fa domande a cui non ha risposte certe. Perché un uomo e non una donna psicoterapeuta? Di che cosa sentivo veramente bisogno? Quali mancanze avevo? Percepivo che la mancanza principale fosse non aver avuto una figura paterna rassicurante. Lui ne faceva le veci. Aveva capito il mio vuoto e da narciso qual era aveva deciso di riempirlo? Fu tutta una trappola? Forse è vero, «bisognerebbe poter vivere almeno due volte, una di prova e l’altra per davvero».

da Il Foglio

Un corpo a corpo fatto di continui slanci, stacchi, rimandi. Adriana Cavarero sfida la filosofia della maternità, antica e contemporanea

«Non sono stata una buona madre». È una delle prime cose che Martha, interpretata da Tilda Swinton, rivela all’amica scrittrice Ingrid, Julianne Moore, nel serrato dialogo intimo tra due donne che è l’ultimo film di Almodóvar, La stanza accanto. Davanti alla richiesta della madre di condividere con lei la scelta dell’eutanasia, la figlia Danielle si è tirata indietro, con un definitivo: è una scelta tua. «Ero troppo presa dal lavoro», confessa Martha, ex famosa inviata di guerra. «Una donna che fa questo mestiere è costretta a trasformarsi in un uomo. E poi ero troppo giovane quando l’ho avuta, e l’ho cresciuta da sola…». Con queste incerte giustificazioni di un rapporto mancato Martha sembra perdere la sua forza di carattere, e mostra all’amica la fragilità di una madre che sente di non essere stata all’altezza. Dov’è che ho sbagliato? chi di noi non se l’è chiesto… Ma quante colpe hanno le madri, e quante ne hanno le figlie? La filosofa e storica della filosofia Adriana Cavarero, negli anni Ottanta tra le fondatrici insieme a Luisa Muraro all’Università di Verona della comunità filosofica Diotima, il nucleo teorico del femminismo italiano, al materno e alle sue contraddizioni ha dedicato un saggio denso di suggestioni, Donne che allattano cuccioli di lupo, Icone dell’ipermaterno (Castelvecchi). Oggi è diventato molto difficile parlare di maternità, ci dice Cavarero, appare politicamente scorretto, ed è diventato oggetto di censura e anche di autocensura. Prevale il timore che il lavoro di “fare altri corpi”, secondo l’espressione efficace di Donna Haraway, rischi di imprigionare di nuovo le donne nella trappola patriarcale della riproduzione della specie. «Come se la maternità ci stringesse in una nuova gabbia epistemologica di matrice femminista da cui non possiamo uscire. O come se nominare il corpo materno da cui siamo nate, e magari riflettere sulla sua potenza simbolica o il suo valore conoscitivo, fosse controproducente per una libera costruzione della soggettività femminista».

Al centro della sua elaborazione la filosofa mette il corpo della madre, che è anche il corpo della figlia. Perché madre e figlia sono due-in-una, legate dall’essere dello stesso sesso, capaci entrambe di mettere al mondo, di esistere nel ciclo eterno della zoé, l’essenza della vita. Per farci entrare nella complessità del rapporto madre-figlia la filosofa ricorre alla letteratura. «Quando si narra della maternità bisogna raccontarne anche il versante buio», scrive Elena Ferrante in La frantumaglia. La sua scrittura, sostiene Cavarero, tocca quel processo generativo della materia vivente che pulsa nel corpo materno, nel profondo della carne e della psiche. «È nel suo grembo che avviene quella singolarità incarnata che noi siamo nella scissione dall’altra e nell’altra, quella sorta di frantumazione originaria che è mettere al mondo-venire al mondo». Citando anche la Clarice Lispector di Passione secondo G.H., mostra “il tremendo” del corpo della madre: la gestazione e la spinta del parto sono un evento che va al di là della civilizzazione, rende la donna complice della natura. Il «tremendo del figliare» – come dice Clitemnestra nell’Elettra di Sofocle – lo si ritrova anche in Annie Ernaux nel suo L’evento, ricostruzione dell’aborto di quando era ancora giovanissima: «È come se questa donna che si dà da fare tra le mie gambe, che introduce lo speculum, mi stesse facendo nascere. Ho ucciso mia madre in me in quel momento».   

La conferma di questo legame intergenerazionale non solo simbolico con la linea materna, con le generazioni una dentro l’altra, la successiva annidata nella precedente – come la figura della matrioska nella cultura popolare dell’est – la si ritrova nella biologia, raccontata dalla giornalista scientifica americana Natalie Anger, premio Pulitzer, nel suo Donna, una geografia intima, che spiega come il feto della bambina al quinto mese di gravidanza ha già una dotazione di sette milioni di ovuli, che diventano uno o due al momento della nascita. «Ecco, le cellule uovo di mia figlia sono granuli argentei di energia potenziale, con i cromosomi già scelti: frammenti della storia dei suoi genitori impacchettati in minuscoli involucri fosfolipidici. Quanto a voi, non potete mai dire a priori quante interazioni vi aspettano, sperate che il gioco continui per sempre».

Cavarero vuole sfatare l’anti-biologismo della tradizione filosofica e la diffidenza del femminismo nei confronti della biologia, che ha avuto la sua espressione più nota ne Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Lo fa nel suo ultimo libro Donna si nasce (Mondadori), scritto a quattro mani con Olivia Guaraldo, anch’essa filosofa all’Università di Verona, nato proprio in opposizione a quel «donne si diventa», la storica frase di De Beauvoir che definiva l’essere donna un prodotto culturale e sociale (d’altra parte la generazione di Simone de Beauvoir indicava nell’emancipazione dal destino della maternità la chiave della liberazione femminile; oggi sono abbastanza imbarazzanti le citazione di De Beauvoir, tipo «la donna che genera non conosce l’orgoglio della creazione, si sente passivo giocattolo in mano di forze oscure»…). Dedicato alle ragazze, in un colloquio diretto e coinvolgente per ricostruire la storia del femminismo, Donna si nasce affronta anche tutti i temi divisivi di questi ultimi anni: la differenza sessuale, la teoria del gender, la gravidanza per altri. Temi che hanno lacerato il movimento delle donne e fatto molti danni. «Ci chiediamo», dice Cavarero, «come la gravidanza per altri o meglio l’utero in affitto – dà l’idea della reale compravendita – possa essere considerata un’espressione di libertà delle donne. È al contrario una forma di nuova schiavitù, uno degli ultimi scalini del biocapitalismo, che per nove mesi diventa proprietario dell’utero di una donna».

La storia della catena infinita delle madri generanti inizia da molto lontano, dal mito di Demetra e Kore. Demetra, la madre, è la dea della terra, Kore è la figlia lontana dagli occhi, rapita per sei mesi all’anno da Ade, dio degli inferi, con il consenso dell’Olimpo. L’ombra del ravissement – l’intervento terzo, dice Lacan, l’entrata in scena dell’Altro – incombe su di loro, spezza la relazione profonda tra madre e figlia, l’amore originario e necessario. Kore per sei lunghi mesi non sentirà più le mani sapienti della madre pettinarle i capelli. Inutile sarà bruciare l’incenso e intrecciare ghirlande di fiori, inutile sarà offrire il maialino alla grande dea madre degli antichi riti segreti. È finita l’ultima estate dell’innocenza, ormai tutto è deciso, le due parti perfette della stessa unità saranno divise per sempre. Su questo mito ha molto lavorato la psicoanalista junghiana Lella Ravasi: Di madre in figlia è stato un livre de chevet per molte donne che hanno vissuto il femminismo. Scrive Ravasi: «Ogni donna contiene in sé la propria madre e la propria figlia, dice Jung. Era esattamente ciò che stavo vivendo, ma era anche quello che avevo rifiutato nel nome dell’emancipazione da un femminile tradizionale rappresentato da mia mamma, da mia nonna e così via. Ma la mia verità stava lì, nella fusione e nella confusione, e forse è in quel nodo mai sciolto che si rintraccia il modello fondante della relazione tra donne». Per Freud, si sa, la donna era un mistero, una porta che aveva appena socchiusa. Mentre dava con il complesso di Edipo una risposta eroica al legame che unisce il figlio maschio alla madre, non riuscì a fare altrettanto per la figlia femmina. Di quella oscura relazione della bambina con la madre rimaneva solo la patologia, rinchiusa in una crisi isterica o in un delirio autolesionista. E una macchinosa invidia del pene. È stata Melanie Klein a rompere il silenzio del secolo partendo proprio dalla bambina: perdutamente innamorata del corpo materno, su quella passione impossibile modellerà la sua sessualità. La madre può infatti porgere il “seno buono” o il “seno cattivo”, come la mela avvelenata delle fiabe dei Grimm: in Invidia e gratitudine Klein elabora quegli impulsi contrastanti di amore e odio, di distruzione e restituzione che legano la bambina alla madre. Al suo pensiero ha attinto il femminismo degli anni Settanta: «Il rapporto figlia-madre, madre-figlia è il continente nero del continente nero, la cui estensione non è mai stata né misurata né definita, così da diventare il punto più oscuro del nostro ordine sociale e simbolico, la sua notte e i suoi inferi», scriveva Luce Irigaray in Sessi e genealogie. Oggi Cavarero può dire: «Lo vediamo ormai da più generazioni: nel momento in cui si va oltre lo stereotipo della madre oblativa, la figlia emancipata non si riconosce più in lei, vuole essere diversa. Ma c’è un motivo più profondo nel loro conflitto: il loro è un rapporto tra due singolarità, non può essere imitativo l’una dell’altra». Il rapporto madre-figlia è così un corpo a corpo fatto di continui slanci, stacchi, rimandi. Per la figlia tutta l’adolescenza e spesso gran parte della giovinezza è una serrata battaglia per mettere le distanze tra sé e la madre. Facendo continui aggiustamenti tra l’ingombrante presenza della madre reale e il sogno della madre immaginaria, irraggiungibile oasi di quiete, reliquia dell’amore originario. Per ogni madre invece è sempre inaspettato e doloroso il momento in cui la figlia metterà in scena il teatrino dell’allontanamento, quella mossa della distanza che anche lei aveva messo in atto con la propria, di madre. Da qui, da questo nodo riaffiorato alla luce, è nato il pensiero della differenza sessuale e quel lungo lavorio dell’autocoscienza attraverso la pratica dell’inconscio per ritrovare le tracce materne.

Del versante buio del materno hanno parlato due romanzi recenti, l’autobiografico Dove non mi hai portata (Einaudi) di Maria Grazia Calandrone, finalista allo Strega, e Epigenetica (La Nave di Teseo) di Cristina Battocletti. Entrambi raccontano di madri che abbandonano. Calandrone ricostruisce la sua storia, bambina lasciata a otto mesi su una panchina di Villa Borghese, clamoroso caso di cronaca nera degli anni Sessanta: i suoi genitori non erano più in grado di garantirle un futuro e avevano deciso di uccidersi. Ricostruire la storia con tutti i tratti mancanti è stato per la scrittrice un modo per restituire l’amore per la madre, ed essere certa dell’immenso amore della madre per lei che l’aveva portata a quella scelta. «Eccomi, faccia a faccia col groppo cruciale: la mia mamma si è suicidata per me? Gettando sulle spalle della figlia il proprio addio, come un mantello pesante, dal quale ella (io) si deve una volta per tutte divincolare. Così abbiamo rovesciato il tavolo dell’abbandono, trasformando la feroce rinuncia in un gesto d’amore». Battocletti, invece, ripercorre un duplice abbandono utilizzando il grimaldello dell’epigenetica, la disciplina scientifica che dà il titolo al romanzo – cioè la ereditarietà emotiva che si trasmette tra le generazioni. La protagonista ha avuto una bellissima madre “selvaggia”, figlia della cultura underground degli anni Settanta, madre di tre figli avuti da padri diversi. Maria, la più grande, e i fratelli Pietro e Paolo crescono nel felice disordine a cui li ha abituati la madre, finché non arrivano gli assistenti sociali, preceduti dai messaggeri dalla fiamma d’argento sul cappello, i carabinieri. «La mamma non ci ha mai insegnato a nuotare, perché non lo sapeva fare nemmeno lei. Ci raggiungeva nelle pozze, ci faceva inchinare come le statuine del cucù che uscivano al punto ora dalle casette-orologio. Poi ci sputava l’acqua addosso dicendo di essere un drago. Il più immenso e statuario dei draghi. La mamma era eccezionale, estrema, speciale, tremenda, straordinaria. In una parola, terrificante». La figlia diventa una scrittrice affermata: «In fondo non avevo fatto altro che salire sul binario della pazzia della mamma, mi ero rimessa volontariamente nel suo calco. Avevo il compito di battere sulla tastiera le vite degli altri per perpetuare la sua. Perché lei era linfa di verità e solo attraverso di lei potevo scendere nelle caverne della scrittura». Ma quando ha un figlio, scatta la maledizione, la coazione a ripetere dell’abbandono: Maria se ne va, lo lascia al padre e alla nonna paterna. Dice l’autrice Cristina Battocletti: «La mia protagonista lotta per arrivare al punto più basso della propria dignità per poi poter risalire, deve ripercorrere fino in fondo l’esperienza della madre. Nelle presentazioni del libro ho trovato la corrispondenza di molte donne, che hanno testimoniato come il vissuto materno ha condizionato le loro scelte, ma riscoprire di avere delle assonanze emotive con la figura materna le ha aiutate a ritrovarsi».

E di Danielle, la figlia di Martha nel film di Almodóvar, che cosa ne è stato? Nel finale la vediamo identica alla madre – è Tilda Swinton a interpretare anche la figlia – mentre si sdraia sulla poltrona della veranda affacciata sul bosco dove stava sua madre negli ultimi giorni di vita. Ecco, il cerchio si è chiuso.

da filosofemme.it

Il corpo delle pagine. Scrittura e Vita in Carla Lonzi è un libro nato dal lavoro appassionato delle autrici Linda Bertelli, docente di Estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca, e Marta Equi Pierazzini, ricercatrice e docente presso l’Università Bocconi e l’Accademia di Belle Arti di Brera.

Quest’opera rappresenta il frutto di un’intensa attività di ricerca e di un dettagliato lavoro d’archivio, offrendo uno sguardo profondo e inedito su Carla Lonzi, figura chiave del femminismo italiano contemporaneo.

Il libro esplora in particolare l’intreccio tra vita e pensiero di Lonzi, con un focus centrale sul ruolo che la scrittura ha avuto nel suo percorso esistenziale e politico.

Per Carla Lonzi infatti, la scrittura non era solo un mezzo per comunicare, ma una pratica fondamentale per comprendere e affermare la propria soggettività. Questa modalità di scrittura “a partire da sé” trova le sue radici nel femminismo italiano degli anni Settanta, che incoraggiava le donne a raccontare e condividere con le altre le proprie esperienze di vita. Il gesto di scrivere diventa così un atto politico e trasformativo, un processo di autocoscienza che sfida le convenzioni imposte dalla cultura patriarcale e capitalista.

Le autrici fanno emergere come Lonzi si opponesse con forza a una cultura prodotta dagli uomini e per gli uomini, dove le categorie e i ruoli erano predefiniti e limitanti. Per questo la ricerca di autenticità, attraverso la scrittura, era per lei un modo per rifiutare queste imposizioni, scegliendo invece di costruire uno spazio libero per il riconoscimento di sé e delle altre donne.

Nel contesto storico degli anni Sessanta e Settanta, emergono i gruppi di autocoscienza, spazi in cui le donne iniziano a riconoscersi reciprocamente come soggetti autonomi. Carla Lonzi, insieme al gruppo di Rivolta Femminile, contribuisce a valorizzare la differenza, intesa come diritto all’esistenza e all’essere diverse rispetto ai modelli imposti dalla tradizione patriarcale.

Questo riconoscimento della differenza si configura come un atto di resistenza: un’affermazione del personale che diventa politico, distruggendo ogni processo di gerarchizzazione.

Il titolo del saggio Il corpo delle pagine racchiude un significato cruciale: le autrici vogliono evidenziare come Carla Lonzi intenda superare la scrittura creativa tradizionale, spesso ridotta a mera astrazione culturale, per valorizzare invece l’Io scrivente e il vissuto dell’esperienza personale. Nelle opere di Lonzi emerge chiaramente una scrittura che incorpora «carne da bruciare» (1), ovvero la tangibile presenza del corpo, della voce e dell’essere dell’autrice stessa.

Lonzi attribuisce un’importanza centrale al visibile, al parlato, al contesto e alle relazioni che intreccia con le altre, elementi indispensabili per preservare l’autenticità della propria soggettività. In questo quadro, il prodotto finale della scrittura – inteso come un contenuto da consumare o una mera prova di produttività – viene percepito come un disvalore.

Tale concezione sposta l’attenzione dal “risultato” alla “presenza”, sottolineando che la scrittura non può prescindere dal vissuto, dalle relazioni e dall’umanità di chi la produce. Quando ci si concentra solo sull’output, si rischia di tradire l’esperienza autentica dell’autore/autrice, dimenticando la dimensione corporea e relazionale che lo/la caratterizza.

In questo contesto, Lonzi e il gruppo di Rivolta Femminile utilizzano la registrazione come pratica fondativa del loro processo creativo.

Registrare le conversazioni, i dialoghi e i confronti consente di conservare la presenza dei corpi parlanti, valorizzando l’unicità di ogni voce. La scrittura, in questo modo, non è semplicemente vicina al parlato, ma rimane intimamente connessa alle parlanti stesse.

Questo approccio ribalta la concezione tradizionale della scritturacome distillato culturale, restituendole il valore di pratica situata, radicata nel corpo e nell’interazione umana, essenziale per comprendere e affermare la soggettività di ciascuna.

L’ultimo capitolo di Il Corpo delle Pagine rappresenta la parte più innovativa e rivoluzionaria del saggio, poiché le autrici analizzano materiali inediti di Marta Lonzi (sorella di Carla), intrecciandoli alle proprie vicende esistenziali in un dialogo che adotta la metodologia di scrittura elaborata da Lonzi e dal gruppo di Rivolta Femminile.

Tale approccio consente di connettere i contenuti storici e teorici al vissuto personale, in un processo che sovverte le tradizionali gerarchie tra autrici, testo e lettrici.

Il capitolo prende le mosse dal progetto, mai realizzato, di una mostra su Carla Lonzi, per giungere a una riflessione sulla scrittura come pratica di differimento. Le autrici mettono in luce il valore del fallimento, reinterpretandolo in chiave anticapitalista e antipatriarcale. In questa prospettiva, il fallimento non è più un limite o una sconfitta, ma una forma di resistenza contro i tempi dettati dalla società della produttività, che esige continua efficienza e prestazioni.

La scrittura, così intesa, si riappropria di un tempo proprio: un tempo per pensare, progettare, sostare.

Questo tempo, che si sottrae alle logiche della produzione e della performance, diventa un atto di ribellione contro i ritmi imposti da un sistema che marginalizza ciò che non è immediatamente utile o funzionale.

La presentazione del libro, avvenuta in anteprima al Giungla Fest 2024 (2) dal titolo Radicale, ha ulteriormente rafforzato questo legame tra scrittura e sovversione delle logiche dominanti.

Come ha spiegato Irene Panzani, curatrice di Giungla:

«Praticare la scrittura è una forma di radicamento, ma anche di radicalità. Si radicano pensieri, si sviluppano, si pensa scrivendo, ci si riconosce nello scritto o si rifiuta, si rende visibile ciò che prima era immateriale. Scrivere contribuisce alla costruzione dell’identità, di una o molte identità. Interrogarsi sul senso delle parole e delle cose credo sia, in fin dei conti, anche l’essenza dello scrivere, che lo si faccia per sé, come pratica di autocoscienza, o per finzione, in ogni caso scrivere ci porta a guardare il mondo e noi stesse nel mondo, a crearlo, negarlo o sovvertirlo. è una pratica che può precedere altre azioni, di affermazione, denuncia, disobbedienza, rinuncia…» (3)

Queste parole non solo confermano l’attualità della riflessione lonziana, ma dimostrano come la scrittura sia uno strumento capace di interrogare, destrutturare e ridefinire il senso delle cose e delle parole.

Il libro Il corpo delle pagine di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini non solo si allinea con il pensiero e la produzione di Carla Lonzi, ma arricchisce il corpo delle pagine del saggio stesso.

La scelta di praticare questa forma di scrittura libera dalle convenzioni imposte rappresenta una liberazione concreta delle autrici dai vincoli culturali e sociali. Il risultato è un testo che non si limita a raccontare il pensiero di Lonzi, ma lo incarna, invitando lettrici e lettori a riflettere su un modo di essere e di scrivere autentico e radicalmente libero.

Grazie Moretti&Vitali!

Bertelli, Linda, Equi Pierazzini, Marta, Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, Moretti&Vitali, Bergamo 2024

1) Lonzi, Carla, Taci anzi parla, in Bertelli L., Equi Pierazzini M., Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, p. 122.

2) Giungla fest è un festival dedicato all’arte contemporanea, nato nel 2020 e giunto alla sua quinta edizione: https://www.giunglafest.it/edizione-2024/

3) Queste parole sono il frutto di un dialogo diretto tra Irene Panzani e Elena Magalotti.

da il manifesto

Sospesa”, il libro della reporter Mariangela Paone, pubblicato da Add

Settembre del 2015. La foto di Alan, il piccolo di tre anni, trovato morto su una spiaggia turca stretto nel suo giubbino rosso, lanciava un grido lancinante alle coscienze di tutti gli europei. Alan stava scappando dall’orrore della guerra in Siria. Era morto alle porte dell’Europa, e, per un istante, non era più solo un numero. Si stima che altre circa trentamila persone abbiano perso la vita nel Mediterraneo negli ultimi dieci anni.

Solo pochi giorni dopo, il 28 ottobre, arriva la notizia di un altro naufragio di enormi proporzioni in quello stesso tratto di mare, attraversato da ottocentomila persone quell’anno: una fragile imbarcazione in legno di due piani con più di trecento persone a bordo si rovescia davanti alle coste dell’isola di Lesbo. Almeno quarantatré persone perdono la vita. Fra di loro, Fatima, Naseer, Negin (11 anni), Hadith (5 anni) e la piccola Mehrumah, di soli 14 mesi, rispettivamente madre, padre, e sorelle e fratello di Rezwana, unica sopravvissuta al naufragio. Allora aveva solo 13 anni. Fu quel giorno che nacque l’ong Open Arms come la conosciamo oggi, i cui volontari, ancora privi dei mezzi adeguati, cercarono come poterono di aiutare i pescatori che portavano in salvo i naufraghi, sotto gli occhi indifferenti di Frontex e della guardia costiera.

La giornalista Mariangela Paone, reporter e inviata speciale, che oggi lavora a eldiario.es, racconta la storia di Rezwana nel libro Sospesa (Add Editore, pp. 152, euro 18), appena uscito in italiano. Rezwana è afgana. Suo padre fa il cameraman quando nel 2015 la situazione si fa troppo pericolosa per rimanere a Kabul. Il paese è sotto la costante minaccia dei talebani. Lei andava a scuola, portava a casa buoni risultati e in casa la incoraggiavano a continuare. Ma un doloroso giorno, d’improvviso, devono lasciare la loro vita alle spalle. Montano su un volo diretto a Teheran. Da lì inizia un lungo viaggio per terra per arrivare fino alle coste turche da dove partirà l’imbarcazione che li avrebbe dovuti portare in Europa. Un’imbarcazione molto meno sicura di quello che avevano promesso a Naseer per il prezzo che aveva pagato. Salgono lo stesso e nelle fredde acque dell’Egeo ha luogo la peggiore tragedia che possa colpire una bambina.

A partire da quel momento, Rezwana è una minore non accompagnata, sola in un paese dove non conosce nessuno. L’unica familiare vive in Svezia. Durante gli anni successivi, Rezwana passa per tre famiglie affidatarie, cerca di ambientarsi in Grecia. Ma non è felice. Resiste alle pressioni di uno zio che vuole che torni a Kabul. Vuole andare in Svezia. La fredda burocrazia europea che tratta le persone migranti come un fascicolo numerato la tiene bloccata ad Atene.

Anche quando riesce, per un breve periodo, a farsi mandare in Svezia, il trattato di Dublino e una schiera di burocrati la costringono a tornare in Grecia, il primo paese di arrivo, che già le ha concesso un permesso. I desideri, le aspirazioni e il dolore delle persone non contano per un’Europa impegnata in un cinico scaricabarile fra paesi indifferenti. Con un’opinione pubblica che vede le persone migranti solo come un problema, senza scorgere dietro il loro sguardo la disperazione.

«Restiamo umani», diceva Vittorio Arrigoni. Di umana, nella storia che racconta Paone raccogliendo le testimonianze delle tante persone che hanno incrociato le peripezie di Rezwana, c’è la sofferenza di chi cerca, nonostante tutto, di ricostruirsi una vita, di ripescare dal fondo del mare le speranze, i sogni e le aspirazioni, e si scontra contro un muro di cinismo burocratico. Quello di un sistema di accoglienza inadeguato, senza mezzi e ottuso rispetto alle persone che dovrebbe proteggere. Quello di istituzioni europee sorde alle necessità degli esseri umani che scappano dalla barbarie.

Sono passati più di nove anni e Rezwana è ancora bloccata in Grecia: senza la nazionalità, non può andare a vivere con la sua famiglia svedese. Ora sì, può viaggiare liberamente: ma dopo anni, a scegliere per lei non sono i suoi desideri, ma un sigillo su un pezzo di carta.

In mezzo a tutto il dolore in cui vivono i migranti, sballottati da un punto all’altro, prima dai trafficanti e poi dai governi, c’è però un briciolo di umanità. Le ong come Open Arms o Emergency, le volontarie che lottano per non lasciare sola Rezwana, la madre di una famiglia affidataria, un insegnante di una delle scuole per cui è passata, la volontaria che si scontra contro tutto e tutti per non far dimenticare quella bambina ammutolita dalla tragedia, la maestra in pensione svedese che le fa da madrina legale, la avvocata di una ong. E i giornalisti e i fotografi che si accaniscono a voler documentare e raccontare il dramma. Come Paone.

Sospesa è la storia di un’odissea, ma anche una missione: riuscire a trovare i resti della famiglia di Rezwana. Cosa che riesce grazie a persone che cercano di fare di questo mondo un posto migliore.

Il libro sarà presentato l’8 febbraio nelle librerie Arlette e Il Ponte sulla Dora di Torino, il 10 febbraio al Librificio del Borgo di Genova e il 12 presso Casetta Rossa a Roma.

da il manifesto

La scrittrice americana di origini cinesi racconta nei suoi romanzi per lettori e lettrici giovani (Motel Calivista, buongiorno! e Le tre chiavi, usciti per Emons) le vite degli irregolari e di chi tenta di farcela. «Da bambina, la Proposition 187 mi fece molta paura. Non sapevo cosa sarebbe accaduto, quali miei amici sarebbero stati banditi dalla scuola, o peggio. Purtroppo, quegli stessi timori oggi con Trump si sono riaffacciati»

«I recenti incendi in California sono stati terrificanti. La mia famiglia è stata costretta a evacuare e molti miei amici hanno perso la loro casa. Nonostante sia stato un incubo, mi ha commossa vedere la comunità di Los Angeles così unita, pronta ad aiutare. Ho piena fiducia nella ricostruzione. Questa catastrofe ci ricorda però che il cambiamento climatico sta avvenendo rapidamente. Riguarderà tutti: siamo interconnessi e i problemi degli altri ci riguardano sempre».

Kelly Yang, quarantunenne scrittrice americana con origini cinesi, premio Strega Ragazze e Ragazzi nella categoria 11+, è cresciuta in California con la sua famiglia immigrata proprio come Mia, la protagonista dei suoi due romanzi pubblicati in Italia da Emons: Motel Calivista, buongiorno! e Le tre chiavi, Motel Calivista 2 (pp. 350, euro 14,50, traduzione di Federico Taibi). Quest’ultimo incrocia l’attualità bruciante del ritorno di Trump e la sua volontà di rinverdire deportazioni e discriminazione razziale. Lupe, infatti, amica del cuore di Mia, è angosciata per una nuova legge (il riferimento qui è alla famigerata Proposition 187 varata nel 1994 e anni dopo resa vana dall’impegno dei democratici, ndr) che vieta a chi è senza documenti (come lei) di frequentare la scuola.

Appena Trump ha giurato come presidente, ha subito dichiarato guerra agli immigrati e attaccato lo ius soli. Sono temi a lei molto vicini, addirittura autobiografici, che ha spesso affrontato nei suoi libri. Un passo indietro per la democrazia americana?

Mi preoccupa molto il fatto che Trump stia cercando di abolire la cittadinanza acquisita con la nascita, un diritto sancito dalla Costituzione. La sua ossessione di fare degli immigrati il capro espiatorio di tutti i nodi della società non è, ovviamente, una novità. Lo abbiamo già sperimentato nella sua prima amministrazione. I miei libri tentano di illuminare non solo i contributi degli immigrati, ma anche di rendere visibili i soprusi che subiscono. Da bambina, la Proposition 187 mi fece molta paura. Non sapevo cosa sarebbe accaduto, quali miei amici sarebbero stati banditi dalla scuola, o peggio. Purtroppo, quegli stessi timori oggi si sono riaffacciati.

«Una volta una persona molto saggia mi disse che in America ci sono due montagne russe: una per i ricchi e l’altra per i poveri». Lupe, la compagna di Mia nel romanzo “Le tre chiavi” è un simbolo della prevaricazione sociale ai danni degli immigrati… La sua vita rispecchia quella di molti altri come lei?

Credo che la citazione delle due montagne russe sia più che mai reale. Viviamo in tempi sempre più diseguali, con una disparità di risorse economiche che si aggrava sempre di più. Mia e Lupe ne patiscono gli effetti, come tutti noi. Come noi, lottano per potersi permettere casa e cibo. Tutto ciò, purtroppo, non potrà che peggiorare se continuiamo a rendere capri espiatori i membri deboli della società, invece di allearsi e risolvere il vero problema: solo l’1% della popolazione accumula tutta la ricchezza.

Crede che la lettura e la conoscenza culturale possano essere uno sprone per immaginare un mondo alternativo e meno divergente nei diritti?

Assolutamente sì. In epoche attraversate da paura, confusione e incertezza, i libri sono il nostro bene salvifico. Ci regalano soprattutto empatia. Ci permettono di immaginare un percorso migliore.

Può dirci qualcosa sul Kelly Yang Project da lei fondato: in cosa consiste?

Il Kelly Yang Project è un programma di educazione che ho creato a Hong Kong per insegnare ai bambini a scrivere e a discutere insieme. Ho vissuto a Hong Kong per quindici anni e con quel programma, di cui vado fiera, ho cercato di fornire a tutti gli strumenti per avere un impatto, pensando con la propria testa. Il progetto è ancora fiorente.

Cosa ha significato per lei crescere in California, un territorio di “frontiera”?

Penso che la California sia un posto speciale, con al suo interno una ricca storia di immigrati, compresi quelli cinesi che nell’800 arrivavano per costruire le ferrovie. Crescere in questo territorio, quindi, ha significato rendere onore a quella eredità e alle persone giunte prima di noi per realizzare il Golden State.

da il manifesto

A proposito di Senza spegnere la voce. Il potere sul corpo delle donne: da Valentina Milluzzo a tutte noi, un volume di Giorgia Landolfo per Nous discusso a Roma in un doppio appuntamento*.

Si intitola Senza spegnere la voce. Il potere sul corpo delle donne: da Valentina Milluzzo a tutte noi ed è un volume di Giorgia Landolfo, da oggi in libreria per la casa editrice Nous (pp. 96, euro 15,00) con la prefazione di Sasha Damiani e la postfazione di Elisabetta Canitano. Situato e militante, il volume di Landolfo prende avvio proprio dalla storia di Valentina Milluzzo che il 19 ottobre del 2016, all’età di trentadue anni, è morta all’ospedale “Cannizzaro” di Catania in cui era stata ricoverata, diciassette giorni prima, a causa di una minaccia di aborto alla diciassettesima settimana di gravidanza.

Giornalista e scrittrice, Landolfo apprende della morte di Milluzzo dalle agenzie di stampa e da quel momento comincia a occuparsi della intera vicenda. Si documenta, incontra i famigliari, cerca di capire come sia possibile morire perché (così ha letto dal sito dell’Agi) un «medico obiettore ha rifiutato l’intervento». Viene aperta una indagine per chiarire la dinamica di quanto accaduto. Il 26 ottobre 2022 arriva la condanna in primo grado per omicidio colposo, a sei mesi con pena sospesa, per i ginecologi di turno. Assolti perché il fatto non sussiste il primario del reparto, il ginecologo che l’ha assistita la notte prima del decesso e l’anestesista. I condannati ricorrono in appello e l’11 novembre del 2024 vengono assolti. Non sono ancora state depositate le motivazioni della sentenza ma l’avvocato della famiglia Milluzzo procederà alla richiesta di ricorso in Cassazione.

Landolfo legge atti, perizie, interrogatori e registrazioni del processo in primo grado ma non è tuttavia sulla vicenda strettamente giudiziaria che si concentra il libro, bensì sul tema della violenza ostetrica di cui si scrive raramente (c’è un vademecum, interno al volume, scritto in collaborazione con Elisabetta Canitano per «difenderci dalla violenza ostetrica», appunto), in una condizione attuale che complica lo sfondo: ad esempio con i consultori ridotti a poco meno della metà di quelli previsti dalla legge e con una ribalta delle associazioni antiabortiste.

A più riprese e su diversi livelli, la questione della violenza ostetrica si incista infatti nella discussione pubblica con strumentalizzazioni sia politiche che di immaginario. Dinanzi a episodi che vengono rubricati come fatti di “malasanità” non sempre si osserva la reiterazione e la marca di genere, come nei casi della salute delle donne, in particolare in relazione alla libertà di autodeterminarsi.

Il rischio di «spegnere la voce» è dunque questo: che le esperienze delle donne, nello specifico nei reparti di ginecologia e ostetricia (ma anche in un Pronto Soccorso), in gravidanza e non solo, restino isolate, quando non direttamente diminuite, o le loro richieste ignorate. Tra il pamphlet e il reportage narrativo, il libro riporta alcuni dati, report, fenomeni solo all’apparenza laterali (tone policing, mansplaining, bodily autonomy, gender pain gap e il gasligthing medico) che compongono il quadro in fieri – non solo italiano – di una questione che dovrebbe richiedere tutta la nostra attenzione.

Già nella prefazione, Sasha Damiani segnala come nel suo percorso professionale di medica anestesista e attraverso l’esperienza di Mamme A Nudo, sia «testimone dell’immensa difficoltà e dell’incertezza che molte donne sperimentano quando cercano – spesso senza trovarle – informazioni chiare sulla propria salute e il supporto necessario per poter prendere decisioni consapevoli».

Nella postfazione, Canitano, ginecologa, arriva al punto del problema: «In ostetricia, complice la crescente influenza degli obiettori di coscienza nei nostri ospedali, le donne non vengono ritenute più importanti dell’embrione e del feto, in modo da far sì che la gravidanza possa essere interrotta tempestivamente quando diventa pericolosa per la donna. O meglio ciò avviene solo in caso di “grave pericolo di vita”, come d’altra parte recita la legge, e quindi si aspetta, aspetta, aspetta».

(*) Se ne discuterà oggi (il 22 gennaio u.s., ndr) a Roma, in due incontri: alle 11.30 alla Sala Stampa della Camera dei deputati. Con l’autrice interverranno Gilda Sportiello, Elisabetta Canitano e Sasha Damiani. Alle 19 in Sala Tosi (Casa internazionale delle donne), con l’autrice interverranno Elisabetta Canitano, Celeste Costantino, Chiara Sicurella e Giuditta Bussà.

Da Leggere Donna

Autrici varie, Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi, a cura di Daniela Dioguardi, introduzione di Francesca Izzo, Castelvecchi 2024, collana I nodi, pp. 89, € 14,00.

È uscito a maggio l’agile pamphlet che dodici coraggiose donne molto differenti tra loro, attive in luoghi storici del femminismo, come Libreria delle donne di Milano, UDI, ArciLesbica, Gruppi donne delle Comunità di base e le molte altre, Collettivi donne di quartiere, alcune delle quali impegnate per anni in partiti, sindacati, movimenti di sinistra hanno scritto, spinte dal desiderio di aprire un confronto su situazioni che hanno dirette conseguenze sulle vite delle donne. Le riflessioni, elaborate in oltre un decennio in diverse reti favorite anche dal web, sono espresse con una scrittura chiara in cui i passaggi delle argomentazioni sono coerenti e legati a informazioni puntuali e a esperienze in cui molte possiamo riconoscerci, una scrittura frutto di un lavoro individuale e collettivo di femministe che sanno il valore trasformativo del linguaggio, l’importanza del nesso politico tra verità e parola.

Vengono dunque proposte con passione situazioni in cui, a diverso titolo, le autrici sono coinvolte o testimoni, mostrando senza reticenze come della violenza maschile contro le donne, tema presente nel dibattito pubblico ma ancora suddiviso in ambiti differenti, sia importante mettere in luce la matrice: l’abuso del potere maschile che tende a cancellare l’esistenza e la differenza femminile.

Ecco che allora le autrici prendono posizione sulla prostituzione, che non è né sesso né lavoro, e il cui sfruttamento, reso reato dalla legge Merlin, non dev’essere legalizzato; sulla “gravidanza per altri”, che usa donne in carne e ossa come mezzi di produzione e commercia neonate e neonati; sull’affido condiviso e la “bigenitorialità”, che furono presentati come condivisione di responsabilità per sgravare le madri di un carico storicamente soltanto loro e che invece fa riaffacciare la patria potestà, soppressa nel 1975, imponendo a donne e minori la volontà paterna.

Mettono in luce come la parità sia un modo di guardare all’uomo, il maschio della specie, come modello da raggiungere per le donne, idea che si ritorce contro le donne stesse anche con l’istituzione di “quote azzurre” per ogni progetto e impresa femminile o limitando l’associazionismo femminile.

Segnalano i pericoli di una concezione di “inclusività” in cui si prevede la medicalizzazione di minori come risposta al loro disagio verso ruoli femminili e maschili stereotipati; in cui si impongono invenzioni linguistiche che cancellano l’esistenza delle donne, la nascita dalla madre, la sessualità femminile; in cui si contrastano nuove pratiche pubbliche di dialogo tra i due sessi perché non prevedono i “non binari”. Rifiutano il tentativo di ridurre il concetto di “femminismo” a libera iniziativa commerciale delle donne di mettere in vendita il proprio corpo per compiacere gli uomini.

Mostrano il ruolo che gioca il mercato in tutte queste situazioni e che la sinistra sembra non vedere, poiché le ha adottate acriticamente come progresso e spesso accetta di togliere parola al dissenso. Nel libro infatti sono presenti anche testimonianze di manipolazione del consenso, di intimidazioni, di boicottaggi, di campagne di denigrazione che hanno impedito il dibattito.

Questo quasi impossibile confronto è stato il motore della pubblicazione, che sceglie la scrittura come mezzo per riaprire un dialogo, anche conflittuale ma libero. E sembra funzionare, perché grazie agli incontri pubblici sul volumetto, molte hanno ripreso parola e altre, su posizioni contrarie, hanno accettato di confrontarsi.