di Hilary Mantel

Gli splendidi e sottovalutati romanzi di Elizabeth Jane Howard sono stati sempre messi in ombra dalla sua turbolenta vita privata. Ma il vero motivo per cui sono sottovalutati è che sono considerati libri “sulle donne, scritti da una donna”?

Negli ultimi anni Elizabeth Jane Howard, meglio nota come Jane, è divenuta famosa per una serie di quattro romanzi conosciuta come La saga dei Cazalet, che prende spunto dalla sua storia familiare ed è stata adattata sia per la radio che per la televisione. Tracciando le sorti di una famiglia alto-borghese, la saga prende le mosse nel 1937 e si dispiega nel corso di una decade. Un quinto romanzo, All Change, compie un salto in avanti portandoci al 1956. I romanzi di Jane Howard sono panoramici, vasti, intriganti quanto può esserlo la storia sociale, e generosi nel dispensare racconti. Sono il prodotto dell’esperienza di una vita e nascono da una scrittrice che aveva ben chiaro il proprio obiettivo e possedeva le forze e le capacità tecniche per raggiungerlo. Sarebbe bello se i lettori che hanno apprezzato la saga fossero attratti anche da quanto l’autrice ha scritto in età giovanile, quando il suo talento era così effervescente e inarrestabile che sembrava impossibile predire dove l’avrebbe portata. Fin dall’inizio Howard ha richiamato a sé aggettivi superlativi, più per lo splendore della sua prosa che per la stravaganza emotiva dei suoi personaggi. Certo le loro risate sono oltraggiose, i loro pianti contagiosi, le loro storie d’amore spericolate. Non c’è, tuttavia, nulla di casuale negli effetti creati dalla scrittrice, che, fin dall’inizio, ha dimostrato di essere un’abile artigiana.

Il primo romanzo di Howard, The Beautiful Visit, ha vinto il John Llewellyn Rhys Memorial Prize. L’idea che Il lungo sguardo, un testo così compiuto, così tecnicamente magistrale, sia stato soltanto il suo secondo libro è in qualche modo spaventosa. Il romanzo si apre nel 1950 e lentamente ripercorre a ritroso la vita di Antonia Fleming fino al 1926, quando la incontriamo da giovane sul punto di essere teneramente ingannata, confusa e costretta al matrimonio.

Nonostante il premio vinto così precocemente e l’attenzione ricevuta fino ad allora, fu difficile per l’autrice guadagnarsi da vivere. Proveniva da un ambiente in cui la necessità non era molto presa in considerazione. Ne Il lungo sguardo il passaporto della signora Fleming riporta alla voce occupazione “donna sposata”. In quel mondo gli uomini non erano tenuti a spiegarsi o a dare conto di sé. Dovevano essere sempre arginati, sembravano eternamente mossi dal desiderio di trasformare una donna in una moglie soddisfacente, se non perfetta. Conrad Fleming cerca di trasformare Antonia. È un uomo d’incontaminata superbia, d’immacolato egoismo. Le giovani lettrici di oggigiorno lo guardano incredule, ma non dovrebbero. Perché Conrad Fleming non è altro che una fedele riproduzione. È la voce dell’altro ieri, e delle epoche passate.

Elizabeth Jane Howard nacque nel 1923 in una famiglia facoltosa, ben inserita nella società, e infelice. Suo padre e suo fratello erano i direttori dell’azienda familiare di legname. Tuttavia non dirigevano granché, «se la spassavano allegramente», diceva lei. E se l’erano guadagnata. Suo padre si era arruolato a diciassette anni, era sopravvissuto alla Grande Guerra sul fronte occidentale e aveva portato a casa una croce militare. Era un padre caloroso, ma infedele e inaffidabile. L’intreccio di paura e attrazione che Jane Howard provava per lui alimentò i romanzi della saga dei Cazalet, che sono meno casalinghi di quanto appaiano. Il matrimonio dei suoi genitori e le loro successive relazioni, sommate a quelle della scrittrice stessa, offrono un modello disfunzionale per quasi tutte le storie che ha scritto. «Esistono solo due tipi di persone», riflette Conrad ne Il lungo sguardo: «quelli che vivono vite diverse con lo stesso partner e quelli che vivono la stessa vita con diversi partner…». Questa è una delle tante, amare osservazioni disseminate nel romanzo, laconicamente formulate e dolorosamente puntuali.

Kit, la madre dell’autrice, era una ballerina frustrata che aveva rinunciato alla carriera per il matrimonio. Il mondo della danza, tuttavia, è così duro e brutale che è difficile dire se tale scelta fosse stata influenzata dal dubbio di non essere all’altezza o meno. I giovani di sesso maschile, non esattamente brillanti, si trasferivano all’estero con i curricula bollati dall’acronimo filth: Fallito a Londra, Trasferito a Hong Kong. Le donne che rinunciavano al proprio potenziale potevano scegliere invece l’esilio in patria del matrimonio, e i risultati erano spesso assai squallidi. A quanto pare, Kit non amava la figlia, forse era gelosa di lei. Jane Howard era una ragazza di una bellezza spettacolare. Più volte, nei suoi romanzi, gli adulti guardano con un misto d’invidia e ammirazione la persona che men che mai potrebbe essere invidiata, un’adolescente che non è altro che un groviglio d’insicurezze. Howard ricevette poca istruzione formale, ma era un’avida lettrice. Il suo insegnante di pianoforte, poi, le impartì una lezione di grande valore: «Come si fa a imparare? Sbattere la testa contro qualcosa e continuare a farlo».

In breve, Jane divenne un’attrice, ma la seconda guerra mondiale fece naufragare le sue speranze di carriera. Come la signora Fleming, vide «il valore delle vite schizzare alle stelle e crollare rovinosamente come i titoli di un folle mercato azionario». In un’atmosfera simile le decisioni venivano prese velocemente, non c’era tempo per visioni a lungo termine. Jane aveva diciannove anni quando sposò lo studioso di scienze naturali, allora ufficiale di marina, Peter Scott, di anni trentadue. La notte prima del matrimonio la madre le chiese cosa sapesse in materia di sesso, descrivendolo come «il lato sporco» del matrimonio. La figlia, Nicola, nacque nel corso di un attacco aereo. Fu un’esperienza orribile che Jane seppe conservare e utilizzare in seguito. Una volta finita la guerra, la scrittrice abbandonò figlia e marito, una cosa che il mondo non perdona facilmente, e si trasferì in un lurido appartamento in Baker Street: «Una squallida lampadina che pendeva dal soffitto e un odioso pavimento di legno pieno di perfidi chiodi… l’unica cosa che sapevo era che volevo scrivere».

Ci fu un altro, breve matrimonio con un compagno di scrittura, poi Jane Howard divenne la seconda moglie di Kingsley Amis, un acclamato scrittore alla moda. Jane cercava l’amore, sia fisico che di altro tipo; questo fu ciò che affermò per tutta la vita, ed era coraggiosa a dirlo perché tale ricerca è sempre vista come un’ammissione di debolezza. I primi anni del matrimonio degli Amis trascorsero felici, e loro furono dei buoni compagni. C’è una foto che ritrae la coppia mentre lavora, una macchina da scrivere accanto all’altra. La fotografia, tuttavia, non rappresenta correttamente la vera natura di quello scambio. Howard, infatti, era ingabbiata in un paradosso. Cercava l’intimità, ma la scrittura era un atto solitario. Voleva essere riconosciuta, e gli scrittori spesso non lo erano. Il loro ménage familiare era intenso e bohémien. Jane si occupava della casa e cucinava per gli ospiti, alcuni dei quali erano piuttosto esigenti, altri si stabilivano da loro per lunghi periodi. Jane rappresentava la gentile e ammirevole madre adottiva dei tre figli di Amis. Il loro matrimonio, come amava ripetere Martin Amis, era “dinamico” ma il lavoro del marito era sicuramente privilegiato rispetto al suo, che era invece considerato come qualcosa di incidentale, da subordinare ai naturali obblighi domestici di una moglie.

Nel corso di quegli anni Jane Howard scrisse una serie di romanzi arguti, incentrati sui piaceri della vita, mentre lei stessa pativa una profonda miseria. Il marito faceva soldi, collezionava plausi ma lei continuava ad avere fede nel proprio talento. La gente per bene non si lamenta e non fa baccano, le aveva detto la madre, neanche quando partorisce. Questa era la via per la morte emotiva, non certo per la crescita creativa. Tuttavia, se si è capaci di sopravvivere al dolore, questo può essere incanalato e trasformato in creatività. Nei suoi romanzi Howard descrisse l’illusione e l’autoillusione. Sommando il prezzo della bugia a quello della verità. Osservò danni inflitti e danni riflessi o ricevuti. Imparò più da Jane Austen che dalla madre. La commedia non nasce dalla penna di chi siede alla scrivania pensando “ora sarò divertente” ma da chi striscia verso la scrivania, trasudando vergogna e disperazione, e lentamente si accinge a descrivere in maniera fedele lo stato delle cose. Si prova un certo piacere nell’essere fedeli ai dettagli della miseria. Quanto più feroci, tanto meglio: con lentezza, infatti, e con riluttanza, la commedia comincia a trapelare.

La giornalista Angela Lambert si chiede perché Il lungo sguardo non sia considerato uno dei grandi romanzi del ventesimo secolo. A questo punto ci si potrebbe chiedere perché l’intera opera di Jane Howard non goda di maggiore considerazione. È vero, le sue ambientazioni sociali sono piuttosto circoscritte, ma altrettanto lo sono quelle di Jane Austen. Ed esattamente come i romanzi di Austen, i suoi romanzi sono permeati dal vivo torrente sotterraneo dell’inquietudine che si agita sotto la superficie di vite agiate minacciando di venire a galla. L’inquietudine relativa alle proprie risorse. Ho abbastanza? Abbastanza denaro in borsa? Abbastanza credito con il mondo? In numerose storie i personaggi di Jane Howard vacillano sul baratro dell’indigenza mentre altrove il denaro fluisce da sorgenti misteriose. I suoi personaggi, tuttavia, non hanno il controllo di tali sorgenti, né le comprendono. Le sue vulnerabili eroine vivono alla giornata, sia emotivamente che economicamente e, anche se hanno abbastanza, non sanno abbastanza.

Quell’essere così disarmate, quella vulnerabilità, vale loro giudizi severissimi. Perché dovrebbe importarmi, potrebbe chiedersi qualche lettore, delle tribolazioni dei ricchi? Chi non prova compassione per il benestante, tuttavia, non è capace di provarla nemmeno per l’indigente. I romanzi di Jane Howard trovano probabilmente resistenza in chi vede solo la superficie e la giudica borghese. I suoi romanzi potrebbero trovare resistenza in chi non ama il cibo, i gatti, i bambini, i fantasmi o il piacere dell’impeccabile accuratezza con cui la scrittrice osserva il mondo naturale e artificiale: in coloro, in sostanza, che snobbano il passato recente. Sono apprezzati, invece, da chi sa cedere al loro fascino, alla loro intelligenza, al loro humor, da chi sa ascoltare i messaggi provenienti da un mondo diverso dal proprio.

Il vero motivo per cui i suoi libri sono sottovalutati, per dirla senza peli sulla lingua, è che sono stati scritti da una donna. Fino a poco tempo fa esisteva una categoria di libri “per donne, scritti da donne”, una categoria ovviamente ufficiosa, perché indifendibile. Accanto a prodotti di genere con poche possibilità di sopravvivenza, la categoria includeva opere scritte con grande bravura ma in chiave minore, romanzi che in sostanza si occupavano della vita privata e non pubblica. Romanzi di questo tipo raramente cercano di turbare o di provocare il lettore. Al contrario, sebbene la trama sia ingegnosamente architettata, s’impegnano con tutte le proprie forze in modo da far sentire il lettore a proprio agio. Una letteratura sottotono, ordinata, che non tende a ciò che Walter Scott definiva the big bow-wow, il grande clamore. Nel recensire e ammirare Jane Austen, infatti, Scott si rese conto del problema: come si può valutare un’opera del genere sulla base di criteri pensati per produzioni ben più rumorose? A partire dal diciottesimo secolo questi romanzi erano stati il piacere proibito di numerosi lettori e critici – erano goduti, ma rinnegati. Esiste una gerarchia di tematiche. Bisogna concedere più spazio alla guerra che al mettere al mondo un bambino, sebbene siano entrambi due atti sanguinosi. Bruciare corpi occupa un posto più in alto in classifica che bruciare torte. Se una donna si interessa di tematiche “maschili”, la cosa non la salva dall’essere banalizzata. Se un uomo si abbassa a questioni domestiche scrivendo copiosamente di amore, matrimonio e bambini, è lodato per la sua empatia, per il suo equilibrio. È elogiato, considerato intrepido, come se si fosse avventurato tra i selvaggi alla ricerca di una sapienza segreta. A volte la perfezione stessa invita alla svalutazione: un testo è impeccabile, perché non corre rischi. La sua opera splende perché è così piccola. «Lavoro su quattro centimetri di avorio», amava dire ironicamente Jane Austen: tanta limatura e piccolo effetto.

Il tempo ha santificato Jane Austen, anche se esistono ancora molte persone che non ne capiscono il motivo. L’aiutò il fatto di essere una brava ragazza che ebbe il tatto di morire giovane, senza nulla da dire sulla propria vita privata e con il cuore immune a ogni possibile esame. I critici furono, così, costretti a osservare i suoi testi. Le donne di oggi hanno carriere meno ordinate. Quando Jane Howard morì nel 2014, all’età di novant’anni, il necrologio del «Daily Telegraph» la descriveva come «ben nota per la turbolenta vita amorosa». Altri “tributi” si soffermarono sulle sue “fallimentari” storie d’amore. Negli scrittori di sesso maschile, i flirt testimoniano una virilità inarrestabile, nelle donne, al contrario sono presi a indicare una fallace capacità di giudizio. Cecil Day-Lewis, Cyril Connolly, Arthur Koestler, Laurie Lee e Kenneth Tynan sono annoverati tra le sue conquiste, sebbene il mondo ovviamente pensasse che furono loro a conquistare lei. Divorzi e separazioni possono certamente addolorare lo scrittore, tali segni tuttavia sono letti come ferite di battaglia, la sua condotta dichiaratamente libertina può essere indice di stupidità o lussuria, ma si presume che, a qualche livello segreto, egli agisca in tale modo per servire la propria arte. Per quanto riguarda una donna, invece, si crede che questa agisca incautamente, perché non può farne a meno. Coglie ogni occasione perché non sa fare di meglio. Viene giudicata e commiserata, o giudicata e condannata. E il giudizio sulla vita di qualcuno non può che contaminare il giudizio sul suo lavoro.

Sebbene autrici come Virginia Woolf e Katherine Mansfield avessero aperto un nuovo modo di contemplare il mondo, buoni libri scritti da donne continuavano a non essere pubblicati e cadevano nell’oblio: non solo perché, come nel caso di scrittori di sesso maschile, non erano più di moda, ma perché non erano mai stati valutati adeguatamente fin dal principio. Negli anni Ottanta la stampa femminista li riportò sugli scaffali. Dopo essere stata a lungo ignorata, Elizabeth Taylor ritornò di moda. Barbara Pym fu dimenticata, riscoperta ed etichettata come eccentrica. A volte uno scrittore contemporaneo ci mette davanti a uno specchio. Abbiamo imparato a leggere Elizabeth Bowen attraverso il prisma dell’ammirazione che Sarah Waters provava per lei. Il difficile destino di Anita Brookner ci dimostra che è possibile vincere un premio prestigioso, essere ampiamente letti e nonostante ciò essere sottovalutati. A causa del suo successo postumo, e forse proprio per questo, l’opera di Jane Howard è stata mal interpretata. Le sue virtù sono la costruzione impeccabile, l’osservazione acuta, la tecnica persuasiva ma inesorabile. I suoi romanzi probabilmente non scuotono il mondo ma ogni scrittore potrebbe imparare da lei. Insegnando io stessa scrittura, non esiste autore che abbia consigliato più spesso, o almeno che abbia consigliato proprio per disorientare i miei studenti. Leggila, era il mio consiglio, e leggi i libri che leggeva lei. Scomponi quei piccoli miracoli che sono Il lungo sguardo e After Julius. Falli a pezzi e cerca di capire come sono stati costruiti.

Non ricordo esattamente che giorno fosse quando conobbi Jane. Fu alla Royal Society of Literature, nei tardi anni Ottanta, durante uno degli incontri agli Hyde Park Gardens. Oggi la Royal Society of Literature ha sede altrove, ma allora i loro uffici desolati – ci fu un taglio dei fondi – sembravano dimenticati dal mondo. Ben conoscendo sia i polverosi e decrepiti piani superiori che i gelidi e vuoti piani interrati, non avevo tutta questa voglia di scoprire le dimenticate sale da ricevimento, né gli altrettanto dimenticati soci onorari che guardavano fuori, verso la terrazza.

A volte, quando ammiri uno scrittore, non hai voglia di sapere molto su di lui. Di sicuro avevo visto alcune fotografie di Jane, ma le avevo ignorate. La mia immagine mentale era quella di una creatura minuta e sinuosa, con un taglio di capelli à la garçonne e i grandi occhi da lince, quella di una persona che parla sussurrando a voce roca, se parla. La realtà invece era piuttosto diversa. Jane era alta e maestosa, e aveva una voce profonda e all’antica, da attrice. Possedeva quella qualità felina che avevo immaginato ma era leonina, fulva, dominante, non furtiva o sfuggente. Se avesse fatto le fusa, avrebbe fatto tremare le pareti. Era una donna imponente e forte.

Durante la nostra conversazione, tuttavia, mi accorsi che era gentile e alla mano. Nella sua opera non dimenticò mai cosa significa essere una giovane ragazza, e conservava uno spirito ingenuo in un corpo saggio e navigato. Sembrava consapevole dell’effetto che faceva e desiderosa non di rimuoverlo ma di tenerlo sotto controllo e di modificarlo in modo da mettere gli altri a proprio agio. Se l’altro non si sentiva a proprio agio, lei non poteva mostrarsi per quello che era, e di quell’incontro non le sarebbe rimasto nulla. Le interessavano le persone, ma non alla maniera maliziosa e predatoria propria degli scrittori. Quando accettò la rogna di diventare mia amica, divenne amica anche di mio marito, che non è né un artista né uno scrittore. Ha dedicato a entrambi gli ultimi libri che ha pubblicato. A noi è parso troppo. Mi aveva donato anni di gioia e ispirazione e io avevo la sensazione di non averla ripagata. Durante quegli anni ero a corto di energie per quanto riguarda l’amicizia, tuttavia Jane doveva aver compreso che non mi mancavano le potenzialità. I nostri lavori non avevano molto in comune, e ci mostrammo in pubblico insieme solo una volta, nel corso di un evento in una piccola libreria dove Jane tenne una splendida lettura. Emersero il suo training professionale, la voce potente, le pause calcolate al microsecondo, ma lesse in maniera non affettata, sorridendo, con il piacere di dare gioia al pubblico. Fui felice del fatto che La saga dei Cazalet le procurò nuovi fan. Ammiravo la sua tenacia, proprio come il suo stile. Stava scrivendo quando morì: un libro intitolato Human Error. Mi sarebbe piaciuto chiederle quale, tra l’ampia gamma, avesse scelto come focus.

Senz’ombra di dubbio le migliori conversazioni sono quelle che purtroppo non sono mai realmente avvenute. Ho sempre avuto la sensazione che entrambe vivessimo nella speranza. Ho sempre avuto la sensazione che avrei dovuto chiederle qualcosa, o che lei desiderasse chiedere qualcosa a me. La mattina dopo la sua morte, fui una delle molte persone a essere intervistate e invitate a parlare di lei in radio. All’epoca lavoravo a Stratford-upon-Avon, così ci servimmo dei locali della Royal Shakespeare Company. Si trattò di un evento dell’ultimo minuto e io avevo appena appreso la notizia della sua morte, quindi, probabilmente, non fui brillante. Ma vidi molto chiaramente il suo volto mentre parlavo. Da ragazza Jane faceva l’attrice a Stratford, e le sarebbe piaciuto ciò che quella giornata aveva da offrire. Il fiume scuro e gelido, i cigni che vi scivolavano sopra, e dietro le finestre rigate dalla pioggia nuovi drammi in formazione: ombre umane, che fluttuavano e bisbigliavano nell’oscurità sperando – nel variare e ripetere i propri errori – di avvicinarsi, finalmente, a fare la cosa giusta. Nei romanzi di Jane, i timidi perdono il copione, gli sfrontati dimenticano le battute ma, in qualche modo, si riesce a mettere insieme una performance. A testa alta e col cuore a pezzi, i suoi personaggi affrontano il bagliore delle circostanze. Ogni frase è improvvisata e ogni respiro è un rischio. Lo spettacolo racconta la ricerca della felicità, la ricerca dell’amore. Una standing ovation attende i coraggiosi.

Traduzione di Madeira Giacci

(Stoner, 24 aprile 2016)

di Lara Ricci


La giuria popolare del Premio Campiello ha trasformato in realtà lo slogan contenuto nel nome di Simona Vinci, che si è aggiudicata ieri sera il riconoscimento letterario conquistando 79 voti su 280 validi. Una cinquina, questa della 54esima edizione, connotata da un forte impegno civile e, per 4 dei 5 romanzi, da uno stretto legame con fatti storici del secolo passato. Sono firmati da autrici e parlano di amore tra donne, sullo sfondo dell’orrore, i due primi classificati: La prima verità (Einaudi) della Vinci e anche Le regole del fuoco di Elisabetta Rasy (Rizzoli, 64 voti).

La prima verità è ambientato in parte a Leros, in Grecia, dove le caserme della base militare italiana furono trasformate in un enorme ospedale psichiatrico per gli “incurabili” di tutto il Paese. Qui, rinchiusi in condizioni più che disumane: incredibili, sopravvivevano più di quattromila pazienti, ridotti nel tempo per far spazio ai dissidenti politici della dittatura dei colonnelli (al loro posto oggi dormono i migranti). Il romanzo diventa più intenso e prende il volo nella quarta parte, quando Vinci descrive la sua esperienza con i mali della psiche, più diffusi, sfumati e sfuggenti prima di tutto a noi stessi di quanto vogliamo credere, perché dentro la mente «tutto è vero, anche quando non lo è».

Elisabetta Rasy, dopo essersi lungamente documentata sulle corrispondenze delle donne che partirono volontarie per assistere i feriti della prima guerra mondiale, racconta la vita di due di loro: Maria Rosa, aristocratica napoletana in fuga dalla famiglia e da un ambiente sociale che le imponeva un futuro di moglie, ed Eugenia, arruolatasi per dimostrare al padre la sua vocazione di medico e potersi così iscrivere all’università. Feriti senza nome né storia arrivano a frotte, smembrati, irriconoscibili, deliranti e muoiono perlopiù senza che si sia potuto nemmeno tentare di salvarli. L’insensatezza della guerra, l’oscenità della morte sembrano non lasciare più spazio alla vita. Ma sulle macerie di tutto quel che credevano di conoscere le due ragazze sperimentano una fragilità e una pienezza mai sospettata: si innamorano, tra loro. Per Elisabetta Rasy è l’occasione di far conoscere il ruolo che le donne ebbero nel primo conflitto mondiale quando andarono al fronte o anche in fabbrica, a fianco o al posto degli uomini, tra la derisione e la diffidenza di questi ultimi. Iniziò così un lento, mai terminato, processo di emancipazione. E anche l’occasione per riportare l’attenzione su tema ancora tabù, a giudicare dallo sconcertante clamore che tuttora suscitano film e vicende che nulla hanno di provocatorio, come La vita di Adele (2013), di Abdellatif Kechiche, racconto romantico e delicato della passione tra due ragazze.

(…)


(http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/notizie/2016-09-10/campiello-simona-vinci-e-all-amore-femminile-sfondo-dell-orrore-224745.shtml?uuid=ADO8eUIB&refresh_ce=1)

di Laura Colombo

Alla fine del 2015 è uscito un libro agile che ha un titolo significativo, Sguardi stranieri sulla nostra città (Battei, Parma 2015). Curato da Marco Deriu, sociologo all’Università di Parma, è un viaggio nella geografia interiore di patimenti, speranze, delusioni e conquiste di chi migra da paesi lontani e approda a Parma, un’agiata cittadina del Centro-Nord. Attraverso gli occhi di chi arriva, vediamo questo angolo di mondo e possiamo ricostruire la mappa degli spazi esteriori e interiori che appartengono a chi straniero non è.

La scrittura è a più mani, Marco Deriu collabora con le volontarie dell’associazione Parma per gli Altri per elaborare il materiale raccolto dalla viva voce di donne e uomini migranti, che da tempo abitano in città. Tutte e tutti si misurano con la propria storia. Innanzi tutto con la necessità di partire dal paese d’origine, per mancanza di prospettive o per necessità di fuggire da guerre e soprusi. “Stavo lasciando un lavoro, la mia terra. Poi ho ragionato: in Senegal è dura e impossibile, in Italia è dura, ma possibile” (pag. 24). Si misurano con le conseguenze della loro partenza, quel fardello pesante fatto di bisogni e aspettative di chi resta e obbligo di farcela per chi se ne va. “Mi hanno detto di andare per proteggere la mia famiglia, per portarle aiuto. Hanno speso un sacco di soldi per farmi arrivare qua. Ci sono delle persone da noi che per mandare i figli fuori dal paese vendono anche la terra. Ma se uno ha venduto la sua terra, e qua non trova niente, non può fare nulla, e anche la sua famiglia sta male, perché non ha più nulla, è sulla strada” (pag. 28). Tutte e tutti si misurano anche con ciò che trovano una volta arrivati qui, lo straniamento dell’impatto con la nuova realtà, le perle preziose dell’accoglienza, i piccoli grandi gesti che riscaldano il cuore e danno un orientamento nell’ignoto, l’incontro con cultura e valori spesso distanti da ciò che si sente nel profondo.

È questo il punto che mostra la maggior ricchezza del libro: l’immigrazione, per il tramite delle parole di donne e uomini migranti, diventa il soggetto che parla di noi, non l’oggetto del discorso, il tema scottante su cui intervenire, e invita chi legge a una messa in discussione di verità e pregiudizi attraverso lo specchio dell’altro.

“Qui la gente ti lascia tranquillo. Nessuno ti guarda, puoi fare quello che vuoi, basta che non dai fastidio a nessuno. E questa è una cosa bellissima. Sei più libero” (pag. 11 e 104). L’invisibilità è per Hamed patimento e insieme fonte di piacere, perché, come sottolinea Faisal, in Africa “non sei mai solo, neppure di notte e a volte si sente il bisogno di vivere momenti di riflessione” (pag. 94). Come in uno specchio, qui possiamo scorgere la nostra indifferenza, la diffidenza, la paura del contatto, il senso del possesso. “Qui devi star sicuro, devi star ricco, devi fare l’assicurazione. Devi mettere anche una pistola in casa. Tutto questo nel caso arrivi qualche problema. Ma arriva lo stesso, anche se metti un militare con te a casa; se arriva, arriva” (pag. 15). Emerge in modo chiaro il nostro stile relazionale, sbilanciato sulla strumentalità e sull’apparenza. “Da noi condividi quello che sei. Da voi si cerca di dare un’immagine migliore” (pag. 39). Non sono verità assolute, frasi di lapidaria condanna. La complessità dei vissuti e delle esperienze è presente nelle parole che riconoscono la gentilezza, l’amore caritatevole, il rispetto umano di chi accoglie. Sono tuttavia sguardi che toccano contraddizioni vive, tanto più per quelli di “noi” che fanno solidarietà, se il movimento del dono cela un senso di superiorità, che deriva dalla distanza tra chi dà e chi riceve. Ogni tassello del mosaico che compone il libro, ci interroga attraverso lo sguardo dello straniero prossimo a noi: casa, educazione, lavoro, lingua, bambini, anziani, corpi, morte, comunità, cibo, feste, diventano pezzi di un paesaggio che, forse, possiamo iniziare a comporre davvero insieme. Perché “l’intercultura non è là dove la si vorrebbe trovare, non è dove vorremmo portare i nostri articoli o i nostri doni. Non nei convegni sull’intercultura, ma nelle panchine sotto casa” (pag. 21).

(“Autogestione e politica prima” Agosto 2016)

Intervista alla scrittrice SUAD AMIRY

di Emanuele Valenti

 

«La mia vita è sempre stata con me, i ricordi della mia vita mi hanno sempre accompagnata, ma ho deciso di raccontarla adesso perché sentivo la necessità di fare un omaggio a Damasco e a tutta la Siria, ormai in buona parte distrutta. Il mio racconto è un omaggio ai cittadini siriani, anche ai rifugiati, per ricordargli la bellezza del loro Paese in un momento così difficile». È questa la motivazione che ha spinto Suad Amiry a scrivere il suo ultimo libro, Damasco (edito da Feltrinelli).

Dopo aver ambientato i suoi precedenti romanzi in Palestina Suad Amiry ha deciso di allargare la prospettiva a quella che un tempo era La Grande Siria (Siria, Libano, Giordania, Palestina) dove si muovono i personaggi, tutti reali, che sono stati i protagonisti della storia della sua stessa famiglia.

«Questo è un libro sulla bellezza, sulla cultura, sul cibo, sulla musica», ci racconta Suad Amiry, ospite nell’Auditorium di Radio Popolare. «In un Medio Oriente attraversato da così tante crisi capita spesso di pensare che le nostre siano state vite sprecate e che i nostri luoghi di origine non ci appartengano più. Ecco, scrivere della propria famiglia, una delle cose più intime che si possano fare, è un ottimo modo per recuperare fiducia e per riappropriarsi di quei luoghi e della propria vita».

Damasco racconta la storia della famiglia allargata di Suad Amiry e della casa di suo nonno materno nel pieno centro della capitale siriana. Una storia che va dalla metà del diciannovesimo secolo fino ai giorni nostri, anche se il libro si ferma praticamente alla fine degli anni ’60, in concomitanza con l’arrivo al potere della famiglia Assad.

Una vera e propria “saga familiare”, come la definisce la stessa autrice, ben ancorata alla storia di quella regione. Sullo sfondo delle dispute familiari c’è la fine dell’impero ottomano, «un periodo – osserva quasi stupita Suad Amiry – durante il quale c’era almeno la libertà di movimento. Pensate, mio nonno poteva andare da Amman a Beirut e da Damasco a Istanbul senza alcun problema. Oggi è impossibile, pensate a tutti i confini e a tutti i muri che ci sono in Medio Oreinte».

Come in tutte le famiglie ci sono cose buone e cose cattive. Suad Amiry dipinge anche i ritratti di personaggi difficili, che nella storia della famiglia Baroudi sono i personaggi più negativi. «A un certo punto temevo che molti parenti non mi avrebbero più parlato, ma poi mi sono resa conto che tutti vogliono essere citati. Tutti sono contenti di essere parte di un libro».

Le protagoniste indiscusse della storia della famiglia Baroudi sono le donne, come succede in molti luoghi del Medio Oriente. Suad Amiry è cresciuta all’ombra di donne molto forti, che sono tra le protagoniste del suo libro Damasco. «Mia zia Laila, per esempio, ha comandato la famiglia per molti anni, e anche mia madre aveva un carattere piuttosto forte. Di solito sottovalutiamo quelle che definiamo ‘società tradizionali’. Molte volte chi parla delle donne in Medio Oriente o nel mondo arabo non si rende conto della forza che hanno lì le donne, del ruolo fondamentale che ricoprono. Mia zia Laila, nonostante ci fossero molti uomini in famiglia, era quella che comandava, con fare dittatoriale, l’intera comunità».

Nel 2016 un libro intitolato Damasco non può non portarci alla guerra di questi anni.

Suad Amiry, che oggi vive a Ramallah, nei territori palestinesi, non ama parlare della situazione politica in Siria, ma non può fuggire dalle sue stesse origini. «La Siria è sempre stata la mia ancora di salvezza. Da bambina sono andata più volte dai nonni a Damasco quando la situazione familiare o quella intorno a noi si complicava. E la stessa Damasco era anche la mia ancora dell’abbondanza. Porto sempre con me le immagini, i suoni, gli odori dei bazar e dei suq. Quando penso alla guerra di oggi, quando penso a una città come Aleppo completamente distrutta temo che la mia ancora non esista più. Anche per questo era importante scrivere questo libro. Per ricordare a me e alle nuove generazioni che c’era un’altra Siria».

Suad Amiry nasce come architetta e come architetta lavora a Ramallah, dove ha fondato il Riwaq Center for Architectural Conservation. In Damasco racconta della nonna che alla fine del diciannovesimo secolo provava a immaginarsi la bellezza di Istanbul. Nonostante la guerra e le tantissime vittime Suad Amiry riesce ancora a immaginare la Siria di domani. «In Medio Oriente possiamo solo sopravvivere con la speranza. Se penso all’Europa alla fine della Seconda Guerra Mondiale mi convinco che anche noi saremo capaci di ricostruire il nostro paese. Non possiamo mica vivere perennemente in guerra. Non vedrò più il Medio Oriente della mia infanzia ma anche questa guerra finirà».

Il ritratto di Damasco e di casa Baroudi, persino le dinamiche dei fastosi pranzi del venerdì, ci raccontano molto della Siria di oggi. La lettura dell’ultimo libro di Suad Amiry è quindi consigliata a tutti coloro che vogliono capire qualcosa di più della crisi in Medio Oriente.

(http://www.radiopopolare.it/2016/09/suad-amiry-damasco-presenta-il-libro-a-radio-popolare-siria/)

di Alessandra Pigliaru

 

Era un piccolo cinema il Venice di Manhattan, fino ai primi anni Quaranta lo si poteva trovare al 207 di Park Row, tra la Bowery e Chinatown. Alla biglietteria stava Mazie Phillips, donna prorompente, qualcuno direbbe forse ingombrante, capelli biondo platino, voce gracchiante e occhi di un una lucidità tutta alcolica. Quando l’8 giugno del 1964 muore al Lenox Hill Hospital, le viene dedicato un articolo dal New York Times in cui a essere ricordata è la «Regina della Bowery». Così infatti era conosciuta Mazie che, finito il lavoro al Venice, si avviava nelle strade desolate, tra gli ultimi. E parlava con loro. A volte se le cose finivano male chiamava un’ambulanza, altrimenti bastavano due chiacchiere, spesso un sorso in compagnia. Tormentata generosità ciò che spinge una giovane donna a trascorrere le proprie notti come una sonnambula, alla ricerca di un contatto con l’altrui afflizione – forse anche la propria. Niente istituzioni, niente tentativi di proselitismo e redenzione, bensì desiderio autentico di dare consistenza a una realtà fuori sesto. Sullo sfondo della Grande Depressione e del proibizionismo, l’esistenza di Mazie Phillips si trasforma così in una insorgenza difficile da trattenere. Un anno fa, la sua storia ha ispirato un romanzo bello e appassionato scritto da Jami Attenberg che si intitola Santa Mazie, ora arrivato anche in Italia grazie alle edizioni Giuntina (traduzione di Paola Buscaglione Candela, pp. 300, euro 16,50).

Ha saputo dell’esistenza di Mazie Phillips grazie al bel ritratto che di lei ha composto Joseph Mitchell nel suo «Up in the Old Hotel» (comprendente articoli apparsi sul «New Yorker» dal 1943 al 1963). Com’era questa sua regalità senza corona?

Sono stata subito affascinata dalla sua compassione per gli altri meno fortunati di lei, e sono rimasta colpita dal suo impegno verso la comunità a cui credeva di appartenere. Per decenni, Mazie Phillips ha aiutato migliaia di uomini e donne senzatetto semplicemente perché le importava, si preoccupava della loro salute e della loro felicità. Insomma, aveva un grande cuore. Straordinaria è stata la sua profonda umanità, esorbitante in tutti i sensi: beveva, fumava, era irascibile, eccessiva. Tutti questi elementi insieme mi hanno incuriosita, ispirata e quasi subito ho pensato di scrivere un libro su di lei.

L’autobiografia immaginaria che ha composto è come un diario per immagini. Visivo a tal punto che sembra essere stato pensato come un documentario, con alcuni personaggi che interrompono la voce della protagonista per descrivere il suo carattere. In che modo ha lavorato?

In sostanza ho iniziato a scrivere il libro come un memoir di finzione. Avevo in mente un paio di domande a cui volevo trovare risposte. Per esempio mi interessava come una donna ebrea del Lower East Side nel 1920 si è potuta interessare alla fede cattolica al punto di cominciare a diventare praticante. E mi sono chiesta perché ha pensato di entrare in contatto soprattutto con gli uomini senza una casa e le donne che meno spesso vivevano per strada. Perché non si era mai sposata e la ragione di tutta quella incandescenza, le sue imperfezioni, i suoi eccessi nel bere alcolici, le sue tendenze violente.

Tuttavia, quando ho cominciato a scrivere il libro in questi termini ho sentito una sorta di rimosso che proveniva da una voce che mi ostinavo a catturare. Mi sono accorta che non avrei mai conosciuto la vera Mazie e non avevo a disposizione documentazione sufficiente a parte il saggio di Mitchell. Ho iniziato allora a pensare che se avessi potuto ne avrei voluto parlare con chi l’aveva davvero incontrata e, nell’impossibilità di farlo, ho capito che potevo solo inventare quei personaggi. Da lì il documentario, un collage che si è composto nel modo in cui le sue parti si facevano avanti.

Quali testi storici ha pensato di consultare?

Mi sono dedicata anche alle ricerche storiche. Ho visitato il Tenement Museum di New York City, dove sono stata in grado di visualizzare gli appartamenti delle case popolari anguste del periodo in cui è vissuta Mazie. E ho letto libri, inclusa una storia di Coney Island, Amusing the Million: Coney Island at the Turn of the Century. Poi anche Only Yesterday, una storia degli anni ’20 del Novecento redatta una decina di anni dopo. Infine Low Life, un ritratto di New York City a cavallo tra il 1800 e i primi del Novecento. Ho guardato documentari, filmati, ho ascoltato musica. E ho fantasticato su di lei, ho camminato a lungo di notte intorno a Manhattan, sulle strade di ciottoli che lei stessa aveva percorso. Ho meditato su di lei. Probabilmente ho messo anche un po’ di me in lei, e un po’ anche l’ho assimilata ad altre donne forti, coraggiose. Credo che questo tipo di furto sia inevitabile.

Mazie è diventata così una miscela di un sacco di cose, ma è anche se stessa. Mi ci sono voluti circa due anni per completare il libro.

Nel suo romanzo, «I Middlestein» (Giuntina, 2014), sulla forma che può assumere la vita coniugale, al centro c’è Edie, la protagonista femminile, e i suoi eccessi in particolare con il cibo. Edie e Mazie hanno qualche punto di comunanza riguardo la stessa fame. Di cosa?

In proposito mi ha colpita una critica che hanno attribuito ai miei personaggi. Parlava di un edonismo e senso di colpa e inizialmente ho pensato che fosse appropriato. Non credo abbiano una fame di desiderio, per esempio poiché mi pare che il desiderio esista già dentro di loro. Sono però creature voraci, sia Edie che Mazie. E mi domando se non sia questo un modo divertente, luminoso per esistere.

Alla domanda «Non vorresti un innamorato?» Mazie risponde «Il mondo intero è il mio innamorato». Ha raccontato una storia di libertà femminile in cui l’amore è essenziale o c’è dell’altro?

La vera Mazie si sentiva molto moderna secondo me. Non credo di aver intuito o connesso caratteristiche contrarie riguardo il suo conto, o almeno non era questo che volevo fare. Anzi ho potuto imparare da lei, ho voluto sapere ciò che sapeva. Così ho scritto di una donna forte che abbraccia liberamente la sua sessualità e la sua libertà, perché volevo vedere quel personaggio esistere nel mondo. L’ho desiderato. A un certo punto diventano come dei modelli, quando pensiamo di averne bisogno. In fondo cerco sempre di riferirmi a forti protagonismi di donne. Questo è un atto femminista, un atto politico per me.

Uno dei personaggi del suo libro si chiama Elio Ferrante, un docente esperto della storia di Brooklyn. L’omaggio è a Elena Ferrante, c’è qualcosa in particolare che ama delle sue narrazioni?

Mi piace la complessa rugosità e l’umanità dei libri di Elena Ferrante. C’è una qualità intensa e febbrile che ammiro. E lei è una femminista, una mente politica. Dal punto di vista della scrittura, ha la capacità di costruire molto lentamente i suoi personaggi, ne segue la tensione fino al punto di rottura che si presenta come un sollievo, anche se le azioni intraprese nel momento culminante sono violente, oscure. Assistiamo cioè alla costruzione minuziosa di questa oscurità fino a essere confortati quando se ne comprende l’esito. In questo senso, i suoi libri li ho letti come un risultato ed è importante studiare il modo in cui lei lavora.

(Il manifesto, 7/09/2016)

L’autrice racconta il suo rapporto con la poesia, il dolore e le nuove

traduzioni di Shakespeare che presenterà oggi al Festival di Mantova

di LEONETTA BENTIVOGLIO

 

Con “Shakespeare in scena”, edito da Nottetempo, escono riunite in un volume le traduzioni di quattro play a firma di Patrizia Cavalli, che lo presenterà stasera al Festivaletteratura di Mantova e il 16 a Pordenonelegge. Sono “La tempesta”, “Sogno di una notte d’estate”, “Otello” e “La dodicesima notte”. Mentre leggiamo il libro, Shakespeare ci cammina accanto. È un amico a noi contemporaneo che racconta il potere, l’eros, l’amicizia, la morte, la famiglia

la guerra, i tradimenti. Lavorando sulla lingua, la Cavalli costruisce un italiano che comunica umanità profonda e pienezza di esperienze. Comunicare in questo modo significa praticamente tutto. Patrizia lo sa. Di volta in volta ha fatto queste traduzioni per committenze teatrali. Le ha viste interpretate da artisti come Carlo Cecchi. Le ha sentite applaudire dal pubblico con entusiasmo. “Traducendo Shakespeare, a parte alcuni tagli decisi dal regista, in Otello per esempio”, premette la poetessa accomodata nella sua casa di Roma, vicina a Campo de’ Fiori, “sono rimasta più che fedele al testo, ma cercando di cogliere davvero la lingua shakespeariana nelle sue sonorità e sfumature. Shakespeare è sempre pieno di riferimenti e sottotesti che vanno compresi per poi trovare una lingua ricca e trasparente”.

Semplice, ma non semplificata.

“Proprio così. Shakespeare vive nel teatro e il pubblico anche popolare che lo andava a sentire capiva tutto. Però ha una lingua che non è di adesso, e chi traduce tende a imitare quella antica, a farne qualcosa di macchinoso e improbabile. Va riportato a una lingua viva. Per questo le traduzioni invecchiano facilmente. In realtà tradurre, soprattutto Shakespeare, è una fatica spaventosa: bisogna attraversare l’inferno dell’artificio per conquistare l’apparenza della naturalezza. C’è anche da considerare il suono, che è sempre fondamentale nel suo rapporto col significato, visto che Shakespeare scrive in versi. Conta che si senta il ritmo nell’andamento della voce dell’attore. Un muoversi negli accenti che renda il verso diretto e necessario. Anche chi traduce ha bisogno di questa ginnastica quasi fisica per trovare i toni vocali dei personaggi, tanto che traducendo mi succedeva di spostarmi nelle stanze, magari trovando una soluzione quando raggiungevo la cucina. Otello ha la magniloquenza tipica degli epilettici, che contiene l’anticipazione della catastrofe; Iago ha la bassezza approssimativa di certi romaneschi che fanno intendere di saperla lunga”.

Nel suo appartamento che va su e giù nei livelli, tra scale e pavimenti ondosi, Patrizia parla di Shakespeare con un abbandono privo di saccenza. Ha il capo fasciato da un cappuccio azzurro che cela gli effetti della chemioterapia. A un tratto per il caldo se lo toglie, scoprendo una bella testa perfettamente tonda. Di giorni ariosi o affannati, di

piccole meraviglie dell’amore, di fisicità impudenti, di dettagli comuni, si nutrono le poesie della Cavalli, autrice di varie raccolte pubblicate da Einaudi, da Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) fino a Datura (2013). Forse è stata la sua semplicità senz’artificio, la sua nobiltà nell’ordinarietà, il suo senso centrale del corpo, a farle cogliere

il respiro vitalissimo di Shakespeare.

Di corpo è piena la sua poesia, Patrizia Cavalli. E qualche tempo fa il suo corpo si è

ammalato.

“Ogni sua particella sono io. Ogni cellula si rivela, si manifesta. Il mio fisico non è mai stato separato dalla mente. L’ho ascoltato costantemente. Per questo sono stata sempre ipocondriaca, sentendo in me qualcosa di segreto e di estremo. Poi, quando si è manifestato il male vero, l’ipocondria è passata: l’immaginazione non aveva più un luogo in cui andare. Il terrore legato all’ipocondria veniva dal vuoto corporale. Il cancro ha riempito il panico. E mentre gli amici mi dicevano: hai una gran forza d’animo, la verità è che scoprendo la malattia io non ero più depressa”.

Ha sofferto di depressione?

“Fin da giovanissima, al liceo. Poi si è ripresentata in periodi diversi. Mi abbandonavo a me stessa e fissavo il vuoto. Nella poesia l’ho descritta. Uno stato di separazione. Passaggi visionari, quasi schizoidi. Ciò che è solo se stesso e non si muove è terribile, che sia una parete o un soffitto. Uno psichiatra sostiene che una mia poesia è la migliore definizione della depressione che abbia mai sentito e l’ha portata a un convegno: “Persino il sonno adesso mi dispiace / perché il sonno produce il mio risveglio””.

Non ha mai tentato una psicoanalisi?

“Una volta ci ho provato, ma ho lasciato perdere abbastanza presto. La simpatica poeta milanese Vivian Lamarque era così dispiaciuta per la mia depressione che mi spinse a provare. Le ho detto: vado, però trovami una psicoanalista bella, antipatica, elegantissima e sprezzante. Voglio essere dominata. Invece mi manda da una signora buonissima.

Quando entro nel suo studio si aggiusta il golfetto. Mi chiede: perché viene da me? Rispondo: perché lei è obbligata ad ascoltarmi per 45 minuti senza ribellarsi. I miei amici non ne possono più”. Era un groviglio di amori infelici? “Gli amori infelici sono sempre anche felici, altrimenti non potrebbero essere infelici. C’è stato un lunghissimo amore che

mi ha fatto scrivere molto. Poi la musa è scomparsa”.

Pensa spesso alla morte?

“Se le circostanze sono concrete ti attacchi al dettaglio senza pensare più in prospettiva. Rimuovi. Eppure rimuovere non è nella mia natura: sono stata sempre pronta ad affrontare pensieri orrendi. Credo che sia una forma di arroganza. Ho avuto il tempo d’immaginare la morte. Il massimo del terrore è l’idea di finire in una zona dove non ho controllo”.

Le sue poesie trasmettono un’infinita libertà. Come nascono?

“Quelle di pochi versi arrivano da sole, bussano alla porta e io apro. Cammino, mi parlo nella mente, scrivo un paio di versi e correggo. Nelle poesie lunghe, come La patria, c’è un intero sistema di pensiero. Nelle brevi la concentrazione è immediata”.

Quando una poesia è riuscita?

“Quando si muove. Deve attraversare un territorio. Può anche sembrare bella, ma se resta ferma nel suo tempo e nella sua idea, senza un prima e un dopo, è mezza morta. Che siano tre versi o 300, bisogna che accada qualcosa. Dev’esserci una sorpresa del pensiero. Un eros nella parola”.

Lei dà sostanza poetica a parole comuni, quotidiane.

“Non ci sono parole belle o brutte. Tutte sono stupende. Purché siano reali e pertinenti. Spesso le parole sono usate in modo orribile, e alcune vengono logorate dall’uso. Perciò bisogna aspettare che ritrovino un’innocenza”.

 

(Repubblica.it, 7/09/2016)

di Goffredo Fofi

Nel momento in cui, grazie al passaparola dei lettori e in particolare delle lettrici statunitensi l’opera e il nome di Elena Ferrante sono diventati notissimi urbi et orbi e le vendite della traduzione inglese dei quattro volumi di L’amica geniale gareggiano con quelle dei facitori e facitrici di best-seller elaborati al computer, tutto quello che è possibile sapere su Elena Ferrante è contenuto in La frantumaglia, ampio volume di quasi quattrocento pagine che raccoglie lettere e interviste, divise in tre capitoli: Carte. 1991-2003; Tessere. 2003-2007; Lettere. 2011-2016. Il secondo e il terzo sono successivi alla prima edizione del libro, che è del 2003, 163 pagine sulle 376 complessive.
La curiosità, un po’ sciocca e un po’ malsana anche se spiegabile, che circonda la scrittrice, rigorosamente appartata e – volto e vita – di ignota identità resterà soddisfatta solo in parte per quanto riguarda i pettegoli, e sono tanti!, ma dirà tutto quello che è possibile e, direi, legittimo sapere su una scrittrice o uno scrittore, per gli amanti della buona scrittura. C’è tutto quel che è giusto sapere di Elena Ferrante in questo libro, meno la sua fotografia, il suo vero nome e la sua, diciamo così, collocazione fisica in una famiglia, in un lavoro, in una città, in un ambiente. Che però si suppone in parte coerente con quello della protagonista dell’Amica geniale, ma solo in parte, per la precisione e per la sapienza con cui vi vengono descritti Napoli, la sua popolazione di piccolissima borghesia quasi “eduardiana”, e un tempo che va dagli anni cinquanta per giungere vicino a noi, segnalato più dalle mutazioni antropologiche del contesto che da date storicamente certe, da avvenimenti forti riguardanti tutta la comunità, locale o nazionale. Napoletana lo è certamente (basterebbe per convincersene la descrizione del quartiere del Vasto nel primo volume dell’Amica geniale), e napoletana che si è allontanata da Napoli fisicamente ma non culturalmente, giovane che non si è affatto sottratta ai movimenti del ’68 e in particolare del femminismo, scrittrice che ha avuto come riferimenti e forse modelli due dei nomi più grandi della nostra letteratura novecentesca, la Morante e la Ortese, e che forse ha conosciuto direttamente una sorella maggiore come la Ramondino, Elena Ferrante si è raccontata moltissimo nei suoi romanzi, anche se, come è giusto, con la distanza delle invenzioni letterarie, con la costruzione di personaggi che prendono la loro strada, che non sempre obbediscono ai piani dei loro creatori.

Nella Frantumaglia, Elena Ferrante dice tantissimo di sé e del suo lavoro, più di quanto basti per qualsiasi scrittore, non fosse che l’epoca impone un presenzialismo ossessivo e, diciamolo, chi fa letteratura, chi scrive romanzi, anela oggi anzitutto a vedersi sui giornali, sui banconi delle librerie, nei festival e convegni, ad ascoltarsi a Fahrenheit, a recitarsi negli stupidissimi incontri televisivi. È anche a questo che, mescolando, si direbbe, una vocazione psicologica personale e una scelta intellettuale. Elena Ferrante si è rifiutata da subito, e il suo successo (inatteso da tutti, e per prima certamente da lei medesima) non è il risultato di una strategia bensì del valore, pieno e riconosciuto, di quel che lei ha scritto.

L’assenza mediatica ha giovato a questa scrittrice come un segno di rigore, di encomiabile serietà, che esigeva ed esige l’attenzione ai libri e non a chi li ha scritti, e però ha certamente nuociuto in Italia alla sua fama, almeno inizialmente, perché non avere un volto e una storia riconoscibili, non farsi ricevere e interrogare dal pupazzetto della Rai, non farsi intervistare dai giornali con accompagnamento di foto che tirino al glamour, non girare periodicamente per librerie lungo l’intera penisola e le isole a presentare i propri libri, non partecipare alle fiere, non frequentare i tremendi salotti cultural-politici romani e milanesi, non concorrere ai premi e presenziarvi (e dunque non essere premiabile, come ha ovviamente dimostrato lo Strega, dato che la presenza è fondamentale e se non c’è spettacolo non c’è premio), tutto questo non stimola gli addetti ai lavori e i consumatori di cultura. E l’accademia arriva, come sempre, a occuparsi dei viventi tardi o mai, e secondo canoni e pregiudizi molto consolidati. Insomma, che la Ferrante non abbia un volto e un corpo riconoscibili le ha nuociuto e le nuoce, e non è un caso che il successo forte le arrida in Italia da poco sulla scia di quello statunitense…) ma dall’altro è una garanzia di serietà, e attira i lettori meno condizionati dai meccanismi della società dello spettacolo, i “pochi ma buoni”.

La frantumaglia è composto anzitutto di risposte a interviste non superficiali (forse quelle superficiali sono state subito cestinate) e di corrispondenza (appassionante, a inizio libro, quella con Mario Martone sul passaggio di L’amore molesto da romanzo a film) ma anche di testi senza destinazione, abbozzi a volte di articoli o articoli compiuti come quello bellissimo sul film di Chéreau Gabrielle analizzato in confronto al racconto di Conrad che l’ha ispirato, Il ritorno. No, “la Ferrante” non è certamente una scrittrice di scarsa cultura, conosce bene i suoi classici e ha gusti precisi, ha una formazione coerente. Sa che cos’è la letteratura, e sa che, dedicarvisi, non vuol dire sfogare le proprie frustrazioni o velleità, la propria sete di riconoscimenti, bensì affrontare una sudata costruzione in coerenza a un proprio progetto e a una propria visione, entrando in un campo e in una storia dove i confronti sono obbligati e, per chi non gioca e ha un forte talento, possono essere travolgenti e a loro modo tremendi, decisivi di una vita. Ha avuto una sua evoluzione di scrittrice, da un impasto realistico-psicologico più denso e morboso a una larga e bensì profonda ricchezza romanzesca che affronta la più difficile e classica delle sfide, quella, con L’amica geniale, del vasto romanzo a sfondo corale con la precisa definizione di un’epoca storica a partire da dati di costume e d’ambiente, però mettendo a fuoco pochi personaggi (infine due, la narratrice e “l’amica geniale”, due caratteri femminili perfettamente e quasi ossessivamente delineati) che stabiliscano caratteri in qualche modo universali, anche se collocati su sfondi sociologicamente, antropologicamente, e storicamente attendibili, influenti sulla loro evoluzione.

Si può amare di più questo o quel libro della Ferrante, ma non v’è dubbio che si tratti di una vera scrittrice, delle poche e dei pochi degni di restare, alla faccia dei gazzettieri e dei pettegoli, dei curiosi e morbosi e dei professorini o, come li chiamava Machado, dei “señoritos” che si dilettano inventandosi letterati. La Morante distingueva: ci sono gli scrittori, pochi, e ci sono gli scriventi, tanti. Ma proprio il nome della Morante, insieme a quello della Ortese più volte citati nella Frantumaglia, servono a dire una differenza: manca alla Ferrante, o manca ancora, una dimensione “religiosa”, tragica o salvifica che sia, dell’esistenza. È una scrittrice che potremmo forse definire dolorosamente laica. E ovviamente non è un limite, in un’epoca che mistifica così facilmente sia il laicismo che la religiosità.


(Il Sole 24 ore, 4/9/2016)

recensione di Stefania Giannotti

 

Ho scoperto presto che spesso l’opacità era nei miei occhi tanto più quando cercavo di usare categorie “neutre” e così dette oggettive nell’interpretare la società, oppure quando cercavo di annullare gli scarti negandoli con semplicistiche soluzioni. Ho cercato allora, grazie alla mia militanza nel movimento delle donne, di individuare un punto di vista non più neutro ma legato alla mia “differenza sessuale”, che arricchisce la capacità di percezione e la creatività nel progettare.

Siamo a pag. 61 di L’architettura necessaria di Laura Gallucci, libro edito da Quodlibet 2015 e voluto da Irene de Guttry e Cristina Liquori per trattenere tra noi e sulla terra la preziosa opera di architettura e di pensiero dell’architetta morta nuotando nel mare di Capalbio nel 2012.

Il testo, corredato dalle immagini delle sue opere e dagli ironici disegni “quotidiani”, è libro da meditare, da leggere, da portarsi dietro, perché di certo così lo hanno voluto le autrici, ma anche perché nel lavoro di Gallucci c’è altro oltre le opere. La sua è architettura consapevole, in cui la professione di architetta progettista non si separa mai dall’esperienza e pratica femminista. Progetto architettonico, pensiero politico, punto di vista non neutro sono tenuti insieme da un legame forte e sempre presente.

Lo sa, lo vuole, lo mette in parole l’architetta Gallucci. È la sua battaglia. E grazie alla capacità di dare senso e all’impegno nel mettere in parole e narrare un processo complesso come il progetto d’architettura, questo libro è ricco non solo di belle e suggestive immagini dell’opera realizzata, ma anche di spunti e indicazioni progettuali, di occasioni per riflessioni politiche.

Già nel 1979 nel documento per la candidatura alle elezioni provinciali, tema «la casa: un problema per la sinistra», critica l’idea della «casa in proprietà», che si fa strada in alcuni settori della sinistra, mettendo al centro la figura femminile e la ricaduta sulla donna della struttura piramidale della città, delle logiche speculative, dell’assenza di servizi sociali. E lo diceva con grande chiarezza e autorevolezza, anticipando così, di qualche decennio, l’idea di cohousing e legando in una visione unica lo spazio dell’abitare a quello urbano e al territorio: Ci ritroviamo allo stato attuale con alloggi che non funzionano senza la presenza di una donna e con una configurazione piramidale della città, con l’esaltazione di un centro che riunisce le funzioni e i servizi più prestigiosi e numerosi, via via decrescenti verso la periferia… la conseguenza è la totale assenza di qualità urbana… (pag. 47).

Nell’ammasso informe della progettazione in cui non si butta niente, neppure gli scarti, Gallucci si muove agilmente mettendosi in gioco fino in fondo con la sua esperienza di donna e con la pratica del partire da sé, che non è ideologia politica ma diventa necessità professionale. La relazione con l’altra/o cliente diventa indispensabile per incontrare il desiderio vero del cliente, e tradurre lo stereotipo con cui può succedere che questo si esprima. Il coinvolgimento emotivo accompagna e impronta tutto il viaggio nella progettazione. È così che Gallucci esce dalla fase in cui tutto si presenta come possibile per individuare ed estrarre l’architettura necessaria.

Gallucci è progettista soprattutto di spazi abitativi. La mano è leggera alla ricerca di dinamicità fluidità trasparenza. Lo spazio cartesiano si rompe a favore della compenetrazione degli spazi con linee spesso curve. Le abitazioni realizzate si scoprono lentamente con punti di vista e scorci sempre diversi, suggeriti da tagli orizzontali e verticali, da sipari che si aprono su nuove prospettive.

Tutto questo e molto altro in L’architettura necessaria di Laura Gallucci, di Irene de Guttry e Cristina Liquori, Ed. Quodlibet 2015.


(AP Autogestione e politica prima, luglio-dicembre 2016)

a cura di Betti Briano*

Il libro Mia madre femminista (Il Poligrafo, Padova 2015) richiama nel sottotitolo una rivoluzione,quella femminista, partita nella seconda metà degli anni ’60, un processo irreversibile di trasformazione delle coscienze delle donne, che ha consentito loro di prendere parola pubblica e di affermare sestesse come soggetto libero nella scena sociale e politica, trasformando le relazioni con gli uomini.

Le autrici questa rivoluzione l’hanno vissuta, non ne parlano per sentito dire o per letture fatte, ma attraverso la loro voce e le voci di altre che parlano dall’interno di quel processo. Avrebberopotuto cimentarsi in un lavoro storico tradizionale che sarebbe stato accolto dalla comunità scientifica e magari utilizzato per qualche testo per le scuole; ne avrebbero avuto le competenze poiché sono insegnanti esperte e hanno nel loro curriculum un pluriennale percorso di ricerca storica e di pubblicazioni.Fanno invece un’altra scelta: intraprendono un racconto soggettivodi quegli accadimentie scoperte nel quale si può ritrovare chi come me li ha vissuti. L’obiettivo è però più ambizioso: è quello di trasmettere la memoria di quanto accaduto alle generazioni successive. Qui entra in gioco il loro amore per l’insegnamento. L’idea del libro nasce infatti a seguito delle domande delle e degli studenti dopo la visione della mostra Noi utopia delle donne di ieri, memoria delle donne di domani. Quarant’anni di storia del movimento delle donne a Milano, prodotta nel 2006 da Marina insieme ad altre.

Con una felice intuizione sperimentanouna narrazione drammatizzatadi quasi 50 anni di femminismo che si dispiega in un dialogo tra madre e figlia in quattro tempi. I tempi non si riferiscono a una periodizzazione della vicenda storica ma a quattro nuclei tematici cui si possono ricondurre le elaborazioni e le pratiche politiche delle donne che vengono affrontati con quattro diverse modalità corrispondenti ad altrettanti cambi di scena: il primo tema in cui si evoca il percorso compiuto per prendere parola, trovare parole proprie per dirsi, viene trattato in una lettera della madre alla figlia; il tema dell’autogestione del corpo e dell’autodeterminazione nella sessualità e nella procreazione viene affrontato invece nel salotto di casa; dei luoghi di incontro e di elaborazione del femminismo si parla in occasione di una visita in uno di essi; il tema del lavoro è argomento di una lettera alla madrenella quale la figlia,riferendo la discussione in pizzeria con donne e uomini dopo un incontro dell’Agorà del Lavoro a Milano,dichiara che nelle nuove idee sul lavoro riguardanti il superamento della divisione tra il lavoro di produzione e quello di riproduzione dell’esistenza, per quanto espresse in gran parte da donne più grandi di lei, trova rispecchiamento la sua esperienza di giovane alle prese con la precarietà e il desiderio di maternità. Con questo finale si compie simbolicamente il passaggio generazionale tra chi è stata giovane negli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso e chi lo è oggi nel nuovo millennio.

Le autrici, per evitare che il racconto soggettivo resti personale e rendere la dimensione collettiva di una storia condivisa, inseriscono 58 testimonianze fatte di parole e immagini che compaiono nel libro con eleganti inserti di colore grigio. Evocano il contesto delle vicende riferite nel dialogo tra madre e figliae rivelano episodi inediti di questo percorso: dalla lotta contro la guerra del Vietnam di Luisa Muraro alla lingua ritrovata che riporta al centro la vita di Lea Melandri, dall’invenzione dello slogan “Tremate, tremate! Le streghe son tornate!” di Bia Sarasini alla creazione della Libreria delle donne di Lia Cigarini, dal modo diverso di stare in fabbrica e di fare sindacato delle lavoratrici di Bresciaall’autogestione della MAG di Verona e all’invenzione di forme di lotta e di presa di coscienza pubblica da cui trarre suggerimenti, solo per fare qualche esempio.La scelta delle 100 foto risulta efficacissima nel disegnare, senza appesantire il testo con elenchi di date e di luoghi, la cornice spazio-temporale nella quale le vicende si svolgono.

Un punto di forza del libro è rappresentato da un linguaggio fluido, accattivante e preciso, semplice ma non semplificato anche nelle testimonianze, frutto di un’attenzione relazionale che non cancella l’originalità delle singole. Qui emerge la valenza politica dell’impresa: la scelta di mettere al centro il rapporto madre-figlia quale prefigurazione simbolica di una società costruita sulla sapienza e la capacità ordinatrice della madre e quindi sulla lingua materna, cioè sulla lingua nella quale parole e cose si corrispondono, quella che parliamo naturalmente con le creature piccole per insegnare loro a stare al mondo, mentre il parlarla con gli adulti deriva da una rigorosa e sapiente pratica politica.

Infine voglio mettere in rilievo il loro agire politico in relazione.Questo libro non avrebbe preso questa forma senza la capacità e la propensione a mettere in comune le competenze e i talenti: il lavoro sulla soggettività per autorizzarsi a fare storia partendo da sé, la sapienza magistrale acquisita con le differenti esperienze di insegnamento, la competenza nella documentazione visiva di Marina e il talento teatrale di Luciana, l’esperienza materna di quest’ultima; ingredienti che hanno dato un risultato più grande di quello che ognuna di loro avrebbe singolarmente potuto raggiungere con le sue solo forze.

 

*Betti Briano, cofondarice nel 1972 del Collettivo femminista savonese e della Biblioteca delle Donne alla fine degli anni’70, attualmente è impegnata nella comunità Eredibibliotecadonne, delle cui attività si dà conto nel blog https://eredibibliotecadonne.wordpress.com/

(Aprile/giugno 2016, Autogestione e Politica prima)

di Alessandra Pigliaru

Ragionatrice sottile e maestra d’eloquenza, sono alcune delle espressioni che si ritrovano nel Menesseno di Platone e nel quarto libro degli Stromati di Clemente Alessandrino riferibili ad Aspasia di Mileto che insegnò retorica a Pericle e filosofia a Socrate.

Ciò nonostante, simili appellativi venivano assai raramente utilizzati per il suo sesso; così segnala Gilles Ménage in un libro piccolo quanto fondamentale dal titolo Mulierum philosopharum historia, scritto in prima istanza nel 1690 e ampliato due anni dopo.

Arrivato in Italia solo 11 anni fa grazie alla traduzione e cura di Alessia Parolotto per le edizioni ombre corte, Storia delle donne filosofe (pp. 115, euro 9) viene ora rieditato per essere letto, studiato e sgranato con curiosità. L’introduzione di Chiara Zamboni colloca acutamente la figura di Ménage, l’abate francese che oltre a essere stato un grande latinista e grammatico fu precettore di madame de Sévigné e madame de Lafayette.

Le sue relazioni in quegli anni straordinari, dai salotti delle Preziose all’immersione in quella che Benedetta Craveri ha poi chiamato e descritto nel suo La civiltà della conversazione, possono essere lette come il frutto di un’attenzione rara nei confronti di 70 pensatrici dell’antichità classica.

L’esercizio di Ménage, senza precedenti, rimane un isolato e pur tuttavia importante censimento filosofico, esito di una erudizione raffinata e rigorosa che fa avere fiducia sullo stato dei documenti consultati – seppure non tutti di immediato reperimento. Setacciare trattati, lessici, opere filosofiche è servito così a imbastire un ritratto a più voci.

Le fonti di riferimento utilizzate da Ménage sono quasi tutte maschili e, come sottolinea Zamboni nella introduzione, l’insistenza sul legame tra biografia e pensiero era in linea con la tradizione del suo tempo. Accanto alle più note Ipazia e Diotima, maestre di eccellenza e amore per la sapienza, altre si fanno avanti e vengono per la prima volta suddivise per appartenenza di scuola – là dove se ne possa avere in qualche modo conferma. Di scuola incerta infatti restano ancora tante che vanno a comporre la prima parte del volumetto di Ménage.

Così accanto al nome di Aspasia risuonano quello di Cleobulina, Panfila, Giulia Domna, Eudocia, Novella e altre. E poi Temistoclea (nella Suda – lessico enciclopedico compilato intorno al 1000 – viene chiamata Teoclea), sorella di Pitagora a cui già Diogene Laerzio attribuisce la maggior parte dei precetti morali del più noto filosofo.

Insieme alle pitagoriche, che sono anche le più numerose, sono presenti Epicuree, Ciniche, Stoiche, Accademiche, Peripatetiche, Platoniche, Cirenaiche.
E seppure di tutte le filosofe non resti quasi niente in termini di scritti, il lavoro di Gilles Ménage non si riduce a un contributo elenchico criticamente muto; bensì concorre a delineare una fisionomia storico-filosofica che anni dopo verrà decostruita e fatta definitivamente saltare dal femminismo.

Sai chi è Lina Scalzo? è il titolo del libro-intervista, scritto dalla giornalista Franca Fortunato, la cui protagonista è una donna, Lina Scalzo, che col femminismo ha imparato a pensare e a dire alcune rivelatrici parole sul suo lavoro, confrontandosi con un’altra donna.

In copertina Lina è sola ma il suo sguardo è rivolto a chi è fuori: a noi che leggiamo e prima ancora a chi le ha permesso di mettere in parole precise l’esperienza del lavoro di cura che dal 1973 ha svolto per 42 anni. Infatti senza l’amicizia politica che dal 1978 la lega a Franca Fortunato le sue preziose riflessioni sul senso e sui cambiamenti, avvenuti negli ultimi quarant’anni, in questo tipo di lavoro non sarebbero diventate pubbliche e non avrebbero avuto la profondità e concretezza con cui nel libro-intervista ci vengono presentate. Lo sappiamo dall’introduzione in cui Franca delinea le tappe della loro relazione che attraversa momenti di presa di coscienza e di impegno politico: dal sindacato e dal partito alla rivoluzione che per entrambe ha costituito il femminismo. Ma il cuore del libro è l’intervista intitolata «Il racconto di Lina Scalzo»: chi scrive mette al centro l’esperienza viva dell’altra. Le domande di Franca sono un incitamento ad andare avanti, a rendere questa storia avvincente appunto come un racconto, profonda come una meditazione. Le domande scandiscono la narrazione, rendendola adatta alla modalità innovativa scelta per la pubblicazione. Si tratta infatti di un e-book in duplice formato e-pub e pdf, che inaugura la collana di Quaderni elettronici pubblicati dalla Libreria delle donne di Milano, stampabili e scaricabili gratuitamente perché, come è scritto nel sito www.libreriadelledonne.it, «non ci siano limiti di soldi e tecnologia alla fama delle grandi donne».

Lina va oltre la sua personale esperienza, ripercorrendo le trasformazioni che dal 1943 ad oggi hanno interessato le istituzioni legate all’assistenza ad anziane e a donne affette da patologie psichiche, attraverso l’analisi della situazione specifica dell’Opera Pia In Charitate Christi, divenuta poi Fondazione Betania di Catanzaro. Attraverso il suo racconto incontriamo alcune donne che, come altre, hanno messo in gioco le proprie competenze e inventato pratiche, riconosciute da storiche e storici all’origine del welfare state. Donne come Maria Innocenza Macrina, che negli della guerra, insieme a Caterina Catambrone, girava a piedi i paesi per procurare il cibo per le ricoverate e che aveva fondato diverse case di assistenza, di cui nessuna porta il suo nome: un’ingiustizia da riparare, tenendone viva la memoria. Lina usa la storia per andare al cuore dei problemi che toccano la cura, mostrando alcune pratiche che mettono in discussione le modalità neutralizzanti e aziendalistiche che sembrano rendere i servizi più efficienti ma stanno pericolosamente disumanizzando “gli utenti”. Attraverso episodi emozionanti, come il suo primo incontro a 18 anni con la morte, ci mostra un sapere femminile capace di trattare da un lato lo shock e dall’altro il rispetto della soggettività dell’altra, persino quando non è più viva. Racconta dell’ambiente familiare, in cui ricoverate e assistenti lavoravano insieme e avevano il senso di poter contribuire, ciascuna a modo suo, al benessere di tutte. Tanti sono i nodi affrontati ma non troviamo protocolli, leggiamo racconti, quasi apologhi, da cui emergono pensieri e comportamenti che ci aiutano a vedere scene di ordinaria, e forse inconsapevole, disumanizzazione nell’efficienza e neutralità, oggi predicati. E dall’ascolto di alcune ricoverate, come Caterina Rippa, Lina impara i gesti di rispetto per l’altra nella pienezza della sua umanità: entrare nella stanza salutando, chiudere la porta, smettere di parlare tra assistenti mentre si lava e si veste una donna, alzare il lenzuolo quello che basta rispettando il pudore del corpo, lasciare sui comodini gli oggetti personali, tanto per fare degli esempi. Inoltre ci confrontiamo con le riflessioni sui cambiamenti, conseguenza della legge sulla parità del 1977. In modo pacato il libro mostra le contraddizioni dei reparti misti: dagli operatori che faticano a imparare dalla competenza femminile maturata negli anni; alla perdita, nel rapporto con gli uomini, di intimità e libertà delle donne ricoverate; alla loro difesa dalla prepotenza e aggressività di alcuni. Problemi da tener presente per dare giorno dopo giorno soluzioni. E infine la costituzione della Comunità Teodora di cui voglio mettere in luce l’importante pratica del ricostruire le storie personali, andando nei luoghi d’origine e incontrandovi le persone rimaste nei ricordi, scoprendo in diversi casi come alla base di un disturbo psichico vi sia stata una violenza maschile taciuta, che ora siamo in grado di svelare, senza colpevolizzare la donna che l’ha subita, anzi liberandola, seppure siano passati tanti anni.

Ma nel libro c’è molto, molto altro. Un libro che ho letto tutto d’un fiato e che meriterebbe di essere studiato nei corsi professionali e universitari, compresa medicina e psichiatria, e da tutte le persone che si prendono cura di chi ha bisogno di aiuto perché la sua vita e anche la nostra non perda quel senso profondo che ci rende pienamente esseri umani.

 

(Il Quotidiano del Sud, 13 agosto 2016)

“Sai chi è Lina Scalzo?” di Franca Fortunato, e-Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano 2016, pp. 22

 

Luciana Tavernini fa parte della Comunità di Storia vivente di Milano

(Il Quotidiano del Sud)

Fino all’ultima riga. Viaggio nella lettura 1 e 2
(n. 108/2015 e n. 109/2016)
Due numeri interamente dedicati alle nostre/vostre scrittrici preferite, ai testi che hanno fatto la storia del femminismo o semplicemente la storia di chi ce li racconta: da Virginia Woolf a Charlotte Bronte, da Toni Morrison a Ursula Le Guin, da Magda Szabò a Elena Ferrante.

Abbiamo chiesto alle autrici qui pubblicate di raccontarSI sul legame con la loro scrittrice o con il loro romanzo preferiti. La risposta alla nostra chiamata è stata copiosa e positiva, tanto che abbiamo ritenuto che fosse opportuno confezionare due numeri della rivista anziché uno soltanto, con un unico editoriale.

Hanno scritto per noi: Leonetta Bentivoglio, Monica Capuani, Carol, Federica Castelli, Domitilla Cataldi, Paola Di Cori, Teresa Di Martino, Emanuela Giordano, Sara Gvero, Helena Janeczek, Gaia Leiss, Viola Lo Moro, Paola Masi, Ottavia Nicolini, Federica Paoli, Barbara Bonomi Romagnoli, Patrizia Sentinelli.

In questi due numeri diamo voce e spazio a chi della lettura ha fatto un mestiere (Libreria delle Donne di Roma – Tuba e Libreria delle Donne di Padova – Librati) e ripubblichiamo due testi sul tema del rapporto con i libri che ci avevano sorpreso e ci erano piaciuti nella rilettura fatta per il numero 100 di DWF: Perdite e Profitti di Vania Chiurlotto e Commento alla “Passione secondo G.H” di Luisa Muraro.

Infine, riproponiamo un testo di Rosetta Stella – uscito in DWF 2003, n. 4 – per ‘tenerla con noi’ e per rilanciare le sue parole, dopo la sua morte improvvisa in un maggio romano senza primavera.

Leggi: n. 108 e n. 109

(www.dwf.it, 22/7/2016)

di Laura Modini

 

Ho in mano il libro Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015): la foto di copertina, un bel b/n mi riporta agli anni ’70, a quel gesto mostrato dalle donne nelle piazze di tutto il mondo. Il titolo dice di una relazione forte e spesso contrastata, di rapporti, di un cambiamento radicale che è ancora in atto. Le autrici Luciana Tavernini e Marina Santini si richiamano esplicitamente al femminismo, che proprio detto da una mia giovanissima amica, ancor oggi si muove, anche se con minor visibilità.

 

Domando quindi alle due curatrici perché molte giovani donne, pur dicendo di essere un po’ femministe, non amano più questa parola, rifiutandola molto spesso.

 

Chi rifiuta la parola ‘femminismo’ forse non si rende conto che l’emancipazione individuale può essere un guscio vuoto, se non riconosciamo quello che le donne venute prima di noi hanno fatto nel passato, o che fanno nel presente, nella difesa dei diritti tradizionali e soprattutto per il nostro esistere nel mondo a partire da noi stesse. Abbiamo voluto indicare nel sottotitolo che è stata una rivoluzione che ci ha cambiate e non è finita: la libertà non è data una volta per tutte. Il gesto femminista dell’immagine degli anni ’70, che abbiamo scelto per la copertina, è ancora un gesto dirompente, scabroso, nonostante la rivoluzione sessuale abbia fatto il suo corso e ci sia l’indipendenza economica dagli uomini. Quelle mani unite hanno reso visibile, l’invisibile. Ed è stato ostentato nelle piazze. Un libro fotografico curato da Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, Il gesto femminista (DeriveApprodi 2014), ne ripercorre la simbologia nella storia di liberazione delle donne. Non è stato facile farlo accettare alla casa editrice. Noi l’abbiamo voluto e giocato con consapevolezza e ironia.

 

Ultimamente si è riaperto il dibattito sul femminismo con articoli che da un lato non negano il cambiamento: sempre più donne controllano la propria capacità riproduttiva, sorpassano i maschi negli studi, hanno progetti e non considerano la loro vita un destino, vanno e sono dappertutto e alcune star si dichiarano femministe. Dall’altro, misurando la realizzazione femminile sui parametri maschili, sottolineano un insuccesso, senza mostrare che molte donne vogliono altro. Cosa avete voluto fare con il vostro libro?

 

Come hai sottolineato tu, è in atto un tentativo di sostituire una rappresentazione del femminismo che non corrisponde all’esperienza di molte di noi. Il pericolo maggiore è per chi non lo ha vissuto, perché più giovane o perché seguiva altre strade. Queste narrazioni impediscono di vedere le scoperte e le pratiche che hanno permesso di trasformarci e trasformare il mondo. Noi due non volevamo però né darne un’immagine esaustiva, né farne un monumento che di solito si fa per i morti. Abbiamo voluto raccontare le lotte, le pratiche e le scoperte originali che hanno portato cambiamenti positivi nelle vite di donne e uomini.

 

Il libro è molto particolare, a pagine a sfondo bianco si alternano pagine a sfondo grigio, le foto sono numerose e pur piccole sono estremamente definite e molto belle. L’indice elenca numerosissimi contributi. Quali invenzioni avete messo in atto per costruire questa narrazione storica che si muove su diversi registri?

 

Il libro è un percorso intrecciato che utilizza diverse forme espressive.

Abbiamo scelto, per il racconto di base che si sviluppa in quattro parti, una narrazione soggettiva che mostra una relazione anche conflittuale, che poi si apre ad altre relazioni.

Si inizia con una lettera di una madre a sua figlia, che sbuffando le aveva replicato: “Ma doveva proprio capitarmi una madre femminista?” Continua poi con il diario di una situazione a due e quindi di un incontro in un luogo pubblico e termina con una lettera, questa volta della figlia alla madre. La narrazione, che costituisce il filo conduttore, lega concetti e parole sempre a situazioni concrete: non volevamo che risultasse ideologica.

In parallelo, come in uno spartito, si intrecciano 58 testimonianze scritte dalle stesse donne che le firmano e da qualche uomo. È stato un lavoro lungo perché ogni testo è stato costruito attraverso un dialogo con noi due sia prima della stesura sia man mano col procedere della scrittura. Abbiamo chiesto di raccontare un episodio, una situazione che potesse rendere l’esperienza del proprio femminismo, che mettesse in luce un guadagno, senza negare difficoltà e conflitti. Abbiamo insistito sulla brevità e sulla concretezza, collegando ciascuna testimonianza a una parola chiave o a un concetto della narrazione fatta da noi due. Così troviamo femministe “storiche” come, ad esempio, Lea Melandri, Luisa Muraro, Lia Cigarini insieme a sindacaliste, insegnanti, artiste…donne giovani e meno giovani. Raccontano di come nasce uno slogan, di come ci si inventa il lavoro partendo da una passione, delle lotte degli anni Settanta, riflettono sulla maternità, sull’educazione, sulla condizione delle migranti… Le 100 fotografie sono inserite nel testo e a corredo delle testimonianze. Sono quasi tutte inedite, scelte per superare l’idea di un femminismo solo di piazza. Le didascalie poi ampliano il racconto e consentono ulteriori approfondimenti. Abbiamo anche voluto inserire riferimenti ad altre epoche in un continuo andirivieni tra presente e passato, perché sempre ci sono state donne libere che hanno mantenuto la capacità di pensare, agire e dirsi a partire da sé senza farsi rinchiudere nelle regole del patriarcato.

 

Ho trovato interessanti e stimolanti i titoli dei vari capitoli: tutti con riferimento a testi classici del femminismo. Come mai questa scelta?

 

Innanzi tutto sono stati significativi per noi. E poi rimandano al contenuto del capitolo. Il primo Le parole per dirlo propone parole risignificate o inventate per dire l’esperienza femminile, come estraneità, fine della doppia militanza, autocoscienza e tante altre; il secondo Noi e il nostro corpo parla della diversità tra liberazione e libertà sessuale, della contraccezione, del divorzio, del dibattito sull’eliminazione del reato d’aborto con le riflessioni su autodeterminazione, depenalizzazione o legge …; il terzo Le tre ghinee ci porta nei luoghi delle donne, dai collettivi alle comuni, alle imprese femminili, all’arte, cinema, teatro…; il quarto Immagina che il lavoro affronta i temi della conciliazione, chiamata allora “camomilla del vero male”, del salario al lavoro domestico, del “doppio sì” alla maternità e al lavoro pagato, ci parla dell’ esperienza delle “150 ore” ad esempio per le casalinghe di Milano e per le metalmeccaniche e le tessili di Brescia, della femminilizzazione della scuola che ha portato alla pedagogia della differenza e all’autoriforma…

 

Mi rendo conto che senza una rigorosa ricerca documentale non sarebbe stata possibile la ricchezza e precisione delle informazioni di cui il libro è abbondante, ma ho notato che non utilizzate mai le note che io apprezzo moltissimo. La cronologia sembra non così fondamentale, eppure è un libro di storia ma sembra che vada oltre, fino a sembrare un’opera letteraria, e infatti anche così io l’ho apprezzata. Come avete proceduto nella stesura del libro.

 

Ci occupiamo di insegnamento della storia e di ricerca da oltre trent’anni in una comunità femminile fondata da Marirì Martinengo, in cui sperimentiamo diversi modi per rispondere al bisogno di storia che gli esseri umani hanno, a partire proprio da ciò che di nuovo i desideri e la visibilità delle donne mettono in gioco. Il libro va in questa direzione. Anche nel modo di scrivere.

La scrittura infatti è stata a quattro mani, nessun pezzo è stato scritto dall’una o dall’altra, e ogni episodio che abbiamo inserito è documentabile. Per noi lavorare insieme è stato un piacere, durato sette anni, che continua tuttora per le varie iniziative di confronto sul libro. Il piacere di lavorare in due richiama la relazione con la madre, che per le donne è fondante essendo dello stesso sesso.

In varie fasi della stesura abbiamo sottoposto il testo alla lettura di amiche e di giovani, di donne e uomini: e delle loro indicazioni abbiamo fatto tesoro. Ne diamo in parte conto nei ringraziamenti.

E così, come abbiamo già detto, vi è stata una forte relazione anche nella scrittura delle testimonianze. Per alcune è stato un modo per ripensare e trovare una modalità di raccontare che poi ha dato loro la capacità di dirsi in altri contesti. La ricerca delle fotografie, non facile perché allora le foto erano rare, è stata frutto della fiducia che abbiamo creato e di molte scelte condivise. Abbiamo scelto di segnalare, nelle didascalie, solo le persone nominate nel libro, così come nella bibliografia abbiamo indicato solo i libri citati. Non abbiamo voluto fare un censimento, del resto impossibile per un movimento che ha coinvolto e coinvolge milioni di donne. Abbiamo voluto creare delle aperture per una ricerca personale, facilitata oggi dalle possibilità offerte dalla rete.

 

Certamente la scrittura usata è soggettiva, a più voci, in cui le relazioni sono vive, intrecciate, mettendo sempre in gioco la soggettività di chi legge. Mi fa pensare che anch’io mi sento parte di questa storia. Ho scoperto, regalando questo vostro libro ad alcune mie amiche che mette in moto un desiderio di ripensare alla propria storia facendone scaturire la voglia di narrarla. E allora chiedo che cosa vi ha spinto a questa bellissima narrazione?

 

Noi non siamo indicate come autrici ma come curatrici: nel nostro caso la cura era un’attenzione a far emergere l’inaspettato, a lasciar spazio alla presenza dell’altra con la sua unicità, senza sovrapporre la nostra voce. Volevamo si mostrassero la molteplicità delle esperienze e gli intrecci relazionali.

L’idea del libro è nata dopo la partecipazione di Marina al gruppo che ha prodotto la mostra Noi utopia delle donne di ieri, memoria delle donne di domani su 40 anni del movimento delle donne a Milano. Marina nelle sue classi non parlava esplicitamente di femminismo, lo esprimeva nell’attenzione alla singolarità di ciascuno e ciascuna, invitando a partire da sé, creando attività con le sue colleghe, portando testi di scrittrici e filosofe, e tanto altro. Le sue allieve ed allievi, dopo aver visto la mostra hanno cominciato a chiedere e a esprimere il desiderio di conoscere. Un ragazzo stupito ha detto: “Ne avete fatta di strada!” La mostra è stata l’oggetto di mediazione che ha aperto un’interlocuzione e il libro vuole appunto permettere questo.

 

(LeggereDonna n° 171 Aprile-maggio-giugno 2016)

di Anna Maria Crispino e Marina Vitale

ANTICIPAZIONI . «Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Julie Otsuka e Goliarda Sapienza», un volume collettivo e a più voci per Iacobelli editore fra letteratura e critica. Un estratto dall’introduzione

L’ambivalenza, un tempo forse meno riconosciuta, riconoscibile e confessabile come dinamica sottesa alla «irrazionalità» e «incongruenza» che il giudizio maschile imputava – e spesso tuttora imputa – ai comportamenti femminili considerati privi di «ragionevolezza», ha perso la sua connotazione di «duplicità bugiarda» per assumere le connotazioni di un sentire che sembra governare in modo particolare le relazioni tra donne, nella sfera privata e in quella sociale e politica. L’ambivalenza, fuori dal suo ambito psico(pato)logico, ci appare sempre più come ciò che consente di tenere insieme le parti diverse e a volte conflittuali del proprio sé. È nel rapporto tra l’Io e il mondo che, più in generale, il riconoscimento e l’accettazione del nostro essere ambivalenti ci obbliga a una riformulazione della categoria di «soggetto», alla sua scomposizione e al suo scardinamento.

L’ambivalenza «del» testo, riguarda il tratto radicalmente e ineludibilmente fondante della «letterarietà» del testo letterario – sempre a metà strada tra verità e finzione, tra l’ancoraggio al «reale» e il «volo della mente». Questo gioco tra realtà e finzione, immaginario e fattuale, è tanto più delicato nel tumultuoso svolgimento degli eventi politico-istituzionali che hanno plasmato per circa sette decenni la vita italiana dall’inizio del Novecento ne L’arte della gioia di Goliarda Sapienza; le vicende politiche italiane degli ultimi settant’anni e quelle più locali, ma pur sempre intimamente incardinate con la più ampia storia nazionale, nella quadrilogia de L’amica geniale di Elena Ferrante; e le politiche americane di controllo dei flussi migratori e in particolare l’incoraggiamento dei ricongiungimenti familiari per le «spose per corrispondenza» giapponesi nel periodo tra le due guerre mondiali e le successive misure poliziesche verso la comunità giapponese dopo Pearl Harbour in Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka.

Se la classica letteratura sul «doppio» mantiene drammaticamente separate «le due metà» fino alla catastrofe finale, il gioco del doppio si dispiega anche – in tanta letteratura, soprattutto in quella scritta da donne – nella relazione madre-figlia. Roberta Mazzanti ne segue l’incessante presenza-con-variazioni nel corpus narrativo e saggistico di Ferrante, analizzando l’alternarsi di sostituzioni e slittamenti in una variegata gamma di triangolazioni in cui l’endiadi madre-figlia si integra e si complica di volta in volta con sorelle, amiche, figliolette e persino bambole, includendo rapporti di fusione e separazione, protezione e competizione, desiderio e repulsione, in un quadro di quasi ossessiva presenza-assenza della madre naturale e di sua costante, ma instabile, sostituzione con doppi reali o immaginati nel corso del lungo, faticoso divenire a cui Ferrante si riferisce con il termine diventare.

In Otsuka prevale invece, in più punti, l’angoscia di un «non essere più», che si aggiunge al «non essere ancora» . Una impasse che caratterizza la condizione di molte (e molti) migranti. Su questa condizione, riferita alle successive ondate e generazioni di migranti su suolo italiano negli ultimi decenni, si interroga l’intervento di Monica Luongo, con un’attenzione particolare alla diversa ambivalenza connessa con i vari progetti migratori di uomini e soprattutto donne di diverse appartenenze etniche. In Otsuka la sfumata omogeneità del «noi» si spezza ulteriormente nel rapporto con la nuova generazione nata nel nuovo mondo e portatrice di una diversità sconcertante, di una ambivalenza profonda tra la cultura dei genitori immigrati e quella della comunità ospitante.
Questa mutazione è stata raccontata tante volte con accenti diversi e mediante linguaggi diversi. Si pensi ad esempio alla videoinstallazione ideata nel 2002 da Zineb Sedira con il titolo Mother Tongue (Lingua madre) discussa nel contributo di Cristina Giudice.

La componente memoriale è un altro aspetto costitutivo dell’ambivalenza identitaria che si manifesta attraverso il riaffiorare di un sé precedente che non è mai definitivamente perduto, né mai completamente (o semplicisticamente) ritrovato. Sapienza ce ne mostra l’inevitabilità in molte tappe del «divenire» di Modesta, come sottolinea Marta Cariello.
L’accezione articolata e complessa del concetto di «ambivalenza» tende a superare le nette contrapposizioni binarie a favore di una visione sfumata e resiliente che tolleri, inevitabilmente, anche zone di «opacità» (Serena Guarracino, Laura Marzi-Francesca Maffioli); sostituisce la logica dell’aut-aut con il tentativo di tenere insieme i due corni della contraddizione senza escluderla per arrivare a una scelta univoca, positivamente marcata da una pretesa, ragionevole ma spesso astratta e talvolta autodistruttiva, coerenza.

Negli scritti di Ferrante quel momento di crisi si manifesta con un malessere tra il fisico e lo psichico, definito «frantumaglia» nel volume omonimo e che Lila esperisce come «smarginatura», quando diventa per lei insopportabile il binarismo della normatività sociale e di genere, quando più si rende conto delle pressioni socioculturali esercitate su di lei dal rione, dalla famiglia, dagli amici e dalla cricca camorristica locale, nell’ambito sessuale (o più ampiamente di genere) e in quello del potere. Ne parlano Lidia Curti e Ambra Pirri, riferendosi anche alla categoria freudiana del «perturbante». Modesta, da parte sua, pur esercitando in modo supremo l’arte di smarcarsi dai cliché e schivare le gabbie del conformismo, precipita occasionalmente in stati di ritiro psichico e di sospensione della vita; mentre le «noi» di Otsuka sentono di scomparire, diventare fantasmi, quando diventa troppo grande la frattura tra la realtà ostile e le loro aspettative e progetti di vita.

Più che l’antitesi di opposti inconciliabili, la figura retorica più adatta a definire le condizioni esistenziali vissute dalle personagge nei loro travagliati percorsi biografici è piuttosto quella dell’ossimoro, richiamato nel contributo di Paola Bono, figura del fecondo intreccio tra diversità, foriera di novità e rinnovamento; esempio di «soggetto eccentrico» nel senso anti-identitario proposto da Teresa de Lauretis e dalla teoria queer.
Ma può valere, ad esempio, in altro modo anche per la «riscrittura» teatrale della storia di una Modesta immaginata, prefigurata per forza di desiderio da Sylvia De Fanti a confronto con la figura di Sant’Agata, patrona di una città, Catania, che le dedica una festa «sacrissima e profanissima in quanto tale eccede».

La discussione del soggetto queer, accennata anche nel saggio di Pirri, costituisce la base dell’intervento di Antonia Anna Ferrante la quale parte da un’attenta analisi delle posizioni di genere incarnate nelle personagge di Sapienza e di Ferrante, per proporre un dialogo immaginario di queste due autrici con Carla Lonzi e Paul B . Preciado. Raccontare storie e relazioni non ancora raccontate, prevedere (ossimoricamente) l’imprevisto, come ci invita a fare Nadia Setti, può portare a scoprire che nel gioco dell’uno, del doppio, delle simili ma non uguali, l’identità sempre rincorsa è un’illusione, un bluff, non la si raggiunge mai: «Non ci sono punti fermi. I punti fermi sarebbero le certezze, la ripetizione e la conferma dell’immagine di sé e dell’altra, la persistenza del desiderio». Niente a che fare con l’esigenza di significare nella scrittura – e nella lettura – il nomadismo, l’impermanenza, il continuo divenire di un sé in relazione.

(il manifesto, 28 giugno 2016)

di Goffredo Fofi

Annie Ernaux, L’altra figlia
L’orma, 82 pagine, 8,50 euro

Dopo Il posto e Gli anni, L’orma ci regala un altro bellissimo récit o memoir di Annie Ernaux, scrittrice francese che ha scavato nel suo vissuto per una sete di conoscenza ben diversa dai narcisismi del nostro tempo.

Nel 1950, quando ha dieci anni, Annie apprende dal dialogo tra la madre e un’altra donna di avere avuto una sorella morta a sei anni di difterite, due anni prima che lei nascesse. È il confronto con questa rivelazione che Ernaux ci racconta (“Bisognava che tu morissi a sei anni affinché io potessi venire al mondo ed essere salvata. Orgoglio e senso di colpa nell’essere stata scelta per vivere, in un disegno indecifrabile”), rivelazione nella quale scava con dolorosa serietà per capire se stessa, i suoi, la vita e il nostro rapporto con i morti, la loro silenziosa, forte presenza. Per “lottare contro la lunga vita dei morti” perché noi “non sfuggiamo mai ai morti”.

Viene alla mente il racconto di Joyce, I morti, per alcuni il più bello di tutto il novecento. I “nostri” morti non muoiono mai, dentro di noi, come cerca di dire perdendosi per strada anche Ugo Cornia in Buchi (Feltrinelli 2016). L’altra figlia parla anche d’infanzia e ha in apertura una frase di Flannery O’Connor: “Credere è la maledizione dei bambini”. Ma credere è anche la tormentata speranza di O’Connor, come si evince dal suo giovanile Diario di preghiera, appena tradotto da Bompiani.

 

(Internazionale, 26 giugno 2016)

di Luciana Tavernini

Proponiamo la relazione introduttiva per l’incontro Madri e figlie in poesia, tenutosi al Circolo della rosa sabato 11 giugno 2016, con Loredana Magazzeni, Donatella Massara, Laura Modini e Cristina Salardi.

Alla fine dello scorso anno, appena mi fu segnalato da Clara Jourdan, comprai il libro a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli, La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia contemporanea di lingua inglese (La vita felice, 2015). Il titolo, tratto da una poesia di Gillian Clarke, già preannunciava che le parole per mostrare la relazione madre figlia non sarebbero state edulcorate. Il libro è composto da 60 poesie di autrici in lingua inglese, con traduzione a fronte, e da una prefazione di Silvia Vegetti Finzi e una postfazione di Anna Salvo, che ne offrono un approfondimento psicoanalitico.

Ho sorseggiato le poesie poco alla volta come un vino da meditazione perché molte di loro attraverso le combinazioni improvvise delle parole, i loro suoni, le immagini impreviste, generavano inaspettate emozioni che aprivano spiragli di conoscenza su quest’esperienza che è centrale per me e per molte donne.

Nella pratica della storia vivente che, a partire da un’invenzione di Marirì Martinengo, porto avanti da quasi dieci anni con una comunità di donne, la relazione con la madre continua ad emergere (DWF, n.3, 2012). Non è un caso che abbia voluto con Marina Santini intitolare il libro di storia del femminismo, da noi scritto e curato, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua. E certamente questa raccolta di poesie composte negli ultimi 40 anni da autrici di lingua inglese e il lavoro di gruppo delle quattro poetesse traduttrici, non sarebbe stato possibile senza la rivoluzione femminista. Le donne che hanno preso parola pubblica autorevole hanno portato alla luce questa relazione fondante l’esistenza umana che prima veniva ridotta a sola materialità, data per scontata, mettendo invece in particolare evidenza la relazione col padre o quella madre – figlio, piena di rappresentazioni anche nella storia dell’arte, soprattutto cristiana.

Ricordo come Luce Irigaray nel 1987 ci invitasse a esporre in tutte le case e in tutti i luoghi pubblici belle immagini (non pubblicitarie) della coppia madre figlia, nostre fotografie con la figlia e le figlie e magari anche con la nostra stessa madre.

Sempre più scrittrici e poetesse portano alla luce coi loro lavori questa relazione. Segnalo in particolare Costellazione familiare (Adelphi 2016) di Rosa Matteucci con abbiamo discusso, il 28 maggio, nell’incontro, promosso da Rosaria Guacci e Mirella Maifreda, e per la poesia italiana accenno soltanto a Maddalena Capalbi in alcuni testi della raccolta Nessuno sa quando il lupo sbrana (La vita felice 2011), a Vivian Lamarque con il libro Madre d’inverno (Mondadori 2016), un lavoro di elaborazione poetica sulla morte e malattia della madre, e soprattutto le intense poesie di Gabriella Lazzerini in Tutto per me l’oceano, pubblicate in un quaderno di Via Dogana (Libreria delle donne di Milano 2004), ormai esaurito.

Attraverso la raccolta di cui parliamo oggi abbiamo l’occasione di approfondire la riflessione e di scegliere, anche per donarle alle nostre madri e figlie, quelle parole che più ci rappresentano.

Ma soprattutto, come suggeriva Ida Dominijanni (L’ombra della madre, Liguori 2007), ripresa nell’invito alla lezione di Luisa Muraro di martedì 7 giugno, queste poesie ci permettono “di scorgere nel presente i segni di quello che è e che sarà la madre dopo il patriarcato, nelle sue luci e nelle sue ombre, nel chiaro e nell’oscuro che la circondano”. Un impegno di grande rilevanza politica per il senso di ciò che costituisce l’essere umano, come ci dice Luisa Muraro nel suo recente libro L’anima del corpo (Editrice La Scuola 2016), la cui seconda parte, che costituisce metà del libro, è intitolata appunto La relazione materna.

L’atteggiamento di chi fa poesia, come magistralmente ci insegna María Zambrano in Filosofia e poesia (Pendragon, Bologna 2002) è di rendere conto della verità mentre la si sta vivendo, di far esistere ciò che ancora non è, perché le parole, il simbolico, ancora non è stato in grado di mostrarlo. Le poetesse, qui raccolte, ci permettono di rivivere l’istante, in cui più tempi coesistono, che illumina l’esperienza viva di ciascuna attraverso le parole che mantengono la forza della loro materialità.

Leggere queste poesie è un’esperienza contemporaneamente fisica e mentale che non va fatta frettolosamente.

Il lavoro delle traduttrici è stato anche questo: assaporare le parole per renderle nella nostra lingua, lasciandoci però la possibilità di andare al testo inglese originario in un passaggio in cui il ritmo segreto che lega le parole ci permette una conoscenza che non separa la percezione dalla razionalità.

Le quattro poetesse traduttrici hanno condiviso e ci propongono un percorso, illustrato nella loro introduzione, pieno di spunti per segnalare alcune caratteristiche e alcuni nodi dell’intricato e necessario rapporto madre figlia: dal difficile equilibrio tra fusionalità e separazione alla memoria che restituisce vividi ritratti o fantasmi e proiezioni, al complesso intreccio tra resistenze e accettazione dell’essere madre, alla costituzione di lignaggi attraverso oggetti e linguaggi, e non solo. Ma, grazie alla polisemia, alla molteplicità di significati di un testo poetico che si dischiudono alle successive letture, abbiamo l’opportunità di crearci percorsi personali.

In questo periodo di dibattito sulla maternità surrogata, addirittura chiamata utero in affitto, come se si potesse fare a pezzi una donna, io ho trovato consonanza con alcune poetesse che mostrano la relazione tra madre e creatura anche prima della nascita, ricordandoci il due che precede l’uno in ciascuna esistenza: ce la fanno percepire o ricordare per chi, come me, l’ha sperimentata. Penso a Sujata Bhat e a At first she was a butterfly (All’inizio era una farfalla, p.107) che termina con questi versi:
Ma io mi tengo stretto il primo giorno

che la sentii muoversi,

una piccola farfalla che toccava un fiore dopo l’altro –

Oppure penso a Meena Alexander che nella prima strofa di Green Parasol (Ombrellino verde, p.45) dice:

Dolce bocciolo di carne e capelli

quattordici anni fa mi lacerasti in un lampo

ti attaccarono paonazza, urlante al mio seno sinistro.

Più tardi, ti sistemavo ancora affamata

tra gomito e polso.

Sognavo di te e di me, costola a costola

nel cesellato scrigno d’avorio

che la tua bisnonna

si era portata a nord oltre le colline rosse

come parte della sua dote nuziale.

Meena introduce, attraverso un oggetto, anche il “continuum materno” con cui Maxime Kumin nella poesia The evelope (La busta, p. 237), polemizza con Heidegger, perché a noi è dato portare “avanti le nostre madri nella pancia”, e, “portate avanti dalle nostre figlie, viaggiare /nella Busta del Quasi- Infinito”.

Arundhati Subramaniam nell’ultima strofa di Sewage psalm (Salmo ai liquami, p. 113) ci pone in evidenza il mistero dell’imprescindibile sì della madre.

E ancora mi rimane un mistero

come avrai permesso che una fragile bolla

di infida speranza, in technicolor,

esplodesse

nello schiamazzo fiammeggiante,

di una nuova vita

con la tua decisione terrificante

di lasciar cadere

la scelta della disperazione.

Più leggo queste poesie e più ne ricavo forza che libera capacità di agire con libertà, che scioglie legacci emotivi. Invito ciascuna a cimentarsi.

Vi propongo però un ultimo spunto.

Quando Marina Santini e io studiammo Cristina di Belgiojoso per un incontro nel 2004, promosso dall’Associazione Dialogare di Lugano nell’ambito del pluriennale corso di formazione Pensare il mondo con le donne (Atti 2007), individuammo nel rapporto, durato tutta la vita, tra Cristina e Ernesta Bisi Legnani, maggiore di lei di vent’anni, pittrice, patriota, madre di 5 figlie e figli, un esempio di “amica più grande”, quella che in continuità con la madre permette a una giovane di crescere, discutendo emozioni ed esperienze coinvolgenti in una sorta di genealogia in presenza. Volevamo chiamare questa figura “vice-madre” ma mia figlia, che sperimentava questo tipo di relazione, ci disse che era un errore perché la madre è unica. Noi descrivemmo questo rapporto dal punto di vista della madre e della figlia, ma la pedagogista Letizia Bianchi, chiamandola “posizione della zia”, ne parlò dal punto di vista dell’amica. Marina e io siamo consapevoli di quanto sia importante tanto che ne abbiamo scritto in Mia madre femminista e abbiamo chiesto a Letizia una testimonianza in proposito.

Nel quasi poemetto, One of those nigths (Una di quelle notti, p.123) di Karen Alkaly Gut ho scoperto che la figura simbolica della “zia” è indispensabile anche dopo la morte della madre.

Una zia, morta prima che la poetessa nascesse, viene come fantasma nell’anniversario della morte della madre per portare un messaggio della madre stessa.

La zia a un certo punto dice:

“Perché devi andare a cercare ciò che è irrilevante?

Lei mi ha detto che vuoi sempre la documentazione.

Quello che devi sapere –

e mi sembra la notizia più importante

che ti posso portare dall’aldilà –

è che tua madre ti amava veramente.”

Non pensate che sia un poemetto di buoni sentimenti perché

la figlia battibecca: perché non è venuta lei a dirmelo, io “sto bene in questa luce”, lo so che è una fantasia consolatoria, ecc.

Ma la zia fantasma la mette di fronte alla naches, alla gioia, della madre nell’aldilà, dicendole:

[…] che tua madre prova piacere ogni giorno

vedendo come ti godi la vita – anche se la tua è una vita

che non avrebbe mai capito quando portava il peso

del suo mondo, della sua vita.

La zia, con i rovesciamenti tipici della poesia, mette di fronte la figlia all’esistenza della vita della madre come diversa dalla sua, qualcosa che può rendere difficile la comprensione. Spesso non riusciamo a pensare a nostra madre come a una donna. Accade quasi come una rivelazione, ad esempio Luisa Muraro in L’anima del corpo scrive: “Ricordo il momento in cui mi accorsi e vidi che mia madre era una donna, che mi era madre sì, ma senza essersi annullata nel personaggio con cui fino ad allora l’avevo identificata” (p.65). E racconta gli episodi di questa epifania in cui la madre le appare portatrice di un desiderio autonomo.

E tornando al poemetto, esso termina con la capacità di accettare le proprie imperfezioni, che, anche se viste dalla madre, non ne inficiano l’amore.

E mi ha detto di dirti

che le piace tanto come leggi la poesia ad alta voce –

anche se balbetti ancora

e ci metti sempre un paio di errori.

 

(www.libreriadelledonne.it, 16 giugno 2016)

di Gian Guido Vecchi


La realtà si capisce meglio quando la si guarda dalla periferia, ama ricordare papa Francesco attingendo al pensiero della filosofa argentina Amelia Podetti. « Dall’ ultimo banco » (Marsilio), il libro di Lucetta Scaraffia sulla presenza femminile nella Chiesa, ne è una dimostrazione. In fondo all’ aula – tra non molti laici, una delle poche donne – l’ autrice ha potuto seguire da «uditrice» il Sinodo sulla famiglia. Ne ha ricavato l’ immagine di una Chiesa senza un rapporto con la sua storia, senza un confronto con il mondo esterno, soprattutto senza donne. La preposizione, «senza», scandisce i capitoli come il segno di una privazione che non ha nulla a che fare con l’ essenza del cristianesimo e anzi ne è la negazione. Ed è questa la parte più interessante, il cuore dell’ argomentazione. Docente di Storia alla Sapienza e coordinatrice del mensile «donne chiesa mondo» dell’ Osservatore romano , Scaraffia fa notare una curiosa coincidenza degli opposti: sia nelle gerarchie ecclesiali maschili che «temono» le «pretese» delle donne sia nel pensiero femminista, anche cattolico, si tende a considerare la questione come una sfida esterna dettata dalla «modernità» per «svecchiare» la Chiesa. E invece è vero il contrario, «la Chiesa deve ripensarsi dalle origini, deve capire che l’ apertura alle donne è solo il compimento dell’ antico, del messaggio evangelico». L’«uditrice» avverte negli interventi dei padri sinodali una «disinvolta ignoranza della storia». Il cristianesimo, fondato sull’ Incarnazione, è radicato nella storia. Al senso del fluire del tempo, tuttavia, si è contrapposta una teologia astorica, dottrinale, un sistema rigido e ideologico che teme ogni cambiamento e impedisce alla Chiesa di vedere e rendere conto delle proprie ragioni. Non è un accidente della storia che l’ emancipazione femminile si sia affermata, seppure contro le gerarchie ecclesiastiche, nell’ Occidente di tradizione cristiana. Nel Vangelo il tramite tra Dio e l’ essere umano è una donna; è il «sì» di Maria a rendere possibile l’ Incarnazione; è alle donne che appare per primo il Risorto. E quando Gesù dice «l’ uomo non separi ciò che Dio ha unito» non si riferisce al divorzio, che allora non esisteva, ma alla facoltà esclusiva dei mariti di ripudiare le mogli. Novità inaudite come «la parità di diritti e doveri» spiegano l’ attrazione esercitata sulle donne dal cristianesimo delle origini e la presenza nella storia della Chiesa di figure femminili che «hanno svolto ruoli decisivi, hanno parlato e sono state ascoltate»: ciò che oggi non accade. Non è questione di sacerdozio. Con le parole di Sylviane Agacinski, «l’ uguaglianza si oppone alla diseguaglianza, non alla differenza». Si tratta, per la Chiesa governata da uomini, di pensare e attingere davvero alla «differenza» femminile. Non c’ è posto per le donne quando si tratta di decidere, il «sistema chiuso» le isola, la «rivoluzione» teologica femminile è ignorata. Oltre l’ Occidente, la Chiesa «è vista come l’ istituzione che più e meglio difende la dignità delle donne», grazie alle missionarie. Eppure «sono quasi nulli» i contatti tra Vaticano e Unione delle superiori generali, «il parere delle religiose non è mai richiesto». Tante discussioni, tanti documenti angosciati su derive eugenetiche, futuro della famiglia e della Chiesa. Magari basterebbe ascoltare, finalmente, le voci dall’ ultimo banco.


(Corriere delle sera, 8 giugno 2016)

Intervista ad Annie Ernaux realizzata da Sandrine Blanchard

Traduzione di Silvia Baratella


Non sarei arrivata dove sono se…

…Se non fosse per mia madre! E lo dico senza esitazioni! Mia madre è stata fondamentale. Per la sua personalità, la sua forza, il suo sguardo sul mondo e in particolare sul mondo sociale. Tutto questo mi ha sostenuta, e mi ha sostenuta anche nella rivolta. Lei voleva tracciare il mio destino. Ne è ampiamente responsabile.
Sua madre l’ha sempre spinta ad andare avanti. Voleva darle quello che lei non aveva avuto?
Voleva soprattutto darmi una vita interessante, una vita indipendente, questa parola era molto importante. Il successo materiale contava meno per lei del successo intellettuale. Appena si è accorta che andavo bene a scuola, si è messa a far di tutto per facilitarmi l’accesso agli studi e soprattutto – all’epoca cosa totalmente eccezionale nei confronti delle ragazze – per impedirmi letteralmente di dedicarmi a un’occupazione femminile. Aveva un certo tipo di condiscendenza, quasi di disprezzo, per le donne che restavano a casa perché il marito poteva permettersi di mantenerle. Sono stata cresciuta in questa immagine negativa della vita da casalinga. Quando è morto mio padre, poco tempo dopo mia madre ha detto una frase che ho trovato terribile: «Verrò da te e ti farò le faccende». Era per liberarmi. Significava «Sono sempre qui». È una cosa immensa.
Quando ripensa a sua madre, qual è la prima immagine che le torna in mente?
Materialmente, è l’immagine del fuoco. È stata una donna che, come diceva lei, non si era mai lasciata pestare i piedi. Il mio femminismo dipende da lei. Mia madre non aveva paura di niente. Era sempre in rivolta. Con degli eccessi di violenza spaventosi. La famiglia Duchesne non viveva nell’ovatta! Io ho preso un sacco di schiaffi. In questo campo sono una leggenda di famiglia!
Perché?
Perché ero un numero. Ho iniziato molto presto a ribellarmi all’autorità. Pensavo solo a disubbidire. Ero molto interessata alle questioni sessuali. Mia madre pensava che avessi in me tutte le possibilità del male e ne ero convinta io stessa.
Eccelleva a scuola per far piacere a sua madre o perché la scuola le piaceva?
La scuola mi rendeva felice. Figlia unica, in classe trovavo finalmente delle compagne. Ero una chiacchierona inveterata. E adoravo leggere. Ma tenevo distinta la lettura dei libri comprati da mia madre da quella per le lezioni di francese.
Quali sono i suoi primi ricordi notevoli di letture?
Via col vento di Margaret Mitchell, che ho letto a nove anni. Mia madre l’aveva comprato per sé. Suppongo che sia stato il modo in cui ne parlava con le clienti della drogheria a farmi venir voglia di leggerlo, perché adoravo stare sotto il bancone ad ascoltarle conversare. Quel libro per me rappresentava un mondo. Credevo alla realtà di quella storia. Ero andata persino a cercare il nome di Scarlett O’Hara sull’enciclopedia! Volevo saperne di più rispetto a quello che c’era nel romanzo. Anche Jane Eyre di Charlotte Brontë mi ha colpita molto. Quel libro in prima persona è come un filo rosso dell’esistenza. Anche in questo caso si trattava di vivere una vita di indipendenza, senza farsi dominare. Quei modelli mi hanno strutturata.
Quali sono i suoi sogni di ragazza?
Da bambina non avevo desideri precisi, il futuro era aperto. Con le mie amiche, le mie cuginette, c’era l’immaginario dell’amore. In alcune lettere che ho scritto a sedici il matrimonio mi ripugna. All’epoca non si immaginava nessun altro modo per stare con un uomo. Ho avuto molto presto la sensazione che il matrimonio fosse quasi solo la fine della vita. Forse era l’influenza di Una vita di Maupassant, che mi aveva scossa. L’ho letto a tredici anni di nascosto e ne sono stata completamente sconvolta.
Nasce allora la voglia di avere una professione?
Sapevo che avrei fatto qualcosa. Mia madre mi ha sempre ricordato che alle elementari una suora le aveva detto: «Annie è una futura insegnante». Non si era sbagliata! Tra chi rifugge il proprio ambiente sociale, i miracolati evadono così: da un mestiere che non richiede un’eredità economica.
A partire da quando ha questa coscienza di classe?
Non è mai stata formulata. Neanche nel mio diario segreto. È nell’ordine delle sensazioni e della certezza: facevo parte di un ambiente modesto. Avevo questa coscienza di classe nella scelta delle amiche, nel sentirmi diversa. Sapevo tutto quello che mi separava da alcune di loro e al tempo stesso avevo questo desiderio di imparare. Era un mondo che mi sembrava meraviglioso, perché c’era la musica classica, quella che non conoscevo. La musica era davvero, in quella fase dell’adolescenza, il segno dell’esclusione. Era quello di cui più avevo voglia di appropriarmi.
Che cosa le mancava di più?
Molte cose! Ma non è mai stata una gelosia sociale. Era una sensazione di carenza, di imperfezione. Il senso d’ingiustizia è arrivato molto più tardi.
Quando?
Non l’ho provato in me stessa ma nelle situazioni. Quando ho fatto la prima comunione nel collegio cattolico di Yvetot avevo chiesto se poteva venire mia cugina, che frequentava la scuola pubblica. Quando il giorno è arrivato, eravamo in maggio, lei si è messa il suo più bel vestito e un pellicciotto di lapin. La direttrice venne a chiedermi: «Non c’è sua cugina? Non la vedo».  Io le risposi: «Ma sì, c’è, è lì.» La faccia della direttrice… era piena di disprezzo. Non l’ho mai dimenticata. Di storie come questa potrei raccontarne a palate. È la forza dei transfughi quando ammettono di esserlo: ne sanno molto di più sui rapporti sociali, guardandola dalla posizione che occupano, di chi è stato da sempre in posizione dominante.
In che momento ha avuto l’impressione d’aver cambiato condizione sociale?

Essenzialmente vivendo lontano dai miei genitori e sposandomi con un ragazzo della media borghesia di destra.

Cos’è cambiato allora nella sua vita quotidiana?

Gli argomenti di conversazione; il fatto di percepire la condiscendenza del tuo compagno verso i tuoi genitori e il tuo ambiente; le famose buone maniere a tavola e, cosa che mi ha subito colpita molto, quella sicurezza nell’affrontare il mondo di cui io ero completamente priva. Hai l’impressione che il mondo sia fatto apposta per quella classe dominante e che le appartenga sia di diritto che di fatto. C’entra anche il corpo: quell’imbarazzo di avere un corpo plebeo, un’aria “da contadina”.

Qual è stata la prima persona a cui ha parlato della sua voglia di scrivere?

Una nuova amica, che ho conosciuto quando mi sono iscritta a lettere. In giugno, quando sono stata accettata al corso propedeutico all’università, mi ricordo di avere scritto, inventandomi un nome: «Anne Sainte-Claire pubblicherà il suo primo romanzo». È stato molto strano. In seguito, ho incassato dei rifiuti giustificati. Le cose non si sono svolte in modo lineare. La conseguenza di quei rifiuti è stata la fuga nella ricerca di una relazione con un uomo. Poi c’è stata una serie di cose un po’ drammatiche, come il mio aborto. Alla fine, mi sono trovata sposata e subito madre. Non potevo scrivere ma non ho mai smesso di pensarci. Mio marito, Philippe Ernaux, ha letto il mio primo testo e l’ha commentato in modo poco gradevole. Dopodiché non ho più dato niente da leggere a nessuno. Mi sono posta molto presto delle questioni di scrittura: non c’è una storia da raccontare. Non è la storia quel che conta, ma quel che c’era in gioco nella storia. In ciò che si è vissuto c’è qualcosa che fa andare avanti la conoscenza. C’è più nello scrivere che nel ricordare.

Lei aveva «voglia di vedere il mondo intero». L’ha fatto?

Quella voglia è stata incanalata molto in fretta dalle necessità della vita. Alla fine ho viaggiato soprattutto grazie ai miei libri. Ma ho fatto un viaggio che è stato estremamente importante con mio marito nel 1972. Avevo trentun anni. Era stato organizzato da Le Nouvel Observateur (l’antenato de L’Obs) per incontrare Salvador Allende in Cile. È durato due settimane. Entrando in contatto con le poblaciones, sono tornata alla mia infanzia in modo staordinario.

Perché?

Perché mi sono accorta fino a che punto ho vissuto in un mondo che era per certi aspetti vicino a quel che vedevo nelle poblaciones: il quartiere operaio, la famiglia di mia madre devastata dall’alcool eccetera. Nacque la sensazione di aver delle cose da dire. E poi c’era un giornalista letterario del Nouvel Obs ad accompagnare il gruppo, Jean-François Josselin. Discutevo molto con lui. Non so come né perché gli ho confidato il mio segreto: che avevo già scritto un testo. Al di fuori di mio marito, non lo sapeva nessuno. Jean-François Josselin voleva che glielo mandassi. Gli ho promesso di farlo. Ma non ho mantenuto la promessa. Quel primo testo del ’62 era una cazzata. Non raccontavo la realtà, non c’era niente di sociale, era solo una ricerca di forma. Alla fine, ho iniziato a scrivere un mese dopo quel viaggio in capo del mondo.

La politica le è sempre interessata…

Appartengo a quella generazione che ha succhiato col latte i racconti delle guerre del XX secolo. In famiglia ma anche a scuola, dove la prof di storia ci leggeva «Le campane di Nagasaki». E poi di politica ho sentito parlare fin da bambina nella versione Café du Commerce, il bar di mio padre. E mia madre ha sempre votato. L’ho accompagnata per la prima volta in cabina nel 1945. Andava anche ad assistere allo spoglio. Sono sempre in attesa di un profondo cambiamento. Da diversi decenni sto constatando un ineluttabile ripiegarsi della società su se stessa. Manca una reale accettazione degli altri. Ho insegnato alle medie a Pontoise tra il 1975 e il 1977. Mi ricordo di una classe di terza difficile, irrequieta. Abbiamo fatto dei dibattiti. Ho ancora in testa i discorsi già populisti di allievi che mi dicevano: «Mia sorella non ha avuto la casa popolare e degli arabi sì». La questione del razzismo ce la trasciniamo da molto tempo.

In che momento ha avuto la sensazione di essere in tutto e per tutto una scrittrice?

Sono cosciente, piuttosto, di un privilegio, di una chance di poter fare qualcosa che è – come forse avrebbe detto mia madre – quel che c’è di più bello. Non ho cercato di far carriera ma di preservare la possibilità di scrivere. D’altronde sta diventando molto difficile. Di fronte a ogni libro da scrivere, io non sono niente, ogni volta è una lotta. Ho realizzato quel sogno di scrivere e di essere pubblicata. Ma non è il nirvana, la felicità, non è affatto quel che immaginavo.

Cioè?

Non avrei mai immaginato che fosse un impegno simile; la forma quasi mistica che avrebbe preso la scrittura. Bisogna sacrificarle un sacco di cose: la vita sentimentale, un po’ anche quella familiare. Non sono una nonna molto disponibile! Quando si prende quella piega, è finita. L’esistenza è vuota e informe senza scrittura. Non si tratta di dire «mai lasciar passare un giorno senza aver scritto una riga», ma di stare nella ricerca, di avere un progetto intorno a cui tutto si focalizza. Vivere con un libro che bisognerà scrivere. Mémoire de fille (uscito nel 2016 per Gallimard, N.d,T.), mi sentirei molto in colpa se non l’avessi scritto. Anche La Place (Il posto, ed. L’orma, 2014, N.d.T.).

«È così che vive la gente?»: si è sempre posta questa domanda…

Sì. Sono stata immersa in una comunità fin da piccolissima. Vivere dal mattino alla sera con i clienti di un bar-drogheria, senza intimità familiare o quasi, significa avere l’impressione di essere stata attraversata, prestissimo, da ogni tipo di conversazione e di linguaggio. Poi, cambiar classe sociale, cioè cambiar mondo, ti dispone a osservare, a porti questa domanda. Le barriere sociali restano sempre molto forti. La società francese continua a essere una specie di aristocrazia con i suoi fasti, il suo decoro, le sue gerarchie…

Che posto ha avuto la religione nella sua vita?

Un posto importante. Tutti i giorni in collegio c’erano la storia sacra e le preghiere. Per mia madre, era importante essere religiosi: credere in Dio e comportarsi secondo una regola morale. Credeva nell’efficacia della preghiera. Anche se quando mia sorella è morta di difterite, la preghiera non è servita a molto. Ero veramente colpita dai sacrifici da fare e dal senso di colpa sessuale della mia prima confessione a sette anni: avevo confessato di aver commesso atti impuri e mi sono presa una terribile reprimenda da parte del confessore. Ne ho dedotto di essere praticamente dannata.

Che cosa ne resta?

Ne resta quello che potremmo chiamare un sottotesto. È anche come un primo mondo. Anche se sono persuasa che ci attenda il nulla, faccio come se ci fosse qualcosa che dovrebbe essere salvato e di cui io sarei depositaria. Non è la mia anima, è quello che faccio. È molto diverso. Si potrebbe dire che la letteratura o la scrittura abbiano sostituito Dio, in un certo senso. Oppure che scrivere è la missione che mi è stata assegnata.

Come ha vissuto gli attentati?

Stamattina, alla radio, sono stata colpita da quello che diceva molto pacatamente un ragazzo su France Inter (nome di un canale radio, N.d.T.): sì, c’è della violenza ma non quanta nelle grandi guerre o in Siria. Non lo diceva per passività ma come per un senso di quello che è il corso della storia. La cosa più dura è cercare di capire e sapere che non si potrà capire nel momento presente, che sarà possibile solo dopo. Quello che colpisce, anche – ed è terribile da dire – è la facilità con cui si assimila quello che succede. All’indomani degli attentati di Bruxelles, nella metropolitana tra Parigi e Cergy, un uomo e una donna avevano vagamente sentito dire cos’era successo: «Mi sembra che sia successo qualcosa a Bruxelles», diceva la donna. Ed è stato tutto. Questa vita che continua, ecco cosa mi ha colpita. Poi hanno parlato solo di lavoro, di vacanze, di bambini… Era un giorno come gli altri.




«Je ne pensais qu’à désobéir»

Je ne serais pas arrivée là si…

… Si ma mère ! Et c’est sans hésitation possible ! Elle a été fondamentale. A cause de sa personnalité, de sa force, de son regard sur le monde et en particulier sur le monde social. Tout cela m’a portée, et m’a portée aussi dans la révolte. Elle voulait tracer mon propre destin. Elle en est largement responsable.

Cette mère vous a toujours poussée à aller de l’avant. Elle voulait vous donner ce qu’elle n’avait pas eu ?

Elle voulait surtout me donner une vie intéressante, une vie indépendante – ce terme était très important. C’était moins la réussite matérielle que la réussite intellectuelle qui comptait pour elle. Quand elle s’aperçoit que je réussis bien en classe, elle va tout faire pour me faciliter cet accès et notamment – ce qui était tout à fait exceptionnel pour les filles à l’époque – de littéralement m’empêcher de me livrer à une occupation féminine. Elle avait une forme de condescendance, presque de mépris, pour les femmes qui restaient à la maison parce que leur mari pouvait les entretenir. J’ai été élevée dans cette image négative du ménage. Lorsque mon père est mort, elle a dit, peu de temps après, une phrase que je trouvais terrible : « Je vais venir chez toi et je ferai ton ménage. » C’était pour me libérer. Cela signifiait « je suis toujours là ». C’est immense.

Quand vous repensez à votre mère, quelle est la première image qui surgit ?

Matériellement, c’est l’image du feu. C’est une femme qui, comme elle le disait, ne s’est jamais laissée marcher sur les pieds. Mon féminisme, c’est à cause d’elle. Ma mère n’avait peur de rien. Elle était toujours en révolte. Avec des excès épouvantables de violence. On n’était pas dans la douceur dans la famille Duchesne ! J’ai reçu énormément de claques. Dans ce domaine je suis la légende de la famille !

Pourquoi ?

Parce que j’étais un numéro ! Je me suis très vite opposée à l’autorité. Je ne pensais qu’à désobéir. J’étais beaucoup portée sur les questions sexuelles. Ma mère pensait que j’avais en moi toutes les possibilités du mal et j’en étais aussi persuadée moi-même.

Votre excellence scolaire, c’était pour faire plaisir à votre mère ou parce que l’école vous plaisait ?

L’école me rendait heureuse. Fille unique, je retrouvais enfin des compagnes de classe. J’étais une bavarde invétérée. Et j’adorais lire. Mais je séparais mes lectures des livres achetés par ma mère de celles pour la classe de français.

Quels sont vos premiers souvenirs marquants de lecture ?

« Autant en emporte le vent » de Margaret Mitchell que j’ai lu à l’âge de 9 ans. Ma mère l’avait acheté pour elle. Je suppose que c’est la manière dont elle en parlait avec les clientes dans l’épicerie qui m’a donné envie de le lire. Car j’adorais être sous le comptoir pour les écouter discuter. Ce livre représentait un monde pour moi. Je croyais à la réalité de cette histoire. J’ai même cherché dans le dictionnaire le nom de Scarlett O’Hara ! Je voulais en savoir plus que le livre ! « Jane Eyre » de Charlotte Brontë m’a aussi beaucoup marquée. Ce livre à la première personne est comme un fil rouge de l’existence. Il s’agit, là encore, de vivre une vie d’indépendance, sans domination. Ces modèles-là m’ont structurée.

Quels sont vos rêves de jeune fille ?

Enfant, je n’ai pas de désir précis, l’avenir est ouvert. Avec mes amies, mes cousines, il y a l’imaginaire de l’amour. Dans des lettres que j’ai écrites à 16 ans, j’ai une répugnance pour le mariage. A l’époque on n’imagine pas d’autre moyen pour être avec un homme. J’ai très tôt le sentiment que le mariage n’est pas autre chose que la fin quasiment de la vie. Peut-être est-ce l’influence de la lecture d’« Une vie » de Maupassant, qui m’a ébranlée. Je l’ai lu à 13 ans en cachette et j’ai été complètement bouleversée.

Est-ce qu’une envie professionnelle se dessine ?

Je sais que je ferai quelque chose. Ma mère m’a toujours rappelé qu’au cours élémentaire une religieuse lui avait dit : « Annie est un futur professeur. » Ça n’a pas manqué ! Dans les transfuges sociaux, les miraculés passent par là ; par un métier où il n’y a pas besoin d’avoir un héritage économique.

A partir de quand avez-vous cette conscience de classe ?

Elle n’est jamais formulée. Même dans mon journal intime. Elle relève de la sensation et de la certitude : j’appartiens à un milieu modeste. J’ai cette conscience de classe dans le choix des amies, dans la différence que je sens. Je sais tout ce qui me sépare de certaines d’entre elles et en même temps j’ai ce désir de connaître. C’est un monde qui me paraît merveilleux, parce qu’il y a la musique classique, celle que j’ignore. La musique est vraiment, à ce moment-là de l’adolescence, le signe excluant. C’est celui dont j’ai le plus envie de m’approprier.

Qu’est-ce qui vous manque le plus ?

Beaucoup de choses ! Mais ce n’est jamais de la jalousie sociale. C’est le sentiment d’un manque, d’une imperfection. Celui d’une injustice arrive beaucoup plus tard.

Quand arrive-t-il ?

Je ne l’ai pas ressenti en moi-même mais dans des situations. Quand j’ai fait ma communion au pensionnat catholique d’Yvetot j’avais demandé si ma cousine – qui, elle, était à l’école publique – pouvait venir. Le jour arrive, on est au mois de mai, elle a mis sa plus jolie robe et un manteau de fourrure en lapin. La directrice vient vers moi : « Où est votre cousine, je ne la vois pas ? » Je lui réponds : « Mais si, elle est là. » Le visage alors de la directrice… c’était du mépris. Je ne l’ai jamais oublié. Des histoires comme celle-là, j’en ai des tonnes. C’est la force des transfuges quand ils admettent qu’ils le sont : ils en savent beaucoup plus sur le monde social, depuis la position qu’ils occupent, que ceux qui sont d’emblée dans le monde dominant.

A quel moment vous avez ce sentiment d’avoir changé de classe sociale ?

Essentiellement en vivant loin de mes parents et en me mariant avec un garçon qui était de la moyenne bourgeoisie de droite.

Qu’est-ce qui change alors dans la vie quotidienne ?

Les sujets de conversation ; le fait de ressentir la condescendance de votre compagnon vis-à-vis de vos parents et de votre milieu ; les fameuses manières de table et, ce qui m’a tout de suite beaucoup frappé, cette assurance dans le monde dont j’étais complètement dépourvue. On a l’impression que le monde est fait pour cette classe dominante et qu’il leur appartient de droit, de fait. C’est aussi lié au corps : cette maladresse d’avoir un corps plébéien, le côté « la paysanne ».

Quelle est la première personne à qui vous parlez de votre envie d’écrire ?

A une nouvelle amie, que je rencontre lors de mon inscription en fac de lettres. En juin, alors que je suis reçue à la propédeutique, je me souviens d’écrire, en m’inventant un nom : « Anne Saint-Claire publiera son premier roman. » C’est très étrange. Par la suite, j’ai essuyé des refus justifiés. Les choses ne se sont pas passées de manière linéaire. La conséquence de ces refus, c’est la fuite dans la recherche d’une relation avec un homme. Puis une série de choses un peu dramatiques, tel que mon avortement. Finalement, je me retrouve mariée puis mère. Je ne peux pas écrire mais je ne cesse jamais d’y penser. Mon mari, Philippe Ernaux, a lu mon premier texte, avec des commentaires peu agréables. Après je n’ai jamais donné à lire à personne. Très vite, je me pose des questions d’écriture : il n’y a pas d’histoire à raconter. Ce n’est pas l’histoire qui compte mais ce qui était en jeu dans l’histoire. Dans ce qu’on a vécu, il y a quelque chose qui fait avancer la connaissance. Il y a plus en écrivant qu’en se rappelant.

Vous aviez « l’envie de visiter la terre entière ». L’avez-vous fait ?

Cette envie a été très vite canalisée par les nécessités de la vie. J’ai finalement voyagé surtout à cause de mes livres. Mais j’ai fait un voyage qui a été extrêmement important avec mon mari en 1972. J’avais 31 ans. Il était organisé par Le Nouvel Observateur (ancêtre de L’Obs) pour rencontrer Salvador Allende au Chili. Ce voyage a duré deux semaines. Grâce au contact avec les poblaciones, j’ai fait un retour extraordinaire sur mon enfance.

Pourquoi ?

Parce que je m’aperçois à quel point j’ai vécu dans un monde qui était proche parfois de ce que je voyais dans les poblaciones : le quartier ouvrier, la famille de ma mère où l’alcool faisait des ravages, etc. Surgit le sentiment d’avoir des choses à dire. Et puis, pour accompagner le groupe, il y avait un journaliste littéraire du Nouvel Obs, Jean-François Josselin. On discutait beaucoup avec lui. Je ne sais pas comment ni pourquoi j’ai livré mon secret : que j’avais déjà écrit un texte. En dehors de mon mari, personne ne le savait. Jean-François Josselin voulait que je lui envoie. Je lui ai promis de le faire. Mais je n’ai pas tenu ma promesse. Ce premier texte de 1962 était très foutraque. Je ne racontais pas la réalité, il n’y avait rien de social, c’était une forme que je cherchais. Finalement, j’ai commencé à écrire un mois après ce voyage au bout de la terre.

La politique vous a toujours intéressée

J’appartiens à cette génération qui a été nourrie des récits des guerres du XXe siècle. Dans la famille mais aussi en classe où ma prof d’histoire nous lisait « Les cloches de Nagasaki ». Et puis la politique, j’en ai entendu parler depuis l’enfance sous la forme de café du commerce. Dans le café de mon père. Et ma mère a toujours voté. Je l’ai accompagnée pour la première fois dans l’isoloir en 1945. Elle allait même assister au dépouillement. Je suis toujours en attente d’un profond changement. Je constate depuis plusieurs décennies un mouvement irrépressible de la société vers une sorte de repli. Il n’y a pas de réelle acceptation des autres. J’ai enseigné en collège à Pontoise entre 1975 et 1977. Je me souviens d’une classe de troisième qui était difficile, agitée. Nous avons eu des débats. J’ai encore en tête les discours déjà populistes d’élèves me disant : « Ma sœur n’a pas eu d’appartement HLM alors que des Arabes en ont eu. » On traîne la question du racisme depuis longtemps.

A quel moment avez-vous eu le sentiment plein et entier d’être écrivain ?

J’ai plutôt conscience d’un privilège, d’une chance de pouvoir faire quelque chose qui est – peut-être comme aurait dit ma mère – ce qu’il y a de plus beau. Je n’ai pas cherché à faire carrière mais à préserver la possibilité d’écrire. Cela devient très difficile d’ailleurs. Devant chaque livre à écrire, je ne suis rien, chaque fois c’est une lutte. J’ai réalisé ce rêve d’écrire et d’être publiée. Mais ce n’est pas le nirvana, le bonheur, ce n’est pas du tout ce que j’imaginais.

C’est-à-dire ?

Je n’imaginais pas que ce serait un tel engagement ; la forme presque mystique que prendrait l’écriture. Il faut y sacrifier beaucoup de choses : la vie sentimentale, un peu familiale aussi. Je ne suis pas une grand-mère très disponible ! Quand on prend le pli, c’est fini. L’existence est informe et vide sans écriture. Il ne s’agit pas de dire « pas un jour sans une ligne » mais d’être dans la recherche, d’avoir un projet et que tout se focalise autour de lui. Vivre avec un livre qu’il va falloir écrire. « Mémoire de fille », j’aurais eu une grande culpabilité si je ne l’avais pas fait. « La Place » aussi.

« Est-ce ainsi que les hommes vivent » : Vous vous êtes toujours posé cette question…

Oui. J’ai été immergée très tôt dans une communauté de gens. Vivre du matin au soir avec des clients d’une épicerie-café, sans intimité familiale ou presque c’était le sentiment d’être traversé, très tôt, par toutes sortes de conversations et de langages. Ensuite, changer de classe sociale, c’est-à-dire changer de monde, dispose à observer, à se poser cette question. Les clivages sociaux restent toujours très forts. La société française demeure une forme d’aristocratie avec ses fastes, son décorum, ses classements…

Quelle place a eu la religion dans votre vie ?

Une grande place. Tous les jours au pensionnat il y avait l’histoire sainte et les prières. Pour ma mère, l’important était d’avoir de la religion : une croyance en Dieu et se conduire conformément à une règle morale. Elle croyait en l’efficacité de la prière. Alors que lorsque ma sœur est morte de diphtérie, la prière n’a pas fait grand-chose. J’étais vraiment marquée par les sacrifices à faire et par la culpabilité sexuelle de ma première confession à l’âge de 7 ans : je m’accuse d’avoir eu des gestes indécents et je me prends une volée de bois vert du confesseur. Donc je comprends que je suis pratiquement damnée.

Qu’en reste-t-il ?

Il en reste ce qu’on pourrait appeler un hypotexte. C’est aussi comme un premier monde. Même si je suis persuadée que c’est le néant qui nous attend, je fais comme s’il y avait quelque chose qui devait être sauvé et dont j’étais dépositaire. Ce n’est pas mon âme, c’est ce que je fais. C’est très différent. On pourrait dire que la littérature ou l’écriture a remplacé Dieu, d’une certaine façon. Ou encore qu’écrire est la mission qui m’a été donnée.

Comment avez-vous vécu les attentats ?

Ce matin, à la radio, j’étais frappée par ce que disait très posément un jeune garçon sur France Inter : oui il y a de la violence mais pas autant que lors des grandes guerres précédentes ou qu’en Syrie. Ce n’était pas dit par passivité mais comme une sorte de ressenti de ce qu’est le cours de l’histoire. Le plus dur est d’essayer de comprendre et de savoir qu’on ne pourra pas comprendre au moment présent ; ce sera plus tard. Ce qui frappe aussi – et c’est terrible à dire – c’est la facilité avec laquelle on intègre ce qui arrive. Au lendemain des attentats de Bruxelles, dans le RER entre Paris et Cergy, un homme et une femme n’avaient que ouï-dire de ce qui s’était passé à Bruxelles. « Il me semble qu’il s’est passé quelque chose », disait la femme. C’était tout. Cette vie qui continue, cela m’a frappée. Ils n’ont parlé que de travail, de congés, d’enfants… C’était un jour comme les jours.

Propos recueillis par Sandrine Blanchard

 

(le Monde, 5/4/2016)

di Massimo Raffaeli

Ernaux, tu e io siamo un noi, piccola sorella morta
Annie Ernaux, «L’altra figlia», L’Orma editore. Un ricordo primordiale, fondativo, dà il la a una lettera in cui spiccano la «mancanza» e il senso collettivo dell’esistere

Sembra essere una scoperta recente o una caduta meteoritica quella di Annie Ernaux, la scrittrice normanna, classe 1940, che è arrivata all’attenzione dei lettori italiani con Il posto, un libro del 1983 splendidamente tradotto da Lorenzo Flabbi solo un paio di anni fa per L’Orma cui è seguita la versione di un capolavoro quale Gli anni, un romanzo corale o meglio un palinsesto epico che d’acchito liquidava ogni questione di fiction o non-fiction o docu-fiction. Perché quello era un libro capace di imporsi al lettore, di calamitarlo grazie a una scrittura letteralmente incomparabile, cioè a firma della stessa Ernaux eppure paradossalmente anonima nella esattezza e nella fredda incandescenza che, sola, tradisce lo stato di necessità.
Quando venne al Festival di Letteratura di Mantova a presentare Il posto (uno dei diagrammi autobiografici dove recupera la figura del padre, un ex operaio e poi piccolo commerciante senza studi né coscienza politica, quasi un vettore inconsapevole del Fronte popolare e della Francia repubblicana), Ernaux, bellissima e timidissima, nell’intervista in pubblico con Marino Sinibaldi disse che la sua poetica consisteva appena nel reporter au jour des histoires ordinaires e cioè nel dare alla luce storie del tutto comuni. Pochi allora rammentavano che già trent’anni prima, stralciati da una bibliografia che oggi annovera non meno di una ventina di volumi, erano usciti in Italia, e da importanti editori come Rizzoli e Guanda tra il 1988 e il 1996, i suoi maggiori testi d’esordio fra cui Gli armadi vuoti , Diario della periferia e Una vita di donna i quali godevano oltretutto di eccellenti traduttrici, Romana Petri per i primi due e Leonella Prato Caruso per il terzo. Ma era un tempo che non poteva essere se non ostile alla sua ricezione, nella marea montante del minimalismo, o cosiddetto, e nel trionfo di un professionismo (recupero dei generi e del mestiere più incallito) che presto avrebbe fatto della letteratura un puro indotto dell’industria culturale e dunque un genere, appena uno tra i molti altri, dell’infinito intrattenimento: ovvero un qualunque specchio di Narciso, oggi si direbbe un selfie illimitatamente replicabile e propagabile.
Ma Ernaux batteva in breccia tale metafisica, ignorava simili adescamenti, fedele a una materia prima così grezza da apparire impersonale, tanto ovvia (il proprio sanguinante vissuto, la trafila autobiografica) da sembrare banale e tuttavia incagliata nel profondo non di una esistenza solamente singolare ma sempre plurale, anzi universale: recensendo Il posto sul Corriere della sera il 23 marzo del 2014 Franco Cordelli disse infatti, e opportunamente, che nei suoi libri «non compaiono figure se non in un paesaggio e non vi è persona se non in una comunità». Perciò di che cosa parliamo quando parliamo dei «romanzi» o palinsesti di Annie Ernaux? Non tanto di una scrittrice travestita da sociologa, o viceversa, come pure in patria le è stato a lungo rimproverato (perché Ernaux è detestata dai Richard Millet e dagli Alain Finkielkraut, vale a dire da truculenti reazionari che si vorrebbero raffinati anticonformisti) quanto di una autrice il cui solo obiettivo è tradurre sulla pagina con nettezza e con obiettività qualcosa che sembra assente o che comunque quasi più nessuno è in grado di individuare: il legame sociale tra i singoli individui oggi mantenuto sottotraccia, spezzato, negato, infine ritenuto inesistente.
È stato già detto che il je, l’«io» equivalente al primo mobile della scrittura di Ernaux, corrisponde di fatto alla impassibilità di una terza persona singolare e di diritto alla coralità di una prima persona plurale di solito retorica e impronunciabile, il «noi». Ernaux non dimentica nemmeno per un attimo, mai, lo stigma della sua origine piccolo borghese e provinciale, il fatto di essere beneficiaria come insegnante e scrittrice di ciò che un suo maestro, Pierre Bourdieu, chiamava la «riproduzione sociale» operata dalla scuola laica, di incarnare in prima persona il tempo lungo della Francia repubblicana con gli annessi valori di libertà e uguaglianza, di portare sulla sua viva carne les manques che oggi la espongono, anziana, all’onda di ritorno neoliberale e alla progressiva distruzione delle stesse conquiste democratiche che un tempo le permisero di dire «io». Perciò la musa di Ernaux non è la memoria, affluente e appagante nella sua pretesa di totalità, ma piuttosto è la modestia del ricordo nella sua puntuale parzialità.
E un ricordo primordiale, fondativo, confessato come a latere rispetto ai suoi libri maggiori, è quello contenuto in L’altra figlia (L’Orma editore, pp. 81, euro 8.50) che esce nella al solito impeccabile versione di Lorenzo Flabbi. Per una volta la scrittrice passa dalla prima alla seconda persona, il «tu», e scrive una lettera inevitabilmente postuma alla sorella Ginette, morta a sei anni di difterite nel 1938, due anni prima che nascesse lei, di cui i genitori nulla le dissero mai se non indirettamente, per oscure allusioni o nel lapsus inavvertito con cui sua madre gliela rivelò, e una volta per sempre, come una bambina migliore e «più buona» di lei: «riporta le parole che le hai detto prima di morire: sto andando dalla Madonna e dal buon Gesù / dice mio marito è diventato matto quando ti ha trovata morta rientrando a casa dal lavoro alle raffinerie di Port-Jérome / dice non è come perdere il proprio uomo / di me dice lei non sa niente, non abbiamo voluto rattristarla / Alla fine di te dice era più buona di quella lì / Quella lì, sono io». Ancora una volta è un frammento del ricordo a ritornare in luce, un manque che chiede di essere colmato e interpretato ma, stavolta, non è il campo orizzontale della realtà esterna, l’ascissa, ad accamparsi sulla pagina ma è il filo verticale, l’ordinata, a dragare una profondità del tutto incognita e non meno dolorosa. Che cosa vive, tuttora, chi dice «io» al cospetto di quel «tu» immaginario e a tanta distanza di spazio-tempo? Qual è il senso della deduzione di un nome reliquato in poche foto o, semmai, di un fantasma? Si tratta di una naturale prosecuzione, di una tacita sostituzione dell’una con l’altra oppure di una vera e propria redenzione, di sé e dell’altra, per mezzo della scrittura?
Forse non è un caso che Annie Ernaux, la scrittrice più severa e oggettiva che si possa immaginare, al culmine della parabola sia voluta tornare alla parte più intima e dolente della propria soggettività. A al suo vuoto più assoluto, a una buia umidità che prima non aveva un nome. Come sentisse il bisogno di portare in luce, proteggendola con la scrittura, la cavità sottesa a una ispirazione che invece insegue corpi e cose in terza dimensione, sempre nel giorno pieno della realtà e nello stillicidio del tempo. È detto a un certo punto: «Sempre più, nello scriverti, mi sembra di incedere nel pantano di una landa spopolata come nei sogni, dove tra una parola e l’altra devo percorrere uno spazio riempito di una materia incerta. Ho l’impressione di non avere una lingua per te, di te, di non saper parlare di te se non attraverso la negazione, in un perpetuo non-essere. Sei fuori dal linguaggio dei sentimenti e delle emozioni. Sei l’anti-linguaggio». Ed è da questa introversione, che si sa impotente o arresa a priori, che Annie Ernaux è dovuta risalire per conquistare una parola che, in prima persona, alluda mutamente a un «tu» ma si rivolga a «noi».

 

(il manifesto, 5 giugno 2016)

di Gemma Pacella

 

«Dice Luisa Muraro: non c’è da proibire, ma da non sbagliare e se ci parliamo e ci capiamo, in primis tra donne e con gli uomini forse sbagliamo di meno». Con questo intento di dialogo e di confronto di idee, Katia Ricci avvia l’incontro alla Merlettaia di Foggia, lunedì 16 maggio 2016, intorno alla questione dell’utero in affitto, a partire dall’ultimo libro di Luisa Muraro, L’anima del corpo- contro l’utero in affitto, Editrice La Scuola.

La discussione, infatti, nasce dall’interesse di capire che cosa muove donne e uomini a usufruire della gestazione per altri e a mettere a disposizione il proprio corpo e che cosa ognuna/o considera essenziale per sé, come precisa Katia, e cresce lungo il filo del confronto tra posizioni diverse, ciascuna delle quali mette in luce l’aspetto che maggiormente colpisce tra i tantissimi che sono coinvolti da una questione come quella sulla maternità surrogata. Dunque, proprio a partire dalla varietà di definizioni date, utero in affitto, surrogata, Gpa … è chiaro che il punto non sia quello di rintracciare una visione universale e assoluta, bensì quello di ripercorrere quali non vanno dimenticati, se si ha a cuore la libertà e la rivoluzione che le donne hanno compiuto, per esempio la relazione materna, «primaria, fondante e fondativa» (Katia) di tutte le altre, che rischia di essere spezzata ad opera di un mercato neoliberista.

Ebbene, proprio quel patriarcato che il pensiero femminile ha abbattuto e superato, tenta sempre di ritornare sotto forme diverse e agendo sul continuum maternum e sul corpo delle donne. «Oggi il mercato risponde al desiderio di avere figli con i propri geni, basandosi su un sistema che comprende medici, cliniche, agenzie, avvocati e corpi di donne e che sostituisce e rimuove la relazione materna e, con lei, la ricerca di un nuovo senso della paternità che tanti uomini nel post patriarcato cercano, come ricorda Muraro».

«La maternità, dice Katia, è stata sempre nascosta o mitizzata, considerata il destino naturale della donna, e ora senza essere stata simbolizzata la si cerca di cancellare. Cresce la libertà? Non credo» e, soprattutto, ne guadagna il progresso umano? Apparentemente si direbbe di sì, ma più che di evoluzione nel caso di utero in affitto si può parlare di involuzione: i rapporti di forza che fagocitano la relazione, non solo corporea, con la madre alimentano un neo schiavismo.

A me, giovane donna, non madre, ciò che più interessa è la questione del desiderio e della surrogazione che vedo come fenomeno maschile e, ancora, la questione della libertà.

Prima fra tutti c’è la potenza e l’energia del desiderio, di cui parla la filosofa. Può capitare che quest’ultimo a volte sia oscurato, eclissato dal desiderio di qualcun altro/a. Io, infatti, in passato volevo a tal punto che le coppie omosessuali potessero avere le stesse chances delle coppie etero da aver vagliato l’ipotesi di essere d’accordo con la Gpa. Poi, però, mi sono chiesta: tu lo faresti? Ebbene, interrogare il mio desiderio mi ha allontanata dagli altri e mi ha riportata a me: no, non lo farei.

E allora ho capito che c’era qualcosa che non andava. L’anima del corpo ha funzionato da specchio: leggendolo ho ritrovato le mie fattezze, ho riconosciuto me e la mia fisicità e mi ha aiutata a tenere vivo il mio desiderio.

Mi sono chiesta: che cosa accomuna il desiderio di una coppia che intende avere figli/e e che ricorre all’adozione, con il desiderio di una coppia di avere figli/e e che, al contrario, ricorre alla surrogata?

Sono uguali questi desideri? Certamente per un verso si, sono entrambi desideri di avere una creatura. Inizialmente può sembrare che il desiderio più potente sia quello della seconda coppia che ricorre alla surrogata, così accecante da spingere i genitori ad avere una creatura “ad ogni costo”.

Tuttavia, a bene guardare il desiderio più potente è per me quello della coppia che ricorre all’adozione perché il loro desiderio “egoistico” (nel senso di incentrato sull’io e, dunque, singolare) si somma a quello di dare una famiglia e delle possibilità a quelle creature che non le hanno avute. Perciò è un desiderio molto più energico e creativo di quello che accompagna una coppia che ricorre alla surrogata e che, per questo, si soddisfa, si accontenta e si imbeve di un desiderio solo singolare, solo egoistico.

Ancora, altro passaggio su cui mi sembra molto importante riflettere è che la surrogata sia un concetto maschile. Cosa significa “surrogazione”, se non un “fare finta che sia…”, ovvero sostituire una cosa per un’altra fingendo che ci sia un legame materiale, fisico e personale tra il sostituendo e il sostituto che, invece, non c’è. La stessa assenza di materialità tra i due termini del confronto la ritroviamo nella metafora, che –come mi insegna Luisa Muraro- si differenzia dalla metonimia proprio perché quest’ultima, al contrario, recupera la materialità nella relazione tra i termini impiegati nel processo di sostituzione.

E questo gioco di figure retoriche mi porta a riflettere su di un dato essenziale: mentre la madre evoca la creatura su un piano metonimico perché l’ha portata in grembo, l’ha partorita, gli ha insegnato a parlare la lingua materna, mantenendo un rapporto personale, fisico e materiale costante, al contrario il padre evoca la creatura sul piano metaforico, ad esempio perché le ha dato un nome, ma non necessariamente sul piano personale. Dunque, per tornare al punto: la surrogata è maschile perché anch’essa come la relazione paterna si muove su di un asse metaforico e produce un rapporto tra sostituendo e sostituto immateriale che spezza il legame fisico e personale.

Ancora un punto: la libertà. E se una donna vuole sottoporsi alla surrogata? Se lo chiede esplicitamente anche Luisa Muraro: “Ma posso farne io una questione se loro ci stanno?”

Per me libertà è essere e non lasciarsi essere. Bene, nel momento in cui lascio che la mia libertà si esaurisca e si appiattisca e si accontenti di esprimersi nel desiderio di qualcun’altro, allora quella non è libertà.

Le riflessioni sulla libertà sono al centro del dibattito anche di chi, come Cornelia, rievocando le parole de L’anima del corpo la definisce somma di desiderio+possibilità+necessità, rintracciando, così, un parallelo tra desiderio e libertà.

Uno degli aspetti più interessanti del confronto è ascoltare molte delle donne presenti rievocare il loro percorso di madri e il momento della loro gravidanza, come Donata che, proprio partendo dai suoi ricordi, chiarisce che la questione dell’utero in affitto non può essere una questione di diritti e di principi, bensì una questione tra sé e le proprie sensazioni, il proprio corpo, il proprio desiderio. «quello che il nostro corpo prova non ce lo possiamo far scappare. I diritti non sono e non devono essere tutti eguali».

Si inseriscono subito i pensieri di quante non sono contrarie all’utero in affitto e mantengono una posizione a sostegno delle coppie omosessuali, pur chiarendo che sono soprattutto quelle maschili ad insistere per la Gpa, al contrario delle coppie omosessuali femminili che, spesso, non condividono tale pratica. L’immagine evocata da Maria Rosaria, presidente dell’Agedo, è quella di un uomo che, dopo aver ottenuto un figlio a seguito di surrogata, pareva aver instaurato con la creatura un rapporto che a lei è parso quasi materno. Si tratta di un’immagine dai contorni molto sfocati: «i maschi hanno imparato dalle donne la relazione con la creatura, l’hanno imparato per effetto dell’uscita dal patriarcato realizzata dal femminismo», osserva Katia.

Lina riflette sulla commercializzazione del bene: «Come si può passare da bene personale a bene patrimoniale; come può essere la surrogacy? Esercizio di libertà o condizionamento economico? Non posso convincermi che in nome di un malinteso senso della generosità, si rinuncia a qualcosa che è più grande del desiderio umano di diventare genitrici e genitori. Questo qualcosa, la bambina o il bambino, cresce e si nutre attraverso e nel corpo di una donna. Quella donna è la madre. Non può essere nessun’altra o altro. Quel desiderio, dunque, va al di là dell’umano e diventa, se realizzato, un bene patrimoniale e dunque commerciabile. Una prostituzione legalizzata».

Altro profilo, questa volta sottolineato dall’intervento di Gianpiero, è il rapporto tra l’umano e la tecnica e la ricerca del confine tra l’uno e l’altra. Dalla voce di un uomo, che parte dal chiedersi come reagirebbe se gli venisse impiantato un utero (risposta: molto male) e che nutre ancora forti dubbi sulla surrogata,  viene fuori l’invasione di un certo «stile proprietario» che si sta prendendo con la forza ciò che di naturale ci resta: voglio tutto e, evidentemente, lo voglio a tutti i costi.

Anche un giovane uomo, Raffaele, si interroga soprattutto sull’aspetto  della commercializzazione del corpo femminile che accompagna la questione dell’utero in affitto e sulla preoccupante vittoria del capitalismo, di fronte a cui nemmeno la politica della sinistra italiana riesce a contrapporre un muro: l’idea di potersi scegliere un figlio o una figlia «come si fa con i cani di razza», è il sintomo di una dipartita dei valori di civiltà che il neoliberismo sta fagocitando.

Clelia parte dal suo grande desiderio di avere figli, un desiderio assoluto, alto di maternità, e ora di avere nipoti, ma il nodo fondamentale è l’idea di libertà, perché dice: «sono scelte che bisogna fare con una grande idea di libertà, altrimenti si tratta di scelte al ribasso».

Adele, ricollegandosi alla questione già posta, chiede se qualcuna in questa assemblea si presterebbe a fare un figlio per qualcun altro e perché: «La  libertà femminile  mi sembra un altro punto che dovremmo riprendere a discutere perché c’è confusione e la confusione scaturisce dall’idea di parità con gli uomini, del faccio quello che mi pare. Per le cose che sono state dette oggi non vedo quale potrebbe essere per una donna il guadagno simbolico della maternità surrogata.

La libertà femminile è innanzitutto libertà dal simbolico patriarcale, è quella libertà che permette innanzitutto di sentirsi libera anche quando ci si trova in una condizione di sopraffazione. La donna che indossa il velo nella società islamica e che dice che lo fa per sentirsi libera ha ragione solo nella misura in cui sa che la sua libertà non è il velo o il burqua, che è lo sguardo maschile che deve cambiare e non lei a nascondersi».

Antonietta riafferma la necessità di continuare a discutere, di non chiudersi nelle proprie posizioni e, soprattutto, di preservare quel nucleo di civiltà di cui ci siamo già sapute e saputi prendere cura, in primis la sessualità.


(www.libreriadelledonne.it, 3 giugno 2016)