di Luciana Tavernini

Proponiamo la relazione introduttiva per l’incontro Madri e figlie in poesia, tenutosi al Circolo della rosa sabato 11 giugno 2016, con Loredana Magazzeni, Donatella Massara, Laura Modini e Cristina Salardi.

Alla fine dello scorso anno, appena mi fu segnalato da Clara Jourdan, comprai il libro a cura di Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster, Anna Maria Robustelli, La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia contemporanea di lingua inglese (La vita felice, 2015). Il titolo, tratto da una poesia di Gillian Clarke, già preannunciava che le parole per mostrare la relazione madre figlia non sarebbero state edulcorate. Il libro è composto da 60 poesie di autrici in lingua inglese, con traduzione a fronte, e da una prefazione di Silvia Vegetti Finzi e una postfazione di Anna Salvo, che ne offrono un approfondimento psicoanalitico.

Ho sorseggiato le poesie poco alla volta come un vino da meditazione perché molte di loro attraverso le combinazioni improvvise delle parole, i loro suoni, le immagini impreviste, generavano inaspettate emozioni che aprivano spiragli di conoscenza su quest’esperienza che è centrale per me e per molte donne.

Nella pratica della storia vivente che, a partire da un’invenzione di Marirì Martinengo, porto avanti da quasi dieci anni con una comunità di donne, la relazione con la madre continua ad emergere (DWF, n.3, 2012). Non è un caso che abbia voluto con Marina Santini intitolare il libro di storia del femminismo, da noi scritto e curato, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua. E certamente questa raccolta di poesie composte negli ultimi 40 anni da autrici di lingua inglese e il lavoro di gruppo delle quattro poetesse traduttrici, non sarebbe stato possibile senza la rivoluzione femminista. Le donne che hanno preso parola pubblica autorevole hanno portato alla luce questa relazione fondante l’esistenza umana che prima veniva ridotta a sola materialità, data per scontata, mettendo invece in particolare evidenza la relazione col padre o quella madre – figlio, piena di rappresentazioni anche nella storia dell’arte, soprattutto cristiana.

Ricordo come Luce Irigaray nel 1987 ci invitasse a esporre in tutte le case e in tutti i luoghi pubblici belle immagini (non pubblicitarie) della coppia madre figlia, nostre fotografie con la figlia e le figlie e magari anche con la nostra stessa madre.

Sempre più scrittrici e poetesse portano alla luce coi loro lavori questa relazione. Segnalo in particolare Costellazione familiare (Adelphi 2016) di Rosa Matteucci con abbiamo discusso, il 28 maggio, nell’incontro, promosso da Rosaria Guacci e Mirella Maifreda, e per la poesia italiana accenno soltanto a Maddalena Capalbi in alcuni testi della raccolta Nessuno sa quando il lupo sbrana (La vita felice 2011), a Vivian Lamarque con il libro Madre d’inverno (Mondadori 2016), un lavoro di elaborazione poetica sulla morte e malattia della madre, e soprattutto le intense poesie di Gabriella Lazzerini in Tutto per me l’oceano, pubblicate in un quaderno di Via Dogana (Libreria delle donne di Milano 2004), ormai esaurito.

Attraverso la raccolta di cui parliamo oggi abbiamo l’occasione di approfondire la riflessione e di scegliere, anche per donarle alle nostre madri e figlie, quelle parole che più ci rappresentano.

Ma soprattutto, come suggeriva Ida Dominijanni (L’ombra della madre, Liguori 2007), ripresa nell’invito alla lezione di Luisa Muraro di martedì 7 giugno, queste poesie ci permettono “di scorgere nel presente i segni di quello che è e che sarà la madre dopo il patriarcato, nelle sue luci e nelle sue ombre, nel chiaro e nell’oscuro che la circondano”. Un impegno di grande rilevanza politica per il senso di ciò che costituisce l’essere umano, come ci dice Luisa Muraro nel suo recente libro L’anima del corpo (Editrice La Scuola 2016), la cui seconda parte, che costituisce metà del libro, è intitolata appunto La relazione materna.

L’atteggiamento di chi fa poesia, come magistralmente ci insegna María Zambrano in Filosofia e poesia (Pendragon, Bologna 2002) è di rendere conto della verità mentre la si sta vivendo, di far esistere ciò che ancora non è, perché le parole, il simbolico, ancora non è stato in grado di mostrarlo. Le poetesse, qui raccolte, ci permettono di rivivere l’istante, in cui più tempi coesistono, che illumina l’esperienza viva di ciascuna attraverso le parole che mantengono la forza della loro materialità.

Leggere queste poesie è un’esperienza contemporaneamente fisica e mentale che non va fatta frettolosamente.

Il lavoro delle traduttrici è stato anche questo: assaporare le parole per renderle nella nostra lingua, lasciandoci però la possibilità di andare al testo inglese originario in un passaggio in cui il ritmo segreto che lega le parole ci permette una conoscenza che non separa la percezione dalla razionalità.

Le quattro poetesse traduttrici hanno condiviso e ci propongono un percorso, illustrato nella loro introduzione, pieno di spunti per segnalare alcune caratteristiche e alcuni nodi dell’intricato e necessario rapporto madre figlia: dal difficile equilibrio tra fusionalità e separazione alla memoria che restituisce vividi ritratti o fantasmi e proiezioni, al complesso intreccio tra resistenze e accettazione dell’essere madre, alla costituzione di lignaggi attraverso oggetti e linguaggi, e non solo. Ma, grazie alla polisemia, alla molteplicità di significati di un testo poetico che si dischiudono alle successive letture, abbiamo l’opportunità di crearci percorsi personali.

In questo periodo di dibattito sulla maternità surrogata, addirittura chiamata utero in affitto, come se si potesse fare a pezzi una donna, io ho trovato consonanza con alcune poetesse che mostrano la relazione tra madre e creatura anche prima della nascita, ricordandoci il due che precede l’uno in ciascuna esistenza: ce la fanno percepire o ricordare per chi, come me, l’ha sperimentata. Penso a Sujata Bhat e a At first she was a butterfly (All’inizio era una farfalla, p.107) che termina con questi versi:
Ma io mi tengo stretto il primo giorno

che la sentii muoversi,

una piccola farfalla che toccava un fiore dopo l’altro –

Oppure penso a Meena Alexander che nella prima strofa di Green Parasol (Ombrellino verde, p.45) dice:

Dolce bocciolo di carne e capelli

quattordici anni fa mi lacerasti in un lampo

ti attaccarono paonazza, urlante al mio seno sinistro.

Più tardi, ti sistemavo ancora affamata

tra gomito e polso.

Sognavo di te e di me, costola a costola

nel cesellato scrigno d’avorio

che la tua bisnonna

si era portata a nord oltre le colline rosse

come parte della sua dote nuziale.

Meena introduce, attraverso un oggetto, anche il “continuum materno” con cui Maxime Kumin nella poesia The evelope (La busta, p. 237), polemizza con Heidegger, perché a noi è dato portare “avanti le nostre madri nella pancia”, e, “portate avanti dalle nostre figlie, viaggiare /nella Busta del Quasi- Infinito”.

Arundhati Subramaniam nell’ultima strofa di Sewage psalm (Salmo ai liquami, p. 113) ci pone in evidenza il mistero dell’imprescindibile sì della madre.

E ancora mi rimane un mistero

come avrai permesso che una fragile bolla

di infida speranza, in technicolor,

esplodesse

nello schiamazzo fiammeggiante,

di una nuova vita

con la tua decisione terrificante

di lasciar cadere

la scelta della disperazione.

Più leggo queste poesie e più ne ricavo forza che libera capacità di agire con libertà, che scioglie legacci emotivi. Invito ciascuna a cimentarsi.

Vi propongo però un ultimo spunto.

Quando Marina Santini e io studiammo Cristina di Belgiojoso per un incontro nel 2004, promosso dall’Associazione Dialogare di Lugano nell’ambito del pluriennale corso di formazione Pensare il mondo con le donne (Atti 2007), individuammo nel rapporto, durato tutta la vita, tra Cristina e Ernesta Bisi Legnani, maggiore di lei di vent’anni, pittrice, patriota, madre di 5 figlie e figli, un esempio di “amica più grande”, quella che in continuità con la madre permette a una giovane di crescere, discutendo emozioni ed esperienze coinvolgenti in una sorta di genealogia in presenza. Volevamo chiamare questa figura “vice-madre” ma mia figlia, che sperimentava questo tipo di relazione, ci disse che era un errore perché la madre è unica. Noi descrivemmo questo rapporto dal punto di vista della madre e della figlia, ma la pedagogista Letizia Bianchi, chiamandola “posizione della zia”, ne parlò dal punto di vista dell’amica. Marina e io siamo consapevoli di quanto sia importante tanto che ne abbiamo scritto in Mia madre femminista e abbiamo chiesto a Letizia una testimonianza in proposito.

Nel quasi poemetto, One of those nigths (Una di quelle notti, p.123) di Karen Alkaly Gut ho scoperto che la figura simbolica della “zia” è indispensabile anche dopo la morte della madre.

Una zia, morta prima che la poetessa nascesse, viene come fantasma nell’anniversario della morte della madre per portare un messaggio della madre stessa.

La zia a un certo punto dice:

“Perché devi andare a cercare ciò che è irrilevante?

Lei mi ha detto che vuoi sempre la documentazione.

Quello che devi sapere –

e mi sembra la notizia più importante

che ti posso portare dall’aldilà –

è che tua madre ti amava veramente.”

Non pensate che sia un poemetto di buoni sentimenti perché

la figlia battibecca: perché non è venuta lei a dirmelo, io “sto bene in questa luce”, lo so che è una fantasia consolatoria, ecc.

Ma la zia fantasma la mette di fronte alla naches, alla gioia, della madre nell’aldilà, dicendole:

[…] che tua madre prova piacere ogni giorno

vedendo come ti godi la vita – anche se la tua è una vita

che non avrebbe mai capito quando portava il peso

del suo mondo, della sua vita.

La zia, con i rovesciamenti tipici della poesia, mette di fronte la figlia all’esistenza della vita della madre come diversa dalla sua, qualcosa che può rendere difficile la comprensione. Spesso non riusciamo a pensare a nostra madre come a una donna. Accade quasi come una rivelazione, ad esempio Luisa Muraro in L’anima del corpo scrive: “Ricordo il momento in cui mi accorsi e vidi che mia madre era una donna, che mi era madre sì, ma senza essersi annullata nel personaggio con cui fino ad allora l’avevo identificata” (p.65). E racconta gli episodi di questa epifania in cui la madre le appare portatrice di un desiderio autonomo.

E tornando al poemetto, esso termina con la capacità di accettare le proprie imperfezioni, che, anche se viste dalla madre, non ne inficiano l’amore.

E mi ha detto di dirti

che le piace tanto come leggi la poesia ad alta voce –

anche se balbetti ancora

e ci metti sempre un paio di errori.

 

(www.libreriadelledonne.it, 16 giugno 2016)

di Gian Guido Vecchi


La realtà si capisce meglio quando la si guarda dalla periferia, ama ricordare papa Francesco attingendo al pensiero della filosofa argentina Amelia Podetti. « Dall’ ultimo banco » (Marsilio), il libro di Lucetta Scaraffia sulla presenza femminile nella Chiesa, ne è una dimostrazione. In fondo all’ aula – tra non molti laici, una delle poche donne – l’ autrice ha potuto seguire da «uditrice» il Sinodo sulla famiglia. Ne ha ricavato l’ immagine di una Chiesa senza un rapporto con la sua storia, senza un confronto con il mondo esterno, soprattutto senza donne. La preposizione, «senza», scandisce i capitoli come il segno di una privazione che non ha nulla a che fare con l’ essenza del cristianesimo e anzi ne è la negazione. Ed è questa la parte più interessante, il cuore dell’ argomentazione. Docente di Storia alla Sapienza e coordinatrice del mensile «donne chiesa mondo» dell’ Osservatore romano , Scaraffia fa notare una curiosa coincidenza degli opposti: sia nelle gerarchie ecclesiali maschili che «temono» le «pretese» delle donne sia nel pensiero femminista, anche cattolico, si tende a considerare la questione come una sfida esterna dettata dalla «modernità» per «svecchiare» la Chiesa. E invece è vero il contrario, «la Chiesa deve ripensarsi dalle origini, deve capire che l’ apertura alle donne è solo il compimento dell’ antico, del messaggio evangelico». L’«uditrice» avverte negli interventi dei padri sinodali una «disinvolta ignoranza della storia». Il cristianesimo, fondato sull’ Incarnazione, è radicato nella storia. Al senso del fluire del tempo, tuttavia, si è contrapposta una teologia astorica, dottrinale, un sistema rigido e ideologico che teme ogni cambiamento e impedisce alla Chiesa di vedere e rendere conto delle proprie ragioni. Non è un accidente della storia che l’ emancipazione femminile si sia affermata, seppure contro le gerarchie ecclesiastiche, nell’ Occidente di tradizione cristiana. Nel Vangelo il tramite tra Dio e l’ essere umano è una donna; è il «sì» di Maria a rendere possibile l’ Incarnazione; è alle donne che appare per primo il Risorto. E quando Gesù dice «l’ uomo non separi ciò che Dio ha unito» non si riferisce al divorzio, che allora non esisteva, ma alla facoltà esclusiva dei mariti di ripudiare le mogli. Novità inaudite come «la parità di diritti e doveri» spiegano l’ attrazione esercitata sulle donne dal cristianesimo delle origini e la presenza nella storia della Chiesa di figure femminili che «hanno svolto ruoli decisivi, hanno parlato e sono state ascoltate»: ciò che oggi non accade. Non è questione di sacerdozio. Con le parole di Sylviane Agacinski, «l’ uguaglianza si oppone alla diseguaglianza, non alla differenza». Si tratta, per la Chiesa governata da uomini, di pensare e attingere davvero alla «differenza» femminile. Non c’ è posto per le donne quando si tratta di decidere, il «sistema chiuso» le isola, la «rivoluzione» teologica femminile è ignorata. Oltre l’ Occidente, la Chiesa «è vista come l’ istituzione che più e meglio difende la dignità delle donne», grazie alle missionarie. Eppure «sono quasi nulli» i contatti tra Vaticano e Unione delle superiori generali, «il parere delle religiose non è mai richiesto». Tante discussioni, tanti documenti angosciati su derive eugenetiche, futuro della famiglia e della Chiesa. Magari basterebbe ascoltare, finalmente, le voci dall’ ultimo banco.


(Corriere delle sera, 8 giugno 2016)

Intervista ad Annie Ernaux realizzata da Sandrine Blanchard

Traduzione di Silvia Baratella


Non sarei arrivata dove sono se…

…Se non fosse per mia madre! E lo dico senza esitazioni! Mia madre è stata fondamentale. Per la sua personalità, la sua forza, il suo sguardo sul mondo e in particolare sul mondo sociale. Tutto questo mi ha sostenuta, e mi ha sostenuta anche nella rivolta. Lei voleva tracciare il mio destino. Ne è ampiamente responsabile.
Sua madre l’ha sempre spinta ad andare avanti. Voleva darle quello che lei non aveva avuto?
Voleva soprattutto darmi una vita interessante, una vita indipendente, questa parola era molto importante. Il successo materiale contava meno per lei del successo intellettuale. Appena si è accorta che andavo bene a scuola, si è messa a far di tutto per facilitarmi l’accesso agli studi e soprattutto – all’epoca cosa totalmente eccezionale nei confronti delle ragazze – per impedirmi letteralmente di dedicarmi a un’occupazione femminile. Aveva un certo tipo di condiscendenza, quasi di disprezzo, per le donne che restavano a casa perché il marito poteva permettersi di mantenerle. Sono stata cresciuta in questa immagine negativa della vita da casalinga. Quando è morto mio padre, poco tempo dopo mia madre ha detto una frase che ho trovato terribile: «Verrò da te e ti farò le faccende». Era per liberarmi. Significava «Sono sempre qui». È una cosa immensa.
Quando ripensa a sua madre, qual è la prima immagine che le torna in mente?
Materialmente, è l’immagine del fuoco. È stata una donna che, come diceva lei, non si era mai lasciata pestare i piedi. Il mio femminismo dipende da lei. Mia madre non aveva paura di niente. Era sempre in rivolta. Con degli eccessi di violenza spaventosi. La famiglia Duchesne non viveva nell’ovatta! Io ho preso un sacco di schiaffi. In questo campo sono una leggenda di famiglia!
Perché?
Perché ero un numero. Ho iniziato molto presto a ribellarmi all’autorità. Pensavo solo a disubbidire. Ero molto interessata alle questioni sessuali. Mia madre pensava che avessi in me tutte le possibilità del male e ne ero convinta io stessa.
Eccelleva a scuola per far piacere a sua madre o perché la scuola le piaceva?
La scuola mi rendeva felice. Figlia unica, in classe trovavo finalmente delle compagne. Ero una chiacchierona inveterata. E adoravo leggere. Ma tenevo distinta la lettura dei libri comprati da mia madre da quella per le lezioni di francese.
Quali sono i suoi primi ricordi notevoli di letture?
Via col vento di Margaret Mitchell, che ho letto a nove anni. Mia madre l’aveva comprato per sé. Suppongo che sia stato il modo in cui ne parlava con le clienti della drogheria a farmi venir voglia di leggerlo, perché adoravo stare sotto il bancone ad ascoltarle conversare. Quel libro per me rappresentava un mondo. Credevo alla realtà di quella storia. Ero andata persino a cercare il nome di Scarlett O’Hara sull’enciclopedia! Volevo saperne di più rispetto a quello che c’era nel romanzo. Anche Jane Eyre di Charlotte Brontë mi ha colpita molto. Quel libro in prima persona è come un filo rosso dell’esistenza. Anche in questo caso si trattava di vivere una vita di indipendenza, senza farsi dominare. Quei modelli mi hanno strutturata.
Quali sono i suoi sogni di ragazza?
Da bambina non avevo desideri precisi, il futuro era aperto. Con le mie amiche, le mie cuginette, c’era l’immaginario dell’amore. In alcune lettere che ho scritto a sedici il matrimonio mi ripugna. All’epoca non si immaginava nessun altro modo per stare con un uomo. Ho avuto molto presto la sensazione che il matrimonio fosse quasi solo la fine della vita. Forse era l’influenza di Una vita di Maupassant, che mi aveva scossa. L’ho letto a tredici anni di nascosto e ne sono stata completamente sconvolta.
Nasce allora la voglia di avere una professione?
Sapevo che avrei fatto qualcosa. Mia madre mi ha sempre ricordato che alle elementari una suora le aveva detto: «Annie è una futura insegnante». Non si era sbagliata! Tra chi rifugge il proprio ambiente sociale, i miracolati evadono così: da un mestiere che non richiede un’eredità economica.
A partire da quando ha questa coscienza di classe?
Non è mai stata formulata. Neanche nel mio diario segreto. È nell’ordine delle sensazioni e della certezza: facevo parte di un ambiente modesto. Avevo questa coscienza di classe nella scelta delle amiche, nel sentirmi diversa. Sapevo tutto quello che mi separava da alcune di loro e al tempo stesso avevo questo desiderio di imparare. Era un mondo che mi sembrava meraviglioso, perché c’era la musica classica, quella che non conoscevo. La musica era davvero, in quella fase dell’adolescenza, il segno dell’esclusione. Era quello di cui più avevo voglia di appropriarmi.
Che cosa le mancava di più?
Molte cose! Ma non è mai stata una gelosia sociale. Era una sensazione di carenza, di imperfezione. Il senso d’ingiustizia è arrivato molto più tardi.
Quando?
Non l’ho provato in me stessa ma nelle situazioni. Quando ho fatto la prima comunione nel collegio cattolico di Yvetot avevo chiesto se poteva venire mia cugina, che frequentava la scuola pubblica. Quando il giorno è arrivato, eravamo in maggio, lei si è messa il suo più bel vestito e un pellicciotto di lapin. La direttrice venne a chiedermi: «Non c’è sua cugina? Non la vedo».  Io le risposi: «Ma sì, c’è, è lì.» La faccia della direttrice… era piena di disprezzo. Non l’ho mai dimenticata. Di storie come questa potrei raccontarne a palate. È la forza dei transfughi quando ammettono di esserlo: ne sanno molto di più sui rapporti sociali, guardandola dalla posizione che occupano, di chi è stato da sempre in posizione dominante.
In che momento ha avuto l’impressione d’aver cambiato condizione sociale?

Essenzialmente vivendo lontano dai miei genitori e sposandomi con un ragazzo della media borghesia di destra.

Cos’è cambiato allora nella sua vita quotidiana?

Gli argomenti di conversazione; il fatto di percepire la condiscendenza del tuo compagno verso i tuoi genitori e il tuo ambiente; le famose buone maniere a tavola e, cosa che mi ha subito colpita molto, quella sicurezza nell’affrontare il mondo di cui io ero completamente priva. Hai l’impressione che il mondo sia fatto apposta per quella classe dominante e che le appartenga sia di diritto che di fatto. C’entra anche il corpo: quell’imbarazzo di avere un corpo plebeo, un’aria “da contadina”.

Qual è stata la prima persona a cui ha parlato della sua voglia di scrivere?

Una nuova amica, che ho conosciuto quando mi sono iscritta a lettere. In giugno, quando sono stata accettata al corso propedeutico all’università, mi ricordo di avere scritto, inventandomi un nome: «Anne Sainte-Claire pubblicherà il suo primo romanzo». È stato molto strano. In seguito, ho incassato dei rifiuti giustificati. Le cose non si sono svolte in modo lineare. La conseguenza di quei rifiuti è stata la fuga nella ricerca di una relazione con un uomo. Poi c’è stata una serie di cose un po’ drammatiche, come il mio aborto. Alla fine, mi sono trovata sposata e subito madre. Non potevo scrivere ma non ho mai smesso di pensarci. Mio marito, Philippe Ernaux, ha letto il mio primo testo e l’ha commentato in modo poco gradevole. Dopodiché non ho più dato niente da leggere a nessuno. Mi sono posta molto presto delle questioni di scrittura: non c’è una storia da raccontare. Non è la storia quel che conta, ma quel che c’era in gioco nella storia. In ciò che si è vissuto c’è qualcosa che fa andare avanti la conoscenza. C’è più nello scrivere che nel ricordare.

Lei aveva «voglia di vedere il mondo intero». L’ha fatto?

Quella voglia è stata incanalata molto in fretta dalle necessità della vita. Alla fine ho viaggiato soprattutto grazie ai miei libri. Ma ho fatto un viaggio che è stato estremamente importante con mio marito nel 1972. Avevo trentun anni. Era stato organizzato da Le Nouvel Observateur (l’antenato de L’Obs) per incontrare Salvador Allende in Cile. È durato due settimane. Entrando in contatto con le poblaciones, sono tornata alla mia infanzia in modo staordinario.

Perché?

Perché mi sono accorta fino a che punto ho vissuto in un mondo che era per certi aspetti vicino a quel che vedevo nelle poblaciones: il quartiere operaio, la famiglia di mia madre devastata dall’alcool eccetera. Nacque la sensazione di aver delle cose da dire. E poi c’era un giornalista letterario del Nouvel Obs ad accompagnare il gruppo, Jean-François Josselin. Discutevo molto con lui. Non so come né perché gli ho confidato il mio segreto: che avevo già scritto un testo. Al di fuori di mio marito, non lo sapeva nessuno. Jean-François Josselin voleva che glielo mandassi. Gli ho promesso di farlo. Ma non ho mantenuto la promessa. Quel primo testo del ’62 era una cazzata. Non raccontavo la realtà, non c’era niente di sociale, era solo una ricerca di forma. Alla fine, ho iniziato a scrivere un mese dopo quel viaggio in capo del mondo.

La politica le è sempre interessata…

Appartengo a quella generazione che ha succhiato col latte i racconti delle guerre del XX secolo. In famiglia ma anche a scuola, dove la prof di storia ci leggeva «Le campane di Nagasaki». E poi di politica ho sentito parlare fin da bambina nella versione Café du Commerce, il bar di mio padre. E mia madre ha sempre votato. L’ho accompagnata per la prima volta in cabina nel 1945. Andava anche ad assistere allo spoglio. Sono sempre in attesa di un profondo cambiamento. Da diversi decenni sto constatando un ineluttabile ripiegarsi della società su se stessa. Manca una reale accettazione degli altri. Ho insegnato alle medie a Pontoise tra il 1975 e il 1977. Mi ricordo di una classe di terza difficile, irrequieta. Abbiamo fatto dei dibattiti. Ho ancora in testa i discorsi già populisti di allievi che mi dicevano: «Mia sorella non ha avuto la casa popolare e degli arabi sì». La questione del razzismo ce la trasciniamo da molto tempo.

In che momento ha avuto la sensazione di essere in tutto e per tutto una scrittrice?

Sono cosciente, piuttosto, di un privilegio, di una chance di poter fare qualcosa che è – come forse avrebbe detto mia madre – quel che c’è di più bello. Non ho cercato di far carriera ma di preservare la possibilità di scrivere. D’altronde sta diventando molto difficile. Di fronte a ogni libro da scrivere, io non sono niente, ogni volta è una lotta. Ho realizzato quel sogno di scrivere e di essere pubblicata. Ma non è il nirvana, la felicità, non è affatto quel che immaginavo.

Cioè?

Non avrei mai immaginato che fosse un impegno simile; la forma quasi mistica che avrebbe preso la scrittura. Bisogna sacrificarle un sacco di cose: la vita sentimentale, un po’ anche quella familiare. Non sono una nonna molto disponibile! Quando si prende quella piega, è finita. L’esistenza è vuota e informe senza scrittura. Non si tratta di dire «mai lasciar passare un giorno senza aver scritto una riga», ma di stare nella ricerca, di avere un progetto intorno a cui tutto si focalizza. Vivere con un libro che bisognerà scrivere. Mémoire de fille (uscito nel 2016 per Gallimard, N.d,T.), mi sentirei molto in colpa se non l’avessi scritto. Anche La Place (Il posto, ed. L’orma, 2014, N.d.T.).

«È così che vive la gente?»: si è sempre posta questa domanda…

Sì. Sono stata immersa in una comunità fin da piccolissima. Vivere dal mattino alla sera con i clienti di un bar-drogheria, senza intimità familiare o quasi, significa avere l’impressione di essere stata attraversata, prestissimo, da ogni tipo di conversazione e di linguaggio. Poi, cambiar classe sociale, cioè cambiar mondo, ti dispone a osservare, a porti questa domanda. Le barriere sociali restano sempre molto forti. La società francese continua a essere una specie di aristocrazia con i suoi fasti, il suo decoro, le sue gerarchie…

Che posto ha avuto la religione nella sua vita?

Un posto importante. Tutti i giorni in collegio c’erano la storia sacra e le preghiere. Per mia madre, era importante essere religiosi: credere in Dio e comportarsi secondo una regola morale. Credeva nell’efficacia della preghiera. Anche se quando mia sorella è morta di difterite, la preghiera non è servita a molto. Ero veramente colpita dai sacrifici da fare e dal senso di colpa sessuale della mia prima confessione a sette anni: avevo confessato di aver commesso atti impuri e mi sono presa una terribile reprimenda da parte del confessore. Ne ho dedotto di essere praticamente dannata.

Che cosa ne resta?

Ne resta quello che potremmo chiamare un sottotesto. È anche come un primo mondo. Anche se sono persuasa che ci attenda il nulla, faccio come se ci fosse qualcosa che dovrebbe essere salvato e di cui io sarei depositaria. Non è la mia anima, è quello che faccio. È molto diverso. Si potrebbe dire che la letteratura o la scrittura abbiano sostituito Dio, in un certo senso. Oppure che scrivere è la missione che mi è stata assegnata.

Come ha vissuto gli attentati?

Stamattina, alla radio, sono stata colpita da quello che diceva molto pacatamente un ragazzo su France Inter (nome di un canale radio, N.d.T.): sì, c’è della violenza ma non quanta nelle grandi guerre o in Siria. Non lo diceva per passività ma come per un senso di quello che è il corso della storia. La cosa più dura è cercare di capire e sapere che non si potrà capire nel momento presente, che sarà possibile solo dopo. Quello che colpisce, anche – ed è terribile da dire – è la facilità con cui si assimila quello che succede. All’indomani degli attentati di Bruxelles, nella metropolitana tra Parigi e Cergy, un uomo e una donna avevano vagamente sentito dire cos’era successo: «Mi sembra che sia successo qualcosa a Bruxelles», diceva la donna. Ed è stato tutto. Questa vita che continua, ecco cosa mi ha colpita. Poi hanno parlato solo di lavoro, di vacanze, di bambini… Era un giorno come gli altri.




«Je ne pensais qu’à désobéir»

Je ne serais pas arrivée là si…

… Si ma mère ! Et c’est sans hésitation possible ! Elle a été fondamentale. A cause de sa personnalité, de sa force, de son regard sur le monde et en particulier sur le monde social. Tout cela m’a portée, et m’a portée aussi dans la révolte. Elle voulait tracer mon propre destin. Elle en est largement responsable.

Cette mère vous a toujours poussée à aller de l’avant. Elle voulait vous donner ce qu’elle n’avait pas eu ?

Elle voulait surtout me donner une vie intéressante, une vie indépendante – ce terme était très important. C’était moins la réussite matérielle que la réussite intellectuelle qui comptait pour elle. Quand elle s’aperçoit que je réussis bien en classe, elle va tout faire pour me faciliter cet accès et notamment – ce qui était tout à fait exceptionnel pour les filles à l’époque – de littéralement m’empêcher de me livrer à une occupation féminine. Elle avait une forme de condescendance, presque de mépris, pour les femmes qui restaient à la maison parce que leur mari pouvait les entretenir. J’ai été élevée dans cette image négative du ménage. Lorsque mon père est mort, elle a dit, peu de temps après, une phrase que je trouvais terrible : « Je vais venir chez toi et je ferai ton ménage. » C’était pour me libérer. Cela signifiait « je suis toujours là ». C’est immense.

Quand vous repensez à votre mère, quelle est la première image qui surgit ?

Matériellement, c’est l’image du feu. C’est une femme qui, comme elle le disait, ne s’est jamais laissée marcher sur les pieds. Mon féminisme, c’est à cause d’elle. Ma mère n’avait peur de rien. Elle était toujours en révolte. Avec des excès épouvantables de violence. On n’était pas dans la douceur dans la famille Duchesne ! J’ai reçu énormément de claques. Dans ce domaine je suis la légende de la famille !

Pourquoi ?

Parce que j’étais un numéro ! Je me suis très vite opposée à l’autorité. Je ne pensais qu’à désobéir. J’étais beaucoup portée sur les questions sexuelles. Ma mère pensait que j’avais en moi toutes les possibilités du mal et j’en étais aussi persuadée moi-même.

Votre excellence scolaire, c’était pour faire plaisir à votre mère ou parce que l’école vous plaisait ?

L’école me rendait heureuse. Fille unique, je retrouvais enfin des compagnes de classe. J’étais une bavarde invétérée. Et j’adorais lire. Mais je séparais mes lectures des livres achetés par ma mère de celles pour la classe de français.

Quels sont vos premiers souvenirs marquants de lecture ?

« Autant en emporte le vent » de Margaret Mitchell que j’ai lu à l’âge de 9 ans. Ma mère l’avait acheté pour elle. Je suppose que c’est la manière dont elle en parlait avec les clientes dans l’épicerie qui m’a donné envie de le lire. Car j’adorais être sous le comptoir pour les écouter discuter. Ce livre représentait un monde pour moi. Je croyais à la réalité de cette histoire. J’ai même cherché dans le dictionnaire le nom de Scarlett O’Hara ! Je voulais en savoir plus que le livre ! « Jane Eyre » de Charlotte Brontë m’a aussi beaucoup marquée. Ce livre à la première personne est comme un fil rouge de l’existence. Il s’agit, là encore, de vivre une vie d’indépendance, sans domination. Ces modèles-là m’ont structurée.

Quels sont vos rêves de jeune fille ?

Enfant, je n’ai pas de désir précis, l’avenir est ouvert. Avec mes amies, mes cousines, il y a l’imaginaire de l’amour. Dans des lettres que j’ai écrites à 16 ans, j’ai une répugnance pour le mariage. A l’époque on n’imagine pas d’autre moyen pour être avec un homme. J’ai très tôt le sentiment que le mariage n’est pas autre chose que la fin quasiment de la vie. Peut-être est-ce l’influence de la lecture d’« Une vie » de Maupassant, qui m’a ébranlée. Je l’ai lu à 13 ans en cachette et j’ai été complètement bouleversée.

Est-ce qu’une envie professionnelle se dessine ?

Je sais que je ferai quelque chose. Ma mère m’a toujours rappelé qu’au cours élémentaire une religieuse lui avait dit : « Annie est un futur professeur. » Ça n’a pas manqué ! Dans les transfuges sociaux, les miraculés passent par là ; par un métier où il n’y a pas besoin d’avoir un héritage économique.

A partir de quand avez-vous cette conscience de classe ?

Elle n’est jamais formulée. Même dans mon journal intime. Elle relève de la sensation et de la certitude : j’appartiens à un milieu modeste. J’ai cette conscience de classe dans le choix des amies, dans la différence que je sens. Je sais tout ce qui me sépare de certaines d’entre elles et en même temps j’ai ce désir de connaître. C’est un monde qui me paraît merveilleux, parce qu’il y a la musique classique, celle que j’ignore. La musique est vraiment, à ce moment-là de l’adolescence, le signe excluant. C’est celui dont j’ai le plus envie de m’approprier.

Qu’est-ce qui vous manque le plus ?

Beaucoup de choses ! Mais ce n’est jamais de la jalousie sociale. C’est le sentiment d’un manque, d’une imperfection. Celui d’une injustice arrive beaucoup plus tard.

Quand arrive-t-il ?

Je ne l’ai pas ressenti en moi-même mais dans des situations. Quand j’ai fait ma communion au pensionnat catholique d’Yvetot j’avais demandé si ma cousine – qui, elle, était à l’école publique – pouvait venir. Le jour arrive, on est au mois de mai, elle a mis sa plus jolie robe et un manteau de fourrure en lapin. La directrice vient vers moi : « Où est votre cousine, je ne la vois pas ? » Je lui réponds : « Mais si, elle est là. » Le visage alors de la directrice… c’était du mépris. Je ne l’ai jamais oublié. Des histoires comme celle-là, j’en ai des tonnes. C’est la force des transfuges quand ils admettent qu’ils le sont : ils en savent beaucoup plus sur le monde social, depuis la position qu’ils occupent, que ceux qui sont d’emblée dans le monde dominant.

A quel moment vous avez ce sentiment d’avoir changé de classe sociale ?

Essentiellement en vivant loin de mes parents et en me mariant avec un garçon qui était de la moyenne bourgeoisie de droite.

Qu’est-ce qui change alors dans la vie quotidienne ?

Les sujets de conversation ; le fait de ressentir la condescendance de votre compagnon vis-à-vis de vos parents et de votre milieu ; les fameuses manières de table et, ce qui m’a tout de suite beaucoup frappé, cette assurance dans le monde dont j’étais complètement dépourvue. On a l’impression que le monde est fait pour cette classe dominante et qu’il leur appartient de droit, de fait. C’est aussi lié au corps : cette maladresse d’avoir un corps plébéien, le côté « la paysanne ».

Quelle est la première personne à qui vous parlez de votre envie d’écrire ?

A une nouvelle amie, que je rencontre lors de mon inscription en fac de lettres. En juin, alors que je suis reçue à la propédeutique, je me souviens d’écrire, en m’inventant un nom : « Anne Saint-Claire publiera son premier roman. » C’est très étrange. Par la suite, j’ai essuyé des refus justifiés. Les choses ne se sont pas passées de manière linéaire. La conséquence de ces refus, c’est la fuite dans la recherche d’une relation avec un homme. Puis une série de choses un peu dramatiques, tel que mon avortement. Finalement, je me retrouve mariée puis mère. Je ne peux pas écrire mais je ne cesse jamais d’y penser. Mon mari, Philippe Ernaux, a lu mon premier texte, avec des commentaires peu agréables. Après je n’ai jamais donné à lire à personne. Très vite, je me pose des questions d’écriture : il n’y a pas d’histoire à raconter. Ce n’est pas l’histoire qui compte mais ce qui était en jeu dans l’histoire. Dans ce qu’on a vécu, il y a quelque chose qui fait avancer la connaissance. Il y a plus en écrivant qu’en se rappelant.

Vous aviez « l’envie de visiter la terre entière ». L’avez-vous fait ?

Cette envie a été très vite canalisée par les nécessités de la vie. J’ai finalement voyagé surtout à cause de mes livres. Mais j’ai fait un voyage qui a été extrêmement important avec mon mari en 1972. J’avais 31 ans. Il était organisé par Le Nouvel Observateur (ancêtre de L’Obs) pour rencontrer Salvador Allende au Chili. Ce voyage a duré deux semaines. Grâce au contact avec les poblaciones, j’ai fait un retour extraordinaire sur mon enfance.

Pourquoi ?

Parce que je m’aperçois à quel point j’ai vécu dans un monde qui était proche parfois de ce que je voyais dans les poblaciones : le quartier ouvrier, la famille de ma mère où l’alcool faisait des ravages, etc. Surgit le sentiment d’avoir des choses à dire. Et puis, pour accompagner le groupe, il y avait un journaliste littéraire du Nouvel Obs, Jean-François Josselin. On discutait beaucoup avec lui. Je ne sais pas comment ni pourquoi j’ai livré mon secret : que j’avais déjà écrit un texte. En dehors de mon mari, personne ne le savait. Jean-François Josselin voulait que je lui envoie. Je lui ai promis de le faire. Mais je n’ai pas tenu ma promesse. Ce premier texte de 1962 était très foutraque. Je ne racontais pas la réalité, il n’y avait rien de social, c’était une forme que je cherchais. Finalement, j’ai commencé à écrire un mois après ce voyage au bout de la terre.

La politique vous a toujours intéressée

J’appartiens à cette génération qui a été nourrie des récits des guerres du XXe siècle. Dans la famille mais aussi en classe où ma prof d’histoire nous lisait « Les cloches de Nagasaki ». Et puis la politique, j’en ai entendu parler depuis l’enfance sous la forme de café du commerce. Dans le café de mon père. Et ma mère a toujours voté. Je l’ai accompagnée pour la première fois dans l’isoloir en 1945. Elle allait même assister au dépouillement. Je suis toujours en attente d’un profond changement. Je constate depuis plusieurs décennies un mouvement irrépressible de la société vers une sorte de repli. Il n’y a pas de réelle acceptation des autres. J’ai enseigné en collège à Pontoise entre 1975 et 1977. Je me souviens d’une classe de troisième qui était difficile, agitée. Nous avons eu des débats. J’ai encore en tête les discours déjà populistes d’élèves me disant : « Ma sœur n’a pas eu d’appartement HLM alors que des Arabes en ont eu. » On traîne la question du racisme depuis longtemps.

A quel moment avez-vous eu le sentiment plein et entier d’être écrivain ?

J’ai plutôt conscience d’un privilège, d’une chance de pouvoir faire quelque chose qui est – peut-être comme aurait dit ma mère – ce qu’il y a de plus beau. Je n’ai pas cherché à faire carrière mais à préserver la possibilité d’écrire. Cela devient très difficile d’ailleurs. Devant chaque livre à écrire, je ne suis rien, chaque fois c’est une lutte. J’ai réalisé ce rêve d’écrire et d’être publiée. Mais ce n’est pas le nirvana, le bonheur, ce n’est pas du tout ce que j’imaginais.

C’est-à-dire ?

Je n’imaginais pas que ce serait un tel engagement ; la forme presque mystique que prendrait l’écriture. Il faut y sacrifier beaucoup de choses : la vie sentimentale, un peu familiale aussi. Je ne suis pas une grand-mère très disponible ! Quand on prend le pli, c’est fini. L’existence est informe et vide sans écriture. Il ne s’agit pas de dire « pas un jour sans une ligne » mais d’être dans la recherche, d’avoir un projet et que tout se focalise autour de lui. Vivre avec un livre qu’il va falloir écrire. « Mémoire de fille », j’aurais eu une grande culpabilité si je ne l’avais pas fait. « La Place » aussi.

« Est-ce ainsi que les hommes vivent » : Vous vous êtes toujours posé cette question…

Oui. J’ai été immergée très tôt dans une communauté de gens. Vivre du matin au soir avec des clients d’une épicerie-café, sans intimité familiale ou presque c’était le sentiment d’être traversé, très tôt, par toutes sortes de conversations et de langages. Ensuite, changer de classe sociale, c’est-à-dire changer de monde, dispose à observer, à se poser cette question. Les clivages sociaux restent toujours très forts. La société française demeure une forme d’aristocratie avec ses fastes, son décorum, ses classements…

Quelle place a eu la religion dans votre vie ?

Une grande place. Tous les jours au pensionnat il y avait l’histoire sainte et les prières. Pour ma mère, l’important était d’avoir de la religion : une croyance en Dieu et se conduire conformément à une règle morale. Elle croyait en l’efficacité de la prière. Alors que lorsque ma sœur est morte de diphtérie, la prière n’a pas fait grand-chose. J’étais vraiment marquée par les sacrifices à faire et par la culpabilité sexuelle de ma première confession à l’âge de 7 ans : je m’accuse d’avoir eu des gestes indécents et je me prends une volée de bois vert du confesseur. Donc je comprends que je suis pratiquement damnée.

Qu’en reste-t-il ?

Il en reste ce qu’on pourrait appeler un hypotexte. C’est aussi comme un premier monde. Même si je suis persuadée que c’est le néant qui nous attend, je fais comme s’il y avait quelque chose qui devait être sauvé et dont j’étais dépositaire. Ce n’est pas mon âme, c’est ce que je fais. C’est très différent. On pourrait dire que la littérature ou l’écriture a remplacé Dieu, d’une certaine façon. Ou encore qu’écrire est la mission qui m’a été donnée.

Comment avez-vous vécu les attentats ?

Ce matin, à la radio, j’étais frappée par ce que disait très posément un jeune garçon sur France Inter : oui il y a de la violence mais pas autant que lors des grandes guerres précédentes ou qu’en Syrie. Ce n’était pas dit par passivité mais comme une sorte de ressenti de ce qu’est le cours de l’histoire. Le plus dur est d’essayer de comprendre et de savoir qu’on ne pourra pas comprendre au moment présent ; ce sera plus tard. Ce qui frappe aussi – et c’est terrible à dire – c’est la facilité avec laquelle on intègre ce qui arrive. Au lendemain des attentats de Bruxelles, dans le RER entre Paris et Cergy, un homme et une femme n’avaient que ouï-dire de ce qui s’était passé à Bruxelles. « Il me semble qu’il s’est passé quelque chose », disait la femme. C’était tout. Cette vie qui continue, cela m’a frappée. Ils n’ont parlé que de travail, de congés, d’enfants… C’était un jour comme les jours.

Propos recueillis par Sandrine Blanchard

 

(le Monde, 5/4/2016)

di Massimo Raffaeli

Ernaux, tu e io siamo un noi, piccola sorella morta
Annie Ernaux, «L’altra figlia», L’Orma editore. Un ricordo primordiale, fondativo, dà il la a una lettera in cui spiccano la «mancanza» e il senso collettivo dell’esistere

Sembra essere una scoperta recente o una caduta meteoritica quella di Annie Ernaux, la scrittrice normanna, classe 1940, che è arrivata all’attenzione dei lettori italiani con Il posto, un libro del 1983 splendidamente tradotto da Lorenzo Flabbi solo un paio di anni fa per L’Orma cui è seguita la versione di un capolavoro quale Gli anni, un romanzo corale o meglio un palinsesto epico che d’acchito liquidava ogni questione di fiction o non-fiction o docu-fiction. Perché quello era un libro capace di imporsi al lettore, di calamitarlo grazie a una scrittura letteralmente incomparabile, cioè a firma della stessa Ernaux eppure paradossalmente anonima nella esattezza e nella fredda incandescenza che, sola, tradisce lo stato di necessità.
Quando venne al Festival di Letteratura di Mantova a presentare Il posto (uno dei diagrammi autobiografici dove recupera la figura del padre, un ex operaio e poi piccolo commerciante senza studi né coscienza politica, quasi un vettore inconsapevole del Fronte popolare e della Francia repubblicana), Ernaux, bellissima e timidissima, nell’intervista in pubblico con Marino Sinibaldi disse che la sua poetica consisteva appena nel reporter au jour des histoires ordinaires e cioè nel dare alla luce storie del tutto comuni. Pochi allora rammentavano che già trent’anni prima, stralciati da una bibliografia che oggi annovera non meno di una ventina di volumi, erano usciti in Italia, e da importanti editori come Rizzoli e Guanda tra il 1988 e il 1996, i suoi maggiori testi d’esordio fra cui Gli armadi vuoti , Diario della periferia e Una vita di donna i quali godevano oltretutto di eccellenti traduttrici, Romana Petri per i primi due e Leonella Prato Caruso per il terzo. Ma era un tempo che non poteva essere se non ostile alla sua ricezione, nella marea montante del minimalismo, o cosiddetto, e nel trionfo di un professionismo (recupero dei generi e del mestiere più incallito) che presto avrebbe fatto della letteratura un puro indotto dell’industria culturale e dunque un genere, appena uno tra i molti altri, dell’infinito intrattenimento: ovvero un qualunque specchio di Narciso, oggi si direbbe un selfie illimitatamente replicabile e propagabile.
Ma Ernaux batteva in breccia tale metafisica, ignorava simili adescamenti, fedele a una materia prima così grezza da apparire impersonale, tanto ovvia (il proprio sanguinante vissuto, la trafila autobiografica) da sembrare banale e tuttavia incagliata nel profondo non di una esistenza solamente singolare ma sempre plurale, anzi universale: recensendo Il posto sul Corriere della sera il 23 marzo del 2014 Franco Cordelli disse infatti, e opportunamente, che nei suoi libri «non compaiono figure se non in un paesaggio e non vi è persona se non in una comunità». Perciò di che cosa parliamo quando parliamo dei «romanzi» o palinsesti di Annie Ernaux? Non tanto di una scrittrice travestita da sociologa, o viceversa, come pure in patria le è stato a lungo rimproverato (perché Ernaux è detestata dai Richard Millet e dagli Alain Finkielkraut, vale a dire da truculenti reazionari che si vorrebbero raffinati anticonformisti) quanto di una autrice il cui solo obiettivo è tradurre sulla pagina con nettezza e con obiettività qualcosa che sembra assente o che comunque quasi più nessuno è in grado di individuare: il legame sociale tra i singoli individui oggi mantenuto sottotraccia, spezzato, negato, infine ritenuto inesistente.
È stato già detto che il je, l’«io» equivalente al primo mobile della scrittura di Ernaux, corrisponde di fatto alla impassibilità di una terza persona singolare e di diritto alla coralità di una prima persona plurale di solito retorica e impronunciabile, il «noi». Ernaux non dimentica nemmeno per un attimo, mai, lo stigma della sua origine piccolo borghese e provinciale, il fatto di essere beneficiaria come insegnante e scrittrice di ciò che un suo maestro, Pierre Bourdieu, chiamava la «riproduzione sociale» operata dalla scuola laica, di incarnare in prima persona il tempo lungo della Francia repubblicana con gli annessi valori di libertà e uguaglianza, di portare sulla sua viva carne les manques che oggi la espongono, anziana, all’onda di ritorno neoliberale e alla progressiva distruzione delle stesse conquiste democratiche che un tempo le permisero di dire «io». Perciò la musa di Ernaux non è la memoria, affluente e appagante nella sua pretesa di totalità, ma piuttosto è la modestia del ricordo nella sua puntuale parzialità.
E un ricordo primordiale, fondativo, confessato come a latere rispetto ai suoi libri maggiori, è quello contenuto in L’altra figlia (L’Orma editore, pp. 81, euro 8.50) che esce nella al solito impeccabile versione di Lorenzo Flabbi. Per una volta la scrittrice passa dalla prima alla seconda persona, il «tu», e scrive una lettera inevitabilmente postuma alla sorella Ginette, morta a sei anni di difterite nel 1938, due anni prima che nascesse lei, di cui i genitori nulla le dissero mai se non indirettamente, per oscure allusioni o nel lapsus inavvertito con cui sua madre gliela rivelò, e una volta per sempre, come una bambina migliore e «più buona» di lei: «riporta le parole che le hai detto prima di morire: sto andando dalla Madonna e dal buon Gesù / dice mio marito è diventato matto quando ti ha trovata morta rientrando a casa dal lavoro alle raffinerie di Port-Jérome / dice non è come perdere il proprio uomo / di me dice lei non sa niente, non abbiamo voluto rattristarla / Alla fine di te dice era più buona di quella lì / Quella lì, sono io». Ancora una volta è un frammento del ricordo a ritornare in luce, un manque che chiede di essere colmato e interpretato ma, stavolta, non è il campo orizzontale della realtà esterna, l’ascissa, ad accamparsi sulla pagina ma è il filo verticale, l’ordinata, a dragare una profondità del tutto incognita e non meno dolorosa. Che cosa vive, tuttora, chi dice «io» al cospetto di quel «tu» immaginario e a tanta distanza di spazio-tempo? Qual è il senso della deduzione di un nome reliquato in poche foto o, semmai, di un fantasma? Si tratta di una naturale prosecuzione, di una tacita sostituzione dell’una con l’altra oppure di una vera e propria redenzione, di sé e dell’altra, per mezzo della scrittura?
Forse non è un caso che Annie Ernaux, la scrittrice più severa e oggettiva che si possa immaginare, al culmine della parabola sia voluta tornare alla parte più intima e dolente della propria soggettività. A al suo vuoto più assoluto, a una buia umidità che prima non aveva un nome. Come sentisse il bisogno di portare in luce, proteggendola con la scrittura, la cavità sottesa a una ispirazione che invece insegue corpi e cose in terza dimensione, sempre nel giorno pieno della realtà e nello stillicidio del tempo. È detto a un certo punto: «Sempre più, nello scriverti, mi sembra di incedere nel pantano di una landa spopolata come nei sogni, dove tra una parola e l’altra devo percorrere uno spazio riempito di una materia incerta. Ho l’impressione di non avere una lingua per te, di te, di non saper parlare di te se non attraverso la negazione, in un perpetuo non-essere. Sei fuori dal linguaggio dei sentimenti e delle emozioni. Sei l’anti-linguaggio». Ed è da questa introversione, che si sa impotente o arresa a priori, che Annie Ernaux è dovuta risalire per conquistare una parola che, in prima persona, alluda mutamente a un «tu» ma si rivolga a «noi».

 

(il manifesto, 5 giugno 2016)

di Gemma Pacella

 

«Dice Luisa Muraro: non c’è da proibire, ma da non sbagliare e se ci parliamo e ci capiamo, in primis tra donne e con gli uomini forse sbagliamo di meno». Con questo intento di dialogo e di confronto di idee, Katia Ricci avvia l’incontro alla Merlettaia di Foggia, lunedì 16 maggio 2016, intorno alla questione dell’utero in affitto, a partire dall’ultimo libro di Luisa Muraro, L’anima del corpo- contro l’utero in affitto, Editrice La Scuola.

La discussione, infatti, nasce dall’interesse di capire che cosa muove donne e uomini a usufruire della gestazione per altri e a mettere a disposizione il proprio corpo e che cosa ognuna/o considera essenziale per sé, come precisa Katia, e cresce lungo il filo del confronto tra posizioni diverse, ciascuna delle quali mette in luce l’aspetto che maggiormente colpisce tra i tantissimi che sono coinvolti da una questione come quella sulla maternità surrogata. Dunque, proprio a partire dalla varietà di definizioni date, utero in affitto, surrogata, Gpa … è chiaro che il punto non sia quello di rintracciare una visione universale e assoluta, bensì quello di ripercorrere quali non vanno dimenticati, se si ha a cuore la libertà e la rivoluzione che le donne hanno compiuto, per esempio la relazione materna, «primaria, fondante e fondativa» (Katia) di tutte le altre, che rischia di essere spezzata ad opera di un mercato neoliberista.

Ebbene, proprio quel patriarcato che il pensiero femminile ha abbattuto e superato, tenta sempre di ritornare sotto forme diverse e agendo sul continuum maternum e sul corpo delle donne. «Oggi il mercato risponde al desiderio di avere figli con i propri geni, basandosi su un sistema che comprende medici, cliniche, agenzie, avvocati e corpi di donne e che sostituisce e rimuove la relazione materna e, con lei, la ricerca di un nuovo senso della paternità che tanti uomini nel post patriarcato cercano, come ricorda Muraro».

«La maternità, dice Katia, è stata sempre nascosta o mitizzata, considerata il destino naturale della donna, e ora senza essere stata simbolizzata la si cerca di cancellare. Cresce la libertà? Non credo» e, soprattutto, ne guadagna il progresso umano? Apparentemente si direbbe di sì, ma più che di evoluzione nel caso di utero in affitto si può parlare di involuzione: i rapporti di forza che fagocitano la relazione, non solo corporea, con la madre alimentano un neo schiavismo.

A me, giovane donna, non madre, ciò che più interessa è la questione del desiderio e della surrogazione che vedo come fenomeno maschile e, ancora, la questione della libertà.

Prima fra tutti c’è la potenza e l’energia del desiderio, di cui parla la filosofa. Può capitare che quest’ultimo a volte sia oscurato, eclissato dal desiderio di qualcun altro/a. Io, infatti, in passato volevo a tal punto che le coppie omosessuali potessero avere le stesse chances delle coppie etero da aver vagliato l’ipotesi di essere d’accordo con la Gpa. Poi, però, mi sono chiesta: tu lo faresti? Ebbene, interrogare il mio desiderio mi ha allontanata dagli altri e mi ha riportata a me: no, non lo farei.

E allora ho capito che c’era qualcosa che non andava. L’anima del corpo ha funzionato da specchio: leggendolo ho ritrovato le mie fattezze, ho riconosciuto me e la mia fisicità e mi ha aiutata a tenere vivo il mio desiderio.

Mi sono chiesta: che cosa accomuna il desiderio di una coppia che intende avere figli/e e che ricorre all’adozione, con il desiderio di una coppia di avere figli/e e che, al contrario, ricorre alla surrogata?

Sono uguali questi desideri? Certamente per un verso si, sono entrambi desideri di avere una creatura. Inizialmente può sembrare che il desiderio più potente sia quello della seconda coppia che ricorre alla surrogata, così accecante da spingere i genitori ad avere una creatura “ad ogni costo”.

Tuttavia, a bene guardare il desiderio più potente è per me quello della coppia che ricorre all’adozione perché il loro desiderio “egoistico” (nel senso di incentrato sull’io e, dunque, singolare) si somma a quello di dare una famiglia e delle possibilità a quelle creature che non le hanno avute. Perciò è un desiderio molto più energico e creativo di quello che accompagna una coppia che ricorre alla surrogata e che, per questo, si soddisfa, si accontenta e si imbeve di un desiderio solo singolare, solo egoistico.

Ancora, altro passaggio su cui mi sembra molto importante riflettere è che la surrogata sia un concetto maschile. Cosa significa “surrogazione”, se non un “fare finta che sia…”, ovvero sostituire una cosa per un’altra fingendo che ci sia un legame materiale, fisico e personale tra il sostituendo e il sostituto che, invece, non c’è. La stessa assenza di materialità tra i due termini del confronto la ritroviamo nella metafora, che –come mi insegna Luisa Muraro- si differenzia dalla metonimia proprio perché quest’ultima, al contrario, recupera la materialità nella relazione tra i termini impiegati nel processo di sostituzione.

E questo gioco di figure retoriche mi porta a riflettere su di un dato essenziale: mentre la madre evoca la creatura su un piano metonimico perché l’ha portata in grembo, l’ha partorita, gli ha insegnato a parlare la lingua materna, mantenendo un rapporto personale, fisico e materiale costante, al contrario il padre evoca la creatura sul piano metaforico, ad esempio perché le ha dato un nome, ma non necessariamente sul piano personale. Dunque, per tornare al punto: la surrogata è maschile perché anch’essa come la relazione paterna si muove su di un asse metaforico e produce un rapporto tra sostituendo e sostituto immateriale che spezza il legame fisico e personale.

Ancora un punto: la libertà. E se una donna vuole sottoporsi alla surrogata? Se lo chiede esplicitamente anche Luisa Muraro: “Ma posso farne io una questione se loro ci stanno?”

Per me libertà è essere e non lasciarsi essere. Bene, nel momento in cui lascio che la mia libertà si esaurisca e si appiattisca e si accontenti di esprimersi nel desiderio di qualcun’altro, allora quella non è libertà.

Le riflessioni sulla libertà sono al centro del dibattito anche di chi, come Cornelia, rievocando le parole de L’anima del corpo la definisce somma di desiderio+possibilità+necessità, rintracciando, così, un parallelo tra desiderio e libertà.

Uno degli aspetti più interessanti del confronto è ascoltare molte delle donne presenti rievocare il loro percorso di madri e il momento della loro gravidanza, come Donata che, proprio partendo dai suoi ricordi, chiarisce che la questione dell’utero in affitto non può essere una questione di diritti e di principi, bensì una questione tra sé e le proprie sensazioni, il proprio corpo, il proprio desiderio. «quello che il nostro corpo prova non ce lo possiamo far scappare. I diritti non sono e non devono essere tutti eguali».

Si inseriscono subito i pensieri di quante non sono contrarie all’utero in affitto e mantengono una posizione a sostegno delle coppie omosessuali, pur chiarendo che sono soprattutto quelle maschili ad insistere per la Gpa, al contrario delle coppie omosessuali femminili che, spesso, non condividono tale pratica. L’immagine evocata da Maria Rosaria, presidente dell’Agedo, è quella di un uomo che, dopo aver ottenuto un figlio a seguito di surrogata, pareva aver instaurato con la creatura un rapporto che a lei è parso quasi materno. Si tratta di un’immagine dai contorni molto sfocati: «i maschi hanno imparato dalle donne la relazione con la creatura, l’hanno imparato per effetto dell’uscita dal patriarcato realizzata dal femminismo», osserva Katia.

Lina riflette sulla commercializzazione del bene: «Come si può passare da bene personale a bene patrimoniale; come può essere la surrogacy? Esercizio di libertà o condizionamento economico? Non posso convincermi che in nome di un malinteso senso della generosità, si rinuncia a qualcosa che è più grande del desiderio umano di diventare genitrici e genitori. Questo qualcosa, la bambina o il bambino, cresce e si nutre attraverso e nel corpo di una donna. Quella donna è la madre. Non può essere nessun’altra o altro. Quel desiderio, dunque, va al di là dell’umano e diventa, se realizzato, un bene patrimoniale e dunque commerciabile. Una prostituzione legalizzata».

Altro profilo, questa volta sottolineato dall’intervento di Gianpiero, è il rapporto tra l’umano e la tecnica e la ricerca del confine tra l’uno e l’altra. Dalla voce di un uomo, che parte dal chiedersi come reagirebbe se gli venisse impiantato un utero (risposta: molto male) e che nutre ancora forti dubbi sulla surrogata,  viene fuori l’invasione di un certo «stile proprietario» che si sta prendendo con la forza ciò che di naturale ci resta: voglio tutto e, evidentemente, lo voglio a tutti i costi.

Anche un giovane uomo, Raffaele, si interroga soprattutto sull’aspetto  della commercializzazione del corpo femminile che accompagna la questione dell’utero in affitto e sulla preoccupante vittoria del capitalismo, di fronte a cui nemmeno la politica della sinistra italiana riesce a contrapporre un muro: l’idea di potersi scegliere un figlio o una figlia «come si fa con i cani di razza», è il sintomo di una dipartita dei valori di civiltà che il neoliberismo sta fagocitando.

Clelia parte dal suo grande desiderio di avere figli, un desiderio assoluto, alto di maternità, e ora di avere nipoti, ma il nodo fondamentale è l’idea di libertà, perché dice: «sono scelte che bisogna fare con una grande idea di libertà, altrimenti si tratta di scelte al ribasso».

Adele, ricollegandosi alla questione già posta, chiede se qualcuna in questa assemblea si presterebbe a fare un figlio per qualcun altro e perché: «La  libertà femminile  mi sembra un altro punto che dovremmo riprendere a discutere perché c’è confusione e la confusione scaturisce dall’idea di parità con gli uomini, del faccio quello che mi pare. Per le cose che sono state dette oggi non vedo quale potrebbe essere per una donna il guadagno simbolico della maternità surrogata.

La libertà femminile è innanzitutto libertà dal simbolico patriarcale, è quella libertà che permette innanzitutto di sentirsi libera anche quando ci si trova in una condizione di sopraffazione. La donna che indossa il velo nella società islamica e che dice che lo fa per sentirsi libera ha ragione solo nella misura in cui sa che la sua libertà non è il velo o il burqua, che è lo sguardo maschile che deve cambiare e non lei a nascondersi».

Antonietta riafferma la necessità di continuare a discutere, di non chiudersi nelle proprie posizioni e, soprattutto, di preservare quel nucleo di civiltà di cui ci siamo già sapute e saputi prendere cura, in primis la sessualità.


(www.libreriadelledonne.it, 3 giugno 2016)

di Piera Oppezzo

La storia della mia persona
è la storia di una grande paura
di essere me stessa,
contrapposta alla paura di perdere me stessa,
contrapposta alla paura della paura.

Non poteva essere diversamente:
nell’apprensione si perde la memoria,
nella sottomissione tutto.

Non poteva
la mia infanzia,
saccheggiata dalla famiglia,
consentirmi una maturità stabile, concreta.
Né la mia vita isolata
consentirmi qualcosa di meno fragile
di questo dibattermi tra ansie e incertezze.

All’infanzia sono sopravvissuta,
all’età adulta sono sopravvissuta.
Quasi niente rispetto alla vita.
Sono sopravvissuta, però.
E adesso, tra le rovine del mio essere,
qualcosa, una ferma utopia, sta per fiorire.


 

Luciano Martinengo, amico della poeta e vicino a lei negli ultimi mesi della sua vita, ha da poco pubblicato il libro Piera Oppezzo. Una lucida disperazione (Interlinea 2016),  che raccoglie una selezione di circa 150 poesie scritte da Piera Oppezzo nell’arco di 50 anni, metà delle quali inedite e l’altra metà tratte da quattro diverse pubblicazioni.

Piera è stata protagonista delle grandi speranze di riscatto politico e femminista del decennio 1967-77, ma è stata soprattutto scrittrice e poeta. E alla scrittura, cui attribuiva un valore assoluto, ha dedicato l’intera esistenza. La sua poesia è un’esperienza impervia, un capogiro intellettuale, piacere raffinato per pochi.


(www.libreriadelledonne.it, 23/5/2016)

di Barbara Nogara

Elisabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, Trad. di Simone Buffa di Castelferro, Castelvecchi 2015 Euro 22

Elisabeth Gaskell, già acclamata autrice di Cranford, viene richiesta dal padre di Charlotte Brontë affinchè scriva la biografia della figlia scomparsa nel 1855. Elisabeth, cara amica di Charlotte, parte così sulle tracce di quanti l’avevano conosciuta; viaggia in Inghilterra e in Belgio, raccoglie materiale e notizie e trae dalle ricerche un importante insieme di lettere, colloqui, osservazioni, che ci restituiscono momenti della sua storia e del suo ambiente. Privilegiando gli aspetti più personali, Elisabeth Gaskell ricrea la vitalità e la profondità della grande scrittrice vittoriana, svelando i lati meno conosciuti del suo carattere tormentato e introverso.
Charlotte Brontë nasce a Thornton, Yorkshire, nel 1816, terzogenita fra cinque sorelle e un fratello; rimasti orfani di madre nel 1821 crescono con il padre Patrick Bronte, laureato a Cambridge, poi reverendo nella Canonica di Haworth, villaggio isolato nella brughiera. I bambini crescono indipendenti; sono dotati per il disegno e per la scrittura e per il teatro. Nel 1924 Elisabeth e Mary, le due figlie maggiori di 9 e 10 anni, messe a studiare al Clergy Daughters School moriranno a causa di una educazione e un trattamento crudeli; anche Charlotte e Emily di 8 e 6 anni, conosceranno la stessa scuola e ne usciranno a malapena. Charlotte studierà poi a Roe Head, da Miss Wooler; qui contrarrà amicizie con le quali intratterrà per sempre rapporti epistolari. In seguito studierà a Bruxelles. Le ragazze Brontë sono povere non particolarmente belle, un grande matrimonio non è certo possibile, la carriera letteraria non è sufficiente, è quindi necessario trovare un lavoro che le renda indipendenti. Charlotte sarà governante per molti anni. Segue anche la sua passione letteraria e nel 1847 riesce a pubblicare Jane Eyre; nello stesso anno vengono pubblicati Cime tempestose di Emily e Agnes Grey di Anne. Nel 1848 Il fratello, ottimo pittore misconosciuto, muore alcolizzato e oppiomane, nello stesso anno le sorelle muoiono di tubercolosi. Charlotte rimane sola alla canonica, dove il padre, malato agli occhi, è seguito e aiutato dal Curato Arthur Bell Nichols, che sarà per un anno solo suo marito, poiché lei morirà per un’infezione mentre aspettava un figlio. Sono di quel periodo la pubblicazione di Shirley e Villette.

(www.libreriadelledonne.it, 13 maggio 2016)

di Valentina Parisi

Svetlana Aleksievich, «Gli ultimi testimoni», da Bompiani. Gli ex bambini-soldato, intervistati decenni dopo dalla scrittrice russa, restituiscono faticosamente un’immagine dell’invasione nazista in cui il senso di perdita prevale su ogni griglia interpretativa

«In mezzo alla gioia di una nazione che ha pagato duramente il diritto di proseguire la costruzione del socialismo, c’è – tra tanti altri – questo buco nero: la morte di un bambino nell’odio e nella disperazione. Nulla, neppure il comunismo a venire riscatterà questo». Così Jean-Paul Sartre nel settembre 1962 in una lettera indirizzata a l’Unità aveva replicato alle accuse di vuoto preziosismo formale rivolte da Ugo Casiraghi all’Infanzia di Ivan, il primo lungometraggio di Andrej Tarkovskij, Leone d’oro quello stesso anno a Venezia. Incrociando le lame con chi aveva scorto nel film un mero tradimento estetizzante al canone del realismo socialista, il filosofo parigino dimostrava di averne colto appieno la profonda valenza eversiva, certo non riducibile al solo livello stilistico. La vicenda tragica dell’orfano dodicenne Ivan, staffetta partigiana ed esploratore per l’Armata Rossa, scardinava infatti la narrazione eroica della Grande Guerra Patriottica fino ad allora in auge, introducendovi temi scomodi ed eppure ineludibili come la dimensione traumatica dell’esperienza bellica e i costi sociali e umani del conflitto. Nel contempo, l’adozione di una prospettiva infantile, estranea alle categorizzazioni astratte dell’età adulta, consentiva una immersione panica nell’hic et nunc della guerra, spalancando un vero e proprio vaso di Pandora di immagini oniriche e spunti lirici difficilmente conciliabili con i cliché ufficiali.
Che il punto di vista dei bambini fosse la vera pietra d’inciampo sul tracciato di un discorso fossilizzato e unilaterale che nel corso dei decenni si era rivelato sempre meno in grado di includere i racconti dei protagonisti in carne e ossa, lo dovette intuire anche Svetlana Aleksievich, la quale nel 1985 diede alle stampe un intero volume costituito esclusivamente da frammenti di interviste con semplici cittadini sovietici che, all’epoca dell’invasione nazista, avevano dai quattro ai quattordici anni. Gli ultimi testimoni, ora edito da Bompiani nella traduzione di Nadia Cicognini (collana «Overlook», pp. 320, euro 19,00), prosegue idealmente la ricerca di uno sguardo differente sul conflitto, già intrapresa dalla giornalista bielorussa con La guerra non ha un volto di donna, tradotto sempre per Bompiani l’anno scorso da Sergio Rapetti. Volume che, oltre a un’indubbia contiguità cronologica (varie peripezie editoriali fecero sì che uscisse anch’esso nel 1985), condivide con Gli ultimi testimoni anche il presupposto secondo cui determinati soggetti – donne e bambini, per l’appunto – sarebbero estranei non solo all’altisonante narrazione mainstream elaborata dagli uomini combattenti e vittoriosi, ma anche alla guerra in quanto tale, in virtù di una loro, per così dire, fisiologica e innata immunità. Se quest’ultima asserzione, alla luce attuale del reclutamento di bambini-soldato in tante parti del mondo, può essere comodamente relegata nel novero delle pie illusioni, d’altro canto resta prezioso lo sforzo di Aleksievich di documentare l’ottica di coloro che, all’epoca, fronteggiarono la guerra completamente sprovvisti (o quasi) di quell’armamentario ideologico-concettuale che consentì agli adulti, bene o male, di conservare una parvenza di integrità psichica.
Al contrario infatti dei veterani che, come scrive Catherine Merridale nel suo Ivan’s war: Life and Death In The Red Army, erano in genere capaci di imporre un ordine alla propria esperienza bellica, articolandola in termini accettabili per se stessi e per gli altri, gli ex bambini ascoltati a distanza di decenni da Aleksievich retrocedono faticosamente al loro io di un tempo per restituire una immagine della guerra dove il senso della perdita totale di ogni punto di riferimento razionale o affettivo prevale su qualsiasi griglia interpretativa sovrapposta a posteriori.
Le pagine migliori del libro sono proprio quelle in cui la dimensione individuale del trauma riemerge in quella stessa allucinata gamma simbolica che spinse Sartre nel 1962 a coniare per L’infanzia di Ivan la categoria inedita di «surrealismo socialista». Contrassegnato da quelle scelte stilistiche che ricorreranno poi in tutta l’opera a venire della Aleksievich (su tutte, l’«invisibilità» dell’autore che si limita a orchestrare le voci raccolte), Gli ultimi testimoni risulta particolarmente convincente proprio in virtù del contrasto tra l’esemplarietà delle situazioni che si ripresentano pressoché invariate da un intervistato all’altro e l’unicità dello sforzo necessario a ognuno per articolare il proprio dramma privato. Malgrado il ripetersi di motivi onnipresenti (il primo giorno di guerra, la partenza del padre per il fronte, l’allontanamento dall’ambiente domestico, la morte di uno o di entrambi i genitori), l’evento traumatico attorno al quale ruota ciascun racconto non può infatti che restare strettamente individuale. Da qui la potenza spesso lancinante di questa sequenza di voci che non si compongono in un coro, ma interrogano singolarmente lo spazio vuoto della perdita e del lutto secondo una modalità cui allude anche il sottotitolo dell’edizione rivista del 2007, «Assoli per voce bianca».
Il lutto non si identifica qui solo con la scomparsa delle persone care, bensì anche e soprattutto con la perdita di una parte di sé, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato – in una parola cioè dell’innocenza. La cesura incolmabile che la guerra introduce tra il «prima» e il «dopo» acquista una sua particolare pregnanza nelle tante storie degli orfani traumatizzati che hanno dimenticato il loro cognome o, addirittura, il loro nome. «Nella nostra casa per l’infanzia c’erano undici Tamara: Tamara Ignota, Tamara Sconosciuta, Tamara Anonima, Tamara Grande e Tamara Piccola. Così le avevamo chiamate». Oppure: «Venticinque anni dopo la fine della guerra ho ritrovato la mia unica zia sopravvissuta. Mi ha chiamata con il mio vero nome e per tanto tempo non sono riuscita ad abituarmi. Quando mi chiamavano, non rispondevo». Se l’oblio preserva dal trauma, d’altronde rende anche impossibile ricongiungersi con il proprio io di un tempo: sintomatica è, per esempio, la storia del bambino che non riconosce più il padre tornato dalla guerra e, sconvolto dalla sua improvvisa apparizione, è costretto ad accertare sui documenti l’identità di quell’«estraneo».
Altrove, il ritorno alla normalità sembra, almeno apparentemente, più agevole e si lega in genere alla riscoperta dell’esperienza del gioco, a volte con gli oggetti «nemici» che i padri portano a casa come trofeo dalla Germania («Non riuscivo a capire come potessero essere tanto belli i giocattoli tedeschi»), ma più spesso con granate inesplose trovate per terra che conservano intatto tutto il loro oscuro potenziale distruttivo. La stessa illimitata immaginazione che aveva permesso ai bambini di credere di essere in grado di sfuggire alla guerra, trasformandosi in animali e acquattandosi nei boschi, si ritorce paradossalmente contro di loro in tempo di pace. Lo dimostra il racconto del piccolo Dima, che ha paura di vedere i trattori del kolchoz diventare di colpo carri armati ed esplodere, solo perché sono fatti del metallo fuso dei rottami bellici. Resta incancellabile, anche a distanza di anni, il senso di una minaccia sempre imminente. Dalla guerra, come da un cerchio magico, non si esce, ed è questa consapevolezza a proiettare gli ultimi testimoni di Aleksievich nel tempo eterno e universale del mito.

(il manifesto, 8 maggio 2016)

di Marco Missiroli

La casa di Annie Ernaux sovrasta il paese vecchio di Cergy-Préfecture, una cittadina in espansione a 40 minuti di RER da Parigi. Dal 1975 l’autrice francese abita in una villetta con ampio giardino dominato da una magnolia imponente.

All’entrata vegliano due gatti, Sam e Zoe, che ci seguono fino al soggiorno affacciato sull’arcipelago di stagni e sul fiume Oine. La luce entra dalla grande finestra e riverbera sul tavolo circolare dove avverrà l’intervista. È un luogo accogliente e semplice, dal silenzioso assoluto. In fondo, poco prima degli scaffali di libri, c’è la porta che conduce allo studio: è aperta e lascia intravedere la scrivania su cui la Ernaux lavora ogni giorno, quasi sempre di mattina.

È un ripiano antico, spoglio ma curato, con una sedia appena scostata. Qui hanno preso forma quasi tutte le diciannove opere della scrittrice francese, tra cui Il posto, che la fece conoscere in Francia nel 1983 vincendo il premio Renaudot e che l’ha imposta in Italia nel 2014. La consacrazione d’Oltralpe avvenne con Gli anni, memorie intime e collettive dell’epoca del dopoguerra fino ai giorni nostri, pubblicato nel nostro paese l’anno scorso.

All’Orma editore e al suo traduttore Lorenzo Flabbi va il merito di aver riportato in Italia la narrativa della Ernaux, di cui sarà pubblicato a maggio L’altra figlia, una lunga lettera dedicata alla sorella morta e mai conosciuta. In Francia è appena uscito Memoire de fille, acclamatissimo da critica e pubblico, in cui la Ernaux racconta il primo vero incontro con un uomo, a diciotto anni, segnato dalla violenza sul corpo e dal principio controverso del desiderio.

Nel 1983, quando Gallimard pubblicò Il Posto, la Francia scoprì la sua voce narrativa inclassificabile e dirompente: non era una romanzo ma uno scritto autobiografico dedicato alla memoria del padre, condotto con una lingua misurata all’osso, senza traccia di sentimentalismo e con l’occhio chirurgico di una narratrice che non temeva la memoria.

Il posto è un libro pensato per sette anni e abbozzato come un romanzo. Ma qualcosa non andava, così per molto tempo ho sempre ricercato la voce giusta per raccontare mio padre e la mia famiglia, attraverso gli occhi di una figlia che si prendeva il lusso della distanza. Distanza come sguardo necessario per riportare ciò che è stato. Così ho tenuto l’incipit e ho riscritto queste cento pagine che tentavano di riparare una famiglia. È il libro della riparazione, dedicato alla generazione di uomini che non è riuscita a studiare e ai loro figli.

Dirò una cosa terribile, io che non credo più a nessuna forma di religione: è un’opera che deve molto alla figura di Cristo, intesto come sacrificio, come percorso di conoscenza, come simbolo degli uomini; proprio come mio padre, che viene spogliato della regalità genitoriale per essere visto dalla propria figlia per ciò che è. Si avvera una sorta di umanizzazione laddove poteva esserci l’idealizzazione. Ho impiegato nove mesi a riscriverlo e a rispettare un unico imperativo: scrivi solo ciò che sai.

L’invenzione diventa così un surrogato narrativo. Tutto ciò che non è esistito non va raccontato. Ma tutto ciò che è esistito e che viene scelto, viene raccontato per conoscere meglio se stessi.

Viene raccontato per far esistere. La differenza è questa: io scrivo per cercare di dare esistenza a ciò andrebbe perso. Non è solo un’opposizione contro l’oblio o la morte, è piuttosto un modo di domare il tempo.Domare il tempo, è questo. Se penso all’opera di Proust, che è stato il grande mattatore temporale della letteratura, si potrebbe dire che l’epoca storica della Recherche fosse messa da parte a favore dall’epoca interiore del suo autore, a parte qualche eccezione. A me interessa che l’Io sia legato al Noi, e che ci sia un legame indissolubile tra collettività e individualità attraverso la presenza della Storia.

Gli anni è stato scritto con questo intreccio tra intimità personale e collettiva. Non è un romanzo ma in qualche modo lo è, e la sua forma ibrida ha riconcepito un nuovo connotato narrativo. Emmanuel Carrère l’ha definito “un grande libro che ti fa invadere di ammirazione”.

Ringrazio Carrère che non conosco di persona e di cui ho letto tutto. In qualche modo lavora anche lui sulla Storia, seppur con un Io che entra ad armi pari nelle vicende esteriori e nei suoi protagonisti. Negli Anni la prima persona singolare e la prima persona plurale dovevano avere lo stesso peso, la difficoltà era questa simmetria.

Così ho iniziato a lavorare per immagini, avevo dei frammenti in mente, brevi suggestioni che hanno segnato la mia crescita e quella di una generazione, che poi sono diventati le prime pagine del libro. Il dubbio era come avrei potuto renderli sia intimi che collettivi: non afferravo il registro, per cui ho iniziato ad annotare una cronaca precisa di questa metamorfosi – la Ernaux si alza e va nel suo studio, torna con un libro ciclamino intitolato L’atelier noir, lo sfoglia e legge – “Le immagini spariscono nella mia mente con la sensazione di disgusto che io non abbia trovato la mia voce. Più scrivo e più mi accorgo dell’esistenza di un’altra voce che, come nei sogni, io non arrivo ad afferrare”.

Questa confessione è datata 2002 ed è uno degli ultimi dubbi prima che io iniziassi il libro, la prima riflessione l’avevo annotata nel 1982: significa che Gli anni è rimasto incubato più di un terzo della mia vita. La scrittura è stata relativamente breve rispetto a questa fase di ricerca estenuante.

Quasi un decennio per Il Posto, il doppio per Gli anni: in ogni sua opera il lavoro di concepimento è sempre così lungo rispetto alla fase di scrittura?

È come se la fase dell’invenzione venisse sostituita dalla riconquista del reale che è stato. Per riuscire a catturare quel passato e farlo diventare presente, serve un’attesa. E serve tempo per renderlo semplice nella scrittura. Anche adesso che sto per lavorare a un nuovo libro mi sono accorta che lo sto concependo dal 2010 in totale raccoglimento. È necessaria una protezione in cui tutto deve essere sedimentato, segreto, per poi essere riproposto per come è stato vissuto. Niente di più. In questo senso le parole sono fondamentali: les mots justes è ciò che voglio.

Sento che c’è una sola parola adatta, sento che quella parola deve essere trovata e usata per quel concetto. Poi mi rileggo e di alcune frasi sono soddisfatta mentre altre le trovo sbagliate, seppur una volta le avessi trovate appropriate. Posso rimanere dei mesi ad aggiustare e non permetto mai a nessuno di toccare i miei libri, a parte piccolissimi interventi. È un processo che passa prima da appunti, poi da una scrittura a mano e infine al computer. In testa ho sempre lo scopo di far affiorare una vicenda che valga la pena far rivivere, nel modo io l’ho assorbita: questa è l’ossessione che mi occupa dal risveglio all’atto della scrittura e anche dopo, sempre. L’unico momento in cui sono più tranquilla è quando faccio del giardinaggio o quando vado all’ipermercato.

Per questo ha pubblicato in Francia Guarda le luci amore mio, in cui racconta il rituale collettivo e intimissimo della spesa. Nemmeno questo sfugge alla scrittura?

Niente sfugge alla scrittura. Anche un ipermercato, dove per me poter osservare le persone è allo stesso tempo narrazione e disimpegno da essa. Il consumismo mi annoia, la moda mi annoia, mi interessa veder gironzolare le persone che scelgono, comprano, mostrano davanti agli scaffali molto di più di quello che credono di mostrare. Questo vedere è già scrivere, in qualche modo. I grandi negozi sono il luogo in cui le parole mi danno tregua perché sono già parole.

Non c’è stato un momento in cui non abbia lottato per difendere. Ho lavorato per dieci anni come insegnante al liceo e per ventitré anni ho preparato corsi per corrispondenza, in più avevo due figli, ho sempre convissuto con un moto di allarme verso la scrittura che poteva sfuggire. Il supermercato è un rituale che mi riportava al pensiero narrativo e alla realtà consumata di cui avrei potuto scrivere. Perché in fin dei conti io non ho mai un’idea improvvisa che mi fa dire “Ecco, l’ho trovata”, ma ho bisogno di questi spazi minori dove poter far confluire una totalità.

Lo spazio minore, dove l’ordinario diventa di colpo rivelazione. Come nell’Altra figlia quando racconta l’attimo in cui ascolta furtivamente sua madre parlare di una bambina: è sua sorella, morta prima che lei nascesse e mai nominata in famiglia.

Eravamo a Yvetot, era il 1950. Avevo dieci anni e mia madre stava parlando con una vicina di casa mentre io giocavo con un’amica. Per un attimo il mio orecchio è andato ai loro discorsi e io ho sentito questa frase: “Lei era più gentile di questa qui”. Mia sorella era morta di difterite due anni prima che io nascessi, nessuno in famiglia me ne aveva parlato. Nessuno la menzionava mai, anche sei io sapevo che qualcosa c’era. Ascoltare mia madre mi ha rivelato che mia sorella “gentile”era la santa, mentre io non potevo che essere l’altra figlia, quella cattiva. La figlia di cui accontentarsi, la figlia terrena. La figlia che assisteva a un processo di beatificazione famigliare e che avrebbe convissuto con l’ombra. Questo libro ne è il frutto, ed è una lettera aperta a mia sorella a cui finalmente posso dire “Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io scriva”.

La morte dell’altro non come mancanza, ma come impeto. È un ribaltamento durissimo dello sguardo. Forse comincia qui la sua misura estrema nella scrittura e nell’emotività narrata.

Non si possono provocare volontariamente le emozioni. Scegliere cosa raccontare e raccontarlo come è, nel modo giusto, rimane tutto ciò che serve al lettore. La distanza dal libro che si sta scrivendo è necessaria per il libro stesso. Mentre L’altra figlia prendeva forma io provavo un grande amore per mia madre, anche se nel libro questo non traspare. Lo stesso accadeva per Il posto, lo sforzo controverso è allontanare il padre mentre si scrive del padre. E c’è un’altra cosa: mentre scrivo non penso a chi leggerà il libro, se qualcuno dei miei familiari o chissà chi, non ci penso mai. Perché non si può misurare l’eredità, tantomeno questa eredità deve alterare il processo creativo. Anche in Memorie de fille in cui tento di ricostruire il passaggio di una giovane donna attraverso una violenza fisica, non rivedo il passato autobiografico con collera o partecipazione: è il passato e io lo riporto al presente con il peso del presente. È un rituale laico di salvezza che la scrittura può permettersi.

Laicità della scrittura e dell’esistenza, anche se Dio entra nei suoi libri attraverso i credenti che le sono intorno, a partire dalla sua famiglia di origine.

Sono cresciuta con un’educazione monumentale al cattolicesimo. I miei figli non sono battezzati e io non pratico. In questo ho una formazione simile a Emmanuel Carrère, e sono d’accordo sul suo motto: “Non sono abbastanza credente per essere ateo”. Ma bisogna fare attenzione anche a definirsi laici perché anche questa dimensione è diventata estrema, soprattutto in Francia dove ha assunto un connotato religioso. L’attacco ai musulmani è avvenuto in modo massiccio da questa fronda, come fosse una guerra di religioni. La letteratura deve sfuggire a questa categorizzazione, facendo ciò che deve.

Cosa deve fare la letteratura, Ernaux?

Sbarazzarci delle ombre. E mettere via un po’ di vita, salvandoci dalla sparizione futura. È già questa la salvezza. Non voglio concentrarmi su una fede, non voglio strizzare l’occhio al lettore, non posso concepire opere che vadano incontro all’opinione pubblica come ha tentato di fare Houellebecq con Sottomissione, che ho deciso di non leggere più anche per come tratta il corpo femminile.

Scrivere, senza pensare a cosa diranno gli altri: è questo che chiedo. Scrivere nel silenzio della mia casa, sola, per lottare contro la lunga vita dei morti.


(la Lettura – Corsera, 28/4/2016)

di Ida Travi

 

Una carnosa assenza. Così si esprime Giancarlo Majorino parlando della poesia di Piera Oppezzo: un rotolo, un messaggio. Riportata all’attenzione dalla poeta Maria Pia Quintavalla con la nuova rubrica della rassegna Donne in poesia, dedicata alla riscoperta di autrici italiane del secondo novecento rimaste in penombra, la figura di Piera Oppezzo è segnata dall’assenza. A pochi anni dalla scomparsa esce per Interlinea Una lucida disperazione (pp. 216, euro 14), selezione di poesie scritte tra gli anni Cinquanta e il 2009.

La raccolta è a cura di Luciano Martinengo, con prefazione di Giancarlo Majorino. Ora, per comprendere la parabola poetica di Piera Oppezzo sono necessarie alcune premesse. Piera Oppezzo nasce a Torino nel 1934 in una famiglia di modeste condizioni e impara subito un mestiere: cucire, cioè abilità della mano che ha a che fare con la stoffa. Sarà poi dattilografa alla Rai, dove praticherà quell’altra abilità della mano, e primo impiego per donne anni ’50, che ha a che fare con fogli A4 e macchina Olivetti: cioè, finalmente, la scrittura. Nel ’66 esce per la collana bianca Einaudi la raccolta poetica L’uomo qui presente. Sì, a quel tempo poteva accadere che un grande editore pubblicasse una dattilografa, anzi, era una possibilità già dichiarata già in quarta di copertina, là dove si rintracciava quel ‘codice di verità’ che rendeva un libro autenticamente poetico: aleggiava in quelle poche righe una critica precisa al linguaggio che in quegli anni andava dissolvendosi in un ‘codice senza verità’ che trasformava la scrittura in esperimento.

Calata nel suo tempo, Piera Oppezzo affronta il linguaggio da persona mite, ma coltiva in sé una postura forte, resistente, oppositiva per giustizia. La sua vita lo dimostra: impegnata politicamente si sposta a Milano, è militante extraparlamentare e femminista. Mentre corregge bozze per Feltrinelli partecipa all’occupazione della storica casa di Via Morigi 8 quando ormai è in piena attività di scrittura: autodidatta, è vero, ma intanto ha pubblicato per Geiger, Nuovi Argomenti, La Tartaruga, Manni Editore, ha tradotto Khalil Gibran, Jules Renard, Gisèle Freund. Piera Oppezzo non ha mai cercato il consenso, non ha mai cercato neppure un lavoro fisso: a lei bastava vivere di  poco o niente. Oltre al nutrimento, le bastava avere quel che serviva per comprarsi tabacco e rollare le sue sigarette.

Era minuta: una presenza ipotetica, diceva di sé, “niente di importante”. Importante per lei era la scrittura: erano anni in cui saltava la punteggiatura, scomparivano gli articoli, e il testo si faceva sempre più oscuro. Parallela ma distante dalle tendenze che hanno attraversato il secondo Novecento, Oppezzo rivendica la sua solitudine come posizione accanto, salvando così la sua precisa voce. L’intimità con qualcuno / non fa altro che correggere l’isolamento. / Smorza i suoi abbagli verticali.

Ora Una lucida disperazione, prima pubblicazione postuma, è una doverosa ricognizione di senso. È un libro di testi selezionati in sette sezioni, dai primi Gli anni di Torino, fino agli ultimi scritti del 2009. La raccolta si dà come una precisa dichiarazione d’intenti: La poesia, un’estetica di vita. Sono chiari i passaggi: dalle tenere poesie degli anni ’50 al salto stilistico di L’uomo qui presente, per la bianca Einaudi nel ’66, alle poesie edite da Geiger con Sì a una reale interruzione, nei cui versi con potenza compare il vivente. Il vivente nella poesia di Piera Oppezzo non appare come umano ma come fenomeno, ed appare confuso. Il vivente osservando il troppo/ confonde i gesti, confonde le Grandi speranze degli anni ’70 e ’90, fino ad atterrare nel terribile verso: mi piegano con un ordine.

Ed ecco la sezione successiva Andare qui, come fosse l’indicazione di un percorso, e la sezione Mestieri, in cui si oscurano vista e soffitto. Quali mestieri?… un mestiere è scrivere, e il soffitto? Il soffitto, dice Oppezzo, è soltanto la nostra palpebra. Sì, c’è buio intorno, ma nei versi scritti sul finire dei suoi anni Oppezzo mostra una schiarita: L’annuncio che il mondo c’è non smette di abbagliare. / C’è. C’è. C’è. Non puoi / Non puoi che sbalordire. Difficile collocare Piera Oppezzo nel panorama poetico del secondo Novecento. Difficile pensare per lei una definizione che non sia sviante o restrittiva: il ‘ritornare’ mi è estraneo. Nella Milano poetica, Piera Oppezzo sembra un essere attaccante in posizione di difesa, sta lì, accampata nella sua solitudine.

E rifulge nei suoi versi quella mancata felicità, quell’estraneità per cui  poesia è un’espressione ‘basata sui concetti e non sul sentimento’. In Le strade di Melanchta Oppezzo è lapidaria: non è vero che non c’è nessuno / ci sono io ho capito / mi state inseguendo. Ben poche poete erano visibili in quegli anni, per molte di loro poesia è stato un passaggio in trasparenza: L’assenza è con me / io sono l’assenza. Ma a questo serve l’attenzione postuma: rimette in luce scrittura e persona. Sì, alcune luci si sono accese sulla poesia di Piera Oppezzo: … e siccome io ci vado sempre dietro alle barricate succede che ci trovo qualcun o/ lì accucciato…Un uomo, una donna, un essere. È il vivente.

 

(il manifesto, 22 aprile 2016)

di Clara Jourdan

A chi si sente scoraggiata o scoraggiato dalle difficoltà nel fare politica oggi, quando per esempio un presidente del consiglio si può permettere di dire di non andare a votare a un referendum popolare, consiglio la lettura del libro Suffragette (Castelvecchi 2015), da cui è stato tratto il film omonimo di Sarah Gavron (recensito in questo sito da Silvana Ferrari e da Laura Milani).

Suffragette, così anche nell’originale inglese che riprende la rivista The Suffragette, ha come sottotitolo La mia storia (My Own Story), ed è l’autobiografia politica di Emmeline Pankhurst (1858-1928) e del grande movimento femminista inglese che tra fine Ottocento e la prima guerra mondiale ha lottato per il voto alle donne, senza averlo ottenuto al momento in cui la scrittura del libro si conclude, nel 1914, quando «al primo allarme di guerra le militanti proclamarono una tregua». Un racconto «scritto sul campo della battaglia» (p. 213) che sorprende pagina dopo pagina con la storia di quella lotta coraggiosa e fantasiosa che ha coinvolto migliaia di donne e che ci viene presentata nei dettagli, nei suoi episodi a volte divertenti e più spesso duri ma sempre descritti con lucidità. Man mano che si procede nella lettura, si resta sempre più colpite dall’intelligenza, dall’inventiva e dalla tenacia con cui quelle donne combatterono per anni senza farsi demoralizzare dalla violenza e dalla irremovibilità maschile. Ma non è solo per questo che consiglio il libro, un gran bel libro davvero. Bello e interessante, anche per chi si occupa di diritto costituzionale inglese, grazie alla competenza con cui le militanti si muovevano nei confronti delle istituzioni.

Suffragette è ricco di elementi preziosi per la nostra riflessione politica di oggi. Impossibile rendere conto di tutti, il libro va letto, ne segnalo tre che mi hanno particolarmente sollecitata:

1- L’importanza delle relazioni tra donne di diverse generazioni, che qui si combina anche con la relazione madre-figlia. Tali relazioni, e in particolare quella tra Emmeline e la sua prima figlia, lei stessa diventata leader del movimento, sono state cruciali: «Un giorno Christabel mi stupì con una considerazione: “Da quant’è che voi donne tentate di ottenere il voto? per quanto mi riguarda, ho intenzione di prendermelo”. […] Io e le mie figlie ci impegnammo a cercare un modo di dar vita a quell’unione di giovane e vecchio che avrebbe suggerito metodi nuovi, indicato nuove strade. Alla fine fummo convinte di aver trovato quel modo» (p. 31). Nel 1903 decisero la separazione dagli uomini e dai partiti politici e fondarono la Women’s Social and Political Union (Wspu), una svolta verso quell’agire in prima persona e con forza che lo ha reso un movimento senza precedenti.

2- La questione delle pratiche di lotta. Nel libro si vede che è stata una questione attentamente studiata, anche riflettendo sui risultati ottenuti da altri movimenti storicamente vincenti. Da qui la convinzione della necessità di un crescendo di uso della forza man mano che i metodi adottati si dimostravano inefficaci: dai «mezzi costituzionali» (petizioni e delegazioni) al «metodo della persuasione» (disturbo dei candidati ai comizi), a «più aggressive forme di militanza» come «l’argomento delle pietre» (p. 143, per esempio rompere i vetri delle sedi dei ministeri), fino ad arrivare, nel 1913 (il periodo rappresentato nel film), alla «continua, distruttiva guerriglia contro il governo attraverso il danneggiamento della proprietà privata» (p. 186). Cose che stupiscono oggi, si sente una distanza culturale, ma queste donne differenti da noi che abbiamo fatto un altro percorso mi fanno capire una cosa molto importante per come pongono la questione, in termini di efficacia e di responsabilità, non di violenza o non violenza. Questo perché si tratta di donne: quando viene usata la violenza, è sempre e solo verso le cose, mai verso le persone, «stando comunque attente a non colpire nessuno» (p. 107). «La politica della Women’s Social and Political Union non è mai stata e mai sarà tanto incosciente da mettere in pericolo la vita umana. […] Non è il metodo delle donne» (p. 177). Possiamo dire allora che l’alternativa tra violenza e non violenza fa parte della questione maschile; infatti la non violenza è stata pensata per gli uomini, che ne hanno bisogno per non uccidere, ed è un errore assumerla da parte delle donne. La differenza sessuale va sempre considerata.

3- La valutazione dei risultati. Il voto veniva sempre rifiutato, ma il movimento continuava a crescere e si allargava il consenso popolare. Sembra incredibile che dopo tutti quegli insuccessi (la legge sul voto arriverà solo nel 1928) di una lotta costata grandi fatiche e sofferenze non si siano arrese ma anzi abbiano ogni volta rilanciato. In uno degli ultimi processi in cui era imputata, la Pankhurst spiega «alla giuria le ragioni per cui le donne avevano perso la fiducia nella legge e stavano conducendo questa lotta per diventare loro stesse promotrici di leggi. […] Siamo donne convinte che questo è l’unico modo che abbiamo per conquistare il potere di cambiare quelle che per noi sono condizioni intollerabili, condizioni assolutamente intollerabili» (pp. 194-195). Ma più ancora della determinazione di queste donne, colpisce la resistenza del «cieco e ostinato governo inglese» (p. 213) nel rifiutare loro il voto senza argomenti e con ripetute false promesse, e l’accanimento con straordinario dispendio di uomini e mezzi e leggi (come il “Cat and Mouse Act” appositamente concepito per loro) con cui perseguivano le militanti: «Come mai la sanguinaria militanza degli uomini viene applaudita [si riferisce ai ribelli dell’Ulster] e la simbolica militanza delle donne punita con la galera e l’orrore dell’alimentazione forzata?» (p. 179). Evidentemente c’era in gioco qualcosa di molto molto importante anche per gli uomini. Nel potere di legiferare, che oggi a un secolo di distanza e con l’esperienza di un’altra grande stagione femminista cominciata cinquant’anni dopo sappiamo essere importante ma non così decisivo per le donne, si concentrava infatti il simbolico del conflitto tra i sessi nel mondo moderno. Un conflitto che «la rivoluzione delle donne», come titola l’ultima parte del volume, ha portato a una vera rivoluzione nel rapporto tra i sessi nella vita pubblica. Una rivoluzione che quelle donne sentivano essere vincente, pur nella sconfitta delle battaglie e nei costi umani eccessivi. Lo si capisce dalla spregiudicatezza priva di illusioni con cui ragionavano sulle risposte da parte dei loro avversari, gli uomini del governo, che facevano di tutto per negare il voto ma ormai avevano paura, avevano perso la tranquilla sicurezza di essere nella loro secolare istituzione del tra uomini, diventata una roccaforte espugnabile. E lo si capisce dalla forte coscienza di sé e delle relazioni tra donne che si sviluppavano in questa lotta e che stavano portando un profondo cambiamento nella cultura e nella società, di cui un riflesso visibile era nelle ali di folla che accompagnavano, appoggiandole, le dimostrazioni del movimento, e nei giornali che raccontavano i fatti in modo sempre più favorevole alle donne.

Il libro si conclude con parole di fiducia nel futuro, e con ragione: quelle donne avevano cambiato la politica contemporanea, introducendovi la libertà e la forza femminili.

(www.libreriadelledonne.it, 21 aprile 2016)

di Marco Aime

Un libro coraggioso, questo di Clara Gallini (Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia, Nottetempo), non solo perché affronta con sorprendente lucidità il percorso di una malattia, la sua, ma anche per come lo fa. Ci vuole un certo coraggio, oggi, a scrivere: “Ora sono vecchia – una parola che non usa più, resa orrorosa da quel linguaggio renziano che esorta alla rottamazione di quanto non sarebbe giovanile. Vechia e malata…”. In un’epoca in cui la cosmesi lessicale tenta in ogni modo di fare scomparire la vecchiaia, esorcizzandola attraverso eufemismi e slogan vincenti, ammettere (e accettare) con chiarezza la propria condizione è atto coraggioso.

E lo è anche il cercare di reagire al male e alle terapie invasive tentando di trasformare l’intero sistema terapeutico in un campo di osservazione per chi come lei, ha trascorso la vita “osservando e partecipando” come fa ogni antropologo. Allieva di Ernesto De Martino, Clara Gallini diventa, in questo ultimo lavoro, osservatrice partecipante di se stessa e dell’apparato umano, tecnico e simbolico che è la medicina, raccontandoci la storia di un corpo malato. Se Malinowski, padre dell’osservazione partecipante, cercava di “cogliere il punto del nativo”, l’autrice in questo suo percorso si sdoppia interpretando tanto il ruolo dell’osservatrice quanto quello del “nativo”, dell’osservato. Un viaggio nella malattia visto dal di dentro, ecco cosa emerge da questo racconto.

Nonostante la gravità del caso, Clara Gallini riesce a non perdere mai il senso dell’ironia, che emerge già dal titolo del libro e che pervade l’intera narrazione, riuscendo a rendere meno angoscioso il racconto, senza per questo rinunciare alla profondità.

La vecchiaia è in qualche modo solitudine, ma anche sempre maggiore attaccamento a cose e abitudini che ci hanno accompagnato nella vita. Le abbiamo conservate, ripulite, messe in un certo posto e così, quando le ritroviamo in ordine diverso, come accade all’autrice quando ritorna a casa dall’ospedale, ci pervade un senso di spiazzamento, di estraneità nel confronto di uno spazio che è il nostro, ma che per qualche motivo non lo è più del tutto. Poiché come scrive Clifford Geertz “vedere il mondo in un granello di sabbia non è un’operazione che solo i poeti possono fare”, Clara Gallini parte dalle sue reazioni ai cambiamenti per avviare profonde e interessanti riflessioni sulla memoria, su quali siano gli appigli a cui si aggancia la nostra mente per poi fissare in qualche parte del cervello, fatti, episodi, volti e voci della nostra esperienza.

Questo ripercorrere alcuni meandri del passato, conduce l’autrice a ricordare la propria vita, fin dall’infanzia, trascorsa in quella casa grande, in cui i bambini potevano scoprire luoghi segreti, angoli in cui giocare, imparare. La casa grande di una famiglia borghese dove Clara è stata educata come una bambina “per bene”, secondo i canoni dell’epoca e del ceto, ma questo non le ha impedito di conoscere il dialetto cremasco e le storie popolari raccontate da Lucia e da altre domestiche che servivano in casa, nonostante alle bambine fosse proibito parlare in dialetto. Chissà che non siano stati proprio questi veti a fare scattare, in futuro, la passione per la ricerca antropologica e, nel caso particolare dell’autrice, per le culture popolari.

Il racconto attraversa quasi un secolo di storia italiana (l’autrice è del 1931), passa attraverso l’esperienza della guerra e poi la ricostruzione, il boom economico e ogni esperienza che affiora alla memoria, diventa oggetto di analisi antropologica da parte di Clara Gallini, che si chiede cosa è il gioco (categoria quanto mai sfuggente), rilegge la guerra, i riti popolari, gli scherzi in famiglia: tutto diventa materiale di studio e questo a causa di un male che ti costringe a stare ferma, a rivedere tutto il tuo cammino fino all’oggi, a poggiare lo sguardo su quelle tante cose che, presi dalla quotidianità, guardiamo di sfuggita o nemmeno vediamo.

Fino alla nuova convivenza con una badante, Abilia, con cui si deve iniziare una nuova vita, quasi coniugale, dice l’autrice, solo il letto non viene condiviso. La casa, lo spazio più intimo viene ridisegnato dalla nuova condizione, tutto va riletto in una prospettiva a due, dettata dalla malattia. Ecco allora l’ultimo viaggio etnografico, quello attraverso gli oggetti di casa, quelli conservati perché legati a momenti significativi; anch’essi riemergono dalla loro presenza scontata per rinascere a nuova vita grazie a uno sguardo nuovo. Lo sguardo di chi osserva se stessa e la propria esistenza attraverso la lente della fragilità della malattia e della vecchiaia. Ricordare diventa quindi quasi un imperativo per ritrovare nell’ieri gli strumenti di lotta contro l’oggi che ti affligge. Il tutto narrato sempre con incredibile leggerezza. A un certo punto Clara Gallini racconta delle “visioni” che ha avuto dopo gli interventi chirurgici e in altri momenti della malattia, in una delle quali era addirittura morto l’ex Pontefice Joseph Ratzinger. Qui la capacità di scrittura dell’autrice fa sì che si riesca a giocare sul filo del rasoio tra gravità del fatto di perdere il senso della realtà e una certa leggerezza che induce a guardare questi fatti con sorriso. In fondo, sono solo incidenti di percorso.



(www.doppiozero.com 21 aprile 2016)

Celebriamo la nascita di Charlotte con un libro del 1887…

Quest’anno, il 21 aprile, ricorre il Bicentenario della nascita di Charlotte Brontë. In tutto il Regno Unito, e non solo, questa data viene celebrata con eventi e pubblicazioni e anche noi vogliamo dare il nostro contributo.
Le ricerche per la collana “Windy Moors”, che ospita al momento i primi quattro titoli sia in digitale che in cartaceo, procedono senza sosta. Abbiamo già riportato alla luce la prima biografia italiana delle sorelle Brontë, il primo saggio italiano su Emily Brontë e una piccola biografia di Louisa May Alcott, tradotta per la prima volta in italiano; infine, uscito da pochi giorni, il saggio di Mara Barbuni su Elizabeth Gaskell e la casa vittoriana: non un’opera ritrovata nel vasto contenitore del passato, ma scritta appositamente per i lettori di questa collana.
Le nostre ri-scoperte letterarie comprendono diversi saggi che desideriamo ripubblicare, procedendo a piccoli passi e mettendo tutta la cura di cui questo tipo di lavoro necessita. Non è facile decidere a quale testo dare la precedenza, perché più scaviamo e più riemergono libri interessanti, ma siamo fiduciose che, prima o poi, riusciremo a dare tutto alle stampe.
In occasione del Bicentenario di Charlotte Brontë presentiamo ai lettori la prima di queste opere: una bella e approfondita biografia che stiamo traducendo per la prima volta in italiano. Si tratta dell’opera di Augustine Birrell, “Vita di Charlotte Brontë”: pubblicata a Londra nel 1887, tiene in considerazione tutta la produzione biografica precedente, arricchendola di nuovi elementi per una conoscenza più approfondita di Charlotte, della sua famiglia e della vita nella brughiera ventosa.
Il testo è in lavorazione, ma vi daremo presto notizie sulla data d’uscita.

Grazie per averci letto fin qui. Continuate a seguire il nostro lavoro!


Non ha mai voluto rivelare la sua identità lasciando che a parlare fossero solo i suoi libri. Il perché l’autrice de L’amica geniale lo spiega in questo colloquio: “Scrivere è di per sé già un atto di superbia…”

Nicola Lagioia: uno degli aspetti più potenti de L’amica geniale riguarda il modo in cui viene resa l’interdipendenza tra i personaggi. È evidente nel rapporto tra Lila e Elena, nel modo in cui ognuna riesce a depositare nell’altra la propria forma, la quale (proprio come una forma di vita autonoma) continua ad agire al di là della presenza fisica che l’ha generata. Ogni volta che Lila svanisce dall’orizzonte degli eventi di Elena, continua comunque ad agire nell’amica e, si presume, accade anche il contrario.

Leggere il suo romanzo è confortante, perché nella vita vera succede così. Le persone per noi davvero importanti (le persone a cui abbiamo dato l’opportunità di scassinarci interiormente) non cessano di interrogarci, ossessionarci, perseguitarci, all’occorrenza guidarci. Anche se nel frattempo sono morte, o lontane, o se ci abbiamo litigato. Il che – mi sembra – altera addirittura la costruzione dei ricordi. Il modo in cui rileggiamo il romanzo della nostra vita dipende anche da come agiscono silenziosamente in noi (modificandone gli snodi) le persone fondamentali. Per come riesce a rendere questi meccanismi, L’amica geniale mi sembra un romanzo di una modernità assoluta.

Però nei suoi quattro libri questa interdipendenza si estende a tutto il mondo delle due amiche. Nino, Rino, Stefano Carracci, i fratelli Solara, Carmela, Enzo Scanno, Gigliola, Marisa, Pasquale, Antonio, persino la Galiani… Nonostante per loro le regole dell’attrazione reciproca non siano intense come quelle che legano Elena e Lila, rimangono tutti comunque sempre in orbita. Sbarazzarsene è impossibile. Ricompaiono di continuo gli uni davanti agli altri. Certo litigano. Si tradiscono. In certi casi finiscono quasi per ammazzarsi. Si dicono o si fanno cose che in altri contesti sarebbero sufficienti a troncare i rapporti per sempre. Eppure, questo non succede quasi mai. C’è sempre uno spiraglio che rimane aperto (penso ad esempio a Marcello Solara che continua a essere cordiale con Elena anche dopo i suoi attacchi su L’Espresso). Sembra che solo la morte – o l’estrema vecchiaia – possa spezzare i loro legami.

Tenendo conto di cosa sono fatti quei legami, potrebbe sembrare una maledizione. Eppure non è da considerare anche una benedizione? L’alternativa rischia di essere la solitudine assoluta. In certi casi confesso che li ho invidiati.

Elena Ferrante: da dove comincio? Dall’infanzia, dall’adolescenza. Certi ambienti napoletani poveri erano affollati, sì, e chiassosi. Raccogliersi in sè, come si dice, era materialmente impossibile. Si imparava prestissimo ad avere la massima concentrazione nel massimo disturbo. L’idea che ogni io è, in gran parte, fatto di altri e dall’altro non era una conquista teorica, ma una realtà. Essere vivi significava urtare di continuo contro l’esistenza altrui ed esserne urtati, con esiti ora bonari, l’attimo dopo aggressivi, quindi di nuovo bonari.

Nei litigi si tiravano in ballo i morti, non ci si accontentava di aggredire e insultare i vivi: si finiva per degradare con naturalezza anche zie, cuginette, nonni e bisnonni che non erano più al mondo. E poi c’era il dialetto e c’era l’italiano. Le due lingue rimandavano a comunità diverse, entrambe gremite. Ciò che era comune all’una non era comune all’altra. I legami che stabilivi nelle due lingue non avevano mai la stessa sostanza. Variavano gli usi, le regole di comportamento, le tradizioni. E quando cercavi una via di mezzo ti veniva un dialetto finto che era contemporaneamente un italiano triviale.

Tutto questo mi (ci) costituisce, ma tuttora senza un ordine e una gerarchia. Niente è tramontato, tutto è qui nel presente. Certo, oggi ho luoghi piccoli e tranquilli dove mi posso raccogliere in me, ma questa espressione la sento tuttora un po’ ridicola. Ho raccontato di donne in momenti in cui sono assolutamente sole. Ma nelle loro teste non c’è mai silenzio e nemmeno raccoglimento.

La solitudine più assoluta, almeno nella mia esperienza, e non solo narrativa, è sempre, come nel titolo di un libro molto bello, troppo rumorosa. Per chi scrive non c’è persona rilevante che si rassegni a tacere definitivamente, anche se abbiamo interrotto ogni rapporto da tempo per rabbia, per caso o perché il suo tempo era finito. Io nemmeno riesco a pensarmi senza gli altri, men che meno a scrivere. E non parlo solo di parenti, di amiche, di nemici. Parlo delle altre, degli altri, che oggi, adesso, figurano soltanto nelle immagini: nelle immagini televisive o dei rotocalchi, a volte strazianti, a volte offensive per opulenza. E parlo di passato, di ciò che in senso lato chiamiamo tradizione, parlo di tutti gli altri che sono stati al mondo prima e hanno agito e agiscono oggi attraverso di noi.

L’intero nostro corpo, volente o nolente, realizza una folgorante resurrezione dei morti proprio mentre avanziamo verso la nostra stessa morte. Siamo, come dice lei, interconnessi. E dovremmo educarci a guardare a fondo in questa interconnessione – io la chiamo garbuglio, o meglio frantumaglia – per darci strumenti adeguati e raccontarla. Nella più assoluta tranquillità o coinvolti in eventi tumultuosi, al sicuro o in pericolo, innocenti o corrotti, noi siamo la ressa degli altri. E questa ressa per la letteratura è sicuramente una benedizione.

Ma quando andiamo alla materialità dei giorni, alla fatica quotidiana di vivere, stento a fare il gioco del rovesciamento di senso: maledizione/benedizione, benedizione/maledizione. Mi sento bugiarda se considero l’eredità del rione un fatto positivo. Capisco che le maglie molto strette e resistenti del mondo che ho raccontato possano dare l’idea di un antidoto. Ci sono molti momenti, nell’Amica geniale, dove l’ambiente in cui Lila ed Elena sono immerse appare, malgrado tutto, bonario e accogliente.

Ma non bisogna perdere d’occhio quel ‘malgrado tutto’. I legami col rione limitano, fanno male, corrompono o dispongono alla corruzione. E il fatto che non si riesca a reciderli, che si ripropongano oltre ogni loro apparente dissolversi, non è un bene. L’insorgenza improvvisa delle cattive maniere dall’interno di quelle buone, salvo poi tornare al sorriso, a me sembra tuttora il sintomo di una comunità inaffidabile tenuta insieme da complicità opportunistiche, e perciò attenta a dosare furie e ipocrisie per non finire in una guerra aperta che comporterebbe scelte definitive: tu stai di qua, io di là.

No, quindi, ciò che compatta la piccola folla del rione è, nei fatti, inevitabilmente guasto e, ai miei occhi, una maledizione. Naturalmente, però, quella folla è fatta di persone e le persone hanno sempre, tra mille contraddizioni, una loro preziosissima umanità cui un racconto deve badare, se non vuole fallire. Tanto più che la gente si passa ciò che ha di buono e ciò che ha di cattivo quasi senza accorgersene. Il rione è immaginato così e anche Lila ed Elena sono fatte della sua materia, ma come se essa fosse allo stato fluido e trascinasse con sé di tutto. Volevo che, contro la fissità chiusa dell’ambiente, loro fossero mobili, che niente riuscisse a stabilizzarle davvero e che soprattutto esse stesse si attraversassero reciprocamente come se fossero d’aria. Ma senza mai liberarsi della forza d’attrazione del luogo di nascita. Anche loro dovevano sentirla, loro specialmente, malgrado tutto.

Ecco, è forse proprio quel ‘malgrado tuttò che è tecnicamente difficile da raccontare. Bisogna badare a quel ‘tutto’, non dimenticarselo, riconoscerlo sotto ogni suo travestimento, anche se i legami affettivi, le consuetudini acquisite con l’infanzia, gli odori, i sapori, i suoni carichi di dialetto ci seducono, ci inteneriscono, ci fanno oscillare, ci rendono eticamente instabili. Forse ottenere sulla pagina la qualità cangiante delle esistenze significa sottrarsi ai racconti troppo rigidamente definiti. Siamo tutti soggetti a una continua modificazione che però, per evitare l’angoscia dell’impermanenza, camuffiamo fino alla vecchiaia con mille effetti di stabilizzazione, il più importante dei quali promana proprio dalle narrazioni, specie quando ci dicono: è andata così.

Questo tipo di libri non li amo particolarmente, preferisco quelli in cui nemmeno chi racconta sa bene come è andata. Narrare per me ha sempre significato depotenziare le tecniche che danno i fatti come incontrovertibili pietre miliari e potenziare quelle che mettono in scena l’instabilità. Il lungo racconto di Elena Greco è tutto improntato all’instabilità, forse ancora più che i racconti di Delia, di Olga, di Leda, le protagoniste dei miei libri precedenti. Ciò che Greco allinea sulla pagina, in principio con apparente sicurezza, diventa sempre meno governato. Cosa sente davvero, questa narratrice, cosa pensa, cosa fa? E cosa fa e pensa Lila, e chiunque altro irrompa nel suo racconto? Tutto, nell’Amica geniale, volevo che si formasse e si sformasse.

Nello sforzo di raccontare Lila, la sua amica si vede costretta a raccontare tutti gli altri e se stessa tra loro, incontri e scontri che lasciano le tracce più diverse. Gli altrinell’accezione più ampia, come dicevo, ci urtano di continuo e noi facciamo lo stesso con loro. La nostra singolarità, la nostra unicità, la nostra identità si crepano senza sosta. Quando alla fine di una giornata esclamiamo: mi sento a pezzi, non c’è niente di più letteralmente vero.

A guardar bene, siamo le spinte destabilizzanti che subiamo o che diamo, e la storia di quelle spinte è la nostra vera storia. Raccontarla significa raccontare compenetrazioni, un subbuglio, anche, tecnicamente, una commistione incongrua di registri espressivi, di codici e di generi. Siamo frammenti eterogenei che, grazie a effetti di compattezza – le figure eleganti, la bella forma – stanno insieme malgrado la loro casualità e contraddittorietà. La colla più a buon mercato è lo stereotipo. Gli stereotipi ci acquietano. Ma il problema è, come dice Lila, che anche solo per pochi secondi si smarginano sospingendoci nel panico. Nell’Amica geniale, almeno nelle intenzioni, c’è un dosaggio meticoloso tra stereotipia e smarginatura,

Nicola Lagioia: Nonostante Lila – quando lo va a sentire accompagnata da Nino – mostri di apprezzare molto Pasolini, ne L’amica geniale non compare mai l’ombra di un Ninetto Davoli. Men che mai compare un “Gennariello” tutto colmo di ingenuità e bellezza interiore come il Pasolini delle Lettere luterane (definito nella medesima scena da Nino un “ricchione” che fa “più bordello che altro”) immaginava l’archetipo di certi ragazzi napoletani. Nel suo romanzo, voglio dire, il sottoproletariato non ha alcun potere salvifico. Storicamente dalla parte della ragione, sul piano pratico si mette sempre in modo brutale da quella del torto. Difficile da digerire, eppure chi è cresciuto in quegli ambienti o li conosce bene non può non apprezzare, fino ad amarla, e a restarvi commosso, l’assoluta veridicità delle scene che descrive.

Ci sono critici che l’hanno accostata ad Anna Maria Ortese e a Elsa Morante. Secondo me a ragione. Eppure la sua plebe è più simile alla terribile orda umana descritta da Curzio Malaparte ne La pelle che non a quella raccontata da Il mare non bagna Napoli. Questo tipo di plebe è davvero irredimibile?

Elena Ferrante: Malaparte non so, dovrei rileggerlo. Non ho mai avvertito alcuna consapevole affinità con “La pelle”, una lettura che risale a molto tempo fa. Ma devo ammettere che anche Gennariello l’ho sentito sempre assai distante dalla mia esperienza. È il capitolo del ‘Mare non bagna Napolì intitolato ‘La città involontarià che, anche in fasi diverse della mia vita, mi è sembrato un punto di partenza necessario, se mai avessi provato a raccontare ciò che mi pareva di sapere sulla mia città.

Ma delle suggestioni letterarie è sempre difficile parlare: un verso zoppicante, due righe dimenticate, una pagina bella che sul momento non abbiamo apprezzato, spesso, per vie traverse, fanno più dei blasoni letterari che in buona fede esibiamo per darci importanza. Comunque cosa posso dirle? Almeno nelle mie intenzioni Lila ed Elena non nascono e crescono in seno a una terribile orda umana.

Ma l’ambiente del rione non offre nemmeno un Gennariello, che del resto Pasolini stesso sentiva come un miracolo della sua immaginazione, un’eccezione tra tanti schifosi fascisti, come scriveva. La città plebea che conosco io è fatta di gente comune che non ha soldi e ne cerca, che è subalterna e insieme violenta, che non ha il privilegio immateriale della buona cultura, che sfotte chi pensa di salvarsi con lo studio e tuttavia allo studio attribuisce valore.

Nicola Lagioia: Per Lila e Elena lo studio è fondamentale. Farsi una cultura è l’unico percorso davvero degno per uscire dallo stato di minorità. Nonostante i tanti guai che devono affrontare nel corso della vita, raramente le due amiche perdono fede nel potere dell’istruzione.­ Anche quando studiare non porta a un risultato pratico, Elena e Lila non mettono in discussione la sua importanza nella costruzione di ogni individuo. Cosa pensa dell’Italia di oggi, così piena di laureati allo sbando? È vero che alcuni di questi ragazzi non hanno magari con l’istruzione il rapporto quasi disperato di Lila e Elena, ed è vero che per le generazioni successive (quella di Dede e Elsa, ad esempio) potrebbero essere altri gli strumenti attraverso i quali superare la linea d’ombra. Eppure, tutto sommato, lo studio non mi sembra uno strumento d’emancipazione come un altro.

Elena Ferrante: innanzitutto non lo ridurrei a solo strumento di emancipazione. Lo studio è stato soprattutto sentito come essenziale alla mobilità sociale. Nell’Italia del secondo dopoguerra l’istruzione ha cementato vecchie gerarchie ma ha anche avviato una discreta cooptazione dei meritevoli, tanto che anche chi restava in basso poteva dirsi: sono finito così perché non ho voluto studiare. La storia di Lenù, ma anche di Nino, mostra questo uso dell’istruzione. Ma nel racconto c’è anche il segnale di una disfunzione: alcuni personaggi studiano e tuttavia il loro percorso si inceppa.

Insomma c’è stata un’ideologia dell’istruzione che oggi non funziona più. Il suo cedimento è diventato evidente: i laureati allo sbando testimoniano drammaticamente che la crisi ormai lunga della legittimazione delle gerarchie sociali sulla base dei titoli di studio è giunta a compimento. C’è però, nel racconto, un altro modo di intendere lo studio, quello di Lila. Privata dell’intero percorso scolastico, – all’epoca fondamentale innanzitutto per le femmine, e per le femmine povere – smistate su Lenuccia le proprie ambizioni di ascesa socioculturale, lo studio per Lila diventa la manifestazione di un’ansia permanente dell’intelligenza, una necessità imposta dalle infinite disordinatissime circostanze dell’esistenza, uno strumento di lotta quotidiana (funzione quest’ultima a cui Lila cerca di ridurre anche la sua amica ‘che ha studiato’), mentre Lena insomma è il tormentato punto d’arrivo del vecchio sistema, Lila ne mette in scena con tutta la sua persona la crisi e in un certo senso un possibile futuro. Come poi la crisi si ricomporrà nel tumultuoso mondo cui apparteniamo, non so, è da vedere.

Le contraddizioni del sistema formativo diventeranno sempre più evidenti segnandone la decadenza? Avremo una buona cultura diffusa senza più alcun nesso con il modo di guadagnarsi da vivere? Avremo più diligenza colta e meno intelligenza? Diciamo che in genere io sono incantata da quelli che producono idee, non da quelli che le chiosano. Anche se, devo dire, un mondo di fantasiosi realizzatori di grandi idee mi sembra una meta formidabile. In esso mi sentirei meglio.

Nicola Lagioia: se è vero, come ho letto in più di un pezzo, che L’amica geniale non ha aperture verso il trascendente (almeno per come il trascendente è stato reso letterariamente in gran parte del Novecento), ci sono le smarginature di Lina. I momenti fondamentali, vale a dire, in cui il mondo si scolla davanti agli occhi di una delle due protagoniste, va fuori asse mostrandosi nella sua insostenibile nudità: una massa caotica e informe, “una realtà pasticciata, collacea”, priva di senso. Sono attimi rivelatori, ma si tratta di rivelazioni ogni volta terribili.

Più che le illuminazioni degli epilettici dostoevskijani, mi hanno fatto pensare a uno degli ultimi capitoli di Anna Karenina, quando la protagonista del romanzo di Tolstoj osserva in carrozza le strade piene di gente e si convince che un senso la vita non ce l’ha, l’amore non esiste, siamo creature gettate nel caos, governate da forze che gli ultimi brandelli di illusione definirebbero squallide, mentre (peggio ancora) quelle forze sono soltanto ciò che sono. Non più buone né cattive della legge di gravità. Poco più tardi Anna Karenina si getta sotto un treno.

Non riesco a capire (e non le chiederò) se l’angoscia di Lina derivi dal fatto che durante le smarginature l’universo le si mostri invincibilmente privo di significato, o dalla consapevolezza che quello stato di trance offra la massima apertura di visuale concessa all’uomo, una visuale dalla quale si intuisce al contrario che un senso (e dunque una possibilità di pace, di felicità) astrattamente esiste ma è per sempre irraggiungibile, oltre che indecifrabile ai nostri sensi. Quello che mi interessa riguarda piuttosto la finzione. “Le cose finte”, come le chiama Lina, “che con la loro compostezza fisica e morale la calmavano”.

Le cose finte sono i nostri argini al disordine e alla violenza da cui siamo circondati. Da questo punto di vista, la letteratura è una cosa finta. Anche il diritto o la filosofia lo sono. Da una parte questo presupporrebbe la nostra condanna all’infelicità, perché solo un’illusione (credere vera una cosa finta) ci tranquillizza. Ma dall’altra, mi chiedo, non è forse proprio questa la nostra natura (creare “cose finte” che ci consentano di entrare davvero in comunicazione tra di noi, e con il mondo) e dunque la nostra più alta aspirazione?

Elena Ferrante: mi meraviglio sempre quando qualcuno mi segnala come un difetto il fatto che nelle mie storie non si apre al trascendente. Qui voglio passare a una dichiarazione di principio: a partire dai quindici anni, non credo al regno di nessun dio nè in cielo nè in terra, anzi dovunque lo si dislochi mi sembra pericoloso. D’altra parte condivido l’opinione che la gran parte dei concetti che maneggiamo sia di origine teologica. La teologia aiuta a capire da dove sono scaturiti i fondi di caffè a cui tuttora ricorriamo. Per il resto non so che dirle.

Mi consolano le storie che dopo aver attraversato l’orrore impongono una svolta, quelle dove qualcuno si redime a riprova che pace e felicità sono possibili o che si può tornare in un privato o pubblico eden. Ma mi sono provata a scriverne, in passato, e ho scoperto che non ci credevo. Sono attratta invece dalle immagini di crisi, dai sigilli che si spezzano, e forse le smarginature vengono di lì. Lo smarginarsi delle forme è un affacciarsi sul tremendo, come nelle ‘Metamorfosì di Ovidio’, come in quella di Kafka e come nello straordinario ‘Passione di GH’ di Lispector. Oltre non si va, bisogna fare un passo indietro e, per sopravvivere, rientrare in una qualche buona finzione.

Non credo però che tutte le finzioni che orchestriamo siano buone. Aderisco a quelle sofferte, quelle che nascono dopo una crisi profonda di tutte le nostre illusioni. Amo le cose finte quando portano i segni di una conoscenza di prima mano del tremendo, e quindi la consapevolezza che sono finte, che agli urti non reggeranno a lungo. Gli esseri umani sono animali di grande violenza, e fa paura la rissa che sono sempre pronti a scatenare per imporre il proprio salvifico eterno salvagente e fare a pezzi quello degli altri.

Nicola Lagioia: L’amica geniale è piena di litigate memorabili. Le liti, gli scoppi di rabbia dei vari personaggi sono resi in modo magistrale. Quasi contagioso. Ogni tanto leggevo e mi veniva da sferrare un pugno sul tavolo al solo scopo di enfatizzare fisicamente qualche esplosione verbale di Nunzia Cerullo o della mamma di Elena. Sono sempre rimasto colpito dalle accensioni di certi poveri in Italia. Il repertorio è incredibilmente vasto. Parolacce vomitate senza soluzione di continuità. Accuse feroci e assurde. Capelli strappati. Bestemmie sempre più fantasiose.

I miei nonni materni erano piccoli coltivatori diretti, mentre mio nonno paterno faceva il camionista. Il modo in cui li sentivo inveire gli uni contro gli altri e più spesso contro se stessi o il destino (anche se accadeva in modo più frequente nelle città che non nelle campagne) l’ho raramente ritrovato in altri ambienti. In certi casi addirittura mi manca. Questi scoppi di rabbia non credo accomunino gli oppressi di tutti i popoli. In Francia, funziona più o meno allo stesso modo. In Inghilterra. Ma in certi paesi orientali (la Thailandia, per esempio) i poveri, almeno esteriormente, se la prendono con il destino in maniera assai meno violenta.

Allora, da una parte capisco che lo spettacolo del turpiloquio possa risultare triste e degradante, o addirittura bestiale. Dall’altra le domando: non è anche però un vagito di civiltà, la percezione istintiva della povertà come ingiustizia?

Elena Ferrante: Qui torniamo ai litigi. E sì, diciamo che la lite tra poveri è liminare. Il liminare è un artificio retorico interessante, rappresenta metaforicamente la sospensione tra due opposti ed è una procedura che rappresenta in modo efficace il tempo in cui viviamo. Disfatto il concetto di coscienza di classe e di conflitto di classe, i poveri, i disperati che sono ricchi solo di parole furiose, a parole li teniamo sulla soglia, tra l’esplosione degradante, che imbestialisce, e quella liberatoria, che umanizza e avvia una sorta di purificazione.

Ma nella realtà la soglia è varcata di continuo, diventa guerra sanguinosa tra poveri, versamento di sangue. Oppure approda alla riconciliazione, ma nel senso di ritorno all’acquiescenza, alla subalternità dei più deboli ai più forti, all’opportunismo. Il vagito di civiltà, se vuole, è l’intuizione della propria dignità che si accompagna al bisogno di cambiare. Altrimenti i litigi tra poveri sono solo l’ennesima riproposizione dei capponi di Renzo Tramaglino.

Nicola Lagioia: mi perdoni se ritorno a Malaparte. A un certo punto mi è venuto in mente quel passo de La pelle in cui lui scrive: “Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell’Europa di diventare Napoli”.

Non ho potuto fare a meno di associarlo – sebbene in maniera speculare – ad alcune considerazioni di Lenuccia: “Napoli era la grande metropoli europea dove con maggiore chiarezza la fiducia nelle tecniche, nella scienza, nello sviluppo economico, nella bontà della natura, nella storia che porta necessariamente verso il meglio, nella democrazia si era rivelata con largo anticipo del tutto priva di fondamento. Essere nati in questa città – arrivai a scrivere una volta, pensando non a me ma al pessimismo di Lila – serve a una sola cosa: sapere da sempre, quasi per istinto, ciò che oggi tra mille distinguo cominciano a sostenere tutti: il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte”.

Una sfiducia nella Storia che richiama la definitiva sfiducia nel cosmo, o nella natura, di cui sempre l’io narrante parla all’inizio del terzo volume: “Me l’ero battuta infatti. Ma solo per scoprire, nei decenni a venire, che mi ero sbagliata, che si trattava di una catena di anelli sempre più grandi: il rione rimandava alla città, la città all’Italia, l’Italia all’Europa, l’Europa a tutto il pianeta. E oggi la vedo così: non è il rione a essere malato, non è Napoli, è il globo terrestre, è l’universo, o gli universi. E l’abilità consiste nel nascondere e nascondersi lo stato vero delle cose”.

Mi fermerei alla Storia. L’amica geniale è anche un canto dolente alzato alle illusioni del secondo Novecento, o forse di tutta la nostra modernità. Mi spaventano molto alcuni storici quando ultimamente dichiarano che il quarantennio 1950/’90 (il periodo in cui le sperequazioni si sono ridotte, la mobilità sociale è diventata una realtà, le masse popolari sono state non di rado protagoniste) potrebbe essere letto alla lunga come un piccolo momento di discontinuità in un quadro generale dove le grandi disuguaglianze rappresentano la regola. Il XXI secolo è iniziato col violentissimo riallargarsi della forbice tra ricchi e poveri. A lei sembra davvero che la seconda metà del Novecento sia stata solo una parentesi? Non è invece addirittura realistico pensare che il futuro non sia mai scritto?

Elena Ferrante: sì, credo che sia così: il futuro non è mai scritto. Ma la Storia e le storie sono scritte, e scritte guardando dal balcone del presente la tempesta elettrica del passato, vale a dire niente di più mobile. Il passato, nella sua indeterminatezza, si offre o attraverso il filtro della nostalgia o attraverso quello dell’istruttoria. Non amo la nostalgia, porta a non vedere le sofferenze individuali, le ampie sacche di miseria, la povertà culturale e civile, la corruzione capillare, il regresso dopo progressi minimi e illusori. Preferisco l’acquisizione agli atti.

Il quarantennio che lei cita è stato in realtà faticosissimo e dolorosissimo per chiunque muovesse da una condizione di svantaggio. E intendo per svantaggio anche e soprattutto essere donna. Non solo. Le grandi masse che si sono sottoposte a sacrifici disumani per guadagnare qualche gradino nella scala sociale, già a partire dagli anni settanta hanno sperimentato i tormenti della sconfitta, loro e dei loro figli. Senza contare una sorta di guerra civile latente, la cosiddetta pace mondiale sempre a rischio e gli esordi di una delle più devastanti rivoluzioni tecnologiche parallela a una delle più devastanti destrutturazioni del vecchio ordine politico ed economico. Il fatto nuovo non è che il millennio si inaugura con l’allargarsi della forbice ricchi-poveri, questo è un dato diciamo di sistema.

Il fatto nuovo è che i poveri non hanno più altro orizzonte di vita che il sistema capitalistico e altro orizzonte di redenzione che quello religioso. È la religione ormai a gestire sia la rassegnazione in vista di un regno di dio nei cieli, che l’insurrezione in nome di un regno di dio sulla terra. La teologia, cui accennavo prima, si sta prendendo la sua rivincita. Ma, come lei diceva, niente è scritto e ciò che accadrà non potrà che sorprenderci. Non amo i tecnici della previsione. Lavorano sul passato, e nel passato vedono solo il passato che fa comodo vedere.

È meno progressiva e impetuosa, ma più sensata, la navigazione a vista, specialmente quando i gorghi abbondano. A me sembra inevitabile vivere sul bordo del caos, è ciò che tocca a chi sente – e chi scrive non può non sentirlo – l’equilibrio precario di tutte le esistenze e di tutto l’esistente. È giusto e stimolante avere sempre bene a mente che se lì, in quel determinato luogo, le cose un po’ funzionano, altrove non funziona niente e lo squilibrio distante è il segno di un cedimento che presto ci investirà.

Nicola Lagioia: sembra che la fine de L’amica geniale coincida con la fine di una certa idea d’Italia. Qualcosa che aveva ricominciato a vivere nell’immediato dopoguerra, mostra la corda. Mi chiedo se sia davvero così, o se l’Italia (forse perché rischia davvero a volte – come dalla citazione precedente di Lenuccia – di anticipare in modo scabro e nudo discorsi che altri paesi del mondo digeriscono poi retoricamente in una veste meno immediata, e meno scandalosa) sembri spesso spalancata su un qualche tipo di abisso.

Ci ritroviamo non di rado senza terreno sotto i piedi. In fondo, se L’amica geniale fosse finita nell’estate del 1992, dopo la morte di Falcone e Borsellino, ci sarebbe stato ugualmente un sapore da capolinea. Stessa cosa nel 1994, o dopo il terremoto del 1980. Oppure al contrario questa volta il nostro paese sta voltando (o sta finendo di voltare) pagina per sempre?

Elena Ferrante: non vedo il capolinea di alcunché, e non mi piacciono né i pessimisti né gli ottimisti. Cerco solo di guardarmi intorno. Se la meta deve essere una vita non dico felice ma agevole per tutti, non c’è capolinea, ma un continuo ripensare il percorso, che non riguarda solo le singole vite, ma – come le dicevo – le generazioni. Io o lei – chiunque – non siamo solo questo ‘tempo-adessò e nemmeno ‘gli ultimi decenni’.

Nicola Lagioia: siamo il paese del familismo amorale. La famiglia è il primo nucleo sociale che riusciamo a immaginare, e spesso anche l’ultimo. Il fatto di essere così poco interessati storicamente al bene comune fuori dalla porta di casa non credo contraddica il fatto che la famiglia è anche un luogo di scontro violentissimo. Per Lila e Elena è così, continuamente. I legami di sangue non smettono di voler essere recisi, e al tempo stesso non smettono di volerci possedere. Ogni rito di passaggio ha un prezzo, d’accordo. Ma emanciparsi dalla famiglia in Italia è ancora oggi impossibile senza passare per una parte di violenza (e sofferenza) assolutamente inutili?

Elena Ferrante: la famiglia è di per sé violenta, lo è tutto ciò che si fonda su legami di sangue, vale a dire legami non scelti, legami che ci impongono la responsabilità dell’altro anche se non c’è stato mai un momento in cui abbiamo deciso di assumercela. I buoni sentimenti e i cattivi sono sempre eccessivi, nella famiglia: affermiamo esageratamente i primi e neghiamo esageratamente i secondi. È eccessivo Dio padre. Abele è eccessivo quanto Caino.

I cattivi sentimenti sono particolarmente insopportabili quando è il consanguineo a suscitarli. Caino alla fin fine uccide per recidere il legame di sangue. Non vuole essere più il custode di suo fratello. Essere custode è un compito insopportabile, una responsabilità sfiancante. Soprattutto non è facile accettare che i cattivi sentimenti siano suscitati non solo dall’estraneo, il rivale – colui che è sull’altra riva del ‘nostrò corso d’acqua, che non sta sul nostro suolo e non ha il nostro sangue – ma forse, con maggiore cogenza, da chi ci è vicino, il nostro specchio, il prossimo che dovremmo amare, noi stessi.

L’emancipazione senza traumi è possibile solo in un nucleo in cui l’autoreferenzialitá è stata combattuta da subito e si è imparato ad amare l’altro non come noi stessi – formula rischiosa -, ma come l’unica modalità possibile del piacere di stare al mondo. Ciò che ci corrompe è la passione per noi stessi, la necessità e l’urgenza del nostro primato.

Nicola Lagioia: chi è davvero conficcato nella vita non scrive romanzi. Il rapporto tra Elena e Lila mi sembra veramente archetipico da questo punto di vista. Molte coppie di amici/rivali funzionano così. O, se si vuole, è la dinamica che lega gli artisti alle loro muse, sebbene le muse in questo caso siano tutt’altro che aeree. Al contrario, sono terrene fino al midollo, impegnate ad affrontare la vita, a scontrarsi con essa in modo totalizzante. È Lila a sentire le cose del mondo con maggiore radicalità. Eppure, proprio per questo, non è lei a poterne dare testimonianza. Benché Elena tema che prima o poi la sua amica riesca a scrivere un libro meraviglioso, in grado di ristabilire oggettivamente le proporzioni tra loro due, questo non può accadere.

L’implacabilità di una simile regola è talmente ricorrente che a me crea sgomento. Sentirsi in colpa per qualcosa che, se solo all’improvviso non avesse più ragione di essere, si trasformerebbe per noi in una minaccia. Questo è uno dei paradossi che mi sembra stringa Elena a Lila. Come si può provare a scioglierlo o a conviverci? Testimoniare per chi non lo farà potrebbe sembrare un atto generoso. Oppure è al contrario una manifestazione di enorme arroganza. O ancora (questa l’ipotesi più dolorosa) diventa l’arma per rendere innocue, fino a rischiare di schiacciarle, le persone che amiamo. Che rapporto ha con la scrittura da questo punto di vista?

Elena Ferrante: scrivere è un atto di superbia. L’ho sempre saputo e perciò ho nascosto a lungo che scrivevo, soprattutto alle persone a cui volevo bene. Temevo di svelarmi ed essere disapprovata. Jane Austen si era organizzata in modo da occultare subito i suoi fogli, se qualcuno entrava nella stanza in cui si era rifugiata. È una reazione che conosco, ci si vergogna della propria presunzione, perché non c’è niente che riesca a giustificarla, nemmeno il successo.

Comunque io la metta, resta sempre il fatto che mi sono arrogata il diritto di imprigionare gli altri dentro ciò che a me pare di vedere, sentire, pensare, immaginare, sapere. E’ un compito? E’ una missione? È una vocazione? Chi mi ha chiamato, chi mi ha assegnato quel compito e quella missione ? Un dio? Un popolo? Una classe sociale? Un partito? L’industria culturale? Gli ultimi, i diseredati, le loro cause perse? L’intero genere umano? Quel soggetto imprevisto che sono le donne? Mia madre, le mie amiche? No, oggi tutto è diventato più spoglio ed è lampante che solo io stessa ho autorizzato me stessa. Io mi sono assegnata, per motivi oscuri anche a me, il compito di raccontare ciò che so del mio tempo, vale a dire, ridotto all’osso, ciò che mi è capitato sotto il naso, vale a dire la vita i sogni le fantasie i linguaggi di un ristretto gruppo di persone e di fatti dentro uno spazio ridotto, dentro una lingua di poco rilievo resa ancor più di poco rilievo dall’uso che ne faccio.

Si tende a dire: non esageriamo, è solo un lavoro. Può darsi che ormai sia così. Le cose cambiano e cambiano soprattutto gli involucri verbali in cui le chiudiamo. Ma resta la superbia. Resto io che passo gran parte della mia giornata a leggere e a scrivere perché mi sono assegnata il compito di raccontare. E che non riesco ad acquietarmi dicendo: è un lavoro. Quando mai ho considerato scrivere un lavoro? Non ho mai scritto per guadagnarmi da vivere. Scrivo per testimoniare che sono vissuta e che ho cercato una misura per me e per gli altri, visto che gli altri non potevano o non sapevano o non volevano farlo. Bene, questo cos’è se non superbia? E cosa significa se non: voi non sapete vedermi e vedervi, ma io mi vedo e vi vedo? No, non c’è via d’uscita.

L’unica possibilità è imparare a ridimensionare il proprio io, a rovesciarlo nell’opera e tirarsene via, a considerare la scrittura come ciò che si separa da noi non appena è compiuta: uno dei tanti effetti collaterali della vita activa.

@NicolaLagioia
(Questo testo sarà inserito in una versione aggiornata de “Le Frantumaglie” che uscirà in settembre in Australia, Gran Bretagna e Stati Uniti e in novembre in Italia per la casa editrice E/O).

(Repubblica, 4 aprile 2016)


Zompettando allegramente tra una serie e l’altra di romanzi gialli – da Simenon a Lansdale passando per Tran-Nhut e tanti o tante altre – mi sono imbattuta in storie incredibili e personaggi che ho amato molto. Tra questi, mi sono resa conto che le protagoniste donne sono numerose, a riprova del fatto che il giallo ci dona! Sono giovani e meno giovani, hanno passioni, attitudini e lavori differenti, hanno uno spiccato senso dell’umorismo ma anche no, sono poco concilianti nei confronti delle ingiustizie, sono testardamente curiose e aggrappate alla vita, sono tutte bianche tranne una, sono tutte eterosessuali tranne tre, sono nate tutte dalla penna di scrittrici tranne poche ottime eccezioni. Purtoppo ho scoperto e ho iniziato a seguire la SIL (Società delle Letterate) subito dopo il convegno che ha avuto come filo conduttore L’invenzione delle personagge, altrimenti mi sarei divertita tantissimo a seguire lavori inediti, audaci e così interessanti. Qui di seguito una carrellata delle personagge di cui ho divorato serie intere, che ho seguito con simpatia o infine che ho semplicemente scoperto senza avere voglia di chiudere a pagina 10. A parte la mitica Miss Marple di Agatha Christie, che non ha bisogno certo di presentazioni, la prima personaggia che ho conosciuto e amato è Lauren Laurano di Sandra Scopettone. Detective privata lesbica di New York, vive con la sua compagna psicoanalista Kip e un paio di gatti. Lauren Laurano è una vera tosta e i suoi litigi con Kip ci tormentano perché in fondo crediamo – o speriamo – che il loro sia vero amore. Molti ne hanno scritto come di una Montalbano lesbica in salsa americana anni ’90, ma – col senno di poi, visto che ho conosciuto Laurano prima di Montalbano – non mi ha assolutamente dato questa idea.

Altra amatissima è Rebecka Martinsson di Åsa Larsson, avvocata fiscalista a Stoccolma prima, pubblico ministero nella piccola cittadina di Kiruna poi. Personaggia piena di fragilità e al contempo di forza. È difficile staccarsi da questo ciclo che appartiene al filone letterario del giallo nordico, sia per la descrizione di ambienti di indubbio fascino che per la storia personale della protagonista, cui vorremmo essere amiche anche solo per andarla a trovare in quello sperduto agglomerato urbano nell’estremo nord della Svezia!

A farmi assaporare i profumi, i colori e il caos di Barcellona, invece, è l’ispettrice di polizia Petra Delicado di Alicia Giménez-Bartlett, il cui nome ossimorico parla da sé. Petra mi ha intrattenuta allegramente con il suo sarcasmo, la sua intransigenza, i continui battibecchi col viceispettore Fermín Garzón, le sue complicate e quasi antisentimentali storie d’amore e le costruzioni narrative che costituiscono lo sfondo di una critica sociale e che ho apprezzato molto.

Precious Ramotswe di Alexander McCall Smith, detective capa della No. 1 Ladies’ Detective Agency, ha sempre avuto la capacità di farmi venire il buon umore. La sua saggia e serafica stazza di donna dalla corporatura tradizionale del Botswana, i suoi modi affabili, il suo integerrimo e semplice senso della giustizia e della moralità hanno sempre avuto un effetto benefico su di me. La leggerezza dello stile dell’autore, unitamente alla narrazione di piccole storie di vita quotidiana della signora Ramotswe, della sua occhialuta segretaria Grace Makutsi (con la fissazione delle scarpe), del signor JBL Matekoni e dei suoi apprendisti meccanici, insomma di tutta l’allargata famigliola, mi sono rimaste nel cuore come quel piccolo e caldo pezzetto d’Africa.

Flavia De Luce di Alan Bradley è stata una recente e inaspettata scoperta. Questa ragazzina dalle nobili origini, trasandata, dispettosa e scorbutica è una vera forza della natura, tanto che nessuno avrebbe alcun dubbio nel preferirla alle sorelle Daphne e Ophelia! Appassionata nonché esperta conoscitrice di chimica, si trova spesso e volentieri invischiata in strani casi delittuosi in quel di Buckshaw nei pressi di Bishop’s Lacey. Orfana di una madre amante del rischio e dell’avventura, con un padre silenzioso distante e appassionato di filatelia, un fedelissimo maggiordomo tuttofare dal passato oscuro e una cuoca pasticciona e ciarliera, le imprese di Flavia non smettono di stupire.

Agatha Raisin di M. C. Beaton è un’agente di pubbliche relazioni di mezz’età che decide di coronare quello che crede essere il suo sogno, mollando la vita frenetica londinese per una più tranquilla nei Cotswolds. Ma l’indole curiosa, ambiziosa, testarda e inquieta di Agatha la mettono costantemente nei pasticci perfino in un posticino appartato e idilliaco come Carsely. Per fortuna, la sua simpatia e generosità le fanno conquistare amici fidati, come il giovane detective di polizia Bill Wong e la moglie del pastore Mrs. Bloxby. Agatha però con le questioni di cuore non ci sa proprio fare, e tra una quiche létale e la preparazione di un outfit per conquistare l’affascinante vicino, non ci si annoia per nulla!

La brillantissima commissaria Anne Capestan di Sophie Hénaff, alla sua prima apparizione, viene messa alla guida di una eterogenea brigata di reietti, bollati come non conformi dalla polizia giudiziaria di Parigi, di emarginati che vengono stipati tutti assieme in un ufficio malconcio dove qualcuno spera si lasceranno dimenticare. Ma nulla è come sembra e Capestan, con la sua innata autorevolezza, la sua cocciutaggine, la sua compassione e l’orgoglio da soldato corso riuscirà a spronare questo eccellente gruppo di outsider alla soluzione di casi complicati.

Mi è piaciuta molto anche Linda Wallander di Henning Mankell, la figlia d’arte poliziotta del più famoso Kurt. Mankell era riuscito a creare un personaggio interessante, indipendente ed autonomo di cui avrei continuato molto volentieri a leggere, se non fosse che lo scrittore – dopo il suicidio della giovane attrice che interpretava Linda nella trasposizione televisiva svedese del primo libro – ha ritenuto emotivamente impossibile scriverne ancora.

Alice Carta di Fiorella Cagnoni, in lettura proprio in questi giorni e scoperta solo adesso nonostante la sua prima storia sia datata 1985, è destinata a diventare una delle mie super preferite! Alice è una detective per caso e vocazione, vive a Milano con l’amica di sempre Elena, è «spumeggiante, ironica, trasgressiva, senza lungaggini ma capace di maniacale attenzione ai dettagli e alle sfumature». Le sue sono storie in cui al giallo si mescolano abilmente anche altri generi e finiscono col trasmettere più di un messaggio politico, che ha a che fare con la relazione tra donne e il femminismo. Già la adoro, che ve lo dico a fare.

Lolita Lobosco di Gabriella Genisi mette decisamente allegria! Prorompente a dir poco, dirige la squadra omicidi della questura di Bari con un approccio grintoso, serio e intraprendente senza rinunciare a quel tocco di femminilità tacco dodici che lascia spiazzati (e un poco impauriti) parecchi uomini. Protagonista assieme a lei, un sud metropolitano che mi pare di conoscere poco e al contempo moltissimo, un ammaliante fascino pugliese.

Altra personaggia interessante è Immacolata Tartanni di Mariolina Venezia, pubblico ministero al palazzo di giustizia di Matera. Con un marito che la ama, una figlia adolescente, una suocera insopportabile, le piccole cose di vita quotidiana da gestire, detestata e insultata in modo malcelato da un capo e da un certo numero di colleghi proprio in virtù delle sue innumerevoli risorse. Grazie ad Imma, accompagnata dall’appuntato Calogiuri, facciamo un giro per un’Italia imbarazzante e autentica, per una Basilicata maestosa e nostalgica.

Tra le nostrane anche la commissaria Barbara Gillo di Rosa Mogliasso; la poliziotta Maria Laura Gangemi di Silvana La Spina; Irene Bettini di Christine Von Borries; Camilla Baudino di Margherita Oggero; la redattrice Nadia Morbelli.

Uscendo nuovamente fuori dalla penisola troviamo anche la detective privata Saz Martin di Stella Duffy; Sara Linton di Karin Slaughter; la giornalista Annika Bengtzon di Liza Marklund (della quale mi è piaciuta molto anche la trasposizione in serie tv, con un’attrice che ne interpreta il ruolo splendidamente); l’investigatrice Stephanie Plum di Janet Evanovich; la mitica antropologa forense Temperance Brennan di Kathy Reichs; l’anatomopatologa Kay Scarpetta di Patricia Cornwell; Suor Pelajia di Boris Akunin ma anche Le amiche del club omicidi di James Patterson, Le vendicatrici di Carlotto e Videtta (che ho amato molto, anche se non sono convintissima dell’inclusione nel genere) e infine Erica Falck di Camilla Lackberg (che piace a tanti ma se devo dirla tutta l’ho mollata presto, molto presto).

E voi quali personagge avete amato? Di quale continuereste volentieri a leggere storie?

(https://parladellarussia.wordpress.com, 30 marzo 2016)

di Cesare De Michelis

Rachele Ferrario Ricostruisce la figura della Sarfatti, autrice di «Dux» Veneziana, la sua vita fu un’avventura nel segno dell’ideologia antiborghese, tra femminismo e utopia. Dopo le legge razziali fu costretta a lasciare l’Italia

Della stagione primonove centesca Margherita Sarfatti fu inquieta protagonista, attraversandone senza esitazioni, anzi con appassionata spregiudicatezza, le più contraddittorie tensioni, sempre in prima linea, spesso guidando agitati drappelli di seguaci o sodali che confondevano e mescolavano le idee e i valori che erano in circolo senza sapere davvero dove volevano andare. Margherita era nata a Venezia in una fanfiglia ebrea benestante – i Grassini – 1’8 aprile 1880, cosicché aveva giusto vent’anni allo scoccare del secolo nuovo, che aveva atteso preparandosi in casa sotto la guida di disordinati maestri, i quali erano vivaci testimoni del proprio tempo piuttosto che attrezzati educatori: i1 suo ‘800, dunque, finiva incrociando Fogazzaro, Marconi o D’Annunzio e Molmenti, Fradeletto, e il suo Cesare Sarfatti, che con Elia Musatti animava i circoli socialisti veneziani e la sposò ancora ragazza nel ‘98.

La giovane donna non voleva certo vivere all’ombra del marito allevando bambini, che pur ebbe presto: in viaggio di nozze andò alla ricerca della Parigi rivoluzionaria e d’avanguardia, appassionandosi ai pittori nuovi, come Cézanne o Toulouse Lautrec, e facendo suoi i costumi di una belle epoque ancora splendente. Al ritorno aveva deciso di diventare scrittrice e critica d’arte, come subito cominciò a fare sin dalla IV Biennale del 1901 con una serie di ben dieci articoli sul socialista Secolo nuovo. L’anno successivo Cesare e Margherita si trasferirono a Milano inseguendo una vita più intensa e febbrile, una modernita in corsa, a1 passo col resto d’Europa, con le prime avvisaglie di un’arte e una cultura insofferenti della tradizione: frequentarono Turati e Anna Kuhscioff e i circoli socialisti e lei della V Biennale scrivera sull’Avanti della Domenica.

Margherita, che intanto ha altri due figli, acquista maturita e sicurezza, mentre Cesare diventa protagonista nella scena politica cittadina e nei più celebri processi letterari che vedono sul banco degli imputati Notari o Marinetti: la partecipazione alla mondanité milanese moltiplica conoscenze e incontri e il salotto Sarfatti diventa tra i più frequentati, mentre la padrona di casa, bella e avvenente con 1e sue chiome bionde e ramate, viene ammirata e corteggiata.

Inizia cosi una serie dj conquiste e di avventure nel segno di un’indipendenza e di una 1ibertà sostenute da un’ideologia femminista e antiborghese: la storia di Margherita è anche quella dei suoi amori che diventano 1e tappe di un percorso intellettuale e politico nel quale lei pretende un ruolo importante a1 fianco di uomini celebri, come Boccioni e soprattutto Mussolini, cui restera legata per oltre un decennio, diventandone la più famosa biografa con Dux (1926), bestseller in tutto i1 mondo.

In quegli stessi anni mori in guerra, diciassettenne, i1 primo figlio Roberto, aprendo una ferita mai rimarginata, e qualche anno dopo anche Cesare, mentre lei diventava la pill autorevole interprete della nuova arte italiana, in sintonia con la stagione dei realisrni che riguarderé tutta Europa: nel ‘24 presentò alla Biennale “Sei pittori del Novecento”, che due anni dopo diventeranno i1 Novecento Italiano alla Permanente di Milano: «rivoluzionari della moderna restaurazione», come 1i definirà lei stessa, i pittori di Novecento segneranno una sorta di innovativo «ritorno all’ordine».

Qui si fermò l’ascesa di Margherita, che nel 1930 concludeva la sua Storia della pittura moderna con l’auspicio di «un’arte, che sembri di tutti, e sia nell’essenza per i migliori»: ripudiata dal Mussolini saldamente a1 potere e poi perseguitata in quanta ebrea, la Sarfatti vivrà sempre più lontana dall’Italia, negli Stati Uniti, o in Uruguay e in Argentina, tornando definitivamente in Italia solo dopo la guerra, dove visse ai margini come l’amante del Duce, 1e cui idee poco interessavano e ancor meno i suoi meriti: i tentativi di restituirglieli, che da oltre un ventennio si sono moltiplicati, non sono ancora bastati a ridarle i1 ruolo che 1e spetta nella storia dell’arte tra 1e due guerre; ora una nuova biografia, arricchita da un’inedita documentazione, di Rachele Ferrario (Mondadori, 25 euro) ci riprova e c’é da augurarsi che sia la volta buona per decidersi a fare i conti con la sua personalità.

(Corriere di Verona, 27 marzo 2016)

di Chiara Zamboni

Le donne della cattedrale di Gisella Modica (ed. Villaggio Maori) e Donne+donne a cura di Roberta Di Bella e Romina Pistone (ed. Qanat) sono libri diversi, che hanno la capacità di farci entrare dall’interno in questioni aperte dal femminismo. Pur nella differenza di angolatura, sono sostenuti dal medesimo desiderio di autenticità esistenziale e di confronto politico con altre.

Ho voluto accostarli per due motivi. Questo mi permette di mettere a fuoco questioni fondamentali che palpitano oggi nel movimento, e anche perché sono laboratori di pensiero e sperimentazione nella città di Palermo, a cui sono legata per diverse relazioni.

(Leggi articolo integrale)

(www.diotimafilosofe.it – La rivista » Numero 13 – 2015)

di Luciana Tavernini

Ho incontrato Marina Corona grazie a Mariolina De Angelis, sensibile poeta che sa che per le donne che vogliono giungere a una autentica espressione di sé “la poesia non è un lusso”, come dice il titolo di un saggio di Audre Lorde del 1977, pubblicato in Sorella outsider. L’amore per la poesia ci accomuna.

Marina Corona dal 2011 ha organizzato a Milano i cicli La grande poesia femminile presso la Casa della cultura dedicati a grandi autrici come Saffo, Marina Cvetaeva, Emily Dickinson, Anna Achmatova, il ciclo sarà dedicato a Vittoria Colonna, Christina Rossetti e Emily Bronte.

Marina è a sua volta poeta, i suoi libri hanno vinto numerosi premi, tra cui il premio internazionale “Eugenio Montale” nel 1993 per la sezione inediti e nel 1998 per gli editi per L’ora chiara (Jaca Book). Nel 2006 ha pubblicato I raccoglitori di luce (Jaca Book).

L’occasione del dialogo è il romanzo La storia di Mario che, grazie a una scrittura essenziale e acuminata, mi ha aperto prospettive e interrogativi.

Nella prima parte del libro, di cui è protagonista Mario, un bambino di 6 anni, usi la terza persona. È la scrittrice che unisce ciò che possiamo vedere accadere e ciò che accade nell’interiorità del bambino: le libere associazioni, i salti temporali e di luogo, la profonda sensibilità alle emozioni, quelle che la persona adulta prova ma che spesso tacita, la multisensorialità, l’animismo che concepisce la vita diffusa anche nelle cose. Mi viene in mente Antonia Pozzi che sottolineava come compito della poesia fosse di “rubare l’anima alle cose”. E ancora la capacità di cogliere la bellezza nelle piccole cose, di gioirne con uno stupore improvviso.

Quanto della tua esperienza di poeta ha influenzato questo tipo di scrittura e come sei riuscita a entrare in modo così empatico nell’esperienza di un bambino e a darcene conto?

«L’empatia è una caratteristica della scrittura poetica: è indispensabile per una o un poeta “risuonare” empaticamente sia con la zona più sensibile del proprio animo sia con il mondo che la circonda e gli eventi che la toccano. Giovanni Pascoli parlava del “fanciullino” che vive nell’anima del poeta, come dell’elemento più importante della scrittura poetica e possiamo certo dire che Mario è una delle possibili raffigurazioni di questo “fanciullino” pascoliano. Ma per quanto mi riguarda ci sono stati dei dati biografici che hanno favorito il venire alla luce di questo stravagante bambino. Quando ho cominciato a scrivere questo libro mia figlia era piccola e quindi io ero impegnata in quell’esercizio di trascrizione logica di dati intuitivi ed empatici che caratterizza il compito di una mamma nei primi anni di vita della sua creatura. Inoltre lavoravo presso un asilo montessoriano che, per primo a Roma, dove allora vivevo, aveva attuato l’integrazione di bimbe e bimbi portatori di handicap; io ero quindi quotidianamente a contatto con loro e cercavo, facendomi aiutare anche dalle e dai loro amichetti più fortunati, di comprendere ciò che pensavano. Ero inoltre impegnata come paziente in una personale analisi kleiniana, esperienza psicoanalitica che comporta una regressione fino alle proprie esperienze infantili, con le quali io mi trovavo dunque in un rapporto privilegiato. Questo mi ha indotto a scrivere il romanzo fino al momento in cui Mario mette la propria brevissima letterina sotto la porta della camera della mamma. In seguito ho smesso di lavorare all’asilo montessoriano, mia figlia è cresciuta e l’analisi kleiniana è terminata, per queste ragioni, credo, non sono più riuscita a procedere nel romanzo e l’ho abbandonato per un lungo periodo, dedicandomi soltanto alla poesia. È stato il pittore Emilio Tadini che, molti anni dopo, quando mi ero ormai trasferita a Milano, informato da me su questo mio breve testo, mi ha consigliato di proseguire spostando il protagonista in un’altra dimensione della sua vita; così sono nate le pagine di Mario in campagna, pagine relativamente autobiografiche perché veramente a cinque anni sono stata affidata per un po’ di tempo a una zia che viveva in campagna e allevava bachi da seta. Successivamente è nata invece la seconda parte del libro: la vicenda di Maria, scaturita dal desiderio di dar voce ad una scrittura che tenesse presente la lezione di Joyce sul flusso di coscienza».

La vita di Mario è piena di avventure perché vive con intensità tutto ciò che gli accade, con una capacità di vedere oltre le apparenze ma questo cozza con l’ottusità della persona adulta che ha perso la capacità di meravigliarsi, che non si dà tempo per capire, perché ascolta solo ciò che è previsto. Il tuo libro ha costituito per me un percorso per rimanere in contatto con la bambina che sono stata, questo contatto è un prezioso aiuto per comunicare con l’altro da sé, aprendomi all’ascolto della sua imprevedibilità. Un aiuto anche nei confronti di chi per malattia o età avanzata si esprime con modalità comunicative che ci paiono incomprensibili perché crediamo che l’unico modo di comunicare sia quello verbale e razionale. Mentre molti personaggi, dai genitori alla maestra, alla zia di campagna, di fronte all’imprevedibilità di Mario si irrigidiscono, tu sai rimanere vicina a lui.

Come hai lavorato per fondere l’esperienza personale con i personaggi del libro?

«La capacità di rimanere in contatto con la parte infantile della nostra personalità è un dono preziosissimo sia per quanto riguarda la capacità di entrare in relazione empatica con realtà diverse dalle nostre sia per quanto riguarda la creatività. L’espressione artistica è un utilissimo allenamento a questo privilegiato contatto e a questo proposito vorrei aggiungere un aneddoto: il celebre pittore Paul Klee mostrò un giorno ad una signora di una certa età un suo disegno, si trattava naturalmente di un disegno astratto e la signora commentò: “Ma un disegno così lo sa fare anche il mio nipotino, che ha cinque anni!” “Certo signora,” rispose Klee “ma bisognerà vedere se saprà farlo ancora quando ne avrà cinquanta.”»

La seconda parte del libro è solo all’apparenza un’altra storia, quella di Maria. Infatti continua la numerazione dei capitoli e possiamo anche qui assistere a ciò che accade fuori e dentro la protagonista e cogliere la compresenza di più luoghi e tempi. In questa parte troviamo un io narrante, Maria appunto, che fa della malattia e della camera dell’ospedale la “stanza tutta per sé”, per citare Virginia Woolf, una stanza in cui ripercorrere la sua vita fino a sciogliere i grumi di silenzio e svelare le caratteristiche del perbenismo borghese negli anni Quaranta e nella prima metà dei Cinquanta del secolo scorso. Così tu riesci a offrirci uno sguardo diverso su quel periodo storico, mostrando che il silenzio, il tabù, su aspetti vitali della vita, come la scoperta della sessualità, si colleghino al silenzio e all’omertà sui delitti sociali come la segregazione e poi deportazione della popolazione di origine ebraica. Come sei riuscita a cogliere questo collegamento?

«La mia famiglia di origine era una famiglia “eccentrica” rispetto alla maggior parte delle famiglie che mi circondavano e che erano quelle nelle quali crescevano le mie e i miei amichetti, ma io mi resi conto, a un certo punto della mia infanzia, che anche quelle famiglie, dove sembrava che la vita scorresse secondo i canoni di un perbenismo sereno e amorevole, nascondevano una punta, e a volte più di una punta, di crudeltà: il plasmare le proprie figlie e figli secondo uno stereotipo che li voleva lontani dalla loro genuinità e piegati a quell’ “essere come tutti” tanto gradito alla società borghese comportava un’inibizione della spontaneità, della parte più autentica di uomini e donne, della sessualità femminile, ed esaltava i privilegi maschili, insomma esperienze queste che possiamo tranquillamente definire “violente”. Ho così paragonato nel libro la violenza coercitiva che un certo schema di educazione borghese esercitava sui propri figli e soprattutto figlie alla violenza nazista, perché la violenza è sempre violenza, anche se quella delle persecuzioni contro persone di origine ebraica ha rappresentato certo un apice inesplicabile in una società tanto evoluta e civile come la nostra. Violenza inesplicabile, nel mio romanzo, attraverso i ricordi di Maria, così come inesplicabile è la malattia del piccolo Mario».

La tua protagonista attua uno sprofondamento doloroso e necessario “per attingere alle risorse più intime”, per giungere ad azzerare i significati e le identità precedentemente costituite, per liberarsi di un falso sé. Qui il tuo libro si caratterizza come “scrittura del deserto”, così la chiama Wanda Tommasi nel saggio così intitolato pubblicato nel libro La magica forza del negativo, della comunità filosofica Diotima. Che cosa costringe la tua protagonista a entrare in questo discorso di verità, ad attraversare questo deserto?

«Maria si chiude nella stanza della clinica e riflette instancabilmente sulla propria vita perché una domanda l’attanaglia: oscuramente sente di avere una responsabilità nel disagio di suo figlio ma non sa quale sia in realtà questa responsabilità: “perché mio figlio è così?” Si domanda. Nella sua lunga e tormentosissima ricerca abbandona tutti gli schemi “benpensanti” che avevano caratterizzato il suo falso sé per sprofondare nella ricerca di una verità dolorosissima da raggiungere e da accettare. L’amore per il bambino la rende capace di questa ricerca ai limiti della follia, in questo senso Maria è una sorta di “madre coraggio” che a un certo punto non si piega più alle ragionevoli osservazioni che il suo mondo esterno perfettamente “come si deve” le suggerisce, ma, andando oltre una prudente protezione di se stessa, si dedica a un ripensamento del passato alla luce di una verità che solo la forza del suo amore le fa intendere. Questo sforzo grandissimo è l’unica via che lei felicemente intuisce come feconda per conciliarsi davvero con quel bimbo troppo difficile che il destino le ha dato in sorte».

La figura di Grazia rappresenta l’amica che l’ha saputa aiutare e le è rimasta vicina ma Maria non ha condiviso con lei i segreti che la opprimevano. Così come è avvenuto con la madre che le è sempre stata accanto ma a cui lei non è mai riuscita a parlare. È una situazione che precede la pratica femminista dell’autocoscienza, dove le donne, separandosi dagli uomini, hanno trovato parole per dire la propria esperienza e scoprire insieme alle altre l’origine del loro malessere e prima delle riflessioni sul rapporto con la madre che hanno modificato l’ordine simbolico. Della rivoluzione femminista ho scritto con Marina Santini in Mia madre femminista.Voci da una rivoluzione che continua. La tua protagonista vive in un periodo precedente e la sua ricerca è solo apparentemente individuale, infatti attorno a lei collochi altre figure benefiche che usano parole e gesti empatici, ad esempio l’infermiera che dice: “Il bene aiuta. Non risolve, no, però aiuta”.Che funzione hanno queste figure femminili e alcune maschili nell’uscita dalla “malattia della morte”, come Marguerite Duras chiama questa incapacità di amare, individuale e sociale? Quali indicazioni possiamo trarne?

«Direi che è proprio la capacità di Maria di vivere una ricerca personale di verità, per quanto difficile da accettare sia questa verità, che la pone in una condizione di particolare ricettività agli aiuti che le possono giungere dall’esterno, da un mondo che non è per nulla estraneo ai fatti che ci accadono. Io penso che il trovarsi spiritualmente in un luogo di verità chiami a noi aspetti del mondo benefici. Il mondo sempre è in grado di soccorrerci perché, così come contiene insidie, allo stesso modo contiene medicamenti e improvvise felicità, questi ultimi però riusciamo a scorgerli solo se ci liberiamo di quella crosta di credenze, abitudini e pregiudizi che abbiamo costruito intorno a noi e che servono principalmente ad anestetizzarci e proteggerci dal dolore sia interno che esterno e ci apriamo all’accadere scoprendo in esso tante avventure salvifiche. Maria è certamente da un lato una donna molto in pericolo perché può morire, oppure impazzire, ma da un altro è una donna per così dire in stato di grazia, perché la sua ricerca di verità la rende capace di una rara autenticità e fa sì che la zona luminosa del mondo in qualche modo la raggiunga soccorrendola e confortandola; non ha chi la aiuti nella sua ricerca perché nessuna persona potrebbe condurla attraverso gli intricati e nebulosi pensieri della sua mente tormentata, ma la sua solitudine, come una calamita, attira a sé piccole vicende di salvezza».

Marina Corona, La storia di Mario, Robin Edizioni 2013

Marina Corona, L’ora chiara, Jaca Book 1998

Marina Corona, I raccoglitori di luce, Jaka Book 2006

Diotima, La magica forza del negativo, Liguori

Audre Lorde, Sorella outsider, Il dito e la luna, Milano 2014

Marguerite Duras, La malattia della morte, in Testi segreti , Feltrinelli, Milano 1987

Marina Santini, Luciana Tavernini, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, Il poligrafo 2015

(www.societadelleletterate.it, 15 marzo 2016)


Benché la ricerca per sua definizione non è mai conclusa e ci restituisce sempre la possibilità di ridomandare, di indagare di nuovo, di aggiungere, aggiustare, completare; la freschezza e l’entusiasmo di una ricerca dottorale ha il sapore della passione viva dell’inizio, che non tutti sul lungo percorso riescono a mantenere. Questo è il caso di Federica Castelli, neo Dottoressa di ricerca, che pubblica il suo lavoro con Mimesis, con il titolo Corpi in rivolta. Spazi urbani, conflitti e nuove forme della politica, nella collana Eterotopie.
Come si evince già dal titolo l’autrice apre con questo libro un focus su cosa accade ai corpi che attraversano gli spazi pubblici in segno di dissenso rispetto al pensiero dominante o alla politica dell’istituzione: dalle occupazioni di Wall Street, alle piazze turche, fino ai flash mob. Cosa si inventano i corpi quando si pare uno spazio che li ascolta? Che tipo di conflitto mettono in atto e quali tensioni? Che peso e che valore aggiunto ha la differenza sessuale che i corpi portano?
Una breve Prefazione apre la riflessione e guida alla lettura del saggio, che si divide in quattro segmenti. L’analisi si serve di una chiara impronta filosofia e femminista, con la quale l’autrice legge le questioni che affronta nelle differenti parti del testo. Tuttavia, ulteriore pregio di questo lavoro è che non sembra di avere a che fare con un testo per addette ai lavori. Al contrario lo sforzo di Castelli, molto ben riuscito, è quello di parlare a tutti, con il vantaggio di poter costruire, seguendo il ragionamento dell’autrice, una cornice teorica solida per chi da attivista ha molte volte vissuto la piazza come spazio di dissenso, ma anche per chi semplicemente voglia costruirsi un pensiero critico di alto livello nel riflettere sull’esperienza dell’occupazione dello spazio pubblico: sia esso edificio, piazza o bosco.
La prima parte non poteva che aprirsi con un’indagine, che affonda le radici fin nell’antica Grecia, sui concetti di Differenza, Corpo (naturalmente) e Forza, che l’autrice ribadisce essere “il rimosso del politico”. D’altro canto, “in quanto unicità incarnate, i soggetti sono presenti nella scena pubblica con il loro corpo, che li pone in costante rapporto di esposizione-relazione all’alterità. Un corpo in piazza ha un valore che va al di là della presenza numerica che manifesta: è segnale incarnato di una protesta e segno della possibilità di un’alternativa politica” (p.10).
Non solo, in campo non c’è soltanto la relazione con e l’esposizione all’altro o all’altra, quando è il soggetto incarnato a farsi spazio nel dissenso collettivo, ma anche quella dimensione della parzialità, che apre alla sovversione. Se infatti “il tutto è l’universale, la parte è sovversione” (p. 33).
Interessante a questo punto è la possibilità che si genera da questa distinzione, e dal gesto femminista che scansa il soggetto neutro. Si fa spazio infatti, a partire da questo gesto, l’interrogazione su quale forma di dissenso tenga più conto della dimensione corporea e sessuata.
Il secondo capitolo infatti è dedicato alle forme di Rivoluzione, Rivolta e Tumulto.
Se “l’esperienza rivoluzionaria è calata nella temporalità storica e tende a modificarla stando alle sue regole e alle regole della definizione del potere” (p. 56), “una rivolta, lungi dall’essere una rivoluzione fallita o un eccesso di rabbia sgretolata, è invece luogo di sperimentazione e di una sospensione temporale che mette tra parentesi il già dato della storia” (ibidem). In altre parole, la rivolta apre alla possibilità di una temporalità altra che permette un libero gioco di quelle categorie che solo con il femminismo si sono potute concepire come politiche: “desiderio, autocoscienza, appropriazione del corpo, pratica dell’inconscio” (p. 46).
I rivoltosi e le rivoltose non dettano il futuro, ma lo evocano lasciando uno spazio di abitazione per i corpi e per le soggettività a venire.
Alcune esperienze di rivolta sono evocate nella terza parte del lavoro di Castelli, ma il quarto capitolo, Donne e rivolta, è quello che contiene più di tutti un sapore di una proposta politica più viva: quella che le donne di molti femminismi fanno a questo mondo. Solo la dimensione contenuta del corpo e non quella estesa oltre sé e gli altri della mente sganciata dal corpo, può parlare a questo mondo senza l’avidità che proviene dal volerlo dominare.
Le pagine che ci hanno condotto attraverso la complessità di queste riflessioni non si concludono qui, ma ci regalano una quinta sezione, che forte del percorso fin qui compiuto rilegge l’esperienza delle donne della Comune di Parigi (1871).
Ripercorrere la storia delle donne, come in questo caso, non è un’operazione che vuole completare quel quadrante della storia che per molto tempo ci siamo dimenticati, ma ricostruisce una cancellazione ben più grave: quella delle pratiche delle donne.
Riconoscerne una per cancellare le altre o per fare di lei l’eccezione “al femminile” di una figura nota come maschile è la colpa ben più grave con cui “il maschile” deve fare i conti.
Roberta Paoletti in DWF (107) Ancora Sorelle?, 3, 2015

(www.dwf.it, 14 marzo 2016)

di Francesca Ruina (pubblicato il 25/3/2015 su doppiozero.com)

“Le parole / non fanno l’amore / fanno l’assenza”, dipingono il contorno del vuoto, cadendoci dentro con lo stesso suono di una goccia che dal cielo precipita sul fondo di un pozzo. Le parole rimbombano, le parole si parlano, le parole si sgretolano.

 

Alejandra Pizarnik nasce ad Avellaneda, presso la capitale argentina, nel 1936, da una coppia di emigranti ebrei di origine russa, che intingono, fin da subito, le radici della piccola bicho (“bestiolina”, come soleva affettuosamente chiamarla l’amico Julio Cortázar) in un eterno e irrimediabile altrove. Per esser-ci, per sentirsi esistente hic et nunc, nella sua patria geografica ed esistenziale, Alejandra ha un unico strumento, un pharmakon – medicina e veleno al tempo stesso – che la accompagna ossessivamente per tutta la vita: il linguaggio. Divora compulsivamente i classici della letteratura, si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia di Buenos Aires, studia pittura con il surrealista Juan Baltle Planas per poi approdare a Parigi, dove traduce autori come Yves Bonnefois e Antonin Artaud – scrivendo, di quest’ultimo, in un diario del 25 dicembre 1959: “Artaud sono io. La sua lotta con il silenzio, con il sentimento d’abisso assoluto, di vuoto, con il suo corpo alienato, come non associarlo alla mia lotta?”.

 

La sua lotta insegue il movimento del Fort / Da freudiano – il gioco del rocchetto – l’alternarsi di presenza e assenza, di parole e silenzio, attraverso cui Alejandra allontana e avvicina la morte, i fantasmi, le ombre. A questo le serve il linguaggio, il suo con-fondersi con la letteratura: per nascere e morire, costruirsi e sgretolarsi a ogni sputo di sillaba.

 

Il linguaggio è una medicina, un antidoto al vuoto – “se c’è una ragione per la quale scrivo, è perché qualcuno mi salvi da me stessa”, leggiamo da un’intervista del 1962. Il linguaggio crea, argina, definisce, nomina, dà forma. Un linguaggio per “spiegare con parole di questo mondo / che partì da me una nave portandomi”, unica ancora per non venire risucchiata nel gorgo dell’informe, negli abissi di un’identità ab-negata.

“Scrivere è cercare nel tumulto dei bruciati l’osso del braccio corrispondente all’osso della gamba”. Riassemblare pezzi di cadaveri mai morti, fantasmi di un’infanzia che non smette di ritornare, cocci di specchi che riflettono “questo affondare senza affondarsi”. Scrivere per ricucirsi, a causa di quella “paura di essere due / sulla via dello specchio: / qualcuno che dorme in me / mi mangia e mi beve”. Scrivere per tessere un filo tra la donna che (non) è e la bambina che (non) è stata, tra un presente sfocato e un passato pre-edipico, ancestrale, fetale: “ora / in quest’ora innocente / io e colei che fui ci sediamo / sulla soglia del mio sguardo”.

 

Versi tanto brevi e scarni quanto immediati, materici, visionari. L’inquietudine di Alejandra rianima gli spiriti dei suoi maestri letterari – in particolare Nerval, Artaud e Blake – alimentando le braci verbali con gli aneliti del proprio annaspare. La sua vita è tutta un tentativo di crearsi un’identità attraverso le parole, di essere sorretta e protetta da un linguaggio che accolga quel malessere senza voce (o con troppe voci) che sgorga informe da tutti i suoi gangli. Un tentativo di “estrarre la pietra della follia. Non la pietra dalla follia”.

 

Ma se da una parte il linguaggio è una forma di salvezza, dall’altra è l’incarnazione dell’impossibilità di dire (di dirsi). “La parola mi riveste come uno strato di terra”, scrive Alejandra, ben conscia che “la voce va sul foglio e continua, / continua a non parlare di me”. Ecco il rovescio del pharmakon, la cura che diventa veleno, la “salvezza [che] celebra / l’abbondanza del nulla”.

Il linguaggio non salva. Il linguaggio la abbandona alla sua “paura di non saper nominare / ciò che non esiste”. Il linguaggio è una struttura che la ingloba senza darle voce, senza permetterle di espiare i suoi fantasmi.

Naufraga in se stessa, traghettatrice della propria anima come un Caronte che ha smarrito la via, aggrappato con tutte le sue forze a una barca che fa acqua da tutte le parti. “Non ho più trappole di parole”, si dice senza riuscire mai – ecco la condanna del linguaggio – a liberarsi dal dire. Anche l’impossibilità del dire può soltanto essere detta, restando così appesa tra una bocca che si apre e un suono che non esce, appesa a una penna che si arrende a un inevitabile foglio bianco.

 

Cosa fare, allora, per riuscire a manomettere almeno un poco il sistema linguistico? Per creare uno spazio, un respiro all’interno della gabbia dorata del linguaggio?

“Mi dico i miei silenzi”, risponde Alejandra, “mi silenzio”.

Ecco la sua vera voce: un’ossimorica voce che tace. “Quando alla casa del linguaggio vola via il tetto e le parole non guariscono, io parlo.”

Il sussurro di Alejandra rimbalza tra bocche che si chiudono, riempiendo gli spazi interstiziali dell’anima con il silenzio di un manto di neve che ricopre ogni cosa.

 

Le poesie di Alejandra Pizarnik – di cui i frammenti qui riportati sono in gran parte tratti dal testo La figlia dell’insonnia (a cura di Claudio Cinti, Crocetti Editore, 2004) – hanno l’incredibile capacità di veicolare il silenzio, di essere silenzio, il più tragico e salvifico silenzio – “tentazione e promessa”. Sono gelida neve sciolta che scorre fino alle più remote profondità dello stomaco, che pietrifica il lettore in un empatico riconoscimento di qualcosa che nemmeno sapeva di provare.

 

Alejandra muore nella notte tra il 24 e il 25 settembre 1972 per un’overdose di barbiturici, aggiungendo il suo nome al registro delle eroine della letteratura che le parole non hanno saputo salvare: da Sylvia Plath a Marina Cvetaeva, da Anne Sexton ad Antonia Pozzi.

A me piace immaginarle tutte insieme, mentre la forza vitale della loro inquietudine conia un nuovo linguaggio, in cui le parole sono solo orpelli inutili; un linguaggio fatto di sguardi e silenzi, che non riverberano il vuoto ma afferrano e costruiscono il presente. Un linguaggio che permetta a loro – e a tutti noi – di “tornare a essere”, come scrive Alejandra ne La notte, una poesia tratta da Le avventure perdute del 1958:

So poco della notte
ma la notte sembra sapere di me,
e in più, mi cura come se mi amasse,
mi copre la coscienza con le sue stelle.

Forse la notte è la vita e il sole la morte.

Forse la notte è niente
e le congetture sopra di lei niente
e gli esseri che la vivono niente.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nell’enorme vuoto dei secoli
che ci graffiano l’anima con i loro ricordi.

Ma la notte deve conoscere la miseria
che beve dal nostro sangue e dalle nostre idee.
Deve scaraventare odio sui nostri sguardi
sapendoli pieni di interessi, di non incontri.

Ma accade che ascolto la notte piangere nelle mie ossa.
La sua lacrima immensa delira
e grida che qualcosa se n’è andato per sempre.

Un giorno torneremo a essere.

(doppiozero.com, 25/3/2015)