di Luciana Tavernini

 

Insegnare, prendersi cura, dirigere un’azienda. Esperienze di vita, di lavoro e di cambiamento – personale e relazionale – che cercano una forma di scrittura per dire e dirsi:

Vita Cosentino, Scuola. Sembra ieri, è già domani. L’autoriforma come trasformazione della vita pubblica, a cura di Marina Santini e Alessio Miceli, Moretti & Vitali, Bergamo 2016, pp. 282, euro 18,00

Franca Fortunato, Sai chi è Lina Scalzo?, e-Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano 2016, pp. 22, scaricabile gratuitamente da www.libreriadelledonne.it

Luisa Pogliana, Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende, Guerini Next, Milano 2016, pp.142, euro 17,00

 

Sempre più donne creano libri “su misura” per dire ciò che hanno scoperto o vanno scoprendo: prendono dai generi letterari quelle caratteristiche che possono mettere in luce le loro pratiche, come facciamo quando ci vestiamo per essere al meglio, senza la pretesa che le nostre scelte divengano delle divise.

Così possiamo leggere libri che ci sorprendono non solo per quello che dicono ma anche per le sfaccettature della loro composizione.

In Scuola. Sembra ieri, è già domani incontriamo dapprima un’autobiografia politica – non a caso intitolata “Incontri che trasformano. Una storia non singolare” perché in essa ritroviamo passaggi delle nostre esistenze degli ultimi cinquant’anni – in cui Vita Cosentino indica ciò che per lei ha prodotto cambiamento, inducendoci al confronto: dal trasformare i divieti paterni in occasioni per salvare l’essenziale (l’amore per la scrittura e la cura di chi è più debole), alle sperimentazioni personali e collettive del ’68, alla scoperta del piacere dell’insegnamento, al femminismo per lei più fecondo di invenzioni e di possibilità di azione politica dal 1980 in poi. Se in questo primo testo le possibilità che si sono aperte sono indicate in un linguaggio limpido e sintetico, nel resto del libro vediamo come sono state giocate in vari momenti storici e che cosa hanno prodotto.

Il libro infatti prosegue con sei raccolte di testi, scritti in più di venticinque anni dall’autrice, alcuni con altre e altri per riflettere su esperienze condivise, testi scelti insieme a Marina Santini e Alessio Miceli, due insegnanti che li hanno selezionati “sulla base di quanto risuona nel presente”. E così ci troviamo di fronte a un punto essenziale di questo modo di intendere la politica: riesco a dire ciò che faccio soprattutto in relazione con un’altra e anche con un altro, se non ha la pretesa che la sua sia la sola visione possibile del mondo. Nei testi veniamo sempre a conoscenza degli intrecci di relazioni che hanno generato i cambiamenti.

Inoltre non è la cronologia che ordina, anche se di ogni saggio nella essenziale nota iniziale viene presentato il contesto e quando è stato reso pubblico (un convegno, una rivista, un libro…), ma il desiderio di offrire alcune di quelle scoperte che hanno cambiato il modo di intendere e di fare politica. Essendo l’autrice un’insegnante che ha lavorato dagli anni Settanta in poche scuole sempre di periferia, le esperienze da cui nasce questo sapere hanno al centro la scuola. Diverse volte i saggi si illuminano di racconti emozionanti: infatti è in atto una ricerca che parte da interrogativi veri, mossi da un’attenzione amorosa verso le creature piccole e tutti i soggetti che vivono loro attorno.

 

Illuminare l’esperienza

Come dice il titolo della collana, diretta da Annarosa Buttarelli, in cui il libro è inserito, Pensiero e pratiche di trasformazione, è leggendolo che possiamo incontrare il venire alla luce di parole che illuminano l’esperienza. E, come ogni nascita, richiede attenzione non solo da parte di chi scrive ma anche da parte di noi che leggiamo. Qui dunque posso solo fare brevi accenni. Innanzi tutto Vita Cosentino sa vedere cosa produce l’irruzione della soggettività, quella femminile, l’imprevisto storico del nostro tempo: sa nominare i cambiamenti nel modo di essere insegnanti in classe e nelle relazioni con altre colleghe, come, ad esempio, trovare e proporre figure femminili perché ragazze e ragazzi possano modificare il loro immaginario e inventare modalità in cui nel corpo sessuato, visto come unicum, le varie aree corporea, affettiva, cognitiva siano attivate insieme.

Quello che le permette di continuare a inventare pratiche trasformative e a metterle in parola, superando la semplice narrazione di un’esperienza, è il rapporto costante con la Libreria delle donne di Milano e una politica della libertà che le corrisponde. Lei può esserci da subito nel mondo con i suoi desideri più profondi, senza rimandarli a dopo “la presa del potere”; capisce con altre qualcosa in più di sé e del mondo senza voler applicare una teoria generale, pensata da altri; può agire instaurando rapporti personali, dando credito a “un cambiamento di sé” nel presente nelle relazioni in cui ci si trova; sa così inventare pratiche di vita sottratte al potere, mettendosi in gioco, avendo e dando fiducia, grazie alla forza trasformativa della lingua.

Infatti nella parte finale dal suggestivo titolo Tutto è lingua viene sottolineato come il dare forma propria a ciò che si sente, l’espressione di sé, in particolare con la scrittura, è un bisogno fondamentale di ogni essere umano. L’autrice allora può polemizzare con alcuni aspetti della scuola di Barbiana di Don Milani o con Le 10 tesi per un’educazione linguistica democratica, riuscendo ad andare oltre proponendo, ad esempio, “una pratica di scrittura relazionale, non solitaria ma interlocutoria”.

Nota come le nuove generazioni cerchino il riferimento nelle figure adulte e come sia importante trovare strumenti per esprimere giudizi: infatti punizioni o terrorismo verbale sono percepiti come poveri e quindi, invece di legare autorità e potere al ruolo o alla materia da insegnare, occorre assumerli con la parola dove la misura dell’esattezza del discorso non è data una volta per tutte ma dal non falsificare la realtà aprendo alla libertà dell’altra/o, dando consapevolezza ad allieve e allievi della loro capacità di usare una lingua viva.

Nel libro si ragiona su cos’è movimento politico, mostrando esperienze come il Seminario di Pedagogia della differenza di Milano all’inizio degli anni Novanta, o l’autoriforma gentile, dove donne e uomini hanno sperimentato il pensare insieme, riuscendo a dire e fare iniziative, fuori dal coro delle istituzioni della sinistra, sulle “riforme, maledette riforme”, tenendo viva “la felicità di insegnare”. Vita Cosentino ha saputo cogliere la politicità delle lotte delle maestre per la difesa del tempo pieno o di quelle per opporsi agli aspetti disumani degli sgomberi dei campi rom, mostrando il “valore in più” che sanno dare alla vita di tutta la società, grazie al loro saper stare vicino alle creature piccole. Ecco allora scorrere diverse esperienze dal convegno Le maestre e il professore, al film L’amore che non scordo, alle assemblee contro il cosiddetto “maestro unico”, all’attenzione per le pratiche delle maestre e delle mamme di via Rubattino a Milano, alle modalità di un’osservazione, seguita dalla conversazione con la maestra della classe osservata, e altro ancora.

Il libro ci ripropone documenti degli ultimi venticinque anni e ci aiuta a ripercorre momenti in cui le e gli insegnanti hanno aperto un confronto sul tipo di società in cui desideriamo vivere, mostrando il modo relazionale con cui sono riuscite in alcuni casi a far tornare sui suoi passi il Ministero, come nel caso del concorsone per dare aumenti ad alcune/i, perché hanno saputo mettere in luce che ciò che rende buona la scuola non è la conoscenza – da parte dell’insegnante e poi delle classi – del massimo di nozioni e neppure il saper strutturare una lezione dove tutto passa secondo programmazione, ma il saper progettare con l’apertura all’imprevisto, suscitando “domande vere”, quelle di cui non sappiamo già le risposte.

 

Nominare i cambiamenti

Con l’entrata in massa delle donne nel mondo del lavoro diviene sempre più urgente l’impegno a osservare e nominare i cambiamenti prodotti. Mi pare che in questa direzione si siano mossi alcuni recenti libri che mi hanno dato la sensazione del diradarsi della nebbia delle interpretazioni stantie.

Accennerò a Sai chi è Lina Scalzo? di Franca Fortunato e a Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende di Luisa Pogliana.

Il primo è un e-book in duplice formato e-pub e pdf, che inaugura la collana di Quaderni elettronici pubblicati dalla Libreria delle donne di Milano. Si tratta di un’intervista introdotta però dall’autobiografia di un’amicizia politica quarantennale tra l’autrice e l’intervistata, senza la quale non sarebbe stato possibile mettere in luce le trasformazioni e le contraddizioni aperte nelle istituzioni assistenziali.

Il racconto di Lina Scalzo, che prende slancio dalle domande di Franca Fortunato, ci mostra come dal 1943 alcune donne, mettendosi in gioco interamente abbiano inventato pratiche all’origine del welfare state. Ripercorrendo momenti salienti della sua esperienza lavorativa e non solo, Lina va al cuore dei problemi che toccano la cura, indicando alcune pratiche che mettono in discussione le modalità neutralizzanti e aziendalistiche che sembrano rendere i servizi più efficienti ma stanno pericolosamente disumanizzando “gli utenti”. Ci mostra come è necessario il rispetto della soggettività dell’altra, persino quando non è più viva, di come sia possibile la costruzione di un ambiente familiare, in cui ricoverate e assistenti lavorino insieme e abbiano così il senso di poter contribuire, ciascuna a modo suo, al benessere di tutte. Anche qui non troviamo protocolli, ma leggiamo racconti che ci aiutano a evitare l’ordinaria, e forse inconsapevole, disumanizzazione nell’efficienza e neutralità, oggi predicati. Anche qui il sapere non è tutto da una parte ma si costruisce insieme, dando spazio alla soggettività dell’altra. È infatti dall’ascolto di alcune ricoverate che si possono imparare gesti di rispetto come entrare nella stanza salutando, chiudere la porta, smettere di parlare tra assistenti mentre si lava e si veste una donna, alzare il lenzuolo quello che basta rispettando il pudore del corpo, lasciare sui comodini gli oggetti personali, tanto per fare degli esempi. Inoltre ci confrontiamo con le riflessioni sui cambiamenti, conseguenza della legge sulla parità del 1977. In modo pacato il libro mostra le contraddizioni dei reparti misti: dagli operatori che faticano a imparare dalla competenza femminile maturata negli anni; alla perdita, nel rapporto con gli uomini, di intimità e libertà delle donne ricoverate; alla loro difesa dalla prepotenza e aggressività di alcuni. Problemi da tener presente per dare giorno dopo giorno soluzioni. E poi invenzioni come la pratica del ricostruire le storie personali, andando nei luoghi d’origine delle ricoverate, incontrandovi le persone rimaste nei ricordi: una modalità che non separa corpo, affettività, apprendimento, che tiene insieme passato e presente. Una pratica che crea consapevolezza di come in diversi casi, alla base di un disturbo psichico vi sia stata una violenza maschile taciuta, che ora siamo in grado di svelare, senza colpevolizzare la donna che l’ha subita, anzi liberandola, seppure siano passati tanti anni.

Un libro breve e intenso che non è solo utile nei corsi professionali e universitari, compresa medicina e psichiatria, ma aiuta tutte le persone che si prendono cura di chi ha bisogno di aiuto perché riesce a darci orientamenti che rendono più felice la nostra vita. Un libro, anche questo, dove si vede in atto l’importanza della politica del simbolico, quella politica che, riuscendo a mettere in parole l’esperienza, grazie alla relazione almeno con un’altra, ci rende consapevoli della direzione del nostro agire in una situazione e ci dà maggiori energie per continuare ad impegnarci.

Il testo di Luisa Pogliana Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende, suddiviso in brevi capitoli e paragrafi, intervallati dal racconto puntuale di situazioni precise, mette in discussione il modo di concepire il management volto alla ricerca di risultati a breve termine da portare agli azionisti dell’azienda, imponendo le scelte attraverso una gerarchia rigida e ruoli predefiniti e controllandone l’esecuzione. Promotrice dell’associazione donnesenzaguscio, l’autrice, discutendo con le altre dell’associazione, con Giordana Masotto e Lia Cigarini, e coinvolgendo diverse manager, ha mostrato come alla base di soluzioni innovative vi sia una diversa concezione non solo del modo di dirigere un’azienda ma dell’azienda stessa.

Le manager di cui vengono presentate parecchie esperienze, scelte di volta in volta come esempio di attuazione di un criterio, di un orientamento, invece di imporre modelli, programmi e procedure, cioè norme e procedure stabilite prima, propongono metodi, progetti, processi cioè un cammino per tendere a una meta, andando avanti. Esse gestiscono il presente, progettano nella realtà creando situazioni di controllo e responsabilità diffusa, non temendo di svalorizzarsi perché “la responsabilità, come la conoscenza o un sentimento, è qualcosa a cui non si rinuncia nel momento in cui si condivide”. Si tratta di imparare a scoprire e coltivare le potenzialità di chi si dirige, creando però sistemi premianti sia con una retribuzione materiale che immateriale. Le donne, soggetti complessi che nel lavoro portano tutta la complessità della vita, creano modalità di riconsiderare il tempo – sia, ad esempio, con il part time sia con il lavoro agile – ma fanno in modo che queste modalità non portino alla maggiore precarizzazione e a una perdita di professionalità. Non solo: la maternità ma anche la paternità, delle dirigenti e delle e dei dipendenti diventano stimolo per soluzioni che portano innovazioni e profitto alle aziende, invece di essere trattate come inciampi. Tante le pratiche proposte non usando il linguaggio specialistico, anche se l’autrice lo conosce bene e lo cita quando vuol farci cogliere meglio la diversità dell’approccio proposto anche nel caso di quei termini come accountability o smart-working che sembrano avvicinarsi.

Questi tre libri, pur nella varietà dei contesti presentati e in cui sono nati, hanno in comune alcuni aspetti che li rendono interessanti per tutte e tutti. Sono esempi della necessità per le donne, dopo decenni di attività in un ambito lavorativo, di mostrare i cambiamenti prodotti soprattutto da loro, a partire dall’idea stessa di cambiamento: Cosentino parla di metamorfosi (non si è più come prima senza avere la pretesa di aver distrutto ciò che c’era prima), Pogliana parla di esplorare i confini, riuscendo a spostarli. Viene usata consapevolmente la lingua materna al posto dei linguaggi tecnici del campo lavorativo su cui riflettono. Vi è una capacità tutta politica di vedere criteri e orientamenti che guidano i cambiamenti prodotti da alcune donne senza ridurli a racconti estemporanei di buone soluzioni valide per quelle situazioni specifiche e senza pretendere che diventino ricette. Si tratta di una capacità che matura nella relazione di attenzione e dialogo con almeno un’altra, per condividere innanzi tutto con lei il sapere che l’esperienza raccontata genera e poi con il mondo attraverso l’impegno della scrittura.

(Leggendaria n. 121/2017)

 

È disponibile in formato pdf la versione aggiornata al 2016 (170 pagine – 2,7 MB) della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it

di Claudia Durastanti

A uno scrittore non basta morire per essere canonizzato, soprattutto se per gran parte della sua vita è stato eretico. Eppure quando Angela Carter è scomparsa venticinque anni fa — lei che per tutta la carriera ha scritto di magia e ragazze dalla sessualità ferale e violenta recuperando generi negletti come la favola e il gotico in un periodo storico dominato dalle preoccupazioni austere dei vari Martin Amis o J. G. Ballard — l’Inghilterra si è inginocchiata subito per celebrare questa sorta di Dickens sotto psichedelici o di Salvador Dalí delle lettere, che una volta ebbe l’idea di proporre una tesi di dottorato con il titolo “De Sade: culmine dell’Illuminismo”. Non esattamente una figura

conciliante. Ma se critici, lettori e colleghi — fu molto amica di Salman Rushdie e fece da mentore a Kazuo Ishiguro — continuano a celebrarla, lo fanno per una ragione precisa: dotata di una fantasia massacrante e di una capacità unica di articolare le contraddizioni del desiderio, Angela Carter è sopravvissuta persino al mito di se stessa, stando al quale è una specie di strega benigna del fantastico.

Per capire come funziona il mondo di Angela Carter, basta leggere le prime pagine di Notti al circo, uscito ora Fazi nella brillante e laboriosa traduzione di Maria Giulia Castagnone: la protagonista Fevvers è una performer circense di fine Ottocento parzialmente ispirata a Mae West che, a differenza dell’attrice, ha due ali maestose sulla schiena. Fevvers è torrenziale, seduce principi, sottomette persino la Russia con il suo fascino. A guardarla più da vicino, tuttavia, questa donna-uccello dalla gestualità volgare e grandiosa «somigliava più a una giumenta da tiro che a un angelo» ed era un «capolavoro di squallore squisitamente femminile», piena di difetti che traspaiono sotto il trucco e la finzione. Fevvers è un miscuglio aberrante e bellissimo di tante cose, e, come spesso accade nella scrittura di Carter, in Notti al circo nessuna superficie resta intatta: ogni architettura rivela una crepa, e ogni crepa fa precipitare in un sotterraneo.

Ci sono scrittori che riportano il lettore dentro se stesso e a cui ci si affeziona per immedesimazione, perché i protagonisti sulla pagina somigliano tanto a chi legge. E poi ci sono autori che invitano il lettore ad andare contro se stesso, lo portano in posti in cui tutto è oscuro e liberatorio, e lo fanno innamorare dei suoi difetti potenziali invece delle cose che sa già. Angela Carter è una grande autrice che trascina il lettore proprio in questi spazi imprevedibili e iridescenti, in cui la realtà è solo una delle tante alternative a disposizione. Diventata famosa negli anni in cui impazzava il realismo magico, non amava molto questa definizione se attribuita ai suoi testi: «Non possiamo parlare di realismo magico ogni volta che succede qualcosa di strano in un romanzo », diceva.

Che Angela Carter costringa il lettore a smascherarsi e scoprire qualcosa di inedito su di sé, l’ho scoperto in prima persona quando mi sono trasferita in Inghilterra e ho conosciuto la mia proprietaria di casa, un’artista dai lunghi capelli bianchi che vive in campagna e indossa le scarpe di Dorothy nel Mago di Oz anche di inverno. Un giorno per fare conversazione le avevo chiesto quali fossero i sui libri preferiti. Erano La camera di sangue e Notti al circo di Angela Carter, ovviamente, informazione che mi diede prima di regalarmi una delle sue creazioni: una di palla di vetro piena di specchi deformanti e una foresta di fiamme. Quello era il motivo per cui non volevo leggere Carter: perché piaceva alle persone strane, che vivevano in un mondo parallelo in cui tutto, dal sesso alla neve imprevista ai furti al supermercato, venivano ridotti alle diavolerie di Vladimir Propp, e il destino aveva un peso specifico troppo ingombrante. In quegli anni preferivo leggere scrittrici che potevano prendere una virata lievemente futurista, come Jennifer Egan, ma lo facevano a partire da una base reale.

Era una lettura fuorviante e rischiavo di smarrire il fatto che due autrici così diverse stavano lavorando sul tema che mi interessava di più: la possibilità di reinventare se stessi, la malinconia data dallo scontro tra quello che pensiamo di essere e il modo in cui ci percepiscono gli altri, e l’occasionale gioia che proviamo quando ci rendiamo conto di essere riusciti a imporre la nostra versione preferita al mondo.

Negli ultimi anni, la versatilità di Angela Carter mi ha teso agguati ovunque: dalla Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer (Einaudi), soprattutto per il lusso nelle descrizioni paesaggistiche e nell’architettura della stranezza — non a caso VanderMeer la riconosce come maestra e le ha dedicato dei saggi critici — a Boy, Snow, Bird di Helen Oyeyemi (Einaudi) che attraverso la favola di Biancaneve affronta questioni politiche come la segregazione razziale proprio come ne La camera di sangue Carter prendeva le favole non per farle diventare roba per adulti, ma per svelarne i contenuti latenti, la sensualità, la trasgressione e i pericoli che già contenevano.

Se Malamud diceva che la vita è una tragedia piena di gioia, per Carter «la commedia è una tragedia che succede agli altri» e nei suoi romanzi si è destreggiata con le varie complicazioni di quest’affermazione, con un brio e un piacere che il lettore oggi forse riscontra solo in Fato e furia di Lauren Groff (Bompiani).

Ma Angela Carter è anche nella Sara Taylor di

Tutto il nostro sangue (minimum fax), per il modo in cui affronta la disparità di genere: «Ho letto Carter — racconta — dopo un decennio e mezzo trascorso su testi scritti da uomini o per gli uomini o sugli uomini, in cui viene presentata una “mitologia” della donna che ho sempre sentito come inadegua- ta. La scrittura di Angela Carter mi ha mostrato che quella mitologia poteva essere sovvertita». Ed è impossibile non pensare ad Angela Carter durante

The OA, la serie controversa di Netflix che invece di raccontare la sindrome da stress post-traumatico di una ragazza rapita per sette anni con le armi convenzionali del realismo, lo fa attraverso la Russia kitsch, gli angeli, la danza.

Ma la cosa più bella che si impara dai racconti e dai romanzi di Angela Carter è proprio questa: ciò che la fantasia e l’immaginazione possono fare a una creatura ferita, per darle un’altra vita. Con la sua scrittura, ha sempre dato una seconda possibilità a una vittima: come se la vittima fosse un ruolo sfortunato e temporaneo, ma non definitivo. Interrogata sulla natura del suo lavoro, diceva: «Non scrivo mai della ricerca di sé. Non ho mai creduto che il sé fosse una bestia mitica che è stata intrappolata e deve essere restituita, in modo che una persona torni a essere intera. Io scrivo delle negoziazioni che facciamo per scoprire un altro tipo di realtà. Quando siamo nella foresta non andiamo alla ricerca di noi stessi, ma dell’altro».

Poco familiare, strana e sensuale, Angela Carter è una favolista nata che invita il lettore a seguirla nei boschi o nelle sue parodie circensi, per esporlo a una vera e propria crisi della presenza in cambio di qualcosa di molto più complesso e affascinante: una possibilità di perdere se stesso e trovare il mondo.

(Repubblica, 20 febbraio 2017)

“Woolf Works è in fondo proprio questo: un magnifico inchino a tempo di musica al genio di Virginia Woolf”. Così Elisa Bolchi conclude questo articolo, iniziando con “Non ci girerò intorno: Woolf Works è un capolavoro”.

Le righe di mezzo meritano il tempo che richiedono per essere lette. Non ci siamo sentite di mettere una diga ad un flusso di parole appassionate che sono scaturite spontanee, a poche ore dal termine dello spettacolo.

Fate un break e godetevi la lettura!

 

Non ci girerò intorno: Woolf Works (http://www.roh.org.uk/productions/woolf-works-by-wayne-mcgregor) è un capolavoro. Più ancora di questo, Woolf Works è unico perché è un lavoro artistico e critico al tempo stesso, un lavoro informato, competente, intelligente, appassionato. È il risultato di “molti anni di pensiero in comune” (citando Woolf) di professionisti eccellenti e artisti talentuosi. A partire da Wayne McGregor (http://waynemcgregor.com/), coreografo stabile alla Royal Opera House e genio dell’arte coreutica, che interpreta gli spazi scenici in modo vitale e lascia parlare i corpi dei suoi ballerini autonomamente, seppure in sintonia con ciò che li circonda.

Le musiche originali di Max Richter (https://it.wikipedia.org/wiki/Max_Richter) sono poi non solo il corrispettivo musicale del ritmo della prosa di Virginia Woolf, ma il risultato del medesimo processo mentale che l’ha portata alla composizione. McGregor e Richter riescono dunque non solo a reinterpretare, omaggiare e riscrivere, ma fanno appunto anche un lavoro critico, strutturale oserei dire, sull’opera di Woolf, e lo fanno con competenza assoluta. Lo spettacolo è un trittico ispirato a tre delle opere più note della scrittrice britannica: La Signora Dalloway, Orlando e Le

Onde. I titoli dei singoli balletti dicono già molto del lavoro fatto.

 

Il primo, I now, I then, gioca tutto sull’intreccio di presente e passato nella mente di Clarissa Dalloway, su ciò che lei è oggi – interpretata da una Alessandra Ferri di una bravura commovente – e da ciò che lei sente, ricorda di essere e di essere stata. Le coreografie di Ferri sono così fatte di tempi lunghi, respiri ampi, di trattenuti e sostenuti, com’è il tempo nella mezza età, quando inizia a dilatarsi e ogni gesto è frutto di riflessione e viene tenuto per una battuta in più, viene meditato e respirato più a fondo. Le giovani e bravissime Beatriz Stix-Brunell – Clarissa da ragazza – e Francesca

Hayward – Sally Seton – danzano invece su un ritmo più incalzante, sfiorando appena il palcoscenico tra un piccolo sbalzo e un glissé, e ci restituiscono l’idea della freschezza della giovinezza, che non ha tempo nemmeno per toccare davvero il suolo con tutta la pianta del piede. Genio è far ballare la Ferri una battuta dietro la Stix-Brunell, farle trattenere ogni passo mezzo tempo in più, per dare l’idea del tempo che è passato e della Clarissa cinquantenne che ricorda se stessa.

Anche Septimus riesce a esprimere col corpo tutto ciò che Woolf ha tanta faticato a mettere in parole (“la scena della pazzia mi snerva tanto”, annota Virginia nel diario). Il trauma di Septimus traspare da un potentissimo Edward Watson che lavora tutto sulla perdita di peso, perché Septimus ha perso il suo baricentro, cerca un equilibrio che non trova in un corpo che non gli appartiene più, e sembra più ingombrante di quanto non sia. L’unico sostegno lo trova nel ricordo dell’amico, che si fa appoggio fisico in un passo a due maschile di rara bellezza. Il primo atto si chiude con una magnifica scena corale, a richiamare la fine del romanzo, la scena della festa che Woolf aveva costruito con tanta cura affinché apparissero pian piano tutti i personaggi della vita di Clarissa, e che qui diventano un sentire, un respiro comune che si chiude su Clarissa, come il romanzo: “for there she was”.

Il secondo balletto è tratto da Orlando e ancora una volta il titolo è già dichiarazione di poetica: Becomings. Qui la parte più narrativa è abbandonata per giocare tutto su un livello più profondo che Max Richter spiega in un’intervista: è il noto che diventa impercettibilmente distonico per una piccola modifica che ci fa fermare a interrogarci. Non è quanto accade in Orlando?

Presentato come ‘biografia’ nonostante sia una favola fantastica di un uomo che diventa donna e vive tre secoli. E allora tutto qui è giocato sulla dissolvenza dei generi e i costumi diventano elemento chiave, perché capita che gli uomini siano in body e gonnellino e le donne in calzoni e giacca; i ballerini fanno piccoli sbalzi e adagi e le donne grandi sbalzi e sostenuti, e nei passi a due fatichiamo a capire chi è la donna e chi l’uomo in una coreografia androgina che rappresenta tutta la forza e la potenza della scrittura woolfiana e mette alla prova un cast di una bravura mozzafiato, che riesce a ballare in una battuta i passi che ne richiederebbero tre, tanto che l’occhio quasi fatica a mettere a fuoco tutti i movimenti che pure sono perfetti, puliti, solidi, come le parole di Virginia Woolf. Le musiche, poi, insieme alle luci, creano un amalgama temporale che passa dal rinascimento al novecento: così McGregor rende quel tempo impossibile che Woolf narra con leggera ironia.

Il terzo e ultimo atto, Tuesday, si spoglia della tecnica estrema per dare spazio allo stile, che come diceva Woolf “è solo ritmo”. Se nello scrivere Le onde lei ricercava il ritmo dell’onda, anche McGregor fa respirare i suoi ballerini su quel ritmo, che Richter rende con una sovrapposizione di sonorità anch’esse sinusoidi che si intrecciano e sovrappongono tra loro come le voci dei sei personaggi delle Onde. Qui le ballerine tolgono le scarpe da punta, Ferri lo fa fisicamente, in scena, e rimane scalza, proprio perché, come la scrittura di Woolf, la poesia non è tecnica ma ritmo.

Tutto quest’ultimo balletto è giocato allora su coreografie d’insieme in cui si inseriscono canoni appena accennati, e ciò che vediamo sono voci che parlano insieme ma con toni diversi. In breve ‘vediamo’ Le onde. La potenza fisica del secondo atto lascia spazio qui a grandi port de bras che a tratti ricordano quasi una révérence, la parte finale di una lezione di danza in cui ci si inchina a maestro e pianista a tempo di musica.

Woolf Works è in fondo proprio questo: un magnifico inchino a tempo di musica al genio di Virginia Woolf.

 

(oggettisolidi.wordpress.com, 9/2/2017)

di Chiara Pasetti

Cosa si può rispondere a una figlia che, stanca e irritata per le assenze della propria madre, la quale partecipa e organizza convegni, assemblee, convinta che il femminismo sia «una rivoluzione che continua, un cambiamento costante di sé che riesce a modificare il mondo», a un certo punto si domanda, e le domanda sbuffando: «ma doveva proprio capitarmi una madre femminista?». Questo lo spunto da cui prende le mosse l’appassionante volume Mia madre femminista, a cura di Marina Santini e Luciana Tavernini. Dalla volontà di dare una risposta alla provocazione iniziale nasce la necessità di raccontare, «partendo da sé», la storia di cinquant’anni di movimento delle donne. Sorretto da una ricca documentazione che comprende anche molti, in gran parte inediti, materiali fotografici, e soprattutto numerose testimonianze rese alle curatrici dalle protagoniste del cosiddetto «femminismo della libertà», il filo narrativo, condotto con una scrittura limpida, concreta, mai banale e profondamente affettiva si intreccia così alla voce di femministe storiche come Lea Meandri, Luisa Muraro, Lia Cigarini, Carla Lonzi, e di sindacaliste, insegnanti, operaie, artiste, scienziate; donne attive negli ambiti più diversi, a cui si aggiungono anche le voci di uomini da sempre vicini al movimento e capaci di coglierne il valore, la ricchezza, la «necessità». Senza alcuna pretesa di esaustività che, tra l’altro, siglerebbe «la morte di ciò di cui si parla», il testo si divide in quattro grandi capitoli, che annunciano a partire dai titoli i punti essenziali del femminismo: le «parole» (che prende spunto da un libro di Marie Cardinal che tanto successo ebbe negli anni Settanta), il «corpo» (che tratta i grandi temi della differenza tra emancipazione e libertà sessuale, della contraccezione, del divorzio, dell’aborto, ecc.), i «luoghi» (quelli della libertà delle donne) e il «lavoro». Man mano che le «voci» del libro prendono la parola, non solo quelle delle «madri storiche» del femminismo ma anche quelle di donne più giovani, le quali mostrano di non aver dissipato l’eredità di chi le ha precedute, la figlia scettica e apparentemente distante sembra interessarsi sempre di più all’azione delle donne, soprattutto nell’ambito del lavoro. E acquista la consapevolezza che la vera libertà di ogni essere umano si nutre «delle differenze e della reciproca dipendenza che tutti abbiamo, in forme diverse, lungo il corso della vita» (così Giordana Masotto); la libertà non nasce da un percorso solitario ma da una stretta e continua collaborazione e relazione, e solo così «si può immaginare di cambiare l’economia, il lavoro, la politica». Un racconto polifonico orchestrato con sapienza ma anche con calore dalle curatrici, che non lascia un’aria nostalgica bensì una forte traccia di fiducia e speranza che risuona tanto più alta e necessaria ora, quando episodi di violenza, fisica e psicologica, continuano a colpire le donne. Un testo che andrebbe letto dalle madri e (con) le figlie, le quali nell’esergo di Luce Irigaray, filosofa da sempre legata al movimento delle donne, vengono invitate a «esporre in tutte le case e i luoghi pubblici belle immagini (non pubblicitarie) di coppia madre-figlia»; ma che andrebbe letto anche, e forse soprattutto, dagli uomini. Per capire come mai, al termine dell’intenso dialogo epistolare intrecciato idealmente tra una madre e una figlia, quest’ultima non solo non ne colpevolizzi più le assenze in nome di una «rivoluzione», ma si chieda invece, magari pensando di portarla avanti a sua volta: «Sono forse diventata femminista?».

Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, a cura di Marina Santini e Luciana Tavernini, Il Poligrafo, Padova, pagg. 256, € 20

(Il Sole 24 Ore domenica, 29 gennaio 2017)


Il femminismo, come tutto ciò che è vivo, nasce e rinasce tante volte. È come un serpente che cambia pelle, si trasforma, nella ostinazione a creare e portare a maturazione gli squilibri, perché lì c’è emergenza di reale. Non ha mai teso a una differenza sessuale armonizzante. Gioca piuttosto nello scarto tra l’uno e il due, tra ricerca di sé e apertura all’altro, facendo leva sulle asimmetrie simboliche, non pacificanti, sul dissesto, come pertugio per cui può avvenire altro. È così che sa tracciare nuove vie. È un movimento che non viene realizzato da politiche definite, progetti a breve o lungo termine. È eccedente. Allo stesso tempo la scommessa femminista non può fare a meno della politica.

(Libreria delle Donne di Bologna, 25 gennaio 2017)

di Alessandra Pigliaru

SCAFFALE. «Emma la Rossa» di Max Leroy, edito da elèuthera

Di Emma Goldman, pensatrice, anarchica, femminista, immigrata e irriducibile rivoluzionaria, si è detto e scritto molto – con maggiore trasporto dagli anni Settanta in avanti. Eppure la figura di questa «piccola Giovanna D’Arco», come sovente veniva chiamata da qualche giornalista che ne aveva incrociato – e ne temeva anche un poco – la forza politica, abitava il terreno del mito fino dagli anni Trenta del Novecento. Fascinazione comprensibile, a percorrere la sua vita sembra di stare dentro un romanzo straordinario. Uno di quelli che ha come protagonista l’esistenza tempestosa di chi nasce già insorta, a cavallo tra due secoli, facendo parte della storia e scrivendola. La storia degli ultimi, degli operai e delle operaie con cui si confronta Emma Goldman, la storia che la trafigge anzitutto nella coscienza incarnata che la interroga sulla sessualità, sulla riproduzione e il controllo delle nascite, sul suffragio e tanto altro ancora.

La storia di cui ha fatto parte Emma Goldman è insomma quella che ha nutrito un pensiero anti-capitalistico e capace di raccontare cosa significa il fermento libertario, quali le sue genealogie, le sue scommesse, come l’anarchismo. E il suo incontro con il conflitto della classe operaia, l’antimilitarismo contro il fanatismo della prima guerra mondiale, la rivoluzione russa prima, la guerra civile spagnola poi. Forse una vita non basta per reggere tutto questo, quella di Emma sì.
Disfare l’affronto di essere nata donna per un padre ottuso e autoritario, è il modo in cui Goldman debutta nella decostruzione simbolica del già dato. Sceglie di rimettersi al mondo, lo fa numerose volte. La prima, come lei stessa scrive, è il 15 agosto del 1889 quando a vent’anni arriva a New York.
Da Kovno (l’odierna Kaunas), cittadina portuale della Lituania, se n’era già andata tempo prima per raggiungere la sorella Helena che abitava nel Connecticut. Lì Emma confeziona corsetti in una fabbrica e segue laboratori di cucito che poco dopo, oltre alla sopravvivenza, le avrebbero dato il senso della relazione con le lavoratrici del tessile.

Frequenta circoli radicali e di operai, studia, ascolta, scrive, legge moltissimo, stringe rapporti con alcuni esponenti del movimento anarchico. Trascorre qualche mese e la figura di questa giovane donna, dapprima misteriosamente comparsa su un carretto a Union Square a tenere un discorso e a resistere alle cariche della polizia, diviene centrale sia sui giornali che all’interno del movimento.
Proprio in quei primi comizi di piazza la si ricorda avvolta da una bandiera. Era rossa, da qui – insieme alla furia mostrata contro ogni potere costituito – la nominazione di Emma the Red. E proprio Emma la Rossa (eléuthera, pp. 223, euro 16, prefazione di Normand Baillargeon, traduzione di Carlo Milani) si intitola il volume di Max Leroy che ne ripercorre la parabola cominciando dal fulgore di quegli anni di apprendistato alla rivolta.

Appassionato e all’orlo di una festa del cuore verso chi ha speso la propria vita per la libertà e la giustizia, il libro di Leroy propone un ritratto puntuale, servendosi di un apparato bibliografico interessante che conduce lettori e lettrici sulle tracce di Goldman, di ciò che ha scritto – due le opere che si ricordano principalmente: My Disillusionment in Russia (1923) e Living My Life (1931), la sua autobiografia (si dica per inciso che entrambe sono state tradotte in Italia tra gli anni ’70 e ’80 da La salamandra. Di più recenti invece si segnalano Femminismo e anarchia, edito da Bfs con una splendida prefazione di Bruna Bianchi, e Anarchia e prigioni, edito da Ortica). Ulteriore pregio di Leroy è quello di aver tenuto conto della dedizione di biografi e in particolare biografe come Alice Wexler e Candace Falk (direttrice dell’Emma Goldman Papers Project che a Berkeley ha raccolto dal 1980 a oggi più di ventimila carte relative alla sua produzione e ai suoi scambi epistolari).

Se «lo Stato è un saccheggiatore al soldo del capitalismo», scrive convinta ripensando al suo arresto occorso all’età di 24 anni per incitamento alla sommossa, la maggiore oppressione viene inferta alle donne, ai bambini e alle bambine. Da quell’oppressione, gravida di nodi da sciogliere, e da alcune sue esperienze (non ultima quella di levatrice per cui segue un corso a Vienna), impara molto e si mette in cammino. Verso un femminismo che non la abbandonerà mai più; gli incontri più importanti sono due: quello con Voltairine de Cleyre, scrittrice e militante anarchica, e con Louise Michel, la «vergine rossa» deportata in Nuova Caledonia dopo la repressione della Comune di Parigi. Il resto è la lettura di Mary Wollstonecraft (così come nella sua formazione decisivi sono stati Henry David Thoreau e Michail Bakunin). Molti illustri esponenti del movimento anarchico la ammirano; da Johann Most, Edward Brady a Pëtr Kropotkin. A qualcuno concede di amarla.

In una lettera ad Aleksandr Berkman – compagno di lotte e presenza cruciale nella sua vita – nell’agosto del 1927, riesce a raccontare il tenore della sua differenza, quella in fondo che la sa consegnare alla gratitudine delle generazioni politiche successive: «Le sole teorie non sono sufficienti a smuovermi. Comprendere le nostre idee non è abbastanza. È necessario sentirle in ogni fibra come una fiamma, come una febbre divorante, una passione elementare».

(il manifesto, 20 gennaio 2017)

di Monica D’Ascenzo

Puntavano a raccogliere 40mila dollari, ad oggi hanno superato quota 675mila dollari. Elena Favilli e Francesca Cavallo, con la startup Timbuktu, hanno sbancato nel crowdfunding di idee editoriali lanciate su Kickstarter.

Il progetto è Good night stories for rebel girls, pensato per ispirare le bambine attraverso le biografie di 100 donne illustri, dalla regina Elisabetta I alla tennista Serena Williams, narrate come favole della buona notte. Alla composizione del libro parteciperanno 100 illustratrici da ogni parte del mondo. Nella stessa direzione era andata un’altra iniziativa editoriale, di tre anni prima, che potete trovare ancora nelle librerie: Cattive ragazze: 15 storie di donne audaci e creative, graphic novel scritta da Assia Petricelli e illustrata da Sergio Riccardi. «Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate» sottolinea Assia. E non ha tutti i torti. Basta sfogliare i libri su cui studiano i ragazzi per rendersene conto. O girare per le strade delle città, generalmente tutte al maschile.

Come è nata l’idea del libro?

Le questioni di genere e la storia delle donne mi interessano da tempo, ma la scintilla che ha acceso l’idea di Cattive ragazze è nata per caso, da un incontro con Della Passarelli di Sinnos Editrice, all’epoca in cerca di progetti per una nuova collana di graphic novel per ragazzi. Sergio e io, che già lavoravamo insieme, non avevamo mai pensato a un fumetto per ragazzi, però ci piaceva quello che faceva la Sinnos e così abbiamo cominciato a ragionarci su ed è nata l’idea di raccontare biografie di donne realmente vissute che avessero messo in discussione ruoli e stereotipi femminili. Donne forti, ribelli, protagoniste delle proprie vite. E soprattutto donne che alla fine ce la fanno, che non sono vittime. Di storie così ce ne sono tante, ma sono poco conosciute. Basta sfogliare un manuale scolastico per farsi l’idea che per millenni il genere femminile non abbia fatto altro che accudire mariti, figli e case. Ma non è vero. Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate. Con Cattive ragazze volevo rendere giustizia ad alcune di queste figure e offrire alle giovani di oggi delle narrazioni che le aiutassero ad acquisire fiducia in se stesse e nella possibilità di essere quelle che vogliono, al di là degli stereotipi. Per raggiungerle abbiamo scelto una forma che fosse il più possibile semplice e accattivante.

Come hai scelto le 15 storie da raccontare?

Il filo rosso che lega le 15 biografie è riassunto nel sottotitolo del libro, donne “audaci” e “creative”, capaci di inventare per se stesse e per le altre che sono venute dopo un ruolo diverso da quello che la cultura patriarcale imponeva loro. Sulla base di questa premessa mi sono messa a cercare e ho incontrato decine di storie fantastiche. Scegliere non è stato affatto facile. Ho privilegiato le vicende meno note e, anche quando ho incluse figure celebri, l’ho fatto perché mi interessavano alcuni aspetti non particolarmente conosciuti: ad esempio il modernissimo rapporto tra Marie Curie e suo marito Pierre. Inoltre ho prestato molta attenzione alla varietà, volevo restituire il senso di una ricchezza di possibilità, e così abbiamo l’artista, la giornalista, l’attivista politica e così via, ma anche una varietà di appartenenze culturali e geografiche. Non volevo cadere nella trappola di una narrazione troppo centrata sull’Occidente, che sarebbe stata menzognera e fuorviante: in particolare negli ultimi anni le donne del cosiddetto “Sud del mondo” sono state protagoniste di straordinari movimenti di liberazione. Infine ho inserito figure di donne che hanno partecipato a grandi processi collettivi, perché il mondo non si cambia da soli, ma sempre insieme ad altre e ad altri.

Il progetto ha avuto un seguito?

Da quando sono state pubblicate, le Cattive ragazze non si sono mai fermate. Hanno dato vita a uno spettacolo teatrale, a una mostra e sono state il motore di un progetto di ricerca e di educazione alle differenze che ha coinvolto studenti e studentesse dal Nord al Sud del paese. Se invece ti riferisci alla possibilità di realizzare un Cattive ragazze 2, per il momento non abbiamo questa intenzione; preferiamo che il nostro libro funga da stimolo affinché altri e altre vadano alla ricerca e raccontino le proprie cattive ragazze, è quello che facciamo nelle scuole. Noi ci riserviamo di tornare presto a parlare di donne, di identità e relazioni, ma con progetti nuovi e diversi da “Cattive ragazze”.

Cosa ti piacerebbe ne traessero le adolescenti di oggi?

La fiducia nelle proprie risorse e la forza per costruire se stesse e la propria storia senza farsela dettare da nessuno, così come hanno fatto le protagoniste del nostro libro. Se ci sono riuscite loro, possiamo farcela tutte.

(www.alleyoop.ilsole24ore.com, 18 gennaio 2017)

di Mariolina Bertini

“Da dove provengono le idee giuste?” si chiedeva il presidente Mao nell’incipit di un saggio filosofico molto popolare ai tempi della mia giovinezza. In campo editoriale, credo provengano dall’amore incondizionato per il libro; per il libro come oggetto globale, in cui, accanto alla scelta del titolo da pubblicare e all’eventuale traduzione, sono oggetto di scelte consapevoli anche la grafica, gli apparati e i risvolti. Due idee giuste che si sono materializzate in volumi che stanno ora uno accanto all’altro sul mio tavolo; due omaggi intelligenti alla grandezza di Virginia Woolf, che spicca sempre più evidente ai nostri occhi man mano che il XX secolo si allontana da noi e va assumendo in prospettiva un profilo un po’ più complesso e variegato di quello che suggerivano, nella sua seconda metà, gli imperativi e le poetiche del postmoderno.

La prima idea giusta è quella che è balenata alle edizioni Racconti: dedicare alla narrativa “breve” di Virginia Woolf un volume complessivo di grande eleganza (Virginia Woolf, Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose, trad. di Adriana Bottini e Francesca Duranti, curatela, introduzione e note di Liliana Rampello, pp. 470, 19 €, Racconti, Roma, 2016). Un ritratto ascetico, assorto e misterioso della scrittrice ci saluta da uno dei risvolti: è opera di Franco Matticchio, come la copertina. Le belle traduzioni sono quelle di Adriana Bottini e Francesca Duranti che negli anni Ottanta, per le edizioni della Tartaruga, presentarono per la prima volta questi testi al pubblico italiano. La curatela è di Liliana Rampello, che ripercorre tutto l’arco cronologico della produzione “breve” di Woolf in uno splendido saggio introduttivo. La riflessione della curatrice scava nei rapporti tra romanzi e racconti, nella lunga genesi della poetica della scrittrice, nello sforzo, sotteso a tutta la sua opera, di “catturare la vita e rappresentarla nella verità del suo ‘momento di essere’, che balugina appena, avvolto com’è nell’‘ovatta’ del non-essere”. Il lavoro dell’artista, pensa Virginia, è “trasformare in linguaggio la propria intuizione del mondo”. “E forse” – scrive in margine alle sue parole Liliana Rampello – i racconti sono il punto di convergenza più intimo dello scambio tra visione ed espressione, immagine e frase, sguardo e parola, insomma il luogo dell’incontro amoroso fra le arti, risultato di un altro grande amore, quello per la sorella Vanessa e la sua arte, la pittura.”

Accanto a Oggetti solidi, l’altra idea giusta alla quale alludevo ha assunto la forma di due volumetti distinti, Anon e Leggere a caso (Virginia Woolf, Anon, a cura di Massimo Scotti, pp. 103, 11 €, Nuova Editrice Berti, Parma, 2015 e Leggere a caso, a cura di Massimo Scotti, pp. 92, 12 €, Nuova Editrice Giacomoverri in Recensioni 9 gennaio 201731 dicembre 2016 1,422 Words Berti, Parma, 2016), caratterizzati dalla grafica ben riconoscibile delle Nuove Edizioni Berti e dagli squisiti fregi, capilettera e disegni di Demetrio Costa, ispirati alla tradizione tipografica inglese e all’iconografia delle fiabe vittoriane. Il curatore, Massimo Scotti, ha intrapreso il compito delicato di rendere accessibile al pubblico italiano l’ultima opera di Woolf rimasta interrotta alla sua morte.

In un primo volumetto, Anon, ne ha presentato e tradotto la prima sezione, autonoma e quasi compiuta; il testo di questa parte era già stato tradotto presso l’editore Abramo nel 2001, ma si presenta in questa edizione integrato da molti materiali inediti. Il secondo volumetto, Leggere a caso, raccoglie con cura filologica quel che resta della seconda sezione, dedicata alla figura del lettore, e molti appunti, commoventi e suggestivi nella loro incompiutezza.

Se Oggetti solidi ci fa ripercorrere tutta la vita creativa dell’autrice di Gita al faro, Anon e Leggere a caso, invece, gettano una luce cruda e diretta sul suo ultimo anno di vita, ci fanno penetrare nel cuore di quell’intreccio di dolore insostenibile e di feconde intuizioni che costituisce la stagione estrema di Virginia, l’ultimo “volo della mente” spezzato dal terrore della follia, dall’orrore della guerra e finalmente dalla morte.

Appartengono, originariamente, a uno stesso progetto, che agli inizi – ci racconta Massimo Scotti – ha quasi i tratti di un divertissement. È infatti “divertendosi ad ogni pagina”, come annota nel suo diario, che Virginia comincia, nel 1940, a prendere appunti in vista di un’opera che ha per destinatario uno dei suoi più vecchi amici, il pittore Duncan Grant: una sorta di storia antiaccademica della tradizione letteraria inglese, concepita per farla amare a Grant, per vincerne le prevenzioni e le resistenze. Il primo titolo scelto da Virginia è Reading at Random, poi sostituito da Turning the Page. La forma a cui la scrittrice vuole ricorrere per realizzarla è una forma libera, come libera dev’essere quella lettura random, a caso, che si propone di sostituire alla lettura sistematica, costrittiva degli specialisti. La prima sezione del progetto si chiamerà Anon, abbreviazione di Anonymous, perché “Anonimo” sarà il suo eroe: l’autore senza nome della prima letteratura inglese che incarna – come scrive Massimo Scotti – “l’essenza stessa dell’oralità e il suo mistero.” In Anon Virginia celebra gioiosamente un’Inghilterra che trascolora nel mito: “A Natale i giullari recitavano la vecchia commedia di Anon: i ragazzi intonavano la sua canzone durante i brindisi. La strada portava alle tombe antiche, alle pietre su cui in passato gli inglesi avevano compiuto i sacrifici. I contadini andavano ancora per istinto in quella direzione, in estate e in autunno e in inverno. I vecchi Dei si celavano dietro le sembianze dei nuovi. Erano quelli che

adoravano ancora, indotti da Anon, i contadini vestiti di foglie verdi, con le spade in mano, danzando fra le case, recitando le parti di un tempo. Fu l’invenzione della stampa a uccidere infine Anon…”

Si respira, nelle pagine di Anon, un’euforia che viene meno nella sezione successiva, Leggere a caso. Ne spiega molto bene le ragioni Massimo Scotti nella sua introduzione: Virginia vive sotto due minacce, quella personale, delle crisi di follia, e quella, che concerne tutti gli inglesi, dei bombardamenti e della temuta invasione nazista. In questo clima angoscioso, l’amore per le antiche tradizioni inglesi si fa più struggente e disperato, perché è l’amore per una realtà che potrebbe sparire per sempre. Con un’intuizione tutta sua, Virginia collega la nascita del lettore moderno – così diverso dal pubblico del cantore Anon – alla pubblicazione dell’Anatomia della malinconia di Burton: “È lì che troviamo lo scrittore perfettamente consapevole del suo rapporto con il lettore (…). Lui vede attraverso mille ombre verdi ciò che gli sta proprio di fronte: l’infelicità del cuore umano. Le riflessioni servono a rendere screziato e variopinto lo spettacolo che ha davanti agli occhi, dai libri ha tratto quel senso di indulgenza che gli fa capire ciò che siamo, non figure singole ma replicate all’infinito.”

Il testo si interrompe in un momento cruciale, quando Virginia sta per affrontare la figura di Shakespeare. È qui che compare la più straordinaria pagina autobiografica, quasi testamentaria, del libro: il racconto di un vagabondaggio londinese sui luoghi dove sorgeva il teatro di Shakespeare, il Globe, alla ricerca di ispirazione. Il tram numero 18 porta la scrittrice verso il London Bridge, fra strade “tutte piuttosto grigie.” “C’è uno strato di fango lucente ai piedi dei magazzini: la cattedrale di Saint-Paul si erge lontana fra la nebbia. I gabbiani si lanciano in picchiata. Qualche ragazzino gioca con i sassi. Nel cielo si affollano strisce di porpora. Pensiamo ancora ai drammi, perché è qui che sorgeva il teatro del Globe. Possiamo dar spazio all’immaginazione: il caos e il frastuono; il cigolìo delle ruote (…). Andando verso il fiume, perdendo la strada fra i vicoli, nasce lo strano desiderio senza nome di esprimersi.”

Nella ricca, bellissima introduzione di Massimo Scotti a Leggere a caso è analizzato un racconto scritto da Woolf proprio alla vigilia della sua morte, The Symbol. È la storia di una vecchia signora che scrive una lettera, seduta alla terrazza di un albergo alpino. Mentre scrive, segue di lontano la scalata di alcuni giovani alpinisti. A un certo punto però le loro figure scompaiono, il lettore capisce che la scalata è finita in tragedia, e una goccia d’inchiostro macchia la lettera interrotta della spettatrice. “La goccia che cade e gli scalatori che precipitano – scrive Massimo Scotti – sono uniti in un’analogia fulminea e trasparente, uno di quei “momenti di visione” che percorrono costantemente la scrittura di Virginia Woolf.” Ho sentito il bisogno, dopo aver letto queste righe, di riprendere in mano The Symbol, e l’ho trovato in Oggetti solidi: è il penultimo racconto della raccolta. Complementari, e segretamente complici, Leggere a caso e Oggetti solidi dialogano così tra loro sulla mia scrivania, testimonianze indipendenti e solidali di un’amorosa attenzione per il lavoro di Woolf e di una concezione rigorosa e appassionata del lavoro editoriale.

(https://giacomoverri.wordpress.com, 9 gennaio 2017)

Giuseppina Vitale

Un libro autobiografico racconta la storia di Mira Furlani. Una preziosa testimonianza di vita comunitaria nella Chiesa fiorentina degli anni Settanta, ma soprattutto una confessione del rapporto fra il femminile e l’autorità religiosa, rappresentata dal “prete”.

La nascita delle comunità di base, avvenuta tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, può certamente rappresentare il più esplicito segno dell’aspirazione democratica del Concilio Vaticano II. L’opera di Mira Furlani, Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, delinea non soltanto una testimonianza di vita comunitaria nella Chiesa fiorentina degli anni Settanta, ma pure (e soprattutto) una confessione di ciò che realmente è stato il suo rapporto con il maschile nella Chiesa: il prete.

A partire dai primi anni Ottanta è avvenuto gradatamente un vero e proprio esodo femminile dalle comunità di base, concretizzatosi nel Seminario nazionale delle Comunità cristiane di base intitolato Le scomode figlie di Eva (Brescia, 23/25 aprile 1988). L’intento, sin dagli esordi, fu il desiderio di auto-realizzazione femminile espresso con particolare impeto da alcune donne che erano state protagoniste della stagione di contestazione cattolica esplosa in Italia a partire dalla fine degli anni Sessanta. Il seminario di Brescia vide le donne impegnate a rimettere in discussione paradigmi culturali nella prospettiva dell’affermazione della diversità di genere come valore portante dell’eguaglianza tra uomo e donna, nella società e nella Chiesa[1].

Dalla bella prefazione curata da Doranna Lupi e Carla Galetto (Comunità cristiana di Pinerolo) emerge tutta la volontà e l’impegno mostrato in tutti questi anni nell’alimentare una pratica politica di autocoscienza maschile in grado di rompere la scala gerarchica del potere assoluto del padre.

Il rapporto tra la donna (l’autrice) e il prete (don Enzo Mazzi), è sintomatico a riguardo, perché, oltretutto, «tra le donne e i preti, si sa, c’è qualcosa che attrae e qualcosa che respinge» (p. 9).

Mira Furlani fu attratta da quella «spinta interiore che allora mosse molte donne e uomini, diversi fra loro, ad abbracciarsi per la necessità di capirsi e creare una comunità (la comunità dell’Isolotto di Firenze, ndr), non solo civile, anche religiosa, partendo a mani nude» (p. 22). Ma allo stesso tempo, sperimentò un senso di «inadeguatezza e di impotenza» (p. 62) concretizzatosi, soprattutto, nel rapporto conflittuale e critico con l’autorità religiosa.

L’opera è una confessione a cuore aperto e a mente lucida. Un racconto autobiografico senza toni retorici e memorialistici, narrato da una prospettiva inedita, con gli occhi di una donna che, nonostante le delusioni, non ha mai smesso di credere nel Vangelo e di lottare per affermare la propria libertà di essere e di pensiero.

La vicenda di Mira Furlani tratta uno spaccato di storia cattolica italiana: dai primi passi della comunità dell’Isolotto, alle lotte operaie e i contrasti con la Curia fiorentina, fino al processo penale in Tribunale che vide incriminati (e assolti) una decina di imputati per istigazione a delinquere e impedimento di funzione religiosa, in seguito ai fatti che riguardarono direttamente, oltre don Mazzi, tutta la comunità dell’Isolotto[2]. L’autrice racconta la sua esperienza, non senza criticarne alcune aspetti, di “madre per vocazione” vissuta nelle case-famiglie per bimbi orfani e abbandonati, lasciandosi, così, alle spalle il tema della democratizzazione ecclesiale e aprendo spiragli di discussione sulla maternità e sul ruolo (attivo) della donna nella Chiesa, argomenti di indiscussa attualità.

Mira Furlani, Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, San Pietro in Cariano, Gabrielli Editori, 2016, pp. 109.

(In edicola MicroMega 9/2016)

Nel 1931, a 26 anni, un’impertinente dattilografa e attrice, incoraggiata da Alfred Döblin a dedicarsi alla scrittura, irrompe nella letteratura tedesca come una ventata d’aria fresca. Il suo graffiante romanzo d’esordio vende in pochi mesi trentamila copie, finendo

nei chioschi dei giornali e nelle stazioni di tutta la Germania (e poi d’Europa). Si chiama Irmgard Keun ed è cresciuta a Colonia, come la protagonista del suo libro, Gilgi, una di noi. Il titolo chiarisce che il romanzo è il ritratto dell’eroina eponima, ma anche di una generazione. Gilgi rappresenta infatti la “donna nuova”, che negli anni ‘20 impone al mondo un nuovo modello femminile: rifiuta la gretta morale borghese della generazione precedente e il ruolo subalterno previsto per lei, lavora, indipendente, padrona del suo corpo e dei suoi sentimenti. La prima frase recita, programmaticamente: «La tiene stretta nelle mani, Gilgi, la sua piccola vita».

Ma essere davvero libere non è mai semplice: a 21 anni Gilgi scopre di non essere quella che crede, e la vita che si illude di controllare rischia di sfuggirle. L’amore e la convivenza con il fascinoso scrittore Martin la fanno deragliare. Gilgi perde tutto, o quasi. Ma saprà fare la scelta giusta, e ritrovarsi. Ironico, leggero, talvolta scanzonato, Gilgi è però un vero romanzo di formazione. Un apprendistato alla libertà di godere, di abortire, di decidere. E a differenza di altri romanzi di scrittrici contemporanee (Christa Winsloe, Anna Seghers, Vicki Baum, Annemarie Schwarzenbach), è ottimista. Gli amici di Gilgi, Olga e Martin, sanno opporre al proprio “tempo maledetto” solo la loro indolente non collaborazione, il socialista Pit si limita a teorizzare le sue critiche al sistema, Hans e Hertha si immolano con le loro bambine alla crisi economica che deprime la Germania: Gilgi invece non si lamenta del proprio tempo, né vi si rassegna — e balza sul treno per Berlino con la vitalità della sua giovinezza e del futuro che porta in grembo.

Con stile frizzante e una scrittura franta e modernista (descrizioni, dialoghi e monologhi interiori si alternano a sincopato ritmo jazz), Gilgi evita tutte le trappole della trama, e ribalta sempre le attese dei lettori. Gilgi si ritrova ad avere tre madri, e a non volerne nessuna. E a essere madre a sua volta, sola, perché non si accontenta di un uomo che non la migliora. Eppure il romanzo ha un retrogusto amaro. Perché è anche la cronaca della fine di un’epoca: «in un paese triste», «dove tutti sono infelici e si lamentano», le ombre del nazismo si allungano sulla libertà della protagonista e di tutti.

La postfazione del volume, appena pubblicato da L’Orma per la traduzione di Annalisa Pelizzola, ricorda che questa è la prima edizione integrale italiana, poiché la versione Mondadori del 1934, anno XII dell’Era Fascista, venne brutalmente censurata. Tace però sulla vita ulteriore di Irmgard Keun. Che fu invece emblematica. Nel 1932 riuscì a cogliere un altro successo col romanzo La ragazza di seta artificiale. Ma nel 1933, dopo l’avvento di Hitler, i suoi libri vennero ritirati dal commercio perché nocivi. Osò fare causa per danni al Reich, guadagnandoci un interrogatorio della Gestapo e l’arresto. Quindi prese la via dell’esilio, peregrinando tra Belgio, Francia, Lituania, Austria e Olanda, nel 1936-38 insieme al suo compagno Joseph Roth. Si racconta che scrissero al tavolino dello stesso caffè due tra i libri migliori della diaspora germanica: lui La cripta dei Cappuccini, lei Dopo mezzanotte.

Klaus Mann, ammirato dalla lucidità con cui la giovane scrittrice descriveva la sinistra banalità della vita quotidiana sotto il fascismo, lo pubblicò per la sua casa editrice di Amsterdam. Poi il “vulcano” esplose, e la comunità degli esuli si disintegrò. Nel 1941 Irmgard Keun fu pianta per morta: come Benjamin, Toller e tanti altri, vittima dell’epidemia di suicidi che decimava gli espatriati dopo la disintegrazione dell’Europa. Invece era stata lei stessa a fabbricare la notizia del suo suicidio: rientrata in Germania sotto falso nome, sopravvisse nascosta fino al 1945. Ma non riuscì più a uscire dall’anonimato in cui aveva cercato rifugio. Siccome la letteratura precede la vita e la inventa, nel 1951, come Gilgi, a 46 anni divenne anche lei una madre single. I libri che scrisse in seguito non bucarono l’indifferenza. Finì alcolista, poi in clinica psichiatrica per sei anni: provata ma ancora capace di sorriso, come rivelano le sue fotografie estreme, ne riemerse appena in tempo per godersi la ristampa delle sue opere: negli anni ‘80 il femminismo la riscopriva come antesignana.

Oggi Gilgi colpisce ancora per l’acume dell’autrice nel raccontare il proprio tempo (i costumi, le idee, i pregiudizi, i sogni), senza moralismo né retorica, solo con gli strumenti della letteratura: la lingua, i caratteri, la storia. Così, conoscendo il destino di Keun, giunti all’ultima pagina non si teme per il futuro della figlia di Gilgi. Ce la farà. È una di noi.

(27 dicembre 2016)

IL LIBRO

Irmgard Keun,

Gilgi, una di noi

(L’orma, traduzione di Annalisa Pelizzola, pagg. 240, euro 16)



Sabato 3 dicembre, durante la trasmissione Sabato libri di Radio popolare, Rosaria Guacci ha intervistato Liliana Rampello sull’ultimo libro che ha curato: Virginia Woolf,  Oggetti solidi, tutti i racconti e altre prose.


L’intervista a Lilli Rampello inizia al minuto 35.




Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura

10 novembre, ore 17.45, Sala del Maggior Consiglio

Ragione e sentimento
di Jane Austen

Liliana Rampello

Ragione e sentimento, pubblicato nel 1811 anonimo, by a Lady, è uno dei sei magnifici romanzi con cui Jane Austen ha segnato il suo tempo, a cavallo fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Un romanzo in grado di intercettare e anticipare, con lingua poetica, alcuni dei maggiori temi filosofici dell’epoca, identità e persona, individuo e felicità, contratto sociale e sessuale, soggettività e libertà. Ironia travolgente, intelligenza lucida e realismo spietato fanno di questa scrittrice un’interprete magistrale della libertà femminile.

Liliana Rampello, si è laureata con Luciano Anceschi e dal 1972 al 2007 ha insegnato Estetica all’Università di Bologna, privilegiando in particolare la Teoria della Letteratura e le poetiche del romanzo europeo fra Settecento e Novecento. Attualmente è collocata a riposo ed è consulente editoriale. Critica letteraria e saggista si è occupata principalmente di Walter Benjamin, Marcel Proust, Virginia Woolf, Jane Austen.





Scrive Ginevra Bompiani a proposito degli incontri raccolti nel suo libro Mela zeta (edizioni nottetempo): “sono incontri che non ho tanto l’impressione di aver vissuto, quanto di aver mancato”. Lo stesso titolo evoca la combinazione di tasti del computer che cancella l’azione fatta; applicandolo alla propria vita quand’è che ci si fermerebbe? Cos’è che non si vorrebbe rifare un po’ meglio, un po’ diversamente? Al fondo di  Mela zeta c’è un sentimento di irrequietezza, una vigile insoddisfazione. Giorgio Manganelli e la bravura con cui insultava, l’esoticità di Elsa Morante, le bizze di Anna Maria Ortese, i ritardi di Ingeborg Bachmann, ma anche l’uomo incrociato in barella che si dichiara sereno e tranquillo e la donna che in una lingua incomprensibile enumera le sue disgrazie in Bosnia animano i capitoli di questo singolare memoir, volto a individuare le proprie falle e a incasellare i ricordi sotto categorie generali  passando dal massimo dell’astrattezza (L’emozione) al massimo della concretezza (Il paesaggio). Su tutto incombe l’ombra del più delicato dei passaggi, quello dalla maturità alla vecchiaia “un’avventura molta importante, l’ultima avventura”.

Abbiamo incontrato Ginevra Bompiani nella sua casa romana e con lei abbiamo parlato dei temi e della struttura del suo libro.

Ginevra Bompiani è nata a Milano e vive a Roma. Editrice, scrittrice, traduttrice, saggista, ha insegnato per molti anni all’Università di Siena e ha fondato nel 2002 la casa editrice nottetempo. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: La stazione termale (Sellerio 2012) e La neve (et al. 2013),  L’ultima apparizione di Josè Bergamin (nottetempo). Dal 2015 cura per nottetempo la collana Luce Mediterranea.

di Luciana Castellina

Lea l’abbiamo conosciuta assieme – Rossana Rossanda e io – e così, per qualche ragione che in seguito ci fu più chiara, si instaurò fra di noi un rapporto particolare. Voglio dire: una relazione a parte rispetto a quella derivata dal fatto che avevamo tutte e tre in vario modo a che fare con lo stesso giornale. Si potrebbe dire che fra noi, come spesso capita in un luogo di lavoro, s’era aggiunta un’amicizia personale. E però non è tanto vero, perché un’amicizia presuppone una frequentazione attiva, che in realtà non c’è mai stata per via delle distanze geografiche e dei rispettivi affanni. Così come non c’è stata, almeno per me ma penso anche per Rossana che pure proveniva dagli studi dell’arte, un dialogo «professionale». Io anche venivo da quel «settore», perché fino a quando non mi sono imbattuta nel Pci facevo ( o meglio, tentavo di fare ) il pittore. E invece no, perché le scoperte artistiche di Lea erano talmente lontane dal mio orizzonte dall’impedirmi anche solo di aprire un discorso. Credo che anche per Rossana la «body art», con cui Lea aveva allora appena appitonato il dibattito culturale, non fosse cosa che la appassionava. O forse no, sono io che non lo so. E però vorrà pur dire qualcosa che di questo assieme non abbiamo mai parlato.

IN EFFETTI FU LUIGI – come Lea scrive in questa intervista-biografia appena uscita (L’arte non è faccenda di persone perbene, conversazione con Chiara Gatti, Rizzoli, pp. 144, euro 18) – ad avere la straordinaria idea di chiederle – il manifesto quotidiano stava per uscire – se avesse avuto voglia di collaborare. Una proposta che meravigliò molto Lea: ma come, un foglio di battaglia politica così militante, si interessava all’arte contemporanea? Sì, se ne interessava. Per fortuna, e questa è la ragione per cui il giornale ha avuto sempre della politica un’idea meno meschina di quello che correntemente si pensa sia la politica.
Lea non era comunque affatto estranea all’avventura complessiva del giornale. C’era stata subito affinità con la nostra battaglia e poi – scrive – «mi piaceva far parte della macchina». E infatti racconta con affetto e nostalgia le stanzette di via Tomacelli e chi le abitava, l’hotel Plaza, elegante e demodé, subito al di là del Corso, nella cui grande hall andavamo a prendere un tè quando dovevamo parlare con un po’ di riservatezza. Era anzi così coinvolta nelle sorti della nostra impresa che una volta, preoccupata, venne a dire a me e Rossana che aveva deciso di scrivere nel suo testamento che i suoi beni dovevano andare al manifesto.

Più straordinario fu però che abbia accettato di scrivere sulle nostre pagine; e che abbia continuato a farlo per mezzo secolo. Una bella stravaganza, perché contemporaneamente lei scriveva sulle più sofisticate riviste di critica d’arte, cosi’ come su quotidiani di ben maggiore tiratura. Perchè Lea Vergine è stata, ed è tutt’ora, una delle più autorevoli critiche d’arte, e – non capita sempre a chi si occupa di questa materia – anche una delle più lette. Il libro sulla body art che la lanciò nel 1974 – Il corpo come linguaggio – fu quasi un best seller internazionale. Era accaduto perché Lea era riuscita a far capire che quanto era sembrato solo un pretenzioso scandalismo era in realtà un modo per cercare di creare un rapporto fra l’arte e il proprio corpo seguendo il ritmo del tempo, un modo «di rimettersi al mondo presentandosi al pubblico attraverso il corpo». Una nuova maniera di creare sculture, queste viventi.
Non era – non è – facile rimettere a fuoco lo sguardo di un fruitore di quadri dopo che da sempre è stato abituato a vedere in altri modi.
La storia dell’arte dai Bizantini a Giotto e poi dai naturalisti agli impressionisti, agli espressionisti, i cubisti, agli astrattisti, è scandita da questi salti traumatici. In questa ultima stagione a cavallo del secolo il salto è stato ancora più spericolato.

SE LEA È RIUSCITA a farsi seguire – il libro che ora ha scritto consente di capirlo anche meglio – è perché lei stessa ogni volta vive su di sé lo stravolgimento di quella «emozione quasi dolorosa», «disorganizzante», quel «terremoto» che l’arte può farti sentire quando di fronte a dei segni o dei segnali vieni «posseduto da qualcosa di ineffabile e intangibile». Accade quando l’arte produce un «rivolgimento interiore», quando ti costringe «a confrontarti con il tuo lato oscuro».
In questo suo libro non c’è in realtà molto di critica d’arte. C’è anche molto altro. Molto. Intanto un racconto della Milano che tutti abbiamo amato, quella di quando questa città divenne davvero il centro culturale e politico fondamentale della modernità italiana, come provano del resto i nomi di tutti, tantissimi, gli intellettuali che Lea vi incontra ( e che cita quasi meticolosamente) quando approda nella capitale del nord, ancora giovanissima, bellissima, intelligentissima. Sono pagine preziose per ricostruire quell’epoca. Aihmè poi tramontata.

MA IN QUESTA AUTOBIOGRAFIA in forma di intervista c’è sopratutto la storia della sua infanzia ed adolescenza napoletana. Privilegiata ma in realtà durissima, per via di come le strutture di classe si sono incrociate con le passioni, di come l’abbiano privata di una formazione normale, e anzi ferita per via delle contraddizioni che hanno segnato gli affetti. Ne conoscevo solo schegge, e mi appare anche più un miracolo che lei sia venuta fuori così.
Una sola cosa rimprovero a Lea per questo suo libro. Di Enzo Mari, suo marito, scrive una sola riga: «Una pietra. Indispensabile». Capisco che è una frase lapidaria. Ma siccome so – lo si vede, anzi lo si palpa anche adesso che hanno 80 anni – che fra loro c’è stato e c’è un grandissimo amore, avrei voluto saperne di più.
Devo a questo punto ancora spiegare come mai sia durato il rapporto personale che ha legato me e Rossana a Lea attraverso questo mezzo secolo in cui in realtà ci siamo viste poco (e però se capito a Milano mi piace andarla a trovare. Non per abitudine sociale, ma perché mi piace davvero parlare – di me e di lei oltreché del mondo). Se leggete questo libro che spiega come è Lea, credo capirete il perché.


(il manifesto, 6/12/2016)

di Antonietta Lelario (Circolo culturale La merlettaia di Foggia)

La Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana di don Milani scoppiò nel ’67 come una bomba scuotendo l’opinione pubblica, denunciando e mostrando come la selezione che avveniva nella scuola pubblica italiana fosse “di classe”, cioè colpisse chi partiva svantaggiato dal punto di vista economico sociale, chi scriveva l’aradio, perché la lingua italiana era per lui una lingua straniera. E di ciò la professoressa chiamata in questione non si preoccupava. Era indifferente.

La bomba colpì nel segno perché era il risultato di un’esperienza pratica e toccava un nodo centrale nel conflitto fra le classi sociali: l’importanza di avere il possesso della lingua per difendersi e contrastare il potere. Don Milani riapriva così il gioco fra la scuola e il suo tempo storico.

Di lì a poco sarebbe fiorito il ’68 che avrebbe trovato nelle scuole e nelle università la sua culla e avrebbe fatto di questo testo una bandiera. Quello che don Milani, indirizzando la sua lettera a una insegnante donna, non aveva visto era che le donne non rappresentavano affatto la scuola istituzionale dove approdavano come ospiti impreviste. Anzi sarebbero state una componente fondamentale di quel ’68, delle lotte operaie, dei movimenti degli studenti e dei docenti e, per fare spazio al femminile nuovo che emergeva, li avrebbero riempiti di nuovo senso. Non avrebbero poi esitato a sperimentare il separatismo dei collettivi femministi. Poi, con una capacità più unica che rara di rigenerarsi, avrebbero aperto librerie, università cittadine, centri documentazione e circoli. Infine, sarebbero tornate a scommettere di nuovo sulla possibilità di relazionarsi con gli uomini inseriti anche loro in un percorso di cambiamento.

A 50 anni dalla pubblicazione della Lettera a una professoressa, una insegnante, Vita Cosentino, una femminista che con passione ha fatto del suo lavoro il luogo di un impegno culturale e politico, mostra a tutti/e noi il cammino fatto in un libro Scuola: sembra ieri è già domani (Ed. Moretti&Vitali) che si interroga e ci interroga sulle pratiche di insegnamento e sull’agire femminile, sul senso che hanno se solo le sottraiamo al silenzio che spesso le copre. Lei si chiede: “Occorre scendere in piazza, riempire le pagine dei giornali per poter parlare di movimento politico?” (pag. 51). E citando Chiara Zamboni sostiene che c’è un’altra politica: “È la vita quotidiana il luogo pubblico del contendere per dare spazio ad un presente vivo” (pag. 12).

“Molte (docenti) portano con sé un modo diverso di stare nelle relazioni, un’attenzione alla soggettività, al tessuto umano tutto intero di corpo emozioni e parole che tende a trasformare la scuola da come l’hanno trovata” (pag. 14, Vita Cosentino, Alessio Miceli e Marina Santini nell’introduzione).

Il suo è un racconto autobiografico, ma anche paradigmatico, tanto da essere rintracciabile nella vita di tante di noi, nella stessa vita della nostra città e in tante iniziative del nostro tempo che agiscono su un piano apparentemente invisibile perché ciò che cambia sono le aspettative, le urgenze, le speranze, per “non perdere il contatto con le cose e così sentirle e saperle” (pag. 13).

Non è un racconto nostalgico. Vita Cosentino sa la differenza fra oggi e ieri, sa i cambiamenti avvenuti in questi 50 anni, sa che l’apertura al tempo storico nell’istituzione scolastica è avvenuta nella forma dell’ossequio ai criteri aziendali e alle logiche competitive, ignorando l’altro che c’è e che chiede risposte. Sa che proprio in quell’ascolto all’altro che c’è si evidenzia il meglio dell’esperienza delle docenti donne e di alcuni uomini. Sa che lì si annida il piacere e la possibilità stessa di insegnare: «Negli anni ’70 il dibattito si è polarizzato sul promuovere o bocciare, mentre la vera scommessa è riuscire davvero ad insegnare» (pag. 50).

Non vuole che il sapere conquistato con un’avventura di carattere esistenziale, culturale, politica, sia buttato a mare. È per il desiderio di confrontare e far circolare quel sapere che ha affrontato la fatica di scrivere.

Lo stesso desiderio, che la parola e l’esperienza femminile non cadano nell’irrilevanza, che non siano percepite con indifferenza, perché attraverso di loro si vedono aspetti e possibilità del reale che altrimenti non si vedrebbero e che invece lo cambiano radicalmente ci spinge a ritornare su quale scuola e quale università vogliamo, non come utopia lontana, ma come speranza presente perché: «La scuola è e rimane il luogo privilegiato di incontro tra le generazioni. È il luogo in cui, tutti i giorni, esseri umani in carne ed ossa sono in relazione e si parlano, è il luogo in cui si può essere in gioco con la propria umanità» (pag. 12).

«Il libro rimane frammentato, non va a costruire una teoria, l’ennesima sulla scuola o sulla politica. Rimane sul bordo: tra racconto e idee che ne nascono. Aperto agli scambi con il pensiero di altre, di altri, autorizza a pensare in proprio. Chiama quindi ad aggiungere piuttosto che a ripetere» (pag. 13).

È una pratica che caratterizza il movimento di autoriforma della scuola e dell’università, così come io l’ho conosciuto e frequentato e del quale l’autrice di questo libro è stata anima e riferimento essenziale.

Non è una scelta di comodo o un modo per sfuggire a responsabilità più grandi, cosa di cui spesso è accusata la politica delle donne, è un modo per tenere aperto il passaggio con il cambiamento epocale che stiamo vivendo. Citando Alain Touraine l’autrice vede una società marcata dall’opposizione di due principi non sociali: la globalizzazione da una parte e il soggetto personale dall’altra parte e: «Nel ribaltamento che ci transita da una civiltà di conquistatori del mondo a quella della costruzione del sé, la società degli uomini è sostituita da quella delle donne» (citazione a pag. 19).

L’autrice non manca di fare ulteriori precisazioni sulla differenza fra soggettività e individualismo come l’abbiamo sperimentata nel movimento delle donne, e fra individualismo e singolarità, tanto da autorizzarmi a pensare che questo libro è prezioso per chi lavora nella scuola e nell’università, ma non è solo un libro sulla scuola e sull’università.

(Comune-info.net, 3 novembre 2016)

di Liliana Rampello

Virginia Woolf. Quando la scrittrice inglese si confrontò con le prose brevi. Da oggi in libreria «Oggetti solidi». Un’anticipazione di parte dell’introduzione al volume. Dal 1906 al 1941, seguono la pubblicazione inglese curata da Susan Dick. Ora per Racconti edizioni

C’è sempre qualcosa di meraviglioso ed eccitante nel leggere o rileggere Virginia Woolf. Da qualsiasi pagina si parta, improvvisamente si scoperchia tutto un mondo, e tutto è legato, e lei è così intera, integra, così sempre se stessa, quando scrive, quando pensa, quando legge, quando cammina, quando viaggia, quando conversa, quando ride, scherza, gioca, e quando ci viene incontro con la sua mente luminosa, che non importa se è la prima o l’ennesima volta che abbiamo in mano un suo libro, ecco: la cosa che non avevamo ancora visto, che non avevamo mai capito, tanto è immensa, tanto è vera, è lì, ancora capace di abbagliarci dopo un secolo. Di questo suo variato immaginare sono notevole e sorprendente espressione tutti i racconti raccolti ora in Oggetti solidi, accompagnati da qualche breve prosa, schizzi che si proponeva eventualmente di riprendere, riscrivendoli più e più volte, quando ne avesse avuto voglia o bisogno.

Ne fanno fede, certo in modo obliquo, i suoi primi racconti, che mettono in scena molte tematiche che le saranno sempre care, e che si svilupperanno nella più ampia tessitura dei romanzi o ritroveremo imbullonate nell’intelaiatura dei suoi saggi, così come questi e quelli illumineranno a loro volta i movimenti di un racconto o dell’altro, movimenti che càpita di scoprire a volte solo per via di un lampo improvviso.
Phyllis e Rosamond, per esempio, nasconde nel buio della sua ovatta molti semi vivi che riguarderanno l’interesse costante di Virginia Woolf per le vite comuni, di donne «ordinarie», le vite «degli oscuri», «degli eccentrici», di quelle ragazze che, sorde alle sirene dell’emancipazione che le renderebbe banalmente simili ai loro fratelli, hanno come luogo di lavoro il salotto, il luogo della conversazione e del mercato matrimoniale, poiché è lì che imparano a conoscere il desiderio e i suoi limiti, l’illibertà e la dipendenza, la paura e l’automoderazione […]
Ma è ora di passare al secondo gruppo di racconti (1917-1921), che merita una diversa riflessione. Siamo di fronte a un mutamento profondo, a una maturità che comincia a esplorare con coraggiosa consapevolezza la forza del proprio stile e lo appoggia definitivamente sul ritmo: lei, come Marcel Proust, sa che lo stile non è mai questione di tecnica, ma di visione, che «lo stile è una cosa molto semplice; è solo ritmo» e che la sua essenza «è arcana e va in profondità assai più delle parole».

Qualcosa è successo. Qualcosa comincia a farle credere che ci sia una via formale, stilistica, per attraversare la contraddizione che da sempre la ossessiona: «La vita, insomma, è molto solida o molto instabile?»; e la sua mente vira veloce, spontaneamente, verso la poesia e la pittura. Le parole dovranno aprire lo spazio al tempo dell’immagine verbale, il qui e ora di un presente assoluto.
Il segno sul muro rapisce e imprigiona chi legge dentro allo sguardo e alla mente narrante, che vaga e divaga da un pensiero all’altro, scandendo quel ritmo interiore che ridisegna ogni volta la macchia in modo diverso: «non è questo», «non è questo»… ciò che si vede porta a espressione la realtà strappandola all’irrealtà, lo sguardo non descrive, il pensiero è impreciso, il piacere più intimo è adorare il mondo «impersonale» che non dipende da noi, che si rivela nella sua verità inaspettata, teatrale, solo nell’ultima riga.

Kew Gardens, secondo Katherine Mansfield, fin dal primo paragrafo ci fa consapevoli di un senso di pace: «la sua storia vi è immersa come in una luce calma e immobile, tutto è sospeso, sì, sospeso. Qualunque cosa può accadere, il suo mondo è come in punta di piedi». Un romanzo non scritto spalanca di colpo il futuro della forma. Basta lo scompartimento di un treno, non per non scrivere un romanzo, ma per scriverne cento, basta guardare Minnie Marsh per guardare la vita, perché «la vita è quello che si vede negli occhi della gente». È questa la materia inafferrabile che, d’ora in poi, chiede quella forma che la Woolf sa con certezza dover essere un ritmo che non strutturi, ma accompagni il volo della mente. Ritmo come poesia capace di fermare il tempo nello spazio dell’immagine, saturandolo, e di rendere tutto impersonale, disincarnato: «Ma quando l’io parla all’io, chi è che parla?». Mostrare la vita così com’è, il segreto nascosto: «Non è precisamente la bellezza che intendo. È che la cosa basta in se stessa: pacificamente compiuta». Solo questo oltre la cosa in sé è reale, diventa reale quando affiorando nello squarcio del tessuto invisibile dell’esperienza quotidiana sotto forma di choc, di scossa, di «momento d’essere», ci restituisce nell’attimo il senso vero e unico, puntuale, dell’intero del tempo e della vita, purché sia messo in parola, purché l’estasi della visione trovi la forma della sua espressione […]

Tra il 1922 e il 1925 il piano delle prose brevi mostra il volto familiare di due fiabe e quello concentratissimo della scrittura di Mrs Dalloway. È la mente allegra e disponibile di zia Virginia che intravediamo dietro alla Vedova e il pappagallo. Anche Le tendine di Tata Lugton è scritto per la nipote Ann, e dispiega le meraviglie senza freni della woolfiana immaginazione animale.
Ben sette dei racconti di questi anni invece si radunano attorno alla «coscienza della festa», secondo quanto lei stessa scrive in vari momenti del suo diario. I temi, investiti di una vera e propria esplorazione psicologica, sono quelli che hanno turbato la Woolf fin da ragazza con la loro ambiguità (gioiva delle uscite in società più prima che durante): il senso di inferiorità e inadeguatezza, l’incertezza mista a noncuranza sull’abbigliamento, la solitudine, la conversazione come forma di conoscenza primitiva e quasi intuitiva, in cui una sola parola o un solo gesto possono riassumere comportamenti di tutta una vita, l’io profondo e la superficie degli obblighi mondani, il ripresentarsi dei ricordi di infanzia, l’amore per gli altri e i suoi camuffamenti, il giardino e il salotto, sfondo di diverse visioni […]

L’ultima manciata di racconti si mescola a brevi schizzi, abbozzi, scene che accompagnano la scrittrice tra il 1926 e il 1941, anno della sua morte. Benché tutti abbaglianti di bellezza, per concludere scelgo solo tre racconti di questo gruppo. La signora nello specchio perché il suo primo spunto, trasparente, e per questo esemplare di un metodo e di un’abitudine, si trova nelle righe del diario del 20 settembre 1927: «Quante storielle mi girano per la testa! Per esempio: Ethel Sands che non legge le sue lettere. Ciò che implica questo. Si potrebbe scrivere un libro di scene isolate, brevi e significative. Ella non apriva le sue lettere».
Un libro, un racconto, una scena, non importa, quell’immagine comincia a lavorare e finisce per narrare milioni di cose. Fra le prime, l’importanza di due elementi spesso ricorrenti in ogni registro della sua scrittura, lo specchio e la finestra, oggetti solidi o metafore: del riflesso, della rifrazione, del mutevole/immobile, del dentro/fuori, interno/esterno, superficie/fondo, verità/miraggio? E ancora e infine della metamorfosi cui l’immaginazione sottopone la realtà, caricandola di simboli che la traducono trascendendola. Il lascito, poi, con al centro il diario di Angela Clandon, chiude il grande cerchio aperto con uno dei suoi primi racconti:

«Quindici piccoli volumi, rilegati in pelle verde», eredità di un silenzio che sarà la straordinaria miccia con cui Virginia Wolf racconta l’esplosione della vita di una coppia. Il narcisismo di un marito, irriso con sarcasmo feroce, la vita segreta di una moglie, il suo coraggio di vivere e morire oltre il destino che le è stato assegnato. È uno dei molti momenti in cui la Woolf mette in scena uomini e donne e l’eterno conflitto che li divide quando l’uomo è confinato, felice prigioniero, di un patriarcato che lo acceca e gli impedisce di capire dov’è la vita che vale vivere. Un finale terribile, stupendo, secco.
Spesso la perfezione di un grande scrittore si mostra anche nella sua capacità di farci vivere dentro a una speciale atmosfera, e l’incandescente grandezza di Virginia Woolf è quella di saper creare in molti di questi suoi racconti un’atmosfera che accoglie, insieme alla bellezza del mondo, la guerra, la morte, le grida, i colpi di pistola inattesi, i suicidi, la paura, la frustrazione, e di riuscire a immetterli tutti nel flusso della vita stessa, che è sempre più forte, che è sempre esperienza palpitante di emozioni; la morte con lei, per lei, non è mai mortifera. Per questo i suoi «gomitoli di spago» sanno raccontare l’unica verità possibile, «la vita nuda come un osso».

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A MONZA, UN FESTIVAL TUTTO PER LEI

Tra scrittura, poesia, romanzi e commedie, dal 25 al 27 novembre si svolgerà a Monza «Il faro in una stanza», festival letterario dedicato a Virginia Woolf e organizzato da Elisa Bolchi, Raffaella Musicò e Liliana Rampello. tra i numerosi appuntamenti: lo spettacolo teatrale a cura dell’«Associazione Sguardo» e tratta dalla commedia woolfiana «Freshwater»; un incontro con Sandra Petrignani sulla casa e l’intimità della scrittura. E ancora: Sara Sullam converserà con Elisa Bolchi a proposito dei romanzi e Liliana Rampello con Bianca Tarozzi. Per informazioni  raffaella.musico@gmail.com, tel. 039 2276483. fb: Il faro in una stanza

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PAROLE D’AUTRICE
TAVISTOCK SQUARE E IL GIARDINO PERDUTO

Penso alla lettera che stamattina scrivevo nella mia mente alla signora Woolf.
Questo momento percepito. I nostri brevi sé.
…una sera, sette anni fa, probabilmente l’ho seguita
per le vie di Londra…
Ricordo che la luna era alta nel cielo e che quando ho attraversato Tavistock Square
i giardini erano inondati di luce. Non mi sono accorta subito dell’alta, scura figura di donna, che camminava davanti a me, passando attraverso i giardini della piazza. Ma quando l’ho scorsa, è stato come se vedessi ogni cosa per la prima volta

[questo passaggio tratto da “Il giardino perduto” di Helen Humphreys è stato scelto da Liliana Rampello, curatrice del volume di Virginia Woolf, Oggetti solidi, come apertura]

 

(il manifesto, 10 novembre 2016)

di Sara De Simone

Contributo di Sara De Simone, dottoranda della Normale di Pisa, al ciclo “Riletture”, 11 ottobre 2016, ideato da Alessandra Bocchetti per la Casa Int. delle donne di Roma.

 

«Se dovessi fare un posto a questo capolavoro

nelle graduatorie della grande letteratura politica,

lo metterei vicino al Principe di Machiavelli» 

(Luisa Muraro)

 

DEAR FELLOW OUTSIDER

di Sara De Simone

 

Ho voluto intitolare questo mio breve intervento “Dear Fellow Outsider”, riprendendo l’intestazione di una lettera che Virginia Woolf ricevette da una delle lettrici di Le Tre Ghinee, alcuni mesi dopo la pubblicazione del libro.

“Cara compagna estranea” – le aveva scritto questa donna, Constance Cheke – “io non faccio parte della Sua stessa classe sociale, ho dovuto attendere che Smiths (era una catena di librerie) ne riducesse il prezzo da 6 a 2 sterline per comprarlo. Ciò detto, credo che Le Tre Ghinee dovrebbe essere letto in tutte le scuole, in tutti i college, in tutti i seminari.”

Furono molte le donne che, dopo l’uscita del pamphlet della Woolf, presero l’iniziativa di scriverle. Le arrivarono lettere da tutta l’Inghilterra, ma anche da California, Michigan, New York. Le scrissero donne impegnate nell’educazione femminile, donne intellettuali, femministe, ma anche impiegate, operaie, e poi alcuni lettori uomini: un libraio – che le assicurò che avrebbe fatto di tutto per suggerirlo ai suoi clienti – e perfino un autista di autobus, che – le confessò – aveva faticato tanto a trovare il suo libro ma era ben lieto di esserci riuscito.

Non mancarono le lettere di dissenso, ma ce ne sono poche nel fondo della Woolf. Forse perché trovarono subito, una volta lette, la via del cestino? O forse perché chi si prende la briga di scrivere una lettera privata a un autore è, nella maggior parte dei casi, chi si è sentito veramente coinvolto dalle sue parole e sente il bisogno di comunicarglielo.

Quel che è certo è che invece sulla stampa e tra gli amici intellettuali si scatenò un bel putiferio.

In pochi apprezzarono Le Tre Ghinee. Non piacque ai critici, non piacque agli amici. Maynard Keynes, l’illustre economista, appartenente come Virginia al gruppo di Bloomsbury, ne era stato irritato. Quella di Le Tre Ghinee – disse – “era una tesi sciocca e nemmeno ben scritta”; lo scrittore E.M. Forster, anche lui frequentatore del gruppo, lo definì un libro “bisbetico, risentito e pieno di lamentele”. Leonard, il marito, reagì tiepidamente alla lettura del manoscritto. Il libro non piacque nemmeno a Vita Sackville West.

I recensori accusavano la Woolf di essere politicamente naïf, niente di cui stupirsi visto che era fin troppo una “lady” – dicevano – una signora borghese immersa nel suo reame etereo. C’è chi, maligno, sul giornale Spectator ironizzava: “a volte risulta difficile credere che la Signora Woolf non sia il personaggio di un racconto inventato da Forster”. E continuava: “C’è qualcosa in lei un po’ vecchio stile, un po’ provinciale… forse anche un po’ stridulo?”.

Dal canto suo Virginia, che era stata tanto ostinata e coraggiosa da scriverlo, quel libro, non si fece fiaccare certo dalle critiche che ne derivarono. Anzi prima ancora di pubblicarlo, come ricorda Nadia Fusini in Possiedo la mia anima (p. 257), aveva “profeticamente annunciato” a sua sorella Vanessa: “Non mi rimarrà un amico, dopo che sarà pubblicato il libro”.

Ma che cosa fece irritare così tanto critici e amici? Cosa infastidì? Cosa non piacque?

Molti non tollerarono che Virginia, in un momento tragico come quello, con la guerra alle porte, si mettesse a parlare di diritti delle donne. Insomma, c’era ben altro a cui pensare.

E poi, quel legame che lei aveva voluto vedere tra patriarcato, fascismo e nazismo loro non lo vedevano… o, se lo vedevano, gli sembrava esile, tenue. E i consigli di Virginia su come evitare la guerra? Erano del tutto inadeguati.

Doveva, in effetti, essere molto difficile per un inglese digerire, ad esempio, righe come quelle in cui la Woolf, rivolgendosi all’avvocato antifascista suo interlocutore, proponeva, implacabile, una tale corrispondenza:

“Le femministe in realtà furono le antesignane del Suo stesso movimento. Combattevano il medesimo nemico per i medesimi motivi. Combattevano contro l’oppressione di uno stato patriarcale come voi combattete contro l’oppressione di uno stato fascista. Ma ora, la Sua lettera ci garantisce che oggi voi combattete al nostro fianco, non contro di noi. È una circostanza così straordinaria […]. Ora voi provate sulla vostra persona quello che hanno provato le vostre madri quando furono escluse, quando furono imprigionate perché erano donne. Ora voi siete esclusi, ora voi siete imprigionati, perché siete ebrei, perché siete democratici, per ragioni razziali, per ragioni religiose. Non è una fotografia quella che vi sta davanti, siete voi stessi, che arrancate in fila. Allora tutto cambia. Ora vi appare evidente in tutto il suo orrore l’iniquità della dittatura, non importa dove […], non importa con chi […]. Ma oggi lottiamo fianco a fianco. Si tratta di un fatto così esaltante che se questa ghinea potesse essere moltiplicata un milione di volte, un milione di ghinee sarebbe tutto per voi” (p. 140).

 

Una logica così inoppugnabile e uno humor così tagliente dovevano aver fatto saltare i nervi a parecchi fra quelli che leggevano.

Voi combattete il fascismo e il nazismo – parafraso io – che sono in Italia e in Germania ma non vi accorgete del fascismo e del nazismo che è in tutti i vostri privilegi, in tutte le vostre pompose cerimonie, in tutte le esclusioni, le repressioni, che fate a casa vostra ogni giorno?

E siccome Viginia portava a sua testimonianza fatti concreti (da anni, dal 1931 stava raccogliendo a tale scopo articoli di giornale, fotografie, ritagli di riviste, citazioni da biografie e memoriali) ecco che individua il germe del dittatore in patria in una dichiarazione qualunque sul britannicissimo Daily Telegraph del Gennaio ’36:

“Sono sicuro di esprimere l’opinione di migliaia di giovani dicendo che se fossero gli uomini a occupare i posti occupati da migliaia di giovani donne, essi sarebbero in grado di mantenere in modo onorevole quelle stesse donne. Il posto della donna è in casa, mentre oggi essa obbliga l’uomo all’ozio forzato. Sarebbe ora che il Governo facesse pressioni sui datori di lavoro perché assumessero più uomini…” (p. 79).

Ecco, commenta Virginia, in queste parole “troviamo in embrione l’insetto che riconosciamo sotto altri nomi in altri paesi. Là sta racchiuso allo stato embrionale l’essere che, quando è italiano o tedesco, chiamiamo Dittatore. […] Uno è scritto in inglese, l’altro in tedesco. Ma che differenza c’è? Non dicono la stessa cosa? Non sono l’uno e l’altro le voci di due dittatori, anche se l’uno parla la lingua inglese e l’altro la tedesca, e non ci troviamo tutti d’accordo nel ritenere che i Dittatori, quando li si incontrano all’estero, sono animali pericolosissimi, oltre che molto brutti? […] Eccone uno qui, in mezzo a noi; è ancora piccolo, arrotolato su se stesso come un bruco su una foglia, ma è qui, nel cuore dell’Inghilterra” (p. 81).

 

Ci vuole molta, spietata, lucidità per scrivere parole come queste. Ci vuole anche la rabbia, concedersi di provare quello che Luisa Muraro in Dio è violent definisce il sano “colpo di rabbia che è la degna e giusta risposta umana all’invasione e alla prepotenza” (p. 59). Ci vuole, in definitiva, un grande coraggio, anche nel senso etimologico della parola, dal latino coraticum, ci vuole molto cuore, bisogna avere il cuore di scrivere parole come queste. Di mettere in fila esempi su esempi, fatti, notizie, dichiarazioni, uno dopo l’altro a riprova del fatto che la culla della democrazia, l’evoluta Inghilterra, aveva dimostrato, in un numero infinito di occasioni, di non essere affatto immune dalla prepotenza sistematica, dalla retorica viriloide, dalla pratica della sopraffazione che tanto indignava e allarmava, a vederla dal di fuori, a vederla da lontano.

Prepotenza e sopraffazione come quando, racconta la Woolf, dopo la fondazione dei primi due colleges femminili di Newhnam e di Girton, le direttrici di quei colleges chiesero al Senato accademico se le proprie allieve, una volta laureate, potevano anteporre al loro nome e cognome il titolo di “Dott.”, proprio come facevano i loro colleghi laureati uomini, dato che la cosa le avrebbe molto aiutate a trovare lavoro, e – apriti cielo – alla votazione si presentarono in massa anche i consiglieri che non erano legati direttamente a quella Università per votare “no”, così da vincere con una schiacciante maggioranza di 1707 contro 661. Allora gli studenti, esaltati dal risultato, si diressero davanti ad uno dei colleges femminili e ne presero a calci e bastonate i cancelli di bronzo, rovinandoli.

O come quando, davanti alla Scuola Reale di Chirurgia di Edimburgo, duecento studentesse i cancelli se li videro sbattere in faccia dai loro colleghi maschi. Le chiusero fuori, e poi schiamazzarono, resero impossibili le lezioni, arrivano a portare una pecora in aula per protestare, perché quella scuola era stata fondata per gli uomini, e solo loro avevano diritto a goderne.

 

È difficile non indignarsi, anche oggi, leggendo questi episodi. È estremamente spiacevole anzi, dovrei dire, è doloroso. E sebbene la lotta per le lauree di Cambridge sia molto lontana, così come le prepotenze alla Scuola di Chirurgia, questi due fatti storici, nel momento in cui li ho letti, mi hanno dato una fitta, e subito dopo una scossa su per la colonna vertebrale. È una sensazione che mi capita spesso di trovare, quando mi ritrovo davanti a fatti di una storia lontana, che però mi riguarda. E ogni volta, tutte le volte, mi accorgo che parlano, in qualche modo, anche di me. Parlano ‘a’ me.

Mi sono chiesta, mentre leggevo, davanti a quali cancelli chiusi devo aver provato qualcosa di simile a quello che provarono le studentesse della Reale Scuola di Chirurgia.

Mi sembra di vedere le loro facce, la loro espressione amaramente stupefatta. Qualcuna prova vergogna, qualcun’altra trema di rabbia. Qualcuna ha il sorriso obliquo di chi sorride per difesa, e rassicura le altre : “non l’avranno vinta”.

Quali sono oggi i cancelli – più simbolici che pratici, evidentemente – che mi hanno lasciato fuori mentre io ero sicura che sarei entrata dentro?

Non è per niente facile rispondere a questa domanda. Si tratta di meccanismi complicati, di dinamiche così subdole e insidiose, spesso si tratta più di atmosfere che di situazioni precise. È talmente tanta la libertà che abbiamo raggiunto – almeno su un piano del discorso enunciato – che è diventato così difficile riconoscere e isolare le situazioni in cui non siamo libere. È un terreno scivoloso, e poi c’è sempre qualcuno pronto a rispondermi: “Fai un confronto con le tue antenate, anche solo di 40-50 anni fa. Non ti sembra di aver fatto incredibili passi avanti? Non ti sembra che sia tutto superato?”.

Agli occhi di chi fa queste obiezioni un testo come questo della Woolf potrebbe apparire datato. Si limiterebbe a registrare i benefici che ha portato, le conquiste che ha ispirato. Ma per il resto… le donne, la guerra, il fascismo? Pratica archiviata.

Invece devo dire che io, se fossi nella condizione di poter inviare la mia lettera personale a Virginia Woolf, e se non temessi di peccare di presunzione, la comincerei proprio con l’intestazione di Constance Cheke, “Dear Fellow Outsider”. E poi, scriverei la stessa frase che le scrisse tale Geraldine Ostle, segretaria, nel 1938: “Nessuno è riuscito ad esprimere le nostre difficoltà nell’affrontare la vita meglio di Lei”.

Dico questo ben consapevole del fatto che, pur usando la stessa frase di Geraldine, le mie difficoltà e la mia vita sono completamente diverse dalle sue. Eppure, anche simili. Molte cose sono cambiate, qualcosa invece ha solo mutato aspetto, qualcos’altro si perpetua, identico, qualcosa si è aggiunto.

Quello che è certo è che Le Tre Ghinee continua a parlare, a interrogare, a suggerire, a provocare, a muovere.

E che il suo tesoro, il tesoro della differenza, è un tesoro anche per me. Un vivo richiamo, un pungolo insistente, una fatica, a volte, ingrata, una necessità incontestabile.

Credo che anche oggi valga la pena, eccome, di domandarsi: ho voglia di unirmi al corteo degli uomini? E a quali condizioni dovrei unirmi ad esso? E poi, dove mi condurrebbe?

Virginia Woolf rifiuta di unirsi all’associazione dell’avvocato “perché così facendo annegheremo la nostra identità nella vostra; entreremo, riproducendoli e rendendoli ancora più profondi, dentro i vecchi slabbrati solchi della società […] Cancelleremmo la visione che la nostra esperienza ci ha aiutate a intravedere” (p. 143). Mentre invece, scrive in un’altra pagina la Woolf, è proprio “da quella differenza che può venirvi l’aiuto, se aiutarvi possiamo, per difendere la libertà, per prevenire la guerra. Ma se firmiamo il modulo che ci impegna a diventare membri attivi della Sua associazione, sarebbe come perdere quella differenza e quindi sacrificare la possibilità di aiutarvi” (p. 141).

 

Mi sembra che quasi tutto, oggi, concorra a volermi far perdere la mia differenza. Che si parli sempre più frequentemente solo in termini di uguaglianza. Spesso le mie coetanee, ma ancor più le più giovani, universitarie o addirittura liceali, fanno riferimento in maniera del tutto naturale, direi distrattamente naturale, al fatto che non ci sono più differenze tra loro e il sesso maschile.

Non dimenticherò mai le interviste fatte l’anno scorso a un campione casuale di studenti e studentesse de La Sapienza per un inchiesta promossa dal “Laboratorio di studi femministi Anna Rita Simeone – Sguardi sulle differenze”, che è interno alla facoltà di Lettere e Filosofia, proprio sul termine “femminista”. Quasi nessuna ragazza si sentiva di dichiararsi tale. Molte rispondevano che era assolutamente anacronistico. Ma la cosa che più mi colpì è che si evidenziava quasi mai la benché minima differenza nelle risposte delle ragazze e dei ragazzi: gli studenti di entrambi i sessi ripetevano la stessa formula, quasi fosse imparata a memoria (cito testualmente): “siamo tutti uguali; ormai non c’è più bisogno del femminismo; oggi le differenze sono state appianate”.

Io e le tre colleghe responsabili di questa inchiesta tornammo a casa con un senso di sconforto e di prostrazione profondissime.

Che ingenue, qualcuno commenterà. Ma come, nel nostro laboratorio di pensiero e di scambio non ci eravamo accorte che, qualche aula più in là, qualche metro distante, sulla stessa scalinata su cui salivamo e scendevamo, le opinioni più comuni erano queste? C’era da rimanere così stupite?

 

Non era che non mi aspettassi quelle risposte. Mi era capitato così tante volte di sentire affermazioni di quel tipo. Ma ascoltarle a viva voce, una dopo l’altra, consecutivamente, mi aveva spossata. Continuai a rimuginare. Era stata una giornata sfortunata? Non avevamo incontrato nessuna che volesse, anche in semplicità, mettere in parola il suo essere “diversa da”? Forse avevano ragione loro, forse noi con quei questionari inopportuni, da privilegiate, ci ostinavamo a porci un falso problema. Ma no, no, mi rispondevo, rivoltandomi un po’ nella rabbia, un po’ nell’incapacità, un po’ nel terrore di avere davvero assistito ad un reiterato annegamento: l’annegamento di un’identità nell’altra, il collasso delle differenze, il trionfo della “differenza non saputa”, quella che si può solo subire e non si può pensare.

Siamo dunque condannate all’inefficacia, davanti alla normalizzazione, allo sdoganamento, ingannevole, di tutte le libertà, davanti all’“illusione della simmetria” che ha preso il sopravvento?

 

Il potere che livella, che appiattisce, che svuota dall’interno le istanze rivoluzionarie succhiandone l’energia vitale e risputandone il baccello, come se fosse integro, ha tutto da guadagnare dall’indifferenziato, lo sappiamo bene.

È lo stesso potere che spesso ci fa sentire necessarie, che ci consulta e vuole il nostro contributo di donne quando serve, e che ci ignora completamente quando non serve; lo stesso che molte volte utilizza le candidature femminili come fiore all’occhiello; lo stesso che dunque fagocita e rende inoffensivo l’altro sguardo, quello da cui potrebbe essere arricchito ma che sceglie di ignorare e anzi, se possibile, di includere per disinnescare.

Ma non voglio, ora, parlare ancora del Potere, il potere che ruba tutti i desideri, facendo finta di offrircene un ventaglio infinito; il potere del giogo della tristitia di spinoziana memoria, che deprime, disgrega, rende prigionieri e impotenti; il potere dell’indifferenziato, che nella promessa dell’uguaglianza ha la pretesa di annullare tutte le differenze, anche quelle irriducibili e che, proprio perché irriducibili, mentre vengono sottratte al piano della consapevolezza, continuano ad agire sotterraneamente senza però poter essere pensate, senza avere più parole per essere espresse, né possibilità di essere sapute.

 

Vorrei parlare adesso di quello che io sento di potere fare. Di quello che un libro come Le Tre Ghinee mi dà le ragioni e gli incentivi e il coraticum, il coraggio del cuore, di voler fare.

Credo che ancora oggi abbia senso parlare di una Society of Outsiders. Non potrebbe e non dovrebbe, certo, essere l’organizzazione segreta di estranee alla guerra, alle armi, di indifferenti al combattimento, di senza patria – perché in quanto donne la loro patria è il mondo intero – di cui parlava la Woolf. Ma è giusto e necessario e fa bene pensare che le donne, alcune donne, anche molto giovani, consapevoli della propria diversità, vogliano e possano “approfittare della differenza”, per usare un’indimenticabile espressione di Carla Lonzi.

Per parte mia, io vorrei poter approfittare della storia differente di coloro che sono venute prima di me, vorrei poter approfittare delle mie antenate, così come della mia esperienza altra, dell’altro sguardo… anche, dunque, di tutti gli svantaggi che la Storia ha comportato nel tempo, molti dei quali sono stati superati, mentre altri sono rimasti, e altri ancora sono mutati, ma di cui posso approfittare volgendoli in positivo, non in maniera consolatoria, ma come un autentico slancio di indipendenza.

 

Dico vorrei perché non so se sarò in grado di fare tutto questo. Tradirsi è dietro l’angolo, bisogna saperlo. È così faticoso essere fedeli a se stesse, così tante donne mi è parso di vedere mentre si mettevano in fila per essere ammesse al corteo degli uomini, che un giorno per stanchezza, per economia, per sfiducia, potrebbe capitare anche me. Spero in quel caso ci sia una voce così amica da poter essere sufficientemente spietata nel ricordarmi qual è il prezzo da pagare, quali sono le condizioni a cui stare, quali sono le mancanze del potere con cui io, dando la mia adesione senza portarmi dietro la mia differenza, colluderei.

A volte ho la sensazione che non siamo abbastanza amiche da essere spietate con quelle donne che ci pare scendano a compromessi…e che avrebbero bisogno, parlo soprattutto di quelle che scelgono di essere dentro le istituzioni, di un sostegno autentico, di sentire dietro di sé la pressione e l’energia della Società delle Outsiders.

 

Mentre iniziavo a preparare questo intervento e sfogliavo alcune pagine sulla Woolf mi ha fatto sorridere ritrovare una definizione che suo marito, Leonard, aveva scritto nella sua biografia riguardo al rapporto di Virginia con la politica: aveva scritto “Virginia era l’animale meno politico mai comparso sulla terra da quando Aristotele aveva inventato la definizione”.

Certo, lui si riferiva al fatto che Virginia non era, come lui, così politicamente impegnata, coinvolta, competente. Faceva spesso confusione tra uno schieramento e un altro. Non era un’esperta, come lui sentiva di essere e come lei stessa riconosceva lui fosse. Eppure… l’animale meno politico mai comparso sulla Terra sta all’origine della politica delle donne.

C’è un segreto in quel meno che forse Leonard non coglieva. Un meno che proprio nella sua inadeguatezza, nel suo non fare parte e non mettersi in fila per fare parte di quel “politico” che era sempre esistito, fin dai tempi di Aristotele, trova le ragioni e le esperienze per crearne uno nuovo. Per “non ripetere – dice la Woolf dice nella conclusione di Tre Ghinee – le vostre parole e i vostri metodi, ma trovare nuove parole e inventare nuovi metodi”.

 

Vado a concludere.

Essere fuori dal cancello può essere utile per guardare meglio. Le cose si vedono in una prospettiva diversa. Essere out-siders, rimanere fuori dal centro, mantenersi eccentriche, permette una visione binoculare che chi è dentro non sempre riesce ad avere.

Accettare di essere incongruenti, difendere la propria differenza senza cedere all’inclusione nell’indifferenziato, comporta una non indifferente fatica.

Significa riconoscere di essere straniere, e volerlo restare.

Ma come scrive Hannah Arendt, nella sua biografia di Rahel Vernagen, una donna, e un’ebrea, “Fremdsein ist gut” (p. 85):

“‘Essere stranieri’ fa bene; immergersi, […] e sperimentare, tentare quello che procura piacere; non lasciarsi aggredire, essere senza pretese, perdersi in tutte le cose belle del mondo. Di tante cose ci si può innamorare; di un bel vaso, del bel tempo, di persone belle. Tutte le cose belle hanno il loro potere, ogni cosa del mondo ha un suo volto e può essere bella”.

Per tutto questo e per molto altro, cara compagna outsider, essere fuori, non essere a casa, certe volte, oltre che una cosa faticosa e necessaria, mi pare anche una cosa bella.

 

Sara De Simone si è laureata in Filologia romanza all’Università La Sapienza di Roma. Attualmente è dottoranda in Letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si occupa, tra l’altro, della narrativa modernista di Virginia Woolf, Katherine Mansfield e Clarice Lispector. Ha fatto parte dell’esperienza di Se non ora quando?, confluendo poi nel gruppo Snoq Factory. Partecipa da anni al Laboratorio di studi femministi Anna Rita Simeone – Sguardi sulle differenze con cui ha realizzato diverse video-inchieste (Di questa donna e delle altre, Chi dice donna dice danno, La parola femminista) e curato alcuni numeri di DWF.

 

(www.libreriadelledonne.it, 6 novembre 2016)

 

 

 


Il libro di Luisa Pogliana, Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende

Responsabilizzazione e autonomia diffusa, lavoro collaborativo, patti di fiducia reciproca, far emergere le capacità ignorate, governare il tempo… Sono alcuni temi di questo libro di management e di donne, che parte da un assunto: aziende e lavoro sono drasticamente cambiati, occorre un altro management. Serve per questo guardare ad alcune esperienze di donne, che appaiono anticipatrici di questo modo nuovo. È la proposta dell’autrice, che inquadra in un pensiero organizzato politiche di donne manager che hanno portato coraggiose novità, con effetti positivi per le persone e per l’organizzazione ma che spesso non vengono valorizzate proprio perché non trovano corrispondenza nei modelli consolidati di management.

Ma perché queste innovazioni vengono oggi più da donne che da uomini? Il libro non ne fa una questione di maschile-femminile. Succede piuttosto che le donne, entrate nel management in tempi recenti, hanno portato una visione diversa, perché vivono una vita diversa e guardano le cose da un altro punto di vista. Hanno un’idea del potere come possibilità, del management come responsabilità verso l’azienda e tutti i soggetti che la compongono. E nel loro complessivo sguardo sul mondo collocano il lavoro dentro la vita, non come un mondo separato. È questo che allarga gli orizzonti manageriali.

L’autrice – tenendo insieme le esperienze e le riflessioni che suscitano – propone un preciso percorso: dalla pratica emergono criteri che indicano una via, oltre le pratiche consuete, là dove sono inadeguate o controproducenti. Ragionando su politiche effettivamente realizzate, ne mette a fuoco orientamenti e metodi frutto di ciò che si è fatto, che può essere capitalizzato, trasmesso e usato altrove. Non definisce un nuovo modello di management e tanto meno di management “femminile”, ma una proposta che viene dalle donne con vantaggio per tutti. Delle donne, per diventare più consapevoli della portata di quello che fanno e per farlo valorizzare. Degli uomini, che non accettano più di misurarsi con modelli manageriali impositivi. Delle aziende, che in pratiche di discontinuità scoprono il terreno per risultati imprevisti.

Seguendo queste donne si respira una felice aria di libertà: chi è manager ha uno spazio di autonomia che può usare per fare cose che abbiano un senso. Emerge così un management orientato a non credere che sia impossibile cambiare, disposto a spostare i confini del noto. Non per cercare risposte immediate, ma piuttosto per esplorare cosa può succedere.

 

Luisa Pogliana, Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende (Guerini e Associati, settembre 2016, pagg 142, euro 17,00)

Luisa Pogliana, per molti anni responsabile della direzione ricerche di mercato in un grande gruppo editoriale italiano, poi consulente di ricerche sui mercati internazionali, ha coperto ruoli in enti internazionali e nella European Commission. Sui temi relativi al management femminile ha scritto per Guerini Donne senza guscio (2009) e Le donne il management la differenza (2012). Ha fondato – con Isabella Covili, Anna Deambrosis, Patrizia Di Pietro, Pina Grimaldi – l’associazione Donnesenzaguscio (www.donnesenzaguscio.it), luogo di incontro tra donne manager per ragionare sul proprio ruolo e valorizzare pensieri e pratiche di cambiamento delle donne nelle aziende. Questo libro è frutto di un progetto comune.

(www.noidonne.org, 26 ottobre 2016)

Sabato 5 novembre 2016 alle 18 Luisa Pogliana sarà in Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, a discutere con Giordana Masotto e Maria Cristina Origlia di come è possibile cambiare un mondo in trasformazione tra potere e differenza.

di Alex Clark, The Guardian

Emma Cline
Le ragazze
Einaudi, 344 pagine, 18 euro

Il primo romanzo di Emma Cline è ispirato a uno dei criminali più famigerati della seconda metà del novecento, Charles Manson, la cui setta, The family, nell’agosto del 1969 assassinò brutalmente l’attrice Sharon Tate, suo figlio non ancora nato, alcuni amici suoi e del marito Roman Polanski. Quella notte, Manson aveva istruito e diretto un gruppo di ragazze per portare a termine il massacro. E la notte successiva le accompagnò a commettere un’altra serie di delitti. Dire che la folle figura di Charles Manson è entrata a far parte del nostro immaginario collettivo è riduttivo. Il Manson di Cline – qui è un altro vagabondo egomaniaco e mitomane di nome Russell Hadrick – aleggia ai margini del romanzo, e il lettore lo percepisce soprattutto per mezzo delle occulte ondate di approvazione o di rabbia che indirizza alle sue seguaci. In primo piano ci sono “le ragazze”, e in particolare Suzanne, la loro lea der di fatto, che adesca e seduce la narratrice, la quattordicenne Evie. A spasso nelle periferie californiane, in attesa di entrare nel collegio dove i genitori divorziati l’hanno mandata per risolvere i suoi indeiniti problemi, Evie non aspetta altro che essere dirottata verso una vita di ribellione. Nel ranch di Hadrick accelera la sua emersione dalla crisalide dell’adolescenza; può anche vendicarsi di sua madre, impegnata in varie attività di autoaiuto tipiche degli anni sessanta e al tempo stesso in cerca di un nuovo compagno, e di suo padre, comodamente sistemato in un appartamento di lusso con una donna molto più giovane. La forza del romanzo sta nella capacità di Cline di evocare l’atmosfera di quella dolorosa età di transizione, segnata dalla ricerca disperata di colmare un enorme vuoto emotivo. Una delle trasgressioni preferite della Family di Manson, qui ripresa, era entrare nelle case quando i proprietari erano fuori, non tanto per rubare quanto per provocare uno shock psichico tramite piccoli cambiamenti nello spazio domestico. Emma Cline riesce a catturare lo spaesamento e a seguire le piccole e grandi faglie che percorrono il nostro precario senso di stabilità. Le ragazze è un romanzo tutt’altro che perfetto, ma Evie è una potente interprete delle spinte emotive più ambigue e delle direzioni catastroiche verso cui possono spingerci.

(Internazionale, 30 settembre 2016)