di Antonietta Lelario (Circolo culturale La merlettaia di Foggia)
La Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana di don Milani scoppiò nel ’67 come una bomba scuotendo l’opinione pubblica, denunciando e mostrando come la selezione che avveniva nella scuola pubblica italiana fosse “di classe”, cioè colpisse chi partiva svantaggiato dal punto di vista economico sociale, chi scriveva l’aradio, perché la lingua italiana era per lui una lingua straniera. E di ciò la professoressa chiamata in questione non si preoccupava. Era indifferente.
La bomba colpì nel segno perché era il risultato di un’esperienza pratica e toccava un nodo centrale nel conflitto fra le classi sociali: l’importanza di avere il possesso della lingua per difendersi e contrastare il potere. Don Milani riapriva così il gioco fra la scuola e il suo tempo storico.
Di lì a poco sarebbe fiorito il ’68 che avrebbe trovato nelle scuole e nelle università la sua culla e avrebbe fatto di questo testo una bandiera. Quello che don Milani, indirizzando la sua lettera a una insegnante donna, non aveva visto era che le donne non rappresentavano affatto la scuola istituzionale dove approdavano come ospiti impreviste. Anzi sarebbero state una componente fondamentale di quel ’68, delle lotte operaie, dei movimenti degli studenti e dei docenti e, per fare spazio al femminile nuovo che emergeva, li avrebbero riempiti di nuovo senso. Non avrebbero poi esitato a sperimentare il separatismo dei collettivi femministi. Poi, con una capacità più unica che rara di rigenerarsi, avrebbero aperto librerie, università cittadine, centri documentazione e circoli. Infine, sarebbero tornate a scommettere di nuovo sulla possibilità di relazionarsi con gli uomini inseriti anche loro in un percorso di cambiamento.
A 50 anni dalla pubblicazione della Lettera a una professoressa, una insegnante, Vita Cosentino, una femminista che con passione ha fatto del suo lavoro il luogo di un impegno culturale e politico, mostra a tutti/e noi il cammino fatto in un libro Scuola: sembra ieri è già domani (Ed. Moretti&Vitali) che si interroga e ci interroga sulle pratiche di insegnamento e sull’agire femminile, sul senso che hanno se solo le sottraiamo al silenzio che spesso le copre. Lei si chiede: “Occorre scendere in piazza, riempire le pagine dei giornali per poter parlare di movimento politico?” (pag. 51). E citando Chiara Zamboni sostiene che c’è un’altra politica: “È la vita quotidiana il luogo pubblico del contendere per dare spazio ad un presente vivo” (pag. 12).
“Molte (docenti) portano con sé un modo diverso di stare nelle relazioni, un’attenzione alla soggettività, al tessuto umano tutto intero di corpo emozioni e parole che tende a trasformare la scuola da come l’hanno trovata” (pag. 14, Vita Cosentino, Alessio Miceli e Marina Santini nell’introduzione).
Il suo è un racconto autobiografico, ma anche paradigmatico, tanto da essere rintracciabile nella vita di tante di noi, nella stessa vita della nostra città e in tante iniziative del nostro tempo che agiscono su un piano apparentemente invisibile perché ciò che cambia sono le aspettative, le urgenze, le speranze, per “non perdere il contatto con le cose e così sentirle e saperle” (pag. 13).
Non è un racconto nostalgico. Vita Cosentino sa la differenza fra oggi e ieri, sa i cambiamenti avvenuti in questi 50 anni, sa che l’apertura al tempo storico nell’istituzione scolastica è avvenuta nella forma dell’ossequio ai criteri aziendali e alle logiche competitive, ignorando l’altro che c’è e che chiede risposte. Sa che proprio in quell’ascolto all’altro che c’è si evidenzia il meglio dell’esperienza delle docenti donne e di alcuni uomini. Sa che lì si annida il piacere e la possibilità stessa di insegnare: «Negli anni ’70 il dibattito si è polarizzato sul promuovere o bocciare, mentre la vera scommessa è riuscire davvero ad insegnare» (pag. 50).
Non vuole che il sapere conquistato con un’avventura di carattere esistenziale, culturale, politica, sia buttato a mare. È per il desiderio di confrontare e far circolare quel sapere che ha affrontato la fatica di scrivere.
Lo stesso desiderio, che la parola e l’esperienza femminile non cadano nell’irrilevanza, che non siano percepite con indifferenza, perché attraverso di loro si vedono aspetti e possibilità del reale che altrimenti non si vedrebbero e che invece lo cambiano radicalmente ci spinge a ritornare su quale scuola e quale università vogliamo, non come utopia lontana, ma come speranza presente perché: «La scuola è e rimane il luogo privilegiato di incontro tra le generazioni. È il luogo in cui, tutti i giorni, esseri umani in carne ed ossa sono in relazione e si parlano, è il luogo in cui si può essere in gioco con la propria umanità» (pag. 12).
«Il libro rimane frammentato, non va a costruire una teoria, l’ennesima sulla scuola o sulla politica. Rimane sul bordo: tra racconto e idee che ne nascono. Aperto agli scambi con il pensiero di altre, di altri, autorizza a pensare in proprio. Chiama quindi ad aggiungere piuttosto che a ripetere» (pag. 13).
È una pratica che caratterizza il movimento di autoriforma della scuola e dell’università, così come io l’ho conosciuto e frequentato e del quale l’autrice di questo libro è stata anima e riferimento essenziale.
Non è una scelta di comodo o un modo per sfuggire a responsabilità più grandi, cosa di cui spesso è accusata la politica delle donne, è un modo per tenere aperto il passaggio con il cambiamento epocale che stiamo vivendo. Citando Alain Touraine l’autrice vede una società marcata dall’opposizione di due principi non sociali: la globalizzazione da una parte e il soggetto personale dall’altra parte e: «Nel ribaltamento che ci transita da una civiltà di conquistatori del mondo a quella della costruzione del sé, la società degli uomini è sostituita da quella delle donne» (citazione a pag. 19).
L’autrice non manca di fare ulteriori precisazioni sulla differenza fra soggettività e individualismo come l’abbiamo sperimentata nel movimento delle donne, e fra individualismo e singolarità, tanto da autorizzarmi a pensare che questo libro è prezioso per chi lavora nella scuola e nell’università, ma non è solo un libro sulla scuola e sull’università.
(Comune-info.net, 3 novembre 2016)
di Liliana Rampello
Virginia Woolf. Quando la scrittrice inglese si confrontò con le prose brevi. Da oggi in libreria «Oggetti solidi». Un’anticipazione di parte dell’introduzione al volume. Dal 1906 al 1941, seguono la pubblicazione inglese curata da Susan Dick. Ora per Racconti edizioni
C’è sempre qualcosa di meraviglioso ed eccitante nel leggere o rileggere Virginia Woolf. Da qualsiasi pagina si parta, improvvisamente si scoperchia tutto un mondo, e tutto è legato, e lei è così intera, integra, così sempre se stessa, quando scrive, quando pensa, quando legge, quando cammina, quando viaggia, quando conversa, quando ride, scherza, gioca, e quando ci viene incontro con la sua mente luminosa, che non importa se è la prima o l’ennesima volta che abbiamo in mano un suo libro, ecco: la cosa che non avevamo ancora visto, che non avevamo mai capito, tanto è immensa, tanto è vera, è lì, ancora capace di abbagliarci dopo un secolo. Di questo suo variato immaginare sono notevole e sorprendente espressione tutti i racconti raccolti ora in Oggetti solidi, accompagnati da qualche breve prosa, schizzi che si proponeva eventualmente di riprendere, riscrivendoli più e più volte, quando ne avesse avuto voglia o bisogno.
Ne fanno fede, certo in modo obliquo, i suoi primi racconti, che mettono in scena molte tematiche che le saranno sempre care, e che si svilupperanno nella più ampia tessitura dei romanzi o ritroveremo imbullonate nell’intelaiatura dei suoi saggi, così come questi e quelli illumineranno a loro volta i movimenti di un racconto o dell’altro, movimenti che càpita di scoprire a volte solo per via di un lampo improvviso.
Phyllis e Rosamond, per esempio, nasconde nel buio della sua ovatta molti semi vivi che riguarderanno l’interesse costante di Virginia Woolf per le vite comuni, di donne «ordinarie», le vite «degli oscuri», «degli eccentrici», di quelle ragazze che, sorde alle sirene dell’emancipazione che le renderebbe banalmente simili ai loro fratelli, hanno come luogo di lavoro il salotto, il luogo della conversazione e del mercato matrimoniale, poiché è lì che imparano a conoscere il desiderio e i suoi limiti, l’illibertà e la dipendenza, la paura e l’automoderazione […]
Ma è ora di passare al secondo gruppo di racconti (1917-1921), che merita una diversa riflessione. Siamo di fronte a un mutamento profondo, a una maturità che comincia a esplorare con coraggiosa consapevolezza la forza del proprio stile e lo appoggia definitivamente sul ritmo: lei, come Marcel Proust, sa che lo stile non è mai questione di tecnica, ma di visione, che «lo stile è una cosa molto semplice; è solo ritmo» e che la sua essenza «è arcana e va in profondità assai più delle parole».
Qualcosa è successo. Qualcosa comincia a farle credere che ci sia una via formale, stilistica, per attraversare la contraddizione che da sempre la ossessiona: «La vita, insomma, è molto solida o molto instabile?»; e la sua mente vira veloce, spontaneamente, verso la poesia e la pittura. Le parole dovranno aprire lo spazio al tempo dell’immagine verbale, il qui e ora di un presente assoluto.
Il segno sul muro rapisce e imprigiona chi legge dentro allo sguardo e alla mente narrante, che vaga e divaga da un pensiero all’altro, scandendo quel ritmo interiore che ridisegna ogni volta la macchia in modo diverso: «non è questo», «non è questo»… ciò che si vede porta a espressione la realtà strappandola all’irrealtà, lo sguardo non descrive, il pensiero è impreciso, il piacere più intimo è adorare il mondo «impersonale» che non dipende da noi, che si rivela nella sua verità inaspettata, teatrale, solo nell’ultima riga.
Kew Gardens, secondo Katherine Mansfield, fin dal primo paragrafo ci fa consapevoli di un senso di pace: «la sua storia vi è immersa come in una luce calma e immobile, tutto è sospeso, sì, sospeso. Qualunque cosa può accadere, il suo mondo è come in punta di piedi». Un romanzo non scritto spalanca di colpo il futuro della forma. Basta lo scompartimento di un treno, non per non scrivere un romanzo, ma per scriverne cento, basta guardare Minnie Marsh per guardare la vita, perché «la vita è quello che si vede negli occhi della gente». È questa la materia inafferrabile che, d’ora in poi, chiede quella forma che la Woolf sa con certezza dover essere un ritmo che non strutturi, ma accompagni il volo della mente. Ritmo come poesia capace di fermare il tempo nello spazio dell’immagine, saturandolo, e di rendere tutto impersonale, disincarnato: «Ma quando l’io parla all’io, chi è che parla?». Mostrare la vita così com’è, il segreto nascosto: «Non è precisamente la bellezza che intendo. È che la cosa basta in se stessa: pacificamente compiuta». Solo questo oltre la cosa in sé è reale, diventa reale quando affiorando nello squarcio del tessuto invisibile dell’esperienza quotidiana sotto forma di choc, di scossa, di «momento d’essere», ci restituisce nell’attimo il senso vero e unico, puntuale, dell’intero del tempo e della vita, purché sia messo in parola, purché l’estasi della visione trovi la forma della sua espressione […]
Tra il 1922 e il 1925 il piano delle prose brevi mostra il volto familiare di due fiabe e quello concentratissimo della scrittura di Mrs Dalloway. È la mente allegra e disponibile di zia Virginia che intravediamo dietro alla Vedova e il pappagallo. Anche Le tendine di Tata Lugton è scritto per la nipote Ann, e dispiega le meraviglie senza freni della woolfiana immaginazione animale.
Ben sette dei racconti di questi anni invece si radunano attorno alla «coscienza della festa», secondo quanto lei stessa scrive in vari momenti del suo diario. I temi, investiti di una vera e propria esplorazione psicologica, sono quelli che hanno turbato la Woolf fin da ragazza con la loro ambiguità (gioiva delle uscite in società più prima che durante): il senso di inferiorità e inadeguatezza, l’incertezza mista a noncuranza sull’abbigliamento, la solitudine, la conversazione come forma di conoscenza primitiva e quasi intuitiva, in cui una sola parola o un solo gesto possono riassumere comportamenti di tutta una vita, l’io profondo e la superficie degli obblighi mondani, il ripresentarsi dei ricordi di infanzia, l’amore per gli altri e i suoi camuffamenti, il giardino e il salotto, sfondo di diverse visioni […]
L’ultima manciata di racconti si mescola a brevi schizzi, abbozzi, scene che accompagnano la scrittrice tra il 1926 e il 1941, anno della sua morte. Benché tutti abbaglianti di bellezza, per concludere scelgo solo tre racconti di questo gruppo. La signora nello specchio perché il suo primo spunto, trasparente, e per questo esemplare di un metodo e di un’abitudine, si trova nelle righe del diario del 20 settembre 1927: «Quante storielle mi girano per la testa! Per esempio: Ethel Sands che non legge le sue lettere. Ciò che implica questo. Si potrebbe scrivere un libro di scene isolate, brevi e significative. Ella non apriva le sue lettere».
Un libro, un racconto, una scena, non importa, quell’immagine comincia a lavorare e finisce per narrare milioni di cose. Fra le prime, l’importanza di due elementi spesso ricorrenti in ogni registro della sua scrittura, lo specchio e la finestra, oggetti solidi o metafore: del riflesso, della rifrazione, del mutevole/immobile, del dentro/fuori, interno/esterno, superficie/fondo, verità/miraggio? E ancora e infine della metamorfosi cui l’immaginazione sottopone la realtà, caricandola di simboli che la traducono trascendendola. Il lascito, poi, con al centro il diario di Angela Clandon, chiude il grande cerchio aperto con uno dei suoi primi racconti:
«Quindici piccoli volumi, rilegati in pelle verde», eredità di un silenzio che sarà la straordinaria miccia con cui Virginia Wolf racconta l’esplosione della vita di una coppia. Il narcisismo di un marito, irriso con sarcasmo feroce, la vita segreta di una moglie, il suo coraggio di vivere e morire oltre il destino che le è stato assegnato. È uno dei molti momenti in cui la Woolf mette in scena uomini e donne e l’eterno conflitto che li divide quando l’uomo è confinato, felice prigioniero, di un patriarcato che lo acceca e gli impedisce di capire dov’è la vita che vale vivere. Un finale terribile, stupendo, secco.
Spesso la perfezione di un grande scrittore si mostra anche nella sua capacità di farci vivere dentro a una speciale atmosfera, e l’incandescente grandezza di Virginia Woolf è quella di saper creare in molti di questi suoi racconti un’atmosfera che accoglie, insieme alla bellezza del mondo, la guerra, la morte, le grida, i colpi di pistola inattesi, i suicidi, la paura, la frustrazione, e di riuscire a immetterli tutti nel flusso della vita stessa, che è sempre più forte, che è sempre esperienza palpitante di emozioni; la morte con lei, per lei, non è mai mortifera. Per questo i suoi «gomitoli di spago» sanno raccontare l’unica verità possibile, «la vita nuda come un osso».
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A MONZA, UN FESTIVAL TUTTO PER LEI
Tra scrittura, poesia, romanzi e commedie, dal 25 al 27 novembre si svolgerà a Monza «Il faro in una stanza», festival letterario dedicato a Virginia Woolf e organizzato da Elisa Bolchi, Raffaella Musicò e Liliana Rampello. tra i numerosi appuntamenti: lo spettacolo teatrale a cura dell’«Associazione Sguardo» e tratta dalla commedia woolfiana «Freshwater»; un incontro con Sandra Petrignani sulla casa e l’intimità della scrittura. E ancora: Sara Sullam converserà con Elisa Bolchi a proposito dei romanzi e Liliana Rampello con Bianca Tarozzi. Per informazioni raffaella.musico@gmail.com, tel. 039 2276483. fb: Il faro in una stanza
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PAROLE D’AUTRICE
TAVISTOCK SQUARE E IL GIARDINO PERDUTO
Penso alla lettera che stamattina scrivevo nella mia mente alla signora Woolf.
Questo momento percepito. I nostri brevi sé.
…una sera, sette anni fa, probabilmente l’ho seguita
per le vie di Londra…
Ricordo che la luna era alta nel cielo e che quando ho attraversato Tavistock Square
i giardini erano inondati di luce. Non mi sono accorta subito dell’alta, scura figura di donna, che camminava davanti a me, passando attraverso i giardini della piazza. Ma quando l’ho scorsa, è stato come se vedessi ogni cosa per la prima volta
[questo passaggio tratto da “Il giardino perduto” di Helen Humphreys è stato scelto da Liliana Rampello, curatrice del volume di Virginia Woolf, Oggetti solidi, come apertura]
(il manifesto, 10 novembre 2016)
di Sara De Simone
Contributo di Sara De Simone, dottoranda della Normale di Pisa, al ciclo “Riletture”, 11 ottobre 2016, ideato da Alessandra Bocchetti per la Casa Int. delle donne di Roma.
«Se dovessi fare un posto a questo capolavoro
nelle graduatorie della grande letteratura politica,
lo metterei vicino al Principe di Machiavelli»
(Luisa Muraro)
DEAR FELLOW OUTSIDER
di Sara De Simone
Ho voluto intitolare questo mio breve intervento “Dear Fellow Outsider”, riprendendo l’intestazione di una lettera che Virginia Woolf ricevette da una delle lettrici di Le Tre Ghinee, alcuni mesi dopo la pubblicazione del libro.
“Cara compagna estranea” – le aveva scritto questa donna, Constance Cheke – “io non faccio parte della Sua stessa classe sociale, ho dovuto attendere che Smiths (era una catena di librerie) ne riducesse il prezzo da 6 a 2 sterline per comprarlo. Ciò detto, credo che Le Tre Ghinee dovrebbe essere letto in tutte le scuole, in tutti i college, in tutti i seminari.”
Furono molte le donne che, dopo l’uscita del pamphlet della Woolf, presero l’iniziativa di scriverle. Le arrivarono lettere da tutta l’Inghilterra, ma anche da California, Michigan, New York. Le scrissero donne impegnate nell’educazione femminile, donne intellettuali, femministe, ma anche impiegate, operaie, e poi alcuni lettori uomini: un libraio – che le assicurò che avrebbe fatto di tutto per suggerirlo ai suoi clienti – e perfino un autista di autobus, che – le confessò – aveva faticato tanto a trovare il suo libro ma era ben lieto di esserci riuscito.
Non mancarono le lettere di dissenso, ma ce ne sono poche nel fondo della Woolf. Forse perché trovarono subito, una volta lette, la via del cestino? O forse perché chi si prende la briga di scrivere una lettera privata a un autore è, nella maggior parte dei casi, chi si è sentito veramente coinvolto dalle sue parole e sente il bisogno di comunicarglielo.
Quel che è certo è che invece sulla stampa e tra gli amici intellettuali si scatenò un bel putiferio.
In pochi apprezzarono Le Tre Ghinee. Non piacque ai critici, non piacque agli amici. Maynard Keynes, l’illustre economista, appartenente come Virginia al gruppo di Bloomsbury, ne era stato irritato. Quella di Le Tre Ghinee – disse – “era una tesi sciocca e nemmeno ben scritta”; lo scrittore E.M. Forster, anche lui frequentatore del gruppo, lo definì un libro “bisbetico, risentito e pieno di lamentele”. Leonard, il marito, reagì tiepidamente alla lettura del manoscritto. Il libro non piacque nemmeno a Vita Sackville West.
I recensori accusavano la Woolf di essere politicamente naïf, niente di cui stupirsi visto che era fin troppo una “lady” – dicevano – una signora borghese immersa nel suo reame etereo. C’è chi, maligno, sul giornale Spectator ironizzava: “a volte risulta difficile credere che la Signora Woolf non sia il personaggio di un racconto inventato da Forster”. E continuava: “C’è qualcosa in lei un po’ vecchio stile, un po’ provinciale… forse anche un po’ stridulo?”.
Dal canto suo Virginia, che era stata tanto ostinata e coraggiosa da scriverlo, quel libro, non si fece fiaccare certo dalle critiche che ne derivarono. Anzi prima ancora di pubblicarlo, come ricorda Nadia Fusini in Possiedo la mia anima (p. 257), aveva “profeticamente annunciato” a sua sorella Vanessa: “Non mi rimarrà un amico, dopo che sarà pubblicato il libro”.
Ma che cosa fece irritare così tanto critici e amici? Cosa infastidì? Cosa non piacque?
Molti non tollerarono che Virginia, in un momento tragico come quello, con la guerra alle porte, si mettesse a parlare di diritti delle donne. Insomma, c’era ben altro a cui pensare.
E poi, quel legame che lei aveva voluto vedere tra patriarcato, fascismo e nazismo loro non lo vedevano… o, se lo vedevano, gli sembrava esile, tenue. E i consigli di Virginia su come evitare la guerra? Erano del tutto inadeguati.
Doveva, in effetti, essere molto difficile per un inglese digerire, ad esempio, righe come quelle in cui la Woolf, rivolgendosi all’avvocato antifascista suo interlocutore, proponeva, implacabile, una tale corrispondenza:
“Le femministe in realtà furono le antesignane del Suo stesso movimento. Combattevano il medesimo nemico per i medesimi motivi. Combattevano contro l’oppressione di uno stato patriarcale come voi combattete contro l’oppressione di uno stato fascista. Ma ora, la Sua lettera ci garantisce che oggi voi combattete al nostro fianco, non contro di noi. È una circostanza così straordinaria […]. Ora voi provate sulla vostra persona quello che hanno provato le vostre madri quando furono escluse, quando furono imprigionate perché erano donne. Ora voi siete esclusi, ora voi siete imprigionati, perché siete ebrei, perché siete democratici, per ragioni razziali, per ragioni religiose. Non è una fotografia quella che vi sta davanti, siete voi stessi, che arrancate in fila. Allora tutto cambia. Ora vi appare evidente in tutto il suo orrore l’iniquità della dittatura, non importa dove […], non importa con chi […]. Ma oggi lottiamo fianco a fianco. Si tratta di un fatto così esaltante che se questa ghinea potesse essere moltiplicata un milione di volte, un milione di ghinee sarebbe tutto per voi” (p. 140).
Una logica così inoppugnabile e uno humor così tagliente dovevano aver fatto saltare i nervi a parecchi fra quelli che leggevano.
Voi combattete il fascismo e il nazismo – parafraso io – che sono in Italia e in Germania ma non vi accorgete del fascismo e del nazismo che è in tutti i vostri privilegi, in tutte le vostre pompose cerimonie, in tutte le esclusioni, le repressioni, che fate a casa vostra ogni giorno?
E siccome Viginia portava a sua testimonianza fatti concreti (da anni, dal 1931 stava raccogliendo a tale scopo articoli di giornale, fotografie, ritagli di riviste, citazioni da biografie e memoriali) ecco che individua il germe del dittatore in patria in una dichiarazione qualunque sul britannicissimo Daily Telegraph del Gennaio ’36:
“Sono sicuro di esprimere l’opinione di migliaia di giovani dicendo che se fossero gli uomini a occupare i posti occupati da migliaia di giovani donne, essi sarebbero in grado di mantenere in modo onorevole quelle stesse donne. Il posto della donna è in casa, mentre oggi essa obbliga l’uomo all’ozio forzato. Sarebbe ora che il Governo facesse pressioni sui datori di lavoro perché assumessero più uomini…” (p. 79).
Ecco, commenta Virginia, in queste parole “troviamo in embrione l’insetto che riconosciamo sotto altri nomi in altri paesi. Là sta racchiuso allo stato embrionale l’essere che, quando è italiano o tedesco, chiamiamo Dittatore. […] Uno è scritto in inglese, l’altro in tedesco. Ma che differenza c’è? Non dicono la stessa cosa? Non sono l’uno e l’altro le voci di due dittatori, anche se l’uno parla la lingua inglese e l’altro la tedesca, e non ci troviamo tutti d’accordo nel ritenere che i Dittatori, quando li si incontrano all’estero, sono animali pericolosissimi, oltre che molto brutti? […] Eccone uno qui, in mezzo a noi; è ancora piccolo, arrotolato su se stesso come un bruco su una foglia, ma è qui, nel cuore dell’Inghilterra” (p. 81).
Ci vuole molta, spietata, lucidità per scrivere parole come queste. Ci vuole anche la rabbia, concedersi di provare quello che Luisa Muraro in Dio è violent definisce il sano “colpo di rabbia che è la degna e giusta risposta umana all’invasione e alla prepotenza” (p. 59). Ci vuole, in definitiva, un grande coraggio, anche nel senso etimologico della parola, dal latino coraticum, ci vuole molto cuore, bisogna avere il cuore di scrivere parole come queste. Di mettere in fila esempi su esempi, fatti, notizie, dichiarazioni, uno dopo l’altro a riprova del fatto che la culla della democrazia, l’evoluta Inghilterra, aveva dimostrato, in un numero infinito di occasioni, di non essere affatto immune dalla prepotenza sistematica, dalla retorica viriloide, dalla pratica della sopraffazione che tanto indignava e allarmava, a vederla dal di fuori, a vederla da lontano.
Prepotenza e sopraffazione come quando, racconta la Woolf, dopo la fondazione dei primi due colleges femminili di Newhnam e di Girton, le direttrici di quei colleges chiesero al Senato accademico se le proprie allieve, una volta laureate, potevano anteporre al loro nome e cognome il titolo di “Dott.”, proprio come facevano i loro colleghi laureati uomini, dato che la cosa le avrebbe molto aiutate a trovare lavoro, e – apriti cielo – alla votazione si presentarono in massa anche i consiglieri che non erano legati direttamente a quella Università per votare “no”, così da vincere con una schiacciante maggioranza di 1707 contro 661. Allora gli studenti, esaltati dal risultato, si diressero davanti ad uno dei colleges femminili e ne presero a calci e bastonate i cancelli di bronzo, rovinandoli.
O come quando, davanti alla Scuola Reale di Chirurgia di Edimburgo, duecento studentesse i cancelli se li videro sbattere in faccia dai loro colleghi maschi. Le chiusero fuori, e poi schiamazzarono, resero impossibili le lezioni, arrivano a portare una pecora in aula per protestare, perché quella scuola era stata fondata per gli uomini, e solo loro avevano diritto a goderne.
È difficile non indignarsi, anche oggi, leggendo questi episodi. È estremamente spiacevole anzi, dovrei dire, è doloroso. E sebbene la lotta per le lauree di Cambridge sia molto lontana, così come le prepotenze alla Scuola di Chirurgia, questi due fatti storici, nel momento in cui li ho letti, mi hanno dato una fitta, e subito dopo una scossa su per la colonna vertebrale. È una sensazione che mi capita spesso di trovare, quando mi ritrovo davanti a fatti di una storia lontana, che però mi riguarda. E ogni volta, tutte le volte, mi accorgo che parlano, in qualche modo, anche di me. Parlano ‘a’ me.
Mi sono chiesta, mentre leggevo, davanti a quali cancelli chiusi devo aver provato qualcosa di simile a quello che provarono le studentesse della Reale Scuola di Chirurgia.
Mi sembra di vedere le loro facce, la loro espressione amaramente stupefatta. Qualcuna prova vergogna, qualcun’altra trema di rabbia. Qualcuna ha il sorriso obliquo di chi sorride per difesa, e rassicura le altre : “non l’avranno vinta”.
Quali sono oggi i cancelli – più simbolici che pratici, evidentemente – che mi hanno lasciato fuori mentre io ero sicura che sarei entrata dentro?
Non è per niente facile rispondere a questa domanda. Si tratta di meccanismi complicati, di dinamiche così subdole e insidiose, spesso si tratta più di atmosfere che di situazioni precise. È talmente tanta la libertà che abbiamo raggiunto – almeno su un piano del discorso enunciato – che è diventato così difficile riconoscere e isolare le situazioni in cui non siamo libere. È un terreno scivoloso, e poi c’è sempre qualcuno pronto a rispondermi: “Fai un confronto con le tue antenate, anche solo di 40-50 anni fa. Non ti sembra di aver fatto incredibili passi avanti? Non ti sembra che sia tutto superato?”.
Agli occhi di chi fa queste obiezioni un testo come questo della Woolf potrebbe apparire datato. Si limiterebbe a registrare i benefici che ha portato, le conquiste che ha ispirato. Ma per il resto… le donne, la guerra, il fascismo? Pratica archiviata.
Invece devo dire che io, se fossi nella condizione di poter inviare la mia lettera personale a Virginia Woolf, e se non temessi di peccare di presunzione, la comincerei proprio con l’intestazione di Constance Cheke, “Dear Fellow Outsider”. E poi, scriverei la stessa frase che le scrisse tale Geraldine Ostle, segretaria, nel 1938: “Nessuno è riuscito ad esprimere le nostre difficoltà nell’affrontare la vita meglio di Lei”.
Dico questo ben consapevole del fatto che, pur usando la stessa frase di Geraldine, le mie difficoltà e la mia vita sono completamente diverse dalle sue. Eppure, anche simili. Molte cose sono cambiate, qualcosa invece ha solo mutato aspetto, qualcos’altro si perpetua, identico, qualcosa si è aggiunto.
Quello che è certo è che Le Tre Ghinee continua a parlare, a interrogare, a suggerire, a provocare, a muovere.
E che il suo tesoro, il tesoro della differenza, è un tesoro anche per me. Un vivo richiamo, un pungolo insistente, una fatica, a volte, ingrata, una necessità incontestabile.
Credo che anche oggi valga la pena, eccome, di domandarsi: ho voglia di unirmi al corteo degli uomini? E a quali condizioni dovrei unirmi ad esso? E poi, dove mi condurrebbe?
Virginia Woolf rifiuta di unirsi all’associazione dell’avvocato “perché così facendo annegheremo la nostra identità nella vostra; entreremo, riproducendoli e rendendoli ancora più profondi, dentro i vecchi slabbrati solchi della società […] Cancelleremmo la visione che la nostra esperienza ci ha aiutate a intravedere” (p. 143). Mentre invece, scrive in un’altra pagina la Woolf, è proprio “da quella differenza che può venirvi l’aiuto, se aiutarvi possiamo, per difendere la libertà, per prevenire la guerra. Ma se firmiamo il modulo che ci impegna a diventare membri attivi della Sua associazione, sarebbe come perdere quella differenza e quindi sacrificare la possibilità di aiutarvi” (p. 141).
Mi sembra che quasi tutto, oggi, concorra a volermi far perdere la mia differenza. Che si parli sempre più frequentemente solo in termini di uguaglianza. Spesso le mie coetanee, ma ancor più le più giovani, universitarie o addirittura liceali, fanno riferimento in maniera del tutto naturale, direi distrattamente naturale, al fatto che non ci sono più differenze tra loro e il sesso maschile.
Non dimenticherò mai le interviste fatte l’anno scorso a un campione casuale di studenti e studentesse de La Sapienza per un inchiesta promossa dal “Laboratorio di studi femministi Anna Rita Simeone – Sguardi sulle differenze”, che è interno alla facoltà di Lettere e Filosofia, proprio sul termine “femminista”. Quasi nessuna ragazza si sentiva di dichiararsi tale. Molte rispondevano che era assolutamente anacronistico. Ma la cosa che più mi colpì è che si evidenziava quasi mai la benché minima differenza nelle risposte delle ragazze e dei ragazzi: gli studenti di entrambi i sessi ripetevano la stessa formula, quasi fosse imparata a memoria (cito testualmente): “siamo tutti uguali; ormai non c’è più bisogno del femminismo; oggi le differenze sono state appianate”.
Io e le tre colleghe responsabili di questa inchiesta tornammo a casa con un senso di sconforto e di prostrazione profondissime.
Che ingenue, qualcuno commenterà. Ma come, nel nostro laboratorio di pensiero e di scambio non ci eravamo accorte che, qualche aula più in là, qualche metro distante, sulla stessa scalinata su cui salivamo e scendevamo, le opinioni più comuni erano queste? C’era da rimanere così stupite?
Non era che non mi aspettassi quelle risposte. Mi era capitato così tante volte di sentire affermazioni di quel tipo. Ma ascoltarle a viva voce, una dopo l’altra, consecutivamente, mi aveva spossata. Continuai a rimuginare. Era stata una giornata sfortunata? Non avevamo incontrato nessuna che volesse, anche in semplicità, mettere in parola il suo essere “diversa da”? Forse avevano ragione loro, forse noi con quei questionari inopportuni, da privilegiate, ci ostinavamo a porci un falso problema. Ma no, no, mi rispondevo, rivoltandomi un po’ nella rabbia, un po’ nell’incapacità, un po’ nel terrore di avere davvero assistito ad un reiterato annegamento: l’annegamento di un’identità nell’altra, il collasso delle differenze, il trionfo della “differenza non saputa”, quella che si può solo subire e non si può pensare.
Siamo dunque condannate all’inefficacia, davanti alla normalizzazione, allo sdoganamento, ingannevole, di tutte le libertà, davanti all’“illusione della simmetria” che ha preso il sopravvento?
Il potere che livella, che appiattisce, che svuota dall’interno le istanze rivoluzionarie succhiandone l’energia vitale e risputandone il baccello, come se fosse integro, ha tutto da guadagnare dall’indifferenziato, lo sappiamo bene.
È lo stesso potere che spesso ci fa sentire necessarie, che ci consulta e vuole il nostro contributo di donne quando serve, e che ci ignora completamente quando non serve; lo stesso che molte volte utilizza le candidature femminili come fiore all’occhiello; lo stesso che dunque fagocita e rende inoffensivo l’altro sguardo, quello da cui potrebbe essere arricchito ma che sceglie di ignorare e anzi, se possibile, di includere per disinnescare.
Ma non voglio, ora, parlare ancora del Potere, il potere che ruba tutti i desideri, facendo finta di offrircene un ventaglio infinito; il potere del giogo della tristitia di spinoziana memoria, che deprime, disgrega, rende prigionieri e impotenti; il potere dell’indifferenziato, che nella promessa dell’uguaglianza ha la pretesa di annullare tutte le differenze, anche quelle irriducibili e che, proprio perché irriducibili, mentre vengono sottratte al piano della consapevolezza, continuano ad agire sotterraneamente senza però poter essere pensate, senza avere più parole per essere espresse, né possibilità di essere sapute.
Vorrei parlare adesso di quello che io sento di potere fare. Di quello che un libro come Le Tre Ghinee mi dà le ragioni e gli incentivi e il coraticum, il coraggio del cuore, di voler fare.
Credo che ancora oggi abbia senso parlare di una Society of Outsiders. Non potrebbe e non dovrebbe, certo, essere l’organizzazione segreta di estranee alla guerra, alle armi, di indifferenti al combattimento, di senza patria – perché in quanto donne la loro patria è il mondo intero – di cui parlava la Woolf. Ma è giusto e necessario e fa bene pensare che le donne, alcune donne, anche molto giovani, consapevoli della propria diversità, vogliano e possano “approfittare della differenza”, per usare un’indimenticabile espressione di Carla Lonzi.
Per parte mia, io vorrei poter approfittare della storia differente di coloro che sono venute prima di me, vorrei poter approfittare delle mie antenate, così come della mia esperienza altra, dell’altro sguardo… anche, dunque, di tutti gli svantaggi che la Storia ha comportato nel tempo, molti dei quali sono stati superati, mentre altri sono rimasti, e altri ancora sono mutati, ma di cui posso approfittare volgendoli in positivo, non in maniera consolatoria, ma come un autentico slancio di indipendenza.
Dico vorrei perché non so se sarò in grado di fare tutto questo. Tradirsi è dietro l’angolo, bisogna saperlo. È così faticoso essere fedeli a se stesse, così tante donne mi è parso di vedere mentre si mettevano in fila per essere ammesse al corteo degli uomini, che un giorno per stanchezza, per economia, per sfiducia, potrebbe capitare anche me. Spero in quel caso ci sia una voce così amica da poter essere sufficientemente spietata nel ricordarmi qual è il prezzo da pagare, quali sono le condizioni a cui stare, quali sono le mancanze del potere con cui io, dando la mia adesione senza portarmi dietro la mia differenza, colluderei.
A volte ho la sensazione che non siamo abbastanza amiche da essere spietate con quelle donne che ci pare scendano a compromessi…e che avrebbero bisogno, parlo soprattutto di quelle che scelgono di essere dentro le istituzioni, di un sostegno autentico, di sentire dietro di sé la pressione e l’energia della Società delle Outsiders.
Mentre iniziavo a preparare questo intervento e sfogliavo alcune pagine sulla Woolf mi ha fatto sorridere ritrovare una definizione che suo marito, Leonard, aveva scritto nella sua biografia riguardo al rapporto di Virginia con la politica: aveva scritto “Virginia era l’animale meno politico mai comparso sulla terra da quando Aristotele aveva inventato la definizione”.
Certo, lui si riferiva al fatto che Virginia non era, come lui, così politicamente impegnata, coinvolta, competente. Faceva spesso confusione tra uno schieramento e un altro. Non era un’esperta, come lui sentiva di essere e come lei stessa riconosceva lui fosse. Eppure… l’animale meno politico mai comparso sulla Terra sta all’origine della politica delle donne.
C’è un segreto in quel meno che forse Leonard non coglieva. Un meno che proprio nella sua inadeguatezza, nel suo non fare parte e non mettersi in fila per fare parte di quel “politico” che era sempre esistito, fin dai tempi di Aristotele, trova le ragioni e le esperienze per crearne uno nuovo. Per “non ripetere – dice la Woolf dice nella conclusione di Tre Ghinee – le vostre parole e i vostri metodi, ma trovare nuove parole e inventare nuovi metodi”.
Vado a concludere.
Essere fuori dal cancello può essere utile per guardare meglio. Le cose si vedono in una prospettiva diversa. Essere out-siders, rimanere fuori dal centro, mantenersi eccentriche, permette una visione binoculare che chi è dentro non sempre riesce ad avere.
Accettare di essere incongruenti, difendere la propria differenza senza cedere all’inclusione nell’indifferenziato, comporta una non indifferente fatica.
Significa riconoscere di essere straniere, e volerlo restare.
Ma come scrive Hannah Arendt, nella sua biografia di Rahel Vernagen, una donna, e un’ebrea, “Fremdsein ist gut” (p. 85):
“‘Essere stranieri’ fa bene; immergersi, […] e sperimentare, tentare quello che procura piacere; non lasciarsi aggredire, essere senza pretese, perdersi in tutte le cose belle del mondo. Di tante cose ci si può innamorare; di un bel vaso, del bel tempo, di persone belle. Tutte le cose belle hanno il loro potere, ogni cosa del mondo ha un suo volto e può essere bella”.
Per tutto questo e per molto altro, cara compagna outsider, essere fuori, non essere a casa, certe volte, oltre che una cosa faticosa e necessaria, mi pare anche una cosa bella.
Sara De Simone si è laureata in Filologia romanza all’Università La Sapienza di Roma. Attualmente è dottoranda in Letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si occupa, tra l’altro, della narrativa modernista di Virginia Woolf, Katherine Mansfield e Clarice Lispector. Ha fatto parte dell’esperienza di Se non ora quando?, confluendo poi nel gruppo Snoq Factory. Partecipa da anni al Laboratorio di studi femministi Anna Rita Simeone – Sguardi sulle differenze con cui ha realizzato diverse video-inchieste (Di questa donna e delle altre, Chi dice donna dice danno, La parola femminista) e curato alcuni numeri di DWF.
(www.libreriadelledonne.it, 6 novembre 2016)
Il libro di Luisa Pogliana, Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende
Responsabilizzazione e autonomia diffusa, lavoro collaborativo, patti di fiducia reciproca, far emergere le capacità ignorate, governare il tempo… Sono alcuni temi di questo libro di management e di donne, che parte da un assunto: aziende e lavoro sono drasticamente cambiati, occorre un altro management. Serve per questo guardare ad alcune esperienze di donne, che appaiono anticipatrici di questo modo nuovo. È la proposta dell’autrice, che inquadra in un pensiero organizzato politiche di donne manager che hanno portato coraggiose novità, con effetti positivi per le persone e per l’organizzazione ma che spesso non vengono valorizzate proprio perché non trovano corrispondenza nei modelli consolidati di management.
Ma perché queste innovazioni vengono oggi più da donne che da uomini? Il libro non ne fa una questione di maschile-femminile. Succede piuttosto che le donne, entrate nel management in tempi recenti, hanno portato una visione diversa, perché vivono una vita diversa e guardano le cose da un altro punto di vista. Hanno un’idea del potere come possibilità, del management come responsabilità verso l’azienda e tutti i soggetti che la compongono. E nel loro complessivo sguardo sul mondo collocano il lavoro dentro la vita, non come un mondo separato. È questo che allarga gli orizzonti manageriali.
L’autrice – tenendo insieme le esperienze e le riflessioni che suscitano – propone un preciso percorso: dalla pratica emergono criteri che indicano una via, oltre le pratiche consuete, là dove sono inadeguate o controproducenti. Ragionando su politiche effettivamente realizzate, ne mette a fuoco orientamenti e metodi frutto di ciò che si è fatto, che può essere capitalizzato, trasmesso e usato altrove. Non definisce un nuovo modello di management e tanto meno di management “femminile”, ma una proposta che viene dalle donne con vantaggio per tutti. Delle donne, per diventare più consapevoli della portata di quello che fanno e per farlo valorizzare. Degli uomini, che non accettano più di misurarsi con modelli manageriali impositivi. Delle aziende, che in pratiche di discontinuità scoprono il terreno per risultati imprevisti.
Seguendo queste donne si respira una felice aria di libertà: chi è manager ha uno spazio di autonomia che può usare per fare cose che abbiano un senso. Emerge così un management orientato a non credere che sia impossibile cambiare, disposto a spostare i confini del noto. Non per cercare risposte immediate, ma piuttosto per esplorare cosa può succedere.
Luisa Pogliana, Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende (Guerini e Associati, settembre 2016, pagg 142, euro 17,00)
Luisa Pogliana, per molti anni responsabile della direzione ricerche di mercato in un grande gruppo editoriale italiano, poi consulente di ricerche sui mercati internazionali, ha coperto ruoli in enti internazionali e nella European Commission. Sui temi relativi al management femminile ha scritto per Guerini Donne senza guscio (2009) e Le donne il management la differenza (2012). Ha fondato – con Isabella Covili, Anna Deambrosis, Patrizia Di Pietro, Pina Grimaldi – l’associazione Donnesenzaguscio (www.donnesenzaguscio.it), luogo di incontro tra donne manager per ragionare sul proprio ruolo e valorizzare pensieri e pratiche di cambiamento delle donne nelle aziende. Questo libro è frutto di un progetto comune.
(www.noidonne.org, 26 ottobre 2016)
Sabato 5 novembre 2016 alle 18 Luisa Pogliana sarà in Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, a discutere con Giordana Masotto e Maria Cristina Origlia di come è possibile cambiare un mondo in trasformazione tra potere e differenza.
di Alex Clark, The Guardian
Emma Cline
Le ragazze
Einaudi, 344 pagine, 18 euro
Il primo romanzo di Emma Cline è ispirato a uno dei criminali più famigerati della seconda metà del novecento, Charles Manson, la cui setta, The family, nell’agosto del 1969 assassinò brutalmente l’attrice Sharon Tate, suo figlio non ancora nato, alcuni amici suoi e del marito Roman Polanski. Quella notte, Manson aveva istruito e diretto un gruppo di ragazze per portare a termine il massacro. E la notte successiva le accompagnò a commettere un’altra serie di delitti. Dire che la folle figura di Charles Manson è entrata a far parte del nostro immaginario collettivo è riduttivo. Il Manson di Cline – qui è un altro vagabondo egomaniaco e mitomane di nome Russell Hadrick – aleggia ai margini del romanzo, e il lettore lo percepisce soprattutto per mezzo delle occulte ondate di approvazione o di rabbia che indirizza alle sue seguaci. In primo piano ci sono “le ragazze”, e in particolare Suzanne, la loro lea der di fatto, che adesca e seduce la narratrice, la quattordicenne Evie. A spasso nelle periferie californiane, in attesa di entrare nel collegio dove i genitori divorziati l’hanno mandata per risolvere i suoi indeiniti problemi, Evie non aspetta altro che essere dirottata verso una vita di ribellione. Nel ranch di Hadrick accelera la sua emersione dalla crisalide dell’adolescenza; può anche vendicarsi di sua madre, impegnata in varie attività di autoaiuto tipiche degli anni sessanta e al tempo stesso in cerca di un nuovo compagno, e di suo padre, comodamente sistemato in un appartamento di lusso con una donna molto più giovane. La forza del romanzo sta nella capacità di Cline di evocare l’atmosfera di quella dolorosa età di transizione, segnata dalla ricerca disperata di colmare un enorme vuoto emotivo. Una delle trasgressioni preferite della Family di Manson, qui ripresa, era entrare nelle case quando i proprietari erano fuori, non tanto per rubare quanto per provocare uno shock psichico tramite piccoli cambiamenti nello spazio domestico. Emma Cline riesce a catturare lo spaesamento e a seguire le piccole e grandi faglie che percorrono il nostro precario senso di stabilità. Le ragazze è un romanzo tutt’altro che perfetto, ma Evie è una potente interprete delle spinte emotive più ambigue e delle direzioni catastroiche verso cui possono spingerci.
(Internazionale, 30 settembre 2016)
di Hilary Mantel
Gli splendidi e sottovalutati romanzi di Elizabeth Jane Howard sono stati sempre messi in ombra dalla sua turbolenta vita privata. Ma il vero motivo per cui sono sottovalutati è che sono considerati libri “sulle donne, scritti da una donna”?
Negli ultimi anni Elizabeth Jane Howard, meglio nota come Jane, è divenuta famosa per una serie di quattro romanzi conosciuta come La saga dei Cazalet, che prende spunto dalla sua storia familiare ed è stata adattata sia per la radio che per la televisione. Tracciando le sorti di una famiglia alto-borghese, la saga prende le mosse nel 1937 e si dispiega nel corso di una decade. Un quinto romanzo, All Change, compie un salto in avanti portandoci al 1956. I romanzi di Jane Howard sono panoramici, vasti, intriganti quanto può esserlo la storia sociale, e generosi nel dispensare racconti. Sono il prodotto dell’esperienza di una vita e nascono da una scrittrice che aveva ben chiaro il proprio obiettivo e possedeva le forze e le capacità tecniche per raggiungerlo. Sarebbe bello se i lettori che hanno apprezzato la saga fossero attratti anche da quanto l’autrice ha scritto in età giovanile, quando il suo talento era così effervescente e inarrestabile che sembrava impossibile predire dove l’avrebbe portata. Fin dall’inizio Howard ha richiamato a sé aggettivi superlativi, più per lo splendore della sua prosa che per la stravaganza emotiva dei suoi personaggi. Certo le loro risate sono oltraggiose, i loro pianti contagiosi, le loro storie d’amore spericolate. Non c’è, tuttavia, nulla di casuale negli effetti creati dalla scrittrice, che, fin dall’inizio, ha dimostrato di essere un’abile artigiana.
Il primo romanzo di Howard, The Beautiful Visit, ha vinto il John Llewellyn Rhys Memorial Prize. L’idea che Il lungo sguardo, un testo così compiuto, così tecnicamente magistrale, sia stato soltanto il suo secondo libro è in qualche modo spaventosa. Il romanzo si apre nel 1950 e lentamente ripercorre a ritroso la vita di Antonia Fleming fino al 1926, quando la incontriamo da giovane sul punto di essere teneramente ingannata, confusa e costretta al matrimonio.
Nonostante il premio vinto così precocemente e l’attenzione ricevuta fino ad allora, fu difficile per l’autrice guadagnarsi da vivere. Proveniva da un ambiente in cui la necessità non era molto presa in considerazione. Ne Il lungo sguardo il passaporto della signora Fleming riporta alla voce occupazione “donna sposata”. In quel mondo gli uomini non erano tenuti a spiegarsi o a dare conto di sé. Dovevano essere sempre arginati, sembravano eternamente mossi dal desiderio di trasformare una donna in una moglie soddisfacente, se non perfetta. Conrad Fleming cerca di trasformare Antonia. È un uomo d’incontaminata superbia, d’immacolato egoismo. Le giovani lettrici di oggigiorno lo guardano incredule, ma non dovrebbero. Perché Conrad Fleming non è altro che una fedele riproduzione. È la voce dell’altro ieri, e delle epoche passate.
Elizabeth Jane Howard nacque nel 1923 in una famiglia facoltosa, ben inserita nella società, e infelice. Suo padre e suo fratello erano i direttori dell’azienda familiare di legname. Tuttavia non dirigevano granché, «se la spassavano allegramente», diceva lei. E se l’erano guadagnata. Suo padre si era arruolato a diciassette anni, era sopravvissuto alla Grande Guerra sul fronte occidentale e aveva portato a casa una croce militare. Era un padre caloroso, ma infedele e inaffidabile. L’intreccio di paura e attrazione che Jane Howard provava per lui alimentò i romanzi della saga dei Cazalet, che sono meno casalinghi di quanto appaiano. Il matrimonio dei suoi genitori e le loro successive relazioni, sommate a quelle della scrittrice stessa, offrono un modello disfunzionale per quasi tutte le storie che ha scritto. «Esistono solo due tipi di persone», riflette Conrad ne Il lungo sguardo: «quelli che vivono vite diverse con lo stesso partner e quelli che vivono la stessa vita con diversi partner…». Questa è una delle tante, amare osservazioni disseminate nel romanzo, laconicamente formulate e dolorosamente puntuali.
Kit, la madre dell’autrice, era una ballerina frustrata che aveva rinunciato alla carriera per il matrimonio. Il mondo della danza, tuttavia, è così duro e brutale che è difficile dire se tale scelta fosse stata influenzata dal dubbio di non essere all’altezza o meno. I giovani di sesso maschile, non esattamente brillanti, si trasferivano all’estero con i curricula bollati dall’acronimo filth: Fallito a Londra, Trasferito a Hong Kong. Le donne che rinunciavano al proprio potenziale potevano scegliere invece l’esilio in patria del matrimonio, e i risultati erano spesso assai squallidi. A quanto pare, Kit non amava la figlia, forse era gelosa di lei. Jane Howard era una ragazza di una bellezza spettacolare. Più volte, nei suoi romanzi, gli adulti guardano con un misto d’invidia e ammirazione la persona che men che mai potrebbe essere invidiata, un’adolescente che non è altro che un groviglio d’insicurezze. Howard ricevette poca istruzione formale, ma era un’avida lettrice. Il suo insegnante di pianoforte, poi, le impartì una lezione di grande valore: «Come si fa a imparare? Sbattere la testa contro qualcosa e continuare a farlo».
In breve, Jane divenne un’attrice, ma la seconda guerra mondiale fece naufragare le sue speranze di carriera. Come la signora Fleming, vide «il valore delle vite schizzare alle stelle e crollare rovinosamente come i titoli di un folle mercato azionario». In un’atmosfera simile le decisioni venivano prese velocemente, non c’era tempo per visioni a lungo termine. Jane aveva diciannove anni quando sposò lo studioso di scienze naturali, allora ufficiale di marina, Peter Scott, di anni trentadue. La notte prima del matrimonio la madre le chiese cosa sapesse in materia di sesso, descrivendolo come «il lato sporco» del matrimonio. La figlia, Nicola, nacque nel corso di un attacco aereo. Fu un’esperienza orribile che Jane seppe conservare e utilizzare in seguito. Una volta finita la guerra, la scrittrice abbandonò figlia e marito, una cosa che il mondo non perdona facilmente, e si trasferì in un lurido appartamento in Baker Street: «Una squallida lampadina che pendeva dal soffitto e un odioso pavimento di legno pieno di perfidi chiodi… l’unica cosa che sapevo era che volevo scrivere».
Ci fu un altro, breve matrimonio con un compagno di scrittura, poi Jane Howard divenne la seconda moglie di Kingsley Amis, un acclamato scrittore alla moda. Jane cercava l’amore, sia fisico che di altro tipo; questo fu ciò che affermò per tutta la vita, ed era coraggiosa a dirlo perché tale ricerca è sempre vista come un’ammissione di debolezza. I primi anni del matrimonio degli Amis trascorsero felici, e loro furono dei buoni compagni. C’è una foto che ritrae la coppia mentre lavora, una macchina da scrivere accanto all’altra. La fotografia, tuttavia, non rappresenta correttamente la vera natura di quello scambio. Howard, infatti, era ingabbiata in un paradosso. Cercava l’intimità, ma la scrittura era un atto solitario. Voleva essere riconosciuta, e gli scrittori spesso non lo erano. Il loro ménage familiare era intenso e bohémien. Jane si occupava della casa e cucinava per gli ospiti, alcuni dei quali erano piuttosto esigenti, altri si stabilivano da loro per lunghi periodi. Jane rappresentava la gentile e ammirevole madre adottiva dei tre figli di Amis. Il loro matrimonio, come amava ripetere Martin Amis, era “dinamico” ma il lavoro del marito era sicuramente privilegiato rispetto al suo, che era invece considerato come qualcosa di incidentale, da subordinare ai naturali obblighi domestici di una moglie.
Nel corso di quegli anni Jane Howard scrisse una serie di romanzi arguti, incentrati sui piaceri della vita, mentre lei stessa pativa una profonda miseria. Il marito faceva soldi, collezionava plausi ma lei continuava ad avere fede nel proprio talento. La gente per bene non si lamenta e non fa baccano, le aveva detto la madre, neanche quando partorisce. Questa era la via per la morte emotiva, non certo per la crescita creativa. Tuttavia, se si è capaci di sopravvivere al dolore, questo può essere incanalato e trasformato in creatività. Nei suoi romanzi Howard descrisse l’illusione e l’autoillusione. Sommando il prezzo della bugia a quello della verità. Osservò danni inflitti e danni riflessi o ricevuti. Imparò più da Jane Austen che dalla madre. La commedia non nasce dalla penna di chi siede alla scrivania pensando “ora sarò divertente” ma da chi striscia verso la scrivania, trasudando vergogna e disperazione, e lentamente si accinge a descrivere in maniera fedele lo stato delle cose. Si prova un certo piacere nell’essere fedeli ai dettagli della miseria. Quanto più feroci, tanto meglio: con lentezza, infatti, e con riluttanza, la commedia comincia a trapelare.
La giornalista Angela Lambert si chiede perché Il lungo sguardo non sia considerato uno dei grandi romanzi del ventesimo secolo. A questo punto ci si potrebbe chiedere perché l’intera opera di Jane Howard non goda di maggiore considerazione. È vero, le sue ambientazioni sociali sono piuttosto circoscritte, ma altrettanto lo sono quelle di Jane Austen. Ed esattamente come i romanzi di Austen, i suoi romanzi sono permeati dal vivo torrente sotterraneo dell’inquietudine che si agita sotto la superficie di vite agiate minacciando di venire a galla. L’inquietudine relativa alle proprie risorse. Ho abbastanza? Abbastanza denaro in borsa? Abbastanza credito con il mondo? In numerose storie i personaggi di Jane Howard vacillano sul baratro dell’indigenza mentre altrove il denaro fluisce da sorgenti misteriose. I suoi personaggi, tuttavia, non hanno il controllo di tali sorgenti, né le comprendono. Le sue vulnerabili eroine vivono alla giornata, sia emotivamente che economicamente e, anche se hanno abbastanza, non sanno abbastanza.
Quell’essere così disarmate, quella vulnerabilità, vale loro giudizi severissimi. Perché dovrebbe importarmi, potrebbe chiedersi qualche lettore, delle tribolazioni dei ricchi? Chi non prova compassione per il benestante, tuttavia, non è capace di provarla nemmeno per l’indigente. I romanzi di Jane Howard trovano probabilmente resistenza in chi vede solo la superficie e la giudica borghese. I suoi romanzi potrebbero trovare resistenza in chi non ama il cibo, i gatti, i bambini, i fantasmi o il piacere dell’impeccabile accuratezza con cui la scrittrice osserva il mondo naturale e artificiale: in coloro, in sostanza, che snobbano il passato recente. Sono apprezzati, invece, da chi sa cedere al loro fascino, alla loro intelligenza, al loro humor, da chi sa ascoltare i messaggi provenienti da un mondo diverso dal proprio.
Il vero motivo per cui i suoi libri sono sottovalutati, per dirla senza peli sulla lingua, è che sono stati scritti da una donna. Fino a poco tempo fa esisteva una categoria di libri “per donne, scritti da donne”, una categoria ovviamente ufficiosa, perché indifendibile. Accanto a prodotti di genere con poche possibilità di sopravvivenza, la categoria includeva opere scritte con grande bravura ma in chiave minore, romanzi che in sostanza si occupavano della vita privata e non pubblica. Romanzi di questo tipo raramente cercano di turbare o di provocare il lettore. Al contrario, sebbene la trama sia ingegnosamente architettata, s’impegnano con tutte le proprie forze in modo da far sentire il lettore a proprio agio. Una letteratura sottotono, ordinata, che non tende a ciò che Walter Scott definiva the big bow-wow, il grande clamore. Nel recensire e ammirare Jane Austen, infatti, Scott si rese conto del problema: come si può valutare un’opera del genere sulla base di criteri pensati per produzioni ben più rumorose? A partire dal diciottesimo secolo questi romanzi erano stati il piacere proibito di numerosi lettori e critici – erano goduti, ma rinnegati. Esiste una gerarchia di tematiche. Bisogna concedere più spazio alla guerra che al mettere al mondo un bambino, sebbene siano entrambi due atti sanguinosi. Bruciare corpi occupa un posto più in alto in classifica che bruciare torte. Se una donna si interessa di tematiche “maschili”, la cosa non la salva dall’essere banalizzata. Se un uomo si abbassa a questioni domestiche scrivendo copiosamente di amore, matrimonio e bambini, è lodato per la sua empatia, per il suo equilibrio. È elogiato, considerato intrepido, come se si fosse avventurato tra i selvaggi alla ricerca di una sapienza segreta. A volte la perfezione stessa invita alla svalutazione: un testo è impeccabile, perché non corre rischi. La sua opera splende perché è così piccola. «Lavoro su quattro centimetri di avorio», amava dire ironicamente Jane Austen: tanta limatura e piccolo effetto.
Il tempo ha santificato Jane Austen, anche se esistono ancora molte persone che non ne capiscono il motivo. L’aiutò il fatto di essere una brava ragazza che ebbe il tatto di morire giovane, senza nulla da dire sulla propria vita privata e con il cuore immune a ogni possibile esame. I critici furono, così, costretti a osservare i suoi testi. Le donne di oggi hanno carriere meno ordinate. Quando Jane Howard morì nel 2014, all’età di novant’anni, il necrologio del «Daily Telegraph» la descriveva come «ben nota per la turbolenta vita amorosa». Altri “tributi” si soffermarono sulle sue “fallimentari” storie d’amore. Negli scrittori di sesso maschile, i flirt testimoniano una virilità inarrestabile, nelle donne, al contrario sono presi a indicare una fallace capacità di giudizio. Cecil Day-Lewis, Cyril Connolly, Arthur Koestler, Laurie Lee e Kenneth Tynan sono annoverati tra le sue conquiste, sebbene il mondo ovviamente pensasse che furono loro a conquistare lei. Divorzi e separazioni possono certamente addolorare lo scrittore, tali segni tuttavia sono letti come ferite di battaglia, la sua condotta dichiaratamente libertina può essere indice di stupidità o lussuria, ma si presume che, a qualche livello segreto, egli agisca in tale modo per servire la propria arte. Per quanto riguarda una donna, invece, si crede che questa agisca incautamente, perché non può farne a meno. Coglie ogni occasione perché non sa fare di meglio. Viene giudicata e commiserata, o giudicata e condannata. E il giudizio sulla vita di qualcuno non può che contaminare il giudizio sul suo lavoro.
Sebbene autrici come Virginia Woolf e Katherine Mansfield avessero aperto un nuovo modo di contemplare il mondo, buoni libri scritti da donne continuavano a non essere pubblicati e cadevano nell’oblio: non solo perché, come nel caso di scrittori di sesso maschile, non erano più di moda, ma perché non erano mai stati valutati adeguatamente fin dal principio. Negli anni Ottanta la stampa femminista li riportò sugli scaffali. Dopo essere stata a lungo ignorata, Elizabeth Taylor ritornò di moda. Barbara Pym fu dimenticata, riscoperta ed etichettata come eccentrica. A volte uno scrittore contemporaneo ci mette davanti a uno specchio. Abbiamo imparato a leggere Elizabeth Bowen attraverso il prisma dell’ammirazione che Sarah Waters provava per lei. Il difficile destino di Anita Brookner ci dimostra che è possibile vincere un premio prestigioso, essere ampiamente letti e nonostante ciò essere sottovalutati. A causa del suo successo postumo, e forse proprio per questo, l’opera di Jane Howard è stata mal interpretata. Le sue virtù sono la costruzione impeccabile, l’osservazione acuta, la tecnica persuasiva ma inesorabile. I suoi romanzi probabilmente non scuotono il mondo ma ogni scrittore potrebbe imparare da lei. Insegnando io stessa scrittura, non esiste autore che abbia consigliato più spesso, o almeno che abbia consigliato proprio per disorientare i miei studenti. Leggila, era il mio consiglio, e leggi i libri che leggeva lei. Scomponi quei piccoli miracoli che sono Il lungo sguardo e After Julius. Falli a pezzi e cerca di capire come sono stati costruiti.
Non ricordo esattamente che giorno fosse quando conobbi Jane. Fu alla Royal Society of Literature, nei tardi anni Ottanta, durante uno degli incontri agli Hyde Park Gardens. Oggi la Royal Society of Literature ha sede altrove, ma allora i loro uffici desolati – ci fu un taglio dei fondi – sembravano dimenticati dal mondo. Ben conoscendo sia i polverosi e decrepiti piani superiori che i gelidi e vuoti piani interrati, non avevo tutta questa voglia di scoprire le dimenticate sale da ricevimento, né gli altrettanto dimenticati soci onorari che guardavano fuori, verso la terrazza.
A volte, quando ammiri uno scrittore, non hai voglia di sapere molto su di lui. Di sicuro avevo visto alcune fotografie di Jane, ma le avevo ignorate. La mia immagine mentale era quella di una creatura minuta e sinuosa, con un taglio di capelli à la garçonne e i grandi occhi da lince, quella di una persona che parla sussurrando a voce roca, se parla. La realtà invece era piuttosto diversa. Jane era alta e maestosa, e aveva una voce profonda e all’antica, da attrice. Possedeva quella qualità felina che avevo immaginato ma era leonina, fulva, dominante, non furtiva o sfuggente. Se avesse fatto le fusa, avrebbe fatto tremare le pareti. Era una donna imponente e forte.
Durante la nostra conversazione, tuttavia, mi accorsi che era gentile e alla mano. Nella sua opera non dimenticò mai cosa significa essere una giovane ragazza, e conservava uno spirito ingenuo in un corpo saggio e navigato. Sembrava consapevole dell’effetto che faceva e desiderosa non di rimuoverlo ma di tenerlo sotto controllo e di modificarlo in modo da mettere gli altri a proprio agio. Se l’altro non si sentiva a proprio agio, lei non poteva mostrarsi per quello che era, e di quell’incontro non le sarebbe rimasto nulla. Le interessavano le persone, ma non alla maniera maliziosa e predatoria propria degli scrittori. Quando accettò la rogna di diventare mia amica, divenne amica anche di mio marito, che non è né un artista né uno scrittore. Ha dedicato a entrambi gli ultimi libri che ha pubblicato. A noi è parso troppo. Mi aveva donato anni di gioia e ispirazione e io avevo la sensazione di non averla ripagata. Durante quegli anni ero a corto di energie per quanto riguarda l’amicizia, tuttavia Jane doveva aver compreso che non mi mancavano le potenzialità. I nostri lavori non avevano molto in comune, e ci mostrammo in pubblico insieme solo una volta, nel corso di un evento in una piccola libreria dove Jane tenne una splendida lettura. Emersero il suo training professionale, la voce potente, le pause calcolate al microsecondo, ma lesse in maniera non affettata, sorridendo, con il piacere di dare gioia al pubblico. Fui felice del fatto che La saga dei Cazalet le procurò nuovi fan. Ammiravo la sua tenacia, proprio come il suo stile. Stava scrivendo quando morì: un libro intitolato Human Error. Mi sarebbe piaciuto chiederle quale, tra l’ampia gamma, avesse scelto come focus.
Senz’ombra di dubbio le migliori conversazioni sono quelle che purtroppo non sono mai realmente avvenute. Ho sempre avuto la sensazione che entrambe vivessimo nella speranza. Ho sempre avuto la sensazione che avrei dovuto chiederle qualcosa, o che lei desiderasse chiedere qualcosa a me. La mattina dopo la sua morte, fui una delle molte persone a essere intervistate e invitate a parlare di lei in radio. All’epoca lavoravo a Stratford-upon-Avon, così ci servimmo dei locali della Royal Shakespeare Company. Si trattò di un evento dell’ultimo minuto e io avevo appena appreso la notizia della sua morte, quindi, probabilmente, non fui brillante. Ma vidi molto chiaramente il suo volto mentre parlavo. Da ragazza Jane faceva l’attrice a Stratford, e le sarebbe piaciuto ciò che quella giornata aveva da offrire. Il fiume scuro e gelido, i cigni che vi scivolavano sopra, e dietro le finestre rigate dalla pioggia nuovi drammi in formazione: ombre umane, che fluttuavano e bisbigliavano nell’oscurità sperando – nel variare e ripetere i propri errori – di avvicinarsi, finalmente, a fare la cosa giusta. Nei romanzi di Jane, i timidi perdono il copione, gli sfrontati dimenticano le battute ma, in qualche modo, si riesce a mettere insieme una performance. A testa alta e col cuore a pezzi, i suoi personaggi affrontano il bagliore delle circostanze. Ogni frase è improvvisata e ogni respiro è un rischio. Lo spettacolo racconta la ricerca della felicità, la ricerca dell’amore. Una standing ovation attende i coraggiosi.
Traduzione di Madeira Giacci
(Stoner, 24 aprile 2016)
di Lara Ricci
La giuria popolare del Premio Campiello ha trasformato in realtà lo slogan contenuto nel nome di Simona Vinci, che si è aggiudicata ieri sera il riconoscimento letterario conquistando 79 voti su 280 validi. Una cinquina, questa della 54esima edizione, connotata da un forte impegno civile e, per 4 dei 5 romanzi, da uno stretto legame con fatti storici del secolo passato. Sono firmati da autrici e parlano di amore tra donne, sullo sfondo dell’orrore, i due primi classificati: La prima verità (Einaudi) della Vinci e anche Le regole del fuoco di Elisabetta Rasy (Rizzoli, 64 voti).
La prima verità è ambientato in parte a Leros, in Grecia, dove le caserme della base militare italiana furono trasformate in un enorme ospedale psichiatrico per gli “incurabili” di tutto il Paese. Qui, rinchiusi in condizioni più che disumane: incredibili, sopravvivevano più di quattromila pazienti, ridotti nel tempo per far spazio ai dissidenti politici della dittatura dei colonnelli (al loro posto oggi dormono i migranti). Il romanzo diventa più intenso e prende il volo nella quarta parte, quando Vinci descrive la sua esperienza con i mali della psiche, più diffusi, sfumati e sfuggenti prima di tutto a noi stessi di quanto vogliamo credere, perché dentro la mente «tutto è vero, anche quando non lo è».
Elisabetta Rasy, dopo essersi lungamente documentata sulle corrispondenze delle donne che partirono volontarie per assistere i feriti della prima guerra mondiale, racconta la vita di due di loro: Maria Rosa, aristocratica napoletana in fuga dalla famiglia e da un ambiente sociale che le imponeva un futuro di moglie, ed Eugenia, arruolatasi per dimostrare al padre la sua vocazione di medico e potersi così iscrivere all’università. Feriti senza nome né storia arrivano a frotte, smembrati, irriconoscibili, deliranti e muoiono perlopiù senza che si sia potuto nemmeno tentare di salvarli. L’insensatezza della guerra, l’oscenità della morte sembrano non lasciare più spazio alla vita. Ma sulle macerie di tutto quel che credevano di conoscere le due ragazze sperimentano una fragilità e una pienezza mai sospettata: si innamorano, tra loro. Per Elisabetta Rasy è l’occasione di far conoscere il ruolo che le donne ebbero nel primo conflitto mondiale quando andarono al fronte o anche in fabbrica, a fianco o al posto degli uomini, tra la derisione e la diffidenza di questi ultimi. Iniziò così un lento, mai terminato, processo di emancipazione. E anche l’occasione per riportare l’attenzione su tema ancora tabù, a giudicare dallo sconcertante clamore che tuttora suscitano film e vicende che nulla hanno di provocatorio, come La vita di Adele (2013), di Abdellatif Kechiche, racconto romantico e delicato della passione tra due ragazze.
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(http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/notizie/2016-09-10/campiello-simona-vinci-e-all-amore-femminile-sfondo-dell-orrore-224745.shtml?uuid=ADO8eUIB&refresh_ce=1)
di Laura Colombo
Alla fine del 2015 è uscito un libro agile che ha un titolo significativo, Sguardi stranieri sulla nostra città (Battei, Parma 2015). Curato da Marco Deriu, sociologo all’Università di Parma, è un viaggio nella geografia interiore di patimenti, speranze, delusioni e conquiste di chi migra da paesi lontani e approda a Parma, un’agiata cittadina del Centro-Nord. Attraverso gli occhi di chi arriva, vediamo questo angolo di mondo e possiamo ricostruire la mappa degli spazi esteriori e interiori che appartengono a chi straniero non è.
La scrittura è a più mani, Marco Deriu collabora con le volontarie dell’associazione Parma per gli Altri per elaborare il materiale raccolto dalla viva voce di donne e uomini migranti, che da tempo abitano in città. Tutte e tutti si misurano con la propria storia. Innanzi tutto con la necessità di partire dal paese d’origine, per mancanza di prospettive o per necessità di fuggire da guerre e soprusi. “Stavo lasciando un lavoro, la mia terra. Poi ho ragionato: in Senegal è dura e impossibile, in Italia è dura, ma possibile” (pag. 24). Si misurano con le conseguenze della loro partenza, quel fardello pesante fatto di bisogni e aspettative di chi resta e obbligo di farcela per chi se ne va. “Mi hanno detto di andare per proteggere la mia famiglia, per portarle aiuto. Hanno speso un sacco di soldi per farmi arrivare qua. Ci sono delle persone da noi che per mandare i figli fuori dal paese vendono anche la terra. Ma se uno ha venduto la sua terra, e qua non trova niente, non può fare nulla, e anche la sua famiglia sta male, perché non ha più nulla, è sulla strada” (pag. 28). Tutte e tutti si misurano anche con ciò che trovano una volta arrivati qui, lo straniamento dell’impatto con la nuova realtà, le perle preziose dell’accoglienza, i piccoli grandi gesti che riscaldano il cuore e danno un orientamento nell’ignoto, l’incontro con cultura e valori spesso distanti da ciò che si sente nel profondo.
È questo il punto che mostra la maggior ricchezza del libro: l’immigrazione, per il tramite delle parole di donne e uomini migranti, diventa il soggetto che parla di noi, non l’oggetto del discorso, il tema scottante su cui intervenire, e invita chi legge a una messa in discussione di verità e pregiudizi attraverso lo specchio dell’altro.
“Qui la gente ti lascia tranquillo. Nessuno ti guarda, puoi fare quello che vuoi, basta che non dai fastidio a nessuno. E questa è una cosa bellissima. Sei più libero” (pag. 11 e 104). L’invisibilità è per Hamed patimento e insieme fonte di piacere, perché, come sottolinea Faisal, in Africa “non sei mai solo, neppure di notte e a volte si sente il bisogno di vivere momenti di riflessione” (pag. 94). Come in uno specchio, qui possiamo scorgere la nostra indifferenza, la diffidenza, la paura del contatto, il senso del possesso. “Qui devi star sicuro, devi star ricco, devi fare l’assicurazione. Devi mettere anche una pistola in casa. Tutto questo nel caso arrivi qualche problema. Ma arriva lo stesso, anche se metti un militare con te a casa; se arriva, arriva” (pag. 15). Emerge in modo chiaro il nostro stile relazionale, sbilanciato sulla strumentalità e sull’apparenza. “Da noi condividi quello che sei. Da voi si cerca di dare un’immagine migliore” (pag. 39). Non sono verità assolute, frasi di lapidaria condanna. La complessità dei vissuti e delle esperienze è presente nelle parole che riconoscono la gentilezza, l’amore caritatevole, il rispetto umano di chi accoglie. Sono tuttavia sguardi che toccano contraddizioni vive, tanto più per quelli di “noi” che fanno solidarietà, se il movimento del dono cela un senso di superiorità, che deriva dalla distanza tra chi dà e chi riceve. Ogni tassello del mosaico che compone il libro, ci interroga attraverso lo sguardo dello straniero prossimo a noi: casa, educazione, lavoro, lingua, bambini, anziani, corpi, morte, comunità, cibo, feste, diventano pezzi di un paesaggio che, forse, possiamo iniziare a comporre davvero insieme. Perché “l’intercultura non è là dove la si vorrebbe trovare, non è dove vorremmo portare i nostri articoli o i nostri doni. Non nei convegni sull’intercultura, ma nelle panchine sotto casa” (pag. 21).
(“Autogestione e politica prima” Agosto 2016)
Intervista alla scrittrice SUAD AMIRY
di Emanuele Valenti
«La mia vita è sempre stata con me, i ricordi della mia vita mi hanno sempre accompagnata, ma ho deciso di raccontarla adesso perché sentivo la necessità di fare un omaggio a Damasco e a tutta la Siria, ormai in buona parte distrutta. Il mio racconto è un omaggio ai cittadini siriani, anche ai rifugiati, per ricordargli la bellezza del loro Paese in un momento così difficile». È questa la motivazione che ha spinto Suad Amiry a scrivere il suo ultimo libro, Damasco (edito da Feltrinelli).
Dopo aver ambientato i suoi precedenti romanzi in Palestina Suad Amiry ha deciso di allargare la prospettiva a quella che un tempo era La Grande Siria (Siria, Libano, Giordania, Palestina) dove si muovono i personaggi, tutti reali, che sono stati i protagonisti della storia della sua stessa famiglia.
«Questo è un libro sulla bellezza, sulla cultura, sul cibo, sulla musica», ci racconta Suad Amiry, ospite nell’Auditorium di Radio Popolare. «In un Medio Oriente attraversato da così tante crisi capita spesso di pensare che le nostre siano state vite sprecate e che i nostri luoghi di origine non ci appartengano più. Ecco, scrivere della propria famiglia, una delle cose più intime che si possano fare, è un ottimo modo per recuperare fiducia e per riappropriarsi di quei luoghi e della propria vita».
Damasco racconta la storia della famiglia allargata di Suad Amiry e della casa di suo nonno materno nel pieno centro della capitale siriana. Una storia che va dalla metà del diciannovesimo secolo fino ai giorni nostri, anche se il libro si ferma praticamente alla fine degli anni ’60, in concomitanza con l’arrivo al potere della famiglia Assad.
Una vera e propria “saga familiare”, come la definisce la stessa autrice, ben ancorata alla storia di quella regione. Sullo sfondo delle dispute familiari c’è la fine dell’impero ottomano, «un periodo – osserva quasi stupita Suad Amiry – durante il quale c’era almeno la libertà di movimento. Pensate, mio nonno poteva andare da Amman a Beirut e da Damasco a Istanbul senza alcun problema. Oggi è impossibile, pensate a tutti i confini e a tutti i muri che ci sono in Medio Oreinte».
Come in tutte le famiglie ci sono cose buone e cose cattive. Suad Amiry dipinge anche i ritratti di personaggi difficili, che nella storia della famiglia Baroudi sono i personaggi più negativi. «A un certo punto temevo che molti parenti non mi avrebbero più parlato, ma poi mi sono resa conto che tutti vogliono essere citati. Tutti sono contenti di essere parte di un libro».
Le protagoniste indiscusse della storia della famiglia Baroudi sono le donne, come succede in molti luoghi del Medio Oriente. Suad Amiry è cresciuta all’ombra di donne molto forti, che sono tra le protagoniste del suo libro Damasco. «Mia zia Laila, per esempio, ha comandato la famiglia per molti anni, e anche mia madre aveva un carattere piuttosto forte. Di solito sottovalutiamo quelle che definiamo ‘società tradizionali’. Molte volte chi parla delle donne in Medio Oriente o nel mondo arabo non si rende conto della forza che hanno lì le donne, del ruolo fondamentale che ricoprono. Mia zia Laila, nonostante ci fossero molti uomini in famiglia, era quella che comandava, con fare dittatoriale, l’intera comunità».
Nel 2016 un libro intitolato Damasco non può non portarci alla guerra di questi anni.
Suad Amiry, che oggi vive a Ramallah, nei territori palestinesi, non ama parlare della situazione politica in Siria, ma non può fuggire dalle sue stesse origini. «La Siria è sempre stata la mia ancora di salvezza. Da bambina sono andata più volte dai nonni a Damasco quando la situazione familiare o quella intorno a noi si complicava. E la stessa Damasco era anche la mia ancora dell’abbondanza. Porto sempre con me le immagini, i suoni, gli odori dei bazar e dei suq. Quando penso alla guerra di oggi, quando penso a una città come Aleppo completamente distrutta temo che la mia ancora non esista più. Anche per questo era importante scrivere questo libro. Per ricordare a me e alle nuove generazioni che c’era un’altra Siria».
Suad Amiry nasce come architetta e come architetta lavora a Ramallah, dove ha fondato il Riwaq Center for Architectural Conservation. In Damasco racconta della nonna che alla fine del diciannovesimo secolo provava a immaginarsi la bellezza di Istanbul. Nonostante la guerra e le tantissime vittime Suad Amiry riesce ancora a immaginare la Siria di domani. «In Medio Oriente possiamo solo sopravvivere con la speranza. Se penso all’Europa alla fine della Seconda Guerra Mondiale mi convinco che anche noi saremo capaci di ricostruire il nostro paese. Non possiamo mica vivere perennemente in guerra. Non vedrò più il Medio Oriente della mia infanzia ma anche questa guerra finirà».
Il ritratto di Damasco e di casa Baroudi, persino le dinamiche dei fastosi pranzi del venerdì, ci raccontano molto della Siria di oggi. La lettura dell’ultimo libro di Suad Amiry è quindi consigliata a tutti coloro che vogliono capire qualcosa di più della crisi in Medio Oriente.
(http://www.radiopopolare.it/2016/09/suad-amiry-damasco-presenta-il-libro-a-radio-popolare-siria/)
di Alessandra Pigliaru
Era un piccolo cinema il Venice di Manhattan, fino ai primi anni Quaranta lo si poteva trovare al 207 di Park Row, tra la Bowery e Chinatown. Alla biglietteria stava Mazie Phillips, donna prorompente, qualcuno direbbe forse ingombrante, capelli biondo platino, voce gracchiante e occhi di un una lucidità tutta alcolica. Quando l’8 giugno del 1964 muore al Lenox Hill Hospital, le viene dedicato un articolo dal New York Times in cui a essere ricordata è la «Regina della Bowery». Così infatti era conosciuta Mazie che, finito il lavoro al Venice, si avviava nelle strade desolate, tra gli ultimi. E parlava con loro. A volte se le cose finivano male chiamava un’ambulanza, altrimenti bastavano due chiacchiere, spesso un sorso in compagnia. Tormentata generosità ciò che spinge una giovane donna a trascorrere le proprie notti come una sonnambula, alla ricerca di un contatto con l’altrui afflizione – forse anche la propria. Niente istituzioni, niente tentativi di proselitismo e redenzione, bensì desiderio autentico di dare consistenza a una realtà fuori sesto. Sullo sfondo della Grande Depressione e del proibizionismo, l’esistenza di Mazie Phillips si trasforma così in una insorgenza difficile da trattenere. Un anno fa, la sua storia ha ispirato un romanzo bello e appassionato scritto da Jami Attenberg che si intitola Santa Mazie, ora arrivato anche in Italia grazie alle edizioni Giuntina (traduzione di Paola Buscaglione Candela, pp. 300, euro 16,50).
Ha saputo dell’esistenza di Mazie Phillips grazie al bel ritratto che di lei ha composto Joseph Mitchell nel suo «Up in the Old Hotel» (comprendente articoli apparsi sul «New Yorker» dal 1943 al 1963). Com’era questa sua regalità senza corona?
Sono stata subito affascinata dalla sua compassione per gli altri meno fortunati di lei, e sono rimasta colpita dal suo impegno verso la comunità a cui credeva di appartenere. Per decenni, Mazie Phillips ha aiutato migliaia di uomini e donne senzatetto semplicemente perché le importava, si preoccupava della loro salute e della loro felicità. Insomma, aveva un grande cuore. Straordinaria è stata la sua profonda umanità, esorbitante in tutti i sensi: beveva, fumava, era irascibile, eccessiva. Tutti questi elementi insieme mi hanno incuriosita, ispirata e quasi subito ho pensato di scrivere un libro su di lei.
L’autobiografia immaginaria che ha composto è come un diario per immagini. Visivo a tal punto che sembra essere stato pensato come un documentario, con alcuni personaggi che interrompono la voce della protagonista per descrivere il suo carattere. In che modo ha lavorato?
In sostanza ho iniziato a scrivere il libro come un memoir di finzione. Avevo in mente un paio di domande a cui volevo trovare risposte. Per esempio mi interessava come una donna ebrea del Lower East Side nel 1920 si è potuta interessare alla fede cattolica al punto di cominciare a diventare praticante. E mi sono chiesta perché ha pensato di entrare in contatto soprattutto con gli uomini senza una casa e le donne che meno spesso vivevano per strada. Perché non si era mai sposata e la ragione di tutta quella incandescenza, le sue imperfezioni, i suoi eccessi nel bere alcolici, le sue tendenze violente.
Tuttavia, quando ho cominciato a scrivere il libro in questi termini ho sentito una sorta di rimosso che proveniva da una voce che mi ostinavo a catturare. Mi sono accorta che non avrei mai conosciuto la vera Mazie e non avevo a disposizione documentazione sufficiente a parte il saggio di Mitchell. Ho iniziato allora a pensare che se avessi potuto ne avrei voluto parlare con chi l’aveva davvero incontrata e, nell’impossibilità di farlo, ho capito che potevo solo inventare quei personaggi. Da lì il documentario, un collage che si è composto nel modo in cui le sue parti si facevano avanti.
Quali testi storici ha pensato di consultare?
Mi sono dedicata anche alle ricerche storiche. Ho visitato il Tenement Museum di New York City, dove sono stata in grado di visualizzare gli appartamenti delle case popolari anguste del periodo in cui è vissuta Mazie. E ho letto libri, inclusa una storia di Coney Island, Amusing the Million: Coney Island at the Turn of the Century. Poi anche Only Yesterday, una storia degli anni ’20 del Novecento redatta una decina di anni dopo. Infine Low Life, un ritratto di New York City a cavallo tra il 1800 e i primi del Novecento. Ho guardato documentari, filmati, ho ascoltato musica. E ho fantasticato su di lei, ho camminato a lungo di notte intorno a Manhattan, sulle strade di ciottoli che lei stessa aveva percorso. Ho meditato su di lei. Probabilmente ho messo anche un po’ di me in lei, e un po’ anche l’ho assimilata ad altre donne forti, coraggiose. Credo che questo tipo di furto sia inevitabile.
Mazie è diventata così una miscela di un sacco di cose, ma è anche se stessa. Mi ci sono voluti circa due anni per completare il libro.
Nel suo romanzo, «I Middlestein» (Giuntina, 2014), sulla forma che può assumere la vita coniugale, al centro c’è Edie, la protagonista femminile, e i suoi eccessi in particolare con il cibo. Edie e Mazie hanno qualche punto di comunanza riguardo la stessa fame. Di cosa?
In proposito mi ha colpita una critica che hanno attribuito ai miei personaggi. Parlava di un edonismo e senso di colpa e inizialmente ho pensato che fosse appropriato. Non credo abbiano una fame di desiderio, per esempio poiché mi pare che il desiderio esista già dentro di loro. Sono però creature voraci, sia Edie che Mazie. E mi domando se non sia questo un modo divertente, luminoso per esistere.
Alla domanda «Non vorresti un innamorato?» Mazie risponde «Il mondo intero è il mio innamorato». Ha raccontato una storia di libertà femminile in cui l’amore è essenziale o c’è dell’altro?
La vera Mazie si sentiva molto moderna secondo me. Non credo di aver intuito o connesso caratteristiche contrarie riguardo il suo conto, o almeno non era questo che volevo fare. Anzi ho potuto imparare da lei, ho voluto sapere ciò che sapeva. Così ho scritto di una donna forte che abbraccia liberamente la sua sessualità e la sua libertà, perché volevo vedere quel personaggio esistere nel mondo. L’ho desiderato. A un certo punto diventano come dei modelli, quando pensiamo di averne bisogno. In fondo cerco sempre di riferirmi a forti protagonismi di donne. Questo è un atto femminista, un atto politico per me.
Uno dei personaggi del suo libro si chiama Elio Ferrante, un docente esperto della storia di Brooklyn. L’omaggio è a Elena Ferrante, c’è qualcosa in particolare che ama delle sue narrazioni?
Mi piace la complessa rugosità e l’umanità dei libri di Elena Ferrante. C’è una qualità intensa e febbrile che ammiro. E lei è una femminista, una mente politica. Dal punto di vista della scrittura, ha la capacità di costruire molto lentamente i suoi personaggi, ne segue la tensione fino al punto di rottura che si presenta come un sollievo, anche se le azioni intraprese nel momento culminante sono violente, oscure. Assistiamo cioè alla costruzione minuziosa di questa oscurità fino a essere confortati quando se ne comprende l’esito. In questo senso, i suoi libri li ho letti come un risultato ed è importante studiare il modo in cui lei lavora.
(Il manifesto, 7/09/2016)
L’autrice racconta il suo rapporto con la poesia, il dolore e le nuove
traduzioni di Shakespeare che presenterà oggi al Festival di Mantova
di LEONETTA BENTIVOGLIO
Con “Shakespeare in scena”, edito da Nottetempo, escono riunite in un volume le traduzioni di quattro play a firma di Patrizia Cavalli, che lo presenterà stasera al Festivaletteratura di Mantova e il 16 a Pordenonelegge. Sono “La tempesta”, “Sogno di una notte d’estate”, “Otello” e “La dodicesima notte”. Mentre leggiamo il libro, Shakespeare ci cammina accanto. È un amico a noi contemporaneo che racconta il potere, l’eros, l’amicizia, la morte, la famiglia
la guerra, i tradimenti. Lavorando sulla lingua, la Cavalli costruisce un italiano che comunica umanità profonda e pienezza di esperienze. Comunicare in questo modo significa praticamente tutto. Patrizia lo sa. Di volta in volta ha fatto queste traduzioni per committenze teatrali. Le ha viste interpretate da artisti come Carlo Cecchi. Le ha sentite applaudire dal pubblico con entusiasmo. “Traducendo Shakespeare, a parte alcuni tagli decisi dal regista, in Otello per esempio”, premette la poetessa accomodata nella sua casa di Roma, vicina a Campo de’ Fiori, “sono rimasta più che fedele al testo, ma cercando di cogliere davvero la lingua shakespeariana nelle sue sonorità e sfumature. Shakespeare è sempre pieno di riferimenti e sottotesti che vanno compresi per poi trovare una lingua ricca e trasparente”.
Semplice, ma non semplificata.
“Proprio così. Shakespeare vive nel teatro e il pubblico anche popolare che lo andava a sentire capiva tutto. Però ha una lingua che non è di adesso, e chi traduce tende a imitare quella antica, a farne qualcosa di macchinoso e improbabile. Va riportato a una lingua viva. Per questo le traduzioni invecchiano facilmente. In realtà tradurre, soprattutto Shakespeare, è una fatica spaventosa: bisogna attraversare l’inferno dell’artificio per conquistare l’apparenza della naturalezza. C’è anche da considerare il suono, che è sempre fondamentale nel suo rapporto col significato, visto che Shakespeare scrive in versi. Conta che si senta il ritmo nell’andamento della voce dell’attore. Un muoversi negli accenti che renda il verso diretto e necessario. Anche chi traduce ha bisogno di questa ginnastica quasi fisica per trovare i toni vocali dei personaggi, tanto che traducendo mi succedeva di spostarmi nelle stanze, magari trovando una soluzione quando raggiungevo la cucina. Otello ha la magniloquenza tipica degli epilettici, che contiene l’anticipazione della catastrofe; Iago ha la bassezza approssimativa di certi romaneschi che fanno intendere di saperla lunga”.
Nel suo appartamento che va su e giù nei livelli, tra scale e pavimenti ondosi, Patrizia parla di Shakespeare con un abbandono privo di saccenza. Ha il capo fasciato da un cappuccio azzurro che cela gli effetti della chemioterapia. A un tratto per il caldo se lo toglie, scoprendo una bella testa perfettamente tonda. Di giorni ariosi o affannati, di
piccole meraviglie dell’amore, di fisicità impudenti, di dettagli comuni, si nutrono le poesie della Cavalli, autrice di varie raccolte pubblicate da Einaudi, da Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) fino a Datura (2013). Forse è stata la sua semplicità senz’artificio, la sua nobiltà nell’ordinarietà, il suo senso centrale del corpo, a farle cogliere
il respiro vitalissimo di Shakespeare.
Di corpo è piena la sua poesia, Patrizia Cavalli. E qualche tempo fa il suo corpo si è
ammalato.
“Ogni sua particella sono io. Ogni cellula si rivela, si manifesta. Il mio fisico non è mai stato separato dalla mente. L’ho ascoltato costantemente. Per questo sono stata sempre ipocondriaca, sentendo in me qualcosa di segreto e di estremo. Poi, quando si è manifestato il male vero, l’ipocondria è passata: l’immaginazione non aveva più un luogo in cui andare. Il terrore legato all’ipocondria veniva dal vuoto corporale. Il cancro ha riempito il panico. E mentre gli amici mi dicevano: hai una gran forza d’animo, la verità è che scoprendo la malattia io non ero più depressa”.
Ha sofferto di depressione?
“Fin da giovanissima, al liceo. Poi si è ripresentata in periodi diversi. Mi abbandonavo a me stessa e fissavo il vuoto. Nella poesia l’ho descritta. Uno stato di separazione. Passaggi visionari, quasi schizoidi. Ciò che è solo se stesso e non si muove è terribile, che sia una parete o un soffitto. Uno psichiatra sostiene che una mia poesia è la migliore definizione della depressione che abbia mai sentito e l’ha portata a un convegno: “Persino il sonno adesso mi dispiace / perché il sonno produce il mio risveglio””.
Non ha mai tentato una psicoanalisi?
“Una volta ci ho provato, ma ho lasciato perdere abbastanza presto. La simpatica poeta milanese Vivian Lamarque era così dispiaciuta per la mia depressione che mi spinse a provare. Le ho detto: vado, però trovami una psicoanalista bella, antipatica, elegantissima e sprezzante. Voglio essere dominata. Invece mi manda da una signora buonissima.
Quando entro nel suo studio si aggiusta il golfetto. Mi chiede: perché viene da me? Rispondo: perché lei è obbligata ad ascoltarmi per 45 minuti senza ribellarsi. I miei amici non ne possono più”. Era un groviglio di amori infelici? “Gli amori infelici sono sempre anche felici, altrimenti non potrebbero essere infelici. C’è stato un lunghissimo amore che
mi ha fatto scrivere molto. Poi la musa è scomparsa”.
Pensa spesso alla morte?
“Se le circostanze sono concrete ti attacchi al dettaglio senza pensare più in prospettiva. Rimuovi. Eppure rimuovere non è nella mia natura: sono stata sempre pronta ad affrontare pensieri orrendi. Credo che sia una forma di arroganza. Ho avuto il tempo d’immaginare la morte. Il massimo del terrore è l’idea di finire in una zona dove non ho controllo”.
Le sue poesie trasmettono un’infinita libertà. Come nascono?
“Quelle di pochi versi arrivano da sole, bussano alla porta e io apro. Cammino, mi parlo nella mente, scrivo un paio di versi e correggo. Nelle poesie lunghe, come La patria, c’è un intero sistema di pensiero. Nelle brevi la concentrazione è immediata”.
Quando una poesia è riuscita?
“Quando si muove. Deve attraversare un territorio. Può anche sembrare bella, ma se resta ferma nel suo tempo e nella sua idea, senza un prima e un dopo, è mezza morta. Che siano tre versi o 300, bisogna che accada qualcosa. Dev’esserci una sorpresa del pensiero. Un eros nella parola”.
Lei dà sostanza poetica a parole comuni, quotidiane.
“Non ci sono parole belle o brutte. Tutte sono stupende. Purché siano reali e pertinenti. Spesso le parole sono usate in modo orribile, e alcune vengono logorate dall’uso. Perciò bisogna aspettare che ritrovino un’innocenza”.
(Repubblica.it, 7/09/2016)
di Goffredo Fofi
Nel momento in cui, grazie al passaparola dei lettori e in particolare delle lettrici statunitensi l’opera e il nome di Elena Ferrante sono diventati notissimi urbi et orbi e le vendite della traduzione inglese dei quattro volumi di L’amica geniale gareggiano con quelle dei facitori e facitrici di best-seller elaborati al computer, tutto quello che è possibile sapere su Elena Ferrante è contenuto in La frantumaglia, ampio volume di quasi quattrocento pagine che raccoglie lettere e interviste, divise in tre capitoli: Carte. 1991-2003; Tessere. 2003-2007; Lettere. 2011-2016. Il secondo e il terzo sono successivi alla prima edizione del libro, che è del 2003, 163 pagine sulle 376 complessive.
La curiosità, un po’ sciocca e un po’ malsana anche se spiegabile, che circonda la scrittrice, rigorosamente appartata e – volto e vita – di ignota identità resterà soddisfatta solo in parte per quanto riguarda i pettegoli, e sono tanti!, ma dirà tutto quello che è possibile e, direi, legittimo sapere su una scrittrice o uno scrittore, per gli amanti della buona scrittura. C’è tutto quel che è giusto sapere di Elena Ferrante in questo libro, meno la sua fotografia, il suo vero nome e la sua, diciamo così, collocazione fisica in una famiglia, in un lavoro, in una città, in un ambiente. Che però si suppone in parte coerente con quello della protagonista dell’Amica geniale, ma solo in parte, per la precisione e per la sapienza con cui vi vengono descritti Napoli, la sua popolazione di piccolissima borghesia quasi “eduardiana”, e un tempo che va dagli anni cinquanta per giungere vicino a noi, segnalato più dalle mutazioni antropologiche del contesto che da date storicamente certe, da avvenimenti forti riguardanti tutta la comunità, locale o nazionale. Napoletana lo è certamente (basterebbe per convincersene la descrizione del quartiere del Vasto nel primo volume dell’Amica geniale), e napoletana che si è allontanata da Napoli fisicamente ma non culturalmente, giovane che non si è affatto sottratta ai movimenti del ’68 e in particolare del femminismo, scrittrice che ha avuto come riferimenti e forse modelli due dei nomi più grandi della nostra letteratura novecentesca, la Morante e la Ortese, e che forse ha conosciuto direttamente una sorella maggiore come la Ramondino, Elena Ferrante si è raccontata moltissimo nei suoi romanzi, anche se, come è giusto, con la distanza delle invenzioni letterarie, con la costruzione di personaggi che prendono la loro strada, che non sempre obbediscono ai piani dei loro creatori.
Nella Frantumaglia, Elena Ferrante dice tantissimo di sé e del suo lavoro, più di quanto basti per qualsiasi scrittore, non fosse che l’epoca impone un presenzialismo ossessivo e, diciamolo, chi fa letteratura, chi scrive romanzi, anela oggi anzitutto a vedersi sui giornali, sui banconi delle librerie, nei festival e convegni, ad ascoltarsi a Fahrenheit, a recitarsi negli stupidissimi incontri televisivi. È anche a questo che, mescolando, si direbbe, una vocazione psicologica personale e una scelta intellettuale. Elena Ferrante si è rifiutata da subito, e il suo successo (inatteso da tutti, e per prima certamente da lei medesima) non è il risultato di una strategia bensì del valore, pieno e riconosciuto, di quel che lei ha scritto.
L’assenza mediatica ha giovato a questa scrittrice come un segno di rigore, di encomiabile serietà, che esigeva ed esige l’attenzione ai libri e non a chi li ha scritti, e però ha certamente nuociuto in Italia alla sua fama, almeno inizialmente, perché non avere un volto e una storia riconoscibili, non farsi ricevere e interrogare dal pupazzetto della Rai, non farsi intervistare dai giornali con accompagnamento di foto che tirino al glamour, non girare periodicamente per librerie lungo l’intera penisola e le isole a presentare i propri libri, non partecipare alle fiere, non frequentare i tremendi salotti cultural-politici romani e milanesi, non concorrere ai premi e presenziarvi (e dunque non essere premiabile, come ha ovviamente dimostrato lo Strega, dato che la presenza è fondamentale e se non c’è spettacolo non c’è premio), tutto questo non stimola gli addetti ai lavori e i consumatori di cultura. E l’accademia arriva, come sempre, a occuparsi dei viventi tardi o mai, e secondo canoni e pregiudizi molto consolidati. Insomma, che la Ferrante non abbia un volto e un corpo riconoscibili le ha nuociuto e le nuoce, e non è un caso che il successo forte le arrida in Italia da poco sulla scia di quello statunitense…) ma dall’altro è una garanzia di serietà, e attira i lettori meno condizionati dai meccanismi della società dello spettacolo, i “pochi ma buoni”.
La frantumaglia è composto anzitutto di risposte a interviste non superficiali (forse quelle superficiali sono state subito cestinate) e di corrispondenza (appassionante, a inizio libro, quella con Mario Martone sul passaggio di L’amore molesto da romanzo a film) ma anche di testi senza destinazione, abbozzi a volte di articoli o articoli compiuti come quello bellissimo sul film di Chéreau Gabrielle analizzato in confronto al racconto di Conrad che l’ha ispirato, Il ritorno. No, “la Ferrante” non è certamente una scrittrice di scarsa cultura, conosce bene i suoi classici e ha gusti precisi, ha una formazione coerente. Sa che cos’è la letteratura, e sa che, dedicarvisi, non vuol dire sfogare le proprie frustrazioni o velleità, la propria sete di riconoscimenti, bensì affrontare una sudata costruzione in coerenza a un proprio progetto e a una propria visione, entrando in un campo e in una storia dove i confronti sono obbligati e, per chi non gioca e ha un forte talento, possono essere travolgenti e a loro modo tremendi, decisivi di una vita. Ha avuto una sua evoluzione di scrittrice, da un impasto realistico-psicologico più denso e morboso a una larga e bensì profonda ricchezza romanzesca che affronta la più difficile e classica delle sfide, quella, con L’amica geniale, del vasto romanzo a sfondo corale con la precisa definizione di un’epoca storica a partire da dati di costume e d’ambiente, però mettendo a fuoco pochi personaggi (infine due, la narratrice e “l’amica geniale”, due caratteri femminili perfettamente e quasi ossessivamente delineati) che stabiliscano caratteri in qualche modo universali, anche se collocati su sfondi sociologicamente, antropologicamente, e storicamente attendibili, influenti sulla loro evoluzione.
Si può amare di più questo o quel libro della Ferrante, ma non v’è dubbio che si tratti di una vera scrittrice, delle poche e dei pochi degni di restare, alla faccia dei gazzettieri e dei pettegoli, dei curiosi e morbosi e dei professorini o, come li chiamava Machado, dei “señoritos” che si dilettano inventandosi letterati. La Morante distingueva: ci sono gli scrittori, pochi, e ci sono gli scriventi, tanti. Ma proprio il nome della Morante, insieme a quello della Ortese più volte citati nella Frantumaglia, servono a dire una differenza: manca alla Ferrante, o manca ancora, una dimensione “religiosa”, tragica o salvifica che sia, dell’esistenza. È una scrittrice che potremmo forse definire dolorosamente laica. E ovviamente non è un limite, in un’epoca che mistifica così facilmente sia il laicismo che la religiosità.
(Il Sole 24 ore, 4/9/2016)
recensione di Stefania Giannotti
Ho scoperto presto che spesso l’opacità era nei miei occhi tanto più quando cercavo di usare categorie “neutre” e così dette oggettive nell’interpretare la società, oppure quando cercavo di annullare gli scarti negandoli con semplicistiche soluzioni. Ho cercato allora, grazie alla mia militanza nel movimento delle donne, di individuare un punto di vista non più neutro ma legato alla mia “differenza sessuale”, che arricchisce la capacità di percezione e la creatività nel progettare.
Siamo a pag. 61 di L’architettura necessaria di Laura Gallucci, libro edito da Quodlibet 2015 e voluto da Irene de Guttry e Cristina Liquori per trattenere tra noi e sulla terra la preziosa opera di architettura e di pensiero dell’architetta morta nuotando nel mare di Capalbio nel 2012.
Il testo, corredato dalle immagini delle sue opere e dagli ironici disegni “quotidiani”, è libro da meditare, da leggere, da portarsi dietro, perché di certo così lo hanno voluto le autrici, ma anche perché nel lavoro di Gallucci c’è altro oltre le opere. La sua è architettura consapevole, in cui la professione di architetta progettista non si separa mai dall’esperienza e pratica femminista. Progetto architettonico, pensiero politico, punto di vista non neutro sono tenuti insieme da un legame forte e sempre presente.
Lo sa, lo vuole, lo mette in parole l’architetta Gallucci. È la sua battaglia. E grazie alla capacità di dare senso e all’impegno nel mettere in parole e narrare un processo complesso come il progetto d’architettura, questo libro è ricco non solo di belle e suggestive immagini dell’opera realizzata, ma anche di spunti e indicazioni progettuali, di occasioni per riflessioni politiche.
Già nel 1979 nel documento per la candidatura alle elezioni provinciali, tema «la casa: un problema per la sinistra», critica l’idea della «casa in proprietà», che si fa strada in alcuni settori della sinistra, mettendo al centro la figura femminile e la ricaduta sulla donna della struttura piramidale della città, delle logiche speculative, dell’assenza di servizi sociali. E lo diceva con grande chiarezza e autorevolezza, anticipando così, di qualche decennio, l’idea di cohousing e legando in una visione unica lo spazio dell’abitare a quello urbano e al territorio: Ci ritroviamo allo stato attuale con alloggi che non funzionano senza la presenza di una donna e con una configurazione piramidale della città, con l’esaltazione di un centro che riunisce le funzioni e i servizi più prestigiosi e numerosi, via via decrescenti verso la periferia… la conseguenza è la totale assenza di qualità urbana… (pag. 47).
Nell’ammasso informe della progettazione in cui non si butta niente, neppure gli scarti, Gallucci si muove agilmente mettendosi in gioco fino in fondo con la sua esperienza di donna e con la pratica del partire da sé, che non è ideologia politica ma diventa necessità professionale. La relazione con l’altra/o cliente diventa indispensabile per incontrare il desiderio vero del cliente, e tradurre lo stereotipo con cui può succedere che questo si esprima. Il coinvolgimento emotivo accompagna e impronta tutto il viaggio nella progettazione. È così che Gallucci esce dalla fase in cui tutto si presenta come possibile per individuare ed estrarre l’architettura necessaria.
Gallucci è progettista soprattutto di spazi abitativi. La mano è leggera alla ricerca di dinamicità fluidità trasparenza. Lo spazio cartesiano si rompe a favore della compenetrazione degli spazi con linee spesso curve. Le abitazioni realizzate si scoprono lentamente con punti di vista e scorci sempre diversi, suggeriti da tagli orizzontali e verticali, da sipari che si aprono su nuove prospettive.
Tutto questo e molto altro in L’architettura necessaria di Laura Gallucci, di Irene de Guttry e Cristina Liquori, Ed. Quodlibet 2015.
(AP Autogestione e politica prima, luglio-dicembre 2016)
a cura di Betti Briano*
Il libro Mia madre femminista (Il Poligrafo, Padova 2015) richiama nel sottotitolo una rivoluzione,quella femminista, partita nella seconda metà degli anni ’60, un processo irreversibile di trasformazione delle coscienze delle donne, che ha consentito loro di prendere parola pubblica e di affermare sestesse come soggetto libero nella scena sociale e politica, trasformando le relazioni con gli uomini.
Le autrici questa rivoluzione l’hanno vissuta, non ne parlano per sentito dire o per letture fatte, ma attraverso la loro voce e le voci di altre che parlano dall’interno di quel processo. Avrebberopotuto cimentarsi in un lavoro storico tradizionale che sarebbe stato accolto dalla comunità scientifica e magari utilizzato per qualche testo per le scuole; ne avrebbero avuto le competenze poiché sono insegnanti esperte e hanno nel loro curriculum un pluriennale percorso di ricerca storica e di pubblicazioni.Fanno invece un’altra scelta: intraprendono un racconto soggettivodi quegli accadimentie scoperte nel quale si può ritrovare chi come me li ha vissuti. L’obiettivo è però più ambizioso: è quello di trasmettere la memoria di quanto accaduto alle generazioni successive. Qui entra in gioco il loro amore per l’insegnamento. L’idea del libro nasce infatti a seguito delle domande delle e degli studenti dopo la visione della mostra Noi utopia delle donne di ieri, memoria delle donne di domani. Quarant’anni di storia del movimento delle donne a Milano, prodotta nel 2006 da Marina insieme ad altre.
Con una felice intuizione sperimentanouna narrazione drammatizzatadi quasi 50 anni di femminismo che si dispiega in un dialogo tra madre e figlia in quattro tempi. I tempi non si riferiscono a una periodizzazione della vicenda storica ma a quattro nuclei tematici cui si possono ricondurre le elaborazioni e le pratiche politiche delle donne che vengono affrontati con quattro diverse modalità corrispondenti ad altrettanti cambi di scena: il primo tema in cui si evoca il percorso compiuto per prendere parola, trovare parole proprie per dirsi, viene trattato in una lettera della madre alla figlia; il tema dell’autogestione del corpo e dell’autodeterminazione nella sessualità e nella procreazione viene affrontato invece nel salotto di casa; dei luoghi di incontro e di elaborazione del femminismo si parla in occasione di una visita in uno di essi; il tema del lavoro è argomento di una lettera alla madrenella quale la figlia,riferendo la discussione in pizzeria con donne e uomini dopo un incontro dell’Agorà del Lavoro a Milano,dichiara che nelle nuove idee sul lavoro riguardanti il superamento della divisione tra il lavoro di produzione e quello di riproduzione dell’esistenza, per quanto espresse in gran parte da donne più grandi di lei, trova rispecchiamento la sua esperienza di giovane alle prese con la precarietà e il desiderio di maternità. Con questo finale si compie simbolicamente il passaggio generazionale tra chi è stata giovane negli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso e chi lo è oggi nel nuovo millennio.
Le autrici, per evitare che il racconto soggettivo resti personale e rendere la dimensione collettiva di una storia condivisa, inseriscono 58 testimonianze fatte di parole e immagini che compaiono nel libro con eleganti inserti di colore grigio. Evocano il contesto delle vicende riferite nel dialogo tra madre e figliae rivelano episodi inediti di questo percorso: dalla lotta contro la guerra del Vietnam di Luisa Muraro alla lingua ritrovata che riporta al centro la vita di Lea Melandri, dall’invenzione dello slogan “Tremate, tremate! Le streghe son tornate!” di Bia Sarasini alla creazione della Libreria delle donne di Lia Cigarini, dal modo diverso di stare in fabbrica e di fare sindacato delle lavoratrici di Bresciaall’autogestione della MAG di Verona e all’invenzione di forme di lotta e di presa di coscienza pubblica da cui trarre suggerimenti, solo per fare qualche esempio.La scelta delle 100 foto risulta efficacissima nel disegnare, senza appesantire il testo con elenchi di date e di luoghi, la cornice spazio-temporale nella quale le vicende si svolgono.
Un punto di forza del libro è rappresentato da un linguaggio fluido, accattivante e preciso, semplice ma non semplificato anche nelle testimonianze, frutto di un’attenzione relazionale che non cancella l’originalità delle singole. Qui emerge la valenza politica dell’impresa: la scelta di mettere al centro il rapporto madre-figlia quale prefigurazione simbolica di una società costruita sulla sapienza e la capacità ordinatrice della madre e quindi sulla lingua materna, cioè sulla lingua nella quale parole e cose si corrispondono, quella che parliamo naturalmente con le creature piccole per insegnare loro a stare al mondo, mentre il parlarla con gli adulti deriva da una rigorosa e sapiente pratica politica.
Infine voglio mettere in rilievo il loro agire politico in relazione.Questo libro non avrebbe preso questa forma senza la capacità e la propensione a mettere in comune le competenze e i talenti: il lavoro sulla soggettività per autorizzarsi a fare storia partendo da sé, la sapienza magistrale acquisita con le differenti esperienze di insegnamento, la competenza nella documentazione visiva di Marina e il talento teatrale di Luciana, l’esperienza materna di quest’ultima; ingredienti che hanno dato un risultato più grande di quello che ognuna di loro avrebbe singolarmente potuto raggiungere con le sue solo forze.
*Betti Briano, cofondarice nel 1972 del Collettivo femminista savonese e della Biblioteca delle Donne alla fine degli anni’70, attualmente è impegnata nella comunità Eredibibliotecadonne, delle cui attività si dà conto nel blog https://eredibibliotecadonne.wordpress.com/
(Aprile/giugno 2016, Autogestione e Politica prima)
di Alessandra Pigliaru
Ragionatrice sottile e maestra d’eloquenza, sono alcune delle espressioni che si ritrovano nel Menesseno di Platone e nel quarto libro degli Stromati di Clemente Alessandrino riferibili ad Aspasia di Mileto che insegnò retorica a Pericle e filosofia a Socrate.
Ciò nonostante, simili appellativi venivano assai raramente utilizzati per il suo sesso; così segnala Gilles Ménage in un libro piccolo quanto fondamentale dal titolo Mulierum philosopharum historia, scritto in prima istanza nel 1690 e ampliato due anni dopo.
Arrivato in Italia solo 11 anni fa grazie alla traduzione e cura di Alessia Parolotto per le edizioni ombre corte, Storia delle donne filosofe (pp. 115, euro 9) viene ora rieditato per essere letto, studiato e sgranato con curiosità. L’introduzione di Chiara Zamboni colloca acutamente la figura di Ménage, l’abate francese che oltre a essere stato un grande latinista e grammatico fu precettore di madame de Sévigné e madame de Lafayette.
Le sue relazioni in quegli anni straordinari, dai salotti delle Preziose all’immersione in quella che Benedetta Craveri ha poi chiamato e descritto nel suo La civiltà della conversazione, possono essere lette come il frutto di un’attenzione rara nei confronti di 70 pensatrici dell’antichità classica.
L’esercizio di Ménage, senza precedenti, rimane un isolato e pur tuttavia importante censimento filosofico, esito di una erudizione raffinata e rigorosa che fa avere fiducia sullo stato dei documenti consultati – seppure non tutti di immediato reperimento. Setacciare trattati, lessici, opere filosofiche è servito così a imbastire un ritratto a più voci.
Le fonti di riferimento utilizzate da Ménage sono quasi tutte maschili e, come sottolinea Zamboni nella introduzione, l’insistenza sul legame tra biografia e pensiero era in linea con la tradizione del suo tempo. Accanto alle più note Ipazia e Diotima, maestre di eccellenza e amore per la sapienza, altre si fanno avanti e vengono per la prima volta suddivise per appartenenza di scuola – là dove se ne possa avere in qualche modo conferma. Di scuola incerta infatti restano ancora tante che vanno a comporre la prima parte del volumetto di Ménage.
Così accanto al nome di Aspasia risuonano quello di Cleobulina, Panfila, Giulia Domna, Eudocia, Novella e altre. E poi Temistoclea (nella Suda – lessico enciclopedico compilato intorno al 1000 – viene chiamata Teoclea), sorella di Pitagora a cui già Diogene Laerzio attribuisce la maggior parte dei precetti morali del più noto filosofo.
Insieme alle pitagoriche, che sono anche le più numerose, sono presenti Epicuree, Ciniche, Stoiche, Accademiche, Peripatetiche, Platoniche, Cirenaiche.
E seppure di tutte le filosofe non resti quasi niente in termini di scritti, il lavoro di Gilles Ménage non si riduce a un contributo elenchico criticamente muto; bensì concorre a delineare una fisionomia storico-filosofica che anni dopo verrà decostruita e fatta definitivamente saltare dal femminismo.
“Sai chi è Lina Scalzo? è il titolo del libro-intervista, scritto dalla giornalista Franca Fortunato, la cui protagonista è una donna, Lina Scalzo, che col femminismo ha imparato a pensare e a dire alcune rivelatrici parole sul suo lavoro, confrontandosi con un’altra donna.
In copertina Lina è sola ma il suo sguardo è rivolto a chi è fuori: a noi che leggiamo e prima ancora a chi le ha permesso di mettere in parole precise l’esperienza del lavoro di cura che dal 1973 ha svolto per 42 anni. Infatti senza l’amicizia politica che dal 1978 la lega a Franca Fortunato le sue preziose riflessioni sul senso e sui cambiamenti, avvenuti negli ultimi quarant’anni, in questo tipo di lavoro non sarebbero diventate pubbliche e non avrebbero avuto la profondità e concretezza con cui nel libro-intervista ci vengono presentate. Lo sappiamo dall’introduzione in cui Franca delinea le tappe della loro relazione che attraversa momenti di presa di coscienza e di impegno politico: dal sindacato e dal partito alla rivoluzione che per entrambe ha costituito il femminismo. Ma il cuore del libro è l’intervista intitolata «Il racconto di Lina Scalzo»: chi scrive mette al centro l’esperienza viva dell’altra. Le domande di Franca sono un incitamento ad andare avanti, a rendere questa storia avvincente appunto come un racconto, profonda come una meditazione. Le domande scandiscono la narrazione, rendendola adatta alla modalità innovativa scelta per la pubblicazione. Si tratta infatti di un e-book in duplice formato e-pub e pdf, che inaugura la collana di Quaderni elettronici pubblicati dalla Libreria delle donne di Milano, stampabili e scaricabili gratuitamente perché, come è scritto nel sito www.libreriadelledonne.it, «non ci siano limiti di soldi e tecnologia alla fama delle grandi donne».
Lina va oltre la sua personale esperienza, ripercorrendo le trasformazioni che dal 1943 ad oggi hanno interessato le istituzioni legate all’assistenza ad anziane e a donne affette da patologie psichiche, attraverso l’analisi della situazione specifica dell’Opera Pia In Charitate Christi, divenuta poi Fondazione Betania di Catanzaro. Attraverso il suo racconto incontriamo alcune donne che, come altre, hanno messo in gioco le proprie competenze e inventato pratiche, riconosciute da storiche e storici all’origine del welfare state. Donne come Maria Innocenza Macrina, che negli della guerra, insieme a Caterina Catambrone, girava a piedi i paesi per procurare il cibo per le ricoverate e che aveva fondato diverse case di assistenza, di cui nessuna porta il suo nome: un’ingiustizia da riparare, tenendone viva la memoria. Lina usa la storia per andare al cuore dei problemi che toccano la cura, mostrando alcune pratiche che mettono in discussione le modalità neutralizzanti e aziendalistiche che sembrano rendere i servizi più efficienti ma stanno pericolosamente disumanizzando “gli utenti”. Attraverso episodi emozionanti, come il suo primo incontro a 18 anni con la morte, ci mostra un sapere femminile capace di trattare da un lato lo shock e dall’altro il rispetto della soggettività dell’altra, persino quando non è più viva. Racconta dell’ambiente familiare, in cui ricoverate e assistenti lavoravano insieme e avevano il senso di poter contribuire, ciascuna a modo suo, al benessere di tutte. Tanti sono i nodi affrontati ma non troviamo protocolli, leggiamo racconti, quasi apologhi, da cui emergono pensieri e comportamenti che ci aiutano a vedere scene di ordinaria, e forse inconsapevole, disumanizzazione nell’efficienza e neutralità, oggi predicati. E dall’ascolto di alcune ricoverate, come Caterina Rippa, Lina impara i gesti di rispetto per l’altra nella pienezza della sua umanità: entrare nella stanza salutando, chiudere la porta, smettere di parlare tra assistenti mentre si lava e si veste una donna, alzare il lenzuolo quello che basta rispettando il pudore del corpo, lasciare sui comodini gli oggetti personali, tanto per fare degli esempi. Inoltre ci confrontiamo con le riflessioni sui cambiamenti, conseguenza della legge sulla parità del 1977. In modo pacato il libro mostra le contraddizioni dei reparti misti: dagli operatori che faticano a imparare dalla competenza femminile maturata negli anni; alla perdita, nel rapporto con gli uomini, di intimità e libertà delle donne ricoverate; alla loro difesa dalla prepotenza e aggressività di alcuni. Problemi da tener presente per dare giorno dopo giorno soluzioni. E infine la costituzione della Comunità Teodora di cui voglio mettere in luce l’importante pratica del ricostruire le storie personali, andando nei luoghi d’origine e incontrandovi le persone rimaste nei ricordi, scoprendo in diversi casi come alla base di un disturbo psichico vi sia stata una violenza maschile taciuta, che ora siamo in grado di svelare, senza colpevolizzare la donna che l’ha subita, anzi liberandola, seppure siano passati tanti anni.
Ma nel libro c’è molto, molto altro. Un libro che ho letto tutto d’un fiato e che meriterebbe di essere studiato nei corsi professionali e universitari, compresa medicina e psichiatria, e da tutte le persone che si prendono cura di chi ha bisogno di aiuto perché la sua vita e anche la nostra non perda quel senso profondo che ci rende pienamente esseri umani.
(Il Quotidiano del Sud, 13 agosto 2016)
“Sai chi è Lina Scalzo?” di Franca Fortunato, e-Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano 2016, pp. 22
Luciana Tavernini fa parte della Comunità di Storia vivente di Milano
(Il Quotidiano del Sud)
Fino all’ultima riga. Viaggio nella lettura 1 e 2
(n. 108/2015 e n. 109/2016)
Due numeri interamente dedicati alle nostre/vostre scrittrici preferite, ai testi che hanno fatto la storia del femminismo o semplicemente la storia di chi ce li racconta: da Virginia Woolf a Charlotte Bronte, da Toni Morrison a Ursula Le Guin, da Magda Szabò a Elena Ferrante.
Abbiamo chiesto alle autrici qui pubblicate di raccontarSI sul legame con la loro scrittrice o con il loro romanzo preferiti. La risposta alla nostra chiamata è stata copiosa e positiva, tanto che abbiamo ritenuto che fosse opportuno confezionare due numeri della rivista anziché uno soltanto, con un unico editoriale.
Hanno scritto per noi: Leonetta Bentivoglio, Monica Capuani, Carol, Federica Castelli, Domitilla Cataldi, Paola Di Cori, Teresa Di Martino, Emanuela Giordano, Sara Gvero, Helena Janeczek, Gaia Leiss, Viola Lo Moro, Paola Masi, Ottavia Nicolini, Federica Paoli, Barbara Bonomi Romagnoli, Patrizia Sentinelli.
In questi due numeri diamo voce e spazio a chi della lettura ha fatto un mestiere (Libreria delle Donne di Roma – Tuba e Libreria delle Donne di Padova – Librati) e ripubblichiamo due testi sul tema del rapporto con i libri che ci avevano sorpreso e ci erano piaciuti nella rilettura fatta per il numero 100 di DWF: Perdite e Profitti di Vania Chiurlotto e Commento alla “Passione secondo G.H” di Luisa Muraro.
Infine, riproponiamo un testo di Rosetta Stella – uscito in DWF 2003, n. 4 – per ‘tenerla con noi’ e per rilanciare le sue parole, dopo la sua morte improvvisa in un maggio romano senza primavera.
Leggi: n. 108 e n. 109
(www.dwf.it, 22/7/2016)
di Laura Modini
Ho in mano il libro Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015): la foto di copertina, un bel b/n mi riporta agli anni ’70, a quel gesto mostrato dalle donne nelle piazze di tutto il mondo. Il titolo dice di una relazione forte e spesso contrastata, di rapporti, di un cambiamento radicale che è ancora in atto. Le autrici Luciana Tavernini e Marina Santini si richiamano esplicitamente al femminismo, che proprio detto da una mia giovanissima amica, ancor oggi si muove, anche se con minor visibilità.
Domando quindi alle due curatrici perché molte giovani donne, pur dicendo di essere un po’ femministe, non amano più questa parola, rifiutandola molto spesso.
Chi rifiuta la parola ‘femminismo’ forse non si rende conto che l’emancipazione individuale può essere un guscio vuoto, se non riconosciamo quello che le donne venute prima di noi hanno fatto nel passato, o che fanno nel presente, nella difesa dei diritti tradizionali e soprattutto per il nostro esistere nel mondo a partire da noi stesse. Abbiamo voluto indicare nel sottotitolo che è stata una rivoluzione che ci ha cambiate e non è finita: la libertà non è data una volta per tutte. Il gesto femminista dell’immagine degli anni ’70, che abbiamo scelto per la copertina, è ancora un gesto dirompente, scabroso, nonostante la rivoluzione sessuale abbia fatto il suo corso e ci sia l’indipendenza economica dagli uomini. Quelle mani unite hanno reso visibile, l’invisibile. Ed è stato ostentato nelle piazze. Un libro fotografico curato da Ilaria Bussoni e Raffaella Perna, Il gesto femminista (DeriveApprodi 2014), ne ripercorre la simbologia nella storia di liberazione delle donne. Non è stato facile farlo accettare alla casa editrice. Noi l’abbiamo voluto e giocato con consapevolezza e ironia.
Ultimamente si è riaperto il dibattito sul femminismo con articoli che da un lato non negano il cambiamento: sempre più donne controllano la propria capacità riproduttiva, sorpassano i maschi negli studi, hanno progetti e non considerano la loro vita un destino, vanno e sono dappertutto e alcune star si dichiarano femministe. Dall’altro, misurando la realizzazione femminile sui parametri maschili, sottolineano un insuccesso, senza mostrare che molte donne vogliono altro. Cosa avete voluto fare con il vostro libro?
Come hai sottolineato tu, è in atto un tentativo di sostituire una rappresentazione del femminismo che non corrisponde all’esperienza di molte di noi. Il pericolo maggiore è per chi non lo ha vissuto, perché più giovane o perché seguiva altre strade. Queste narrazioni impediscono di vedere le scoperte e le pratiche che hanno permesso di trasformarci e trasformare il mondo. Noi due non volevamo però né darne un’immagine esaustiva, né farne un monumento che di solito si fa per i morti. Abbiamo voluto raccontare le lotte, le pratiche e le scoperte originali che hanno portato cambiamenti positivi nelle vite di donne e uomini.
Il libro è molto particolare, a pagine a sfondo bianco si alternano pagine a sfondo grigio, le foto sono numerose e pur piccole sono estremamente definite e molto belle. L’indice elenca numerosissimi contributi. Quali invenzioni avete messo in atto per costruire questa narrazione storica che si muove su diversi registri?
Il libro è un percorso intrecciato che utilizza diverse forme espressive.
Abbiamo scelto, per il racconto di base che si sviluppa in quattro parti, una narrazione soggettiva che mostra una relazione anche conflittuale, che poi si apre ad altre relazioni.
Si inizia con una lettera di una madre a sua figlia, che sbuffando le aveva replicato: “Ma doveva proprio capitarmi una madre femminista?” Continua poi con il diario di una situazione a due e quindi di un incontro in un luogo pubblico e termina con una lettera, questa volta della figlia alla madre. La narrazione, che costituisce il filo conduttore, lega concetti e parole sempre a situazioni concrete: non volevamo che risultasse ideologica.
In parallelo, come in uno spartito, si intrecciano 58 testimonianze scritte dalle stesse donne che le firmano e da qualche uomo. È stato un lavoro lungo perché ogni testo è stato costruito attraverso un dialogo con noi due sia prima della stesura sia man mano col procedere della scrittura. Abbiamo chiesto di raccontare un episodio, una situazione che potesse rendere l’esperienza del proprio femminismo, che mettesse in luce un guadagno, senza negare difficoltà e conflitti. Abbiamo insistito sulla brevità e sulla concretezza, collegando ciascuna testimonianza a una parola chiave o a un concetto della narrazione fatta da noi due. Così troviamo femministe “storiche” come, ad esempio, Lea Melandri, Luisa Muraro, Lia Cigarini insieme a sindacaliste, insegnanti, artiste…donne giovani e meno giovani. Raccontano di come nasce uno slogan, di come ci si inventa il lavoro partendo da una passione, delle lotte degli anni Settanta, riflettono sulla maternità, sull’educazione, sulla condizione delle migranti… Le 100 fotografie sono inserite nel testo e a corredo delle testimonianze. Sono quasi tutte inedite, scelte per superare l’idea di un femminismo solo di piazza. Le didascalie poi ampliano il racconto e consentono ulteriori approfondimenti. Abbiamo anche voluto inserire riferimenti ad altre epoche in un continuo andirivieni tra presente e passato, perché sempre ci sono state donne libere che hanno mantenuto la capacità di pensare, agire e dirsi a partire da sé senza farsi rinchiudere nelle regole del patriarcato.
Ho trovato interessanti e stimolanti i titoli dei vari capitoli: tutti con riferimento a testi classici del femminismo. Come mai questa scelta?
Innanzi tutto sono stati significativi per noi. E poi rimandano al contenuto del capitolo. Il primo Le parole per dirlo propone parole risignificate o inventate per dire l’esperienza femminile, come estraneità, fine della doppia militanza, autocoscienza e tante altre; il secondo Noi e il nostro corpo parla della diversità tra liberazione e libertà sessuale, della contraccezione, del divorzio, del dibattito sull’eliminazione del reato d’aborto con le riflessioni su autodeterminazione, depenalizzazione o legge …; il terzo Le tre ghinee ci porta nei luoghi delle donne, dai collettivi alle comuni, alle imprese femminili, all’arte, cinema, teatro…; il quarto Immagina che il lavoro affronta i temi della conciliazione, chiamata allora “camomilla del vero male”, del salario al lavoro domestico, del “doppio sì” alla maternità e al lavoro pagato, ci parla dell’ esperienza delle “150 ore” ad esempio per le casalinghe di Milano e per le metalmeccaniche e le tessili di Brescia, della femminilizzazione della scuola che ha portato alla pedagogia della differenza e all’autoriforma…
Mi rendo conto che senza una rigorosa ricerca documentale non sarebbe stata possibile la ricchezza e precisione delle informazioni di cui il libro è abbondante, ma ho notato che non utilizzate mai le note che io apprezzo moltissimo. La cronologia sembra non così fondamentale, eppure è un libro di storia ma sembra che vada oltre, fino a sembrare un’opera letteraria, e infatti anche così io l’ho apprezzata. Come avete proceduto nella stesura del libro.
Ci occupiamo di insegnamento della storia e di ricerca da oltre trent’anni in una comunità femminile fondata da Marirì Martinengo, in cui sperimentiamo diversi modi per rispondere al bisogno di storia che gli esseri umani hanno, a partire proprio da ciò che di nuovo i desideri e la visibilità delle donne mettono in gioco. Il libro va in questa direzione. Anche nel modo di scrivere.
La scrittura infatti è stata a quattro mani, nessun pezzo è stato scritto dall’una o dall’altra, e ogni episodio che abbiamo inserito è documentabile. Per noi lavorare insieme è stato un piacere, durato sette anni, che continua tuttora per le varie iniziative di confronto sul libro. Il piacere di lavorare in due richiama la relazione con la madre, che per le donne è fondante essendo dello stesso sesso.
In varie fasi della stesura abbiamo sottoposto il testo alla lettura di amiche e di giovani, di donne e uomini: e delle loro indicazioni abbiamo fatto tesoro. Ne diamo in parte conto nei ringraziamenti.
E così, come abbiamo già detto, vi è stata una forte relazione anche nella scrittura delle testimonianze. Per alcune è stato un modo per ripensare e trovare una modalità di raccontare che poi ha dato loro la capacità di dirsi in altri contesti. La ricerca delle fotografie, non facile perché allora le foto erano rare, è stata frutto della fiducia che abbiamo creato e di molte scelte condivise. Abbiamo scelto di segnalare, nelle didascalie, solo le persone nominate nel libro, così come nella bibliografia abbiamo indicato solo i libri citati. Non abbiamo voluto fare un censimento, del resto impossibile per un movimento che ha coinvolto e coinvolge milioni di donne. Abbiamo voluto creare delle aperture per una ricerca personale, facilitata oggi dalle possibilità offerte dalla rete.
Certamente la scrittura usata è soggettiva, a più voci, in cui le relazioni sono vive, intrecciate, mettendo sempre in gioco la soggettività di chi legge. Mi fa pensare che anch’io mi sento parte di questa storia. Ho scoperto, regalando questo vostro libro ad alcune mie amiche che mette in moto un desiderio di ripensare alla propria storia facendone scaturire la voglia di narrarla. E allora chiedo che cosa vi ha spinto a questa bellissima narrazione?
Noi non siamo indicate come autrici ma come curatrici: nel nostro caso la cura era un’attenzione a far emergere l’inaspettato, a lasciar spazio alla presenza dell’altra con la sua unicità, senza sovrapporre la nostra voce. Volevamo si mostrassero la molteplicità delle esperienze e gli intrecci relazionali.
L’idea del libro è nata dopo la partecipazione di Marina al gruppo che ha prodotto la mostra Noi utopia delle donne di ieri, memoria delle donne di domani su 40 anni del movimento delle donne a Milano. Marina nelle sue classi non parlava esplicitamente di femminismo, lo esprimeva nell’attenzione alla singolarità di ciascuno e ciascuna, invitando a partire da sé, creando attività con le sue colleghe, portando testi di scrittrici e filosofe, e tanto altro. Le sue allieve ed allievi, dopo aver visto la mostra hanno cominciato a chiedere e a esprimere il desiderio di conoscere. Un ragazzo stupito ha detto: “Ne avete fatta di strada!” La mostra è stata l’oggetto di mediazione che ha aperto un’interlocuzione e il libro vuole appunto permettere questo.
(LeggereDonna n° 171 Aprile-maggio-giugno 2016)
di Anna Maria Crispino e Marina Vitale
ANTICIPAZIONI . «Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Julie Otsuka e Goliarda Sapienza», un volume collettivo e a più voci per Iacobelli editore fra letteratura e critica. Un estratto dall’introduzione
L’ambivalenza, un tempo forse meno riconosciuta, riconoscibile e confessabile come dinamica sottesa alla «irrazionalità» e «incongruenza» che il giudizio maschile imputava – e spesso tuttora imputa – ai comportamenti femminili considerati privi di «ragionevolezza», ha perso la sua connotazione di «duplicità bugiarda» per assumere le connotazioni di un sentire che sembra governare in modo particolare le relazioni tra donne, nella sfera privata e in quella sociale e politica. L’ambivalenza, fuori dal suo ambito psico(pato)logico, ci appare sempre più come ciò che consente di tenere insieme le parti diverse e a volte conflittuali del proprio sé. È nel rapporto tra l’Io e il mondo che, più in generale, il riconoscimento e l’accettazione del nostro essere ambivalenti ci obbliga a una riformulazione della categoria di «soggetto», alla sua scomposizione e al suo scardinamento.
L’ambivalenza «del» testo, riguarda il tratto radicalmente e ineludibilmente fondante della «letterarietà» del testo letterario – sempre a metà strada tra verità e finzione, tra l’ancoraggio al «reale» e il «volo della mente». Questo gioco tra realtà e finzione, immaginario e fattuale, è tanto più delicato nel tumultuoso svolgimento degli eventi politico-istituzionali che hanno plasmato per circa sette decenni la vita italiana dall’inizio del Novecento ne L’arte della gioia di Goliarda Sapienza; le vicende politiche italiane degli ultimi settant’anni e quelle più locali, ma pur sempre intimamente incardinate con la più ampia storia nazionale, nella quadrilogia de L’amica geniale di Elena Ferrante; e le politiche americane di controllo dei flussi migratori e in particolare l’incoraggiamento dei ricongiungimenti familiari per le «spose per corrispondenza» giapponesi nel periodo tra le due guerre mondiali e le successive misure poliziesche verso la comunità giapponese dopo Pearl Harbour in Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka.
Se la classica letteratura sul «doppio» mantiene drammaticamente separate «le due metà» fino alla catastrofe finale, il gioco del doppio si dispiega anche – in tanta letteratura, soprattutto in quella scritta da donne – nella relazione madre-figlia. Roberta Mazzanti ne segue l’incessante presenza-con-variazioni nel corpus narrativo e saggistico di Ferrante, analizzando l’alternarsi di sostituzioni e slittamenti in una variegata gamma di triangolazioni in cui l’endiadi madre-figlia si integra e si complica di volta in volta con sorelle, amiche, figliolette e persino bambole, includendo rapporti di fusione e separazione, protezione e competizione, desiderio e repulsione, in un quadro di quasi ossessiva presenza-assenza della madre naturale e di sua costante, ma instabile, sostituzione con doppi reali o immaginati nel corso del lungo, faticoso divenire a cui Ferrante si riferisce con il termine diventare.
In Otsuka prevale invece, in più punti, l’angoscia di un «non essere più», che si aggiunge al «non essere ancora» . Una impasse che caratterizza la condizione di molte (e molti) migranti. Su questa condizione, riferita alle successive ondate e generazioni di migranti su suolo italiano negli ultimi decenni, si interroga l’intervento di Monica Luongo, con un’attenzione particolare alla diversa ambivalenza connessa con i vari progetti migratori di uomini e soprattutto donne di diverse appartenenze etniche. In Otsuka la sfumata omogeneità del «noi» si spezza ulteriormente nel rapporto con la nuova generazione nata nel nuovo mondo e portatrice di una diversità sconcertante, di una ambivalenza profonda tra la cultura dei genitori immigrati e quella della comunità ospitante.
Questa mutazione è stata raccontata tante volte con accenti diversi e mediante linguaggi diversi. Si pensi ad esempio alla videoinstallazione ideata nel 2002 da Zineb Sedira con il titolo Mother Tongue (Lingua madre) discussa nel contributo di Cristina Giudice.
La componente memoriale è un altro aspetto costitutivo dell’ambivalenza identitaria che si manifesta attraverso il riaffiorare di un sé precedente che non è mai definitivamente perduto, né mai completamente (o semplicisticamente) ritrovato. Sapienza ce ne mostra l’inevitabilità in molte tappe del «divenire» di Modesta, come sottolinea Marta Cariello.
L’accezione articolata e complessa del concetto di «ambivalenza» tende a superare le nette contrapposizioni binarie a favore di una visione sfumata e resiliente che tolleri, inevitabilmente, anche zone di «opacità» (Serena Guarracino, Laura Marzi-Francesca Maffioli); sostituisce la logica dell’aut-aut con il tentativo di tenere insieme i due corni della contraddizione senza escluderla per arrivare a una scelta univoca, positivamente marcata da una pretesa, ragionevole ma spesso astratta e talvolta autodistruttiva, coerenza.
Negli scritti di Ferrante quel momento di crisi si manifesta con un malessere tra il fisico e lo psichico, definito «frantumaglia» nel volume omonimo e che Lila esperisce come «smarginatura», quando diventa per lei insopportabile il binarismo della normatività sociale e di genere, quando più si rende conto delle pressioni socioculturali esercitate su di lei dal rione, dalla famiglia, dagli amici e dalla cricca camorristica locale, nell’ambito sessuale (o più ampiamente di genere) e in quello del potere. Ne parlano Lidia Curti e Ambra Pirri, riferendosi anche alla categoria freudiana del «perturbante». Modesta, da parte sua, pur esercitando in modo supremo l’arte di smarcarsi dai cliché e schivare le gabbie del conformismo, precipita occasionalmente in stati di ritiro psichico e di sospensione della vita; mentre le «noi» di Otsuka sentono di scomparire, diventare fantasmi, quando diventa troppo grande la frattura tra la realtà ostile e le loro aspettative e progetti di vita.
Più che l’antitesi di opposti inconciliabili, la figura retorica più adatta a definire le condizioni esistenziali vissute dalle personagge nei loro travagliati percorsi biografici è piuttosto quella dell’ossimoro, richiamato nel contributo di Paola Bono, figura del fecondo intreccio tra diversità, foriera di novità e rinnovamento; esempio di «soggetto eccentrico» nel senso anti-identitario proposto da Teresa de Lauretis e dalla teoria queer.
Ma può valere, ad esempio, in altro modo anche per la «riscrittura» teatrale della storia di una Modesta immaginata, prefigurata per forza di desiderio da Sylvia De Fanti a confronto con la figura di Sant’Agata, patrona di una città, Catania, che le dedica una festa «sacrissima e profanissima in quanto tale eccede».
La discussione del soggetto queer, accennata anche nel saggio di Pirri, costituisce la base dell’intervento di Antonia Anna Ferrante la quale parte da un’attenta analisi delle posizioni di genere incarnate nelle personagge di Sapienza e di Ferrante, per proporre un dialogo immaginario di queste due autrici con Carla Lonzi e Paul B . Preciado. Raccontare storie e relazioni non ancora raccontate, prevedere (ossimoricamente) l’imprevisto, come ci invita a fare Nadia Setti, può portare a scoprire che nel gioco dell’uno, del doppio, delle simili ma non uguali, l’identità sempre rincorsa è un’illusione, un bluff, non la si raggiunge mai: «Non ci sono punti fermi. I punti fermi sarebbero le certezze, la ripetizione e la conferma dell’immagine di sé e dell’altra, la persistenza del desiderio». Niente a che fare con l’esigenza di significare nella scrittura – e nella lettura – il nomadismo, l’impermanenza, il continuo divenire di un sé in relazione.
(il manifesto, 28 giugno 2016)
di Goffredo Fofi
Annie Ernaux, L’altra figlia
L’orma, 82 pagine, 8,50 euro
Dopo Il posto e Gli anni, L’orma ci regala un altro bellissimo récit o memoir di Annie Ernaux, scrittrice francese che ha scavato nel suo vissuto per una sete di conoscenza ben diversa dai narcisismi del nostro tempo.
Nel 1950, quando ha dieci anni, Annie apprende dal dialogo tra la madre e un’altra donna di avere avuto una sorella morta a sei anni di difterite, due anni prima che lei nascesse. È il confronto con questa rivelazione che Ernaux ci racconta (“Bisognava che tu morissi a sei anni affinché io potessi venire al mondo ed essere salvata. Orgoglio e senso di colpa nell’essere stata scelta per vivere, in un disegno indecifrabile”), rivelazione nella quale scava con dolorosa serietà per capire se stessa, i suoi, la vita e il nostro rapporto con i morti, la loro silenziosa, forte presenza. Per “lottare contro la lunga vita dei morti” perché noi “non sfuggiamo mai ai morti”.
Viene alla mente il racconto di Joyce, I morti, per alcuni il più bello di tutto il novecento. I “nostri” morti non muoiono mai, dentro di noi, come cerca di dire perdendosi per strada anche Ugo Cornia in Buchi (Feltrinelli 2016). L’altra figlia parla anche d’infanzia e ha in apertura una frase di Flannery O’Connor: “Credere è la maledizione dei bambini”. Ma credere è anche la tormentata speranza di O’Connor, come si evince dal suo giovanile Diario di preghiera, appena tradotto da Bompiani.
(Internazionale, 26 giugno 2016)