di Manuela De Leonardis
«Paola Mattioli. Sguardo critico di una fotografa» una densa monografia di Cristina Casero
«Imboccare, agitare, frullare, solarizzare»: quando l’angelo del focolare fa la fotografa di professione versa il fissativo nella vaschetta, nella camera oscura, osserva attentamente i provini, tira fuori la carta fotografica emulsionata, però deve fare i conti anche con l’altra faccia della quotidianità. C’è da cucinare, apparecchiare la tavola, imboccare la figlia e magari tenerla in braccio, mentre la piccola socializza con la macchina fotografica con il suo dito grassottello.
IN QUESTI SCATTI in bianco e nero realizzati da Carla Cerati nel 1974 (Professione fotografa), conservati presso il CSAC, Centro Studi e Archivio della Comunicazione di Parma, la protagonista è Paola Mattioli (Milano, 1948) che fin dai tempi dell’università (studia filosofia con Enzo Paci laureandosi con una tesi sul linguaggio fotografico) si appassiona all’analisi dell’utilizzo del mezzo fotografico in chiave fenomenologica «sulla scorta del pensiero di Benjamin, di Sartre e soprattutto di Merleau-Ponty», come scrive l’autrice Cristina Casero nelle prime pagine della monografia Paola Mattioli. Sguardo critico di una fotografa (Postmedia Books, pp. 128, euro 16).
TEORIA E PRATICA – tanto più che per Mattioli fotografare è un atto critico, terreno di riflessioni e interrogazioni sul visibile (frutto anche degli stimoli nati dalla frequentazione, giovanissima, dello studio di Nini e Ugo Mulas), nonché presa di coscienza rispetto al contesto socio-culturale e politico più che rappresentazione di una presunta realtà – percorrono strade parallele.
Di questa interprete che si allontana dalla sudditanza all’unicità dell’attimo, del singolo episodio, che saprà adeguarsi ai tempi fotografando con la stessa disinvoltura sia con l’Hasselblad che con lo smartphone, sottolineando – piuttosto – l’importanza della sintesi (ne sono un esempio gli scatti che ritraggono Giuseppe Ungaretti, prima esperienza professionale rilevante per Paola Mattioli – il poeta nel 1970 aveva 82 anni e la fotografa 22 – che restituiscono «la variazione continua di una permanenza. È allegria e senso di morte») non sfugge la coerenza nel cogliere il dettaglio assecondandone il valore simbolico. È così già dai tempi di Immagini del no, realizzate con Anna Candiani ed esposte alla galleria «Il Diaframma» nel novembre 1974, che traducono visivamente l’inquietudine che attraversava la società civile nella Milano pre-referendum sull’abrogazione della legge sul divorzio.
Una narrazione «polifonica» per Arturo Carlo Quintavalle, autore di testo nel volume pubblicato da Scheiwiller che Martin Parr ha selezionato e rieditato nel cofanetto The protest box (Steidl, 2011). Ma tra i tanti momenti che attraversano il lavoro della fotografa, interprete innovativa anche della fotografia di moda e ritrattista di grande sensibilità (intensi i dittici dedicati alla scultrice senegalese Seni Camara dove il volto è associato alle sculture, così come quelli delle bellissime eredi delle Signares del periodo coloniale, oggetto anche del libro Mémoires d’Afrique, ultima tappa di una serie di viaggi in Africa fatti insieme a Sarenco) sicuramente il capitolo più entusiasmante è quello della sua militanza femminista.
NELL’INQUADRARE e ripercorrere la nascita e affermazione dei movimenti femministi (vengono citati Carla Lonzi, il gruppo Demau, Rivolta Femminile, Anne-Marie Sauzeau Boetti, Romana Loda e altre artiste come Marcella Campagnano, Valentina Berardinone, Elisabeth Scherffig e quelle del Gruppo del mercoledì: Bundi Alberti, Diane Bond, Mercedes Cuman, Adriana Monti, Esperanza Núñez e Silvia Truppi) è centrale la ricerca di un gruppo di fotografe (con Mattioli ci sono Anna Candiani, Carla Cerati e Giovanna Nuvoletti) che sarà oggetto della mostra milanese Dietro la facciata.
Paola Mattioli fotografa una donna di spalle, in cucina, mentre allunga il braccio per mettere il piatto nello scola piatti: «il suo volto riflesso nello specchio che diventa il punctum dell’immagine», scrive Cristina Casero, «Questo oggetto vezzoso diventa un segno e libera la donna – attraverso l’apparire della sua individualità determinata dalla specificità del viso – dalla categoria sociale della casalinga, che la imprigiona. Un riflesso, quindi, che apre una breccia nella superficie del reale».
(il manifesto, 26 agosto 2017)
di Alessandra Pigliaru
A partire da «Donna di parola», un saggio di Antonella Fimiani sulla scrittrice olandese
«Sono affidata a me stessa e dovrò cavarmela da sola. L’unica norma che hai sei tu stessa, lo ripeto sempre. E l’unica responsabilità che puoi assumerti nella vita è la tua. Ma devi assumertela pienamente». Quel 21 di ottobre del 1941 Etty Hillesum annotava in poche righe una delle grandi lezioni che avrebbe consegnato al Novecento, nell’Europa flagellata dal nazismo che da lì a poco più di due anni l’avrebbe condotta alla morte in un campo di sterminio. Di quell’affidamento a se stessa, lei che se n’è andata sulla soglia dei trent’anni, conosceva ogni singolo interstizio insieme a tutti i pericoli. Nonostante la solitudine sperimentata nei recessi materiali e spirituali di cui la condizione umana è provvista, sono state grandi e nitide le genealogie della scrittrice olandese, ebrea e poeta rara, che ha vissuto e perlustrato l’umano fin dentro la profondità del suo guscio fragile e sensuale, di bene e male.
MOLTO ERA IL MALE, conosciuto prima nell’anno a Westerbork e poi ad Auschwitz, esiziale l’odio e la furia assassina con cui – ne aveva piena contezza – da lì a poco si sarebbe consumata l’ecatombe. Eppure a leggere i suoi Diari(insieme alle Lettere sono editi da Adelphi), scritti nei tre anni precedenti il congedo definitivo dalla desolazione terrestre, a sollevarsi è una parabola del bene. Per niente paradossale, né un’apologia della bontà, questa fame di bene poggia su una forza instancabile di parole luminose, sull’istante abbacinante dell’aver pacificato il tormento di sé, a scansare il lutto di un «mondo inospitale». Senza riparo per il disastro, il compito a cui si autorizza Etty Hillesum è di raccontarne la realtà fenomenica per arrivare alla parte umbratile, meno visibile. Questo il centro della scrittura come tentativo supremo di mettere ordine anzitutto in se stessa e nel mondo che la frastornava.
Un’ostinazione lancinante, la sua; poi il corpo a corpo con la pratica della preghiera su un tappeto di cocco, insieme ai baci e alla breve nausea che la coglieva quando non riusciva a esprimere ciò che intendeva fermare sul foglio. Donna di parola. Etty Hillesum e la scrittura che dà origine al mondo (Apeiron, pp. 159, euro 12) di Antonella Fimiani è un interessante modo per fare ritorno a quel potente apprendistato. Con ferma dedizione, Fimiani consegna in cinque agili capitoli i temi principali della parabola di Hillesum.
L’AMORE, l’audacia di pensare il proprio tempo, la cova silenziosa di un indicibile che va tuttavia registrato e testimoniato. Da Dostoevskij a Rilke e Hannah Arendt, il corredo di colloqui era architettura di chi accetta il dolore eppure non vi si sa rassegnare. È in questo solco che incontriamo «la scoperta di un dio non relegato nella solitudine ma tracciato dalla relazione concreta con l’umano».
Così la scrittura «è un altro modo di possedere, di attirare le cose a sé con parole e immagini». Una questione di insaziabilità, non di altruismo, in cui arriva l’assunzione piena della responsabilità. Magistero semplice, dettato dall’intuizione formidabile che senza sporgersi verso gli altri e le altre si rimane nella cecità di un io autocentrato, drammaticamente inutile. È fame di bene il divenire «un cuore pensante» in un’epoca scellerata, complessa traiettoria resa da un’altura – prima ontologica che etica – per molte e molti irraggiungibile.
SCOPRIRSI VEDENTI nella ineluttabilità di una sorte, svettarne i confini materiali, toccarli tutti per tenere l’umano con sé e ammettere uno statuto ulteriore che quella realtà sia in grado di espandere; si potrebbero chiamare strategie di sopravvivenza, per Etty Hillesum erano la stoffa stessa del suo stare nel mondo.
Non c’è bisogno di superare se stessi, basterebbe accogliere ciò che si è, con grazia spiega anche questo Antonella Fimiani, seguendo il tragitto della scrittrice.
L’attaccamento primordiale alla relazione è il primo tassello ineludibile.
PRIMA DI CAPIRE l’impossibilità di amare un solo uomo, la mano di Julius Spier era ciò che le sosteneva le giornate. Grande e generosa, la sua mano non era solo un secondo volto – come prometteva la chirologia di cui si occupava il bizzarro psicologo junghiano – quando le carezzava i capelli o la stringeva a sé, era l’abbraccio di chi aveva deciso di crederle, certo meno ipnotico della bocca indisponente eppure esperta nel tessere i sogni di una donna della metà dei suoi anni. Come dalla mano di Dio da cui Etty immaginava di «rotolare melodiosamente», anche la mano dell’amante era sapientemente mobile. Disegnava giravolte e proiezioni, infinite e perturbanti; Spier, (S., così nominato nei Diari), era in fondo l’altra parte di Dio, perfetto congiungimento in un mondo altrettanto vulnerabile.
«E ORA CHE NON VOGLIO più possedere nulla e che sono libera – ammette, risolta – ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa». Un’interiorità così carnale che è difficile non cadere innamorati o perlomeno commossi, dalla prima all’ultima parola della giovane scrittrice olandese, stando davanti allo specchio in frantumi di un Novecento che custodisce tra i nomi più scintillanti quello di Etty Hillesum.
(il manifesto, 24 agosto 2017)
di Carlotta Cossutta
«Pensare, pensare dobbiamo. In ufficio, in automobile, mentre tra la folla osserviamo l’incoronazione, mentre passiamo accanto al monumento dei caduti, mentre percorriamo Whitewall, mentre sediamo nella tribuna riservata al pubblico della Camera dei comuni, dei tribunali, ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali. Non dobbiamo mai smettere di pensare: che civiltà è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie e perché dovremmo prendervi parte? Cosa sono queste professioni e perché dovremmo diventare ricche esercitandole?».
Queste righe de Le tre ghinee di Virginia Woolf, citate da Tristana Dini in La materiale vita, potrebbero segnare il tono di tutto il ricchissimo testo, che invita a pensare e ripensare agli intrecci tra biopolitica e differenza sessuale.
Questo libro prende le mosse – e il titolo – da un progetto iniziato da Tristana Dini con Angela Putino, che purtroppo non ha avuto il tempo di svilupparsi, ma di cui restano tracce importanti nell’impostazione del discorso e nell’approccio ai temi trattati.
Il centro del progetto è quello di analizzare insieme biopolitica e femminismo in un duplice senso: da un lato, infatti, si tratta di osservare la biopolitica con le lenti del femminismo, per metterne in luce aspetti che altrimenti rimarrebbero in ombra, dall’altro, viceversa, si osserva il femminismo a partire dalla biopolitica, per indagarne reazioni, resistenze e complicità.
Entrambi i termini che pervadono questo testo – femminismo e biopolitica – sono carichi di storia e di significati diversi. È bene precisare, perciò, che Dini utilizza femminismo con la consapevolezza della varietà di teorie e prospettive a cui rimanda, ma sceglie di fare riferimento soprattutto al “pensiero delle donne” e al “pensiero della differenza sessuale” che usa quasi come sinonimi per riferirsi alla libertà femminile che si inaugura asserendo che «ogni donna pensa», pur nell’unicità delle teorie e delle posizioni che scaturiscono da questo pensare.
Allo stesso modo anche biopolitica è ormai un termine saturo: nell’ultimo decennio si è affermato nel dibattito pubblico perdendo alcuni caratteri di specificità e finendo per indicare ogni momento in cui vita e politica si incontrano. Questo testo, però, affronta il tema della biopolitica a partire da un punto di vista molto preciso, che separa nettamente biopotere e potere sovrano, vedendo nella loro unificazione uno sguardo maschile che, non riconoscendo una frattura, rafforza il potere patriarcale. Al contrario, secondo Putino e Dini, la biopolitica sarebbe in relazione con una forma di potere materno, oblativo e di cura, di cui enfatizza e perverte molti dei tratti: «in questa chiave, della biopolitica in quanto cura, è possibile fornirne una lettura come derivazione dalla sfera delle competenze materne in opposizione al potere sovrano che rientra nell’ambito dell’ordine simbolico del padre (e si realizza nella sfera del diritto)» (p. 77).
La consapevolezza di questa derivazione materna del biopotere è un pensiero perturbante per il femminismo, ma proprio per questo è anche necessario indagarne a fondo le implicazioni.
Dini sviluppa questa indagine suddividendo il testo in tre parti: la prima intitolata La differenza bio-politica, la seconda Vita sacra e la terza Per una politica della vita materiale. La prima parte prende in esame la concezione della biopolitica di un’uguaglianza intesa come appartenenza dell’essere umano ad una specie; intesa in questo modo essa può essere vista come l’affermazione del sociale, in cui gioca un ruolo fondamentale più la norma che la legge. In questo quadro il femminismo svela l’astrattezza dell’universalismo e dell’uguaglianza che ne consegue: le donne mostrano la loro esclusione e tentano di sovvertirla, facendo dei tratti che le condannano ad essere fuori dalla scena politica degli elementi di valorizzazione – si pensi all’enfasi sulla maternità come ruolo politico che pervade le prese di parola delle donne nel XIX secolo. Questa strategia impiglia le donne in un paradosso doloroso – rivendicare l’inclusione proprio attraverso le forme grazie a cui si viene escluse – che viene scardinato dal femminismo della seconda ondata, capace, secondo Dini, di uscire da queste strette maglie grazie al pensiero della differenza.
Per mostrare questo movimento Dini sottolinea come la differenza sessuale sia da sempre presente nel pensiero occidentale: dapprima nella “retorica” della misoginia, poi come “metafora” utilizzata da tutti quei filosofi della differenza (vengono citati Derrida, Deleuze e Nancy) che fanno dell’essere donna un sinonimo del processo di decostruzione del logocentrismo.
Dini sottolinea come queste concezioni siano il cuore polemico della sovversione femminista, ribadendo che, al contrario, la differenza di cui parla il femminismo sia una differenza ancora tutta da realizzare e che emerge in diverse critiche mosse all’ordine simbolico del padre e al suo fondamento edipico. Inoltre, nel testo si mette in luce come questo gesto anti-edipico costituisca anche il punto di partenza per le teorie queer, quasi a suggerire un’alleanza con il femminismo della differenza spesso ritenuta impossibile nel dibattito italiano. Il pensiero della differenza femminista si caratterizza, in questo senso, per la consapevolezza della sessualità come di un luogo primario di potere spesso invisibile. Questa concezione, però, si intreccia con l’attenzione alla sessualità che caratterizza la biopolitica e che modifica la concezione della differenza in chiave biologica, mantenendo le differenze, ma nascondendone la dimensione di inclusione ed esclusione sotto una presunta naturalità. Proprio qui si mostra uno dei nodi del testo, che si interroga su come il femminismo possa reagire alla biopolitica pur condividendone alcuni luoghi: «in questa chiave Putino legge l’evento della libertà femminile all’epoca della biopolitica: sul piano propriamente biologico-politico, in cui la differenza funziona come segmentazione del continuum biologico e la differenza sessuale, insieme a quella etnica, dà corso a nuove gerarchie, impone funzioni, produce identità, si può sottrarre la teoria evoluzionista alle maglie del governo della specie e restituirla al rango di gai savoir» (p. 52).
La seconda parte del testo prende in esame il legame tra vita, sacro e politica, mostrando come una maggiore sacralità della vita corrisponda anche ad una sua maggiore esposizione ai rischi di morte: la tanatopolitica, infatti, non sarebbe altro che il reciproco della biopolitica. Dini passa in rassegna le teorie di Agamben, che legano biopolitica e sovranità, e quelle di Esposito, che enfatizzano la dimensione della comunità, per evidenziare come in entrambi si perda una specificità attribuita da Foucault alla biopolitica: la coimplicazione di questa con l’emergere della biologia come scienza, una convergenza non solo temporale, ma anche strutturale. Il testo poi analizza le riflessioni di Kristeva, Weil, Butler e Cavarero per mostrare modi diversi di illuminare aspetti diversi della nuda vita, del malheur o della vulnerabilità che caratterizzano il vivente e che possono ottenere come reazione due forme differenti di potere: quello sovrano basato sull’uccidibilità e il biopotere basato sulla cura. Ed è qui che si inseriscono le riflessioni di Putino sulla contiguità tra femminismo isterico e biopolitica a cui rispondere con la capacità di rimettere al centro il desiderio e l’eros, che permette una via d’uscita dall’amore come cura per aprire a pratiche differenti.
Questa invocazione a Eros ci introduce alla terza parte del libro, che approfondisce questo tema mettendo in luce come la biopolitica si caratterizzi per una forma di governo della specie che agisce tramite il desiderio e non attraverso la coercizione. In questo senso il femminismo è un luogo privilegiato, poiché allo stesso tempo spazio di possibile cattura, ma anche terreno di resistenza, grazie alla centralità che accorda al linguaggio, alla sessualità e al simbolico nella pratica e nella teoria politica. Ma perché la contiguità si trasformi in resistenza bisogna tenere presente che «nel momento in cui la governamentalità neoliberale espone il femminismo ad un pericolo insidioso perché, avendone assunto alcune istanze, rischia di neutralizzarne le pratiche e la presa teorica sul presente, occorre ritornare ai punti non assorbibili, non assimilabili, non addomesticabili del femminismo per rilanciarlo, e per smarcarsi in maniera chiara dalla convergenza con la traiettoria neoliberale» (p. 106).
Emerge, qui, un’ulteriore rischio: quello che il femminismo diventi strumento del neoliberismo, che si caratterizza per una costante valorizzazione delle soggettività e delle loro differenze.
Per scongiurare questo pericolo, Dini suggerisce di ripartire dalle zone d’ombra del neoliberismo, dal godimento che sfugge ad ogni logica prestazionale. Il testo riconosce la progressiva scomparsa della sessualità dal femminismo italiano, un movimento che troverebbe origine nella precauzione di non far coincidere politica delle donne e identità sessuale. Questa scomparsa, però, tende a rendere il femminismo stesso – forse sarebbe più corretto dire: una parte del femminismo – incapace di leggere in profondità l’attuale nesso tra potere e sessualità. Per reagire a questa incapacità La materiale vita ci spinge a tornare a domandarci cosa desideriamo, intendendo il desiderio come eccedenza e non come imperativo neoliberale al godimento. Si tratta, quindi, di un desiderio che non rimanda ad un’autenticità, ma ad una creatività del sé, ad una capacità di fare dell’etica una pratica.
Se il femminismo, quindi, può essere letto come una critica alla distinzione tra bios e zoè, che passa dalla messa in discussione della distinzione tra natura e cultura, Dini propone di stare nella contraddizione tra i due termini: una postura che potrebbe permettere di evitare le maglie strette dell’adesione totale alla tecnica o ai richiami arcaici all’autenticità. Alla fine del ricco viaggio che il testo propone, capace di una lucida analisi dei limiti del pensiero della differenza, rimane la consapevolezza che il femminismo non solo possa ancora essere un motore di resistenza, ma anzi, proprio per le sue contiguità con le forme di potere presenti, si riveli una pratica in grado di sovvertirne i meccanismi, mettendo al centro i corpi come luogo dell’inaspettato che sfugge le norme biopolitiche. Perché, però, questo sia possibile è necessario guardare ancora e di nuovo nell’abisso in cui si intrecciano tra femminismo e biopolitica: un gesto che ha poco di rassicurante ma può aprire a nuovi e imprevisti orizzonti.
Tristana Dini, La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale,
Mimesis, Milano, 2016, pp. 156
da About Gender Vol. 6 N° 11
di Maria Giovanna Piano
Negli antichi poemi epici, quelli che abbiamo studiato a scuola, viene sempre il momento in cui l’eroe è invitato a raccontare la propria travagliata storia. Lo fa davanti alla mensa imbandita in suo onore, l’onore che si rende all’ospite, allo straniero, anche quando nulla si sa di lui. Così Ulisse ad Alcinoo, così Enea a Didone: iubes renovare dolorem.
Anche Stefania Giannotti nel suo straordinario libro Troppo sale, un addio con ricette, edito da Feltrinelli, miscela cibo e doloroso racconto.
In questo caso però, a dispetto dei precedenti letterari che l’autorizzerebbero tutt’al più a piangere e raccontare insieme, lei racconta e insieme cucina.
Lo aveva già fatto in un saggio precedente: “La cucina è una fissazione”, in cui si allude a una storia che attende di essere narrata: “…dormivo con le foto sotto il cuscino di una mia pena che non racconto nei dettagli, perché ancora non ho trovato il modo” (Cuoche varie, Fuochi. La cucina di Estia, a cura di Liliana Rampello, Libreria delle donne, Milano 2014).
Un’attesa durata 25 anni, tanto ha preteso quella pena incommensurabile e incomunicabile che fin da subito trova nell’obbedienza che si deve all’irrimediabile, il suo senso profondo e, nel conseguente cammino, le parole per dirlo.
Un percorso sui generis, senza riverbero di retorica, che abbraccia d’istinto tutto ciò che dà misura.
C’è un coro di donne nella tragedia raccontata, e non è chiamato a dare consolazione, ma a salvare la vita. Primum vivere, mai risuona così irresistibile come in presenza della morte. E allora nessun corpo a corpo con il dolore, più semplicemente occorre non smarrirlo né perderlo di vista per troppa vicinanza. Serve una mediazione che restituisca la distanza giusta, una passione creativa, una cucina relazionale che si apra alla politica, una cucina della memoria, capace di fare spola mantenendo sempre lo stesso fuoco: il fuoco di Estia, attorno al quale è bello dissertare insieme “talvolta in accordo talvolta in disaccordo”.
Le portate espresse in 80 ricette sono la sosta utile al respiro di ogni sequenza narrativa, sono la stazione che ripara ciò che il ricordo potrebbe, per insostenibile lucidità, lacerare ancora. Per tenere insieme dolore della perdita e cibo bisogna avere una profonda cultura della trasformazione che riproponga nei gesti di una stessa esperienza i riti delle relazioni, soprattutto femminili, il passaggio antropologico dal crudo al cotto, la variazione delle combinazioni, e quel ripetuto portare alla bocca di ciò che ci attraverserà il corpo, diventando per decisiva alchimia, vita pura. È questa vita che abbiamo in sovrabbondanza, più di quanto possiamo sopportarne si potrebbe dire parafrasando Marilynne Robinson, è questa vita che deve vedersela con la perdita più dolorosa, quella che rischia di trascinarti giù giù e ancora giù nello stesso punto dell’abisso che ha crudelmente inghiottito la creatura amata. Cara agli dei, più cara alla madre.
Il titolo va preso alla lettera: Troppo sale. Troppo è quando qualcosa su cui non abbiamo potere si avventa su di noi, lasciandoci inermi, ferite/i, e sarebbe a morte se non fosse per la vita stessa. Da un 25 Agosto ormai lontano, ci arriva l’ansia di corpi bagnati di mare e l’immagine dell’adolescente deposto tra le braccia della madre ci restituisce per un istante una deposizione destinata chissà a immobilizzare per sempre quell’abbraccio in un unico blocco di sale. Troppo sale… sulla ferita, ma proprio dai cristalli di quel sale viene la scrittura perfetta, nitida e intensa che senza nulla concedere al lirismo, scansiona la vita in versi mostrando ciò che si può fare del dolore quando non si fugge il ricordo né lo si trasforma in simulacro.
Stefania Giannotti ci mostra per tutto il libro che è possibile riposizionare la morte nel luogo più soleggiato ossia più esposto alla vita, e che una donna può avere sufficiente forza e competenza di civiltà per sciogliere quel blocco e far rivivere ciò che rischiava di rimanere pietrificato. Lei del condimento conosce la giusta misura, che per il sale, come per la vita, è quanto basta.
(Facebook, 18 aprile 2017)
Consigli di lettura di Rosaria Guacci e Liliana Rampello
Itinerario nella nostra lingua madre (leggere fa bene)
di Rosaria Guacci
Molte delle migliori autrici italiane presenti oggi nel mercato librario mostrano una chiara filiazione rispetto ad alcune grandi scrittici del nostro recente passato letterario. Sopra tutte, fanno da modello per trame, stile, ispirazione, anche invenzioni Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Madri riconosciute, vengono prima – sono venute prima – e il legame con loro istituisce una genealogia. Di Morante e di Ortese e delle eredi letterarie più prossime, da Donatella Di Pietrantonio, Wanda Marasco e altre ancora, passando da Fabrizia Ramondino per arrivare a Elena Ferrante, il breve scritto a seguire traccia una bibliografia essenziale. Sarà possibile nel mese di luglio acquistare alla Libreria delle donne i loro libri, non facilmente trovabili altrove, con lo sconto del 10%.
Due fra i maggiori premi letterari italiani, il Campiello e lo Strega, ci segnalano che cinque scrittrici, finalmente, ce l’hanno fatta. I loro romanzi vengono messi a conoscenza dei lettori più attenti e segnalati come i migliori tra i pubblicati dell’ultima stagione letteraria. Teresa Ciabatti (La più amata, Mondadori) e Wanda Marasco (La compagnia delle anime finte, Neri Pozza) sono state selezionate nella cinquina che corre per il Premio Strega; Alessandra Sarchi (La notte ha la mia voce, Einaudi), Laura Pugno (La ragazza selvaggia, Marsilio) e Donatella Di Pietrantonio (L’arminuta, Einaudi), in quella del Campiello. Da tempo si sa che all’interno di un pubblico di lettori scarno come quello italiano sono le donne le lettrici più forti. Così come sono sempre le donne che scrivono a essere le più acquistate, ma nel rush finale mancavano, o quantomeno scarseggiavano, i premi a pregiarle. Ora, con buona evidenza la tendenza è cambiata. Come libraie della Libreria delle donne di Milano non possiamo che essere contente di questo risultato che ha un valore simbolico e un altro ben concreto. Significa aumento di visibilità anche nei termini di vendita e acquisto: ne beneficiano sperabilmente i libri delle donne in generale per l’aumentata circolazione di interesse. E torno a tre delle scrittrici che ho nominato. Ciabatti, Moresco, Di Pietrantonio, in compagnia di altre ancora tra le migliori del panorama letterario italiano, mostrano una chiara filiazione rispetto a madri eccellenti. Un riconoscimento presente nelle trame dei testi, nello stile, senz’altro nell’ispirazione, alle opere di alcune grandi di metà Novecento. Quelle che sono venute prima; sopra tutte Elsa Morante e Anna Maria Ortese.
In Morante la lotta fra immaginario e il reale è un tema chiave; l’altro presente in entrambe, in ognuna declinata a suo modo, è la passione per il mito. Con in più, in Ortese, la presenza di un territorio d’origine misterioso e fatale che influenza, con la sua oscura necessità, i personaggi. La storia di Edipo, la cui nascita è avvolta nel segreto, ci racconta che, uomo fatto, potrà conoscersi solo tornando alla sue prime radici: il futuro ripercorre le orme del passato e il tempo del mito è il tempo ciclico della ripetizione. È questo il meccanismo narrativo di L’isola di Arturo, Aracoeli, L’Iguana, riproposto anche in La più amata di Teresa Ciabatti. Chi sei tu, padre, e come posso afferrarti sottraendoti al mistero che ti avvolge? La domanda battente dell’io narrante, una giovane donna, che è poi il vero pregio del testo, avvicina il romanzo al morantiano L’isola di Arturo (ma qui siamo a Orbetello, e non a Procida) e volendo tener buona l’analogia troveremmo lo stesso ansioso interrogativo del bambino Arturo sull’identità paterna.
Donatella Di Pietrantonio introduce una variante del mito e la centra sulla figura materna; qui, del mito, muta la classica rappresentazione ma non la potenza. Cambia anche il paesaggio che è quello del mare e dei monti d’Abruzzo. Nel romanzo l’enigma dell’identità sconvolge la vita a una ragazzina di tredici anni, riconsegnata senza un chiaro motivo dalla famiglia adottiva alle sue miserabili origini. Stesso scenario, ugualmente violento, nella Compagnia delle anime finte di Wanda Marasco. Qui la storia s’incentra sul legame tra una figlia e una madre detentrice di una grande potenza immaginaria in contrasto con la sua miseria reale. L’ambiente è quello guasto e disperatissimo di Napoli, descritto col dialetto dei suoi “bassi” che è una lingua con leggi sue proprie. Siamo di nuovo in presenza dei temi forti di Morante e Ortese: la mezz’ombra tra ciò che si sogna e ciò che è vero, la narrazione dell’infanzia, la capacità di agganciare la propria vicenda personale alle sorti collettive. Si dovrebbero rileggere queste due grandi apripista ricostruendo i nessi che conducono dall’una all’altra, e da entrambe forse al meglio della letteratura italiana femminile. Su questa strada incontriamo Fabrizia Ramondino arrivando fino a Elena Ferrante. Un pensiero, e la necessaria citazione, vanno ancora alle grandi dimenticate dal canone letterario del nostro Novecento italiano: «scrittrici del calibro di Paola Masino, Alba de Céspedes, Anna Banti, Gianna Manzini, Dolores Prato» come ricorda sull’Huff Post del 22/7/2016 l’italianista Annalisa Andreoni. «E bisognerebbe scrivere, finalmente, una storia del romanzo italiano del secondo Novecento che segua le fila dei percorsi narrativi femminili in una prospettiva d’insieme e definisca il ruolo dell’ottima letteratura che le donne hanno dato all’Italia.» Di queste e molte altre autrici abbiamo in Libreria i romanzi difficili da trovare altrove. Nel mese di luglio potrete acquistarli con lo sconto del 10/%. Ne do qui una bibliografia essenziale. (Rosaria Guacci)
Bibliografia:
Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori
Wanda Marasco, Anime finte, Neri Pozza
Donatella Di Pietrantonio, L’arminuta, Einaudi
Laura Pugno, La ragazza selvaggia, Marsilio
Alessandra Sarchi, La notte ha la mia voce, Einaudi
Elsa Morante, L’isola di Arturo, Einaudi
-, Menzogna e sortilegio, Einaudi
-, Aracoeli, Einaudi
-, Il mondo salvato dai ragazzini, Einaudi
-, Lo scialle andaluso, Einaudi
-, La storia, Einaudi
-, Pro e contro la bomba atomica, Adelphi
-, Menzogna e sortilegio, Einaudi
Anna Maria Ortese, L’Iguana, Adelphi
-, Alonso e i visionari, Adelphi
-, Il Cardillo addolorato, Adelphi
-, Il porto di Toledo, Adelphi
-, L’infanta sepolta, Adelphi
-, Il mare non bagna Napoli, Adelphi
-, Poveri e semplici, Vallecchi
-, La lente scura, Adelphi
Fabrizia Ramondino, Storie di patio, Einaudi
-, Althenopis, Einaudi
-, Passaggio a Trieste, Einaudi
-, Taccuino tedesco, Nottetempo
Elena Ferrante, L’amica geniale, quadrilogia, e/o
-, L’amore molesto, e/o
-, I giorni dell’abbandono, e/o
-, La frantumaglia, e/o
Anna Banti, Artemisia, Se Studio editore
-, Quando le donne si misero a dipingere, Abscondita
AA.VV., Alba De Cespedes, Il Saggiatore
Gianna Manzini, Autoritratto involontario, La Tartaruga
-, Cielo di Pistoia, Via del Vento
Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Quodlibet
-, Sogni, Quodlibet
-, Scottature, Quodlibet.
Breve itinerario americano
di Liliana Rampello
Per l’estate propongo questo itinerario fra le scrittrici americane, romanzi e racconti di ottima scrittura, di diverso stile, di tempi e di aree geografiche che molto ci fanno intendere delle differenze e dei contrasti di questo grande paese, e ci aiutano a capire, attraverso le loro atmosfere e i loro personaggi, anche il clima culturale attuale.
Flannery ‘O Connor, Tutti i racconti
-, Il cielo è dei violenti
Josephine Johnson, Ora che è novembre
Eudora Welty, Una coltre di verde
Carson McCullers, La ballata del caffè triste
-, Riflessi in un occhio d’oro
Vivian Gornick, Legami feroci
Willa Cather, I racconti di Pittsburgh
-, Il mio nemico mortale
-, La mia Antonia
Mavis Gallant, Piccoli naufragi
-, Al di là del ponte e altri racconti
-, Varietà di esilio
Susan Glaspell, Una giuria di sole donne
Joan Didion, Prendila così
-, Run river
-, Miami
Joyce Carol Oates, Il giardino delle delizie
-, Una famiglia americana
Alice McDermott, Il nostro caro Billy
-, Qualcuno
Sara Taylor, Tutto il nostro sangue
Siri Hustvedt, Quello che ho amato
-, L’estate senza uomini
- M. Homes, Jack
-, Musica per un incendio
-, Los Angeles
Marylinne Robinson, Le cure domestiche
-, Lila
Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti
Emma Cline, Le ragazze
Anne Tyler, Elizabeth Strout, Alice Munro… qualsiasi cosa.
(www.libreriadelledonne.it, 1° luglio 2017)
di Liliana Rampello
Troppo sale è un libro raro. Raro per bellezza, intensità, per quella leggerezza che nasce dagli interstizi disseminati là dove gli strati del sentire sono veramente profondi.
La scrittura è scabra, scarna, controllata, ridotta all’essenziale perché il dolore sia detto, sia detta l’emozione, il sentimento, una sorveglianza continua che evita di scivolare, scadere nel sentimentalismo. È proprio questo esercizio saldo, sicuro, lento, che stupisce per una maestria linguistica per nulla frequente; sorprende infatti che un’autrice di pochi libri (ricordo solo il più importante, Zucchero a velo, La Tartaruga 1990) sia riuscita a fare un salto così deciso, senza passaggi intermedi, segno anche questo dell’urgenza autentica delle parole che leggiamo, della loro inesorabilità.
Il libro ha un innesco preciso e unico: la morte del figlio, quell’esperienza che indicibile, irrimediabile, lacera la carne e ci lascia mute. Ne conosciamo bene l’iconografia, l’immagine che tutte abbiamo visto mille volte, con poche varianti. È la Pietà, la madre con il figlio morto fra le braccia. La incontriamo, questa immagine, così come lei stessa la trova in un appunto di molti anni fa: “Della morte me ne intendo. Quando mi ritrovai mio figlio tra le braccia, venuto su dal mare bagnato e pallido, sentii Dio nel suo ultimo respiro. Nell’ultimo respiro, non nel primo vagito, che consegna e trascina alla vita, tra le cose sensibili di cui tutto vuoi sapere. È nell’ultimo respiro, che patisci e va, non sai dove…”
Con questo libro Stefania Giannotti dà parola a quell’immagine muta, a quella donna-madre, e racconta l’indicibile. Una sfida immensa, una sconfitta del tutto vinta, ha imparato a dire, e ora lo insegna a chi legge, a tutte e tutti. Ha camminato nel vuoto, nel silenzio o nel fragore della vita degli altri, sempre in equilibrio instabile (“Gira e rigira sono sempre in un instabile equilibrio. O in cucina”), proprio per imparare come si può raccontare l’estremo della vita, che non è la morte, ma la vita che resta. Il resto di vita, della vita, non la sopravvivenza. Quello che lei scopre, e ci fa scoprire, è “l’immensità dell’esistere”. La scoperta di quello che possono donare “mancanza, perdita e assenza”: l’eterno; e lo riporto come lo ha afferrato lei, perché ogni sua parola è momento di meditazione, “Trattare con rispetto e cura la mancanza, la perdita, l’assenza anche se con indifferenza prendono e non restituiscono mai nulla. Inutile è ribellarsi. Pericoloso tuttavia è farci l’abitudine. Eppure è irresistibile affondarci” […] È allora, quando nel loro mare affondi e dallo stesso riemergi, è allora che le tre alleate, mancanza perdita e assenza, mostrano e donano improvvise e impreviste rivelazioni. C’è un buco nel nulla e ci si può guardare attraverso. C’è qualche crepa da cui passano cose, quando la quotidianità inciampa e interrompe il suo ritmo arriva qualcosa, può essere piccola, può essere anche l’eterno”.
Questo libro che preme da tutte le parti si fa strada con la vita stessa, con l’urgenza delle cose che non mettono fretta perché sono inevitabili. Questo libro è necessario a lei e a noi, mostra cosa scopre il dolore, mostra la meraviglia intangibile e inaspettata di questa scoperta. (In questa stessa direzione si era inoltrato un altro magnifico libro, L’anno del pensiero magico, di Joan Didion.)
Troppo sale è diviso in tre parti ineguali, la prima è fatta di ventinove segmenti, è l’accadere dell’accaduto; la seconda è di sei segmenti, dice il lavoro da fare per “andare indietro senza restare indietro”; la terza è di soli due segmenti, uno è il dialogo divertentissimo con il dott. di Salle, l’altro è l’Ora, o l’adesso, l’ancora. Tutte le sezioni sono scandite da numerose ricette che non sono né un’aggiunta, una furbizia serva dei tempi, né una stravaganza, Stefania è un’ottima cuoca e ha tenuto a lungo un ottimo ristorante, né una fissazione eccentrica, se mai una libera fissazione. Le ricette rivelano “un passaggio di realtà”, perché nutrire si accompagna alla morte e alla vita e lei, in cucina, riesce a riconoscere la sconfitta, a resistere pacificamente (e fisicamente) all’accadere della vita. Le ricette allora, così inframezzate, diventano una vera e propria invenzione narrativa, sono il battito preciso dell’emozione, sono il battito dell’emozione che si calma (per lei e per noi). Questo battito tra le righe è il battito del respiro, del cuore, simile al levare in musica; le ricette sono una pausa necessaria per rallentare e ripartire. La stessa funzione che in questa scrittura ha la punteggiatura, se la seguiamo respiriamo diversamente.
Il tempo del libro è multiplo e sempre improvviso, scorre a partire dalla perdita irrimediabile, ma non segue la cronologia (di cosa poi?); va avanti e indietro, con continui, insorgenti anacronismi, all’inseguimento di un amore che è per sempre e di un nuovo modo di amare che ricomincia nell’amore indiviso. Scoprire che la massima povertà è ricchezza, che tutto si fa con poco, con il niente che comunque resta, che è il resto della vita.
Ecco, qui diventa chiara anche tutta la politica e il femminismo che abbiamo amato in questo libro. Raccontato da dentro e dal fondo del corpo di un’esperienza vissuta che ha sapientemente cercato e trovato le parole per dirsi. Slegandosi da ogni formula immiserente, da ogni vacua ripetizione. Partire da sé, per scoprire l’altrove, ascoltarsi per non tradirsi, accettare la paura del silenzio e del vuoto, lavorare duramente all’essenziale per poterlo riconoscere e saturare. Nelle pagine arrivano le donne, a Milano quelle del Cicip&Ciciap, quelle della Libreria, e poi tante altre che sono lì, sono la leva di forza di un’esistenza, non permettono la caduta ma ricostituiscono il senso, lo ricuciono facendosi mondo. Ecco un femminismo vivo e vitale, allegro e accogliente, severo ma capace di fare legame, di indicare i punti di appoggio. Stefania lo sa, lo riconosce, lo prende, lo usa e lo restituisce con molto amore, ora, qui, tutto. Alla fine il dolore diventa pacifico. Dà pace, si dà pace.
Un’ultima cosa non posso tacere, ed è il dono reciproco che questa madre e questo figlio si sono fatti, lo scambio di incommensurabile dolcezza che abita ognuna di queste pagine. Lei ha accettato la fatica sfiancante di questo scrivere e così lo sottrae alla sua morte, lo lascia adolescente per sempre nella vita che ogni lettore gli restituirà; lei ha trovato il suo rimedio all’irrimediabile, ha fatto la sua nekuia, è andata nel profondo del suo stesso inferno ed è ritornata in vita, alla vita, riportandone il figlio, incontrandolo di nuovo con parole ripulite, limate, oneste, fedeli. Lui le ha donato la verità della scrittura, quella verità che fa rara la scrittura, un dolore da non dissipare perché indica la potente libertà dell’esistere; lui ha fatto della madre una scrittrice.
(Leggendaria 123, maggio 2017)
di Alessandra Pigliaru
JANE AUSTEN. L’autrice di «Orgoglio e pregiudizio» ha incantato intere generazioni con l’ironia della sua scrittura. Tra biografia e critica: un numero della rivista «Leggendaria» e «Alla ricerca di Mr Darcy»Per il bicentenario della morte, numerose iniziative. E a luglio alla Casa Internazionale delle Donne di Roma
Lingua immortale, stile altrettanto imperituro, Jane Austen si è guadagnata il posto della «più perfetta artista fra le donne» – come ebbe a definirla Virginia Woolf. E da lì è difficile spodestarla, nonostante goffi tentativi di chi ancora – sempre meno, per fortuna – si incaponisce a immaginarla come una pausa leziosa e irrilevante all’interno della letteratura.
In realtà, i giuramenti di perpetuo amore e di aspra ritrosia che questa «signorina» produce sono così estremi perché è complicato misurarsi con la compiutezza; l’eternità, di linguaggio e stile, deriva in larga parte da questo dato inoppugnabile. «Ma alla fine, quello che davvero conta è che leggere Jane Austen è un piacere, rileggerla una felicità». Lo spiega bene Anna Maria Crispino nel nuovo numero della rivista Leggendaria di cui le prime trenta pagine sono dedicate interamente alla «magnifica Jane», «perché c’è qualcosa di inafferrabile nelle sue storie che chiama chi legge a entrare direttamente nel gioco del detto e del taciuto – o del solo accennato».
Biografia, critica letteraria e articoli a tema, il numero 123 di Leggendaria si distanzia dal mero omaggio e tiene il bandolo del percorso complesso che da più di due secoli unisce e divide appassionati lettori e lettrici.
IL 18 LUGLIO saranno infatti 200 gli anni che ci separano dalla scomparsa della brillante e appartata autrice di Orgoglio e pregiudizio (1813), mai sposata che pure con tanta sapienza scrisse a proposito del contratto matrimoniale. Per l’occasione si intensificano le iniziative per ricordarla (come a Roma, alla Casa Internazionale delle Donne, che all’interno della rassegna «La casa (S)Piazza» – dopo l’anteprima del 10 giugno – il 3, 6 e 17 luglio dedicherà tre serate alla scrittrice inglese). Eppure, folte schiere di «Janeites» (si chiamano così i seguaci di Austen) si sono già diffuse nel mondo intero, rappresentando al meglio la gratitudine verso la propria scrittrice del cuore: ardore amoroso per i suoi romanzi, le sue ragazze e finanche lei stessa. Hanno fondato società scientifiche di studi (Jasit è quella italiana), riviste, blog, organizzato raduni e viaggi.
È proprio nel doppio passo, incantevole e struggente, di una tale sporgenza che si colloca anche la pubblicazione di un volume tanto piccolo quanto denso, scritto da Giovanna Pezzuoli dal titolo eloquente Alla ricerca di Mr Darcy (iacobellieditore, pp. 115, euro 12). Quando Elizabeth Bennet, rinunciando al suo pregiudizio, ne sperimenterà l’intramontabile charme e lui, a sua volta, si libererà dal suo orgoglio per aprirsi a un amore appassionato, il capolavoro sarà concluso. Ma come mai, si chiede Pezzuoli, questo uomo di altri tempi ancora affascina generazioni intere? La risposta si dipana nei quattro capitoli del libro percorrendo la postura rattenuta e al contempo da «anti-seduttore» di questo signore con una rendita da diecimila sterline all’anno.
CON IRONIA talmente affilata da renderla inimitabile, nel gioco relazionale costruito da Jane Austen dal 1811, anno di Ragione e sentimento fino a Mansfield Park (1814), Emma (1815), (L’abbazia di Northanger e Persuasione verranno pubblicati postumi), la domanda che si impone è perché mai la piccola creatura cresciuta in un villaggio dello Hampshire susciti ancora oggi così grande consenso. Puntellata di consistenze è la fisionomia disegnata dalla scrittrice, dal tripudio dei sensi di cui racconta in un luogo simbolico d’elezione come il ballo, ai diletti della conversazione tra donne e tra donne e uomini fino alle stesse descrizioni dei riti sociali e della differenza di classe che precipitano o si equlibrano grazie alla moneta sonante e alla libera scelta. Se oggi elementi come il ballo, la sensualità, insieme alla indagine sulla felicità e l’economia delle relazioni, circolano accanto al nome di Jane Austen, lo dobbiamo a Liliana Rampello (di cui si può leggere un’intervista proprio nel numero di Leggendaria) grazie alla pubblicazione del suo decisivo Sei romanzi perfetti, edito per Il Saggiatore.
Sgranati alla luce della grande mole di lavoro di cui siamo ormai provvisti, gli articoli contenuti nella rivista sono bussole originali all’interno di un universo multiforme: dal contributo di Crispino a quello di Mara Barbuni, autrice di un altro recente e bel libro, Le case di Jane Austen (Flower-ed., pp. 180, euro 15) che ci porta da Chawton a Norland, a Barton Cottage, Pemberley, Kellynch Hall e altre residenze. Così Barbara Mapelli; e poi ancora Loredana Metta che assume il punto di vista musicale nei romanzi austeniani, Marina Vitale si concentra sul giudizio di Wystan H. Auden che scrisse di lei che al confronto Joyce era innocente come l’erba. O ancora Alessandra Quattrocchi e Daniela Matronola che si concentrano, seppure con diverse declinazioni, sull’attualità di Anne Elliot, protagonista di Persuasione. Infine la parodia del romanzo gotico, e non solo, tratteggiata con sapienza da Paola Bono. Classica e insieme icona pop a ogni latitudine, ad Austen si dedicano continuamente riscritture, film, serie tv e graphic novel, lo raccontano Sara Bennet e Maria Vittoria Vittori.
Tutto questo interesse è forse il risarcimento che l’universo desidera riconoscere a chi è stata oggetto di vari (e spesso imbarazzanti) giudizi di molti esimi colleghi a lei coevi e non solo? Oppure può essere per l’assoluta rispondenza di verità e leggerezza con cui le sue protagoniste si sottraggono alla sventura per restare tenacemente ancorate alla corposità della gioia?
CHI LEGGE OGGI Jane Austen, o la rilegge periodicamente trovando sempre aperto lo scrigno prezioso di quel divertimento della ragione e della sensualità intera, sa di poter bussare alla porta di una maestra di orientamento. Una maestra generosa che non bara. Dalla decifrazione della commedia umana, provvista di bagliori e chiaroscuri, fino alla intuizione della danza come superba allegoria della desiderabilità e della contrattazione tra i sessi, ad affiorare è la configurazione del godimento lontana anni luce dalla prestazione agonistica a cui sovente capita di essere condannati – già solo questo potrebbe essere un motivo più che valido per accostarsi ai suoi libri. Con maggiore precisione è però la misura a disporre nel futuro l’apprendistato al pungolo dell’intelligenza, insieme a quello per l’amore che non muore. Una cifra limpida e pulsante che mostra come la lingua sia capace di produrre già il simbolico che sostiene la narrazione.
INCONTRARE JANE AUSTEN non ci difende allora dalle ingiustizie contemporanee, non rimedia a fatti specifici, né chiarisce quale sia il patto che dobbiamo rinnovare ogni giorno davanti all’abominio della tragedia umana. Fa qualcosa di più grande, ci collega alla contezza di saperci viventi e disponibili alla vitalità – che è la stessa di quella figuretta di campagna mentre dalla cucina della sua casa teneva il mondo nel palmo della mano; ci congiunge lentamente all’alleanza suprema con la distrazione, la tramuta nella obliquità dello sguardo e nella estensione di un sorriso che a volte prorompe in una risata per il piacere senza inganni che genera. In questo senso, può entrare a pieno titolo nell’antidoto contro la deriva velenosa delle passioni tristi, quelle per cui dovremmo torcerci contritamente intorno al nostro ombelico per dire che no, non siamo noi inabili alla gioia e alla festa dell’altro – di chiunque altro – piuttosto è sempre il prossimo incapace a sollecitarla.
Ebbene, Austen risponderebbe probabilmente con una battuta beffarda e graffiante delle sue, chi fa ritorno ai suoi romanzi direbbe invece che ci si può semplicemente affidare, una volta tanto, a una visione di ampiezza senza prendersi troppo sul serio né farsi catturare dall’impero della miseria. Quella per cui celebrare la festa dell’altro – o essere una solennità per qualcuno – non arriva mai se non dopo ripetuti tentativi di subordinazione e sfinimento.
Lasciarsi trascinare da una scrittura che ci renda la stessa ironia di chi l’ha messa al mondo, comporterebbe invece fare i conti con la trascurata eppure acuminata ricerca di felicità di cui siamo impastati. Non la si trova mai per intero, tuttavia è pur vero che chi esagera con la diffidenza potrebbe non scoprirne mai nemmeno un pezzetto. È un filo esile, eppure tanto forte da intrattenerci ancora nel mondo.
(il manifesto, 17 giugno 2017)
di Graziella Bernabò
Una rivoluzione tuttora in progress. Una fitta rete di relazioni – prima di tutto quella tra una madre e una figlia – e una pratica di scrittura condivisa sostengono il racconto di cinquant’anni di femminismo.
Marina Santini e Luciana Tavernini (a cura di), Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, Il Poligrafo, Padova 2015, Euro 20.00
La storia di cinquant’anni di movimento delle donne raccontata dal di dentro e in una prospettiva di futuro è l’impostazione di Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua. Si tratta di un ampio volume che ha preso le mosse dalla mostra Noi utopia delle donne di ieri, memoria delle donne di domani, presentata alla Società Umanitaria di Milano nel 2006 ed esposta in varie città italiane ed estere.
Un libro ricco, documentato senza essere pedante, corredato da un centinaio di fotografie, quasi tutte inedite, che, come in uno spartito, intreccia la narrazione con la voce di femministe storiche, da Luisa Muraro a Bia Sarasini, da Lea Melandri a Letizia Paolozzi, da Lia Cigarini a Marisa Guarneri, oltre a quella di artiste, editrici, operaie, sindacaliste, insegnanti, scienziate, donne di ambiti e età diverse. Si tratta di testimonianze raccolte in parecchi anni di lavoro, piccoli racconti di esperienza che rivelano aspetti poco conosciuti del “femminismo della libertà”. Una rivoluzione che ha sostanzialmente cambiato sia l’immaginario sociale sia la vita concreta delle donne (e, di riflesso, anche quella degli uomini) in termini di libertà, agio e civile costruzione di vita.
Il libro non intende essere esaustivo e si differenzia in modo netto dai resoconti storici tradizionali. Nell’introduzione le curatrici precisano infatti di aver voluto evitare la sovrapposizione di un sistematico e asettico «censimento del femminismo italiano» alla storia concreta delle donne, perché il loro intento era piuttosto quello di ricostruirla attraverso il racconto, certamente parziale ma autentico e vivo, di donne e qualche uomo che hanno vissuto quelle vicende in prima persona.
Tutto parte dalla polemica di una figlia nei confronti di una madre da sempre attiva nel mondo delle donne, la quale decide di scriverle una lunga lettera in cui racconta la propria esperienza di femminista all’interno del movimento. A questo filo narrativo si intreccia, come già accennato, la variegata serie delle testimonianze e delle fotografie.
Il libro è suddiviso in quattro capitoli dai titoli molto significativi. Il primo, Le parole per dirlo, dal libro di Marie Cardinal, è dedicato al nuovo linguaggio per significare la realtà femminile senza tradirla con le stereotipie tradizionali. Il secondo, Noi e il nostro corpo, riguarda argomenti come la differenza tra liberazione e libertà sessuale, la contraccezione, il divorzio, la depenalizzazione e la legge sull’aborto, la violenza maschile contro le donne. Il terzo, Le tre ghinee, mette in evidenza i luoghi della libertà delle donne, dai collettivi all’imprenditoria femminile, al teatro, al cinema… Il quarto, Immagina che il lavoro, rinvia al titolo di un manifesto del 2009 – scritto a più mani e pubblicato dalla Libreria delle Donne di Milano – e tratta temi come la conciliazione tra lavoro e maternità, le esperienze delle “150 ore” per casalinghe e operaie, l’ingresso massiccio delle donne nella scuola e la pedagogia della differenza sessuale, le lotte delle operaie sui tempi, la salute, il part time e molto altro. Il discorso è dunque centrato su quattro temi essenziali: parola, corpo, luoghi, lavoro.
L’impressione determinata dal libro non è di nostalgia ma di forza e fiducia. A maggior ragione perché le testimonianze riguardano anche donne più giovani che mostrano di non aver disperso l’eredità delle loro madri, così come mostra di comprenderlo, strada facendo, la figlia a cui la madre indirizza il proprio racconto. A poco a poco capisce infatti che la qualità della propria vita – dalla libera scelta degli studi e della professione da intraprendere al controllo delle nascite alla collaborazione domestica con il partner, alla possibilità di un protagonismo anche al di fuori della famiglia – sarebbe stata ben diversa senza il femminismo; e sviluppa, interloquendo anche con un’amica della madre, un interesse sempre più vivo per l’azione delle donne, soprattutto nell’ambito del lavoro, perché è proprio in questo capitolo che è lei a prendere la parola. Si rende perciò progressivamente conto non solo dei risultati delle lotte femminili nei campi più vari, ma anche del significato che hanno avuto pratiche di gruppo, come l’autocoscienza, e duali, come l’affidamento con riconoscimento dell’autorità femminile. Percepisce quindi che la vera libertà di ogni donna non nasce da un percorso solitario, ma da una concreta e fattiva relazione con le proprie simili.
D’altra parte, alla base del lungo e articolato lavoro delle stesse curatrici, si intravede una pratica viva di relazioni, riguardante sia il loro rapporto con le molte donne da loro interpellate e con alcuni uomini– sia quello stesso legame di stima e affetto che le ha portate, in un reciproco affidamento, a una scrittura sempre condivisa. Da qui il tono fermo, ma caldo e cordiale, e il senso di apertura alla molteplicità delle esperienze che stanno alla base dell’intero libro e che contribuiscono a determinare, nel corso della lettura, sensazioni piacevoli di gioia e libertà. Un libro che permette di ripercorrere e di ripensare la propria storia e fornisce uno strumento di conoscenza a chi per età o per vicende personali non ha vissuto quegli anni, un ‘oggetto di mediazione’ che consente di aprire un’interlocuzione con le ragazze e i ragazzi su una rivoluzione che ha segnato il ’900 ed è tuttora viva.
(Leggendaria 122, marzo 2017)
di Stefania Tarantino
Recensione al libro di Tristana Dini, La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale, Mimesis, Milano 2016 (145 pp. 16 euro)
Partire dalla vita concreta, dalla fisicità dei nostri corpi, dalle contraddizioni dell’anima e dei nostri più intimi desideri. Pretendere da noi stesse finezza e acutezza di pensiero per distinguere con precisione ciò che si insinua subdolamente in ambiti che non gli competono, smascherare tutto ciò che non si sottopone al vaglio del pensiero critico femminista. Essere ironiche sempre, con noi stesse e con tutto ciò che ci appare pesante, grigio, monotematico, triste. Congedarsi da coloro che si presentano troppo sicuri di sé e che pretendono “ancora” di parlare al nostro posto perché, in fondo, sappiamo che non hanno mai fatto i conti con il sudore dell’intelligenza, con il tarlo del dubbio, con le incertezze che da sempre sono la linfa vitale di ciò che siamo e sappiamo. Chiedere che i libri trasudino di vita, che sprigionino quel qualcosa di vero che ci tocca l’anima e che a tratti sentiamo di poter toccare addirittura con mano. Fare in modo che le letture che ci nutrono ci trasformino e ci aprano altre possibilità, prima di allora impensabili e invisibili, e che ci rendano talmente forti e coraggiose da mantenere sempre alta la nostra capacità di aprire conflitti laddove l’uniformità ci schiaccia su modelli che ci tolgono il respiro e la libertà di essere pienamente noi stesse. Ecco, sono queste le prime cose che mi sono venute alla mente e al cuore nella lettura che ho fatto dell’ultimo libro di Tristana Dini. Un progetto lungo, faticosamente portato a maturazione, perché nato all’interno di una relazione interrotta dalla scomparsa improvvisa e prematura di Angela Putino, e che, nonostante questo, è riuscito a sprigionare quella forza femminile che, ad Angela, è stata sempre così cara. Questo libro fa ordine nei nostri pensieri in un momento di grande confusione e spaesamento, ci invita a fare esercizi di complessità e densità attraverso una ricognizione attenta delle varie produzioni femministe degli ultimi quarant’anni ma, allo stesso tempo, mettendole in relazione ai cambiamenti economici e politici che nel frattempo si sono imposti. La congiunzione sempre verde e sempre attuale – se solo pensiamo alla recente elezione di Trump che riporta alla ribalta l’immagine vincente dell’uomo bianco, ricco, proprietario – di “ordine sovrano, statale” e “ordine simbolico” mostra la difficoltà di voltare pagina e di trasformare il nostro modo di pensare e, direi anche, di cambiare la nostra stessa “forma” di vita. Ancora facciamo i conti con situazioni che sembravano superate, poiché esistono barriere profonde che ci obbligano a non abbassare la guardia e a fare un lavoro culturale, politico, istituzionale che sia capace di andare al cuore delle questioni. Ecco perché la differenza sessuale trova, in questo libro, un posto di assoluto rilievo. È a partire dal suo punto di avvistamento che l’autrice muove una critica serrata alla biopolitica e alla questione della sacralità della vita nella lunga tradizione teologico-politica dell’Occidente che conosciamo. La differenza sessuale, scrive Tristana Dini, è sì sempre partita dalla biologia ma per andare oltre. È, infatti, una questione che attiene al simbolico, al linguaggio, alla conoscenza, alla percezione che abbiamo di noi stesse/i. Riprendendo Ida Dominijanni, l’autrice fa sua l’idea che è il principio del non uno all’origine del soggetto a mettere al centro quella dis-unità incarnata che offre una nuova visione della soggettività. La rottura del principio dell’uno porta con sé la rottura del principio del due che non è altro che una contrapposizione speculare alla logica dell’uno. Si tratta allora di disinnescare l’opposizione binaria patriarcale per dare vita a un nuovo modo di pensare e di agire. Questo modo altro è il movimento che Tristana Dini riconosce al pensiero della differenza sessuale, un pensiero che ha messo radicalmente in discussione – certo non senza difficoltà – quella congiunzione di ordine sovrano e di ordine simbolico. Il taglio della differenza si riferisce all’eccedenza di una differenza che ha sempre cercato di sottrarsi a questa infelice congiunzione. L’autrice sa bene e lo scrive con grande chiarezza che c’è una linea sottile, terribilmente ambigua, che produce fraintendimenti, furti, sovrapposizioni e, direi anche, falsi amici (nel senso proprio della traduzione di alcune lingue neolatine molto vicine e similari). Sempre più spesso accade che l’operatività femminile, le sue più intime qualità (in senso arendtiano) siano fagocitate da qualcosa che ne distorce il senso e la portata, ma, nonostante questo, oggi come ieri, c’è sempre “un piccolo frammento di inaddomesticato” (Putino) che riesce a non farsi afferrare e che, nel corso del tempo, è stato letto come follia, isteria, eresia (Irigaray) dalle grandi strutture di potere repressivo ecclesiastiche e laiche. Tristana Dini riconosce che è ancora una volta nell’evento della libertà femminile che oggi si produce quel punto di attrito tra biopolitica e democrazia in cui al massimo dell’oggettivazione corrisponde un movimento di soggettivazione teorica e pratica che consente alle donne di non essere più legate alla funzione riproduttiva nel senso di un destino immutabile. Non ne va più di un destino, ma di una libertà. Ne va sempre della libertà femminile. E non è un caso che la peggiore politica maschile, soprattutto quando è in crisi, associ la difesa della sacralità della vita a un volgare e mediocre consumo del sesso femminile.
La genealogia femminile che oggi esiste e fa storia trasmette il senso di questo frammento, di questa intima eccedenza che consente di valicare i confini del sé, di scompigliare il simbolico dominante, di portare disordine in un ordine imposto con la forza. È quel felice sconfinamento che tempo addietro ha consentito alle donne di non stare più nel posto che era stato loro assegnato e che ha permesso di disobbedire sia alla legge del padre che a quella del potere.
Il potere usa giochi di prestigio, lavora su meccanismi psichici profondi e mette in atto veri e propri “trucchi” per citare ancora Ida Dominijanni, che ci imbrogliano facendoci credere che alcune cose siano interscambiabili, equivalenti, che siano la stessa cosa. Ma così non è. Solo attraverso un costante esercizio di autoriflessione su noi stesse, sul mondo, sulla pluralità di relazioni che viviamo ogni giorno, possiamo schivare il pericolo di ritrovarci in luoghi in cui non siamo e in parole in cui non ci riconosciamo (Lonzi). Anche in quelle che sembrano così vicine a noi come, ad esempio, alcune parole filosofiche maschili del Novecento che, troppo spesso, hanno metaforizzato la “differenza femminile”, per smantellare e criticare l’impianto tradizionale della filosofia occidentale. Qui Tristana Dini mette in luce come questa differenza sia stata proposta come posizione alternativa al logocentrismo maschile, come prospettiva decostruttiva rispetto ad essa, ma ripresentandola senza riferimento alle donne reali e ai loro corpi incarnati. Parlare dei corpi reali significa invece per l’autrice parlare di quel volto, di quella voce, di quello stile, di quel chi unico e irriducibile ad altro che ci sta davanti e che riconosciamo, sentiamo, vediamo.
Questo riguardo per la singolarità, la parzialità, l’unicità, scaturisce dal “semplice” fatto che la soggettività femminile è sempre dentro, visceralmente intrecciata, a una dimensione relazionale in cui la vulnerabilità è l’espressione massima della fragilità ontologica della creatura umana. Le donne hanno un sapere profondo della vita, della conformazione attiva e passiva della soggettività umana, delle sue luci e delle sue ombre. Ecco perché a questa indebita appropriazione si tratta di rispondere oggi rimettendo al centro le donne reali, il chi, il volto e la parola di donne in carne ed ossa, la portata enorme che la loro “materiale vita” può avere sul presente e sul futuro.
Ma stando sempre molto attente perché il punto critico è che è proprio questa materiale vita ad essere sotto attacco dalla biopolitica. La biopolitica, infatti, ha capito fin troppo bene il grande valore di questa soggettività relazionale e il profitto che da essa si può ricavare. Sempre più la biopolitica si insinua subdolamente nelle relazioni asimmetriche di potere ma pervertendo la portata simbolica, affettiva, che c’è dietro di esse. Se l’economia ha fatto leva sul lavoro implicito delle donne ma senza mai riconoscerlo come un lavoro in quanto tale, oggi, invece questo è pienamente riconosciuto e diventa addirittura marketing.
Il paradigma politico classico si è fondato su quella logica binaria che ha reso invalicabile il confine tra zoé e bios, tra una nuda vita senza forma e una forma di vita specificamente umana. La nuda vita ha rappresentato da sempre tutto ciò che l’essere umano aveva in comune con gli animali e che lo legava all’orizzonte della necessità e del bisogno di sopravvivenza, mentre la vita sacra era la sola vita degna di essere vissuta poiché era l’unica vita in grado di essere guidata razionalmente e di abitare lo spazio politico. Il pensiero femminista ha mostrato però che la dimensione della zoé non può essere scissa da quella del bios e che è da come imposteremo il rapporto tra queste due dimensioni della vita che potrà aprirsi un nuovo scenario per il futuro.
Ora, vorrei concludere con due riferimenti che hanno a che fare con un possibile nuovo scenario: il primo, seppur estraneo al libro, è relativo a un passo di Cristina Campo che dice che con un cuore legato non si entra nell’impossibile, non si scardinano i rapporti, gli ordini sovrani e patriarcali che ci tengono in pugno, perché il cuore è l’elemento fisico della percezione ed è la materia prima dell’esistenza, l’organo misterioso di presagi e corrispondenze. Il secondo riferimento è la conclusione dell’introduzione scritta a quattro mani da Angela Putino e Tristana Dini in cui leggiamo: “Spazzare via qualunque affinità tra la biopolitica e la maniera in cui la donna conduce il vivente per poter riconcettualizzare che cosa significhi da parte di una donna il discorso sull’amore, sull’eros e come questo costituisca in effetti la più reale alternativa alla dimensione programmata della cura del vivente proposta dalla biopolitica”.
La confusione svanisce, l’ambiguità si dissolve, il vicolo non è più cieco e il lavoro da perseguire ci sembra molto più chiaro.
(Singolarità, parzialità, unicità
(Leggendaria 122, marzo 2017)
di Paola Mammani
Sono una lettrice che ha apprezzato l’ultimo libro di Valeria Parrella, Enciclopedia della donna. Un aggiornamento, e anche la nota che il 5 maggio scorso Luisa Muraro le ha dedicato su questo sito, che assumo e considero assunta da chi mi legge.
Non mi chiedo se è possibile incontrare la protagonista, Amanda, all’università, in un bar o in un’azienda. Lei c’è, esiste, sono io, siamo o siamo state in tante.
Amanda è chiara in quanto a sé, non è un uomo, è «proprio una donna donna, femmina». Io tendo a crederle.
È nata nel 1964, i suoi genitori sperimentano molto del sesso, proprio a partire da quegli anni.
A lei, al riguardo, è stata promesso che «… agli uomini e alle donne piace la stessa cosa: fare l’amore, toccarsi, baciarsi, venire. Allo stesso modo: vogliono tutti la stessa cosa, e siamo liberi». Dunque, dietro i peni, pardon, i cazzi, non ci sono falli, e le vagine non sono oscuri abissi né vasi da fecondare. Amanda vuole dire fica alla fica, parola che manca del tutto nell’Enciclopedia della donna, e pene al pene. Quando il corpo chiama vuole rispondere, «perché se non credi al corpo a cosa altro vuoi credere, nella vita?». Per Amanda non abbiamo un corpo, siamo il nostro corpo, e il potente stimolo sessuale che ci attraversa non va umiliato o negato, ma agito e goduto. Il percorso però è difficile, si rivela pieno di incognite, di trappole tese da uomini che di non essere un mito per la donna con cui fanno sesso proprio non possono accettarlo.
Molte sanno di che cosa si parla. Abbiamo giocato col sesso come fa Amanda, a volte solo eccezionalmente, o abbiamo coltivato per anni o addirittura per decenni l’inclinazione, certo è che in molte abbiamo pensato, notato e annotato ciò che Amanda registra: cioè che il mondo, gli uomini non tengono fede alla promessa.
Si può mantenere un godibile rapporto sessuale, continuare a giocare, solo se si rimane nel presente, senza ingannevoli promesse, senza ipotecare il futuro, con la consapevolezza che il desiderio sessuale prima o poi finisce, che ha una sua parabola discendente che nessun filmetto porno potrà interrompere, questo è un altro caposaldo nel mondo di Amanda. Allora è bene essere libere e pronte ad altri incontri quando il desiderio si spegne.
Nel divertente azzardo della sua vita sessuale, ad Amanda tocca analizzare, scegliere, scartare, più che consumare – la via è lastricata di consigli perché le neofite non restino irretite in spaventevoli e noiosi abbagli.
Spesso gli uomini rimangono amareggiati, disorientati di fronte al suo schietto desiderio di sesso che non si alimenta di facili ammiccamenti, che rifiuta di dispensare accorti apprezzamenti per fare da esca all’ego e al desiderio di lui.
Nell’Enciclopedia lei si batte per i rapporti cui aspira, che non tutte forse troverebbero auspicabili, o per i quali sarebbero disposte a spendere tanta energia, ma che lei desidera ed inventa.
Perché ancora non esiste un mondo in cui non devi cercarlo con il lanternino un uomo, come disse il filosofo e come Amanda sa bene. Non è facile individuare uno che semplicemente accetti di corrispondere per la pura forza del desiderio sessuale. Non è ancora possibile, con gesto libero, suggerito solo dalla gioia di vivere, chiedere e prendere quel che il corpo desidera. Richiede cura e sagacia farlo con leggerezza, senza patemi, poter almeno accarezzare l’idea che così possa avvenire, senz’altro rischio che la scoperta di quel che tu sei, di quel che veramente vuoi, dell’esserci o meno del piacere per te.
Così la nostra, nella sua impervia ricerca, cova sottotraccia un’ira allegra e contagiosa, s’inventa un gesto potente di scoperchiamento, di rivolta per la dabbenaggine di corpi incapaci di accedere a quel che potrebbe rivelarsi il più immediato dei rapporti e dei piaceri possibili. Descrive con graffiante ironia e sboccata comicità la varia umanità maschile che le capita a tiro e il testo appare un’ininterrotta invettiva che si articola in linguaggio e in invenzioni vivaci, godibili e colte.
Mi accodo allo scherzo salace:
S’i’ fosse Amanda, com’i’ sono e fui
torrei per me bei giovani e leggiadri:
e vecchi e laidi lasserei altrui.
Indossa «un bel vestito di lanetta e gli stivali alti senza calze» e cerca l’uomo. Lei c’è, e lui?
Leggere per credere, e anche rileggere, che spesso è uno sport rischioso. In questo caso il gusto si rinnova e si scoprono, a tratti, tesori di vera tenerezza.
(www.libreriadelledonne.it, 8 giugno 2017)
di Letizia Paolozzi
“Raccontare una storia tristissima. So che si può ma non so come e sono venticinque anni che ci penso”. Inizia così Troppo sale Un addio con ricette” di Stefania Giannotti, rendiconto di una terribile sottrazione, quella del figlio, ragazzo diciassettenne che “faceva domande alla madre per diventare grande”.
Ma grande non lo è diventato.
Il libro scava nella presenza e nell’assenza, nella fisicità e nel vuoto attraverso una storia segnata dal lutto e tuttavia immersa nella materialità delle cose. Non di bizzarria si tratta giacché, al fondo, quando si scrive, sempre di vita si sta parlando. “Perdo te e mi resta soltanto il mondo. Perdo te, amore vivo compiuto reale finito e non posso averne un altro, solo l’infinito mi resta….Hanno strappato dal mio cuore l’adolescente e hanno piantato al suo posto l’adolescenza”.
Il filo di una esistenza breve, ardente, tagliato di netto. Da chi? Non saprai mai se da un dio troppo distante, dalla fatalità, dal mare. Certo, la tragedia personale ti si precipita addosso. Può cambiarti; farti perdere il gusto di vivere. Oppure spingerti – magari contemporaneamente – ad andare avanti: “E così da quando te ne sei andato ragazzo mio, mi è difficile distinguere, in questo procedere, tra vita e morte. Hai visto? L’ho chiamato procedere perché faccio fatica a dire vivere, ma lo è. E non mi è più facile dire morire”.
L’autrice, una bella signora, dotata della qualità di saper ascoltare con attenzione le voci delle altre, degli altri, da quel 25 agosto del 1990 continua a interrogarsi su un sentimento – l’amore – che non si da mai in assenza di rischi. Quei rischi sono imprevedibili. Perciò ignoriamo i giorni che mancano o, al contrario, quelli che restano al momento della catastrofe. Impossibile intuire l’ultima volta per quel bacio leggero, per la carezza distratta lanciata nell’aria.
In Troppo sale riconosciamo l’intrusione di un avvenimento assolutamente estraneo alle circostanze della vita e privo di qualsiasi relazione con esse: d’altronde, la morte è impossibile da addomesticare in modo da renderla confortevole.
Eppure succede e questa è la straordinarietà della situazione, che “la natura morta o vita ferma” si animi quando la realtà riprende forza. Anzi, ruba alla nuda precarietà chi – una madre – supponeva di possedere ormai soltanto lacrime. “Non ho inveito contro di te e neppure contro un dio che non conoscevo, e ora un po’ meglio. Non ho trovato il tempo di giudicarlo. Il pianto non è diventato lamento”.
Non è diventato lamento il pianto grazie a “mille stratagemmi”, fondanti e centrali: un luogo come il CiCip&CiCiap, circolo politico dove le donne intessevano relazioni; la Libreria delle donne di Milano che per Stefania Giannotti ha rappresentato l’incontro con una libertà non solo individuale bensì “valore imprescindibile del femminismo”. Vedete bene quanto sia incommensurabilmente importante quel “campo relazionale”, l’intreccio di legami e rapporti e voci che impedisce di soccombere.
Ma se tutto questo ha funzionato e funziona “è anche per via della cucina alle sue spalle”.
Perché sì, il nutrimento si rivela capace di riparare la morte “per procedere nella vita quando si fa troppo salata”. La cucina garantisce accoglienza; soddisfa bisogni rinviando all’orizzonte del bene comune. Non sempre, evidentemente. Non dove il cibo è merce, eccesso di dolce, salato, amaro, disinteresse per la preparazione, trappola per allocchi in vena dispendiosa.
Il piccolo gruppo femminile nel quale si muove Stefania “si alterna o collabora ai fornelli” di un universo insieme privato e pubblico (la Libreria delle donne, appunto). Un universo nel quale la cura del cibo e la produzione d’intuizioni politiche procedono appaiate. Lì ci si mette in connessione con storie, memorie, culture per aiutare la convivialità. La cucina, oltre a essere un piacere, riesce a essere una risposta sommessa alle preoccupazioni della crisi economica, alle difficoltà sociali.
Nessuno chef che cammini sottobraccio ai media ma cinque donne che hanno preso il nome di Estia dalla dea del focolare, risoluta nell’abbandonare la tavola dell’Olimpo per scendere tra gli uomini.
Un gruppo depositario di competenze antiche, tramandate, ricreate come dimostra la “Pausa cucina” inserita nel testo.
Una pausa vera che placa la tensione grazie alle ricette ispirate dalle nonne, accumulate in ambito famigliare, raccolte inseguendo l’infinita immaginazione delle regioni italiane, oppure riadattando il ricettario di Apicio (primo secolo d.C.) e quello rinascimentale.
Alla Libreria delle donne si replica e si innova. Servono gli utensili, le materie prime, gli ingredienti scelti e, in Troppo sale, la scrittura impone il sapore. Sono frasi concatenate, acciuffate per riprendere slancio e poi immergersi in un ritmo improvvisato. Spesso, l’autrice usa la prima persona singolare: “Aggiungo, unisco, tagliuzzo, impasto” invece della seconda persona plurale che impone: “Dosate, diluite, sbattete”.
Linguaggio prezioso di un libro dolente che pure mostra la possibilità di tenere in vita un ragazzo scomparso. Attraverso il nutrimento delle parole.
Stefania Giannotti
Troppo sale Un addio con ricette
Feltrinelli 2017
pp. 182 euro 16
(Alfabeta2, il 26 maggio 2017)
di redazione dwf
Oltre 40 anni fa eravamo Dalla parte delle bambine[1], nello svelamento di quella costruzione culturale e sociale che le educava alla subalternità femminile. Oggi, a distanza di decenni, dopo la rivoluzione sessuale e il movimento femminista, ci troviamo Dalla parte delle eroine. Non più solo fate o streghe, ma guerriere; non più tremebonde giovinette in attesa del principe azzurro ma donne consapevoli, alleate con le proprie simili, con le nostre sorelle e madri.
Cosa è cambiato nella rappresentazione mainstream del femminile? Qual è l’immaginario su cui si costruisce oggi il cammino/destino di bambine e bambini nel percorso di crescita? Il numero che vi presentiamo parte da queste domande per arrivare, come sempre più spesso ci accade, a scoprire molto di più di quello che immaginavamo.
Due anni fa, in un numero di DWF dedicato ai fumetti che è andato esaurito – A tratti femminista. Il (di)segno delle donne (105-106) 2015 – abbiamo mostrato quanto l’arte della graphic novel fosse potente nel veicolare i messaggi del femminismo, anche quando non si definisce tale. Oggi guardiamo alle protagoniste di film, serie tv, cartoni animati e videogiochi come alle figure simboliche dal futuro, che molto ci dicono del presente.
La prima piacevole scoperta è che sono cambiate molte cose anche rispetto a soli dieci anni fa quando Loredana Lipperini, nel suo libro Ancora dalla parte delle bambine[2], metteva in guardia dai modelli di eroine a cui eravamo esposte: belle, alla moda, sexy, famose, ciniche oppure impegnate contro la degenerazione del mondo al punto di non permettersi di cedere ai sentimenti.
Le nostre autrici, che alla chiamata di DWF hanno risposto con entusiasmo, passione e pensiero, ci raccontano un’altra storia. Quello che emerge non è tanto il ruolo sempre più centrale delle protagoniste femminili, ma gli spostamenti e gli strumenti che portano con loro sulla scena le eroine in quanto donne[3]. Sembra saltata definitivamente la dicotomia uomo-forte, invincibile e sicuro di sé VS donna-debole, gentile, delicata, perché queste sfere di esperienza si intrecciano senza escludersi, e scavalcano gli stereotipi.
Ci troviamo infatti di fronte a eroine che non cercano il potere per il potere (Russi), che partono da sé e stringono alleanze con le altre (Travagliati), che sovvertono e scompaginano il modello d’agire dell’eroe tradizionale (Castelli, Chiricosta, Leiss). Quella che si intravvede per il futuro è una prospettiva che ci parla dei mutamenti del nostro quotidiano, nuove forme di alleanza, nuove sorellanze. In un clima in cui l’eroismo tanto bene si sposa con la società neoliberale individualista – sii imprenditrice di te stessa, performativa, pronta a tutto e se ci riesci salva il mondo – queste figure spostano sulla relazione tra donne ridefinendo il significato stesso dell’agire eroico.
Ma non vorremmo che si pensasse a un entusiasmo trionfalistico. Siamo consapevoli dei limiti e delle problematicità di questo posizionamento. Sappiamo che si tratta di donne eccezionali, una (due, tre) su milioni, così come sappiamo che di mezzo, in molti casi, c’è proprio il mercato, che come sempre intuisce gli spostamenti sociali e ne fa marketing. Questa consapevolezza non impedisce però il rilancio, la ripresa in termini imprevisti e femministi, a partire da noi e dalle storie che scriviamo/leggiamo con le nostre pratiche condivise.
Quella fantasia delle donne, il supplemento critico del femminismo ai rapporti di potere, irriducibile a un principio di realtà (Bonacchi) e allo stesso tempo in grado di indagare il rapporto tra spazio, ordine sociale e dinamiche di controllo dei corpi (Borghi), di cui leggerete in Poliedra.
C’è un’intenzione politica dietro la scelta di questo tema, che parte dalla consapevolezza che la raffigurazione non è cosa da poco. Guardare alle donne della fantascienza può essere un atto fondativo di nuove genealogie femminili (Castelli, Chiricosta, Leiss), che partono da una soggettività già consolidata e costruiscono reti tra donne, con cui sostenersi reciprocamente e non soltanto riconoscersi, con cui dare e darsi forza nella lotta contro gli imperi e nelle battaglie quotidiane, dove la sorellanza diventa reciproca responsabilità e l’alleanza si fa politica (Squillante). Genealogie che si trovano nel futuro ma corrono verso di noi sotto forma di figure animate, streghe alate, combattenti arciere e guerriere stellari. Se l’angelo della storia di Benjamin[4] ha il viso rivolto al passato dove vede «una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi», le figure che noi vediamo potrebbero essere intuizioni del futuro, che molte volte la fantascienza ha avuto, o forse sono già lì ad aspettare quello che oggi stiamo costruendo.
Oltre ad essere un atto fondativo di nuove genealogie, occuparsi e raccontare delle donne della fantascienza è un lavoro sugli stereotipi, poiché rimodella e ridefinisce le possibilità di immaginari inediti, che per bambine e bambini saranno (forse) genealogie. Oggi, su molteplici piani, dalla narrativa ai film, dai videogiochi alle serie tv, si stanno fondando quelli che saranno i riferimenti del futuro: «Uno spazio mitico, insomma, che fonda logoi, narrazioni reali, concrete e situate, in cui le bambine e i bambini possono dare corpo a modelli, aspirazioni, avventure, ma anche trovare un senso a vicende quotidiane, acquisire parole e modi per dire paure, speranze, aspirazioni. In una parola, si tratta qui di Mitopoiesi» (Chiricosta).
Chiunque lavori all’apertura di spazi “liberati” nell’immaginario, contribuisce ad aprire varchi di libertà concreta e quotidiana nelle vite che verranno. E se è vero che l’immaginario collettivo passa ormai da tempo per il grande schermo, è altrettanto vero che molto lavoro per l’educazione di bambine e bambini si sta facendo oggi attraverso narrazioni testuali e albi illustrati che scardinano gli stereotipi, nel tentativo di liberare i sogni e i desideri dei futuri adulti senza costrizioni e costruzioni sociali, lasciandoli liberi di comporre la propria identità (Scosse). Ci troviamo davanti, in questo senso, a operazioni politiche e di civiltà che fanno dell’approccio pedagogico l’unico vero strumento di prevenzione della violenza di genere e delle discriminazioni (Martinelli/Di Martino).
Le ‘cantastorie’ citate da Simonetta Spinelli nel numero di DWF Aliene Quotidiane (1991, n. 13/14) ci danno la possibilità di chiudere con una suggestione: «Le scrittrici di fantascienza che hanno attraversato, personalmente o storicamente il femminismo […] mi sembrano assumere la funzione essenziale di ‘cantastorie’. Circolando in un pubblico di massa, sono portatrici di un racconto che è singolare e collettivo, e che ha la possibilità – proprio perché della narrazione popolare ha la suggestione, il ritmo, l’apertura tematica, l’aggancio con il quotidiano – di trasmettere assonanze, visioni, linguaggio, di delineare ipotesi che non appartengono, almeno esplicitamente, alla speculazione filosofica o all’azione politica. Cantastorie in un mondo dove la tradizione orale si è perduta, utilizzano l’ironia, raccontano il ‘mondo possibile’ riscoprendo e descrivendo i mondi possibili dell’immaginario delle donne» (p. 63).
E proprio a Simonetta, redattrice di DWF per anni, scomparsa lo scorso febbraio, dedicheremo il prossimo numero della rivista.
(fc e tdm)
[1] Elena Gianini Belotti 1973, Dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli
[2] Loredana Lipperini 2007, Ancora dalla parte delle bambine, Milano, Feltrinelli
[3] Un testo di riferimento è: F. Giardini (a cura di) 2011, Sensibili guerriere. Sulla forza femminile, Roma, Iacobelli.
[4] Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, tesi n. 9. (L’immagine è una rielaborazione da P. Klee, Angelus Novus, 1920)
Per acquistare questo numero scrivi a redazione@dwf.it
MATERIA
Star Wars: carsiche genealogie e nuove figure della Forza
Federica Castelli, Alessandra Chiricosta, Gaia Leiss
Hunger GAMES. 13 tributi all’utopia di Katniss Everdeen
Daria Squillante
Eva Kant, la grazia criminale
Valentina Russi
Destini intrecciati: streghe e principesse nelle nuove fiabe
Anna Travagliati
Un altro immaginario è possibile. Bambine e bambini negli albi illustrati
Elena Fierli, Giulia Franchi e Sara Marini – SCOSSE
Senza stereotipi. Intervista a Monica Martinelli, Settenove edizioni
Teresa Di Martino
MMM Vs MMM Mitopoiesi della Madre Morta Vs Mulan, Merida, Maleficent
Alessandra Chiricosta
POLIEDRA
Il corpo indegno
Rachele Borghi
Fictio legis e disforie del femminile. Lo scompiglio del gender
Gabriella Bonacchi
SELECTA
Recensioni: Cavallo, Favilli/Caporaso; Di Bella, Pistone/Lamboglia
(DWF, 19 maggio 2017)
di Marina Terragni
Bello «come un dio greco, disteso sul fondo del gommone» in una sfolgorante giornata d’agosto. Un’immersione finita male all’inseguimento di qualche pesce favoloso. Un figlio giovinetto che anziché nascerne muore nella schiuma di un mare azzurrissimo, come in un mito alla rovescia.
È stata, dice sua madre, l’ultima volta che ha avuto paura: «Ora posso vivere o morire». Stabat mater. Troppo sale di Stefania Giannotti (Feltrinelli) è il racconto non retorico del corpo a corpo quotidiano e meticoloso con il dolore più
grande che ci sia, quello delle sette spade nel cuore. A cominciare dalla scoperta sorprendente che «non è la morte che non dà tregua, è la vita… È la potenza dell’esistere che mi meravigliò e mi si attaccò addosso».
In L’anno del pensiero magico (Il Saggiatore) la scrittrice americana Joan Didion racconta di essersi messa a pulire il suo studio dopo la perdita improvvisa del marito, «un passo verso il primo giorno del resto della mia vita».
Un contatto fisico con la realtà che ostinatamente sopravvive, e che Giannotti incontra nella matericità del cibo.
In Troppo sale la memoria di quei giorni di agosto si allenta in serene “pause cucina”. Ottime ricette-tregua, zuppe di carciofi e gattò di scarola.
Nutrire l’altra e l’altro per restare prossimi al senso vero del nostro essere al mondo. È la prima ricetta da mandare a memoria.
(da Avvenire, 11 maggio 2017)
È uscito il n. 52/2017 della rivista DUODA che ha come tema monografico: Els úters de les dones ni es venen ni es lloguen / Los úteros de las mujeres ni se venden ni se alquilan. Con articoli di Barbara Verzini, Marta Ausona, Alessandra Allegrini, Cristina Faccincani, Pilar Babi Rourera, vignetta di Pat Carra. Vedi l’indice: http://www.ub.edu/duoda/web/es/noticias La rivista di studi della differenza sessuale del Centro di ricerca Duoda dell’Università di Barcellona è scritta in spagnolo e in catalano e si può ordinare scrivendo a duoda@ub.edu
(Duoda, 4 maggio 2017)

DUODA
Estudis
de la Diferència Sexual
Estudios
de la Diferencia Sexual
Escrits
Editorial: Els úters de les dones ni es venen ni es lloguen /
Los úteros de las mujeres ni se venden ni se alquilan
Barbara Verzini, De viaje con Fillette . Del sexo de Jean-Luc Nancy
a la Gran Madre de Massimiliano Gioni
Marta Ausona, Lactancias maternas como afirmaciones
de libertad femenina
Duoda, Parlar com a dones, una elecció
Alessandra Allegrini, La gestació per a altres: ni un dret,
ni tan sols un mercat
Cristina Faccincani, El cuerpo ausente
Pilar Babi Rourera, Gestació en una altra. Està succeint
Patrícia-Victòria Martínez i Àlvarez, Tejido con palabras de cuatro
mujeres: sobre contratos y el cuerpo femenino
Projecte d’artista: Laura Delgado Miqueo
Vinyeta: Pat Carra
www.ub.edu/duoda
Universitat de Barcelona
Liliana Rampello prende posizione sin dal titolo del suo saggio uscito dal Saggiatore: i romanzi di Jane Austen sono perfetti. Con lei a Tempo di libri abbiamo ripercorso alcune tappe di questo studio sulla scrittrice inglese morta duecento anni fa: la capacità di declinare al femminile il romanzo di formazione strutturandolo come trasformazione di sé, il prevalere del tema sulla trama, il talento per i dialoghi che attinge alla lezione shakespearia, la critica della società patriarcale. A sorpresa tra quelli di Austen il romanzo preferito di Liliana Rampello è Persuasione. Guardando l’intervista scoprirete perché.
Liliana Rampello, critica letteraria e saggista, ha insegnato Estetica all’Università di Bologna. Vive e lavora a Milano come consulente editoriale. Tra le sue pubblicazioni, La grande ricerca. Saggio su Proust (Pratiche, 1994) e Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura (il Saggiatore, 2005). Per il Saggiatore ha curato anche la raccolta di saggi di Virginia Woolf Voltando pagina. Saggi 1904-1941 (2011).
www.letteratura.rai.it
di Umberto Varischio
Tsultrim Allione è una donna statunitense, ma è anche un lama, cioè secondo i buddisti tibetani un essere con qualità straordinarie; una maestra di Dharma, termine sanscrito che indica gli insegnamenti del Buddha storico. Ha fondato il centro di meditazione Tara Mandala in Colorado (USA) e insegna il buddismo sia negli Stati Uniti sia in Europa.
Seguendo sentieri impervi (una serie di trasmissioni di Radio Tre sul Tibet, terra degli dei pacifici e irati, e altri miei percorsi personali) l’ho incontrata attraverso due libri che ha scritto: Donne di saggezza. Una via femminile di illuminazione (1984) e Nutri i tuoi demoni: Risolvere i conflitti interiori con la saggezza del Buddha (2008).
Il primo contiene sei biografie di altrettante “donne di saggezza” tibetane, vissute in quella terra remota e misteriosa dal dodicesimo secolo fino all’invasione cinese; il secondo un metodo psicologico-buddista per affrontare i demoni personali che ci ostacolano durante la vita quotidiana.
Sia il primo sia il secondo libro s’inspirano agli insegnamenti di una maestra buddhista dell’XI secolo, Machig Labdrön. Le date della sua vita sono incerte e variano secondo le fonti, ma molti studiosi ritengono che sia nata nel 1055 e che visse felicemente fino a novant’anni. La sua pratica spirituale era chiamata Chöd (da pronunciare “ciöh”), che significa “recidere”. Sviluppò questa forma di meditazione, inusuale anche alla sua epoca, ottenendo dei risultati così strabilianti da far diventare tale pratica molto famosa e diffusa in tutte le scuole del buddhismo tibetano e non solo.
Fino a qui nulla di particolare, mi si potrebbe obiettare, tutto all’interno di una delle più importanti religioni orientali: quello che mi ha incuriosito leggendo i testi sopra accennati è il suo riferimento a quello che si potrebbe senza dubbio definire una “genealogia femminile”.
Uso qui il termine genealogia riferendomi al pensiero di Angela Putino che distingue nelle donne una genealogia di provenienza (o di appartenenza) da una di discendenza: la seconda porta a un rapporto con la propria madre che Putino definisce un «luogo di necessità da cui non possiamo prescindere» e senza il quale ogni «movimento di libertà è precluso».
La prima genealogia invece è quella che conduce alla scoperta delle proprie radici ideali, ma non per questo meno concrete, in cui ritroviamo tutte le resistenze delle donne, il loro riaffermarsi, il loro sapere e il trasmetterlo da una all’altra.
Sono due movimenti, quello della discendenza e dell’appartenenza, che si distinguono pur intersecandosi: è però la genealogia d’appartenenza che introduce salti nella linearità della discendenza e che determina uno spezzarsi dell’appiattimento all’interno di un genere e alla complementarietà o alla subalternità al maschile.
Per tornare a Tsultrim Allione, in Nutri i tuoi demoni dedica il testo alla «mia preziosa madre, Ruth, radioso esempio di compassione e amore incondizionato della mia vita» (genealogia di discendenza) ma afferma anche che «Machig diventò un faro nella mia ricerca della saggezza in un mondo difficile, una visione del potenziale femminile. […] La storia di Machig e le cinque biografie delle mistiche tibetane che trovai in seguito costituirono il soggetto del mio primo libro, Donne di saggezza. […] Per trovare una via che effettivamente conduca alla liberazione, la donna deve ispirarsi ad altre figure femminili che l’abbiano raggiunta» (la genealogia di appartenenza).
Tsultrim ragiona anche sugli ostacoli che una donna deve superare lungo la via dell’Illuminazione, un percorso che reca ancor oggi l’impronta inequivocabile della sua nascita nel mondo maschile. E afferma, come il femminismo fa da cinquant’anni, che le storie delle donne non sono state narrate e senza storie l’esperienza non si articola. Senza storie, quando arriva a dover prendere le decisioni importanti della vita, la donna si sente smarrita: non impara a stimare le sue lotte, a celebrare il suo potere, a comprendere il suo dolore. Senza storie è alienata dalle esperienze più profonde di se stessa e del mondo, esperienze che sono state chiamate spirituali o religiose; resta chiusa nel silenzio.
Se è pur vero che Tsultrim è nata come donna occidentale e quindi si è aperta, anche inconsapevolmente, alle suggestioni dei femminismi contemporanei, questo percorso dimostra quanto la libertà femminile sia stata capace (e lo sia tuttora) di viaggiare e raggiungere anche angoli impensati nell’esperienza delle donne emergendo anche negli ambienti più remoti. Anche sul “tetto del mondo”! Si potrebbe quindi ben dire con Amleto, osservando l’operare del femminismo e la sua capacità di scuotere la “crosta terrestre” del nostro presente: «Ben detto, vecchia talpa! Puoi scavar nella terra così presto? Un bravo zappatore!» (W. Shakespeare, Amleto, atto I sc. 5).
(www.libreriadelledonne.it, 27 aprile 2017)
di Mariangela Mianiti
Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei di Mira Furlani edito da Gabrielli
Ha poco più di cento pagine, ma più si procede nella lettura, più scotta fra le dita, scatena desiderio di ribellione, muove empatia. Ci sono voluti quasi 50 anni perché Mira (contrazione di Casimira) Furlani, quasi 80 anni, si desse il diritto di scrivere Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei (Gabrielli editore, pp. 112, euro 12). La prosa scorre e avviluppa, capace di narrare con quella verità emotiva che solo un, in questo caso una, protagonista diretta sa dare.
Il punto di partenza è la nascita dell’Isolotto di Firenze, quartiere popolare dove nel 1968 sorse la prima Comunità cristiana di base (Cdb) italiana e nella cui parrocchia Mira fondò e gestì, nel 1959 e con un’amica, la prima casa famiglia per bambini e bambine orfani e abbandonati.
Molto si è scritto sull’esperienza dell’Isolotto e della comunità che, attorno alla figura di don Enzo Mazzi, diede vita a pratiche comuni di condivisione e accoglimento che portavano avanti istanze di lavoratori, studenti, credenti e non.
Fu un’esperienza rivoluzionaria, prima appoggiata dal vescovo cardinale Elia Dalla Costa e poi osteggiata, in modo anche feroce, dal suo successore monsignor Ermenegildo Florit che non esitò ad appoggiarsi alle forze più reazionarie della città, compreso il partito fascista del Msi.
Fino a questo libro di Mira, quella stagione non era mai stata raccontata da uno sguardo femminile. Fa differenza? Ne fa, e tanta, perché per la prima volta Mira narra la sua esperienza di donna dentro quella rivolta svelando, come ha detto Luisa Muraro, una rivolta nella rivolta. Ciò rende questo libro necessario.
Qual è la rivolta di Mira e perché ci ha impiegato così tanto tempo prima di decidersi a narrarla? Se lo svelassi nel dettaglio, toglierei al lettore il piacere di scoprirlo da solo, ma soprattutto sminuirei l’emozione palpabile e la verità con cui Mira ripercorre le sue battaglie, le fatiche, le gioie, le scoperte, le delusioni e i dolori di quel periodo.
Però una cosa va detta: la rivolta riguarda don Mazzi non tanto nel suo ruolo pubblico, ma rispetto al modo con cui costruì e governò la relazione con Mira. Non si tratta di relazione amorosa e carnale, ma umana e sociale e riguarda l’impegno che Mira si assunse soprattutto nella casa-famiglia, il riconoscimento che fu negato al suo ruolo e alla sua figura, il non ascolto del suo pensiero. Questo scarto non soppresse l’affetto e la stima fra lei e don Mazzi, ma le rese impossibile far finta di niente.
Era stato don Mazzi a chiederle di assumersi il compito di madre affidataria, e ufficiosa, di quei bambini. Mira non aveva mai pensato né aspirato a quel tipo di impegno, anzi, prima di conoscere don Mazzi non era nemmeno interessata alla religione, era iscritta alla Cgil e al Pci e non andava in chiesa da anni. Il grande desiderio di verità, il riconoscersi nelle parole del Vangelo cambiarono radicalmente la sua vita. Quando don Mazzi le propose di dirigere la casa-famiglia lei accettò e svolse il suo lavoro con dedizione totale, aggiungendolo all’impiego che già aveva in una società di trasporti.
Ciò nonostante, don Mazzi non riconobbe mai a Mira, né pubblicamente né nel privato, quel ruolo faticoso e impegnativo sia fisicamente che psicologicamente. Più volte Furlani si ribellò a questa ingiustizia, ma invano, tant’è che scrive di essersi sentita considerata come una serva.
Rendersi libera è stato il lavoro che Mira ha sempre fatto d’istinto, ma per lei è diventato consapevolezza e pratica quotidiana quando, negli anni Settanta, ha incontrato il femminismo dell’autocoscienza e della differenza.
«L’autorità femminile – scrive – è una forza propulsiva che scaturisce dal profondo del pensiero della differenza sessuale, il cui apparire ha rivoluzionato ogni visione maschile patriarcale di paternità assoluta e piramidale, compresa quella gerarchica e sacrale della chiesa cattolica. Oggi non possiamo più discutere se rendere la società e le chiese più o meno democratiche: bisogna invece alimentare una pratica politica di autocoscienza maschile che possa rompere la scala gerarchica del potere assoluto del padre».
(il manifesto, 26 aprile 2017)
di Rosita Copioli
Due volumi ricostruiscono la complessità del pensiero di santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), una delle figure più straordinarie non solo del Medioevo
Escono da Pistoia due ottimi libri su santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), una delle figure più straordinarie non solo del Medioevo, dichiarata Dottore della Chiesa nel 2012. Ildegarda si distingue per complessità e bellezza della sua opera tra poesia, teologia, arte, per la sua fisionomia personale e storica d’immenso fascino e rilievo. Il libro di Michela Pereira (Ildegarda di Bingen, Gabrielli, pagine 176, euro 15,00) è fondamentale per la sua conoscenza, anche sul versante dell’innovazione teologica dell’esperienza femminile; l’altro di Giordano Frosini (Ildegarda di Bingen,Edb, pagine 268, euro 23,80) lo è per il suo inquadramento negli ambiti storici della teologia, anche postconciliare.
Nata a Bermesheim sul Reno da una famiglia feudale, entrata a otto anni nel monastero benedettino di Disibodenberg, Ildegarda possedeva dall’infanzia il dono della lucida visione, all’«ombra della luce vivente»; ma solo a quarantadue anni, divenuta badessa, ubbidì alla voce che le imponeva di scrivere al modo dei profeti, manifestando un’autorità indiscussa anche presso papi e sovrani, da Eugenio III a Federico I Barbarossa, che fustigò quando insisteva con i suoi antipapi.
Era sempre fragile e malata. Eppure affrontò continui viaggi per predicare, e vincendo dure opposizioni, fondò un grande monastero sul Ruperstberg. Verso la fine della vita manifestò ancora la sua natura di Antigone fedele solo alla legge divina, quando disubbidì ai prelati di Magonza che le intimavano di disseppellire dal Rupertsberg il cadavere di un gentiluomo scomunicato.
Illustrati da miniature meravigliose lo Scivias (“Conosci le vie”, 1147-1151), il Liber vitae meritorum (“Il libro dei meriti della vita”, 1158-1163), il Liber divinorum operum (“Il libro delle opere divine”, 1163-1174) si intrecciano alle opere naturalistiche e mediche, al Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum (“Le sottili differenze delle diverse nature delle creature”), alla rappresentazione sacra Ordo virtutum (“L’ordine delle virtù”, 1141-1151), alle liriche musicate, la Symphonia harmoniae caelestium revelationum(“ La sinfonia dell’armonia delle rivelazioni celesti”, 1151-1158), a esegesi e agiografie, alle splendide epistole in un sistema che corrisponde alla concezione unitaria dell’universo creato dall’Amore di Dio-Trinità: uovo cosmico, poi ruota mossa dallo Spirito infuocato, con al centro l’uomo nella sua duplice forma maschile e femminile.
Sebbene protesti di essere « paupercula » e conoscere solo i Salmi e i Vangeli, Ildegarda fonde tutta la teologia platonico- cristiana: gli stoici, Plotino, Agostino, Dionigi l’Areopagita, Giovanni Scoto (dal Libro sulle nature dell’universo Ildegarda mutua l’homo- omnis, unità ontologica tra uomo e universo, il microcosmo descritto nel Libro delle opere divine), la scuola di Chartres con Guglielmo di Conches, Ugo di San Vittore con De archa Noe, fonte del “pensare visivo” del XII secolo.
Ildegarda si fa specchio ed eco della bellezza sinfonica dell’incarnazione trinitaria di Amore, regolata da Discrezione: vuole combaciare con Carità-Chiarità che è sposa di Dio e Sapienza, lo Spirito Santo che per la verde forza di vita germinante (viriditas) è anima del mondo, e dal seno della Vergine Aurora, trae la luce di zaffiro del Cristo che riconduce all’unità dell’Eden, luogo della prima e ultima intimità con lui.
Michela Pereira è tra i maggiori studiosi di filosofia medievale e alchimia, nonché tra i massimi di Ildegarda, e ne curò con Marta Cristiani Il libro delle opere divine (Mondadori 2002). La sua profonda competenza matura dal 1980, prima dell’exploit storiografico della badessa, sicché il suo saggio è aggiornato ed esaustivo. Espone per quadri il pensiero e le opere con grande ricchezza di documenti, fra cui stralci degli scritti di diversa tipologia, lettere rilevanti a san Bernardo da Chiaravalle e ad altri religiosi, per la prima volta tradotte. Ildegarda, scrive, riconosce la trascendenza nell’esperienza femminile: «l’aspetto femminile del principio divino (…) si esprime nel creato, manifestandosi nella bellezza luminosa della materia vivificata dallo spirito, che in essa si cela e attraverso essa si lascia intravedere».
Nella sua ricca esposizione, monsignor Frosini dispiega la vasta conoscenza teologica di studioso e insegnante, di pastore al cuore della ricerca ecclesiale odierna, perfezionata in anni di opere e pubblicazioni considerevoli, anche nell’ambito della comunicazione. Dalla dotta esegesi storiografica che illustra anche l’eccezionale contesto del XII secolo, emerge la passione per un rinnovamento spirituale che fonde la sostanza delle origini con il messaggio del pensiero simbolico di Ildegarda, basato sulla «concezione integrale dell’uomo». La sua teologia della creazione parla di un Dio che crea per amore: genera come la donna desidera il figlio, ed è un padre «che parla, che ascolta, che ama»: un Dio Persona, immanente e trascendente. Sebbene condivida della propria epoca apocalissi e severità (si veda la condanna dei catari esposta da Pereira), crede in un Dio di misericordia: il rapporto con la morte non è solo punitivo. Anticipa il panenteismo, l’ecologia che santifica la materia vivente; sa che il peccato dell’uomo si ritorce su di lui e il castigo è un’autodistruzione inerente all’atto stesso. Indica la cooperazione dell’uomo nel progetto di Dio, la Chiesa come mistero nella storia, il giusto rapporto fra la Chiesa e il Regno.
Prima mistica a personificare l’Amore divino in una creatura femminile, Ildegarda dà alla luce germi vitali nel linguaggio simbolico della conoscenza profetica, che Pereira accosta alla conoscenza carnale femminile: il calore di gioia nelle viscere «quando ogni sinfonia del cielo» risuona di Maria. La vergine madre, prima materia lucente della creazione, anticipa la “quintessenza” (il paragone, ricorda Pereira, è di Mary Daly) che nutrirà il sogno alchemico di riportare la terra alla purezza del “ Fiat”: virgo/viriditas ha «radici nel sole / e, luminosa e serena / risplende nella ruota / che nessuna altezza sulla terra / racchiude».
(Avvenire, 25 aprile 2017)
di Alessandra Pigliaru
Narrativa. «Troppo sale. Un addio con ricette» di Stefania Giannotti, edito da Feltrinelli. Un memoir che riannoda i fili di un tempo improvvisamente mutato, con la morte di un figlio 17enne
«Bisogna lasciarlo fare il mondo. Non mi risparmierà niente, ma se taccio potrebbe raccontarmi quello che ancora non so e farmi vedere dove non vedo». È una commossa gratitudine ciò che scuote dopo la lettura di Troppo sale. Un addio con ricette, appena pubblicato da Stefania Giannotti per Feltrinelli (pp. 182, euro 16). Memoir esperienziale, fortemente spirituale, una preghiera alta e meravigliosa che racconta di bagliori e cadute, attraverso una scrittura poetica – e politica – su di sé e sul mondo.
AL CENTRO LA SCOMPARSA del figlio dell’autrice nel mare di Carloforte, in Sardegna, 25 anni fa. Il ragazzo, diciassettenne e amatissimo, è il «tu» che nella narrazione riannoda i fili di un tempo franto e improvvisamente cambiato di segno, da reinventare.
Nelle pagine consegnateci da Giannotti, quel «tu» diventa sineddoche di amore indiviso, di madre che sopravvive al dolore più grande e che, rivolgendosi alla propria mancanza, domanda di poter vivere ancora e lo fa.
Vive ancora, Stefania, nonostante un vuoto di deserti e che riesce a mutare in tavola da imbandire anche per chi se n’è andato.
Sullo sfondo, la luce imprevista dell’obbedienza al cielo, di un dio minuscolo che si comincia a scrivere in altro modo per farselo amico, infine il chiaroscuro di uno strappo che se dapprima imponeva silenzio, ora trova sponde, le parole per riferire di cose irreparabili, imponderabili, e che vanno prese in carico, con cura. Una speciale trama di relazioni, di affetto e di sostegno ha ricevuto Stefania Giannotti, a partire da quelle interne al femminismo, un modo per scalzare il «nulla» che ha accompagnato tutto il «dopo».
Insieme però c’è una presenza, nella insostenibile e incredula trafittura che da congedo diventa mancanza incolmabile, emerge soprattutto la forza di una donna che sceglie di restituire la narrazione di sé con una libertà del vivere che colpisce nel profondo.
CAPIRE, RASSEGNARSI, rinunciare alla propria vita, abbandonarsi allo scorrere dei giorni? Che fare, esattamente di quel che resta dei giorni? Stefania Giannotti decide di cucinare, o meglio di continuare a cucinare e tenere con sé, anche dopo la scomparsa del figlio, questo «campo relazionale» che è sempre stato il cibo per lei, osservato, maneggiato e preparato per fare da alimento; per sé e gli altri: «è il rito beato della trasformazione calcolata, della materia che cambia fino a diventare commestibile, appagante, piacere, nutrimento, distrazione».
Se il reale è capace di ghermire e procurarci strazi che mai ci saremmo aspettati di vivere, il reale del cibo è infatti quella materia – il dato prima opaco e spesso inespugnabile – che segue il verso della mano, perché si pensa, e si sente, anche con le mani. Si piega, la materia, alla vividezza sensuale di un consenso all’esistere. E si entra in contatto con gli altri e le altre, si innesca non la competizione culinaria a cui siamo abituati ma la dedizione al condividere.
UNA MEMORIA che non dice il piacere del consumo ma l’infinito intrattenersi della preparazione – come in una tessitura – con centinaia di ingredienti e abbinamenti che, in calce ai paragrafi e in appendice, raccontano in Troppo sale uno spazio che è casa ovunque. In un ristorante, in un luogo privato, al Cicip&Ciciap, o alla Libreria delle donne di Milano insieme alle cuoche di Estia: «la cucina allora è metafora della vita. Come lei prepotente pretende una partecipazione attenta e assorbe completamente la mente e il corpo. Non ci si può distrarre, rimandare, perdere la misura».
E la perdita diventa quasi accessibile, per uno strano catechismo della gioia di cui bene ha raccontato Cristina Campo. O per il ringraziamento stupito che si deve a chi non si ama, di cui ha scritto Wislawa Szymborska. «Perdo te e mi resta soltanto il mondo», sembra rispondere loro Stefania Giannotti. Un mondo stupefacente che come il cielo non finisce, dotato di una consistenza imperfetta e di cui il dolore e il desiderio di vivere sono parti che non possono essere espunte.
SCHEDA
Stefania Giannotti è architetta, la cucina è più di una passione; i suoi libri precedenti sono «Zucchero a velo» (La Tartaruga, 1990); «Fuochi» (Libreria delle donne di Milano), insieme ad altre autrici cuoche varie. Oggi, a Milano, nell’ambito di «Tempo di Libri» (16.30 – Sala Optima, pad. 4), la prima presentazione di «Troppo sale». Dialogherà con l’autrice Liliana Rampello.
(il manifesto, 20 aprile 2017)
In un libro di Stefania Giannotti
di Lucetta Scaraffia
Oggi siamo assediati dai cuochi e dai libri di cucina: ci perseguitano in mille programmi televisivi, ci sorridono invitanti dalle edicole, in una dura competizione fra di loro perché è in palio un business molto ricco, il successo mediatico, e pure l’ambita attribuzione all’inserimento nella categoria dei creativi, cioè le persone più oggetto di ammirazione nella nostra società. Invece la cucina come momento di relazione umana, di scambio affettivo, come cuore di quell’accoglienza di cui tutti gli esseri umani sentono profonda necessità, sembra sprofondata nel nulla. Muoiono le bisnonne, e le nonne — la pubblicità lo insegna — ti accolgono con i quattro salti in padella e altri cibi pronti.
Non facciamo l’errore di confondere il libro di Stefania Giannotti (Troppo sale, un addio con ricette, Milano, Feltrinelli, 2017, pagine 192, euro 16) con questo mondo alla moda, perché è veramente tutt’altra cosa. E, benché si parli di un addio, e di un addio terribile — la morte dell’unico figlio diciassettenne in un incidente — non è neppure la storia dell’elaborazione di un lutto. Proprio per questo è un libro sorprendente e bellissimo.
Perché l’autrice non vuole elaborare un bel niente, non vuole dimenticare neppure un attimo del suo dolore: non vuole dimenticare perché «questa possibile dimenticanza mi fa paura, mi si porterebbe via nel nulla». E parla anche di «un dolore che devo dosare per non dissiparlo. Penso a te finché posso, poi mi distraggo con mille stratagemmi».
Nel baratro del dolore, tante scoperte: «l’evento è luttuoso, ma non è la morte che non dà tregua, è la vita. Scopri la sua prepotenza. Diventa più intensa, più piena, più forte, vita donata, partecipata, da godere, vita libera, immensa. In una parola vita d’amore assoluto. Persino Dio l’invisibile si manifesta».
Questa potenza dell’esistere, che la meraviglia fin dal primo momento, trova la sua manifestazione più alta e più intensa in quella che è stata sempre la sua grande passione, la cucina. Perché, scrive ricorrendo al verbo nutrire — verbo che non è amato dai nuovi cuochi — «nutrire si accompagna bene con la perdita, ristabilisce un legame con la realtà che sfugge». Per Stefania cucinare è nutrire, entrare in un fecondo contatto con gli altri, «preparo il cibo per il corpo degli altri, lo nutro, cerco di dargli piacere, trasformo la materia senza pensare ad altro». Ma è anche qualcosa di più profondo: «mettersi ai fornelli può essere una modalità di resistenza pacifica, è riconoscere la sconfitta senza soccombere, è opporre al nulla un movimento, lasciando vuoto il nulla che non si può riempire».
È un modo per convivere con le amiche che la soccorrono, con le persone che le stanno intorno cercando di aiutarla, che però «non sanno obbedire al cielo, che non è una decisione da prendere ma un’esperienza improvvisa».
E qui nel libro, fra una ricetta e l’altra, fra la storia del dolore e la storia di un ristorante sui navigli, compare — in fondo non inaspettata — una riflessione su Dio: «Di Dio non me ne intendo ma ne ho esperienza. Lo trovo nell’assenza, nella mancanza, come se stesse proprio nel non esserci, nelle cose che non sono, nel non sapere. E fra tutte le mancanze la più grossa, l’assoluta, l’irrimediabile, la morte. Della morte me ne intendo. Quando mi ritrovai mio figlio fra le braccia, venuto su dal mare bagnato e pallido, sentii Dio nel suo ultimo respiro. Nell’ultimo respiro, non nel primo vagito, che consegna e trascina alla vita, tra le cose sensibili di cui tutto vuoi sapere. È nell’ultimo respiro, che patisci e va, non sai dove…».
È quasi impossibile scrivere una recensione a questo libro, con gli occhi appannati di lacrime, e al tempo stesso con l’intenzione di annotarti con segnalibri le ricette che vuoi provare a cucinare per prime. È difficile soprattutto perché non si può riassumere, non si può rinunciare alla forza delle parole che l’autrice ha scelto, con potenza assoluta, per illuminare il dolore. Oggi scrive, dopo venticinque anni, che il dolore è cambiato. «Mi tocca riconoscerlo, è più gentile. Ha trovato un suo posto piuttosto riservato e ha preso altre forme. È più gentile ma non gli basta niente. E nulla basta a me».
Per concludere che «il dolore può accompagnare l’esistenza e a cercare di farlo fuori o di sconfiggerlo si resta soli». I suoi lettori, sicuramente numerosi, sono tutti con lei. Magari ai fornelli.
(L’Osservatore Romano, 14 aprile 2017)