Tsultrim Allione è una donna statunitense, ma è anche un lama, cioè secondo i buddisti tibetani un essere con qualità straordinarie; una maestra di Dharma, termine sanscrito che indica gli insegnamenti del Buddha storico. Ha fondato il centro di meditazione Tara Mandala in Colorado (USA) e insegna il buddismo sia negli Stati Uniti sia in Europa.
Seguendo sentieri impervi (una serie di trasmissioni di Radio Tre sul Tibet, terra degli dei pacifici e irati, e altri miei percorsi personali) l’ho incontrata attraverso due libri che ha scritto: Donne di saggezza. Una via femminile di illuminazione (1984) e Nutri i tuoi demoni: Risolvere i conflitti interiori con la saggezza del Buddha (2008).
Il primo contiene sei biografie di altrettante “donne di saggezza” tibetane, vissute in quella terra remota e misteriosa dal dodicesimo secolo fino all’invasione cinese; il secondo un metodo psicologico-buddista per affrontare i demoni personali che ci ostacolano durante la vita quotidiana.
Sia il primo sia il secondo libro s’inspirano agli insegnamenti di una maestra buddhista dell’XI secolo, Machig Labdrön. Le date della sua vita sono incerte e variano secondo le fonti, ma molti studiosi ritengono che sia nata nel 1055 e che visse felicemente fino a novant’anni. La sua pratica spirituale era chiamata Chöd (da pronunciare “ciöh”), che significa “recidere”. Sviluppò questa forma di meditazione, inusuale anche alla sua epoca, ottenendo dei risultati così strabilianti da far diventare tale pratica molto famosa e diffusa in tutte le scuole del buddhismo tibetano e non solo.
Fino a qui nulla di particolare, mi si potrebbe obiettare, tutto all’interno di una delle più importanti religioni orientali: quello che mi ha incuriosito leggendo i testi sopra accennati è il suo riferimento a quello che si potrebbe senza dubbio definire una “genealogia femminile”.
Uso qui il termine genealogia riferendomi al pensiero di Angela Putino che distingue nelle donne una genealogia di provenienza (o di appartenenza) da una di discendenza: la seconda porta a un rapporto con la propria madre che Putino definisce un «luogo di necessità da cui non possiamo prescindere» e senza il quale ogni «movimento di libertà è precluso».
La prima genealogia invece è quella che conduce alla scoperta delle proprie radici ideali, ma non per questo meno concrete, in cui ritroviamo tutte le resistenze delle donne, il loro riaffermarsi, il loro sapere e il trasmetterlo da una all’altra.
Sono due movimenti, quello della discendenza e dell’appartenenza, che si distinguono pur intersecandosi: è però la genealogia d’appartenenza che introduce salti nella linearità della discendenza e che determina uno spezzarsi dell’appiattimento all’interno di un genere e alla complementarietà o alla subalternità al maschile.
Per tornare a Tsultrim Allione, in Nutri i tuoi demoni dedica il testo alla «mia preziosa madre, Ruth, radioso esempio di compassione e amore incondizionato della mia vita» (genealogia di discendenza) ma afferma anche che «Machig diventò un faro nella mia ricerca della saggezza in un mondo difficile, una visione del potenziale femminile. […] La storia di Machig e le cinque biografie delle mistiche tibetane che trovai in seguito costituirono il soggetto del mio primo libro, Donne di saggezza. […] Per trovare una via che effettivamente conduca alla liberazione, la donna deve ispirarsi ad altre figure femminili che l’abbiano raggiunta» (la genealogia di appartenenza).
Tsultrim ragiona anche sugli ostacoli che una donna deve superare lungo la via dell’Illuminazione, un percorso che reca ancor oggi l’impronta inequivocabile della sua nascita nel mondo maschile. E afferma, come il femminismo fa da cinquant’anni, che le storie delle donne non sono state narrate e senza storie l’esperienza non si articola. Senza storie, quando arriva a dover prendere le decisioni importanti della vita, la donna si sente smarrita: non impara a stimare le sue lotte, a celebrare il suo potere, a comprendere il suo dolore. Senza storie è alienata dalle esperienze più profonde di se stessa e del mondo, esperienze che sono state chiamate spirituali o religiose; resta chiusa nel silenzio.
Se è pur vero che Tsultrim è nata come donna occidentale e quindi si è aperta, anche inconsapevolmente, alle suggestioni dei femminismi contemporanei, questo percorso dimostra quanto la libertà femminile sia stata capace (e lo sia tuttora) di viaggiare e raggiungere anche angoli impensati nell’esperienza delle donne emergendo anche negli ambienti più remoti. Anche sul “tetto del mondo”! Si potrebbe quindi ben dire con Amleto, osservando l’operare del femminismo e la sua capacità di scuotere la “crosta terrestre” del nostro presente: «Ben detto, vecchia talpa! Puoi scavar nella terra così presto? Un bravo zappatore!» (W. Shakespeare, Amleto, atto I sc. 5).
(www.libreriadelledonne.it, 27 aprile 2017)
di Mariangela Mianiti
Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei di Mira Furlani edito da Gabrielli
Ha poco più di cento pagine, ma più si procede nella lettura, più scotta fra le dita, scatena desiderio di ribellione, muove empatia. Ci sono voluti quasi 50 anni perché Mira (contrazione di Casimira) Furlani, quasi 80 anni, si desse il diritto di scrivere Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei (Gabrielli editore, pp. 112, euro 12). La prosa scorre e avviluppa, capace di narrare con quella verità emotiva che solo un, in questo caso una, protagonista diretta sa dare. Il punto di partenza è la nascita dell’Isolotto di Firenze, quartiere popolare dove nel 1968 sorse la prima Comunità cristiana di base (Cdb) italiana e nella cui parrocchia Mira fondò e gestì, nel 1959 e con un’amica, la prima casa famiglia per bambini e bambine orfani e abbandonati.
Molto si è scritto sull’esperienza dell’Isolotto e della comunità che, attorno alla figura di don Enzo Mazzi, diede vita a pratiche comuni di condivisione e accoglimento che portavano avanti istanze di lavoratori, studenti, credenti e non.
Fu un’esperienza rivoluzionaria, prima appoggiata dal vescovo cardinale Elia Dalla Costa e poi osteggiata, in modo anche feroce, dal suo successore monsignor Ermenegildo Florit che non esitò ad appoggiarsi alle forze più reazionarie della città, compreso il partito fascista del Msi.
Fino a questo libro di Mira, quella stagione non era mai stata raccontata da uno sguardo femminile. Fa differenza? Ne fa, e tanta, perché per la prima volta Mira narra la sua esperienza di donna dentro quella rivolta svelando, come ha detto Luisa Muraro, una rivolta nella rivolta. Ciò rende questo libro necessario. Qual è la rivolta di Mira e perché ci ha impiegato così tanto tempo prima di decidersi a narrarla? Se lo svelassi nel dettaglio, toglierei al lettore il piacere di scoprirlo da solo, ma soprattutto sminuirei l’emozione palpabile e la verità con cui Mira ripercorre le sue battaglie, le fatiche, le gioie, le scoperte, le delusioni e i dolori di quel periodo.
Però una cosa va detta: la rivolta riguarda don Mazzi non tanto nel suo ruolo pubblico, ma rispetto al modo con cui costruì e governò la relazione con Mira. Non si tratta di relazione amorosa e carnale, ma umana e sociale e riguarda l’impegno che Mira si assunse soprattutto nella casa-famiglia, il riconoscimento che fu negato al suo ruolo e alla sua figura, il non ascolto del suo pensiero. Questo scarto non soppresse l’affetto e la stima fra lei e don Mazzi, ma le rese impossibile far finta di niente.
Era stato don Mazzi a chiederle di assumersi il compito di madre affidataria, e ufficiosa, di quei bambini. Mira non aveva mai pensato né aspirato a quel tipo di impegno, anzi, prima di conoscere don Mazzi non era nemmeno interessata alla religione, era iscritta alla Cgil e al Pci e non andava in chiesa da anni. Il grande desiderio di verità, il riconoscersi nelle parole del Vangelo cambiarono radicalmente la sua vita. Quando don Mazzi le propose di dirigere la casa-famiglia lei accettò e svolse il suo lavoro con dedizione totale, aggiungendolo all’impiego che già aveva in una società di trasporti.
Ciò nonostante, don Mazzi non riconobbe mai a Mira, né pubblicamente né nel privato, quel ruolo faticoso e impegnativo sia fisicamente che psicologicamente. Più volte Furlani si ribellò a questa ingiustizia, ma invano, tant’è che scrive di essersi sentita considerata come una serva.
Rendersi libera è stato il lavoro che Mira ha sempre fatto d’istinto, ma per lei è diventato consapevolezza e pratica quotidiana quando, negli anni Settanta, ha incontrato il femminismo dell’autocoscienza e della differenza.
«L’autorità femminile – scrive – è una forza propulsiva che scaturisce dal profondo del pensiero della differenza sessuale, il cui apparire ha rivoluzionato ogni visione maschile patriarcale di paternità assoluta e piramidale, compresa quella gerarchica e sacrale della chiesa cattolica. Oggi non possiamo più discutere se rendere la società e le chiese più o meno democratiche: bisogna invece alimentare una pratica politica di autocoscienza maschile che possa rompere la scala gerarchica del potere assoluto del padre».
(il manifesto, 26 aprile 2017)
di Rosita Copioli
Due volumi ricostruiscono la complessità del pensiero di santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), una delle figure più straordinarie non solo del Medioevo
Escono da Pistoia due ottimi libri su santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), una delle figure più straordinarie non solo del Medioevo, dichiarata Dottore della Chiesa nel 2012. Ildegarda si distingue per complessità e bellezza della sua opera tra poesia, teologia, arte, per la sua fisionomia personale e storica d’immenso fascino e rilievo. Il libro di Michela Pereira (Ildegarda di Bingen, Gabrielli, pagine 176, euro 15,00) è fondamentale per la sua conoscenza, anche sul versante dell’innovazione teologica dell’esperienza femminile; l’altro di Giordano Frosini (Ildegarda di Bingen,Edb, pagine 268, euro 23,80) lo è per il suo inquadramento negli ambiti storici della teologia, anche postconciliare.
Nata a Bermesheim sul Reno da una famiglia feudale, entrata a otto anni nel monastero benedettino di Disibodenberg, Ildegarda possedeva dall’infanzia il dono della lucida visione, all’«ombra della luce vivente»; ma solo a quarantadue anni, divenuta badessa, ubbidì alla voce che le imponeva di scrivere al modo dei profeti, manifestando un’autorità indiscussa anche presso papi e sovrani, da Eugenio III a Federico I Barbarossa, che fustigò quando insisteva con i suoi antipapi.
Era sempre fragile e malata. Eppure affrontò continui viaggi per predicare, e vincendo dure opposizioni, fondò un grande monastero sul Ruperstberg. Verso la fine della vita manifestò ancora la sua natura di Antigone fedele solo alla legge divina, quando disubbidì ai prelati di Magonza che le intimavano di disseppellire dal Rupertsberg il cadavere di un gentiluomo scomunicato.
Illustrati da miniature meravigliose lo Scivias (“Conosci le vie”, 1147-1151), il Liber vitae meritorum (“Il libro dei meriti della vita”, 1158-1163), il Liber divinorum operum (“Il libro delle opere divine”, 1163-1174) si intrecciano alle opere naturalistiche e mediche, al Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum (“Le sottili differenze delle diverse nature delle creature”), alla rappresentazione sacra Ordo virtutum (“L’ordine delle virtù”, 1141-1151), alle liriche musicate, la Symphonia harmoniae caelestium revelationum(“ La sinfonia dell’armonia delle rivelazioni celesti”, 1151-1158), a esegesi e agiografie, alle splendide epistole in un sistema che corrisponde alla concezione unitaria dell’universo creato dall’Amore di Dio-Trinità: uovo cosmico, poi ruota mossa dallo Spirito infuocato, con al centro l’uomo nella sua duplice forma maschile e femminile.
Sebbene protesti di essere « paupercula » e conoscere solo i Salmi e i Vangeli, Ildegarda fonde tutta la teologia platonico- cristiana: gli stoici, Plotino, Agostino, Dionigi l’Areopagita, Giovanni Scoto (dal Libro sulle nature dell’universo Ildegarda mutua l’homo- omnis, unità ontologica tra uomo e universo, il microcosmo descritto nel Libro delle opere divine), la scuola di Chartres con Guglielmo di Conches, Ugo di San Vittore con De archa Noe, fonte del “pensare visivo” del XII secolo.
Ildegarda si fa specchio ed eco della bellezza sinfonica dell’incarnazione trinitaria di Amore, regolata da Discrezione: vuole combaciare con Carità-Chiarità che è sposa di Dio e Sapienza, lo Spirito Santo che per la verde forza di vita germinante (viriditas) è anima del mondo, e dal seno della Vergine Aurora, trae la luce di zaffiro del Cristo che riconduce all’unità dell’Eden, luogo della prima e ultima intimità con lui.
Michela Pereira è tra i maggiori studiosi di filosofia medievale e alchimia, nonché tra i massimi di Ildegarda, e ne curò con Marta Cristiani Il libro delle opere divine (Mondadori 2002). La sua profonda competenza matura dal 1980, prima dell’exploit storiografico della badessa, sicché il suo saggio è aggiornato ed esaustivo. Espone per quadri il pensiero e le opere con grande ricchezza di documenti, fra cui stralci degli scritti di diversa tipologia, lettere rilevanti a san Bernardo da Chiaravalle e ad altri religiosi, per la prima volta tradotte. Ildegarda, scrive, riconosce la trascendenza nell’esperienza femminile: «l’aspetto femminile del principio divino (…) si esprime nel creato, manifestandosi nella bellezza luminosa della materia vivificata dallo spirito, che in essa si cela e attraverso essa si lascia intravedere».
Nella sua ricca esposizione, monsignor Frosini dispiega la vasta conoscenza teologica di studioso e insegnante, di pastore al cuore della ricerca ecclesiale odierna, perfezionata in anni di opere e pubblicazioni considerevoli, anche nell’ambito della comunicazione. Dalla dotta esegesi storiografica che illustra anche l’eccezionale contesto del XII secolo, emerge la passione per un rinnovamento spirituale che fonde la sostanza delle origini con il messaggio del pensiero simbolico di Ildegarda, basato sulla «concezione integrale dell’uomo». La sua teologia della creazione parla di un Dio che crea per amore: genera come la donna desidera il figlio, ed è un padre «che parla, che ascolta, che ama»: un Dio Persona, immanente e trascendente. Sebbene condivida della propria epoca apocalissi e severità (si veda la condanna dei catari esposta da Pereira), crede in un Dio di misericordia: il rapporto con la morte non è solo punitivo. Anticipa il panenteismo, l’ecologia che santifica la materia vivente; sa che il peccato dell’uomo si ritorce su di lui e il castigo è un’autodistruzione inerente all’atto stesso. Indica la cooperazione dell’uomo nel progetto di Dio, la Chiesa come mistero nella storia, il giusto rapporto fra la Chiesa e il Regno.
Prima mistica a personificare l’Amore divino in una creatura femminile, Ildegarda dà alla luce germi vitali nel linguaggio simbolico della conoscenza profetica, che Pereira accosta alla conoscenza carnale femminile: il calore di gioia nelle viscere «quando ogni sinfonia del cielo» risuona di Maria. La vergine madre, prima materia lucente della creazione, anticipa la “quintessenza” (il paragone, ricorda Pereira, è di Mary Daly) che nutrirà il sogno alchemico di riportare la terra alla purezza del “ Fiat”: virgo/viriditas ha «radici nel sole / e, luminosa e serena / risplende nella ruota / che nessuna altezza sulla terra / racchiude».
(Avvenire, 25 aprile 2017)
di Alessandra Pigliaru
Narrativa. «Troppo sale. Un addio con ricette» di Stefania Giannotti, edito da Feltrinelli. Un memoir che riannoda i fili di un tempo improvvisamente mutato, con la morte di un figlio 17enne
«Bisogna lasciarlo fare il mondo. Non mi risparmierà niente, ma se taccio potrebbe raccontarmi quello che ancora non so e farmi vedere dove non vedo». È una commossa gratitudine ciò che scuote dopo la lettura di Troppo sale. Un addio con ricette, appena pubblicato da Stefania Giannotti per Feltrinelli (pp. 182, euro 16). Memoir esperienziale, fortemente spirituale, una preghiera alta e meravigliosa che racconta di bagliori e cadute, attraverso una scrittura poetica – e politica – su di sé e sul mondo.
AL CENTRO LA SCOMPARSA del figlio dell’autrice nel mare di Carloforte, in Sardegna, 25 anni fa. Il ragazzo, diciassettenne e amatissimo, è il «tu» che nella narrazione riannoda i fili di un tempo franto e improvvisamente cambiato di segno, da reinventare.
Nelle pagine consegnateci da Giannotti, quel «tu» diventa sineddoche di amore indiviso, di madre che sopravvive al dolore più grande e che, rivolgendosi alla propria mancanza, domanda di poter vivere ancora e lo fa.
Vive ancora, Stefania, nonostante un vuoto di deserti e che riesce a mutare in tavola da imbandire anche per chi se n’è andato.
Sullo sfondo, la luce imprevista dell’obbedienza al cielo, di un dio minuscolo che si comincia a scrivere in altro modo per farselo amico, infine il chiaroscuro di uno strappo che se dapprima imponeva silenzio, ora trova sponde, le parole per riferire di cose irreparabili, imponderabili, e che vanno prese in carico, con cura. Una speciale trama di relazioni, di affetto e di sostegno ha ricevuto Stefania Giannotti, a partire da quelle interne al femminismo, un modo per scalzare il «nulla» che ha accompagnato tutto il «dopo».
Insieme però c’è una presenza, nella insostenibile e incredula trafittura che da congedo diventa mancanza incolmabile, emerge soprattutto la forza di una donna che sceglie di restituire la narrazione di sé con una libertà del vivere che colpisce nel profondo.
CAPIRE, RASSEGNARSI, rinunciare alla propria vita, abbandonarsi allo scorrere dei giorni? Che fare, esattamente di quel che resta dei giorni? Stefania Giannotti decide di cucinare, o meglio di continuare a cucinare e tenere con sé, anche dopo la scomparsa del figlio, questo «campo relazionale» che è sempre stato il cibo per lei, osservato, maneggiato e preparato per fare da alimento; per sé e gli altri: «è il rito beato della trasformazione calcolata, della materia che cambia fino a diventare commestibile, appagante, piacere, nutrimento, distrazione».
Se il reale è capace di ghermire e procurarci strazi che mai ci saremmo aspettati di vivere, il reale del cibo è infatti quella materia – il dato prima opaco e spesso inespugnabile – che segue il verso della mano, perché si pensa, e si sente, anche con le mani. Si piega, la materia, alla vividezza sensuale di un consenso all’esistere. E si entra in contatto con gli altri e le altre, si innesca non la competizione culinaria a cui siamo abituati ma la dedizione al condividere.
UNA MEMORIA che non dice il piacere del consumo ma l’infinito intrattenersi della preparazione – come in una tessitura – con centinaia di ingredienti e abbinamenti che, in calce ai paragrafi e in appendice, raccontano in Troppo sale uno spazio che è casa ovunque. In un ristorante, in un luogo privato, al Cicip&Ciciap, o alla Libreria delle donne di Milano insieme alle cuoche di Estia: «la cucina allora è metafora della vita. Come lei prepotente pretende una partecipazione attenta e assorbe completamente la mente e il corpo. Non ci si può distrarre, rimandare, perdere la misura».
E la perdita diventa quasi accessibile, per uno strano catechismo della gioia di cui bene ha raccontato Cristina Campo. O per il ringraziamento stupito che si deve a chi non si ama, di cui ha scritto Wislawa Szymborska. «Perdo te e mi resta soltanto il mondo», sembra rispondere loro Stefania Giannotti. Un mondo stupefacente che come il cielo non finisce, dotato di una consistenza imperfetta e di cui il dolore e il desiderio di vivere sono parti che non possono essere espunte.
SCHEDA
Stefania Giannotti è architetta, la cucina è più di una passione; i suoi libri precedenti sono «Zucchero a velo» (La Tartaruga, 1990); «Fuochi» (Libreria delle donne di Milano), insieme ad altre autrici cuoche varie. Oggi, a Milano, nell’ambito di «Tempo di Libri» (16.30 – Sala Optima, pad. 4), la prima presentazione di «Troppo sale». Dialogherà con l’autrice Liliana Rampello.
(il manifesto, 20 aprile 2017)
In un libro di Stefania Giannotti
di Lucetta Scaraffia
Oggi siamo assediati dai cuochi e dai libri di cucina: ci perseguitano in mille programmi televisivi, ci sorridono invitanti dalle edicole, in una dura competizione fra di loro perché è in palio un business molto ricco, il successo mediatico, e pure l’ambita attribuzione all’inserimento nella categoria dei creativi, cioè le persone più oggetto di ammirazione nella nostra società. Invece la cucina come momento di relazione umana, di scambio affettivo, come cuore di quell’accoglienza di cui tutti gli esseri umani sentono profonda necessità, sembra sprofondata nel nulla. Muoiono le bisnonne, e le nonne — la pubblicità lo insegna — ti accolgono con i quattro salti in padella e altri cibi pronti.
Non facciamo l’errore di confondere il libro di Stefania Giannotti (Troppo sale, un addio con ricette, Milano, Feltrinelli, 2017, pagine 192, euro 16) con questo mondo alla moda, perché è veramente tutt’altra cosa. E, benché si parli di un addio, e di un addio terribile — la morte dell’unico figlio diciassettenne in un incidente — non è neppure la storia dell’elaborazione di un lutto. Proprio per questo è un libro sorprendente e bellissimo.
Perché l’autrice non vuole elaborare un bel niente, non vuole dimenticare neppure un attimo del suo dolore: non vuole dimenticare perché «questa possibile dimenticanza mi fa paura, mi si porterebbe via nel nulla». E parla anche di «un dolore che devo dosare per non dissiparlo. Penso a te finché posso, poi mi distraggo con mille stratagemmi».
Nel baratro del dolore, tante scoperte: «l’evento è luttuoso, ma non è la morte che non dà tregua, è la vita. Scopri la sua prepotenza. Diventa più intensa, più piena, più forte, vita donata, partecipata, da godere, vita libera, immensa. In una parola vita d’amore assoluto. Persino Dio l’invisibile si manifesta».
Questa potenza dell’esistere, che la meraviglia fin dal primo momento, trova la sua manifestazione più alta e più intensa in quella che è stata sempre la sua grande passione, la cucina. Perché, scrive ricorrendo al verbo nutrire — verbo che non è amato dai nuovi cuochi — «nutrire si accompagna bene con la perdita, ristabilisce un legame con la realtà che sfugge». Per Stefania cucinare è nutrire, entrare in un fecondo contatto con gli altri, «preparo il cibo per il corpo degli altri, lo nutro, cerco di dargli piacere, trasformo la materia senza pensare ad altro». Ma è anche qualcosa di più profondo: «mettersi ai fornelli può essere una modalità di resistenza pacifica, è riconoscere la sconfitta senza soccombere, è opporre al nulla un movimento, lasciando vuoto il nulla che non si può riempire».
È un modo per convivere con le amiche che la soccorrono, con le persone che le stanno intorno cercando di aiutarla, che però «non sanno obbedire al cielo, che non è una decisione da prendere ma un’esperienza improvvisa».
E qui nel libro, fra una ricetta e l’altra, fra la storia del dolore e la storia di un ristorante sui navigli, compare — in fondo non inaspettata — una riflessione su Dio: «Di Dio non me ne intendo ma ne ho esperienza. Lo trovo nell’assenza, nella mancanza, come se stesse proprio nel non esserci, nelle cose che non sono, nel non sapere. E fra tutte le mancanze la più grossa, l’assoluta, l’irrimediabile, la morte. Della morte me ne intendo. Quando mi ritrovai mio figlio fra le braccia, venuto su dal mare bagnato e pallido, sentii Dio nel suo ultimo respiro. Nell’ultimo respiro, non nel primo vagito, che consegna e trascina alla vita, tra le cose sensibili di cui tutto vuoi sapere. È nell’ultimo respiro, che patisci e va, non sai dove…».
È quasi impossibile scrivere una recensione a questo libro, con gli occhi appannati di lacrime, e al tempo stesso con l’intenzione di annotarti con segnalibri le ricette che vuoi provare a cucinare per prime. È difficile soprattutto perché non si può riassumere, non si può rinunciare alla forza delle parole che l’autrice ha scelto, con potenza assoluta, per illuminare il dolore. Oggi scrive, dopo venticinque anni, che il dolore è cambiato. «Mi tocca riconoscerlo, è più gentile. Ha trovato un suo posto piuttosto riservato e ha preso altre forme. È più gentile ma non gli basta niente. E nulla basta a me».
Per concludere che «il dolore può accompagnare l’esistenza e a cercare di farlo fuori o di sconfiggerlo si resta soli». I suoi lettori, sicuramente numerosi, sono tutti con lei. Magari ai fornelli.
(L’Osservatore Romano, 14 aprile 2017)
di Luciana Tavernini
Insegnare, prendersi cura, dirigere un’azienda. Esperienze di vita, di lavoro e di cambiamento – personale e relazionale – che cercano una forma di scrittura per dire e dirsi:
Vita Cosentino, Scuola. Sembra ieri, è già domani. L’autoriforma come trasformazione della vita pubblica, a cura di Marina Santini e Alessio Miceli, Moretti & Vitali, Bergamo 2016, pp. 282, euro 18,00
Franca Fortunato, Sai chi è Lina Scalzo?, e-Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano 2016, pp. 22, scaricabile gratuitamente da www.libreriadelledonne.it
Luisa Pogliana, Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende, Guerini Next, Milano 2016, pp.142, euro 17,00
Sempre più donne creano libri “su misura” per dire ciò che hanno scoperto o vanno scoprendo: prendono dai generi letterari quelle caratteristiche che possono mettere in luce le loro pratiche, come facciamo quando ci vestiamo per essere al meglio, senza la pretesa che le nostre scelte divengano delle divise.
Così possiamo leggere libri che ci sorprendono non solo per quello che dicono ma anche per le sfaccettature della loro composizione.
In Scuola. Sembra ieri, è già domani incontriamo dapprima un’autobiografia politica – non a caso intitolata “Incontri che trasformano. Una storia non singolare” perché in essa ritroviamo passaggi delle nostre esistenze degli ultimi cinquant’anni – in cui Vita Cosentino indica ciò che per lei ha prodotto cambiamento, inducendoci al confronto: dal trasformare i divieti paterni in occasioni per salvare l’essenziale (l’amore per la scrittura e la cura di chi è più debole), alle sperimentazioni personali e collettive del ’68, alla scoperta del piacere dell’insegnamento, al femminismo per lei più fecondo di invenzioni e di possibilità di azione politica dal 1980 in poi. Se in questo primo testo le possibilità che si sono aperte sono indicate in un linguaggio limpido e sintetico, nel resto del libro vediamo come sono state giocate in vari momenti storici e che cosa hanno prodotto.
Il libro infatti prosegue con sei raccolte di testi, scritti in più di venticinque anni dall’autrice, alcuni con altre e altri per riflettere su esperienze condivise, testi scelti insieme a Marina Santini e Alessio Miceli, due insegnanti che li hanno selezionati “sulla base di quanto risuona nel presente”. E così ci troviamo di fronte a un punto essenziale di questo modo di intendere la politica: riesco a dire ciò che faccio soprattutto in relazione con un’altra e anche con un altro, se non ha la pretesa che la sua sia la sola visione possibile del mondo. Nei testi veniamo sempre a conoscenza degli intrecci di relazioni che hanno generato i cambiamenti.
Inoltre non è la cronologia che ordina, anche se di ogni saggio nella essenziale nota iniziale viene presentato il contesto e quando è stato reso pubblico (un convegno, una rivista, un libro…), ma il desiderio di offrire alcune di quelle scoperte che hanno cambiato il modo di intendere e di fare politica. Essendo l’autrice un’insegnante che ha lavorato dagli anni Settanta in poche scuole sempre di periferia, le esperienze da cui nasce questo sapere hanno al centro la scuola. Diverse volte i saggi si illuminano di racconti emozionanti: infatti è in atto una ricerca che parte da interrogativi veri, mossi da un’attenzione amorosa verso le creature piccole e tutti i soggetti che vivono loro attorno.
Illuminare l’esperienza
Come dice il titolo della collana, diretta da Annarosa Buttarelli, in cui il libro è inserito, Pensiero e pratiche di trasformazione, è leggendolo che possiamo incontrare il venire alla luce di parole che illuminano l’esperienza. E, come ogni nascita, richiede attenzione non solo da parte di chi scrive ma anche da parte di noi che leggiamo. Qui dunque posso solo fare brevi accenni. Innanzi tutto Vita Cosentino sa vedere cosa produce l’irruzione della soggettività, quella femminile, l’imprevisto storico del nostro tempo: sa nominare i cambiamenti nel modo di essere insegnanti in classe e nelle relazioni con altre colleghe, come, ad esempio, trovare e proporre figure femminili perché ragazze e ragazzi possano modificare il loro immaginario e inventare modalità in cui nel corpo sessuato, visto come unicum, le varie aree corporea, affettiva, cognitiva siano attivate insieme.
Quello che le permette di continuare a inventare pratiche trasformative e a metterle in parola, superando la semplice narrazione di un’esperienza, è il rapporto costante con la Libreria delle donne di Milano e una politica della libertà che le corrisponde. Lei può esserci da subito nel mondo con i suoi desideri più profondi, senza rimandarli a dopo “la presa del potere”; capisce con altre qualcosa in più di sé e del mondo senza voler applicare una teoria generale, pensata da altri; può agire instaurando rapporti personali, dando credito a “un cambiamento di sé” nel presente nelle relazioni in cui ci si trova; sa così inventare pratiche di vita sottratte al potere, mettendosi in gioco, avendo e dando fiducia, grazie alla forza trasformativa della lingua.
Infatti nella parte finale dal suggestivo titolo Tutto è lingua viene sottolineato come il dare forma propria a ciò che si sente, l’espressione di sé, in particolare con la scrittura, è un bisogno fondamentale di ogni essere umano. L’autrice allora può polemizzare con alcuni aspetti della scuola di Barbiana di Don Milani o con Le 10 tesi per un’educazione linguistica democratica, riuscendo ad andare oltre proponendo, ad esempio, “una pratica di scrittura relazionale, non solitaria ma interlocutoria”.
Nota come le nuove generazioni cerchino il riferimento nelle figure adulte e come sia importante trovare strumenti per esprimere giudizi: infatti punizioni o terrorismo verbale sono percepiti come poveri e quindi, invece di legare autorità e potere al ruolo o alla materia da insegnare, occorre assumerli con la parola dove la misura dell’esattezza del discorso non è data una volta per tutte ma dal non falsificare la realtà aprendo alla libertà dell’altra/o, dando consapevolezza ad allieve e allievi della loro capacità di usare una lingua viva.
Nel libro si ragiona su cos’è movimento politico, mostrando esperienze come il Seminario di Pedagogia della differenza di Milano all’inizio degli anni Novanta, o l’autoriforma gentile, dove donne e uomini hanno sperimentato il pensare insieme, riuscendo a dire e fare iniziative, fuori dal coro delle istituzioni della sinistra, sulle “riforme, maledette riforme”, tenendo viva “la felicità di insegnare”. Vita Cosentino ha saputo cogliere la politicità delle lotte delle maestre per la difesa del tempo pieno o di quelle per opporsi agli aspetti disumani degli sgomberi dei campi rom, mostrando il “valore in più” che sanno dare alla vita di tutta la società, grazie al loro saper stare vicino alle creature piccole. Ecco allora scorrere diverse esperienze dal convegno Le maestre e il professore, al film L’amore che non scordo, alle assemblee contro il cosiddetto “maestro unico”, all’attenzione per le pratiche delle maestre e delle mamme di via Rubattino a Milano, alle modalità di un’osservazione, seguita dalla conversazione con la maestra della classe osservata, e altro ancora.
Il libro ci ripropone documenti degli ultimi venticinque anni e ci aiuta a ripercorre momenti in cui le e gli insegnanti hanno aperto un confronto sul tipo di società in cui desideriamo vivere, mostrando il modo relazionale con cui sono riuscite in alcuni casi a far tornare sui suoi passi il Ministero, come nel caso del concorsone per dare aumenti ad alcune/i, perché hanno saputo mettere in luce che ciò che rende buona la scuola non è la conoscenza – da parte dell’insegnante e poi delle classi – del massimo di nozioni e neppure il saper strutturare una lezione dove tutto passa secondo programmazione, ma il saper progettare con l’apertura all’imprevisto, suscitando “domande vere”, quelle di cui non sappiamo già le risposte.
Nominare i cambiamenti
Con l’entrata in massa delle donne nel mondo del lavoro diviene sempre più urgente l’impegno a osservare e nominare i cambiamenti prodotti. Mi pare che in questa direzione si siano mossi alcuni recenti libri che mi hanno dato la sensazione del diradarsi della nebbia delle interpretazioni stantie.
Accennerò a Sai chi è Lina Scalzo? di Franca Fortunato e a Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende di Luisa Pogliana.
Il primo è un e-book in duplice formato e-pub e pdf, che inaugura la collana di Quaderni elettronici pubblicati dalla Libreria delle donne di Milano. Si tratta di un’intervista introdotta però dall’autobiografia di un’amicizia politica quarantennale tra l’autrice e l’intervistata, senza la quale non sarebbe stato possibile mettere in luce le trasformazioni e le contraddizioni aperte nelle istituzioni assistenziali.
Il racconto di Lina Scalzo, che prende slancio dalle domande di Franca Fortunato, ci mostra come dal 1943 alcune donne, mettendosi in gioco interamente abbiano inventato pratiche all’origine del welfare state. Ripercorrendo momenti salienti della sua esperienza lavorativa e non solo, Lina va al cuore dei problemi che toccano la cura, indicando alcune pratiche che mettono in discussione le modalità neutralizzanti e aziendalistiche che sembrano rendere i servizi più efficienti ma stanno pericolosamente disumanizzando “gli utenti”. Ci mostra come è necessario il rispetto della soggettività dell’altra, persino quando non è più viva, di come sia possibile la costruzione di un ambiente familiare, in cui ricoverate e assistenti lavorino insieme e abbiano così il senso di poter contribuire, ciascuna a modo suo, al benessere di tutte. Anche qui non troviamo protocolli, ma leggiamo racconti che ci aiutano a evitare l’ordinaria, e forse inconsapevole, disumanizzazione nell’efficienza e neutralità, oggi predicati. Anche qui il sapere non è tutto da una parte ma si costruisce insieme, dando spazio alla soggettività dell’altra. È infatti dall’ascolto di alcune ricoverate che si possono imparare gesti di rispetto come entrare nella stanza salutando, chiudere la porta, smettere di parlare tra assistenti mentre si lava e si veste una donna, alzare il lenzuolo quello che basta rispettando il pudore del corpo, lasciare sui comodini gli oggetti personali, tanto per fare degli esempi. Inoltre ci confrontiamo con le riflessioni sui cambiamenti, conseguenza della legge sulla parità del 1977. In modo pacato il libro mostra le contraddizioni dei reparti misti: dagli operatori che faticano a imparare dalla competenza femminile maturata negli anni; alla perdita, nel rapporto con gli uomini, di intimità e libertà delle donne ricoverate; alla loro difesa dalla prepotenza e aggressività di alcuni. Problemi da tener presente per dare giorno dopo giorno soluzioni. E poi invenzioni come la pratica del ricostruire le storie personali, andando nei luoghi d’origine delle ricoverate, incontrandovi le persone rimaste nei ricordi: una modalità che non separa corpo, affettività, apprendimento, che tiene insieme passato e presente. Una pratica che crea consapevolezza di come in diversi casi, alla base di un disturbo psichico vi sia stata una violenza maschile taciuta, che ora siamo in grado di svelare, senza colpevolizzare la donna che l’ha subita, anzi liberandola, seppure siano passati tanti anni.
Un libro breve e intenso che non è solo utile nei corsi professionali e universitari, compresa medicina e psichiatria, ma aiuta tutte le persone che si prendono cura di chi ha bisogno di aiuto perché riesce a darci orientamenti che rendono più felice la nostra vita. Un libro, anche questo, dove si vede in atto l’importanza della politica del simbolico, quella politica che, riuscendo a mettere in parole l’esperienza, grazie alla relazione almeno con un’altra, ci rende consapevoli della direzione del nostro agire in una situazione e ci dà maggiori energie per continuare ad impegnarci.
Il testo di Luisa Pogliana Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende, suddiviso in brevi capitoli e paragrafi, intervallati dal racconto puntuale di situazioni precise, mette in discussione il modo di concepire il management volto alla ricerca di risultati a breve termine da portare agli azionisti dell’azienda, imponendo le scelte attraverso una gerarchia rigida e ruoli predefiniti e controllandone l’esecuzione. Promotrice dell’associazione donnesenzaguscio, l’autrice, discutendo con le altre dell’associazione, con Giordana Masotto e Lia Cigarini, e coinvolgendo diverse manager, ha mostrato come alla base di soluzioni innovative vi sia una diversa concezione non solo del modo di dirigere un’azienda ma dell’azienda stessa.
Le manager di cui vengono presentate parecchie esperienze, scelte di volta in volta come esempio di attuazione di un criterio, di un orientamento, invece di imporre modelli, programmi e procedure, cioè norme e procedure stabilite prima, propongono metodi, progetti, processi cioè un cammino per tendere a una meta, andando avanti. Esse gestiscono il presente, progettano nella realtà creando situazioni di controllo e responsabilità diffusa, non temendo di svalorizzarsi perché “la responsabilità, come la conoscenza o un sentimento, è qualcosa a cui non si rinuncia nel momento in cui si condivide”. Si tratta di imparare a scoprire e coltivare le potenzialità di chi si dirige, creando però sistemi premianti sia con una retribuzione materiale che immateriale. Le donne, soggetti complessi che nel lavoro portano tutta la complessità della vita, creano modalità di riconsiderare il tempo – sia, ad esempio, con il part time sia con il lavoro agile – ma fanno in modo che queste modalità non portino alla maggiore precarizzazione e a una perdita di professionalità. Non solo: la maternità ma anche la paternità, delle dirigenti e delle e dei dipendenti diventano stimolo per soluzioni che portano innovazioni e profitto alle aziende, invece di essere trattate come inciampi. Tante le pratiche proposte non usando il linguaggio specialistico, anche se l’autrice lo conosce bene e lo cita quando vuol farci cogliere meglio la diversità dell’approccio proposto anche nel caso di quei termini come accountability o smart-working che sembrano avvicinarsi.
Questi tre libri, pur nella varietà dei contesti presentati e in cui sono nati, hanno in comune alcuni aspetti che li rendono interessanti per tutte e tutti. Sono esempi della necessità per le donne, dopo decenni di attività in un ambito lavorativo, di mostrare i cambiamenti prodotti soprattutto da loro, a partire dall’idea stessa di cambiamento: Cosentino parla di metamorfosi (non si è più come prima senza avere la pretesa di aver distrutto ciò che c’era prima), Pogliana parla di esplorare i confini, riuscendo a spostarli. Viene usata consapevolmente la lingua materna al posto dei linguaggi tecnici del campo lavorativo su cui riflettono. Vi è una capacità tutta politica di vedere criteri e orientamenti che guidano i cambiamenti prodotti da alcune donne senza ridurli a racconti estemporanei di buone soluzioni valide per quelle situazioni specifiche e senza pretendere che diventino ricette. Si tratta di una capacità che matura nella relazione di attenzione e dialogo con almeno un’altra, per condividere innanzi tutto con lei il sapere che l’esperienza raccontata genera e poi con il mondo attraverso l’impegno della scrittura.
(Leggendaria n. 121/2017)
È disponibile in formato pdf la versione aggiornata al 2016 (170 pagine – 2,7 MB) della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it
di Claudia Durastanti
A uno scrittore non basta morire per essere canonizzato, soprattutto se per gran parte della sua vita è stato eretico. Eppure quando Angela Carter è scomparsa venticinque anni fa — lei che per tutta la carriera ha scritto di magia e ragazze dalla sessualità ferale e violenta recuperando generi negletti come la favola e il gotico in un periodo storico dominato dalle preoccupazioni austere dei vari Martin Amis o J. G. Ballard — l’Inghilterra si è inginocchiata subito per celebrare questa sorta di Dickens sotto psichedelici o di Salvador Dalí delle lettere, che una volta ebbe l’idea di proporre una tesi di dottorato con il titolo “De Sade: culmine dell’Illuminismo”. Non esattamente una figura
conciliante. Ma se critici, lettori e colleghi — fu molto amica di Salman Rushdie e fece da mentore a Kazuo Ishiguro — continuano a celebrarla, lo fanno per una ragione precisa: dotata di una fantasia massacrante e di una capacità unica di articolare le contraddizioni del desiderio, Angela Carter è sopravvissuta persino al mito di se stessa, stando al quale è una specie di strega benigna del fantastico.
Per capire come funziona il mondo di Angela Carter, basta leggere le prime pagine di Notti al circo, uscito ora Fazi nella brillante e laboriosa traduzione di Maria Giulia Castagnone: la protagonista Fevvers è una performer circense di fine Ottocento parzialmente ispirata a Mae West che, a differenza dell’attrice, ha due ali maestose sulla schiena. Fevvers è torrenziale, seduce principi, sottomette persino la Russia con il suo fascino. A guardarla più da vicino, tuttavia, questa donna-uccello dalla gestualità volgare e grandiosa «somigliava più a una giumenta da tiro che a un angelo» ed era un «capolavoro di squallore squisitamente femminile», piena di difetti che traspaiono sotto il trucco e la finzione. Fevvers è un miscuglio aberrante e bellissimo di tante cose, e, come spesso accade nella scrittura di Carter, in Notti al circo nessuna superficie resta intatta: ogni architettura rivela una crepa, e ogni crepa fa precipitare in un sotterraneo.
Ci sono scrittori che riportano il lettore dentro se stesso e a cui ci si affeziona per immedesimazione, perché i protagonisti sulla pagina somigliano tanto a chi legge. E poi ci sono autori che invitano il lettore ad andare contro se stesso, lo portano in posti in cui tutto è oscuro e liberatorio, e lo fanno innamorare dei suoi difetti potenziali invece delle cose che sa già. Angela Carter è una grande autrice che trascina il lettore proprio in questi spazi imprevedibili e iridescenti, in cui la realtà è solo una delle tante alternative a disposizione. Diventata famosa negli anni in cui impazzava il realismo magico, non amava molto questa definizione se attribuita ai suoi testi: «Non possiamo parlare di realismo magico ogni volta che succede qualcosa di strano in un romanzo », diceva.
Che Angela Carter costringa il lettore a smascherarsi e scoprire qualcosa di inedito su di sé, l’ho scoperto in prima persona quando mi sono trasferita in Inghilterra e ho conosciuto la mia proprietaria di casa, un’artista dai lunghi capelli bianchi che vive in campagna e indossa le scarpe di Dorothy nel Mago di Oz anche di inverno. Un giorno per fare conversazione le avevo chiesto quali fossero i sui libri preferiti. Erano La camera di sangue e Notti al circo di Angela Carter, ovviamente, informazione che mi diede prima di regalarmi una delle sue creazioni: una di palla di vetro piena di specchi deformanti e una foresta di fiamme. Quello era il motivo per cui non volevo leggere Carter: perché piaceva alle persone strane, che vivevano in un mondo parallelo in cui tutto, dal sesso alla neve imprevista ai furti al supermercato, venivano ridotti alle diavolerie di Vladimir Propp, e il destino aveva un peso specifico troppo ingombrante. In quegli anni preferivo leggere scrittrici che potevano prendere una virata lievemente futurista, come Jennifer Egan, ma lo facevano a partire da una base reale.
Era una lettura fuorviante e rischiavo di smarrire il fatto che due autrici così diverse stavano lavorando sul tema che mi interessava di più: la possibilità di reinventare se stessi, la malinconia data dallo scontro tra quello che pensiamo di essere e il modo in cui ci percepiscono gli altri, e l’occasionale gioia che proviamo quando ci rendiamo conto di essere riusciti a imporre la nostra versione preferita al mondo.
Negli ultimi anni, la versatilità di Angela Carter mi ha teso agguati ovunque: dalla Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer (Einaudi), soprattutto per il lusso nelle descrizioni paesaggistiche e nell’architettura della stranezza — non a caso VanderMeer la riconosce come maestra e le ha dedicato dei saggi critici — a Boy, Snow, Bird di Helen Oyeyemi (Einaudi) che attraverso la favola di Biancaneve affronta questioni politiche come la segregazione razziale proprio come ne La camera di sangue Carter prendeva le favole non per farle diventare roba per adulti, ma per svelarne i contenuti latenti, la sensualità, la trasgressione e i pericoli che già contenevano.
Se Malamud diceva che la vita è una tragedia piena di gioia, per Carter «la commedia è una tragedia che succede agli altri» e nei suoi romanzi si è destreggiata con le varie complicazioni di quest’affermazione, con un brio e un piacere che il lettore oggi forse riscontra solo in Fato e furia di Lauren Groff (Bompiani).
Ma Angela Carter è anche nella Sara Taylor di
Tutto il nostro sangue (minimum fax), per il modo in cui affronta la disparità di genere: «Ho letto Carter — racconta — dopo un decennio e mezzo trascorso su testi scritti da uomini o per gli uomini o sugli uomini, in cui viene presentata una “mitologia” della donna che ho sempre sentito come inadegua- ta. La scrittura di Angela Carter mi ha mostrato che quella mitologia poteva essere sovvertita». Ed è impossibile non pensare ad Angela Carter durante
The OA, la serie controversa di Netflix che invece di raccontare la sindrome da stress post-traumatico di una ragazza rapita per sette anni con le armi convenzionali del realismo, lo fa attraverso la Russia kitsch, gli angeli, la danza.
Ma la cosa più bella che si impara dai racconti e dai romanzi di Angela Carter è proprio questa: ciò che la fantasia e l’immaginazione possono fare a una creatura ferita, per darle un’altra vita. Con la sua scrittura, ha sempre dato una seconda possibilità a una vittima: come se la vittima fosse un ruolo sfortunato e temporaneo, ma non definitivo. Interrogata sulla natura del suo lavoro, diceva: «Non scrivo mai della ricerca di sé. Non ho mai creduto che il sé fosse una bestia mitica che è stata intrappolata e deve essere restituita, in modo che una persona torni a essere intera. Io scrivo delle negoziazioni che facciamo per scoprire un altro tipo di realtà. Quando siamo nella foresta non andiamo alla ricerca di noi stessi, ma dell’altro».
Poco familiare, strana e sensuale, Angela Carter è una favolista nata che invita il lettore a seguirla nei boschi o nelle sue parodie circensi, per esporlo a una vera e propria crisi della presenza in cambio di qualcosa di molto più complesso e affascinante: una possibilità di perdere se stesso e trovare il mondo.
(Repubblica, 20 febbraio 2017)
“Woolf Works è in fondo proprio questo: un magnifico inchino a tempo di musica al genio di Virginia Woolf”. Così Elisa Bolchi conclude questo articolo, iniziando con “Non ci girerò intorno: Woolf Works è un capolavoro”.
Le righe di mezzo meritano il tempo che richiedono per essere lette. Non ci siamo sentite di mettere una diga ad un flusso di parole appassionate che sono scaturite spontanee, a poche ore dal termine dello spettacolo.
Fate un break e godetevi la lettura!
Non ci girerò intorno: Woolf Works (http://www.roh.org.uk/productions/woolf-works-by-wayne-mcgregor) è un capolavoro. Più ancora di questo, Woolf Works è unico perché è un lavoro artistico e critico al tempo stesso, un lavoro informato, competente, intelligente, appassionato. È il risultato di “molti anni di pensiero in comune” (citando Woolf) di professionisti eccellenti e artisti talentuosi. A partire da Wayne McGregor (http://waynemcgregor.com/), coreografo stabile alla Royal Opera House e genio dell’arte coreutica, che interpreta gli spazi scenici in modo vitale e lascia parlare i corpi dei suoi ballerini autonomamente, seppure in sintonia con ciò che li circonda.
Le musiche originali di Max Richter (https://it.wikipedia.org/wiki/Max_Richter) sono poi non solo il corrispettivo musicale del ritmo della prosa di Virginia Woolf, ma il risultato del medesimo processo mentale che l’ha portata alla composizione. McGregor e Richter riescono dunque non solo a reinterpretare, omaggiare e riscrivere, ma fanno appunto anche un lavoro critico, strutturale oserei dire, sull’opera di Woolf, e lo fanno con competenza assoluta. Lo spettacolo è un trittico ispirato a tre delle opere più note della scrittrice britannica: La Signora Dalloway, Orlando e Le
Onde. I titoli dei singoli balletti dicono già molto del lavoro fatto.
Il primo, I now, I then, gioca tutto sull’intreccio di presente e passato nella mente di Clarissa Dalloway, su ciò che lei è oggi – interpretata da una Alessandra Ferri di una bravura commovente – e da ciò che lei sente, ricorda di essere e di essere stata. Le coreografie di Ferri sono così fatte di tempi lunghi, respiri ampi, di trattenuti e sostenuti, com’è il tempo nella mezza età, quando inizia a dilatarsi e ogni gesto è frutto di riflessione e viene tenuto per una battuta in più, viene meditato e respirato più a fondo. Le giovani e bravissime Beatriz Stix-Brunell – Clarissa da ragazza – e Francesca
Hayward – Sally Seton – danzano invece su un ritmo più incalzante, sfiorando appena il palcoscenico tra un piccolo sbalzo e un glissé, e ci restituiscono l’idea della freschezza della giovinezza, che non ha tempo nemmeno per toccare davvero il suolo con tutta la pianta del piede. Genio è far ballare la Ferri una battuta dietro la Stix-Brunell, farle trattenere ogni passo mezzo tempo in più, per dare l’idea del tempo che è passato e della Clarissa cinquantenne che ricorda se stessa.
Anche Septimus riesce a esprimere col corpo tutto ciò che Woolf ha tanta faticato a mettere in parole (“la scena della pazzia mi snerva tanto”, annota Virginia nel diario). Il trauma di Septimus traspare da un potentissimo Edward Watson che lavora tutto sulla perdita di peso, perché Septimus ha perso il suo baricentro, cerca un equilibrio che non trova in un corpo che non gli appartiene più, e sembra più ingombrante di quanto non sia. L’unico sostegno lo trova nel ricordo dell’amico, che si fa appoggio fisico in un passo a due maschile di rara bellezza. Il primo atto si chiude con una magnifica scena corale, a richiamare la fine del romanzo, la scena della festa che Woolf aveva costruito con tanta cura affinché apparissero pian piano tutti i personaggi della vita di Clarissa, e che qui diventano un sentire, un respiro comune che si chiude su Clarissa, come il romanzo: “for there she was”.
Il secondo balletto è tratto da Orlando e ancora una volta il titolo è già dichiarazione di poetica: Becomings. Qui la parte più narrativa è abbandonata per giocare tutto su un livello più profondo che Max Richter spiega in un’intervista: è il noto che diventa impercettibilmente distonico per una piccola modifica che ci fa fermare a interrogarci. Non è quanto accade in Orlando?
Presentato come ‘biografia’ nonostante sia una favola fantastica di un uomo che diventa donna e vive tre secoli. E allora tutto qui è giocato sulla dissolvenza dei generi e i costumi diventano elemento chiave, perché capita che gli uomini siano in body e gonnellino e le donne in calzoni e giacca; i ballerini fanno piccoli sbalzi e adagi e le donne grandi sbalzi e sostenuti, e nei passi a due fatichiamo a capire chi è la donna e chi l’uomo in una coreografia androgina che rappresenta tutta la forza e la potenza della scrittura woolfiana e mette alla prova un cast di una bravura mozzafiato, che riesce a ballare in una battuta i passi che ne richiederebbero tre, tanto che l’occhio quasi fatica a mettere a fuoco tutti i movimenti che pure sono perfetti, puliti, solidi, come le parole di Virginia Woolf. Le musiche, poi, insieme alle luci, creano un amalgama temporale che passa dal rinascimento al novecento: così McGregor rende quel tempo impossibile che Woolf narra con leggera ironia.
Il terzo e ultimo atto, Tuesday, si spoglia della tecnica estrema per dare spazio allo stile, che come diceva Woolf “è solo ritmo”. Se nello scrivere Le onde lei ricercava il ritmo dell’onda, anche McGregor fa respirare i suoi ballerini su quel ritmo, che Richter rende con una sovrapposizione di sonorità anch’esse sinusoidi che si intrecciano e sovrappongono tra loro come le voci dei sei personaggi delle Onde. Qui le ballerine tolgono le scarpe da punta, Ferri lo fa fisicamente, in scena, e rimane scalza, proprio perché, come la scrittura di Woolf, la poesia non è tecnica ma ritmo.
Tutto quest’ultimo balletto è giocato allora su coreografie d’insieme in cui si inseriscono canoni appena accennati, e ciò che vediamo sono voci che parlano insieme ma con toni diversi. In breve ‘vediamo’ Le onde. La potenza fisica del secondo atto lascia spazio qui a grandi port de bras che a tratti ricordano quasi una révérence, la parte finale di una lezione di danza in cui ci si inchina a maestro e pianista a tempo di musica.
Woolf Works è in fondo proprio questo: un magnifico inchino a tempo di musica al genio di Virginia Woolf.
(oggettisolidi.wordpress.com, 9/2/2017)
di Chiara Pasetti
Cosa si può rispondere a una figlia che, stanca e irritata per le assenze della propria madre, la quale partecipa e organizza convegni, assemblee, convinta che il femminismo sia «una rivoluzione che continua, un cambiamento costante di sé che riesce a modificare il mondo», a un certo punto si domanda, e le domanda sbuffando: «ma doveva proprio capitarmi una madre femminista?». Questo lo spunto da cui prende le mosse l’appassionante volume Mia madre femminista, a cura di Marina Santini e Luciana Tavernini. Dalla volontà di dare una risposta alla provocazione iniziale nasce la necessità di raccontare, «partendo da sé», la storia di cinquant’anni di movimento delle donne. Sorretto da una ricca documentazione che comprende anche molti, in gran parte inediti, materiali fotografici, e soprattutto numerose testimonianze rese alle curatrici dalle protagoniste del cosiddetto «femminismo della libertà», il filo narrativo, condotto con una scrittura limpida, concreta, mai banale e profondamente affettiva si intreccia così alla voce di femministe storiche come Lea Meandri, Luisa Muraro, Lia Cigarini, Carla Lonzi, e di sindacaliste, insegnanti, operaie, artiste, scienziate; donne attive negli ambiti più diversi, a cui si aggiungono anche le voci di uomini da sempre vicini al movimento e capaci di coglierne il valore, la ricchezza, la «necessità». Senza alcuna pretesa di esaustività che, tra l’altro, siglerebbe «la morte di ciò di cui si parla», il testo si divide in quattro grandi capitoli, che annunciano a partire dai titoli i punti essenziali del femminismo: le «parole» (che prende spunto da un libro di Marie Cardinal che tanto successo ebbe negli anni Settanta), il «corpo» (che tratta i grandi temi della differenza tra emancipazione e libertà sessuale, della contraccezione, del divorzio, dell’aborto, ecc.), i «luoghi» (quelli della libertà delle donne) e il «lavoro». Man mano che le «voci» del libro prendono la parola, non solo quelle delle «madri storiche» del femminismo ma anche quelle di donne più giovani, le quali mostrano di non aver dissipato l’eredità di chi le ha precedute, la figlia scettica e apparentemente distante sembra interessarsi sempre di più all’azione delle donne, soprattutto nell’ambito del lavoro. E acquista la consapevolezza che la vera libertà di ogni essere umano si nutre «delle differenze e della reciproca dipendenza che tutti abbiamo, in forme diverse, lungo il corso della vita» (così Giordana Masotto); la libertà non nasce da un percorso solitario ma da una stretta e continua collaborazione e relazione, e solo così «si può immaginare di cambiare l’economia, il lavoro, la politica». Un racconto polifonico orchestrato con sapienza ma anche con calore dalle curatrici, che non lascia un’aria nostalgica bensì una forte traccia di fiducia e speranza che risuona tanto più alta e necessaria ora, quando episodi di violenza, fisica e psicologica, continuano a colpire le donne. Un testo che andrebbe letto dalle madri e (con) le figlie, le quali nell’esergo di Luce Irigaray, filosofa da sempre legata al movimento delle donne, vengono invitate a «esporre in tutte le case e i luoghi pubblici belle immagini (non pubblicitarie) di coppia madre-figlia»; ma che andrebbe letto anche, e forse soprattutto, dagli uomini. Per capire come mai, al termine dell’intenso dialogo epistolare intrecciato idealmente tra una madre e una figlia, quest’ultima non solo non ne colpevolizzi più le assenze in nome di una «rivoluzione», ma si chieda invece, magari pensando di portarla avanti a sua volta: «Sono forse diventata femminista?».
Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, a cura di Marina Santini e Luciana Tavernini, Il Poligrafo, Padova, pagg. 256, € 20
(Il Sole 24 Ore domenica, 29 gennaio 2017)
Il femminismo, come tutto ciò che è vivo, nasce e rinasce tante volte. È come un serpente che cambia pelle, si trasforma, nella ostinazione a creare e portare a maturazione gli squilibri, perché lì c’è emergenza di reale. Non ha mai teso a una differenza sessuale armonizzante. Gioca piuttosto nello scarto tra l’uno e il due, tra ricerca di sé e apertura all’altro, facendo leva sulle asimmetrie simboliche, non pacificanti, sul dissesto, come pertugio per cui può avvenire altro. È così che sa tracciare nuove vie. È un movimento che non viene realizzato da politiche definite, progetti a breve o lungo termine. È eccedente. Allo stesso tempo la scommessa femminista non può fare a meno della politica.
(Libreria delle Donne di Bologna, 25 gennaio 2017)
di Alessandra Pigliaru
SCAFFALE. «Emma la Rossa» di Max Leroy, edito da elèuthera
Di Emma Goldman, pensatrice, anarchica, femminista, immigrata e irriducibile rivoluzionaria, si è detto e scritto molto – con maggiore trasporto dagli anni Settanta in avanti. Eppure la figura di questa «piccola Giovanna D’Arco», come sovente veniva chiamata da qualche giornalista che ne aveva incrociato – e ne temeva anche un poco – la forza politica, abitava il terreno del mito fino dagli anni Trenta del Novecento. Fascinazione comprensibile, a percorrere la sua vita sembra di stare dentro un romanzo straordinario. Uno di quelli che ha come protagonista l’esistenza tempestosa di chi nasce già insorta, a cavallo tra due secoli, facendo parte della storia e scrivendola. La storia degli ultimi, degli operai e delle operaie con cui si confronta Emma Goldman, la storia che la trafigge anzitutto nella coscienza incarnata che la interroga sulla sessualità, sulla riproduzione e il controllo delle nascite, sul suffragio e tanto altro ancora.
La storia di cui ha fatto parte Emma Goldman è insomma quella che ha nutrito un pensiero anti-capitalistico e capace di raccontare cosa significa il fermento libertario, quali le sue genealogie, le sue scommesse, come l’anarchismo. E il suo incontro con il conflitto della classe operaia, l’antimilitarismo contro il fanatismo della prima guerra mondiale, la rivoluzione russa prima, la guerra civile spagnola poi. Forse una vita non basta per reggere tutto questo, quella di Emma sì.
Disfare l’affronto di essere nata donna per un padre ottuso e autoritario, è il modo in cui Goldman debutta nella decostruzione simbolica del già dato. Sceglie di rimettersi al mondo, lo fa numerose volte. La prima, come lei stessa scrive, è il 15 agosto del 1889 quando a vent’anni arriva a New York.
Da Kovno (l’odierna Kaunas), cittadina portuale della Lituania, se n’era già andata tempo prima per raggiungere la sorella Helena che abitava nel Connecticut. Lì Emma confeziona corsetti in una fabbrica e segue laboratori di cucito che poco dopo, oltre alla sopravvivenza, le avrebbero dato il senso della relazione con le lavoratrici del tessile.
Frequenta circoli radicali e di operai, studia, ascolta, scrive, legge moltissimo, stringe rapporti con alcuni esponenti del movimento anarchico. Trascorre qualche mese e la figura di questa giovane donna, dapprima misteriosamente comparsa su un carretto a Union Square a tenere un discorso e a resistere alle cariche della polizia, diviene centrale sia sui giornali che all’interno del movimento.
Proprio in quei primi comizi di piazza la si ricorda avvolta da una bandiera. Era rossa, da qui – insieme alla furia mostrata contro ogni potere costituito – la nominazione di Emma the Red. E proprio Emma la Rossa (eléuthera, pp. 223, euro 16, prefazione di Normand Baillargeon, traduzione di Carlo Milani) si intitola il volume di Max Leroy che ne ripercorre la parabola cominciando dal fulgore di quegli anni di apprendistato alla rivolta.
Appassionato e all’orlo di una festa del cuore verso chi ha speso la propria vita per la libertà e la giustizia, il libro di Leroy propone un ritratto puntuale, servendosi di un apparato bibliografico interessante che conduce lettori e lettrici sulle tracce di Goldman, di ciò che ha scritto – due le opere che si ricordano principalmente: My Disillusionment in Russia (1923) e Living My Life (1931), la sua autobiografia (si dica per inciso che entrambe sono state tradotte in Italia tra gli anni ’70 e ’80 da La salamandra. Di più recenti invece si segnalano Femminismo e anarchia, edito da Bfs con una splendida prefazione di Bruna Bianchi, e Anarchia e prigioni, edito da Ortica). Ulteriore pregio di Leroy è quello di aver tenuto conto della dedizione di biografi e in particolare biografe come Alice Wexler e Candace Falk (direttrice dell’Emma Goldman Papers Project che a Berkeley ha raccolto dal 1980 a oggi più di ventimila carte relative alla sua produzione e ai suoi scambi epistolari).
Se «lo Stato è un saccheggiatore al soldo del capitalismo», scrive convinta ripensando al suo arresto occorso all’età di 24 anni per incitamento alla sommossa, la maggiore oppressione viene inferta alle donne, ai bambini e alle bambine. Da quell’oppressione, gravida di nodi da sciogliere, e da alcune sue esperienze (non ultima quella di levatrice per cui segue un corso a Vienna), impara molto e si mette in cammino. Verso un femminismo che non la abbandonerà mai più; gli incontri più importanti sono due: quello con Voltairine de Cleyre, scrittrice e militante anarchica, e con Louise Michel, la «vergine rossa» deportata in Nuova Caledonia dopo la repressione della Comune di Parigi. Il resto è la lettura di Mary Wollstonecraft (così come nella sua formazione decisivi sono stati Henry David Thoreau e Michail Bakunin). Molti illustri esponenti del movimento anarchico la ammirano; da Johann Most, Edward Brady a Pëtr Kropotkin. A qualcuno concede di amarla.
In una lettera ad Aleksandr Berkman – compagno di lotte e presenza cruciale nella sua vita – nell’agosto del 1927, riesce a raccontare il tenore della sua differenza, quella in fondo che la sa consegnare alla gratitudine delle generazioni politiche successive: «Le sole teorie non sono sufficienti a smuovermi. Comprendere le nostre idee non è abbastanza. È necessario sentirle in ogni fibra come una fiamma, come una febbre divorante, una passione elementare».
(il manifesto, 20 gennaio 2017)
di Monica D’Ascenzo
Puntavano a raccogliere 40mila dollari, ad oggi hanno superato quota 675mila dollari. Elena Favilli e Francesca Cavallo, con la startup Timbuktu, hanno sbancato nel crowdfunding di idee editoriali lanciate su Kickstarter.
Il progetto è Good night stories for rebel girls, pensato per ispirare le bambine attraverso le biografie di 100 donne illustri, dalla regina Elisabetta I alla tennista Serena Williams, narrate come favole della buona notte. Alla composizione del libro parteciperanno 100 illustratrici da ogni parte del mondo. Nella stessa direzione era andata un’altra iniziativa editoriale, di tre anni prima, che potete trovare ancora nelle librerie: Cattive ragazze: 15 storie di donne audaci e creative, graphic novel scritta da Assia Petricelli e illustrata da Sergio Riccardi. «Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate» sottolinea Assia. E non ha tutti i torti. Basta sfogliare i libri su cui studiano i ragazzi per rendersene conto. O girare per le strade delle città, generalmente tutte al maschile.
Come è nata l’idea del libro?
Le questioni di genere e la storia delle donne mi interessano da tempo, ma la scintilla che ha acceso l’idea di Cattive ragazze è nata per caso, da un incontro con Della Passarelli di Sinnos Editrice, all’epoca in cerca di progetti per una nuova collana di graphic novel per ragazzi. Sergio e io, che già lavoravamo insieme, non avevamo mai pensato a un fumetto per ragazzi, però ci piaceva quello che faceva la Sinnos e così abbiamo cominciato a ragionarci su ed è nata l’idea di raccontare biografie di donne realmente vissute che avessero messo in discussione ruoli e stereotipi femminili. Donne forti, ribelli, protagoniste delle proprie vite. E soprattutto donne che alla fine ce la fanno, che non sono vittime. Di storie così ce ne sono tante, ma sono poco conosciute. Basta sfogliare un manuale scolastico per farsi l’idea che per millenni il genere femminile non abbia fatto altro che accudire mariti, figli e case. Ma non è vero. Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate. Con Cattive ragazze volevo rendere giustizia ad alcune di queste figure e offrire alle giovani di oggi delle narrazioni che le aiutassero ad acquisire fiducia in se stesse e nella possibilità di essere quelle che vogliono, al di là degli stereotipi. Per raggiungerle abbiamo scelto una forma che fosse il più possibile semplice e accattivante.
Come hai scelto le 15 storie da raccontare?
Il filo rosso che lega le 15 biografie è riassunto nel sottotitolo del libro, donne “audaci” e “creative”, capaci di inventare per se stesse e per le altre che sono venute dopo un ruolo diverso da quello che la cultura patriarcale imponeva loro. Sulla base di questa premessa mi sono messa a cercare e ho incontrato decine di storie fantastiche. Scegliere non è stato affatto facile. Ho privilegiato le vicende meno note e, anche quando ho incluse figure celebri, l’ho fatto perché mi interessavano alcuni aspetti non particolarmente conosciuti: ad esempio il modernissimo rapporto tra Marie Curie e suo marito Pierre. Inoltre ho prestato molta attenzione alla varietà, volevo restituire il senso di una ricchezza di possibilità, e così abbiamo l’artista, la giornalista, l’attivista politica e così via, ma anche una varietà di appartenenze culturali e geografiche. Non volevo cadere nella trappola di una narrazione troppo centrata sull’Occidente, che sarebbe stata menzognera e fuorviante: in particolare negli ultimi anni le donne del cosiddetto “Sud del mondo” sono state protagoniste di straordinari movimenti di liberazione. Infine ho inserito figure di donne che hanno partecipato a grandi processi collettivi, perché il mondo non si cambia da soli, ma sempre insieme ad altre e ad altri.
Il progetto ha avuto un seguito?
Da quando sono state pubblicate, le Cattive ragazze non si sono mai fermate. Hanno dato vita a uno spettacolo teatrale, a una mostra e sono state il motore di un progetto di ricerca e di educazione alle differenze che ha coinvolto studenti e studentesse dal Nord al Sud del paese. Se invece ti riferisci alla possibilità di realizzare un Cattive ragazze 2, per il momento non abbiamo questa intenzione; preferiamo che il nostro libro funga da stimolo affinché altri e altre vadano alla ricerca e raccontino le proprie cattive ragazze, è quello che facciamo nelle scuole. Noi ci riserviamo di tornare presto a parlare di donne, di identità e relazioni, ma con progetti nuovi e diversi da “Cattive ragazze”.
Cosa ti piacerebbe ne traessero le adolescenti di oggi?
La fiducia nelle proprie risorse e la forza per costruire se stesse e la propria storia senza farsela dettare da nessuno, così come hanno fatto le protagoniste del nostro libro. Se ci sono riuscite loro, possiamo farcela tutte.
(www.alleyoop.ilsole24ore.com, 18 gennaio 2017)
di Mariolina Bertini
“Da dove provengono le idee giuste?” si chiedeva il presidente Mao nell’incipit di un saggio filosofico molto popolare ai tempi della mia giovinezza. In campo editoriale, credo provengano dall’amore incondizionato per il libro; per il libro come oggetto globale, in cui, accanto alla scelta del titolo da pubblicare e all’eventuale traduzione, sono oggetto di scelte consapevoli anche la grafica, gli apparati e i risvolti. Due idee giuste che si sono materializzate in volumi che stanno ora uno accanto all’altro sul mio tavolo; due omaggi intelligenti alla grandezza di Virginia Woolf, che spicca sempre più evidente ai nostri occhi man mano che il XX secolo si allontana da noi e va assumendo in prospettiva un profilo un po’ più complesso e variegato di quello che suggerivano, nella sua seconda metà, gli imperativi e le poetiche del postmoderno.
La prima idea giusta è quella che è balenata alle edizioni Racconti: dedicare alla narrativa “breve” di Virginia Woolf un volume complessivo di grande eleganza (Virginia Woolf, Oggetti solidi. Tutti i racconti e altre prose, trad. di Adriana Bottini e Francesca Duranti, curatela, introduzione e note di Liliana Rampello, pp. 470, 19 €, Racconti, Roma, 2016). Un ritratto ascetico, assorto e misterioso della scrittrice ci saluta da uno dei risvolti: è opera di Franco Matticchio, come la copertina. Le belle traduzioni sono quelle di Adriana Bottini e Francesca Duranti che negli anni Ottanta, per le edizioni della Tartaruga, presentarono per la prima volta questi testi al pubblico italiano. La curatela è di Liliana Rampello, che ripercorre tutto l’arco cronologico della produzione “breve” di Woolf in uno splendido saggio introduttivo. La riflessione della curatrice scava nei rapporti tra romanzi e racconti, nella lunga genesi della poetica della scrittrice, nello sforzo, sotteso a tutta la sua opera, di “catturare la vita e rappresentarla nella verità del suo ‘momento di essere’, che balugina appena, avvolto com’è nell’‘ovatta’ del non-essere”. Il lavoro dell’artista, pensa Virginia, è “trasformare in linguaggio la propria intuizione del mondo”. “E forse” – scrive in margine alle sue parole Liliana Rampello – i racconti sono il punto di convergenza più intimo dello scambio tra visione ed espressione, immagine e frase, sguardo e parola, insomma il luogo dell’incontro amoroso fra le arti, risultato di un altro grande amore, quello per la sorella Vanessa e la sua arte, la pittura.”
Accanto a Oggetti solidi, l’altra idea giusta alla quale alludevo ha assunto la forma di due volumetti distinti, Anon e Leggere a caso (Virginia Woolf, Anon, a cura di Massimo Scotti, pp. 103, 11 €, Nuova Editrice Berti, Parma, 2015 e Leggere a caso, a cura di Massimo Scotti, pp. 92, 12 €, Nuova Editrice Giacomoverri in Recensioni 9 gennaio 201731 dicembre 2016 1,422 Words Berti, Parma, 2016), caratterizzati dalla grafica ben riconoscibile delle Nuove Edizioni Berti e dagli squisiti fregi, capilettera e disegni di Demetrio Costa, ispirati alla tradizione tipografica inglese e all’iconografia delle fiabe vittoriane. Il curatore, Massimo Scotti, ha intrapreso il compito delicato di rendere accessibile al pubblico italiano l’ultima opera di Woolf rimasta interrotta alla sua morte.
In un primo volumetto, Anon, ne ha presentato e tradotto la prima sezione, autonoma e quasi compiuta; il testo di questa parte era già stato tradotto presso l’editore Abramo nel 2001, ma si presenta in questa edizione integrato da molti materiali inediti. Il secondo volumetto, Leggere a caso, raccoglie con cura filologica quel che resta della seconda sezione, dedicata alla figura del lettore, e molti appunti, commoventi e suggestivi nella loro incompiutezza.
Se Oggetti solidi ci fa ripercorrere tutta la vita creativa dell’autrice di Gita al faro, Anon e Leggere a caso, invece, gettano una luce cruda e diretta sul suo ultimo anno di vita, ci fanno penetrare nel cuore di quell’intreccio di dolore insostenibile e di feconde intuizioni che costituisce la stagione estrema di Virginia, l’ultimo “volo della mente” spezzato dal terrore della follia, dall’orrore della guerra e finalmente dalla morte.
Appartengono, originariamente, a uno stesso progetto, che agli inizi – ci racconta Massimo Scotti – ha quasi i tratti di un divertissement. È infatti “divertendosi ad ogni pagina”, come annota nel suo diario, che Virginia comincia, nel 1940, a prendere appunti in vista di un’opera che ha per destinatario uno dei suoi più vecchi amici, il pittore Duncan Grant: una sorta di storia antiaccademica della tradizione letteraria inglese, concepita per farla amare a Grant, per vincerne le prevenzioni e le resistenze. Il primo titolo scelto da Virginia è Reading at Random, poi sostituito da Turning the Page. La forma a cui la scrittrice vuole ricorrere per realizzarla è una forma libera, come libera dev’essere quella lettura random, a caso, che si propone di sostituire alla lettura sistematica, costrittiva degli specialisti. La prima sezione del progetto si chiamerà Anon, abbreviazione di Anonymous, perché “Anonimo” sarà il suo eroe: l’autore senza nome della prima letteratura inglese che incarna – come scrive Massimo Scotti – “l’essenza stessa dell’oralità e il suo mistero.” In Anon Virginia celebra gioiosamente un’Inghilterra che trascolora nel mito: “A Natale i giullari recitavano la vecchia commedia di Anon: i ragazzi intonavano la sua canzone durante i brindisi. La strada portava alle tombe antiche, alle pietre su cui in passato gli inglesi avevano compiuto i sacrifici. I contadini andavano ancora per istinto in quella direzione, in estate e in autunno e in inverno. I vecchi Dei si celavano dietro le sembianze dei nuovi. Erano quelli che
adoravano ancora, indotti da Anon, i contadini vestiti di foglie verdi, con le spade in mano, danzando fra le case, recitando le parti di un tempo. Fu l’invenzione della stampa a uccidere infine Anon…”
Si respira, nelle pagine di Anon, un’euforia che viene meno nella sezione successiva, Leggere a caso. Ne spiega molto bene le ragioni Massimo Scotti nella sua introduzione: Virginia vive sotto due minacce, quella personale, delle crisi di follia, e quella, che concerne tutti gli inglesi, dei bombardamenti e della temuta invasione nazista. In questo clima angoscioso, l’amore per le antiche tradizioni inglesi si fa più struggente e disperato, perché è l’amore per una realtà che potrebbe sparire per sempre. Con un’intuizione tutta sua, Virginia collega la nascita del lettore moderno – così diverso dal pubblico del cantore Anon – alla pubblicazione dell’Anatomia della malinconia di Burton: “È lì che troviamo lo scrittore perfettamente consapevole del suo rapporto con il lettore (…). Lui vede attraverso mille ombre verdi ciò che gli sta proprio di fronte: l’infelicità del cuore umano. Le riflessioni servono a rendere screziato e variopinto lo spettacolo che ha davanti agli occhi, dai libri ha tratto quel senso di indulgenza che gli fa capire ciò che siamo, non figure singole ma replicate all’infinito.”
Il testo si interrompe in un momento cruciale, quando Virginia sta per affrontare la figura di Shakespeare. È qui che compare la più straordinaria pagina autobiografica, quasi testamentaria, del libro: il racconto di un vagabondaggio londinese sui luoghi dove sorgeva il teatro di Shakespeare, il Globe, alla ricerca di ispirazione. Il tram numero 18 porta la scrittrice verso il London Bridge, fra strade “tutte piuttosto grigie.” “C’è uno strato di fango lucente ai piedi dei magazzini: la cattedrale di Saint-Paul si erge lontana fra la nebbia. I gabbiani si lanciano in picchiata. Qualche ragazzino gioca con i sassi. Nel cielo si affollano strisce di porpora. Pensiamo ancora ai drammi, perché è qui che sorgeva il teatro del Globe. Possiamo dar spazio all’immaginazione: il caos e il frastuono; il cigolìo delle ruote (…). Andando verso il fiume, perdendo la strada fra i vicoli, nasce lo strano desiderio senza nome di esprimersi.”
Nella ricca, bellissima introduzione di Massimo Scotti a Leggere a caso è analizzato un racconto scritto da Woolf proprio alla vigilia della sua morte, The Symbol. È la storia di una vecchia signora che scrive una lettera, seduta alla terrazza di un albergo alpino. Mentre scrive, segue di lontano la scalata di alcuni giovani alpinisti. A un certo punto però le loro figure scompaiono, il lettore capisce che la scalata è finita in tragedia, e una goccia d’inchiostro macchia la lettera interrotta della spettatrice. “La goccia che cade e gli scalatori che precipitano – scrive Massimo Scotti – sono uniti in un’analogia fulminea e trasparente, uno di quei “momenti di visione” che percorrono costantemente la scrittura di Virginia Woolf.” Ho sentito il bisogno, dopo aver letto queste righe, di riprendere in mano The Symbol, e l’ho trovato in Oggetti solidi: è il penultimo racconto della raccolta. Complementari, e segretamente complici, Leggere a caso e Oggetti solidi dialogano così tra loro sulla mia scrivania, testimonianze indipendenti e solidali di un’amorosa attenzione per il lavoro di Woolf e di una concezione rigorosa e appassionata del lavoro editoriale.
(https://giacomoverri.wordpress.com, 9 gennaio 2017)
Giuseppina Vitale
Un libro autobiografico racconta la storia di Mira Furlani. Una preziosa testimonianza di vita comunitaria nella Chiesa fiorentina degli anni Settanta, ma soprattutto una confessione del rapporto fra il femminile e l’autorità religiosa, rappresentata dal “prete”.
La nascita delle comunità di base, avvenuta tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, può certamente rappresentare il più esplicito segno dell’aspirazione democratica del Concilio Vaticano II. L’opera di Mira Furlani, Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, delinea non soltanto una testimonianza di vita comunitaria nella Chiesa fiorentina degli anni Settanta, ma pure (e soprattutto) una confessione di ciò che realmente è stato il suo rapporto con il maschile nella Chiesa: il prete.
A partire dai primi anni Ottanta è avvenuto gradatamente un vero e proprio esodo femminile dalle comunità di base, concretizzatosi nel Seminario nazionale delle Comunità cristiane di base intitolato Le scomode figlie di Eva (Brescia, 23/25 aprile 1988). L’intento, sin dagli esordi, fu il desiderio di auto-realizzazione femminile espresso con particolare impeto da alcune donne che erano state protagoniste della stagione di contestazione cattolica esplosa in Italia a partire dalla fine degli anni Sessanta. Il seminario di Brescia vide le donne impegnate a rimettere in discussione paradigmi culturali nella prospettiva dell’affermazione della diversità di genere come valore portante dell’eguaglianza tra uomo e donna, nella società e nella Chiesa[1].
Dalla bella prefazione curata da Doranna Lupi e Carla Galetto (Comunità cristiana di Pinerolo) emerge tutta la volontà e l’impegno mostrato in tutti questi anni nell’alimentare una pratica politica di autocoscienza maschile in grado di rompere la scala gerarchica del potere assoluto del padre.
Il rapporto tra la donna (l’autrice) e il prete (don Enzo Mazzi), è sintomatico a riguardo, perché, oltretutto, «tra le donne e i preti, si sa, c’è qualcosa che attrae e qualcosa che respinge» (p. 9).
Mira Furlani fu attratta da quella «spinta interiore che allora mosse molte donne e uomini, diversi fra loro, ad abbracciarsi per la necessità di capirsi e creare una comunità (la comunità dell’Isolotto di Firenze, ndr), non solo civile, anche religiosa, partendo a mani nude» (p. 22). Ma allo stesso tempo, sperimentò un senso di «inadeguatezza e di impotenza» (p. 62) concretizzatosi, soprattutto, nel rapporto conflittuale e critico con l’autorità religiosa.
L’opera è una confessione a cuore aperto e a mente lucida. Un racconto autobiografico senza toni retorici e memorialistici, narrato da una prospettiva inedita, con gli occhi di una donna che, nonostante le delusioni, non ha mai smesso di credere nel Vangelo e di lottare per affermare la propria libertà di essere e di pensiero.
La vicenda di Mira Furlani tratta uno spaccato di storia cattolica italiana: dai primi passi della comunità dell’Isolotto, alle lotte operaie e i contrasti con la Curia fiorentina, fino al processo penale in Tribunale che vide incriminati (e assolti) una decina di imputati per istigazione a delinquere e impedimento di funzione religiosa, in seguito ai fatti che riguardarono direttamente, oltre don Mazzi, tutta la comunità dell’Isolotto[2]. L’autrice racconta la sua esperienza, non senza criticarne alcune aspetti, di “madre per vocazione” vissuta nelle case-famiglie per bimbi orfani e abbandonati, lasciandosi, così, alle spalle il tema della democratizzazione ecclesiale e aprendo spiragli di discussione sulla maternità e sul ruolo (attivo) della donna nella Chiesa, argomenti di indiscussa attualità.
Mira Furlani, Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, San Pietro in Cariano, Gabrielli Editori, 2016, pp. 109.
(In edicola MicroMega 9/2016)
Nel 1931, a 26 anni, un’impertinente dattilografa e attrice, incoraggiata da Alfred Döblin a dedicarsi alla scrittura, irrompe nella letteratura tedesca come una ventata d’aria fresca. Il suo graffiante romanzo d’esordio vende in pochi mesi trentamila copie, finendo
nei chioschi dei giornali e nelle stazioni di tutta la Germania (e poi d’Europa). Si chiama Irmgard Keun ed è cresciuta a Colonia, come la protagonista del suo libro, Gilgi, una di noi. Il titolo chiarisce che il romanzo è il ritratto dell’eroina eponima, ma anche di una generazione. Gilgi rappresenta infatti la “donna nuova”, che negli anni ‘20 impone al mondo un nuovo modello femminile: rifiuta la gretta morale borghese della generazione precedente e il ruolo subalterno previsto per lei, lavora, indipendente, padrona del suo corpo e dei suoi sentimenti. La prima frase recita, programmaticamente: «La tiene stretta nelle mani, Gilgi, la sua piccola vita».
Ma essere davvero libere non è mai semplice: a 21 anni Gilgi scopre di non essere quella che crede, e la vita che si illude di controllare rischia di sfuggirle. L’amore e la convivenza con il fascinoso scrittore Martin la fanno deragliare. Gilgi perde tutto, o quasi. Ma saprà fare la scelta giusta, e ritrovarsi. Ironico, leggero, talvolta scanzonato, Gilgi è però un vero romanzo di formazione. Un apprendistato alla libertà di godere, di abortire, di decidere. E a differenza di altri romanzi di scrittrici contemporanee (Christa Winsloe, Anna Seghers, Vicki Baum, Annemarie Schwarzenbach), è ottimista. Gli amici di Gilgi, Olga e Martin, sanno opporre al proprio “tempo maledetto” solo la loro indolente non collaborazione, il socialista Pit si limita a teorizzare le sue critiche al sistema, Hans e Hertha si immolano con le loro bambine alla crisi economica che deprime la Germania: Gilgi invece non si lamenta del proprio tempo, né vi si rassegna — e balza sul treno per Berlino con la vitalità della sua giovinezza e del futuro che porta in grembo.
Con stile frizzante e una scrittura franta e modernista (descrizioni, dialoghi e monologhi interiori si alternano a sincopato ritmo jazz), Gilgi evita tutte le trappole della trama, e ribalta sempre le attese dei lettori. Gilgi si ritrova ad avere tre madri, e a non volerne nessuna. E a essere madre a sua volta, sola, perché non si accontenta di un uomo che non la migliora. Eppure il romanzo ha un retrogusto amaro. Perché è anche la cronaca della fine di un’epoca: «in un paese triste», «dove tutti sono infelici e si lamentano», le ombre del nazismo si allungano sulla libertà della protagonista e di tutti.
La postfazione del volume, appena pubblicato da L’Orma per la traduzione di Annalisa Pelizzola, ricorda che questa è la prima edizione integrale italiana, poiché la versione Mondadori del 1934, anno XII dell’Era Fascista, venne brutalmente censurata. Tace però sulla vita ulteriore di Irmgard Keun. Che fu invece emblematica. Nel 1932 riuscì a cogliere un altro successo col romanzo La ragazza di seta artificiale. Ma nel 1933, dopo l’avvento di Hitler, i suoi libri vennero ritirati dal commercio perché nocivi. Osò fare causa per danni al Reich, guadagnandoci un interrogatorio della Gestapo e l’arresto. Quindi prese la via dell’esilio, peregrinando tra Belgio, Francia, Lituania, Austria e Olanda, nel 1936-38 insieme al suo compagno Joseph Roth. Si racconta che scrissero al tavolino dello stesso caffè due tra i libri migliori della diaspora germanica: lui La cripta dei Cappuccini, lei Dopo mezzanotte.
Klaus Mann, ammirato dalla lucidità con cui la giovane scrittrice descriveva la sinistra banalità della vita quotidiana sotto il fascismo, lo pubblicò per la sua casa editrice di Amsterdam. Poi il “vulcano” esplose, e la comunità degli esuli si disintegrò. Nel 1941 Irmgard Keun fu pianta per morta: come Benjamin, Toller e tanti altri, vittima dell’epidemia di suicidi che decimava gli espatriati dopo la disintegrazione dell’Europa. Invece era stata lei stessa a fabbricare la notizia del suo suicidio: rientrata in Germania sotto falso nome, sopravvisse nascosta fino al 1945. Ma non riuscì più a uscire dall’anonimato in cui aveva cercato rifugio. Siccome la letteratura precede la vita e la inventa, nel 1951, come Gilgi, a 46 anni divenne anche lei una madre single. I libri che scrisse in seguito non bucarono l’indifferenza. Finì alcolista, poi in clinica psichiatrica per sei anni: provata ma ancora capace di sorriso, come rivelano le sue fotografie estreme, ne riemerse appena in tempo per godersi la ristampa delle sue opere: negli anni ‘80 il femminismo la riscopriva come antesignana.
Oggi Gilgi colpisce ancora per l’acume dell’autrice nel raccontare il proprio tempo (i costumi, le idee, i pregiudizi, i sogni), senza moralismo né retorica, solo con gli strumenti della letteratura: la lingua, i caratteri, la storia. Così, conoscendo il destino di Keun, giunti all’ultima pagina non si teme per il futuro della figlia di Gilgi. Ce la farà. È una di noi.
(27 dicembre 2016)
IL LIBRO
Irmgard Keun,
Gilgi, una di noi
(L’orma, traduzione di Annalisa Pelizzola, pagg. 240, euro 16)
L’intervista a Lilli Rampello inizia al minuto 35.
Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura
10 novembre, ore 17.45, Sala del Maggior Consiglio
Ragione e sentimento
di Jane Austen
Liliana Rampello
Ragione e sentimento, pubblicato nel 1811 anonimo, by a Lady, è uno dei sei magnifici romanzi con cui Jane Austen ha segnato il suo tempo, a cavallo fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Un romanzo in grado di intercettare e anticipare, con lingua poetica, alcuni dei maggiori temi filosofici dell’epoca, identità e persona, individuo e felicità, contratto sociale e sessuale, soggettività e libertà. Ironia travolgente, intelligenza lucida e realismo spietato fanno di questa scrittrice un’interprete magistrale della libertà femminile.
Liliana Rampello, si è laureata con Luciano Anceschi e dal 1972 al 2007 ha insegnato Estetica all’Università di Bologna, privilegiando in particolare la Teoria della Letteratura e le poetiche del romanzo europeo fra Settecento e Novecento. Attualmente è collocata a riposo ed è consulente editoriale. Critica letteraria e saggista si è occupata principalmente di Walter Benjamin, Marcel Proust, Virginia Woolf, Jane Austen.
Scrive Ginevra Bompiani a proposito degli incontri raccolti nel suo libro Mela zeta (edizioni nottetempo): “sono incontri che non ho tanto l’impressione di aver vissuto, quanto di aver mancato”. Lo stesso titolo evoca la combinazione di tasti del computer che cancella l’azione fatta; applicandolo alla propria vita quand’è che ci si fermerebbe? Cos’è che non si vorrebbe rifare un po’ meglio, un po’ diversamente? Al fondo di Mela zeta c’è un sentimento di irrequietezza, una vigile insoddisfazione. Giorgio Manganelli e la bravura con cui insultava, l’esoticità di Elsa Morante, le bizze di Anna Maria Ortese, i ritardi di Ingeborg Bachmann, ma anche l’uomo incrociato in barella che si dichiara sereno e tranquillo e la donna che in una lingua incomprensibile enumera le sue disgrazie in Bosnia animano i capitoli di questo singolare memoir, volto a individuare le proprie falle e a incasellare i ricordi sotto categorie generali passando dal massimo dell’astrattezza (L’emozione) al massimo della concretezza (Il paesaggio). Su tutto incombe l’ombra del più delicato dei passaggi, quello dalla maturità alla vecchiaia “un’avventura molta importante, l’ultima avventura”.
Abbiamo incontrato Ginevra Bompiani nella sua casa romana e con lei abbiamo parlato dei temi e della struttura del suo libro.
Ginevra Bompiani è nata a Milano e vive a Roma. Editrice, scrittrice, traduttrice, saggista, ha insegnato per molti anni all’Università di Siena e ha fondato nel 2002 la casa editrice nottetempo. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: La stazione termale (Sellerio 2012) e La neve (et al. 2013), L’ultima apparizione di Josè Bergamin (nottetempo). Dal 2015 cura per nottetempo la collana Luce Mediterranea.
di Luciana Castellina
Lea l’abbiamo conosciuta assieme – Rossana Rossanda e io – e così, per qualche ragione che in seguito ci fu più chiara, si instaurò fra di noi un rapporto particolare. Voglio dire: una relazione a parte rispetto a quella derivata dal fatto che avevamo tutte e tre in vario modo a che fare con lo stesso giornale. Si potrebbe dire che fra noi, come spesso capita in un luogo di lavoro, s’era aggiunta un’amicizia personale. E però non è tanto vero, perché un’amicizia presuppone una frequentazione attiva, che in realtà non c’è mai stata per via delle distanze geografiche e dei rispettivi affanni. Così come non c’è stata, almeno per me ma penso anche per Rossana che pure proveniva dagli studi dell’arte, un dialogo «professionale». Io anche venivo da quel «settore», perché fino a quando non mi sono imbattuta nel Pci facevo ( o meglio, tentavo di fare ) il pittore. E invece no, perché le scoperte artistiche di Lea erano talmente lontane dal mio orizzonte dall’impedirmi anche solo di aprire un discorso. Credo che anche per Rossana la «body art», con cui Lea aveva allora appena appitonato il dibattito culturale, non fosse cosa che la appassionava. O forse no, sono io che non lo so. E però vorrà pur dire qualcosa che di questo assieme non abbiamo mai parlato.
IN EFFETTI FU LUIGI – come Lea scrive in questa intervista-biografia appena uscita (L’arte non è faccenda di persone perbene, conversazione con Chiara Gatti, Rizzoli, pp. 144, euro 18) – ad avere la straordinaria idea di chiederle – il manifesto quotidiano stava per uscire – se avesse avuto voglia di collaborare. Una proposta che meravigliò molto Lea: ma come, un foglio di battaglia politica così militante, si interessava all’arte contemporanea? Sì, se ne interessava. Per fortuna, e questa è la ragione per cui il giornale ha avuto sempre della politica un’idea meno meschina di quello che correntemente si pensa sia la politica.
Lea non era comunque affatto estranea all’avventura complessiva del giornale. C’era stata subito affinità con la nostra battaglia e poi – scrive – «mi piaceva far parte della macchina». E infatti racconta con affetto e nostalgia le stanzette di via Tomacelli e chi le abitava, l’hotel Plaza, elegante e demodé, subito al di là del Corso, nella cui grande hall andavamo a prendere un tè quando dovevamo parlare con un po’ di riservatezza. Era anzi così coinvolta nelle sorti della nostra impresa che una volta, preoccupata, venne a dire a me e Rossana che aveva deciso di scrivere nel suo testamento che i suoi beni dovevano andare al manifesto.
Più straordinario fu però che abbia accettato di scrivere sulle nostre pagine; e che abbia continuato a farlo per mezzo secolo. Una bella stravaganza, perché contemporaneamente lei scriveva sulle più sofisticate riviste di critica d’arte, cosi’ come su quotidiani di ben maggiore tiratura. Perchè Lea Vergine è stata, ed è tutt’ora, una delle più autorevoli critiche d’arte, e – non capita sempre a chi si occupa di questa materia – anche una delle più lette. Il libro sulla body art che la lanciò nel 1974 – Il corpo come linguaggio – fu quasi un best seller internazionale. Era accaduto perché Lea era riuscita a far capire che quanto era sembrato solo un pretenzioso scandalismo era in realtà un modo per cercare di creare un rapporto fra l’arte e il proprio corpo seguendo il ritmo del tempo, un modo «di rimettersi al mondo presentandosi al pubblico attraverso il corpo». Una nuova maniera di creare sculture, queste viventi.
Non era – non è – facile rimettere a fuoco lo sguardo di un fruitore di quadri dopo che da sempre è stato abituato a vedere in altri modi.
La storia dell’arte dai Bizantini a Giotto e poi dai naturalisti agli impressionisti, agli espressionisti, i cubisti, agli astrattisti, è scandita da questi salti traumatici. In questa ultima stagione a cavallo del secolo il salto è stato ancora più spericolato.
SE LEA È RIUSCITA a farsi seguire – il libro che ora ha scritto consente di capirlo anche meglio – è perché lei stessa ogni volta vive su di sé lo stravolgimento di quella «emozione quasi dolorosa», «disorganizzante», quel «terremoto» che l’arte può farti sentire quando di fronte a dei segni o dei segnali vieni «posseduto da qualcosa di ineffabile e intangibile». Accade quando l’arte produce un «rivolgimento interiore», quando ti costringe «a confrontarti con il tuo lato oscuro».
In questo suo libro non c’è in realtà molto di critica d’arte. C’è anche molto altro. Molto. Intanto un racconto della Milano che tutti abbiamo amato, quella di quando questa città divenne davvero il centro culturale e politico fondamentale della modernità italiana, come provano del resto i nomi di tutti, tantissimi, gli intellettuali che Lea vi incontra ( e che cita quasi meticolosamente) quando approda nella capitale del nord, ancora giovanissima, bellissima, intelligentissima. Sono pagine preziose per ricostruire quell’epoca. Aihmè poi tramontata.
MA IN QUESTA AUTOBIOGRAFIA in forma di intervista c’è sopratutto la storia della sua infanzia ed adolescenza napoletana. Privilegiata ma in realtà durissima, per via di come le strutture di classe si sono incrociate con le passioni, di come l’abbiano privata di una formazione normale, e anzi ferita per via delle contraddizioni che hanno segnato gli affetti. Ne conoscevo solo schegge, e mi appare anche più un miracolo che lei sia venuta fuori così.
Una sola cosa rimprovero a Lea per questo suo libro. Di Enzo Mari, suo marito, scrive una sola riga: «Una pietra. Indispensabile». Capisco che è una frase lapidaria. Ma siccome so – lo si vede, anzi lo si palpa anche adesso che hanno 80 anni – che fra loro c’è stato e c’è un grandissimo amore, avrei voluto saperne di più.
Devo a questo punto ancora spiegare come mai sia durato il rapporto personale che ha legato me e Rossana a Lea attraverso questo mezzo secolo in cui in realtà ci siamo viste poco (e però se capito a Milano mi piace andarla a trovare. Non per abitudine sociale, ma perché mi piace davvero parlare – di me e di lei oltreché del mondo). Se leggete questo libro che spiega come è Lea, credo capirete il perché.