di Antonella Cilento e Rosaria Guacci
Le storie hanno una potenza inesauribile, prevedono tenacia, dedizione al dire, capacità di ascoltare. Possono salvarci la vita, come sapeva bene Sherazade, l’eroina delle Mille e una notte: pagina dopo pagina, notte per notte, lei non smette di narrare per essere risparmiata dal sultano che, esigente, pende dalle sue labbra. Il nostro moderno sultano è il tempo: narrare significa andare a patti con questo assoluto padrone delle nostre vite. Davvero, parafrasando il titolo di un indimenticato libro di Alberto Savinio, noi, donne e uomini, dovremmo essere obbligati a narrare le nostre storie per avere più vita. O ancor meglio, per essere restituiti a una sorta di esistenza più piena di quella che temiamo sia resa grama dalla quotidianità. Di questo sì è parlato in Libreria delle donne sabato 24 marzo durante la presentazione di Morfisa o l’acqua che dorme di Antonella Cilento.
Un po’ di trama e le ragioni del romanzo:
«Non siamo soli se per noi brilla di notte la lanterna del faro che Stevenson guardava, da bambino, immaginando sfrenatamente storie.
Quella lanterna brilla tutta la vita, a letto con la febbre, dalle finestre di scuola, lungo le strade, nel buio e nella luce. Brucia anche col sole. Chiudiamo gli occhi e c’è, luminosa finché viviamo.
“Mi conosco, dunque invento. Mi conosco, dunque creo.”» È a questa logica che risponde il romanzo Morfisa o l’acqua che dorme scritto da Antonella Cilento per Mondadori. Morfisa è l’ultimo romanzo di questa scrittrice feconda (a quarantasette anni ha scritto quindici romanzi) e non appartiene alle cosiddette narrazioni mainstream, quelle oggi di moda: «non è un’autofiction, non è una “non fiction novel”, cioè un romanzo che finge, denunzia o solletica i buoni sentimenti. Appartiene piuttosto a un’antica tradizione, messa a lato, almeno per ora, dall’ansia di realismo di un Paese che non sa più distinguere la finzione dalla realtà.»
Morfisa è la storia di una bambina nera, la giovanissima figlia del duca Giovanni – per questo è chiamata ducissa – che regge il Ducato filo-bizantino di Napoli nell’Anno Mille. La piccola non può camminare ma miracolosamente entra nei sogni di tutti. È il “monstrum vel prodigium” prediletto dagli autori greci e latini: una creatura meravigliosa che fa ogni genere di prodigi, risana i malati, ne lenisce le pene del corpo e dell’anima. I napoletani la venerano come la loro “Marunnella” nera o Theotókos, la Madre di Dio che al solo tocco o al tono della voce li può salvare. Soprattutto è polimorfa, come l’etimologia del suo nome suggerisce: può mutarsi in ciò che vuole – balena, aquila, cinghiale, atleta che, come l’Atalanta del mito, vince tutte le gare e si impone sui segni e sui sogni che chi in sonno la rievoca produce. Al posto della sorella maggiore Crisorroè, morta in un naufragio, va condotta a Bisanzio come sposa dell’imperatore Costantino dal poeta Teofanès Arghili, inviato a questo scopo a Napoli dalle due imperatrici bizantine Teodora e Zoe, per ricucire l’alleanza tra Bisanzio e Napoli.
In che situazione è la Napoli dell’undicesimo secolo in cui il romanzo ha inizio? Sono molti i pretendenti che la desiderano: i longobardi l’hanno persa, i salernitani la odiano, gli amalfitani la contendono, i mori la pretendono, i normanni l’occuperanno, il papa non la vorrà sotto il suo protettorato perché «i napoletani sono più greci che cristiani»: l’avventura, insomma si complica.
«Teofanès scoprirà che Napoli è rimasta pagana e che le donne, per quanto vittime di stupri e incesti, sono depositarie di antichi saperi e poteri» (se li contendono le Sangennare, le seguaci della tradizione, e le Virgiliane, donne più libere discendenti dal poeta Virgilio qui addirittura assurto a santo protettore della città). Tornando a Morfisa, lei possiede, fra i suoi molti doni, l’arte che manca all’incapace Teofanès, quella di raccontare storie. «Mentre il romanzo del poeta non va avanti di un rigo, Morfisa conosce invece le trame di tutte le storie raccontate e da raccontarsi (persino la versione sumera di “Orgoglio e pregiudizio” o quella bizantina di Peter Ibbetson – ricordate il film Sogno di prigioniero? – Ha le sue personali versioni di Cervantes, Kafka, Saramago e altri ancora.)»
La trama da qui in poi si fa sempre più intricata e popolata ma la interrompiamo. Qualcosa l’abbiamo già anticipata: essa affonda i suoi piedi in pezzi di storia autentica. «Napoli, per oltre sei secoli Ducato autonomo di pertinenza bizantina, di fatto nell’Anno Mille è del tutto indipendente. È l’unica epoca in cui non è colonia, vittima o regno straniero e pochi e complicati a leggersi sono i documenti di un periodo pur così lungo, favoleggiato da Benedetto Croce e dagli storici risorgimentali come l’epoca felice dell’indipendenza cittadina. Insomma, fino all’anno Mille, all’XI secolo del romanzo, Napoli città piccola (molto più piccola della grande città angioina e della megalopoli spagnola che è l’antenata della città odierna) ma fornita di un grande esercito e di navi competitive, salva spesso Roma; però è destinata ad esser presa dai Normanni e a finire nell’orbita occidentale, perdendo la sua fortissima radice greca. Che resta altresì nella lingua, nella filosofia, nell’immaginario letterario e nelle sue leggende.» Potente, sapiente e libera come lo sono le protagoniste della narrazione, donne che conoscono ciò che a pochi è noto, e amministrano il mistero della creazione – il segreto dell’Acqua che nel romanzo avvolge la città come un manto e che può stare ferma e muoversi freneticamente nel corso dei secoli. Non importa che a interrogarla e muoverla siano mercantesse disinibite, ducisse decapitate, “marunnelle” dai piedi monchi, imperatrici viziate, monache volanti, atlete in corsa, immani balene. Qui le donne sono potenti: il romanzo mette in scena il Girl-Power, come si dice in linguaggio più corrente. Da tempo Antonella Cilento pensava che questa epoca andasse narrata in un romanzo, «specie considerando che noi abitiamo in pieno romanzo bizantino», lei suggerisce nel testo; «quest’antesignano del romanzo moderno, notissimo a Boccaccio o ad Ariosto, è oggi, come la gloriosa storia dell’Impero d’Oriente, relegato negli studi specialistici, mentre se lo leggessimo ci accorgeremmo che Beautiful, Sentieri, Il trono di spade, House of Cards e qualunque narrazione seriale, qualunque telenovela e qualunque romanzo vengono da lì. Siamo abituati a vedere personaggi che inopinatamente muoiono e risorgono? Bene, è quel che accade nel romanzo bizantino. Siamo abituati a vedere matrimoni incrociati? Anche questo accade. E la forma era già così consumata che Boccaccio nella novella del Decamerone intitolata “Alatiel” la prende in giro: Alatiel, stuprata in ogni porto del Mediterraneo, arriva infine al matrimonio, vergine.»
I riferimenti letterari (le madri)
Per finire, alcuni cenni agli antecedenti letterari di questo romanzo, alle scrittrici e agli scrittori che l’hanno nutrito. L’Anna Maria Ortese del racconto Un paio di occhiali (in Il mare non bagna Napoli), non fosse altro perché a dieci anni, era il 1980, come Antonella ha raccontato in un’intervista, quella raccolta fu il suo libro di lettura a scuola. Alla piccola Eugenia nel racconto «mettono gli occhiali da vista, e da “cecata” di colpo il mondo le appare molto diverso: la Napoli a lei più prossima, quella dei genitori, dei nonni, volta il dito verso di lei: “de te fabula narratur”. Non si trattava più di divertirsi, di viaggiare in mondi lontani e immaginarsi storie diverse, moltiplicate in pirati e piratesse, ragazzi che fuggono nella brughiera, principesse (non solo Salgari, Verne, Stevenson e tutte le letture che si facevano a quei tempi e si dovrebbero sempre fare) ma si tratta di lei»: per colpa di quel racconto l’autrice cominciò a scrivere.
Un altro libro-guida tre anni dopo lo ricevette in dono dal padre, i Racconti italiani del Novecento curati da Enzo Siciliano. «Fra molti altri, Anna Banti narrava in Tela e cenere di un Caravaggio maledetto (una Negazione di San Pietro) che continua a passare, secolo dopo secolo, di mano in mano portando una terribile sfortuna», così come l’uovo magico di Morfisa, quello che la tradizione napoletana vuole custodito a Castel dell’Ovo in una brocca d’acqua, capace di ispirare le storie – uovo che come il magico anello del Signore degli anelli fa impazzire dal desiderio ma danna chi lo possiede. E ancora di Ortese va ricordata L’infanta sepolta, «il bellissimo racconto in cui una madonna nera (la relazione con Morfisa è evidente) chiusa in una teca di cristallo, poco visitata, buia, fa venire in mente a una ragazza che va a vederla in chiesa ogni giorno che la madonna possa essere viva; sia una vera donna chiusa dietro il vetro e che tutti lo sappiano, specie i preti, e che lei muova una mano e chieda notizie del mondo esterno, “urgenti notizie della notte”». E questo è il titolo che avrebbe dovuto avere Lisario, o l’infinito piacere delle donne, penultimo romanzo di Cilento, incluso nella Cinquina del Premio Strega 2014. «Come Lisario che cade in catalessi e viene esposta a mo’ di miracolo vivente, nel romanzo del 2014, e Morfisa esposta nella grotta sopra la Crypta Neapolitana perché fa miracoli, l’ostensione del corpo femminile, il suo uso fraudolento, è evidente. Ma sia Lisario che Morfisa non sono soggetti passivi, sono due inaffondabili bambine o ragazzine potenti della loro intatta infanzia spirituale, nonostante le violenze subite e da subirsi.»
E se dentro Antonella Cilento si agitano il fantasma potente di Stevenson e quello inarrestabile di Bulgakov, è innegabile, però, il debito di questa scrittura col padre della letteratura napoletana, Giambattista Basile, l’autore de Lo cunto de li cunti, «coi suoi orchi che fanno puzze capaci di generare alberi (orchi perseguitati dagli umani, come capita al popolo napoletano perseguitato dagli Spagnoli); coi corridoi di cristallo sotterranei che percorrono gli innamorati, e i piedi tagliati e insanguinati della Gatta Cenerentola.
Un’idea barocca di lingua (che non significa inutilmente complicata, anzi piana ma carica di immagini) e una fantasia barocca che trasfigura di continuo la realtà sono frutto sicuro delle letture infantili e ripetute di Basile e dei novellieri antichi», che arrivavano in casa di Antonella – racconta ancora lei nell’intervista già citata – «sotto forma di bellissimi libri illustrati, in particolare da un genio pittorico come Adelchi Galloni. Galloni che nelle sue piccole selve popolate di salsicce e gatti, nei balconcini dei paesi e dei castelli, portava con sé Carpaccio e Dürer, gli olandesi, i lombardi e gli italiani, le selve dell’Appenino e il mare carico di vele e nuvole che s’intrecciava con le nuvole del grande Miyazaki.»
I debiti di Cilento sono poi con tante altre scrittrici e scrittori, ne nominiamo, tra gli altri, la più vicina nel tempo, Fabrizia Ramondino, almeno per quel capolavoro che è Althénopis. «Infine ricordiamo i due esergo di Morfisa: Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che è racconto notissimo ma necessario per dare una sia pur vaga idea di cosa significhi essere davvero meridionali, napoletani come siciliani. Lo studente immerso nello studio del dialetto ionico che si ritira su una spiaggia e vede, nei fumi dei classici e delle declinazioni, una vera sirena, che parla fluentemente la lingua che lui a fatica studia (la lingua morta che incontra la viva) e che con la sua grecità finisce con il mangiare e fare l’amore, commuove. La sirena, la nostra vera identità feroce e antica, abita in noi da sempre, non solo nei vocabolari che abbiamo faticosamente compulsato a scuola.
L’altro esergo viene da La pazza di casa di Rosa Montero, che è libro bellissimo, in Italia assai noto grazie al Premio Grinzane: la pazza di casa è la nostra fantasia, la nostra immaginazione che trattiamo come fosse la parente matta o povera, la pecora nera, che abita nell’ultima stanza della nostra casa e mai vogliamo mostrare agli ospiti. In questo libro, Rosa Montero narra della sua personale danza con la scrittura e c’è un capitolo su tutti, bellissimo, in cui Montero va a vedere le balene nell’oceano e osservando l’improvvisa, fulminea apparizione della balena che, data la mole, si vede sempre e solo per dettagli, capisce che è così che ci vengono le idee. Improvvise apparizioni, illuminazioni che ci dicono che oggi, proprio oggi, immagineremo di scrivere l’inizio di un romanzo che cambierà la letteratura del nostro tempo. Poi, così come l’immagine è apparsa, scompare, rubata dal suono del telefono, dalla lavatrice da attaccare, dal tempo che ci sfugge e che ci sembra sempre insufficiente. Se non siamo veloci ad arpionare le idee, se non siamo sempre presenti alla nostra immaginazione, tutto ci sfugge e può capitarci, come lei narra in un altro capitolo, di esserci riservati una giornata per scrivere e di averla sprecata in risposte alle mail. Perché? Perché, dice Montero, abbiamo paura di rovinare ciò che abbiamo perfetto in mente ma che, sulla carta, dovrà confrontarsi con i nostri limiti tecnici, con la nostra voce stonata.»
In Morfisa l’ultima parte del romanzo, La coda della balena, è ispirata a Montero. «Laddove l’incrocio fra le locali leggende sul “pistrice immane” e le balene immaginarie (Moby Dick, quella di Pinocchio, i grandi pesci di Hemingway, ecc…) producono la potenza inesauribile che anima Morfisa. Che, mutandosi nell’atleta che corre, si dice potente: quella forza che anima le cose tutte scorre in lei, quando immagina, quando ama», quando concepisce fecondata in sogno un suo bambino e un nuovo uovo, in sostituzione dell’originale andato distrutto, ispiratore di altrettante inesauribili storie. La letteratura può fare anche questo.
(www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2018)
di Laura Fortini
NARRAZIONI DIFFERENTI. Un percorso a partire da «Ritratti di donne da vecchie», di Luisa Ricaldone pubblicato da Iacobelli Editore. Sabato 24 marzo nell’ambito di Book Pride, l’autrice discuterà del volume e delle sue tematiche. Da Veronica Gambara a Goliarda Sapienza, il discorso sull’età che avanza percorre epoche e storie. Coraggiosamente scandalose e spesso sul filo della reprensione pubblica perché reputate indegne, sarebbe inutile parlarne attraverso retoriche sentimentali. Altro accade in luoghi e contesti diversi da dove il prolungarsi della vita è dovuto a un benessere economico che solo a un certo Occidente pertiene
A significare che qualcosa di sostanziale è cambiato vi è la nota immagine di Louise Bourgeois, ritratta a 71 anni da Robert Mattlethorpe nel 1982, all’indomani degli anni Settanta, con un enorme fallo sotto braccio e il volto pieno di rughe, sorridente in una bella e elegante giacchetta pelosa: guarda l’obiettivo e noi sorridiamo con lei di tanta serena disinvoltura nel rappresentare la fine dell’ordine simbolico patriarcale da una postazione di indubbio coraggio quale la sua età.
NONOSTANTE CIÒ, e sicuramente meno nota, risulta sostanzialmente dello stesso tenore la lettera che nel 1542, all’età di cinquantasette anni, la poeta e scrittrice Veronica Gambara scrisse a Pietro Bembo, ormai cardinale e intellettuale illustre. Lei, donna savia e sapiente dell’arte del governo di una pur piccola città come Correggio oltre che di letteratura e cultura, annota che «io sono in questo istante, quella stessa che era già tant’anni, e benché abbia cangiato il pelo, non ho però cangiato voglia».
Si tratta della voglia e del desiderio di comunicare con il proprio interlocutore nonostante i capelli ormai bianchi, nonostante i quaranta anni passati dalle loro prime missive, nonostante tutto quello che è accaduto alla vita di ognuno, sentendosi sempre la stessa, desiderosa di parlare e scrivere di letteratura e poesia.
È possibile abitare il tempo biologico, fisico e corporeo dell’età avanzata senza sentirsi spossessate di sé? Quanto scritto da donne appartenenti anche a periodi storici assai diversi, da Veronica Gambara fino alle scrittrici dell’età contemporanea, aiuta a comprendere come affrontare un’età tutta ancora da inventare sotto il profilo dell’elaborazione collettiva ma non certo letteraria, al punto che le sono stati dedicati saggi che sono andati a costituire, soprattutto in area statunitense, gli Age Studies e che hanno tratto ispirazione e fondamento daLa vieillesse di Simone de Beauvoir, del 1970, da Marguerite Duras, e più oltre da Vita Sackville-West, fino ad arrivare alla pittrice e scrittrice Leonora Carrington che nel 1976 pubblica l’esilarante e acuminato Il cornetto acustico, ambientato in un ospizio.
Alla rappresentazione e all’autorappresentazione della vecchiaia a firma di donne è dedicato il bel libro di Luisa Ricaldone intitolato Ritratti di donne da vecchie (Iacobelli Editore, pp. 136, euro 12). Studiosa di letteratura italiana contemporanea, l’autrice riflette da tempo sulla rappresentazione letteraria della vecchiaia femminile: insieme a Edda Melon, Luisa Passerini e Luciana Spina nel 2012 ha curato Vecchie allo specchio, e-book del Cirsde (scaricabile gratuitamente dall’archivio on line del Cirsde, acronimo per Centro interdisciplinare di ricerche e studi delle donne e di genere dell’università di Torino), e si è soffermata sullo stile tardo di Said nel volume Passaggi d’età (a cura di Anna Maria Crispino e Monica Luongo, Iacobelli Editore 2013).
VOLUTAMENTE e in modo dichiarato Ricaldone non adotta giri di parole per parlare delle vecchie, coraggiosamente scandalose e sul filo della reprensione pubblica perché reputate indegne: come non ricordare le immagini video di Doris Lessing che a 88 anni, nel 2007, riceve la notizia del Nobel per la letteratura tornando a casa dalla spesa, trasandata e quasi indegna di tanto riconoscimento e proprio per questo scandalosamente grande nel suo esercizio di confortante quotidianità? La stessa Doris Lessing che ha scritto il bellissimo Diario di Jane Somers, pubblicato nel 1983, dedicato proprio al rapporto tra una donna che, nel pieno della propria vita adulta e all’apice della sua carriera, incontra una donna vecchia, di cui, in modo che sorprende anche lei stessa, si prende cura, affezionandosi e volendole bene.
LA VICINANZA al tempo scandito dal corpo a partire dalla cadenza mensile delle mestruazioni fa sì che lo sguardo sulla decadenza fisica, anche la propria, possa avere caratteri di comprensione dell’umano che ne fanno occasione di vivere quest’età in modo pieno e inatteso. Sorprendente che Maria Bellonci abbia iniziato a scrivere Rinascimento privato a 81 anni, nel 1983, e lo abbia terminato nel 1985, un anno prima di morire, ripercorrendo in esso la vita di Isabella d’Este dai suoi 59 anni in poi; altrettanto che Anna Banti scriva quella sorta di autobiografia in terza persona che è Un grido lacerante a 86 anni, nel 1981.
Sorprende e fa pensare a un divenire in continua mutazione e modulazione nell’elaborazione di scrittura che costituì scommessa di vita e di pensiero per ognuna di queste signore, e il pensiero va anche a Grazia Deledda e a Sibilla Aleramo, che scrissero fino alla morte, entrambe, così come Goliarda Sapienza, che scrive pagine memorabili sull’eros da vecchi nella sua Arte della gioia,pubblicata postuma nel 1998.
STIAMO PERÒ PARLANDO delle vecchiaie delle donne bianche occidentali, lo ricorda con fermezza Ricaldone, perché altro sarebbe il discorso in luoghi e storie diversi dall’Occidente e da un prolungarsi della vita dovuto a un benessere economico che solo all’Occidente – e a un certo Occidente – pertiene.
Donne bianche occidentali e femministe, che arrivate all’età della vecchiaia interrogano quest’età proprio come hanno interrogato le età precedenti a partire da sé e facendone materia di narrazione, da Luisa Passerini che ne La fontana della giovinezza, pubblicato nel 1999, scrive in terza persona una sorta di esame in pubblico del divenire – e sentirsi – vecchia, fino a Rossana Rossanda che ne La ragazza del secolo scorso, del 2005, riattraversa la propria vita a partire da una posizione di vecchiaia, senza però mai interloquire con la propria età presente, ma tutta protesa sull’esercizio della memoria autobiografica e collettiva.
Signore del tempo si vorrebbe definirle, pensando alla bellezza della scrittrice Toni Morrison, che nelle interviste video a ottanta e più anni parla avvolta dalla sua vecchiaia e dei colori vivaci del suo scialle in modo regale. E riprendendo il titolo di un intervento del 2012 di Marirì Martinengo pubblicato sul sito della Libreria delle donne di Milano, in cui si considera la vecchiaia un’occasione, un’invenzione da non perdere, riecheggiando così il titolo di un libro di Betty Friedan sulla vecchiaia, L’età da inventare, pubblicato da Frassinelli nel 1993, che insieme al volume di Germaine Greer del 1992, dedicato a La seconda metà della vita. Come cambiano le donne negli anni della maturità, sono stati antesignani della riflessione sui cambiamenti delle età e sulla possibilità di viverle altrimenti.
CERTO È BENE non avere retoriche sentimentali, al proposito, però: se la letteratura di vecchiaia è ormai un genere, questo non vuol dire che essa si sostanzi solo di caratteri positivi, ma ciò potrebbe dirsi di qualsiasi età. Si è però di fronte a una letteratura di compimento e della fine, a volte anche della smemoratezza della fine che si appresta e che ha le parole di altri perché vi sia narrazione, come nel caso della demenza senile e dell’Alzheimer, cui è dedicato l’ultimo, toccante capitolo del volume.
Ricaldone ricostruisce con attenzione e delicatezza fili di narrazione che attraverso racconti di figli e figlie, mariti e amiche, cercano di guardare in volto la perdita di memoria delle persone care, perturbante come poche altre cose perché significa affacciarsi sull’orlo della perdita di senso di sé e della propria vita e, insieme, però, possibile di altre forme di articolazione dell’amore e dell’affetto, la cui narrazione diviene altra forma di memoria, per sé e per le persone cui si è accanto.
«Quando sarò vecchia mi vestirò di viola» ha scritto Jenny Joseph nel 1961 e molto si vorrebbe fare proprio di quel viola, dissacrante, bizzarro e birbone, ma soprattutto assai libero. Si tratta di un esercizio che va oltre l’età della vecchiaia ma che quando praticato dalle vecchie diviene scandaloso: è ora e tempo di andare a passeggio con un fallo sotto il braccio, è ora e tempo di desiderare, ci dicono Veronica Gambara, Louise Bourgeois, Goliarda Sapienza e le molte altre, basta solo seguirle.
(il manifesto, 22 marzo 2018)
Pubblichiamo con interesse questo articolo di Christian Raimo che propone un quadro dei testi femministi presenti o assenti sul mercato editoriale. Molti di questi in realtà, e per fortuna, si possono acquistare presso la Libreria delle donne di Milano. Per esempio quelli di Carla Lonzi e di Luisa Muraro.9
Di Christian Raimo
La questione femminista è una questione anche di spazi culturali, e quindi editoriali. Me ne rendevo conto leggendo Perché non sono femminista (libro notevolissimo) di Jessa Crispin, appena edito da Sur, che s’incentra sul riconoscimento di autrici praticamente inedite in Italia, come Andrea Dworkin (il suo Intercourse è del 1987, mai tradotto) o Germaine Greer (Il suo classico L’eunuco femmina edito da Bompiani nel 1970 non si trova da anni).
Nell’ultimo anno, sull’onda del #metoo, qualcosa viene tradotto. Ponte alle grazie ha ripubblicato un classico narrativo come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, che è del 1985. Un libro che era citato nell’incipit di Libere tutte di Giorgia Serughetti e Cecilia D’Elia, che oltre tante importantissime cose è anche un tentativo di ricognizione del panorama editoriale femminista. Sempre Ponte alle grazie per esempio ha tradotto Gli uomini mi spiegano le cose (che era uscito nel 2014), di Rebecca Solnit, di cui è praticamente quasi tutto inedito in Italia; dieci anni fa probabilmente grazie a Tiziana Triana, Fandango aveva pubblicato due suoi bellissimi testi, Un paradiso all’inferno e Speranza nel buio. Sempre Fandango ha pubblicato nel 2015 il libro cardinale di Paul B. Preciado, Testo tossico, che era del 2008. Edizione Alegre ha appena pubblicato Donne, razza, classe di Angela Davis, un testo del 1981. Di Judith Butler sono disponibili i testi di Laterza, come Soggetti del desiderio e Questioni di genere, ma mancano da anni il suo testo fondamentale che aveva tradotto Meltemi, ossia La disfatta del genere (lo rifarà Mimesis, che ha ripreso parte del catalogo Meltemi?), e Critica della violenza etica, che Feltrinelli aveva tradotto nel 2006. Di Susan Faludi, Isbn aveva tradotto Il sesso del terrore (oggi non si trova nemmeno sulle bancarelle), ma è ancora non tradotto un libro imprescindibile del 1991, Backlash.
Un buco enorme in libreria è il femminismo storico italiano. I testi di Luisa Muraro non sono ripubblicati da anni, o vengono ristampati da piccole case editrici: per esempio L’ordine simbolico della madre è stato sì ripreso da Editori Riuniti nel 2006 ma non più ristampato; la maggior parte dei suoi testi non esiste in libreria, dove si trova solo – e raramente – il suo pamphlet del 2012 Dio è violent (pubblicato da Nottetempo). Adriana Cavarero è ugualmente assente in liberia, si trova qualcosa su Amazon, ma testi importanti, come Corpo in figure o Tu che parli, tu che mi racconti, non sono disponibili nemmeno su ordinazione, e il suo Filosofie femministe (scritto con Franco Restaino) è un libro praticamente introvabile e del 1999, andrebbe aggiornato. Di Carla Lonzi ogni tanto compare in modo quasi carbonaro in libreria il suo Manifesto di rivolta femminile e il suo Sputiamo su Hegel: il suo Autoritratto e i suoi Scritti sull’arte sono pubblicati da Et.Al, ma in modo quasi clandestino. Lea Melandri? Il suo libro, Amore e violenza, entusiasmante per l’intelligenza, un piccolo classico contemporaneo sul femminismo, in libreria non c’è, in rete si può ordinare ma ci vuole un settimana. Rosi Braidotti è un oggetto non identificato in libreria, qualcosa – non molto – è reperibile online. Persino Il trucco di Ida Dominjianni che è un libro cruciale, del 2014, ricomincia a circolare sul passaparola soltanto oggi, dopo le mobilitazioni del #metoo. E potremmo andare avanti a lungo.
Insomma, va benissimo, è giusto e bello che Le storie della buonanotte delle bambine ribelli stia già al sequel; ma sarebbe molto auspicabile che del pensiero femminista non si rimuovesse l’articolazione, l’importanza storica, la radicalità.
(www.minimaetmoralia.it, 9 marzo 2018)
di Sara Gandini
Dai femminielli di Napoli al travestitismo, dalle “favolose” alla prostituzione trans, dalle lotte per la legge che ha permesso il cambiamento del sesso anagrafico (n.164/1982) al rischio di sparire nella normalità. Porpora Marcasciano, presidente onoraria del Mit (Movimento identità trans), racconta come è cambiato il movimento trans, storicamente e politicamente, un movimento poco conosciuto ma che porta con sé una radicalità rivoluzionaria.
Si ride e si pensa leggendo L’aurora delle trans cattive (ed. Alegre, 2018), l’ultimo libro di Porpora Marcasciano, che sa mostrare la potenza e la radicalità della politica del simbolico e del suo legame con l’immaginario, col desiderio, con il linguaggio, con il corpo, nell’epoca in cui «si cominciò a rivendicare, prima che i diritti, il diritto di esistere».
Provocazioni e contraddizioni si rincorrono in questo libro ben scritto e coinvolgente, in cui l’autrice si mette in gioco personalmente.
Il libro nasce in un’epoca storica in cui esorcizzare lo stigma della prostituzione sembra divenuta la priorità assoluta e il movimento trans attuale sembra volersi sbarazzare del passato perché imbarazzante. Ma la sacrosanta ricerca di serenità può portare con sé quella «rimozione storica e culturale che fa sparire tutto ciò che è spurio, scarto, non funzionale, cancellando vite e esperienze non assimilabili perché ritenute degenerate, ibride, bastarde, pericolose».
Nel linguaggio di Porpora si ripetono aggettivi come leggendarie, favolose, spettacolari in una accezione fondamentalmente politica perché il truccarsi diventa entrare nella scena del mondo, finalmente esserci e significare la propria presenza nel mondo: «se il mio corpo era il calco del mondo, di riflesso esso diventava la mia impronta nell’universo.» Plasmano il loro corpo perché diventi «un corpo produttivo di senso e significato».
Porpora Marcasciano da una parte provoca il movimento trans, esplicitando le contraddizioni attuali, e dall’altra apre conflitti con quel femminismo che le accusa di «scimmiottare e creare parossismi che nulla hanno a che fare con la pratica femminista» e spiega che il trucco, gli abiti, la chirurgia erano esagerati per rimarcare la decostruzione di genere, la presa di distanza dal patriarcato: «le trans entrano in scena con i colori della guerra».
Allo stesso tempo scrive: «Nonostante ripetessimo all’infinito, a noi stesse e al mondo di essere donne rivendicandone l’appartenenza, in cuor nostro percepivamo il limite di quella dichiarazione che per quanto mi riguarda, restava profondamente simbolica, quindi fondamentalmente politica».
Porpora declina tutto al femminile, prima di tutto per un motivo politico, e si esprime in questi termini: l’utilizzo del femminile è uno «straordinario metodo di sconvolgimento semantico nel leggere e definire il mondo, anzi la monda!».
Anche per molte femministe accettare di essere identificate come donne è una vera e propria decisione politica, e per me ha coinciso con l’impegno per un senso libero della differenza sessuale, che non è qualcosa che sta tra donne e uomini e spartisce l’umanità in due. Le trans nella storia hanno pagato duramente e tuttora vengono umiliate per questa scelta. Chi più delle trans può essere testimone che la differenza sessuale non è una invenzione e che non si può ridurre tutto solo ad anatomia e biologia o solo a cultura, stereotipi e costruzione del genere? Mi riferisco a quella differenza che ci impedisce di identificarci con noi stesse e che ci mette in relazione con quello che non siamo: “Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamata donna, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio”, scrive Luisa Muraro in un articolo sul manifesto dal titolo Il pensiero della differenza va capito. Il libro di Porpora ci dà la possibile di riflettere sui rischi della cancellazione della differenza sessuale e il valore simbolico e quindi politico di definirsi donna.
In questo libro infatti emerge chiaramente che se la storia trans è stata marginalizzata, assorbita, neutralizzata sono responsabili anche i loro compagni di viaggio, quelli del movimento gay. Prendere la parola e raccontare in prima persona la propria esperienza diventa quindi fondamentale perchè il registro narrativo non sia diretto esclusivamente dagli omosessuali maschi, avverte Porpora.
Interessanti anche i vari percorsi che l’autrice racconta per arrivare alla legge 164 che le ha liberate da una situazione in cui erano considerate soggetti pericolosi per l’ordine pubblico, e quindi private di passaporto, patente, diritto al voto o spedite in galera perché giravano truccate. Un ruolo importante in parlamento l’ha avuto il sostegno e le strategie di Rosa Russo Iervolino, ma anche la solidarietà di donne come Tina Anselmi e Roberta Tatafiore.
Se da una parte quindi la legge 164 ha cambiato letteralemente la loro vita, dall’altra Porpora avverte che il rischio attuale è di attraversare spazi e luoghi «rimanendo inosservate, senza peso, diafane». Si tratta di un contrasto interiore e di una contraddizione interna al movimento trans: la politica dei diritti è legata a filo stretto con il desiderio di essere integrate e “normalizzate” in una società che andrebbe invece rivoluzionata. E quindi Porpora riafferma con orgoglio il desiderio di definirsi non normali e specifica «Eviterei anche la parola diversi, perché essa presuppone l’altro da sé, quello non diverso, quindi uguale, quindi normale. Sarebbe come svilire, privare di senso le tantissime meravigliose creature che negli anni ho incontrato, svuotandole della loro splendente dignità.»
La necessità di questo libro nasce qui. Porpora rimesta nella memoria per riportare al mondo quella costellazione di trans cattive che hanno fatto una vera e propria rivoluzione. Il rimettere in scena queste figure ha a che fare con quello che fanno «i miti e le favole in cui la fantasia trova spazio e forma infiniti e diventa lo spettacolo come nutrimento di umanità».
(libreriadelledonne.it, 04/03/2018)
Consigliamo di leggere questo splendido articolo dopo aver letto il libro.
La redazione del sito
di Benedetto Vecchi
Noir. L’ultimo romanzo della scrittrice francese Fred Vargas, «Il morso della reclusa» (edito da Einaudi), indaga la guerra degli uomini contro le donne.
La tanto desiderata vacanza interrotta dall’ordine di rientro per motivi di lavoro. È l’avvio del nuovo romanzo di Fred Vargas, la nota scrittrice francese di noir che ha ormai un pubblico fedele nel tempo ma a geografia variabile.
DOPO CHE LE VENDITE sono cresciute nel suo paese di origine, i titoli dei suoi romanzi hanno cominciato a campeggiare nelle classifiche dei libri più venduti anche fuori dai confini nazionali. Il titolo del nuovo noir – Il morso della reclusa (Einaudi, pp. 431, euro 20) – è allusivo di una condizione dove la privazione della libertà non sempre coincide con le sbarre di una prigione, visto che le recluse erano, nel mondo contadino, donne che sceglievano di segregarsi da sole dalla società. Ma reclusa è anche chiamato un tipo di ragno che vive sempre nascosto in qualche anfratto perché pauroso come pochi altri aracnidi; ha inoltre un morso innocuo se unico, ma letale se il veleno inoculato in un corpo umano è quello di venti ragni.
Da diversi anni, il protagonista indiscusso dei libri di Vargas è il commissario Adamsberg, capo carismatico e tuttavia più che discusso della squadra anticrimine del 13 arrondissement parigino. Il commissario, considerato un eccentrico e poco produttivo cacciatore di nuvole per l’aria svagata e distratta che lo contraddistingue, è in vacanza in Islanda, l’isola dove si è svolto il precedente romanzo. È però richiamato a Parigi per risolvere un caso di omicidio, la cui vittima è una donna. Il colpevole è indicato in un uomo di origine arabe che conduce tuttavia una vita al confine tra inclusione e esclusione sociale: è una figura che, in un clima di xenofobia diffusa e razzismo di stato, è ideale per spegnere la paura e il risentimento della maggioranza non più silenziosa.
IL CUORE DEL ROMANZO non riguarda tanto l’omicidio di quella donna, rapidamente risolto da Adamsberg. Quell’assassinio si è soliti chiamarlo, a ragione, femminicidio, perché episodio della feroce guerra che molti maschi conducono contro la libertà femminile. È infatti attorno a questa guerra che ruota il romanzo.
I maschi, è noto, misurano il proprio potere nella società attraverso una estenuante competizione su chi è più bravo. Adamsberg apprenderà che anche nella sua squadra la battaglia per la supremazia è cosa di tutti i giorni.
LA LOTTA PER STABILIRE la gerarchia di potere nella squadra anticrimine è condotta secondo modalità urbane, borghesi, propedeutiche a una soluzione «politica» che salvaguardi la dignità di tutti i componenti della squadra. Ma, altrove, la lotta su chi ce l’ha più lungo – la triste passione che anima molti maschi – si combatte con altri mezzi.
Alcuni anziani signori muoiono e si scopre che sono stati uccisi con il veleno del ragno chiamato la reclusa. Impazzano le discussioni sui social network sulla possibilità o meno che i mutamenti climatici e l’inquinamento ambientale abbiano provocato mutazioni nei ragni. Ma i flame della Rete sono nulla rispetto a quanto emerge dalle indagini.
Gli anziani morti facevano parte di una banda formatasi in un orfanotrofio e che quello stesso gruppo di bambini aveva usato i morsi della reclusa nelle sue sadiche scorribande contro altri bambini. E che proprio quella banda era diventata – durante e dopo l’adolescenza dei suoi componenti – una gang di stupratori seriali.
La seconda parte del romanzo è una discesa negli inferi della brutale guerra alle donne condotta da maschi incapaci di stabilire relazioni con i propri simili e con il genere femminile. Adamsberg conosce le sopravvissute a stupri e una vecchia usanza che vedeva donne che sceglievano di diventare recluse ai margini di piccoli paesi dopo essere state violentate. Nel romanzo vengono squadernate le cifre della guerra contro le donne: sono migliaia gli stupri compiuti da uomini senza volto e senza nome; e altrettanti i comportamenti riduttivi della polizia che, al primo vicolo cieco delle indagini, archivia i casi.
ADAMSBERG SI SCHIERA con le donne, ma sa che anche il suo maschile è intriso dal veleno del machismo. L’antidoto sta nel mettere a nudo la propria fragilità senza il timore di apparire debole, rompendo la gabbia del ruolo che rende reclusi anche i maschi. Chissà non sia questa la strada per praticare un liberatorio partire da sé, declinato al maschile. Ma le morti continuano. Il cacciatore di nuvole ipotizza che dietro le morti ci sia la volontà di vendetta di una donna stuprata o una vittima del bullismo della banda dei «bacarozzi», così l’aggettivo affibbiato ai ragazzi di un tempo. Manifesta empatia verso questo desiderio di vendetta, ma non ama la giustizia fai da te, anche se fa esplodere il suo furore quando si imbatte in uno stupro, un femminicidio, una molestia sessuale. Ma è pur sempre un servo dello Stato. Obbligato al rispetto della legge.
Romanzo amaro e bellissimo questo di Fred Vargas. Come i precedenti, racconta storie intrecciate, tematicamente collegate: l’affresco finale mette in evidenza una società violenta, in cui la divisione in classi è opacizzata dal grigio scorrere della vita quotidiana. Dove la violenza sulle donne non è però prerogativa di dinamiche arcaiche che la modernità ha sterilizzato, come molta pubblicistica afferma per ridimensionare la guerra a bassa intensità condotta contro le donne. Nella postmoderna Francia o Italia, Germania, Inghilterra il femminicidio, le molestie e la violenza sessuali sembrano infatti scandire il divenire di un maschile incapace di misurarsi con la libertà femminile. È questo il filo rosso che il noir riavvolge. Con ironia certo, ma anche con doloroso disincanto.
(il manifesto 21/02/2018)
di Stefania Tarantino
Paul Vieille. Pubblicato di recente dalla casa editrice Geuthner, un articolato omaggio all’intellettuale francese. Con la prefazione di Alain Touraine e la postfazione di Edgar Morin, in ordine la sua genealogia critica. Personaggio chiave nella lettura che Foucault diede della rivoluzione iraniana tra il 1978 e il 1979.
Ci sono libri che hanno un effetto detonatore in chi li legge. Creano movimenti profondi da far uscire dal torpore di discorsi triti e ritriti, dall’opacità che impedisce di avere un’adeguata visione della realtà. Non solo di libri si tratta. Ci sono figure che, una volta incontrate, innescano il desiderio di nuove ricerche. Il libro Méditerranée, mondialisation, démocratisation. Hommage à Paul Vieille, a cura del gruppo di iniziativa Paul Vieille, con una prefazione di Alain Touraine e una postfazione di Edgar Morin, (pubblicato di recente in Francia dalla casa editrice Geuthner) ha reso questa esperienza possibile.
La vita e la ricerca di Paul Vieille sono state consacrate a una visione plurale del Mediterraneo. Socio-antropologo di fama mondiale, direttore di ricerca al Cnsr dal 1975 al 1988 e poi professore all’Università d’Illinois negli Stati Uniti, è stato il primo sociologo a concepire in Francia un progetto Mediterraneo ancorato alle capacità di quegli strati popolari e urbani che da millenni hanno condiviso una storia comune. Distante dalle teorie dominanti delle scienze sociali e dall’orientalismo che giudicava di ispirazione coloniale, fu un profondo conoscitore dell’Iran, paese in cui visse tra il 1959 e il 1968 svolgendo le sue ricerche sul campo presso l’istituto di studi di ricerche sociali dell’Università di Teheran. Nel suo soggiorno iraniano si trovò nel pieno della rivoluzione bianca dello Shah che fece passare il Paese da una società rurale e tribale a una società cittadina e mondializzata. Fu colpito dalle ingiustizie profonde che resistevano, si rese conto del bisogno di ridare visibilità al pensiero critico arabo sempre molto forte ma quasi invisibile e comunque taciuto dalle potenze occidentali.
Ha saputo affrontare il pensiero-mondo sulla vita concreta dei popoli mediterranei a partire dalle loro rappresentazioni e aspirazioni contro le iniquità della dominazione, lo sradicamento e la dipendenza.
L’importanza delle fonti orali, della cultura e delle religioni popolari, scoprivano nuove rappresentazioni del sociale. Formatosi sul pensiero di Louis Massignon e di Henry Corbin, condivideva con Edgar Morin i tre principi che dovrebbero essere alla base delle scienze umane: la trasdisciplinarietà, la trasnazionalità e la complessità. Nell’ottobre del 1977 fondò la rivista trimestrale Peuples Méditerranéens per colmare la lacuna degli scambi in scienze umane e sociali tra tutti i paesi che costeggiano le due rive del Mediterraneo. Il riferimento costante era a un mediterraneo plurale che si spingeva oltre i suoi confini fino ad arrivare all’Iran, all’Afghanistan, ai paesi della penisola arabica, al Sudan, all’Etiopia.
In una lettera indirizzata a Evelyne Accad, sua compagna di vita e depositaria della sua eredità intellettuale, Paul Vieille le scriveva che ciò che lo aveva sempre avvilito e portato a riflettere e agire è l’idea di giustizia. Per comprendere il mondo arabo e ciò che agli occhi degli occidentali sembra incomprensibile è necessario capire che per trasformare occorre trasformarsi. Sapeva bene di non essere diventato iraniano, ma di aver acquisito una doppia cultura. Era convinto che una mancata articolazione delle differenze ne comportava necessariamente la degradazione e la manipolazione.
Per lui l’immaginario è ovunque e non può essere distrutto dal potere. L’accesso all’immaginario è una questione di libertà, né lo sorprendeva il fatto che la potenzialità dell’arte, così presente in molte rivoluzioni, funziona come elemento catalizzatore delle trasformazioni sociali in atto.
Così ha praticato un percorso aprendo la strada alla riconoscenza del simbolico e della sua assoluta efficacia. Sensibile alla causa femminista, Paul Vieille riponeva molta fiducia nelle pratiche e nei gesti inattesi che le donne agiscono nel mondo trasformando le coordinate culturali dei sistemi patriarcali. Riconobbe l’esistenza di affinità esplicite e implicite tra le donne delle differenti rive del Mediterraneo. Vale la pena ricordare che fu un personaggio chiave nella lettura che Michel Foucault diede della rivoluzione iraniana tra il 1978 e il 1979.
Foucault non ha mai smesso di essere attento all’insurrezione dei saperi assoggettati e all’emergere di una spiritualità politica come desiderio di liberazione irriducibile a qualunque presa del potere. Paul Vieille non ha mai parlato di spiritualità politica in questi termini, ma ha colto quanto la soggettività sia decisiva nella piega degli avvenimenti. Entrambi hanno riposto molta fiducia nelle credenze delle persone e si rifiutarono di leggere la rivoluzione iraniana come un movimento antimoderno reazionario. Seppur su differenti interpretazioni della rivoluzione iraniana, abbiamo molto da apprendere, come nota Alain Touraine, sia dall’uno che dall’altro dal momento che entrambi hanno cercato di evitare una scelta doppiamente distruttrice tra un imperialismo neocoloniale e un comunitarismo religioso, autoritario e repressivo.
La postfazione che chiude il libro riprende un articolo di Edgar Morin pubblicato nel 1998 che ci dà elementi per ritrovare la vocazione storica del Mediterraneo nella sua aspirazione alla giustizia, alla pace e in direzione di un universalismo plurale. Insistere sul decentramento dell’Europa in rapporto alla sua posizione di centro nella storia del mondo, potrebbe portarci alla mediterraneizzazzione del nostro pensiero e, soprattutto, dell’Europa stessa.
Scrive Morin che il contrario delle nostre verità profonde sono sempre altre verità profonde. È da queste verità che per Paul Vieille il Mediterraneo è un luogo che interroga il mondo e spazio che offre nuove letture. Ritrovare l’essenza profana del Mediterraneo, la sua sostanza materna come paradigma relazionale che veicola una visione che ha al suo centro la «vita» in tutte le sue forme. Solo da questa realtà è possibile lasciarsi alle spalle la grande necropoli liquida che abbiamo creato e dire, con Paul Vieille, di essere di nuovo felici di andare verso il mare.
L’ITINERARIO DEL VOLUME
Sarebbe auspicabile una traduzione italiana degli articoli più significativi del volume «Méditerranée, Mondialisation, Démocratisation. Hommage à Paul Vieille» (1922-2010), che riunisce 37 autori e autrici originari di 8 paesi differenti. Il libro è diviso in 4 parti a loro volta divisi in capitoli 1) «Itinerario di Paul Vieille. Studi e testimonianze», saggi di C. Veauvy, E. Accad, B. Hourcade, L. Hurbon, D. Spieth, J. Jenny. 2) «Mediterraneo, Mediterraneità, Scienze Sociali» diviso in due sezioni. A) «Elaborare, editare, mettere on line la rivista» in «Popoli mediterranei», saggi di P. Eftékhari, G. Grandguillaume, R. Siebert, C. Fauré, K. Chachoua, E. Dupuy, B. Stafford. B) «Il Mediterraneo come luogo che interroga il mondo, spazio che si dà a leggere», saggi di E. Hooglund, H. Bresc, C. Veauvy, M. Marié, N. Abdi, E. Rota, A. Bayat, R. Sebaa, C.C. Hahn. 3) «Politica, Religione, Movimento sociale, guerra», saggi di B. Ghamari-Tabrizi, R. Naba’a, C. Brandabur, L. Pisano, B.M. Scarcia-Amoretti, F. Khosrokhavar, I. Sobhani, F. Zabbal, M. Cooke. 4) «Cultura, Globalizzazione, Convinzione, Libertà», saggi di A.H. Bani-Sadr, J. Ireland, J. Alagha, S. Dayan-Herzbrun, W. Dressler, L. Taghian Eftékhari, B. Lawrence. Postfazione di E. Morin (1998-1999), «Pensare il Mediterraneo, mediterraneizzare il pensiero»
(il manifesto, 9 febbraio 2018)
È disponibile in formato .pdf la versione aggiornata al 2017 della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file (175 pagine – 2,7 MB) sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it
(www.libreriadelledonne.it, 25 gennaio 2018)
di Marisa Rastellini
Nonne che muoiono davanti a bambine che imparano cos’è la vita; mogli annoiate in spiagge deserte, ricche signore sole. Nei Racconti ritrovati la voce di una grande scrittrice dimenticata.
Sfilano i luoghi che ha frequentato: Firenze, dove è nata, Roma dove sposa Roberto Longhi e dove fonderà assieme al marito la rivista Paragone. La sua fantasia ha il passo nobile di altre figure novecentesche da Anna Maria Ortese a Lalla Romano, da Elsa Morante a Fabrizia Ramondino.
Racconti ritrovati (La nave di Teseo) mette insieme 46 racconti di Anna Banti, appunto ritrovati lì dove lei, sbadata perché prolifica, distratta perché nobile, li ha dimenticati, nel corso degli anni, dal 1930, quando il suo primo racconto comparve sulle pagine del periodico La Tribuna, al 1985, anno della sua morte a Ronchi di Massa.
Essi sono raccolti da Fausta Garavini, che ne firma la curatela con rigore filologico ma anche con una lacrima nell’angolo degli occhi: la sua prefazione è un racconto nel racconto, è come si leggono le donne tra di loro. Apre e spiega, ma anche rappresenta, questa curatela, un modo affettuoso di custodire un’anima. Pare dire la Garavini in queste pagine: guardate che vi spiego da dove arrivano i racconti così che voi possiate capirli meglio e non profanarli. Prolifica Anna Banti, si diceva, ma soprattutto così impegnata a vivere e così consapevole della vita da non potersi certo permettere di dare importanza ai suoi scritti. Basta leggerne uno qualunque: Anna Banti delle donne, e quindi degli uomini, sa tutto. I suoi personaggi partono da se stessa, lei si usa, piccola Alice, come specchio per guardare la società: quella che le piace e quella che le fa ribrezzo.
Proietta il silenzio delle campagne nella sua vocazione monacale mai esperita, la lussuria dei lupanari diventa tutto il non detto, tutto il non vissuto, l’esperienza mancata.
Così gli opposti creano il senso e il senso dello scrivere racconti così copiosamente e poi dimenticarli nei cassetti è: la vita è troppo frammentata perché la si possa dire una volta sola e per tutte, l’esperienza della vita è la somma dei suoi frammenti. Ecco che quindi dalle pagine dei giornali, dalle prime edizioni di racconti che avrebbe ripreso in seguito, e dai luoghi in cui non ricordava più di aver messo quel tale manoscritto, fioriscono quarantasei nuovi quadri. Sono bambine che crescono e che devono compiere un rito iniziatico, e il passaggio è l’incontro con la morte, quella di una nonna: fu il suo primo racconto questo, inviato a un concorso che non vinse, e in cui, per non arrischiare il suo nome, Lucia Lopresti, usava per la prima volta lo pseudonimo Anna Banti («Del resto il nome ce lo facciamo noi. Non è detto che siamo tutta la vita il nome della nostra nascita», confesserà a Sandra Petrignani). Sono donne pigre che tramano su una spiaggia, in codici segreti agli occhi di chi le osserva, contro o per uomini che credono invece di essere padroni della loro vita. Sono donne annoiate della borghesia romana, o donne ciarliere a passeggio per via Condotti. Sono paesaggi di campagna, di periferia, ma periferie del tempo, come la fine dell’estate, il settembre dopo la villeggiatura, quando il mare si vela d’acqua e il sole non scotta più. Tutto è perfettamente chiaro, cristallino alla lettura e tutto pervaso però di un senso umbratile, che non consente di mettere per sempre a fuoco gli elementi: si muovono in controluce le “personagge” di Banti, così che sia possibile distinguerne le silhouette e mai i volti, perché forse sono età diverse e possibilità diverse del modo in cui si manifestano le donne alle scrittrici donne. È questo effetto a creare un riserbo nobile, un doppio livello di prossimità: ci si è vicini, alla protagonista, perché si conosce come la pensa fin nel midollo che le percorre la schiena, eppure ci si è lontani lontanissimi, perché Banti la fa muovere dietro un velatino che ottunde il boccascena, così da rivelarla solo a tratti. Ci siamo vicini, perché sappiamo cosa vuole dire, eppure ci siamo lontani perché la lingua così tagliata, la penna così sicura ci distanziano, ci dicono di una generazione di scrittrici che ha trovato – solo le donne ci riuscirono, nella seconda metà del Novecento – l’impossibile equilibrio tra il neorealismo e il surreale. I personaggi di Banti sono quasi tutte donne, quasi tutte – dice Garavini, formidabile – “sprecate”.
Che è il sentimento dominante della condizione femminile nel mondo. Intravedere che si potrebbe oltre e non poterlo raggiungere. Ma poi ci sono i luoghi dell’infanzia, della vita: Firenze, dove è nata, Roma dove conosce e sposa Longhi storico dell’arte, dove fonderà assieme al marito la rivista Paragone che diresse in alcune sue parti e, dopo la morte del marito, in toto. E c’è, soprattutto, nei Racconti ritrovati, la memoria della guerra. Il ricordo della fame, dell’abbrutimento, e delle figure che spiccano in mezzo alle altre perché non hanno paura. Qui il confronto con le lettere si fa serrato, e il filo della memoria che costruisce, che ripesca per ampliare diventa ordito con quello dell’autobiografia, innestando la propria storia sulla Storia. Lavorerà sempre così Banti, con la fantasia che comanda, distorce e cristallizza: è lo stesso passo nobile di Althenopis di Fabrizia Ramondino, è l’isola che si fa ragazzo di Elsa Morante, ed è L’Iguana di Anna Maria Ortese, ma sono anche i passi vividi de La villeggiante di Lalla Romano, e il salotto di Maria Bellonci.
Per quest’ultima, per la casa dei Parioli in cui Annamaria Rimoaldi la stava detronizzando, ci sono pagine di tenera gelosia. E una punta di disprezzo per gli Amici della Domenica (i votanti dello Strega), che ricorda Il silenzio della ragione di Ortese: e che rappresenta bene il conflitto dell’intellettuale, lì dove sente di aver bisogno di un pubblico d’élite – l’unico da cui si aspetta un attendibile spirito critico, l’unico di cui in qualche modo si fida davvero – e assieme lo rifugge, inquietandosi per quel punto di cerniera che esso ingaggia con la mondanità.
Repubblica, 18 gennaio 2018
di Mariangela Mianiti
INTERVISTA. Una conversazione con l’autrice del romanzo «La compagnia delle anime finte», edito da Neri Pozza. «Volevo coniugare uno sguardo fiabesco e violento nello stesso tempo perché amo raccontare gli opposti»
Ho conosciuto Wanda Marasco un pomeriggio dello scorso novembre. Alla libreria delle donne di Milano, Rosaria Guacci e Romana Petri presentano La compagnia delle anime finte (Neri Pozza), arrivato terzo allo Strega 2017. Wanda, che è diplomata in regia e recitazione all’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico di Roma, legge alcuni passaggi con la sua voce roca da fumatrice e i protagonisti di questa storia incarnata in e con Napoli sbucano dalle pagine come se fossero lì. La scrittura di Wanda Marasco canta.
Di lei Giovanni Raboni disse: «È narratrice e cantastorie di una città in stretto rapporto con i suoi abitanti. Manifesta un’originalità e una profondità d’invenzione linguistica che purtroppo quasi mai troviamo nei romanzi contemporanei, da cui l’autrice si distacca in modo netto e violento».
Quel pomeriggio di novembre provai un desiderio: andare a trovarla dove i suoi romanzi nascono. Lei, che è donna generosa e curiosa, ha accettato mi intrufolassi nella sua intimità creativa che è inscindibile dalla città in cui vive.
Wanda Marasco abita in via Moiariello, a Capodimonte, dove è nata e cresciuta. In via Moiariello ha vissuto Vincenzo Gemito, il grande scultore protagonista de Il genio dell’abbandono, per un soffio non entrato in cinquina allo Strega 2015. A Capodimonte è ambientato La compagnia delle anime finte. La villa che si vede dalle sue finestre è appartenuta ai protagonisti del romanzo cui sta lavorando: Ferdinando Palasciano, medico filantropo precursore della Croce Rossa internazionale, e la moglie Olga Vavilova, principessa russa. Venire qui è come entrare nel magnete ispiratore della scrittrice.
Arrivo in via Moiariello all’ora di pranzo. Wanda, che è ottima cuoca, ha preparato pasta con carciofi e una sua specialità, parmigiana di melanzane alla napoletana. «Com’è?», mi chiede mentre traffica ai fornelli. Buona, e diversa. «Invece della mozzarella ci metto la provola affumicata».
La casa di Wanda parte dal primo piano di un palazzetto con torretta che si affaccia su un parco. Dentro, le stanze sono tutte passanti, persino il bagno, e disegnano un cerchio. Si sale di un piano e c’è il suo studio comunicante con un grande terrazzo, si sale di un altro piano e c’è un solarium. Il mare non si vede, ma se ne sente il profumo. Nello studio, al centro della scrivania affollata di carte e libri un po’ in ordine e un po’ alla rinfusa, spiccano gli autori che sta rileggendo (Puskin, Tolstoj), una rubrica stropicciatissima, gli occhiali appoggiati su fogli scritti con una grafia tempestosa, una Olivetti lettera 32 bianca e un po’ spelacchiata. «Ho un problema agli occhi, non riesco a lavorare al computer per cui scrivo a macchina, correggo a mano. Il mio metodo di lavoro è da contadina: scrivo, correggo, riscrivo fino a due o tre stesure. E poi la carta ridà in modo più veritiero che il video la forza espressiva del linguaggio».
Già, il suo linguaggio. Diverso in ogni romanzo, sa passare dal dialetto al letterario, sgusciare da un tempo verbale a un altro, inventare, come ne Il genio dell’abbandono, una terza lingua potente ed espressiva. Entra nella carne dei personaggi. «Prima ancora che dalla lettura degli scrittori napoletani, Basile, Eduardo, Viviani, Di Giacomo, Russo, mi ha influenzato la lingua complessa di Virgina Woolf, Thomas Mann, Herman Hesse. Penso che il primo personaggio debba essere proprio la lingua perché è mimesi, cioè si plasma, si adatta, si serve di ogni tipo di sfumatura. Costruendolo Il genio, per esempio, ho studiato la scrittura come una partitura musicale, ho pensato al contrappunto, alle voci della personalità scissa di Gemito come al richiamo tra famiglie strumentali che rappresentano tutti i temi presenti: famiglia, arte, follia. Anche nel nuovo romanzo sarà così. Ho già in mente l’inizio, Olga che sale le scale con il suo passo, claudicante a causa di un incidente subito nell’infanzia. Venne in Italia per farsi operare da Palasciano, si innamorarono e lei, per amore, finse di essere guarita. Con questa donna voglio dire verità profonde che riguardano l’universo femminile».
Per esempio?
I temi sono due, la claudicanza dell’umanità e il sentimento delle assenze. Il femminile ha sempre avuto delle assenze: l’uomo che non c’è o non è quello desiderato, la storia senza identità, la famiglia da recuperare, le passioni artistiche o scientifiche cui dare vita.
Ne «La compagnia» definisce le vicine di casa orche. Perché?
Volevo coniugare uno sguardo fiabesco e violento nello stesso tempo perché nulla mi piace di più che trattare gli opposti, e poi c’è la memoria del mio sguardo di bambina. Vedevo queste donne spesso grasse, il volto da vecchie già a quarant’anni, le tinte fatte in casa o da parrucchieri improvvisati, il nero corvino, i capelli stopposi da bambola vecchia, le gambe piene di varici, gonfie. Ero incuriosita dalla loro fisicità repulsiva e attrattiva, la stessa che Rosa sente nei confronti del degrado e della povertà perché sono comunque elementi di conoscenza. Questo aspetto a volte demoniaco me le ha fatte chiamare orche, ma anche con affetto, come fossero personaggi di fiabe che possono essere invadenti, tiranne, pettegole e nello stesso tempo capaci di dolcezza. Queste donne hanno tutte il progetto di amare e, insieme, l’avidità di divorare quello che amano. Si sostituiscono a Crono.
Come Vincenzina, la madre della protagonista, che per mantenere i figli diventa usuraia.
L’usura era una ragnuola diffusa a Napoli nel dopoguerra. In ogni vicolo c’erano piccole usuraie che prestavano soldi alla sorella, al parente, al vicino di casa. Ricordo benissimo anche quella di qui, donna Rinuccia. A lei mi sono ispirata. Dovevo costruire la metafora di Napoli.
Città così complessa che, dopo aver letto i suoi romanzi, se ne sospende il giudizio.
Napoli è ricchissima di fili rossi, cause della distruzione, valori, imprigionamento, preveggenza. Questa città è un serbatoio meraviglioso e terribile. E poi c’è il tema dell’assenza che qui si sente con una marca donchisciottesca. Se si segue la vita di uno scienziato o medico, matematico, artista, e penso a Mancini, Gemito, Palasciano, hanno sempre davanti un limite insormontabile, un’indifferenza della società, ideali smisurati, una tensione idealistica che arriva alla follia e che da metà Ottocento a metà Novecento è densissima. Scrivendo Gemito ho scoperto che Palasciano fu ricoverato a Villa Fleurent nel 1887 e che stettero insieme in manicomio. Queste congiunture fanno pensare a un tessuto storico che ha reso la creatura umana particolarmente sensibile di fronte, per esempio, all’uomo nuovo che si stava per creare, agli ideali della patria, dell’innocenza dell’arte, al valore dell’educazione. Questa città è fatta da storie fortemente simboliche, è un teatro del mondo.
Parliamo dello Strega. Secondo molti avrebbe dovuto vincerlo lei.
La prima volta, con Il genio, mi aspettavo di entrare in cinquina e ho sofferto parecchio quando non avvenne. Ho scoperto sulla mia pelle che il potere del mercato è una cosa tremenda, come la macchina editoriale. Tutto è un po’ deciso a priori tant’è che almeno da vent’anni non vince il libro migliore, ma la casa editrice più forte. Non è detto che la casa editrice potente non possa presentare libri notevoli, ma a volte, pur avendoli, non li fa concorrere per obbedienza alla domanda di mercato. La commissione centrale non ha ancora il potere di sganciarsi dai grandi gruppi editoriali e quindi c’è un’impasse terribile. Date queste premesse, quest’anno ero preparata e mi sono divertita con ironia osservando tutto ciò che si agitava nell’aria. Però che bello che il comitato centrale abbia votato all’unanimità La compagnia. In ogni caso lo Strega dà maggiore visibilità, porta editori stranieri e queste sono cose positivissime. Alla fine quello che conta non è avere il numero di lettori di Camilleri, ma raggiungerne di nuovi.
Lei ha insegnato per molti anni. Riusciva a scrivere allora?
Poco e per questo a volte entravo a scuola in lacrime. Il rapporto con i ragazzi è stato bello e molto mi hanno dato, ma mi sentivo sempre sottratta, volevo tornare alla stanza da sola.
Perché non ci riusciva?
C’era nella mia vita una difficoltà contingente dovuta in gran parte al fatto di essere donna. Una donna, quando ha figli, ha un senso di responsabilità enorme e non può dire «Me ne vado». Se poi ti capita un’unione dove l’atro non è precisamente un alleato, ma ha paura di perderti a causa delle cose che ami, spesso la vita si trasforma in una battaglia dolente. Tendi a salvare la sopravvivenza degli altri e di te stessa, di mantenere un po’ di dignità, rimandi nel tempo il progetto di te che, nel mio caso, è un demone che mi segue fin dall’infanzia. Ho corso in questa vita una sorta di cancellazione di me che mi ha dato non pochi problemi. Ora posso sorriderne, ma le piaghe ci sono state e la loro memoria oggi è da me considerata una ricchezza che torna non solo nei rapporti con gli altri, ma anche nella forza della scrittura. Ogni volta che ho avuto un problema, un dolore, ho combattuto come un soldato e con una forza deontologica che mi aspettava al varco. Solo dopo essere andata in pensione ho avuto davvero il tempo di dedicarmi alla scrittura.
(il manifesto, 7 gennaio 2018)
di Sarah Barberis
‘Gli uomini mi spiegano le cose’ è l’ultimo saggio della scrittrice femminista americana Rebecca Solnit: mentre Time sceglie come persona dell’anno il movimento #MeToo, questo libro illumina il continuum cha va dal mansplaining alla violenza e ai suoi effetti, tra i quali la paura e il silenzio. E ci dice però che non si deve rinunciare all’immaginazione e alla speranza, perché se questa è la malattia, tutte e tutti siamo responsabili della cura
Da piccola avevo ereditato da mia sorella un gioco che si chiamava “L’allegro chirurgo”. Su una tavola di cartone era disegnato un ometto panciuto con una lampadina rossa al posto del naso che aveva il corpo costellato da piccoli vani a forma di organi come il pomo d’adamo, il cuore o la milza. Lo scopo era quello di estrarre dal vano l’organo senza toccare i bordi metallici con il bisturi altrimenti l’uomo “strillava” di dolore e il naso diventava rosso.
Quello che avevo ereditato dalla mia scatenata sorella era un po’ scassato e quindi tre o quattro organi non rilevavano il contatto neanche se ci battevi sopra con il bisturi. Mi era venuto il dubbio che forse quegli organi funzionassero in quel modo, nel silenzio, salvo poi ovviamente vedere altri Allegri chirurghi a casa di amiche che confermavano il malfunzionamento del mio sensore di rilevazione del dolore.
Per me affrontare testi di femminismo significa molto spesso accorgermi che il mio sistema di rilevazione sensibile ha qualche malfunzionamento e che non sento dolore dove sarebbe normale sentirlo: che non sento più rabbia se il dottore mi guarda troppo a lungo il seno, che non mi irrita quando mi chiamano “bimba” o “bellezza”, che non mi urta vedere antologie di saggi in cui 3/4 degli autori interpellati sono maschi, che non mi infastidisce vedere quasi sempre uomini nei ruoli esecutivi mentre le donne abitano con grazia dimessa i propri ruoli ancillari, ad ogni livello e in qualsiasi azienda, soprattutto in Italia, (non penso ci fosse bisogno di sottolinearlo eppure penso ci sia comunque bisogno di sottolinearlo, prima di perdere davvero ogni sensibilità rispetto al problema), che per insultare un politico lo si chiama ladro mentre una politica donna la si definisce puttana, che sinceramente poi non me ne frega più niente di cambiare le cose perché tanto “loro sono sempre gli stessi” e “nulla cambia” e quindi “carine e colorate le marce femministe ma oltre a fare amicizia non servono a nulla”.
Rebecca Solnit, scrittrice californiana, femminista, attivista, autrice di diversi testi di non-fiction letteraria tra cui Gli uomini mi spiegano le cose mi direbbe che sono una cinica naive e che la disperazione è un lusso che non mi posso permettere.
Leggere Gli uomini mi spiegano le cose è stato come risvegliare alcuni vani del mio corpo fisico, emotivo e intellettuale che pensavo fossero ormai completamente desensibilizzati. Già il titolo tira una piccola scossa alla memoria personale, perché mi pone di fronte a certe domande: quante volte mi sono fatta spiegare dagli uomini delle cose senza neanche provare a darmi una spiegazione da sola? Quante volte ho ascoltato risposte per domande che non avevo posto? Quante volte ho posto domande o provato a dare risposte che non hanno ricevuto ascolto? Quante volte ho preferito astenermi dal domandare per paura di sentirmi stupida? Quante volte ho preferito tacere per non togliere al maschio il piacere di spiegarmi qualcosa o per paura di risultare isterica?
L’episodio che ispira il titolo si svolge nella casa di un “uomo importante” che, dopo aver saputo che Solnit ha scritto su Muybridge, un pioniere della fotografia in movimento, le suggerisce di leggere questo importantissimo saggio su Muybridge ed è talmente assorto nelle proprie parole da non rendersi conto che stanno provando ripetutamente a dirgli che è proprio Solnit autrice di quel saggio che lui, in ogni caso, non ha neanche letto.
Premetto che questo non è un libro preparato per far fare una figura meschina agli uomini, anche se ce la mettono davvero tutta per farla e Solnit non risparmia episodi e dati né prova a negare il fatto che la quasi totalità delle azioni criminali violente nel mondo è commessa dagli uomini. Ma lei stessa inizia e chiude questa raccolta di saggi ricordando che tra gli uomini ci sono preziosi alleati e che “gli uomini che comprendono il problema capiscono anche che il femminismo non è un complotto per defraudare i maschi, ma una campagna per la libertà di tutti”. Fatte le premesse però, si comincia sempre dal corpo delle donne, da questo “allegro paziente” assopito e assuefatto alle percosse.
Il richiamo alle cifre che la Solnit elenca nel secondo saggio con un ritmo implacabile è un risveglio brusco e spiacevole: 1 donna su 5 subisce una violenza sessuale nel corso della vita e il fatto che negli Stati Uniti si denunci uno stupro ogni sei minuti significa solo che in realtà la cifra effettiva è forse cinque volte maggiore, senza dimenticare che “le oltre 11.776 vittime di omicidi riconducibili a violenza domestica registrate tra l’11 settembre e il 2012 superano la somma del numero delle vittime di quel giorno e di tutti i soldati americani morti nella «guerra al terrore»”. Queste cifre ricordano che le donne sono in una guerra da cui non tornano mai a casa.
E ancora: “«In tutto il mondo le donne di età compresa fra i 15 e i 44 anni hanno maggiori probabilità di morire o di restare menomate a causa della violenza maschile che non a causa della somma complessiva di tumori, malaria, guerra e incidenti stradali» scrive Nicholas D. Kristof, una delle poche figure di rilievo a occuparsi della questione con regolarità”.
Il riverbero della percossa e della violenza è la paura, quella che mi chiude in casa la sera, mi allunga la gonna, mi copre il décolleté, mi serra la bocca, mi fa fare corsi di autodifesa e mi fa passare troppo tempo a pensare a come difendermi dalla violenza piuttosto che a fare qualsiasi altra cosa. Così come succede al movimento femminista oggi che conta i morti, tampona le emergenze e prepara piani di difesa piuttosto che prendersi tempo per l’immaginazione e l’incertezza e usare questa rabbia per creare altri mondi e altre relazioni sociali. Solnit spiega meravigliosamente cosa sia questo tempo oscuro nel saggio L’oscurità in Virginia Woolf – Abbracciare l’inesplicabile dove descrive una discussione con Sontag in cui “lei sosteneva la tesi che bisogna resistere per principio, anche se potrebbe essere inutile. Io avevo appena iniziato a portare avanti l’idea della speranza nella scrittura, e controbattei che non si può sapere se le nostre azioni saranno inutili, che non si possiede memoria del futuro; che il futuro è davvero oscuro, il che tutto sommato è la cosa migliore che possa essere”, proprio come sapeva anche la Woolf che decenni prima “portava avanti le sue istanze per la liberazione femminile non perché le donne potessero fare alcune delle cose istituzionali che facevano gli uomini (e che oggi fanno anche le donne), ma perché avessero piena libertà di muoversi, sia in senso geografico che con l’immaginazione”.
Questo è il potere che voglio anche io. Il potere di dire non lo so cosa sia una società femminista, ma sono disposta a rischiare di immaginarla. A questo proposito non so dire cosa sia il patriarcato, ma uno dei pregi di Solnit sia in questo libro che nelle interviste (se capite l’inglese andate su youtube, Solnit è una straordinaria oratrice) è di prestare ascolto a tutte le modalità con cui il patriarcato, che non è semplicemente “il maschio sciovinista”, impedisce un reale progresso nella società: “La liberazione femminile è stata spesso descritta come un movimento determinato a usurpare o portare via agli uomini il potere e i privilegi, come se, in uno squallido gioco a somma zero, il potere e la libertà potessero appartenere di volta in volta solo all’uno o all’altro sesso. Ma o si è liberi e libere insieme, o si è schiavi e schiave insieme”. (…)
(ci siamo fermate qui perchè ci siamo fermate allo scoglio dell’intersezionalità n.d.r.)
(www.cultweek.com, 9 dicembre 2017)
È la relazione primaria con la madre che struttura la capacità di dare e di creare un mondo dove non prevalga la logica dello scambio, come dimostrano le società matriarcali. Alla Libreria delle donne di Milano l’incontro con la studiosa che per prima ha messo in evidenza il nesso che c’è tra la cura materna e il dono. Un modello sociale ed economico che può scardinare i pilastri del patriarcato.
di Luciana Tavernini
Genevieve Vaughan (a cura di), Le radici materne dell’economia del dono, con la collaborazione di Francesca Lulli, VandA.ePublishing, Milano 2017, pp. 347, Euro 19,50, EPUB, EURO 14,00.
Capita a volte che una propria visione della realtà incroci una riflessione che la conferma, la rafforza, l’apre a orizzonti più vasti. Si prova la leggerezza del non camminare da sole, di trovare già illuminati aspetti che si intuivano e altri impensati che balzano in evidenza. Così è stato per me conoscere i lavori di Genevieve Vaughan e conoscere lei stessa, la coerenza tra i suoi scritti e il suo modo di agire.
Genevieve Vaughan è la maggiore studiosa dell’economia del dono e delle sue origini materne: dagli anni Ottanta mette in luce una complessa e articolata concezione del mondo, collegando ma anche confliggendo con scoperte e interpretazioni dell’economia, sociologia, politica, biologia, neuro-scienze, linguistica, filosofia, antropologia, come dimostra il convegno di Roma del 2015 Le radici materne dell’economia del dono, da cui è nato il libro dall’omonimo titolo.
Sono arrivata a scoprire la teoria del dono e a incontrare Genevieve grazie alla pratica della Storia Vivente che dal 2006 porto avanti con le amiche della Comunità omonima: come abbiamo mostrato nel convegno dello scorso 11 marzo a Milano presso la Libreria delle donne (http://www.libreriadelledonne.it/category/approfondimenti/storia_vivente/). Si tratta di una pratica che fa dell’indagine dei nodi nella vita della storica il metodo per individuare aspetti della storia ancora rimasti invisibili, un’invisibilità funzionale al patriarcato e a una storia che valorizza i rapporti di forza e di potere. Districare questi nodi libera la soggettività femminile e mostra altre possibilità di leggere il mondo.
In questo lavoro avevo enucleato un nodo relativo al comportamento di mia madre che a volte mi irritava e infastidiva: lei mi pareva troppo generosa, non nascondeva però la nostra povertà ed era capace di esprimere giudizi senza infingimenti, senza bon ton. Leggendo questi comportamenti all’interno del sistema patriarcale e capitalistico li vedevo come dispendio, oblatività, rozzezza e non coglievo il nesso tra generosità e autorizzarsi a esprimere giudizi non condiscendenti. Quando, riflettendoci, nel 2010 scrissi per la rivista spagnola Duoda un saggio pubblicato l’anno successivo in DWF (“Gli oscuri grumi del disordine simbolico” in La pratica della storia vivente DWF, n.3 2012), individuai la categoria della munificenza, che non dipende dall’essere ricche o povere. Si può essere ricche e misere e invece povere e munifiche.
Avevo visto in mia madre e anche in mia nonna “modelli di autorità femminile per un altro modo di esserci”, come dice Chiara Zamboni (“La notte ci può aiutare” in a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, Il pensiero dell’esperienza, Baldini e Castoldi Dalai, 2008), donne che non aspettano che il capitalismo finisca, ma qui e ora aprono altri spazi dove regna una sapienza femminile dei rapporti umani. Questa interpretazione mi rese capace di leggere diversamente anche comportamenti miei, di amiche, di mio marito e mio figlio, cosa che mi rese più libera e autorevole e spinse a cercare riflessioni simili anche in altri testi. Così da note nei libri, da siti internet (www.gift-economy.com e www.Economiadeldono.org) sono entrata in contatto con l’economia del dono di origine materna e con Genevieve Vaughan, l’autrice di Per-donare. Una critica femminista dello scambio (Meltemi, Roma 2005), di Homo donans. Per un’economia del materno (VandAePublishing, 2015), ma soprattutto ho avuto l’opportunità di invitarla alla Libreria delle donne di Milano per un confronto sul libro, frutto del convegno romano.
Nell’introduzione al libro Genevieve mostra la forza interpretativa della teoria da lei messa a punto e ricostruisce la rete internazionale che ha dato vita all’incontro e che dal 2001 ha sviluppato diverse iniziative in Norvegia, in Texas, nei World Social Forum d Porto Alegre, Nairobi, Bamako, Mumbai, ha partecipato a conferenze mondiali delle donne in diversi paesi, ha prodotto convegni specifici sull’economia del dono, ha intrecciato relazioni con i Moderni Studi Matriarcali, con le riflessioni di teorici della decrescita e con studiose di diverse discipline che, pur non essendo iscritte all’International Feminists for a Gift Economy, ne colgono l’importanza.
Vaughan nel suo saggio, che inaugura la prima parte intitolata Teoria, delinea sinteticamente il tema del dono. Non usa la parola munificenza ma economia del dono unilaterale di origine materna. Cogliendo il valore, anche economico, dell’esperienza, comune nei primi anni di vita a tutti gli esseri umani, del ricevere ciò che la madre, o chi per lei, dà, si può analizzare diversamente la società attuale. Si tratta di un’esperienza sottesa allo sviluppo delle prime capacità sociali: l’attenzione congiunta, la capacità di leggere le intenzioni altrui, le proto-conversazioni infantili universalmente diffuse. Il ricevere e dare a turno è all’origine ma anche struttura il linguaggio. Inoltre, come dimostrano gli studi di psico e neuro biologia, porta a riconoscersi e a sviluppare la propria soggettività in quanto connessi alla madre, vedendola “come me” e apprendendo dal suo comportamento ad agire nel mondo e a interagire con altre persone, interattività facilitata dai neuroni a specchio. È un’esperienza che struttura in tutti la capacità di donare, ma nella società attuale viene contraddetta dalla logica di mercato che impone uno spostamento di soggettività per i maschi. A partire dai 4 anni, essi imparano ad appartenere alla categoria opposta a quella della madre, dove l’opposizione viene intesa come non prendersi cura degli altri, dare solo per ricevere, e che le femmine devono adeguarsi a loro. Una situazione non naturale né inevitabile, dato che non avviene nelle società matriarcali, come riferiscono anche altri saggi nel libro.
Aver presente l’origine materna dell’economia del dono ci mostra che oggi sono presenti due economie e che quella di scambio è parassitaria della prima. Riconoscere il carattere economico della cura materna permette di individuare due paradigmi: quello di un materialismo maternalista di dono e quello dell’economia capitalista dello scambio e del mercato. Permette di cogliere ciò che mette in atto la logica dello scambio e che spesso non vediamo connesso: violenza e rappresaglia; attacco militare e contrattacco, giustizia come ripagare un crimine o vendetta; persino sentirsi in colpa è predisporsi a pagare un prezzo, solo per fare qualche esempio.
Il saggio è ricchissimo di spunti che mi hanno aiutato a liberare i miei comportamenti da letture svalutanti, dall’impiccio di cercare sempre un prezzo per dar valore a ciò che facevo, senza la libertà di far circolare il di più che avevo nelle relazioni, certa che ne può venire del meglio nel mondo in cui anch’io vivo.
Voglio accennarvi brevemente ad alcuni dei 27 interventi del libro sul convegno perché ciascuno amplia il discorso con prospettive inaspettate e un linguaggio che la necessità di sintetizzare ha reso chiaro e godibilissimo, mantenendo quasi sempre la vivacità dello scambio in presenza e nel contempo una scorrevolezza, dovuta all’attenta riscrittura dei testi da parte delle autrici ed anche all’accurato editing della casa editrice.
Nei saggi della prima parte dedicati alla Teoria, segnalo quello di Luciana Percovich, che molte di noi conoscono come femminista, saggista e curatrice della collana Le civette della casa editrice Venexia. Esso mette in luce, anche sulla scia delle ricerche pionieristiche di Marja Gimbutas, chiavi di lettura comuni per le sculture e pitture nelle grotte santuario del Paleolitico fino a giungere alle numerose Madonne del latte dipinte in Italia tra l’anno Mille e il Quattrocento. Ho trovato particolarmente interessanti quello di Francesca Brezzi, docente di Filosofia Morale all’università Roma 3, che ripercorre le teorie del dono ma soprattutto si sofferma sulla relazione placentare incrociando il pensiero di Luce Irigaray e le opere placentarie della fine degli anni Settanta della pittrice futurista Barbara; quello di Elena Pulcini, docente di Filosofia Sociale a Firenze, che, dialogando anche con altri teorici del dono, mostra come esso ci porti a una nuova concezione dell’essere, capace di accettare la costitutiva fragilità del soggetto e la necessità della relazione, una passione per l’altro da sé, proponendo dunque l’universalità della cura, facendo sì che le donne da soggette alla cura (e al dono) diventino soggetti di cura (e di dono); quello di Alberto Castagnola, ricercatore dello SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno) e dell’ISPE (Istituto di Studi per la Programmazione Economica), sui contributi del pensiero della decrescita alle teorie del dono.
Penso anche all’analisi che Daniela Falcioni, docente di Etica Sociale in Calabria, fa della struttura del dono a partire dal romanzo del 2005 Slow man di Coeetze, premio Nobel nel 2003; alla denuncia dei tentativi di eliminazione della madre operati dal neoliberismo con il concetto di parità del femminismo liberale dell’Unione europea, la medicalizzazione della maternità, le tecnologie riproduttive, l’espropriazione delle competenze materne, come fa la ricercatrice che si muove tra Austria e USA Mariam Irene Tazi Preve; al saggio di Susan Petrilli, docente di Semiotica a Bari, che sintetizza i principali aspetti della teoria del dono applicata al linguaggio, delineata nel libro della Vaughan, per ora solo in inglese, The Gift in the Heart of Language: The Maternal Source of Meaning (Mimesis 2015): dal come lo apprendiamo, alla costruzione del mondo attraverso di esso, alla relazione tra chi scrive e chi legge, alla pratica della traduzione.
Nella seconda parte, intitolata Pratica, mi hanno colpito gli esempi di odierne società matriarcali come l’eco-villaggio Nashira in Colombia, di cui parla Angela Dolmetch, giurista che ha studiato tra la Colombia e la Gran Bretagna, oppure come la Pagoda Community, costituita da donne lesbiche a St. Augustine in Florida dal 1976 alla fine degli anni Novanta, e il Michigan Women’s Music Festival dal 1975 al 2015, di cui ricostruisce le storie l’attivista statunitense Lyn Daniels. Soprattutto mi ha fatto riflettere l’esame di Kaarina Kailo, docente e politica finlandese, su come nel suo paese le politiche neoliberali stiano distruggendo quel tipo di stato sociale, le cui caratteristiche possono leggersi come espressione del dono. Lei lo fa con casi precisi, a volte raccapriccianti come l’introduzione di animali meccanici per anziani o lampade per ricordare ai malati di Alzheimer di mettere in forno il cibo surgelato, il tutto nel tentativo di ridurre i costi dell’assistenza. Esempi che insieme alle sue riflessioni teoriche ci permettono di cogliere quello che anche da noi si sta tentando di fare, collegandolo tra l’altro agli obiettivi del recente Trattato di Lisbona dell’Unione Europea.
Inoltre mi ha colpito la resistenza in Italia alla medicalizzazione della maternità e della nascita, di cui un esempio è la creazione di madri peer to peer, nell’intervento di Elena Skoko, fondatrice tra l’altro dell’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia (ovoitalia.wordpress.com); il modo diverso di utilizzare internet da parte delle donne di cui parla Anna Cossetta della facoltà di Sociologia a Genova.
La terza parte, Pratica nelle realtà non occidentali, inizia con un breve saggio Heide Goettner-Abendroth, che con il suo lavoro quarantennale di ricerca sul campo, ma soprattutto di comparazione tra le ricerche, in particolare di studiose e studiosi nativi, ha fornito il paradigma delle società matriarcali fondando i Moderni Studi Matriarcali. Nel suo libro Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo (Venexia 2012) ne ha messo in luce le caratteristiche a 4 livelli, sociale, economico, politico, spirituale/culturale, consentendoci di cogliere elementi comuni strutturali nella diversità delle attuazioni legate alle condizioni specifiche. Un piccolo assaggio che invoglia ad approfondire.
Segue la comunicazione di Francesca Rosati Freeman che col suo libro Benvenuti nel paese delle donne. Un viaggio straordinario alla scoperta dei Moso (XL edizioni 2010) e poi con il documentario Nu Guo. Nel nome della madre, girato con Pio D’Elia (Dharma production 2014) ci ha fatto conoscere il popolo Moso, un esempio vivente di società matriarcale. Sono circa 40.000 persone che vivono in Cina con un’organizzazione sociale matrilocale e matrilineare, dove figli e figlie vivono e producono nella casa e nella terra della madre, separando la vita familiare da quella amorosa: una ragazza giunta a maturità sessuale ha una stanza in cui accogliere il giovane scelto come amante, che il mattino successivo torna alla casa di sua madre.
Si pratica la maternità allargata per cui ogni componente della famiglia materna (madre, nonna, sorelle, fratelli, zie e zii materni) dona alla creatura le cure materne necessarie e alla genitrice libertà nel vivere la sua maternità. Le decisioni collettive vengono prese col metodo del consenso.
In questa società vi è assenza di violenza, di gelosia, non esiste abbandono di minori né di persone anziane. In questo saggio Freeman ci aggiorna su come il popolo Moso abbia organizzato i soccorsi per i villaggi colpiti dal terremoto del 2012 e su come nella situazione attuale sia in atto un attacco al modo tradizionale di vivere da parte di società e del governo cinese con quelle modalità capitalistiche che stanno diffondendosi in Cina, ma ci mostra anche come il popolo Moso abbia reagito, in modo pacifico senza rompere la solidarietà e salvaguardando la natura del lago Lugo, diventato zona turistica.
Ho dato più spazio ai lavori di Goettner-Abendroth e di Freeman perché ho potuto conoscerle personalmente e approfondire le loro scoperte, invitandole a Milano.
In questa parte segnalo anche il testo della scrittrice senegalese Coumba Toure sul tema dell’adozione in cui confronta le modalità occidentali con quelle di popoli dell’Africa Occidentale e quello dell’attivista canadese Diem Lafortune sulla compravendita di neonati di popolazioni native, mascherata da adozione.
Infine nell’ultima parte intitolata Spiritualità ho potuto constatare, grazie a Morena Luciani Russo fondatrice dell’Associazione Laima di Torino, il permanere di elementi matriarcali e di dono in riti praticati ancor oggi legati alla panificazione collettiva in Abruzzo, Campania e Sardegna. Mi ha colpito anche nel saggio della scrittrice statunitense Vicki Noble, che chiude il libro, la relazione tra la produzione naturale dell’ossitocina attraverso riti di guarigione contemporanei, soprattutto femminili, e le più recenti ricerche di neurobiologia che mostrano la funzione sociale e curativa di questo ormone.
Ho fatto questa carrellata personale e non esaustiva per darvi un’idea della ricchezza e dei legami internazionali legati all’economia del dono, infatti il libro offre molte indicazioni per piste di ricerca personali.
John Maxwell Coeetze, Slow man, trad. di M. Baiocchi, Einaudi, Torino 2006, pp.253, EURO 17,00.
Heide Goettner-Abendroth, Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia 2013, pp. 710, Euro 28,00.
Francesca Rosati Freeman, Benvenuti nel paese delle donne. Un viaggio straordinario alla scoperta dei Moso, XL edizioni 2010, pp.183, euro 15,00.
Francesca Rosati Freeman e Pio D’Elia, Nu Guo. Nel nome della madre, Dharma production 2014, Giappone- Italia 56’.
Luciana Tavernini, “Gli oscuri grumi del disordine simbolico” in La pratica della storia vivente DWF, n.3 2012.
Genevieve Vaughan, Per-donare. Una critica femminista dello scambio, trad. Francesca Buffo, Meltemi, Roma 2005, pp.503, Euro 25,00, VandAePublishing, EPUB, EURO 4,99.
Genevieve Vaughan, Homo donans. Per un’economia del materno, trad. di Nicoleugenia Prezzavento, VandAePublishing, Milano 2015, pp. 418, Euro 19,50, EPUB, EURO 14,00.
Genevieve Vaughan (a cura di), Le radici materne dell’economia del dono, con la collaborazione di Francesca Lulli, Genevieve Vaughan, Per-donare. Una critica femminista dello scambio, Milano 2017, pp. 347, Euro 19,50, EPUB, EURO 14,00.
Genevieve Vaughan, The Gift in the Heart of Language: The Maternal Source of Meaning (Il Dono nel Cuore del Linguaggio: la Fonte Materna del Signficare), Mimesis, 2015, pp. 486, EURO 28,00, EPUB, EURO 6,99.
Chiara Zamboni, “La notte ci può aiutare” in a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, Il pensiero dell’esperienza, Baldini e Castoldi Dalai, 2008, pp. 480, Euro 20,00
http://www.libreriadelledonne.it/category/approfondimenti/storia_vivente/
(Leggendaria n.226/2017 p.33-35)
Marina Santini | Luciana Tavernini
Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua
Il Poligrafo 2015
di Donatella Franchi
Il libro ci restituisce una grande energia creativa, non solo per la vivezza delle forme che via via prende il dialogo tra una madre e sua figlia sulle parole inventate dalle donne per dire la loro esperienza, sul corpo pensante, sui luoghi creati per rispondere ai propri bisogni e desideri e sul lavoro, ma anche per le quasi cento fotografie che ci restituiscono la vitalità di un’epoca e per la varietà delle testimonianze di 58 femministe.
Sono testimonianze nate nel passato, testimonianze di un’esperienza di trasformazione ricca di invenzione la cui energia ha lasciato in chi parla una impronta che dura nel presente.
Non sono memorie di un periodo finito, ma mostrano una storia che continua ancor oggi.
Dato il mio amore per l’arte visiva mi soffermo sulle testimonianze di Paola Mattioli e di Marcella Campagnano, oggi due fotografe riconosciute e affermate. Le loro testimonianze ci dimostrano che dalle esperienze delle artiste femministe di quegli anni deriva un nuovo modo di pensare l’arte oggi. Le pratiche artistiche delle donne hanno cambiato il panorama dell’arte. Infatti il femminismo è il movimento politico del ‘900 che più l’ha influenzata.
Quella che io chiamo “la novità fertile” che le donne hanno portato nel mondo dell’arte è il fare interagire l’energia della creazione con l’energia dei rapporti.
Marcella Campagnano esordisce dicendo “non sono una fotografa”, nelle sue fotografie sperimentali sui ruoli che le donne incarnavano e che le imprigionavano, quello che le importava era l’incontro con le donne, lo stare insieme in relazione, da cui scaturivano le fotografie sui travestimenti.
Preferisco usare il termine pratica artistica, esprime meglio il lavoro artistico come azione trasformativa che innesca processi vitali e crea spostamenti che mettono in circolo energie creative che tutte e tutti possiedono.
Il femminismo è stata una grande creazione che sento agire nel mio presente: mi ha permesso di formarmi un po’ alla volta un pensiero mio sull’arte.
Ho sempre utilizzato l’arte in modo relazionale, ma ne ho avuto coscienza solo attraverso il femminismo. Per me comunicare attraverso immagini, ha sempre significato “arricchire il vivere insieme”, come ha detto Carla Lonzi parlando delle Preziose nel suo testo rimasto incompiuto Armande sono io!
Infatti la rivoluzione femminista, portando la vita al centro della cultura e della politica, ha modificato profondamente anche il rapporto con l’arte. Il nostro presente continua a nutrirsi di questo cambiamento.
Oggi continuo a pensare che fare arte significhi agire nella trasformazione in relazione.
(Nel libro vi è anche la testimonianza di Donatella Franchi “Un andirivieni necessario. Pratica artistica e vita quotidiana” in cui a partire dal un suo lavoro Progetto Clotilde, durato dieci anni, offre alcune riflessioni sul fare artistico.)
(www.libreriadelledonne.it, 7 dicembre 2017)
di Giuliana Giulietti
Avere tra le mani e sotto gli occhi la nuova edizione di Virginia Woolf e i suoi contemporanei pubblicata dal Saggiatore, a cura di Liliana Rampello e con la traduzione di Lucia Gunella, immergermi nella lettura, guardare le tante foto (di Virginia, dei suoi parenti, delle amiche e degli amici) di cui è arricchita, è per me un piacere squisito. Ventisette persone sono qui convocate per restituire un ricordo personale di lei –Virginia zia, cognata, moglie, sorella, amica, editrice– anni dopo il suo suicidio. Quella morte –scrive Liliana Rampello nella sua bella introduzione– “che sembra aver steso sulla scrittrice e sull’opera un velo nero, cupo, che fa rivedere tutto alla disperata luce di quell’ultimo gesto”. Da qui l’immagine a lungo tramandata di una Virginia tormentata, depressa, infelice.
Ma la donna che ci viene incontro da queste pagine, con la sua risata beffarda, la sua lingua tagliente, il suo straordinario senso dell’umorismo, questa donna “curiosa della vita e forte, sensibile ma forte”, non ha nulla a che spartire con quella che l’amico e romanziere E.M.Forster chiama “la leggenda dell’invalida signora di Bloomsbury”. Sono dunque le persone che l’hanno conosciuta e che hanno condiviso con lei lavoro, pranzi, feste, conversazioni, passeggiate, vacanze, viaggi, a sollevare il velo nero gettato sulla sua vita e a mostrarci “la vivacità varia e scintillate di un’altra verità”.
Certamente c’è verità anche nel dolore, nella malattia e nella morte di Virginia Woolf. Ma queste due verità –osserva Rampello– si tengono insieme nella sua vita “e poco si capisce se l’occhio ne illumina una sola, se non si guarda con fervore ammirato alla contrastante e continua tensione fra le due, alla relazione fra due poli uno dei quali si affaccia di continuo con la prepotenza del desiderio, il desiderio di vivere fino in fondo ogni attimo della quotidianità”. Ed è lì, nella profonda materialità del quotidiano che Virginia intravede il miracolo, la sacralità dell’esistenza.
Ogni esperienza umana era interessante per lei – racconta Nigel Nicolson (figlio di Vita Sackville-West) –, la immagazzinava in fondo alla sua mente; poteva o non poteva saltare fuori anni dopo, in forma completamente diversa, da uno dei suoi dei suoi libri. “Le si dava un briciolo di informazione, opaco come un pezzo di piombo, e lei lo restituiva scintillante come un diamante”.
La scrittrice Elisabeth Bowen descrive Virginia come “una creatura di riso e movimento /…/ un riso contagioso, esagerato, come quello di un bimbo”.
In un saggio su Lewis Carroll, Virginia Woolf scrive che per ridere bisogna saper tornare bambini e stupirci di tutto e trovare ogni cosa talmente strana che niente ci sorprende. E lei – lo capiamo da alcune delle testimonianze che incontriamo leggendo – aveva quel dono. Sapeva tornare bambina, ridere, provocare, fantasticare e i suoi nipotini (Julian, Quentin, Angelica) e i figli di Vita (Nigel e Ben) l’adoravano. “Sta arrivando Virginia” –dicevano– “quanto ci divertiremo”.
Suo cognato, Clive Bell, la rievoca con affetto e ammirazione: “Per tornare a quella sciocca caricatura –Virginia la malinconica ipocondriaca– lasciatemi dire che era l’essere umano più allegro che abbia mai conosciuto e uno dei più amabili. Stavo per aggiungere, oltre ad essere un genio; ma di fatto queste qualità erano elementi del suo genio”. Del genio di Virginia parlano anche Janet Vaughan e Vita Sackville -West che, in una singolare coincidenza, ce ne offrono la medesima immagine. Un’immagine di coraggio e di audacia. Per Vaughan il genio di Virginia si esprimeva “nella qualità di saltare gli abissi” senza il bisogno di sostenersi a nulla. Saltava e via. “Ho sempre pensato” –dice Vita– “che il suo genio la portasse, attraverso qualche scorciatoia, a un punto essenziale che tutti gli altri avevano mancato. Non ci arrivava camminando: ci arrivava con un balzo”.
Scorrendo le pagine del libro ci imbattiamo ripetutamente nello spirito beffardo e canzonatorio di Virginia, nella sua lingua diabolica. Le piaceva prendere in giro le persone, costruire storie fantastiche su di loro, fare pettegolezzi. “Si divertiva a spremere tutti, ricamando insistentemente su ciò che le avevano detto”–ricorda Rosamond Lehmann che di Virginia elogia la bellezza, i grandi occhi melanconici, le mani squisite, la natura completamente poetica.
Ancora più arrabbiata di Clive Bell e di Forster con chi costantemente appiccicava etichette a Virginia (Regina di Bloomsbury, Intellettuale languida e distruttiva), Vita Sackville-West, che dell’amica aveva una conoscenza intima e profonda, prende la penna in mano per raccontare la sua verità: Virginia era “autentica, integra, raffinata, sulfurea, pura”. Una qualità, la purezza, che in Virginia risplendeva e affascinava chiunque la incontrasse. “C’era in lei” –afferma la scrittrice Rebecca West, “qualcosa di insolitamente pulito, puro”. “Era come una corrente d’acqua adamantina, pura e scintillante” –racconta la nipote Angelica Garnett– “trasparente, gorgogliante, austera e che da’ la vita”.
Virginia Woolf e i suoi contemporanei ci restituisce dunque il ritratto di una donna che amava appassionatamente la vita, Londra e la campagna, il buon cibo e il vino, i parenti e le amiche e gli amici sebbene di tanto in tanto uno spiritello maligno la inducesse a canzonarli, a metterli in ridicolo. Ma nessuno perdeva le staffe con lei o se la prendeva più di tanto. Non c’era mai una reale malevolenza in Virginia. Era fatta così. “Era come il bambino che mette il dito nell’anemone per vedere se si chiude”.
Tra le ventisette persone qui convocate ce ne sono di famose (scrittrici e scrittori, poeti e pittori) o persone comuni come Louie Mayer, cuoca a Monk’s House (la casa di campagna di Virginia e Leonard Woolf) dal 1934 al 1969 (anno della morte di Leonard) la quale ci informa che in cucina Virginia sapeva fare meravigliosamente una cosa: un bel pane. “Noi ci siamo sempre fatti il nostro pane” –le diceva. E tutte queste persone, dal grande T.S.Eliot a Louie Mayer sapevano che Virginia era completamente felice solo quando scriveva. “Amava scrivere” –dice E.M.Forster– “con un’intensità che pochi altri scrittori hanno mai raggiunto o anche solo desiderato”.
Il 19 giugno 1923 mentre era impegnata nella stesura di Mrs. Dallowy, Virginia Woolf confidava al diario: “Ora che ho ripreso la narrativa sento la mia forza che emana, schietta e ardente, da me nella sua pienezza /…/ il libero uso delle nostre facoltà significa felicità. Ora sono una migliore compagna, un essere più umano”. Ma il suo spirito beffardo e il suo enorme senso del divertimento erano sempre in agguato. Barbara Bagenal racconta che quando sua figlia Judith era bambina incontrò la scrittrice nella High Street di Lewis e Virginia le disse: “ Vieni con me da Woolworth a comprare una grande gomma?. Voglio cancellare tutti i miei romanzi”.
Virginia Woolf e i suoi contemporanei
a cura di Liliana Rampello
traduzione di Lucia Gunella
pag. 319 ill. col e b/n
brossura con bandelle
responsabilità grafica non indicata
tit. orig.: Recollections of Virginia Woolf by Her Contemporaries, Ohio University Press, Athens 1972
Il Saggiatore, Milano, 2017
di Franca Fortunato
La storica Anna Paola Moretti da anni, con l’Istituto di Storia Contemporanea della provincia di Pesaro e Urbino, si dedica alla storia e alla memoria delle deportazioni femminili, con tutto il rigore della ricerca storica che la contraddistingue e l’amore per le donne che la orienta e la mette in una posizione relazionale di ascolto dell’altra e di dialogo da donna a donna. È quello che fa anche nel suo ultimo libro Considerate che avevo quindici anni – Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione dove una bambina, con le trecce nere e lo sguardo profondo, (ci) parla attraverso il suo diario, che scrisse nell’arco di un anno (1944/45) quando giovane partigiana, figlia e sorella di partigiani, il 23 luglio 1944 a Ripe (in provincia di Ancona) nelle Marche, venne arrestata dai tedeschi in ritirata e deportata nei lager di Norimberga e Bayreuth per lavorare nell’industria bellica della Siemens. Il diario è un documento preziosissimo perché apre una pagina poco conosciuta, poco indagata, poco ricercata dalla storiografia, quella della deportazione per lavoro coatto il cui “emergere può disegnare una nuova mappa storica e contribuire a ripensare la storia del Novecento, in quell’intreccio di memoria e storia”. Magda era consapevole del valore storico e umano di quello che stava capitando a lei e alle sue compagne e compagni e voleva lasciarne memoria. “Quando un giorno – scrive nel suo diario – ritorneremo, se ritorneremo (…) bisognerà raccontare la nostra Odissea” e più volte, con l’uso del voi, si era rivolta ai futuri lettori. Ma quando tornò dalla prigionia, per lunghissimi anni, non raccontò nulla né del diario né della sua esperienza. Moretti, nell’interrogarsi su quel silenzio, condiviso con tantissime donne e uomini sopravvissuti ai lager, ricostruisce il contesto storico del dopoguerra che impose quel silenzio. Magda si limitò a ricopiare il suo diario su un quaderno con la copertina nera dai bordi rossi, perché si stava deteriorando. Tuttavia non abbandonò mai dentro di sé il desiderio di fare arrivare a noi la sua storia. Desiderio profondo che, a 70 anni di distanza dagli eventi e a 37 dalla sua morte, Anna Paola Moretti ha riconosciuto nel gesto del figlio Giorgio che, fidandosi della storica e della donna, le ha affidato il diario della madre che glielo aveva dato poco prima di morire. Oggi anche noi, grazie a lei, possiamo leggerlo e conoscere la sua storia nei lager, come lei voleva. Una storia dolorosa, fatta di violenze, orrori, fame, angosce, paure, che la protagonista affida giorno dopo giorno alla scrittura del suo diario, suo amico e confidente, su minuscoli blocchetti di ricevute scadute, trovate per caso. Pagina dopo pagina, giorno dopo giorno, Magda ci porta dentro il viaggio della sua deportazione, nell’inferno delle fabbriche, nel degrado degli alloggiamenti comuni, sotto i bombardamenti e ci rende partecipi dei suoi sentimenti di solitudine, nostalgia, sconforto e dolore per il distacco e poi la morte del fratello, Giorgio, che si era fatto deportare per starle accanto. Nel buio della tragedia, personale e collettiva che si stava consumando nel cuore dell’Europa, vediamo splendere il desiderio di Magda di sopravvivenza, scopriamo con ammirazione nelle pagine del suo diario, la forza e il coraggio di una ragazzina di quindici anni – la stessa età di Anna Frank – costretta a crescere troppo in fretta. Una costante guida e un conforto fu per lei – come scrive nella prefazione Luciana Tavernini della “Comunità di Storia Vivente” di Milano – l’amore di e per la madre e il pensiero della nonna e delle amiche, che la tennero al riparo dalla disumanizzazione del mondo dei lager e le permisero di aprirsi a nuove relazione e alla speranza del ritorno. Un libro prezioso, bello, utile, imponente, puntuale nella ricostruzione della biografia di Magda e delle vicende storiche che l’hanno accompagnata, dall’8 settembre 1943 fino agli anni Cinquanta, in un intreccio tra memoria e ricerca storica, che ha il pregio di fare conoscere una delle tante vite femminili oscure e sconosciute che Virginia Woolf chiedeva di portare alla luce. Un libro da leggere e studiare in tutte le scuole.
Anna Paola Moretti, Considerate che avevo quindici anni – Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione, collana di ricerche storiche dell’Istituto Storia Marche, Ed. affinità elettive, pp.313, € 18,00.
(www.spettacoliamo.it, 22 novembre 2017)
di Giuliana Giulietti
Il discredito della parola femminile, la cultura dello stupro e la rivoluzione femminista sono i temi affrontati da Rebecca Solnit nella raccolta di saggi Gli uomini mi spiegano le cose. Saggio sulla sopraffazione maschile. Come Cassandra, la giovane donna che diceva la verità e non veniva mai creduta (questo in conseguenza di una maledizione che le aveva lanciato il dio Apollo perché si era rifiutata di fare sesso con lui) ed era considerata dalla sua famiglia pazza e bugiarda, così generazioni di donne «sono state bersagliate di accuse: di essere deliranti, confuse, manipolatorie, maligne, delle intriganti, di avere una innata tendenza alla disonestà». Ogni qual volta una donna mette in discussione un uomo – scrive Solnit – in particolare un uomo potente, specialmente se ha qualcosa a che fare con il sesso, l’uomo si difende gettando discredito su di lei e sul suo racconto. Da mezza svitata, ipocrita e sgualdrina fu trattata nel 1991 Anita Hill che di fronte alla commissione di giustizia del Senato americano riportò una serie di episodi in cui Clarence Thomas (nominato giudice della Corte Suprema da Bush senior e allora suo superiore) l’aveva costretta ad ascoltarlo mentre descriveva dei porno da lui visionati e le sue fantasie sessuali. Il medesimo schema denigratorio fu utilizzato contro Nafissatou Diallo, la cameriera nera, immigrata, che nel 2011 accusò uno degli uomini più potenti del mondo, il presidente del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, di averla violentata nella stanza di un lussuoso albergo a Manhattan. Strauss-Kahn indusse i suoi avvocati a diffamare Diallo che fu raffigurata come una bugiarda e una prostituta. Ragionando su alcuni dei molti scandali sessuali scoppiati negli USA e su altri innumerevoli casi di abusi e stupri, ciò che Solnit porta a evidenza è la stretta parentela che intercorre tra violazione del corpo delle donne e delegittimazione della parola femminile. La pretesa maschile di spiegare le cose alle donne, indipendentemente dal fatto che sappiano o no di cosa stanno parlando, non è che una delle forme usate per zittirle. «Un uomo – osserva Solnit – agisce sulla base della convinzione che tu non hai diritto di parlare e che non riuscirai a descrivere ciò che ti sta accadendo. Ciò può significare che verrai interrotta mentre dici la tua a una cena o a un convegno; potrebbe anche voler dire che ti verrà detto di stare zitta, o che sarai minacciata se aprirai bocca, o che verrai picchiata perché hai parlato, o che verrai ammazzata per farti tacere per sempre». Nel 1963 Betty Friedan pubblicò La Mistica della Femminilità, un libro che per Solnit rappresenta una pietra miliare nella lotta delle donne con gli uomini che ti spiegano le cose e che vogliono, con le buone o con le cattive, ridurti al silenzio. Il manifesto di Friedan fu il primo segnale del profondo malessere che serpeggiava tra le donne americane e che è all’origine della rivolta femminista negli anni Settanta del Novecento. La presa di parola delle donne sulla scena pubblica fece saltare il confine fra pubblico e privato; assestò un colpo al dominio maschile sulla sessualità, sulle scelte procreative femminili e portò allo scoperto i maltrattamenti e le violenze dando loro un nome. L’espressione “sexual harassment” (molestie sessuali) – ad esempio – fu coniata negli anni Settanta, usata per la prima volta nel sistema giuridico negli anni Ottanta, ottenendo status giuridico da parte della Corte Suprema nel 1986. Oggi lo stupro, la violenza sessuale coniugale, le molestie sessuali sono reati penalmente perseguibili, ma di certo non scomparsi dalla faccia della terra. La violenza sulle donne ha radici profonde, attecchisce in quasi tutte le culture del mondo, in moltissime istituzioni, nella maggior parte delle famiglie del pianeta. Ma Solnit non si scoraggia. Fedele al motto “sperare nel buio” perché l’azione senza la speranza è impossibile, lei ci invita a considerare i sorprendenti cambiamenti ottenuti nel giro di quattro o cinque decenni. Quando Rebecca è nata, nel 1961, le donne erano prive di diritti basilari e le violenze domestiche erano faccende private. Il fatto che non tutto sia cambiato in maniera permanente, definitiva, irrevocabile non è un fallimento.
La strada è lunga – dice – forse mille miglia, e la donna che la percorre non ha coperto neanche il primo miglio. Ma so che, nonostante tutto, non tornerà indietro. Ci vuole tempo, la strada è fatta di tappe intermedie, e sono in tante oggi a percorrerla, chi arriva prima, chi si ferma e poi riprende. «Accade nella vita di ognuno di noi: arretriamo, falliamo, insistiamo, ritentiamo […] e certe volte facciamo un grande balzo, troviamo cose che non sapevamo di cercare». Soltanto mezzo secolo fa le donne non avevano una lingua per articolare l’esperienza femminile del mondo. E neppure genealogie femminili cui riferirsi. La narrazione del patriarcato si è infatti costruita sulla cancellazione e l’esclusione delle discendenze matrilineari (bisnonne, nonne, madri, figlie). Un argomento che Solnit affronta nel bellissimo capitolo La nonna ragno. La storia del femminismo è sempre stata e ancora è una lotta per dare un nome alle cose, per parlare ed essere ascoltate. Anita Hill è stata la prima, negli Stati Uniti, a uscire dal silenzio e a inaugurare la battaglia contro le molestie sessuali nell’ambiente di lavoro. È stata offesa, derisa, ma ha aperto la via. E oggi – osserva Solnit commentando in una intervista il caso Weinstein – sono tante le donne che parlano, che danno del filo da torcere agli uomini di potere e a quelli comuni, affrontando a testa alta i feroci attacchi della misoginia maschile e femminile ai quali rispondono colpo su colpo. Ma ci sono anche uomini – precisa Solnit – che si lasciano coinvolgere nel femminismo perché hanno capito che lì la posta in gioco è la libertà di tutte e di tutti. E non è un caso, mi viene da pensare, che negli Usa (in particolare dopo la vittoria di Trump) siano le donne, femministe o no, a guidare i grandi movimenti (pacifista, ambientalista, antirazzista, per i diritti delle lesbiche, dei gay, delle persone transgender) in cui sono attive. Quando non abbiamo le parole per un fenomeno, un’emozione o una situazione non se ne può parlare, il che significa che oltre a non riuscire a riferirci a quella cosa, non riusciremo neppure a cambiarla. Per questo e in perfetta sintonia con la sua scrittrice più amata, Virginia Woolf, alla quale dedica uno dei saggi contenuti nel libro, Rebecca Solnit dice: le parole sono le nostre armi.
(www.libreriadelledonne.it, 17 novembre 2017)
di Livia Turco
«Al lavoro e alla lotta», il libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli: il glossario è una «lezione vivente», per ricordare che il discorso politico non si riduce a un tweet
Raccontare un grande partito come fu il Pci facendo «un glossario» delle parole che usava per definire la sua strategia e la sua pratica politica: è l’idea geniale che hanno avuto Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli e che hanno concretizzata in un libro originale, bello, coinvolgente, utile, che si legge tutto d’un fiato: Al lavoro e alla lotta. Le parole del Pci (Harpo editore, pp. 240, euro 16).
Scrivono le autrici: «Questo lavoro nasce da un idea di Franca, per lei le parole sono sempre state importanti. E dal 2004, quando, si fa per dire, è andata sotto un treno, sono diventate essenziali. Ma anche Fulvia, avendo scelto la politica, ha lavorato molto con le parole. Abbiamo cominciato per gioco a far rivivere il lessico del Pci cercandone le parole più in uso, quelle che ci piacevano e quelle no, quelle che ancora ci parlano e quelle che invece non significano nulla oppure indicano tutt’altro nel presente. Le abbiamo scritte in ordine alfabetico e confrontate con amiche e amici (pochi) e a un certo punto ci siamo rese conto che questo piccolo glossario poteva avere un senso e persino raccontare un pezzetto della storia di quello che, secondo noi, è stato ’il partito comunista più bello dell’Europa Occidentale’» .
AVERE A CUORE la memoria. Così il lavoro si è fatto più serio. Mentre il linguaggio della politica diventa sempre più scarno e freddo abbiamo capito che noi continuiamo a preferire un «discorso politico» che non si riduca a un tweet».
Al «glossario» seguono dieci interviste a protagoniste e protagonisti di quella storia, con domande che partono dal vissuto personale – perché ti sei iscritto, su quali libri ti sei formato – per scandagliare sulla base dei ricordi la pratica politica di quel partito, la sua dimensione umana oltreché politica. Franca e Fulvia anticipano la critica che può essere loro rivolta – «siete nostalgiche» – e mentre rivendicano il valore di questo sentimento dichiarano con grande schiettezza il punto di vista politico e culturale che orienta la loro ricerca. «Una storia è finita. Ma anche le mummie quando le abbiamo ritrovate ci hanno detto cose che non sapevamo e che ci sono servite».
DUNQUE, ATTRAVERSO il glossario e le interviste le autrici ci propongono di ricercare se nella «mummia» del Pci ci sia qualcosa che non solo va conosciuto – perché la memoria storica è fondamentale per non essere fragili ramoscelli – ma se per caso in quella storia non vi risieda «una vivente lezione» importante e utile per questo nostro tempo. Seguo pertanto il punto di vista proposto da Franca e Fulvia e leggo i materiali contenuti in questo libro per capire se la «mummia» Pci ha qualcosa da dire che non sapevamo e, soprattutto, se ha qualcosa da dire alla società di questo nostro tempo, ai suoi giovani in particolare.
Il glossario inizia con una parola che non conoscevo, l’unica, «abatino» e si conclude con «vigilanza». Abatino, «piccolo abate, il dirigente della Fgci che decideva di restare nell’organizzazione giovanile anche quando aveva superato i 25/30 anni rinviando al più tardi possibile il suo passaggio al partito. Rispetto all’organizzazione giovanile il partito era percepito come più rigido, meno divertente e piuttosto diffidente verso i giovani».
LA VIGILANZA era invece un luogo speciale del Pci e le autrici lo descrivono in modo molto efficace. Io, come loro, lo ricordo come il luogo di cui non potevi fare a meno. Erano un gruppo di compagni molto affiatati tra di loro. Quando entravi al Bottegone ti guardavano dalla testa ai piedi per essere sicuri che tutto era a posto, se eri accompagnato, per cortesia , dovevi lasciare loro in modo accurato le generalità della persona che ti stava accanto, ti passavano con gentilezza le telefonate, ti accompagnavano nei viaggi a volte lunghi, erano sempre discreti e affettuosi. Con loro a volte parlavo di politica, mi veniva ogni tanto di sfogare le mie arrabbiature ma lo facevo con discrezione per timore che riferissero ad altri i miei pensieri.
Ricordo una mattina, ero da poco arrivata a Roma da Torino e non avevo famigliarità con il Bottegone. Dovevo andare a prendere un treno, avevo prenotato un passaggio alla stazione. Il treno partiva alle 9 arrivai alle Botteghe Oscure alle 6! Che ci fai a quest’ora qui? Mi sembrava che fosse un po’ buio, ma l’ansia di arrivare in ritardo e di ricevere il rimbrotto di quegli uomini così rigorosi mi incuteva soggezione. Quando glielo confessai si fecero una grande risata, mi accolsero nella loro stanza e mi coccolarono con caffè e biscotti.
LA LETTURA DEL GLOSSARIO di Franca e Fulvia racconta la storia del Pci dall’inizio alla fine. Molte parole, scritte in modo accurato, si riferiscono alla strategia politica: alleanze, alternativa, compromesso storico, austerità, ceti medi, classe sociale, classe operaia, doppiezza, egemonia, eurocomunismo, miglioristi, solidarietà nazionale, scissione, svolta, Bolognina, Cosa 1 Cosa 2, Quarta Mozione, ecc.
Ma le parole più intriganti sono quelle che si riferiscono alla vita concreta del partito, al modo con cui i militanti vivevano e facevano la politica. Sono intriganti perché non sono usuali, esprimono l’appartenenza a un «corpo» che si sentiva diverso ma che aveva l’ambizione di «aderire a tutte le pieghe della società», di rendere protagonista il suo popolo.
«ASSEMBLEA, AGIBILITÀ, al lavoro e alla lotta, allestimento, amici e compagni, attacchinaggio, battaglia delle idee, campagna di massa, casa per casa, comizio, comizio volante, compagno di strada, corteo, forme di lotta, fraterno, il corpo del partito, magliette a striscia, militanza, musica del Pci, passione, politica della fontanella, popolo, radicamento sociale, qui e ora, rivoluzionario di professione, scuola di partito, sensibilizzare, sezioni, servizio d’ordine, spirito di servizio, territorio, tessera, ufficio elettorale nazionale, vigilanza, Unità».
Sono parole intriganti perché raccontano il modo di fare politica, il modo con cui si sprigionava la passione politica di un popolo che era plurale. Tra gerarchie, rituali fortemente codificati e sperimentazione di cose e parole nuove, apertura a nuovi soggetti. Ciò che rivelano quelle parole è la ricerca da parte di quel «corpo» formato da dirigenti e militanti di un rapporto con le persone per renderle protagoniste.
L’ambizione di coniugare l’idea di società, la società socialista con il «qui e ora» per risolvere subito i problemi delle persone. La ricerca del legame umano, l’essere compagni significava anche volersi bene, essere amici, stare bene insieme. Di qui, l’attenzione a quelle che sembravano attività minori come l’attacchinaggio, i comizi volanti, l’allestimento degli eventi sapendo riconoscere le singole autorità nelle varie materie, come il mitico compagno Zucconelli che riusciva a rendere qualunque evento del partito bello e ben organizzato. Quella Politica delle Fontanelle in cui tutti dovevano fare lavoro manuale e insieme studiare, avere pensieri lunghi e nello stesso tempo preoccuparsi di rendere più belle e umane le nostre comunità «partendo dal mondo e arrivando alle fontanelle».
ll senso, il valore e la passione per quella politica popolare è sintetizzata in modo drammatico nelle ultime parole di Enrico Berlinguer nel giugno del 1984 sul palco di Padova quando sta per cadere: «E ora, compagne e compagni, impegniamoci tutti, lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini». Un testamento, ma anche l’esplicitazione e la conferma di quella che era l’essenza del Pci.
QUELLA CHE HA LASCIATO nel cuore di migliaia di militanti e iscritti, e dei suoi dirigenti i ricordi più belli come testimoniano le interviste a protagonisti e protagoniste di quella storia contenute nel libro. Diversi tra loro per estrazione sociale, formazione – a conferma che il Pci era realmente un partito di massa e plurale – le dieci personalità che si raccontano nella loro militanza politica e nella loro vita nel partito fanno tutti, non casualmente, riferimento alla sezione quale luogo in cui si viveva la politica autentica perché, come scrive Lia Cigarini, «ricordo che le sezioni del Pci erano un luogo di incontro di diversa provenienza sociale, di diversa generazione e, infine, di donne e di uomini.
Ad esempio, nella mia sezione nel Centro storico di Milano c’era l’ambulante e il primo violino della Scala, la portinaia, l’intellettuale, l’artigiano e il bancario. Cioè luoghi di relazione e di amicizia».
Oppure Emanuele Macaluso: «Penso che la migliore pratica fosse quella che si faceva sul campo, nelle sezioni, nelle fabbriche, nei quartieri. Ritengo un fatto enorme che quel partito abbia dato modo a tanti giovani, uomini e donne di ogni classe sociale, di fare esperienza nel sindacato, nei consigli comunali, nelle cooperative, nelle sue riviste e giornali».
Luciana Castellina ci racconta il suo lavoro politico con le ragazze delle borgate romane, dove tante volte per convincerle a uscire di casa costruiva un’alleanza con le mamme condividendo le incombenze quotidiane del lavoro famigliare, compreso lavare insieme i piatti.
Le parole del Glossario e quelle delle interviste mi confermano che la «mummia Pci» ci lascia una vivente lezione, non solo attuale, ma necessaria per far rinascere la democrazia e ridare senso alla sinistra: la necessità di una moderna politica popolare.
(il manifesto, 29 ottobre 2017)
di Paola Mammani
Nell’introduzione all’edizione del 1990 di Flying, In volo, Kate Millett scrive:
«…C’è un’intera generazione di giovani donne nelle cui mani voglio affidare questo libro…». E più avanti: «In effetti, In volo ha segnato il momento più divertente della mia attività di scrittrice – questo libro è la mia gioventù: trentacinquenne non avevo ancora scritto col mio registro. La politica del sesso era stata una tesi di dottorato, redatta con un linguaggio ufficiale e asettico, così da accattivarmi una commissione formata da professori di Letteratura inglese…».
Non ho notizia di come le giovani statunitensi degli anni ’90 del secolo scorso abbiano accolto la nuova edizione di Flying, il fitto racconto di anni ribollenti di ricerca, di sperimentazione di nuovi rapporti, di convivenze, di amori coniugali ed extraconiugali, etero e omosessuali. So che in Italia molte donne negli anni settanta e nei decenni successivi hanno letto voracemente le molte centinaia di pagine di quel testo, alla ricerca di esperienze, di parole per mettere in forma un nuovo modo di essere donna.
Forse ancora più numerose, però, furono quelle rimaste avvinte da Sexual Politics, La politica del sesso, trattenute da quel linguaggio solo apparentemente ufficiale e asettico che sembra invece imbrigliare a stento una forza quasi incontenibile e una dissacrante ironia.
È Millett che squaderna l’universo mondo e chiama a raccolta tutto quanto ha capito, tutto quanto ha studiato per dare forza e tenuta a ciò che ha “visto” bene, accuratamente e fino in fondo: il dominio del patriarcato sulle donne, sul loro corpo, sulla loro sessualità, sulla loro capacità riproduttiva.
Convoca tutte e tutti quelli che conosce, da Hannah Arendt a Virginia Woolf, a Charlotte Brontë, a Margaret Mead e Melanie Klein, e poi John Stuart Mill, Marx, Engels, Freud, Bachofen, Malinowski e decine d’altri, evocati dal passato più lontano fino ai suoi contemporanei, per portarli a testimoniare a suo favore o per metterli alla gogna.
Vuole mostrare minutamente e poderosamente gli effetti di oppressione, di schiacciamento, di proterva prevaricazione sessuale e culturale che il patriarcato esercita sulle donne, infilzando ad una ad una le categorie della classe, della razza, della minoranza oppressa, eccetera, a dimostrazione che al fondo e prima di tutto è in gioco il potere dell’uomo sulla donna.
Non è possibile dare l’idea, in breve, dell’enorme quantità di piani, di tematiche, di scenari storici che Millett affronta nel suo immenso affresco. Né pare rilevante annotare se e quando alcune sue interpretazioni appaiono forzate o parziali, perfino fuorvianti. È forse il caso di alcuni giudizi sulla psicoanalisi, sul ruolo della famiglia o della funzione materna.
Quel che è certo è che il suo testo ha rappresentato per moltissime donne una potente chiamata alla lotta, una grande spinta a sottrarsi al dominio maschile, l’innesco di un’esplosiva consapevolezza che il personale è politico, e ha determinato per molte una convinta adesione al movimento delle donne, ai temi che alcune chiamarono della liberazione sessuale.
Per molte è passata di lì la strada che ha portato poi ad intendere il valore della libertà, a saper ascoltare la voce di quelle che già avevano colto il senso della grandezza femminile, da sempre mai del tutto cancellata dalla storia.
In Italia La politica del sesso, il frutto pieno del pensiero e dello studio di una donna, non è disponibile sul mercato librario. È una mancanza che oggi si avverte più viva. Una riedizione de La politica del sesso potrebbe essere un degno atto di omaggio a Kate Millett, che è morta a Parigi lo scorso settembre, all’età di 83 anni.
(www.libreriadelledonne.it, 13 ottobre 2017)
di Alessandra Pigliaru
Novecento. Torna alla luce dopo settant’anni, grazie al lavoro storico di Anna Paola Moretti, il diario della giovane partigiana di Chiaravalle Magda Minciotti, deportata per lavoro coatto nei lager Siemens a Norimberga e Bayreuth
Lunghe e ordinate trecce corvine circondano un viso di ragazza, assorto verso un punto imprecisato. Ha circa quindici anni e i lineamenti, ingenui e perturbati, potrebbero somigliare a quelli di molte sue coetanee, trafitte di sogni davanti al mondo che si sta schiudendo. Sul volto di Magda Minciotti non aleggia però alcuna levità adolescente, piuttosto una postura adulta acquisita tra il 1944 e il ’45, nel periodo della sua prigionia in mano alle SS.
DELLA GIOVANE PARTIGIANA di Chiaravalle, deportata per lavoro coatto nei lager Siemens a Norimberga e Bayreuth, conosciamo il tratto biografico più doloroso grazie al diario di quei mesi pubblicato in un ottimo volume a cura di Anna Paola Moretti. Considerate che avevo quindici anni. Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione (Edizioni affinità elettive, pp. 314, euro 18 – collana di ricerche storiche dell’Istituto Storia Marche) è una testimonianza rara e accorata, sistemata da Moretti che va a confermarsi una delle più attente osservatrici sui temi della storia e memoria delle deportazioni femminili. Come nei volumi precedenti (per esempio La guerra di Mariulì, bambina negli anni Quaranta), al metodo rigoroso l’autrice affianca ipotesi e nessi originali di fonti e contesti, ponendosi non solo nell’ottica della ricostruzione meticolosa bensì della relazione responsabile e generosa di colloquiare con le esistenze scoperte. Non è un caso che la prefazione a questo ultimo contributo sia firmata da Luciana Tavernini che fa parte insieme a Marirì Martinengo, Laura Minguzzi e Marina Santini, della «Comunità di storia vivente» (fondata a Milano dieci anni fa proprio «a partire dall’affermazione di Marirì Martinengo» secondo cui c’è una storia vivente dentro ciascuno ciascuna di noi, i materiali sono consultabili nella sezione Approfondimenti del sito della Libreria delle donne di Milano – nel marzo scorso si è svolto un importante convegn).
Dopo settant’anni di silenzio sulla scrittura che l’ha accompagnata per lunghi mesi negli Arbeitslager nazisti, Magda Minciotti – poco prima della sua scomparsa – consegna i suoi appunti al figlio. Invitata a occuparsene, Anna Paola Moretti consulta quella sessantina di foglietti, il retro di ricevute scadute utilizzate dalla ragazza per cominciare il proprio diario, ricopiato in un quaderno dopo la sua liberazione.
SI APRE UNA VICENDA che cuce lo strazio spaesante della guerra a una strana speranza interiore che l’ha sostenuta. E il pensiero si fa subito grande, anche nello spazio angusto di una condizione di prigionia. A espandersi è un desiderio di sopravvivenza, preghiera terrena e ostinata contro l’ingiustizia e lo sfruttamento disumanizzante. L’ulteriore apparato critico e l’approfondimento delle altre carte private della partigiana danno il senso di una rappresentazione densa e inequivocabile che va a completare un passaggio novecentesco cruciale.
Da Ripe (in provincia di Ancona) quel 23 luglio del 1944, a sole due settimane di distanza dal suo arresto, Magda esordisce domandandosi che cosa ne sarà dei suoi sogni, convocando il destino «questa ruota implacabile che gira senza chiedere mai – Sei contenta? Soddisfatta del mio lavoro?». Quindi i viaggi per raggiungere la Germania, giorni di veglie frenetiche. E poi ancora i bombardamenti che arrivano a strattonare Karolinenstrasse nelle notti di una terra poco amata, insieme all’attaccamento per una minuta fenomenologia del quotidiano a ricordare quanto si possano trovare forme di conforto anche nello sfinimento. Come sottolinea Tavernini, centrale è «la scrittura di una ragazza che illumina l’esperienza della deportazione per lavoro coatto e nello stesso tempo le forme di resilienza femminile a situazioni di sradicamento». Da Norimberga a Bayreuth – dove arriva il primo febbraio del 1945 quando la Siemens sceglie di dislocare manodopera e macchinari in zone meno esposte – i racconti si dipanano tra le ennesime strategie di adattamento e la difficoltà del lavoro condiviso con altre donne provenienti da altri paesi. Infine il dispiacere per la morte di suo fratello Giorgio internato allo Stalag di cui però apprendiamo informazioni non dal diario (il secondo blocchetto di fogli è andato perduto) ma dalle testimonianze di altri compagni di detenzione.
IN QUESTA DIREZIONE, Considerate che avevo quindici anni restituisce un’esperienza che ha funestato l’Europa e al contempo è resoconto di una nuova intermittenza che da oggi non può più essere ignorata o rimossa. È il volto serio di Magda, lunghe e ordinate trecce corvine di ragazza davanti al mondo fuori di sesto.
(il manifesto, 17 agosto 2017)
di Marisa Caramella
In libreria, Tutti i racconti, di Flannery O’Connor pubblicati da Bompiani. Vi proponiamo un estratto della prefazione curata da Marisa Caramella, ringraziando l’editore per la gentile concessione.
Oltre che cattolica ortodossa, Flannery O’Connor è anche originaria del Sud degli Stati Uniti. Metto di proposito la questione in questi termini, come se avesse un connotato negativo, perché questa, della “scrittrice del Sud” è, tra le etichette che la critica ha appiccicato alla O’Connor, quella che più la irritava.
«La prima necessità con cui [lo scrittore] si trova a dover fare i conti è quella di dire cosa non sta cercando di fare, perché anche se oggi non esistono vere e proprie scuole letterarie in America, c’è sempre qualche critico che ne ha appena inventata una ed è pronto a infilarci le tue opere. Se sei uno scrittore del Sud, questa etichetta, e tutti gli equivoci che la accompagnano, ti viene immediatamente appiccicata addosso, e tocca a te disfartene come meglio puoi. Ho scoperto che non importa con quali scopi peculiari alle tue specifiche necessità drammatiche usi la scena del Sud, il lettore generico continuerà a pensare che tu stia scrivendo sul Sud, e a giudicarti in base alla fedeltà della tua prosa alla vita tipica di questa parte del paese.»
E tradizione letteraria del Sud significa “Southern Gothic”, significa “School of Southern Degeneracy”, altre etichette che la O’Connor definisce “entità mitiche”, e che tenta di staccarsi di dosso in più di uno dei saggi che scrive, facendo spesso uso proprio di quella qualità di ironia, di quella predilezione per il paradosso, che le viene rimproverata come eccessiva:
«Quando consideriamo buona parte della narrativa moderna seria, e particolarmente quella del Sud, vi troviamo una qualità che viene generalmente descritta, in senso peggiorativo, come grottesca. Naturalmente, ho scoperto che tutto quello che arriva dal Sud viene chiamato grottesco dal lettore del Nord, a meno che sia davvero grottesco, nel qual caso viene chiamato realistico.»
La scrittrice procede poi a spiegare come il suo sia il genere di letteratura che può essere chiamata “grottesca” a ragione, perché è tale nell’intenzione. La O’Connor usa un miscuglio di comicità e di orrore per rompere l’ostinazione dei suoi personaggi a considerare il mondo in modo convenzionale. La tecnica che adopera nei suoi racconti, per rendere visibile, oltre il livello superficiale (dell’azione), quello più profondo (del mistero), è la tecnica dello shock, della brutalità, della violenza. E tutto questo ha poco a che vedere con il fatto di essere una scrittrice del Sud. Le sue non sono rappresentazioni realistiche della scena sociale in cui è nata e vissuta, ma rappresentazioni del divino come appare a chi abbia una visione antropocentrica del mondo: i suoi personaggi lo vivono come una violenza, un’offesa, un intervento distruttivo che sconvolge l’equilibrio del mondo umano. A tal punto che la visione religiosa che si ricava dai racconti è spesso opprimente. Però, un secondo livello – quello che rispecchia il punto di vista della scrittrice – morte, sofferenza, disordine, sono invece i mezzi attraverso i quali un personaggio passa da una comprensione meschina, superficiale, dell’esistenza al mistero nel quale l’uomo vive e muore.
Ci sono moltissimi esempi di questa tecnica nei racconti della prima raccolta, nei quali è anche sempre presente l’elemento religioso della Redenzione, della figura di Cristo, rappresentato con immagini che sono spesso quelle della simbologia cristiana (il pavone, per esempio, che è il simbolo del Cristo Redentore). “Ciò che io vedo nel mondo,” dice la O’Connor, “lo vedo nella sua relazione a questo”, e cioè al fatto che il significato della vita è centrato nella Redenzione.
Nei racconti della seconda raccolta, di dieci anni posteriore alla prima, Everything That Rises Must Converge (tradotta in italiano insieme alla prima in un unico volume dal titolo La vita che salvi può essere la tua, Einaudi, 1965), la tematica della O’Connor si evolve verso una concezione teologica più complessa: al dualismo sempre presente nelle storie precedenti, e risolto da epiloghi di morte-redenzione deipersonaggi-chiave, la scrittrice cerca una forma di risoluzione più sofisticata. Come fa intendere il titolo originale, una frase di Teilhard de Chardin, la O’Connor ipotizza, insieme al filosofo cattolico, che l’evoluzione umana non si fermi alla forma che conosciamo, ma tenda a progredire verso livelli di coscienza più alti, e che l’ultimo stadio di questo processo evolutivo sia la pura coscienza, l’Essere, Dio stesso, il punto di convergenza di ogni contraddizione e dualismo, individuali e sociali: quello che Teilhard de Chardin chiama il Punto Omega, il titolo italiano, per l’appunto, del primo dei racconti di questa seconda raccolta.
“Punto Omega” è la storia di Julian e di sua madre, in conflitto tra di loro e, ciascuno a modo suo, con il resto del mondo. La madre si ritiene superiore ai suoi simili, soprattutto a quelli di colore, per via della sua nobile ascendenza. Julian, intellettuale e progressista, la disprezza per questo atteggiamento, professa l’uguaglianza di bianchi e neri, ma la sua massima aspirazione è vivere in un aureo, orgoglioso isolamento. Sarà un episodio banale, il fatto che una donna di colore salga col suo bambino sull’autobus dove si trovano già madre e figlio, con in testa un cappello identico a quello indossato dalla signora bianca decaduta, a far precipitare la situazione. Julian osserva con un sorriso sardonico la madre trattare la donna e il bambino alla stregua di inferiori. L’offerta di una moneta, fatta al piccolo per ingraziarselo, scatena l’ira della donna nera, che colpisce quella bianca con una grossa borsa. Julian scende dall’autobus con la madre, la rimprovera con rabbia, e assiste stupefatto alla sua morte improvvisa. Sarà lo shock di questa morte a portare i due personaggi alla “convergenza”, tra di loro e con l’“altro”. La madre morente vede passare davanti agli occhi l’immagine dimenticata di una donna di colore che l’ha allevata, e si riempie di amore e nostalgia, nonostante il rifiuto ad accettare l’integrazione sociale con i neri. Julian sente rinascere dentro di sé, sconvolgente, accompagnato da un indicibile rimorso, l’amore sepolto per la madre. La presa di coscienza, la rivelazione improvvisa e traumatica della verità su se stessi: è qui il punto di partenza verso la convergenza auspicata da Teilhard de Chardin.
É stato detto, di questo racconto, che più che di una storia a sostegno della teoria del Punto Omega, si tratta della presa in giro dello stesso concetto da parte dell’autrice. E in realtà la O’Connor conduce il racconto sul filo di una pesante ironia, non perdendo occasione per sottolineare la cecità e l’ostinazione dei personaggi a considerarsi separati dal resto del mondo. Ma il finale, con la lancinante fitta di amore e rimorso di Julian davanti alla madre morta, e con la rivelazione dell’amore della morente per uno degli esseri che ha sempre considerato alla stregua di “scimmie”, segna senz’altro un momento cruciale nel processo di evoluzione dei due personaggi verso un modo di essere superiore.
E per una scrittrice tutt’altro che ottimista e facile come la O’Connor, questo è già molto.
Si è a lungo dibattuto sul fatto che dalle opere di narrativa della O’Connor traspaia in realtà un atteggiamento di più o meno conscio pessimismo riguardo alla possibilità di salvezza dell’uomo: atteggiamento che contrasta con le dichiarazioni di cui sono costellate lettere e saggi dell’autrice. E sovente, a spiegazione di questa contraddizione, è stato portato l’argomento della malattia ereditaria e incurabile che ha afflitto la scrittrice per gran parte della vita adulta, limitandone i movimenti e le possibilità e costringendola a fare i conti con la morte in età prematura.
Senza dubbio la malattia spiega i connotati sovente ossessivi della preoccupazione religiosa della O’Connor, la sua fede ortodossa professata con tanta sicurezza, e anche, in parte, la visione non certo idilliaca del mondo che la circonda. Ma è più difficile sostenere che dai suoi racconti e romanzi siano assenti la fede e la speranza che la scrittrice professa altrove. È semmai presente un’implacabile decisione a mostrare quanto difficile sia trovare la via della salvezza in un mondo dominato dal Male.
Ma l’affermazione della O’Connor sembra essere quella che proprio lo scatenarsi delle passioni umane, più che non il tentativo di controllarle per mezzo della ragione, porti su questa via. È vero che ci sono molti peccatori e pochi santi, nei suoi racconti, che nemmeno i bambini sono innocenti e che i vecchi sono spesso un concentrato di peccati capitali invece che di virtù cardinali, ma è altrettanto vero che proprio questi personaggi, la cui mente non è ancora, o non è più, dominata dalla ragione, sono quelli di cui si serve la grazia divina per manifestarsi e squarciare con lampi rivelatori la realtà superficiale, facendo intravedere la possibilità della salvezza, oltre che della dannazione eterna.
(www.osservatoriocattedrale.com, 21 settembre 2017)
di Alessandra Pigliaru
«Io non conoscevo nessuna fame e abitavo come una straniera tra gli affamati». A distanza di circa vent’anni la voce narrante dell’ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio racconta la propria speciale vicenda: quella di essere, come recita il titolo del libro, L’Arminuta (Einaudi, pp. 176, euro 17,50) ovvero, nella lingua della comunità che la battezza, la ritornata. Da dove è presto detto. Nata alla metà degli anni Sessanta nella miseria, a sei mesi viene data dalla propria madre a una cugina benestante e senza figli che ne aveva fatto esplicita richiesta per poi restituirla alla famiglia di origine.
LA RAGIONE di questa riconsegna la si svela del tutto solo alla fine del romanzo, nel frattempo si assiste al tragitto di una ragazzina di 13 anni che vive in terra d’Abruzzo, arrivata al mondo senza averlo chiesto, nella condizione di una ricomparsa scompigliante. La nidiata sembra non la stesse aspettando, né desiderando. In effetti nessuno la attende, nessuno la pensa, questo almeno nella sua rappresentazione fatta di fantasticherie infantili sulla malattia della donna che l’ha allevata e perciò si è liberata di lei, sul nodo di una madre che si moltiplica e che solo così arriva a essere sufficientemente buona.
Nel guasto di interezza si scoprono notti insonni, percorse da feroci incubi di soppressione. Se è vero che chi ama non dorme, L’Arminuta è un romanzo di passioni tempestose proprio verso il luogo più sparuto e altrettanto caro che è la propria madre. Donatella Di Pietrantonio, al suo terzo romanzo, scandaglia ancora il nodo relazionale primario che abbiamo potuto incontrare anche nei suoi lavori precedenti: l’ottimo esordio di Mia madre è un fiume e Bella mia.
NEI PARAGGI dello sconquasso definitivo, chi ci mette al mondo non necessariamente aderisce alla figura di cura, per diverse e umane ragioni che però rimangono nel piano imperscrutabile dei «grandi» che decidono, dispongono, emettono sentenze di vita e di morte, fanno progetti capricciosi e astrusi. È nella ricerca di quel particolare cortocircuito filiale che Di Pietrantonio capisce si debba stare, di cui non ci si può disfare ma che chiede di essere guarito.
E UN GIORNO, nella distrazione di un ricordo puntuto, arriva la tregua: non esiste nessuna onnipotenza, bensì ciascuna e ciascuno fa quello che può nella più autentica imperfezione di sé. E sembra abbastanza per trasformarsi. Come una infinita domanda che non smette di ottenere risposte incomplete, su un piano di realtà, e che ciò nonostante è l’unico accesso alla felicità, ci si scopre indigenti d’amore e attenzione, insieme all’Arminuta, e il varco al simbolico che pone in relazione con se stesse, le altre e infine con il mondo, si schiude misteriosamente a un improvviso baratro di perdono e gratitudine.
LEI TRASCORRERÀ un anno intero ostinata intorno all’abbandono, a studiare per nutrire la propria intelligenza adamantina, nel fuoco di una determinazione che le è propria, è sua, e di cui nessuno intende privarla. Indesiderata eppure indimenticabile, come altre figure che compongono il romanzo: Adriana – la sorella minore – con cui si può costruire l’attaccamento ripagato da una fedeltà rara; Vincenzo – il fratello maggiore – che le fa sentire per la prima volta lo sguardo maschile. Infine la professoressa Perilli, algida e luccicante di ametiste brasiliane.
NON CONOSCEREMO MAI il nome della ragazzina, insieme a lei non ce l’ha né suo padre né la donna che l’ha messa al mondo. Gli altri sono governabili, loro invece percorrono solchi già sperimentati da altre scritture precedenti che, dietro l’apparente anonimato delle mere funzioni, consentono ben più viscerali mancanze e massime evocazioni. Ce lo ho hanno insegnato, per esempio, Paola Masino con la sua straordinaria e ineguagliabile massaia bambina e poi adulta, altrettanto Alice Ceresa e Dolores Prato.
Di Pietrantonio accoglie l’immaginario popolare, e contadino, tanto famigliare quanto attento ai dettagli della grande letteratura italiana scritta da donne per segnare l’orlo ambivalente di uno sconcerto, dove il linguaggio delle madri ha la sapienza di dialogare con le creature piccole.
Che siano arrivate per la prima volta, o che siano ritornate da un rimosso lontanissimo per dire che l’unico rimedio alla propria vulnerabilità è il desiderio di riconoscere quella altrui.
DAL 22 AL 24 AL PIGNETO PER IL PRIMO FESTIVAL DEDICATO ALLE SCRITTRICI
A Roma, al Pigneto, da venerdì a domenica si svolgerà «inQuiete», primo festival delle scrittrici nato dal desiderio di Barbara Leda Kenny, Viola Lo Moro, Francesca Mancini, Barbara Piccolo e Maddalena Vianello intorno all’esperienza di Tuba, libreria delle donne che da 10 anni è crocevia di progetti. Realizzata grazie all’associazione Mia, il programma è dedicato alla letteratura che sa tenere in quiete, dopo la fatica. Tra le ospiti: Liliana Rampello, Milena Agus, Donatella Di Pietrantonio, Maria Rosa Cutrufelli, Helena Janeczek, Rosa Mordenti e tante altre. Reading, presentazioni e cene con le autrici, tra i focus: Virginia Woolf, Joan Didion, Elena Ferrante, Anna Banti, Mary Shelley, Jane Austen (per maggiori informazioni http://www.inquietefestival.it). «InQuiete» ha nel titolo la complessità del presente, la corposità delle parole e del lavorio incessante di chi scrive. E a firma di donne si possono leggere oggi tra le cose più significative, a livello locale e internazionale. Un senso di festa che è, e rimane, la scoperta avviata dal movimento delle donne dipanandosi in quasi altri 40 anni di critica letteraria femminista. Se le scrittrici oggi godono di ottima salute, collocate con signoria fuori da un canone a cui non chiedere il permesso di agire l’esistenza, lo si deve soprattutto alla tessitura di alcuni spazi (la Società Italiana delle Letterate, riviste come Leggendaria, online LetterateMagazine e altre realtà tra librerie, biblioteche, collettivi e archivi). Ma ciò che è più importante è il desiderio politico che sa rinnovarsi, e quale migliore occasione dunque per incontrarsi al Pigneto? Inquiete e libere.
(il manifesto, 21/09/2017)