di Alberto Asor Rosa

 

Sulla strada tracciata da Amelia Rosselli e Alda Merini, le raccolte di versi più interessanti degli ultimi anni sono di autrici. Donne capaci di costruire una lingua nuova e anticonformista. Ecco un vademecum per orientarsi

 

È assai notevole – come ho già rilevato più volte anche su queste pagine – il ruolo giocato dalle poesie scritte da donne nella storia della poesia italiana contemporanea. Alle cose già dette, vorrei aggiungere ora altre considerazioni, approfittando di alcune recenti, importanti pubblicazioni.

In una linea genealogica approssimativa, s’intende, ma penso, non del tutto incoerente, ci sono all’inizio di questa fase del discorso le autrici che, sia pure su di una scalarità generazionale non indifferente, sono di sicuro punti di riferimento per quanto è avvenuto dopo: parlo di Amelia Rosselli; Alda Merini; Patrizia Cavalli (da vedere Poesie, 1974-1992, Einaudi); Biancamaria Frabotta (da vedere ora il recentissimo Tutte le poesie, 1971-2017, uscito nella collana Lo specchio di Mondadori).

Giovanna Rosadini, nella prefazione a Nuovi poeti italiani, vol. 6 della serie della collana “bianca” einaudiana, che elenca e rappresenta poetesse delle generazioni successive (dal ’47 all’81 le date di nascita delle autrici presenti), si chiede esplicitamente: «Si può parlare di una specificità femminile in poesia?»; e risponde con una frase di Amelia Rosselli: «Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere». Spiega più avanti Rosadini: il «primo elemento che accomuna le scrittrici riunite in questo volume» è «la forte tensione conoscitiva che ne permea i versi».

Se dipendesse da me, specificherei. Se la tensione conoscitiva è effettivamente presente in quasi tutte le poetesse italiane conosciute, dalla Rosselli, appunto, in poi, questa tensione si fonda e si trasmette su di un’esperienza linguistica che si allontana per quanto è possibile – cioè, il più possibile, senza al tempo stesso sfiorare i confini dell’incomunicabilità – dai linguaggi della comunicazione quotidiana. Vale a dire: è un’invenzione linguistica pura; molto più di quanto, secondo me, non accada nei poeti italiani contemporanei di sesso maschile, che continuano a mirare, nonostante tutto, ad un livello più alto e più semplice della comunicazione.

L’introspezione, quanto più si fa profonda, tanto più richiede un linguaggio proprio. Cioè: la conoscenza è conoscenza, è fuor di dubbio; ma a me pare che la conoscenza, per così dire, non si esaurisca in questo caso nel conoscere, ma pretenda di creare un mondo nuovo e diverso, che soltanto un linguaggio nuovo e diverso ha la facoltà, se non di conoscere, per lo meno d’intravedere. Ammesso che queste considerazioni abbiano un minimo di senso, altri, – o altre, ovviamente – potranno meglio di me approfondirle, o contestarle. A me pare, tuttavia, che queste considerazioni di ordine generale trovino una conferma in due splendide raccolte, apparse molto recentemente nella collana bianca di Einaudi, opera di due poetesse, direi, della generazione di mezzo: Patrizia Valduga (1953), Poesie erotiche; e Antonella Anedda (1955), Historiae. Siamo di fronte a esperimenti che testimoniano di un permanente lavoro di scavo e di approfondimento, su premesse già chiaramente date in passato, degno di ammirazione.

Valduga è autrice notissima, che nella “bianca” einaudiana ha già pubblicato diversi volumi. Mi concentrerò qui su poche osservazioni, che rimandano principalmente, anche se non esclusivamente, all’ultimo volume citato in precedenza.

Valduga è una maestra della forma chiusa, in particolare della quartina a rime alternate. In passato: Cento quartine e altre storie d’amore (1993), Quartine. Seconda centuria (2009); ora, in Poesie erotiche, nelle ampie sezioni “Lezione di tenebre” e “Cento quartine”, ma forme chiuse, per esempio la terzina, sono sparse un po’ dappertutto. Questo non esclude misure più lunghe del discorso; ma la ricorrenza dei metri chiusi mi sembra degna di considerazione.

Che vuol dire? Vuol dire che il pensiero-canto di Valduga è trattenuto dentro una ferma misura espositiva, nella quale parla più e prima a se stessa che ai suoi interlocutori.

Questo è ancor più visibile quando il tema dominante, come in questo ultimo caso, è l’amore: l’amore di ogni tipo e natura, da quello sentimentale e appassionato a quello più libero e sfrenato, fino a essere sboccato. Qui evidentemente c’è un’interlocuzione… come potrebbe non esserci, se il tema è erotico? Ma l’interlocuzione, anche nelle sue punte di voluta, volutissima volgarità, è il frutto di un colloquio che in un certo senso prescinde dall’interlocutore – oggi ovviamente, “il lettore” – e si rivolge pressoché integralmente ad un essere che una volta molto concretamente c’era, e con il quale appunto s’interloquiva, ma che ora non c’è più. Solo cogliendo l’eco profonda di questo lontano rapporto, il lettore di oggi entra nel gioco e coglie l’interlocuzione profonda che anche a lui viene offerta.

Di tutt’altro registro è la poesia di Antonella Anedda. Si potrebbe dire che la poesia di Valduga è fieramente asseverativa, quella di Anedda profondamente discorsiva. Comporta cioè sempre l’ipotesi di un colloquio, magari solo ipotetico o potenziale, con qualcuno che sta appena al di là della parola scritta, e potrebbe essere (anche solo potenzialmente), ripeto, uno qualsiasi di noi. Farò due esempi.

Scrive Anedda nel componimento di esordio: «Ogni tanto uso una lingua mia / la invento impastandola al passato / non la consegno se non in traduzione». I tre versi si spiegano meglio se si tengono presenti i tre versi che precedono quelli che abbiamo appena citato, e che dunque aprono l’intera raccolta. Sono in lingua sarda, cioè la lingua originaria, archetipica, dell’autrice. Il gioco ritorna diverse volte nella raccolta: sta a significare che, per l’appunto, come dice con grande chiarezza la stessa autrice, si può inventare una lingua poetica solo dall’introiezione di un passato, che si è depositato sul fondo del proprio presente, e aiuta a rivelarlo.

L’altro esempio. Scrive in un altro componimento Anedda: «Succede a volte fino a che siamo vivi, / di provare una pace inspiegabile. Forse la letizia / di cui parlano i santi e che non chiede niente, / è solo attenta, premuta sulla terra, / distante dalle stelle…». «Premuta sulla terra,/ distante dalle stelle…»: potrebbe essere una autodefinizione della poesia di Antonella Anedda.

È «contro la terra», cercando di spremere il senso – anzi, i sensi – e di tradurlo in un linguaggio comprensibile e umano, ma non ovvio, e mai scontato, che il ragionamento-discorso di Anedda si dispiega. Ci fa pensare che sia ancora possibile immaginare una realtà che non sia tutta ridotta a polvere e scarto.

 

(la Repubblica, 15 ottobre 2018)

di Vittoria Longoni

 

È bello e fresco il libro appena pubblicato da Enciclopedia delle donne, 2018, a cura della Fondazione Badaracco, Ragazze nel ’68. Fresco perché non c’è modo migliore, per descrivere e narrare un anno cruciale di trasformazioni collettive e individuali, che dare voce diretta a chi ha avuto la fortuna di viverlo personalmente, quel periodo infuocato e creativo. La copertina, nei toni di un bel rosso scuro con un po’ di grigio, riproduce l’opera di Paola Mattioli, Case occupate al quartiere Gallaratese, Milano 1974. Case occupate, momenti di lotta: sul grigiore dei casermoni di periferia si levano astratte immagini di muri rossi, di percorsi paralleli e labirintici verso la luce del futuro, intravisto nell’opera al termine di una scalinata ascensionale.

Il libro mantiene poi le sue promesse nelle voci dirette di diciannove donne che rievocano il loro Sessantotto, facendo perno proprio su quell’anno cruciale, anche se ci sono in ogni biografia pure dei momenti “prima” e “dopo”. Le minibiografie delle autrici s’intersecano con una premessa di Assunta Sarlo, con due intermezzi di Carlotta Cossutta e di Sveva Magaraggia, figlie di anni successivi, con un’introduzione (messa alla fine) a cura del Comitato Scientifico della Fondazione e con la biografia di Elvira Badaracco, scritta da Marina Zancan. Molte fotografie d’epoca, che raffigurano le nostre ragazze nel ’68 o dintorni, ritratte in momenti di lotta o di ricerca o di ribellione, accompagnano le testimonianze e riconducono efficacemente chi legge al sapore di quegli anni.

Molti fili rossi uniscono le diversissime testimonianze. Ragazze che hanno la fortuna di intersecare il loro percorso di emancipazione, liberazione, scoperta del mondo e dei propri desideri con un’esplosione collettiva e simultanea, a livello globale, di movimenti di giovani (e non solo) che contestano l’autoritarismo e le strutture oppressive, imperialistiche, consumistiche, militariste del potere contemporaneo. Figlie del “baby boom”, cresciute in un clima di espansione economica e sociale, si sentono in partenza forti, numerose e solidali nei loro conflitti con padri e madri, con autorità accademiche e culturali, con le istituzioni che la “lunga marcia” proposta da Rudi Dutschke intendeva attraversare, rovesciare, modificare profondamente. Nella stessa situazione e all’incirca negli stessi anni si sviluppano i collettivi e le forme di autocoscienza dei vari femminismi, in un intreccio fertile e spesso conflittuale. Le ragazze del ’68 vivono questa coincidenza, se ne lasciano attraversare con un’inquietudine produttiva e con un’appassionata ricerca del nuovo. Praticamente tutte diventano femministe, alla fine, e prolungano il loro impegno nei decenni successivi nelle varie forme nei movimenti delle donne, più duraturi della fiammata sessantottina.

Giustamente si rivendica il carattere profondamente innovativo e periodizzante di quell’anno, in cui molti percorsi di novità, di critica e di rivoluzione, prima percepibili ma un po’ sotterranei, si manifestano in modo strepitoso e inconfondibile. Il ’68 è un po’ come il mitico Quarantotto del secolo XIX per la simultaneità dei movimenti di lotta e di contestazione, ma si manifesta su una scala mondiale globale e interconnessa (sia pure solo tramite telefono, manifesti, giornali, viaggi e contatti personali, stampa e convegni ecc. e senza web).

Rileggendo oggi le testimonianze, ci si rende conto anche di ciò che da molto tempo covava sotto la cenere. La vicenda di parecchie di noi – studentesse universitarie che per gli studi lasciano la casa e spesso le città di origine – richiama per alcuni aspetti le storie di ragazze che, nel romanzo di Alba de Céspedes Nessuno torna indietro uscito nel lontano 1938, coltivavano solidarietà, trasgressioni e confidenze nel Collegio “Grimoldi”, diretto e gestito da suore. Percorsi di emancipazione e di liberazione s’intersecano. Finalmente le ragazze studiano, scelgono la propria facoltà, ne fanno un’occasione di cultura e di comunicazione profonda. Magari le famiglie d’origine sono rassicurate da questi collegi femminili a gestione benpensante e “ordinata”, in cui però maturano anche le premesse di nuove relazioni tra donne, di nuovi modelli, di ribellioni che traggono forza dalla condivisione di malesseri e di desideri.

Insomma, il nostro Sessantotto è stato “mitico”, ma dobbiamo essere riconoscenti a tutte le lotte delle donne delle generazioni precedenti, e a tutti i movimenti anteriori e contemporanei di protesta e di contestazione. Le parole che esprimono nel libro donne più giovani, come Carlotta Cossutta e Sveva Magaraggia, incoraggiano a pensare che la trasmissione di valori e di messaggi é ancora possibile. Il libro appena uscito è prezioso, in questa direzione. Perché, come diceva già nel romanzo di Alba de Céspedes proprio Xenia, la ragazza che non torna indietro, «Chi può dimenticare di essere stata padrona di se stessa?».

(www.casadonnemilano.it, 11 ottobre 2018)

di Vita Cosentino

 

È stata per me una fonte di sorpresa e gioia leggere Sessantotto, due generazioni di Francesca Socrate (Laterza euro 22,00). Mi sono ritrovata in pieno in quelle pagine, con le mie scelte di allora e i miei azzardi, con la differenza sostanziale di approccio al movimento che sentivo per esempio con mia sorella maggiore o con il suo compagno, di solo tre anni più grandi di me.

Ma andiamo con ordine.

L’autrice prende in considerazione, in Italia, il ’68 breve, quello che si riduce a un anno compreso tra l’autunno del ’67 e l’autunno successivo, ma non per farne la storia politica delle idee, delle azioni, dei passaggi. Lascia da parte anche l’esame delle conseguenze e dei lasciti, per concentrarsi sul piano concreto della sua realtà sociale e antropologica: ragazzi e ragazze con il loro passato, la cultura che avevano alle spalle e il mondo mentale che incarnavano. La stessa autrice fa parte di quella storia e lo dichiara all’inizio: «studentessa universitaria al primo anno e nel movimento dalla prima assemblea». Nel testo si avverte una negoziazione continua tra il suo punto di vista di storica e quello di una del ’68. Per lei l’unica possibilità di affrontare la questione è «l’esserne consapevole e che ne sia consapevole anche chi legge.» (XVI)

La ricerca di Francesca Socrate è basata su interviste raccolte nell’arco di quasi un decennio a uomini e donne che hanno partecipato al movimento nelle varie sedi universitarie italiane. Tutto il materiale raccolto è stato poi analizzato tramite la linguistica computazionale, che usa l’analisi automatica dei testi. Ammetto una mia iniziale diffidenza per la scelta di inserire automatismi nella sua ricerca. Ultimamente sono molto critica al riguardo, considerando, per esempio l’invasione degli algoritmi in ogni aspetto della nostra vita. In questo caso mi sono dovuta ricredere perché ha usato gli strumenti informatici con discernimento, per individuare piste di ricerca e non per determinare risultati. Come sostiene l’autrice, su un corpus di 63 interviste questo trattamento permette di evidenziare elementi linguistici spesso inaspettati che indirizzano la ricerca su strade diverse da quelle previste. Porta come esempio il fatto che nelle parole che hanno usato le donne ricorrono avrei e sarei quasi sempre come ausiliari di condizionali passati: “Se non avessi fatto il ’68 avrei… sarei…”. L’autrice è partita da qui, per chiedersi che significato avesse questo condizionale in prima persona nel racconto di ciascuna. E in due interviste in particolare, quelle di Maria Frieri (Torino) e Maria Sofia Cutolo (Napoli) con quella formulazione linguistica le intervistate delineano fin nei dettagli il percorso di vita prefissato – di mogli e di madri, possibilmente con un lavoro compatibile – che hanno schivato scegliendo il ’68.

La lettura del libro mi ha così intrigata perché sono due le differenze che la Socrate prende in esame e sviscera: quella generazionale e quella dell’essere donna. Ed entrambe mi riguardano.

La sua prima affermazione importante è che nel ’68 confluirono due generazioni sostanzialmente diverse per cultura politica, per atteggiamenti, per visione del mondo, sebbene siano separate da uno scarto minimo di età: la generazione della guerra nata fino al ’45 e la generazione del dopoguerra – a cui io appartengo – nata fino al ’50. La prima ha potuto ancora fare esperienza delle organizzazioni giovanili dei partiti, del loro declino, delle minoranze eretiche che ne sono scaturite, del fermento intorno a riviste e a nuove riflessioni, e sarà la generazione che più esprimerà i leader del movimento. La seconda è già al di là di tutto questo in una sorta di nomadismo politico che guarda più alla piazza come spazio pubblico. Infatti a cominciare dal ’62 con la crisi dei missili a Cuba compaiono nelle piazze masse di studenti a prescindere dalle forme organizzative della politica ufficiale, per culminare poi con la protesta contro la guerra in Vietnam nel ’67. È una generazione non più disposta a riconoscere la legittimità di gerarchie fondate sulla rappresentanza, «insomma quello che si andrà definendo di lì a poco come rifiuto della delega». (p. 23) È un’esperienza di politica diretta, di politica in prima persona, quella che più segna la seconda generazione, che andrà a costituire la massa del movimento. Nel libro questa tesi è argomentata a fondo sia con ricerche storiche sulle organizzazioni giovanili dei partiti, sia con l’analisi di ampli stralci di interviste rispetto al vissuto, alla memoria delle due generazioni e alle differenze sociali che le attraversano.

Francesca Socrate nel suo lavoro dedica molto spazio alla differenza di essere donna. È un’attenzione che percorre tutto il testo e che viene messa a tema nel capitolo Mai così tante. In precedenza non si era mai vista una così grande partecipazione spontanea di ragazze e con un tale grado di adesione. Certo poche intervenivano in assemblea, poche erano dirigenti, la loro presenza era più attiva nei controcorsi, nei seminari, nelle occupazioni, nello scambio quotidiano, nella vita in comune. Nel ’68 la leadership è e rimane sostanzialmente maschile. Lo sappiamo. Si è parlato di occasione mancata di incontro con il femminismo. Si è parlato di rivolta nella rivolta (Muraro) per definire quel gesto di separazione dai maschi che è il gesto inaugurale del femminismo, cominciato proprio in una università americana nel 1966.

Lo sa bene anche l’autrice, tuttavia le interessa indagare l’aspetto esistenziale che emerge dalle interviste e che la porta ad affermare che «partecipare al ’68 per le donne è stato uno strappo, una rottura profonda che mette in pericolo l’intera impalcatura del destino sociale scritto per loro». (p. 87) Rottura e non sono infatti le parole più ricorrenti nelle interviste femminili. Non lo è in assoluto, a segnare conflitti duri con l’autorità patriarcale, più duri di quelli affrontati dai maschi. Per le ragazze di allora, me compresa, da tempo erano già in atto conflitti in famiglia per l’autonomia delle scelte, per la libertà di muoversi, di leggere, di pensare, di vestirsi a proprio modo, in una parola di esistere. Nel ’68, con la forza della dimensione collettiva trovano il modo di esprimersi radicalmente. La rottura si traduce per lo più nell’andare via di casa a volte in modo drammatico, come nel mio caso, a volte in modo più conciliante. “Non mi comandi più” detto da una figlia al padre, è la frase che meglio la esprime.

Leggendo quella frase la verità che mi si è ripresentata davanti è che io ho fatto il ’68 e sono scappata di casa senza un soldo, per sfuggire al dominio paterno e avere un’esistenza libera. Fatto quel passo, penso che per me fosse quasi inevitabile diventare in seguito femminista.

(www.libreriadelledonne.it, 5 ottobre 2018)

di Laura Fortini

GENEALOGIE. A proposito di «Elena Ferrante. Parole chiave», di Tiziana De Rogatis. Una densa e articolata monografia sull’autrice della fortunata tetralogia dell’Amica geniale, edita da e/o. Il volume verrà presentato sabato alle 18 nell’ambito di «InQuiete, festival delle scrittrici a Roma»

Per il percorso compiuto da Elena Ferrante e le sue opere si potrebbe adoperare il titolo di un libro di Carol Lazzaro-Weis dedicato alle scrittrici italiane e intitolato From Margin to Mainstream, del 1993: Ferrante ancora non vi compare perché L’amore molesto è del 1992, ma vi sono già tutti i presupposti perché la sua opera, che si svilupperà nei decenni successivi, sia rappresentativa di quel lungo percorso compiuto da scrittrici e critica in Italia di spostamento progressivo ma inesorabile dai margini al centro, appunto.

Tiziana De Rogatis dedica un intenso e articolato volume a Elena Ferrante. Parole chiave (edizioni e/o, pp. 295, euro 18), soffermandosi soprattutto sulla tetralogia de L’amica geniale, i cui quattro volumi si sono succeduti uno l’anno a partire dal 2011, concludendosi con ritmo serrato nel 2014. Ma è interessante già nel titolo del volume di de Rogatis lo slittamento dalle opere all’autrice, la cui identità per altro è così tanto misterica e discussa anche troppo inopinatamente, e difesa nella sua discrezionalità assai giustamente da de Rogatis.

Si potrebbe però osservare che l’identità di Elena Ferrante scrittrice appartiene alla World Literature tanto quanto le sue opere, soprattutto a partire dal successo del ciclo de L’amica geniale, davvero mainstream, come ricorda Tiziana de Rogatis, che nota, anche, come le opere precedenti, da L’amore molesto a I giorni dell’abbandono, del 2002, fino a La figlia oscura, del 2006, non abbiano avuto i caratteri di centralità della tetralogia, mantenendosi piuttosto ai margini del dibattito critico.

Come si diviene quindi un classico della contemporaneità? Riscrivendo il grande romanzo delle origini, definizione tratta da La frantumaglia di Ferrante (nella nuova edizione del 2016), che Tiziana de Rogatis fa propria: il che significa giocare con generi e sottogeneri, dal romanzo storico di manzoniana memoria al melò e addirittura il fotoromanzo, perché no, con caratteri di pastiche innovativi che per altro sembrano essere una delle marche distintive delle scrittrici tutte, italiane e di altre lingue madri.

Il pensiero va ad esempio ad Antonia Byatt, autrice di un’altra altrettanto importante tetralogia dedicata alla meravigliosa storia della vita di Frederica Potter, al punto che i volumi de La Vergine nel giardino del 1978, Natura morta del 1985, La torre di Babele del 1996, Una donna che fischia del 2002 (tutti pubblicati in Italia da Einaudi) vanno sotto il titolo di The Frederica Quartet Series, e il cui dialogare con i generi e sottogeneri letterari è una delle tracce distintive di una scrittura che si può definire classicamente contemporanea., anche senza necessariamente tirare in ballo il postmoderno e con esso tutto quello che comporta.

Molte le parole chiave individuate da Tiziana de Rogatis, il cui libro ha innanzitutto il pregio godibile di effettuare una efficace rilettura e un riattraversamento complessivo delle opere di Ferrante con un dialogo serrato in cui sovente si adopera La frantumaglia come documento di poetica e una sorta di auto-bio-grafia implicita, anche se potrebbe essere letto e analizzato come opera a sé stante con caratteri di finzione e architettura compositi e complessi proprio come i romanzi. Napoli, le due lingue (quella italiana e quella regionale), la violenza raccontata dalle donne, la Storia e le storie, sono alcuni dei nessi forti presi in esame, ma soprattutto la smarginatura della trama e la frantumaglia del vivere sono due parole chiave distintamente individuate da de Rogatis come proprie della World Literature cui appartiene Ferrante autrice e scrittrice. Che si colloca tra Ortese e Morante, entrambe sicuramente sue antecedenti come in modo esplicito ricordato da Ferrante stessa: romanzo genealogico perciò del conflitto e del riconoscimento – altre due parole chiave individuate da de Rogatis – anche con le scrittrici che la precedono, come de Céspedes e Ginzburg, ricordate per il loro Discorso sulle donne del 1949, ma si potrebbero rievocare le due amiche protagoniste di Prima e dopo di Alba de Céspedes, a riprova di una letteratura che sulle relazioni amicali tra donne, a partire da Veronica Gambara e Vittoria Colonna, ha ancora molto da dare per ciò che riguarda quanto irrapresentato dalla scrittura a firma di uomini della tradizione.

E se le Lila e Lenù dei quattro volumi de L’amica geniale sono due nomadi in cerca della loro Heimat, come scrive efficacemente de Rogatis, altrettanto nomade è il loro oscillare tra emancipazione e liberazione, tra personale e politico come da nesso forte del pensiero e delle pratiche femministe degli anni Settanta, evidente sottotesto di Ferrante che non a caso ricorda ne L’amica geniale Carla Lonzi e il suo Sputiamo su Hegel.

Come altrettanto evidente, pur se nel complesso e magistrale viluppo perturbante della narrazione, è il riferimento all’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro.

Figlie quindi di molte madri, le Lila e Lenù di Elena Ferrante: dalla Didone emblema dell’amore tra polis e passione e rispetto alla sua complessa figura il riferimento è agli studi su Il mito di Didone di Paola Bono e Maria Vittoria Tessitore (Bruno Mondadori editore, 1998), di cui Ferrante costituisce ulteriore tessera da aggiungere alle sue avventure di una regina tra secoli e culture; fino alla Modesta di Goliarda Sapienza, molte sono le personagge che si possono rievocare come antecedenti e genealogicamente precursore. E che rappresentano l’elemento di forza e di equilibrio di una ormai costituenda per non dire costituita a tutti gli effetti tradizione di scrittrici in lingua italiana e in altre lingue, rispetto a quella che de Rogatis individua come una genealogia femminile della svalutazione al punto di definirla una «genealogia obliqua».

Lila e Lenù nel loro complesso attraversare il Novecento – proprio come Modesta e molte altre – sono oltre che figlie del padre così come da definizione di Maria Serena Sapegno, anche figlie di madri. Padri violenti e madri altrettanto violente nel plot narrativo, padri autorevoli come Lewis Carrol per la sua Alice, madri altrettanto autorevoli anche quando matrigne come Napoli città e la sua letteratura, o madri simboliche come le scrittrici italiane tutte del Novecento alle quali la critica a firma di donne rende oggi omaggio in molti modi, tra i quali quello di Tiziana de Rogatis a Elena Ferrante, appassionato e ricco per determinazione critica e complessità degli elementi in gioco.

Ma Lila e Lenù sono anche precursore di quanto focalizzato nella contemporaneità da geniacci della sceneggiatura come Shonda Rhimes, che in Grey’s Anatomy mette al centro della narrazione non solo la voce di Meredith Grey ma anche la relazionalità amicale in cui si è l’una la persona dell’altra, senza infingimenti, veli di sorta né occultamenti, anche in virtù dell’invidia reciproca, dei furti non poi tanto prometeici, dei cambiamenti al limite della rispettiva irriconoscibilità, proprio come nel caso di Lila e Lenù che dall’infanzia e dal loro essere bambine arrivano alle soglie della vecchiaia. E quindi figlie e al tempo stesso già antenate di quante verranno poi, questo fa di loro e di Ferrante già un classico della contemporaneità.

*

Prende il via oggi la seconda edizione di InQuiete, il festival delle scrittrici che a Roma lo scorso anno si è distinto in un panorama cittadino e nazionale come una delle manifestazioni più sorprendenti e attese. Anche quest’anno il progetto della Libreria delle donne Tuba e dell’Associazione MIA luccica di ospiti di rilievo, da Luciana Castellina (che presenterà il suo libro «Amori comunisti» domenica alle 17, presso il palco biblioteca) a Vivian Lamarque, da Jhumpa Lahiri, Chiara Ingrao, Ritanna Armeni (che presenterà il suo libro in dialogo con Daniela Preziosi), Maria Rosa Cutrufelli a Michela Murgia, Chiara Valerio e molte altre; come lo scorso anno, focus su alcuni ritratti di scrittrici: da Sylvia Plath a Natalia Ginzburg passando per Laudomia Bonanni e altre. Novità riguardo gli esordi in una sezione (che si svolgerà domenica) a cura della Società Italiana delle Letterate; alle 15, Carla Fiorentino presenta «Cosa fanno i cucù nelle mezz’ore» e Carolina Orlandi presenta «Se tu potessi vedermi ora». Alle 20 invece sarà la volta di Giorgia Tribuiani che presenta «Guasti» e Sara Gamberini con «Maestoso è l’abbandono» (Introduce Laura Marzi).

Il programma completo: http://www.inquietefestival.it/

(il manifesto, 4 ottobre 2018)

di Tanina Cordaro

Chiedere a una vittima di violenza come era vestita. O a una donna picchiata perché aveva fatto arrabbiare il marito. Gli stereotipi di genere contenuti nelle sentenze nel libro La mia parola contro la sua.

Giudice penale, nominata Wo-Men Inspiring Europe 2014 dall’EIGE (European Institute for Gender Equality), Paola Di Nicola è ricordata per la sua sentenza rivoluzionaria nel processo sulla prostituzione di due minorenni della Roma bene, quando sostituì il risarcimento in denaro con libri sul pensiero delle donne. Il 4 ottobre edito da HarperCollins esce il suo nuovo libro La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio, dove la giudice svela il pregiudizio che si nasconde anche nelle aule dei tribunali e nelle sentenze. «L’impressionante estensione del fenomeno della violenza contro le donne impone di chiedersi se ci sia o meno un’incapacità della magistratura e, prima ancora, delle forze di polizia nel perseguire efficacemente questi crimini», spiega l’autrice. Paola Di Nicola ha spiegato a LetteraDonna perché nessuno può dirsi sicuro di essere libero dai propri pregiudizi, neanche chi giudica.

DOMANDA: Qual è secondo lei il peggior pregiudizio giudiziario nel nostro Paese?

RISPOSTA: Che le donne che denunciano esagerano o, peggio, potrebbero mentire quando subiscono dai loro compagni violenza domestica. Una violenza spesso tradotta inspiegabilmente in termini inoffensivi come «liti familiari, incomprensioni, alterchi».

Gli stereotipi di genere contenuti nelle sentenze possono contribuire a creare un clima di sfiducia nella giustizia da parte delle donne che hanno subito violenza. In che modo avvocati e giudici possono estirparli dalle decisioni che prendono nei processi?

Hanno un ruolo determinante perché, attraverso le domande che pongono alle vittime e agli imputati dei reati di violenza maschile o di violenza sessuale, rischiano di replicare stereotipi che indirizzano la risposta, contengono un giudizio di valore o morale.

Può farci un esempio?

Se l’avvocato, il pm o il giudice chiede alla donna vittima di violenza sessuale come fosse vestita o perché avesse reagito in un modo piuttosto che in un altro, appare evidente che il pregiudizio inquinante che entra nel processo è che la vittima abbia una qualche forma di responsabilità. Non è un caso che a una vittima di rapina questa domanda non venga mai posta.

Oppure?

Chiedere a una donna massacrata di botte dal marito perché avesse assunto un certo comportamento (come uscire con le amiche o restare a lavoro fino a tardi), pur prevedendo che avrebbe potuto scatenare quella furia violenta: questo determina l’immediata convinzione, anche nella vittima oltre che nell’imputato, di essere stata la prima la vera causa della commissione del reato.

Lei si definisce una giudice. Perché in Italia la declinazione al femminile delle professioni di potere è ancora così osteggiato?

Perché la lingua è lo spazio più importante di rappresentazione ed esercizio del potere, infatti chi non è nominato non esiste, mentre chi lo è c’è e ci sarà sempre. Le donne si escludono dai luoghi di potere anche non nominandole quando vi si trovano e vi sono arrivate dopo durissime battaglie di chi le ha precedute. Dovrebbe essere chiesto a chi usa il femminile solo per parrucchiera perché non riesce ad usarlo per ingegnera o per ministra visto che la grammatica italiana ce lo imporrebbe, come scrive l’Accademia della Crusca.

Quali altre conseguenze comporta la declinazione esclusiva al maschile?

Quella di dimenticare donne straordinarie, coraggiose e competenti. Come Alma Sabatini che nel lontano 1987 riuscì a scrivere, su incarico della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell’epoca, le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Raccomandazioni a cui ci dovremmo istituzionalmente attenere. E io mi chiedo: questo lavoro culturale e simbolico enorme che fine fa se le donne si nominano al maschile proprio nei luoghi di potere in cui quelle donne le hanno portate?

Nel suo libro si legge che per i mafiosi l’unica donna veramente importante è e deve essere la madre dei suoi figli. Le altre sono tutte «puttane». Questa idea però è comune anche agli uomini non mafiosi. Secondo lei chi può «educare» questi uomini a un maggiore rispetto delle donne?

Ognuno di noi, donne e uomini, nessuno escluso.

Tre sono le «fimmini ribelli» che ritrae nel suo libro (Rita Atria, Carmela Iuculano e Maria Concetta Cacciola), donne che hanno avuto la forza di sradicare gli stereotipi all’interno della cultura mafiosa. Oggi chi è la fimmina più ribelle?

Non ce n’è una sola per fortuna, sono ribelli tutte le donne che vivono libere dagli stereotipi che vengono loro affibbiati dal giorno della nascita fino a quello della loro morte. Per farlo ci vogliono consapevolezza e tanto tanto coraggio.

Qual è secondo lei il prossimo passo che dovrebbero compiere le donne del movimento #MeToo?

Dare una forma anche teorica a questa straordinaria rivoluzione non violenta e creare una nuova forma di gestione del potere, non fondata sulla sopraffazione, per donne e uomini liberi.

Il 30 novembre arriva su Netflix una delle serie tv più attese, Baby, ispirata al caso delle baby-squillo della Roma bene. Il caso, scoppiato nel 2013, aveva coinvolto anche lei in veste di giudice. Cosa spera di vedere in questa serie e cosa si augura di non trovare?

Mi auguro di non vedere replicata l’idea, a suo tempo proposta da molti giornali, fondata solo sull’ignoranza del fenomeno, che le ragazzine che si prostituiscono sono libere e smaliziate, sono arrampicatrici sociali che cercano solo denaro e che la prostituzione è una scelta glamour e inoffensiva. Mi auguro che quegli uomini adulti che comprano l’adolescenza e talvolta persino l’infanzia, per pochi o tanti soldi, vengano chiamati con il loro nome, quello che è dato loro dalla legge italiana e dalle Convenzioni internazionali: pedofili.

(www.letteradonna.it, 4 ottobre 2018

di Silvia Niccolai

Interpretare i «diritti riproduttivi» come possibilità di accesso a tecniche di procreazione artificiale può far dimenticare che in un’altra prospettiva l’espressione indica i «diritti di riproduzione delle minoranze etniche e delle donne del Sud del mondo, che non hanno a che vedere con sofisticate tecnologie ma con una più equa distribuzione delle ricchezze, con la sopravvivenza indigena, con la lotta contro il patriarcato, il razzismo e la globalizzazione neoliberista». La ricerca di Laura Corradi, Nel ventre di un’altra. Una critica femminista alle tecnologie riproduttive (Castelvecchi, pp. 93, euro 13.50) mostra le contraddizioni che intercorrono tra le due accezioni del lemma.

Nell’ambito della riproduzione corre una «divisione del lavoro» che vede «da una parte le non abbienti che vendono ovociti o «affittano» l’utero, dall’altra le benestanti che pagano, per problemi di salute, di infertilità, perché non vogliono sottoporsi a una gravidanza» o vogliono risparmiarsi l’iter di una fecondazione artificiale. Le «operaie della riproduzione» si sottopongono a procedimenti che «distruggono l’integrità della donna come persona umana e la riducono a una massa di materiale riproduttivo», messi a punto in laboratori strettamente «collegati al mondo degli affari». Tecniche «costose» diventano «accessibili» perché il loro prezzo è pagato da donne «localizzate altrove, geograficamente o socialmente, rispetto a chi le percepisce come un mezzo per ottenere un brandello di felicità».

Laura Corradi è una «sociologa del corpo» che guarda alla procreazione artificiale e alla surrogazione di maternità cosiddetta «gestazionale» (dove una donna si rende «portatrice» di un ovulo fecondato artificialmente, con l’impegno di rinunciare al bambino e consegnarlo ai committenti), tenendo presenti le femministe che negli anni Settanta seppero «condensare nel tema della salute delle donne diversi elementi di critica al capitalismo e al patriarcato», e, come ricordano Marina Santini e Luciana Tavernini in Mia madre femminista (Il poligrafo 2015), «ruppero il silenzio intorno al corpo femminile».

La sindrome da iper-stimolazione ovarica, rileva Corradi, è indagata ma sottostimata: così con la «donatrice» (spesso «seriale») di ovociti ci abituiamo a considerare «normale» che una persona sopporti rischi medici «senza alcun beneficio sanitario». Mentre mancano i finanziamenti per approfondire «i rischi di cancro e altre malattie associate ai trattamenti per la fecondazione artificiale», gli studi che individuano i rischi per i nascituri (in termini di percentuali maggiori, rispetto ai bambini concepiti naturalmente, di difetti alla nascita), e i cambiamenti nell’immunotolleranza dell’embrione il cui genoma non è concordante con quello della gestante non sono diffusi perché scoraggerebbero il mercato. I danni del taglio cesareo, normale in caso di surrogazione, il lavoro femminista sulla «gravidanza e il parto come momenti naturali da vivere nella pienezza delle sensazioni e delle emozioni» (ancora Santini e Tavernini), il diritto della donna e del neonato all’allattamento al seno sono rimossi. Non potrebbe essere altrimenti nel quadro di biotecnologie che, impegnate nella «messa a valore della vita sin dal suo concepimento», guardano al corpo femminile come al teatro inanimato di processi cui sono altri a dare senso e scopo.

Soffermandosi sulle candidate madri surroganti americane premiate dal giudizio di avere un «buon equilibrio mentale» perché capaci di capire «di essere solo il vettore del bambino», Corradi denuncia un mondo che vuole le donne, diremmo con parole di Luisa Muraro, «tanto necessarie, affinché si produca la traiettoria che va dall’embrione al genitore, e tanto dotate di capacità deliberativa, quanto prive di autorità» (Perché l’uomo? in Utero in affitto o gravidanza per altri?, a cura di Lidia Cirillo, edito da Franco Angeli nel 2017); la buona madre surrogante, osserva Laura, «deve essere obbediente e non avere pretese sul prodotto del suo lavoro riproduttivo». Questo il nodo politico.

Studiando con «lo sguardo rivolto a popolazioni e contesti diversi: indigene messicane, profughe dei campi palestinesi, contadine indiane», Laura ha visto che «di norma, le donne individuano abbastanza bene quali siano le decisioni da prendere per il benessere della comunità, perché da sempre hanno la responsabilità della riproduzione», siano o meno, come singole, madri.

Davanti alla portata espropriativa delle tecniche riproduttive occorre riprendere questa responsabilità, esercitarla a tutto campo: saper essere disobbedienti, e sapienti. Per Laura Corradi è urgente riaprire, nel femminismo, la «questione scientifica» come «critica femminista della scienza» e questione che riguarda tutti i campi del sapere.

«Il gergo medico non è mai stato un ostacolo per il movimento femminista» e le ormai tante donne scienziate possono essere stimolate a diventare «interlocutrici, in un rapporto dialettico, anche conflittuale». Per pensare «una forma differente di scienza, un sapere non alienato dai soggetti», possono esserci maestre le femministe di colore, le ricerche condotte in condizioni diverse e lontane, «troppo spesso ignorate», che riscoprono «forme non dicotomiche di sapere, saggezza e intelligenza», e le pratiche improntate a «relazioni fondate su reciprocità, azione per il bene comune e rispetto della natura», che rendono possibili «tecnologie utili nella prospettiva di una economia solidale».

Decostruire la «scienza del capitale, patriarcale e razzista», è un impegno al quale in Italia, osserva Corradi, il «fronte laico» ha in larga parte rinunciato sin dai tempi del referendum sulla fecondazione assistita. Le conseguenze si fanno sentire sul dibattito odierno. L’alternativa tra surrogazione gratuita e onerosa omette di considerare che «i problemi di salute per la donna sono indipendenti dal compenso o dalla gratuità»; il richiamo alla «libertà di scelta sul proprio corpo» ignora che ogni scelta avviene in «uno spettro di possibilità ristretto da interessi economici e politici». Il legame coi diritti dei gay, che tende a far bollare come politicamente scorretto il contrasto alla surrogazione, mentre fa dimenticare che «la stragrande maggioranza di coloro che vi fanno ricorso sono coppie eterosessuali» sposta l’attenzione dall’unico soggetto davvero centrale, la donna, e dal sostantivo portatore di interessi: la «potente lobby delle tecnologie riproduttive» che si legittima manipolando l’aspettativa di «un figlio a tutti i costi».

Il pur giusto rilievo secondo cui le tecniche riproduttive possono contribuire al superamento di un modello tradizionale di famiglia e di sessualità si risolve nella «delega del cambiamento politico e sociale alle tecnologie», quando non è associato alla ricerca delle condizioni di «una scienza controllata dal basso» ed è argomentato senza tener conto della differenza sessuale.

Da un punto di vista «post-coloniale e intersezionale», attento alla «critica eco-femminista della scienza» e che «riflette sul rapporto tra donne», Laura Corradi contribuisce al rinnovamento e alla maggiore apertura di una discussione qualche volta provinciale e dimentica che nei confronti del bio-potere («quello sì, contro-natura») che riduce la generazione della vita a fatto tecnico si possono muovere critiche che non originano «da considerazioni religiose o morali ma dall’interesse per la salute delle donne, e che si inseriscono nel contesto internazionale di un femminismo radicale critico e sonoro su questioni riguardanti scienza, salute, ambiente e politiche del corpo».

(il manifesto, 18 settembre 2018 )

a cura di Antonella De Gregorio

 

Lui è andato vicino al premio Nobel per la Fisica (2013) per aver partecipato alla scoperta del bosone di Higgs. Lei lo scorso anno ha sfiorato il «Nobel» degli insegnanti, il Global Teacher Prize, arrivando – unica italiana – nei 50 finalisti tra 40 mila candidati. Ma Guido Tonelli, fisico delle particelle, scienziato del Cern di Ginevra, docente all’Università di Pisa, e Lorella Carimali, che insegna matematica al Liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano, hanno molto altro in comune. Personalità, passione e metodo. La convinzione che la matematica sia un’impresa creativa e un’ostentazione di audacia. Oltre a una non comune capacità di innovare. «Anche se gli innovatori vivono periodi difficili e sono soli. Perché quando innovi, nella scuola italiana non c’è nessuno che ti sostiene», dice Carimali, che al palcoscenico di Dubai, tra i prof più meritevoli del mondo, è arrivata grazie al suo approccio pratico e creativo alla materia, fatto di lavori di gruppo, ipertesti, progetti multimediali, sceneggiature teatrali che sono i suoi studenti a scrivere, mettendo in scena la teoria della relatività o la geometria non euclidea.

Adesso, nel suo ruolo di «ambasciatrice» della matematica, pubblica un romanzo (La radice quadrata della vita, Rizzoli) che mette a confronto due generazioni di insegnanti, parla del lavoro instancabile dei docenti e della matematica: come tecnica per affrontare la vita attraverso il ragionamento ed espediente per trovarne gli aspetti positivi. Come la radice quadrata, appunto, che può esistere solo se il numero sotto radice è positivo. Un libro che punta a trasmettere a tutti la bellezza del pensiero matematico, in cui convivono libertà, armonia e rigore.

Anche per Tonelli la matematica insegna ad affrontare i problemi con razionalità ed efficacia. «Ma ha anche la capacità di portare in mondi sconosciuti e strabilianti. Quando immagini che cos’accade accanto a un buco nero, le deformazioni dello spazio-tempo legate alla massa e all’energia, e lo fai con espressioni semplici da scrivere alla lavagna anche se difficili da capire, lì vedi la potenza e la bellezza della matematica».

Com’è nato questo libro, professoressa Carimali? E cosa ci ritrova, professor Tonelli, della sua esperienza?

LORELLA CARIMALI – Volevo stimolare una riflessione sul significato della formazione e l’importanza della condivisione; raccontare un passaggio di consegne tra generazioni di maestri. E andare contro la scissione che resiste tra cultura umanistica e scientifica. Soprattutto, trasmettere l’idea che la scuola è un luogo di relazioni e che il futuro lo si costruisce insieme. Pensando matematicamente.

GUIDO TONELLI – Sì, tutto questo l’ho trovato. Assieme a una questione fondamentale: come esercitare la professione di docente, come farsi rispettare, come esercitare l’autorità. Leggendolo, ho rivissuto il breve periodo in cui insegnai alle superiori. Ricordo un ambiente duro, insegnavo elettronica ed elettrotecnica all’Istituto nautico di La Spezia. Mi stupì quanto rapido fu l’innamoramento dei ragazzi per quest’insegnante, pur giovane come loro, quando avvertirono carisma e passione. La supplente del libro, Bianca, è come un flashback: il primo ingresso in classe, il pregiudizio degli studenti, magari pluriripetenti, quasi coetanei.

Nel libro Donatella, docente esperta, spinge la giovane supplente a volare alto, a confrontarsi con problemi sempre più difficili. È così? L’istruzione offre sfide adeguate agli allievi?

GUIDO TONELLI – Non mi sembra. Ultimamente vedo piuttosto una tendenza a semplificare, come se trattassimo i ragazzi da incapaci. Bisogna invece metterli di fronte a difficoltà anche superiori rispetto a quelle che incontravamo noi dopo l’adolescenza, perché il mondo al quale si affacceranno loro sarà più complicato. Il ruolo della scuola è anche di trasmettere fiducia.

LORELLA CARIMALI – Se penso a ciò che faccio io di diverso in classe, è proprio questo: infondere fiducia, fare in modo che i ragazzi credano in sé stessi. Va liberata l’energia che hanno dentro.

GUIDO TONELLI – Sì, è vero, per certi versi è una generazione spaventata ma hanno dentro questa forza. Bisogna valorizzarla e allora il destino di tanti non sarà più quello di andarsene dall’Italia. Io ho il privilegio di lavorare circondato da giovani menti brillanti, selezionate nelle migliori università del mondo. Tra di loro, i nostri non sfigurano certo; anzi, corrono veloci come e più degli altri.

 

Qualche mese fa, in una lettera aperta su «la Lettura» alla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, professor Tonelli, ricordava uno dei suoi insegnanti, capace di coltivare negli allievi la logica e la capacità di superare gli ostacoli. E invitava la ministra a trovare e sostenere insegnanti così. Oggi riformulerebbe la richiesta al ministro Marco Bussetti?

GUIDO TONELLI – Certo, continuo a pensare che nelle scuole ci sia bisogno di persone appassionate del proprio mestiere oltre che competenti. Io giro centinaia di scuole per fare divulgazione e ne trovo tanti di insegnanti così. Magari anche guardati con diffidenza dai colleghi, perché spesso chi vuol fare qualcosa di nuovo trova ostacoli. L’istituzione dovrebbe «vedere» queste persone e riconoscerne il ruolo. Allora avevo usato provocatoriamente la questione dei soldi, proponendo retribuzioni adeguate e progressioni di carriera. Ma l’importante è riconoscere le punte di eccellenza e consentire loro di espandersi. Se diamo insegnanti bravi, i nostri ragazzi imparano cose incredibili. È questa la sfida.

LORELLA CARIMALI – I bravi insegnanti non mancano ma tante esperienze si perdono in una scuola che oggi paradossalmente è più indietro rispetto a dieci anni fa. Le lezioni frontali, le bocciature, le prove parallele per classi… che senso hanno? Sono d’accordo con il professor Tonelli, ovviamente: quando un insegnante fa innovazione va sostenuto. Ma penso anche che il rilancio della scuola debba passare attraverso il rilancio della figura dell’insegnante. Bisogna riportarlo al centro, come persona autorevole, di cui si ascoltano i pareri. Per farlo, quello che manca in Italia e che invece ho visto funzionare all’estero è proprio la progressione di carriera.

 

In che modo?

LORELLA CARIMALI – Si potrebbe pensare a un sistema che faccia diventare i professori che hanno maturato esperienze significative una risorsa anche per i colleghi. Per esempio tenendoli metà delle ore in classe e metà nelle università, distaccati nei corsi dove si formano i nuovi insegnanti. Nel periodo di distacco verrebbe riconosciuto quello che hanno fatto di nuovo, la loro produzione intellettuale.

 

In una società in cui i ruoli educativi sono sempre più articolati e segmentati, si trasmette ancora ai ragazzi il rispetto per l’istruzione e per gli insegnanti?

GUIDO TONELLI – Si andava un tempo al colloquio con gli insegnanti con timore e sussiego. Il professore aveva un prestigio sociale che nasceva non dallo stipendio ma dalla funzione. Guardando alla mia esperienza, io sono il primo non solo che si è laureato ma che ha preso un diploma nella mia famiglia: mi han fatto studiare non per diventare una persona importante o guadagnare, ma perché l’istruzione era considerata uno strumento in più per diventare persone libere. Questa cosa si è persa un po’ per motivi culturali, un po’ per azione politica che è mancata nei governi di tutti gli orientamenti. È rarissimo trovare ministri dell’Istruzione che siano persone di grande competenza e professionalità. Manca, nelle famiglie, a livello politico e di opinione pubblica, l’idea che l’innovazione e la conoscenza siano la cosa più importante per il futuro del nostro Paese. E se ne pagano prezzi altissimi.

 

Quali sono i vostri modelli, chi ha dato un imprinting al vostro lavoro?

GUIDO TONELLI – Il professor Tartaglione, di cui si parlava in quello scritto su «la Lettura», che ha fatto appassionare alla storia e alla filosofia tutta la classe. L’imprinting che ci ha dato, il rigore, la ricerca, la passione e il suo impegno intellettuale e civile sono stati decisivi per generazioni di studenti.

LORELLA CARIMALI – Per il mio stile di insegnamento il modello è stata forse un’anziana maestra delle elementari, rigorosa ma dolcissima, che dopo avermi dato un’insufficienza per un compito tutto corretto ma disordinato, tornò sui propri passi: la mia reazione di sconforto le fece capire che non aveva usato lo strumento giusto. Mi ha insegnato che dobbiamo guardare sempre chi abbiamo davanti. I miei studenti sentono che non li giudico e che sono lì per aiutarli a far uscire quello che hanno dentro.

 

Veniamo alla ricerca, grande ammalata del sistema Italia, dove gli investimenti sono tra i più bassi dei Paesi del G7. Di recente, professor Tonelli, ha fatto discutere la sua affermazione riguardo agli investimenti europei in ambito scientifico, inferiori di almeno tre volte rispetto agli Usa. Ma quando si arriva al tempio della ricerca, il Cern, si gode di giusta considerazione?

GUIDO TONELLI – Nel ranking internazionale la fisica delle alte energie occupa un ruolo di rilievo e si avverte meno la mancanza di investimenti. Ma è vero, non si è compreso a sufficienza a livello europeo e soprattutto in Italia che nel XXI secolo avranno da dire qualcosa nel mondo i Paesi che producono innovazione, tecnologia e cultura. In Italia, in particolare, gli investimenti sono discontinui, manca una visione strategica dell’innovazione e della ricerca. E sì che le condizioni di base ci sono: creatività accumulata, un’enorme tradizione, soprattutto nella fisica e nella matematica. Ma non c’è nessuna visione politica che metta al centro un serio potenziamento della ricerca.

 

Su cosa deve puntare l’istruzione per formare le giovani generazioni?

LORELLA CARIMALI – Molte ricerche oggi dicono che i lavori basati solo sulle conoscenze saranno in futuro sostituiti da robot, dunque una scuola che insegni solo nozioni è destinata a formare infelici senza possibilità di inserirsi nella vita. Dobbiamo invece impegnarci per costruire una scuola che formi alle «4C»: Critical Thinking, Comunicazione, Collaborazione e Creatività.

 

E che dia più spazio alle discipline Stem (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica)?

GUIDO TONELLI – Non credo nell’eccessiva specializzazione: viviamo in una società tumultuosa in cui le cose cambiano rapidamente e dobbiamo aspettarci nuove rivoluzioni nei prossimi decenni, per le quali bisogna essere preparati. Serve una formazione di base molto solida, con la capacità di adattarsi alle novità. La creatività in fondo è capacità di risolvere problemi nuovi e a noi italiani viene particolarmente bene. Quando nelle grandi aziende internazionali ci si trova davanti a una crisi, a un oggetto tecnico che non funziona, spesso sono gli italiani, nel team, quelli che trovano le soluzioni. Forse perché la storia così complessa del nostro Paese ci ha permesso di selezionare, nel nostro Dna, la capacità di sopravvivere, di trovare la via d’uscita.

 

Che fare contro lo stereotipo che vuole le ragazze più brave nelle materie letterarie o creative che in matematica?

LORELLA CARIMALI – Che le ragazze «non siano portate per la matematica» è uno stereotipo molto italiano: va combattuto con convinzione. Così come il pregiudizio che la matematica sia una materia per pochi. Il pensiero matematico va allenato come ci si allena in palestra.

GUIDO TONELLI – All’università ho visto cambiare drasticamente la situazione negli ultimi vent’anni: a Fisica più della metà degli studenti sono ragazze; a ingegneria informatica, dove si contavano sulle dita di una mano, ora sono almeno il 30%. E sono determinate e preparate spesso più dei colleghi maschi. Aumenta la presenza femminile ai piani alti delle istituzioni scientifiche. Nella fisica abbiamo visto un fiorire di personalità di rilievo: Fabiola Gianotti direttore del Cern produce effetti a valanga. Penso che l’Italia sia destinata a cambiare rapidamente.

LORELLA CARIMALI – Non sono così ottimista: ho fatto molte ricerche, da donna e da insegnante che vuole dare a tutti gli stessi strumenti e che vede la matematica come fondamentale per esercitare il proprio diritto di cittadinanza. Il gap tra maschi e femmine scompare solo in quei Paesi dove il lavoro di cura viene considerato al livello degli altri lavori.

(Corriere della sera-La lettura, 9 settembre 2018)

di Laura Minguzzi

 

Alex Martinis Roe, To Become Two. Propositions for Feminist Collective Practice, Published by Archive Books, 2018, pp.277, in collaborazione con ar/ge kunst; Casco-office for Art, Design and Theory; If I Can’t Dance, I Dont’t Want To Be Part Of Your Revolutin; and The Showroom

 

“Per diventare due” questo il titolo del libro, in lingua inglese, ricco di fotografie, illustrazioni e disegni, con cui l’autrice Alex Martinis Roe, che opera a Berlino dove si è trasferita dall’Australia, racconta con precisione, cura e fedeltà la sua ricerca di artista film maker femminista. Ricerca che ha avuto inizio da un incontro con Luce Irigaray nel 2012. In un susseguirsi di dialoghi, conversazioni, incontri alla Librairie des Femmes (Psychanalyse et Politique) di Parigi, alla Libreria delle donne di Milano, alla Ca la Dona di Barcellona, a Duoda Centre de recerca de dones dell’Università di Barcellona, all’Università di Utrecht, a Sydney al Feminist Film Workers and the Sydney Filmmakers Co-opewrative-as a practice of alliance ecc., l’autrice ha filmato, scritto e creato una storia della generazione genealogica del femminismo europeo intrecciandolo con le sue radici australiane. Il femminismo delle origini e la pratica relazionale con le sue invenzioni sono restituite vivificate dal desiderio di Alex di comprendere dove e come sono nate. Il libro è suddiviso in due distinte sezioni, precedute dall’introduzione dell’autrice.

Nella prima sezione, To Become Two, una serie di brevi saggi esplora la singolare genealogia di pratiche e teorie della differenza sessuale. L’autrice ha messo in relazione in uno scambio fertile le sue personali esperienze e riflessioni con le varie teorie e pratiche delle comunità femministe di cui ha voluto indagare le pratiche politiche.

Nella seconda sezione, Our Future Network, espone venti progetti-esperienze frutto di altrettanti workshops residenziali in diverse città europee. A Berlino in una grande casa ha riunito e sviluppato con un gruppo di artiste il progetto Propositions for Feminist Collective Practice. Essendo convinta dell’efficacia e dell’importanza cruciale della pratica di relazione inventata dalla Libreria delle donne di Milano, Alex Martinis Roe dichiara di avere coinvolto artiste attive in vari ambiti culturali specifici (danza, musica, letteratura, cinema) o attiviste in campo ambientale, economico, accademico, storico, istituzionale, abitativo per farle interagire con la pratica di relazione del femminismo della differenza e da questa interazione-scambio sono nate le Propositions di cui sopra. Il libro è utilmente leggibile o consultabile anche per la dettagliata bibliografia in varie lingue che fornisce e le biografie di tutte le collaboratrici che hanno contribuito alla realizzazione del lavoro e che l’autrice ringrazia.

(www.libreriadelledonne.it, 7 settembre 2018)

Recensione di Mira Furlani

Sulla scrittura delle donne in passato si è registrata una cancellazione che ha impedito di annoverarla nella cultura canonica, nascondendo così alle successive generazioni la creatività sorgiva di tanti testi femminili. Ma, afferma Luisa Muraro, l’inganno numero uno è un altro: si è voluto “far credere trattarsi di una semplice discriminazione antifemminile, vale a dire di una questione di diritti negati. Si tratta, invece, di una contraddizione riguardante il rapporto fra la scrittura e la tradizione: il senso della scrittura per una donna e la vita stessa del suo desiderio sono di una qualità che non si presta alla fissazione di un canone, e domandano un’altra tradizione”. E prosegue: “Finora molte studiose hanno lavorato sui testi di donne con l’intento di riparare ad un torto di dimenticanza o di discriminazione, e con l’obiettivo di iscriverli nella tradizione canonica. Ma quel fatto che dicevo, ora che è venuto alla luce e se la mia intuizione non è sbagliata, ci invita a lasciar perdere le illusioni progressiste e le rivendicazioni femministe, per interrogarci sulla scrittura femminile che resta fuori dai canoni della cultura ufficiale: se è vero che qualcosa la rende, di suo, non traducibile in quelle forme, CHE COS’È?” (Le amiche di Dio, 2001 pag. 205).

Nella mia ignoranza sono rimasta a lungo ferma su questa domanda: che cos’è? La risposta mi è arrivata poco tempo fa, dopo aver letto il recentissimo libro intitolato Dire Dio nella lingua materna.

Dire Dio nella lingua materna è un testo-intervista con domande che Lucia Vantini, giovane teologa e filosofa di Verona, rivolge a Luisa Muraro. Le domande (lo percepisce bene una donna come me che l’amore verso il Vangelo e una lunga pratica cristiana fuori dai canoni tradizionali, l’ha portata a un duro conflitto con il parroco di una comunità parrocchiale definita progressista), fanno affermazioni e considerazioni, a volte mostrando incertezze che complicano il ragionamento che poi le successive risposte di Luisa Muraro riescono a sgarbugliare, sciogliendo i nodi come neve al sole. Quasi un miracolo, mi sono detta più volte durante la lettura! Dire Dio nella lingua materna è così difficile? Sì e no. Per Giuliana di Norwich è facilissimo: nel suo Libro delle rivelazioni, che risale verso la fine del 1300, essa sviluppa una teologia della maternità di Dio scrivendo in lingua materna.

Dopo un’introduzione scritta dall’intervistatrice, il testo si snoda fra domande e risposte, ciascuna delle quali porta un titolo suo proprio. Tutte le risposte di Luisa Muraro dicono e aprono alla lingua materna fra verità soggettiva, cultura e sapienza che conducono, sia chi interroga che chi legge, verso una autocoscienza illuminante, dentro e fuori di sé.

Di seguito segnalo solo alcuni temi che mi hanno colpita e fatto riflettere, con l’unico scopo di mostrare la profondità degli argomenti trattati nel libro:

Non dirò nulla sul finale, parole stupende di verità che sembrano, e forse lo sono, direttamente ispirate dal dio Spirito Santo.

Luisa Muraro con Lucia Vantini, Dire Dio nella lingua materna, editrice Il Margine, 2018, pp. 124, 12 euro.

Attualmente il libro è acquistabile solo alla Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29 Milano, e si può richiedere via e-mail a info@libreriadelledonne.it.

(www.libreriadelledonne.it, 6 settembre 2018)

di Lea Melandri

Tra le domande ricorrenti alle donne che scrivono (come scrivi?, perché scrivi?) ce n’é una particolarmente fastidiosa: esiste una scrittura «femminile» diversa da quella «maschile»? Il fastidio – scrive Maria Rosa Cutrufelli nelle prime pagine del suo ultimo libro Scrivere con l’inchiostro bianco (Iacobelli editore, pp. 161, euro 13) – è dovuto anzitutto al fatto che viene rivolta esclusivamente alle scrittrici: «come se la differenza sessuale fosse una faccenda di donne, dato che quella maschile non è una differenza: è la norma». Come già osservava Patrizia Violi (L’infinito singolare; Essedue, 1986), il linguaggio, come la cultura in genere, dà voce a un solo soggetto, apparentemente neutro e universale, in realtà maschile.
Se la parola delle donne è spesso così difficile – era la conclusione – non è dunque «perché le donne sono inadeguate al linguaggio, ma perché è il linguaggio inadeguato alle donne». Del resto, già all’inizio del ‘900, Sibilla Aleramo con la lucida intuizione di una coscienza femminile anticipatrice aveva scritto: «Io non mi esprimo, non mi traduco neppure: rifletto la vostra rappresentazione del mondo, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù di analisi».

QUANTO TEMPO è passato prima che le donne potessero avere accesso a quella «città proibita» che è stata per loro l’invenzione letteraria, uscire dalla «notte linguistica della prudenza emotiva» – la segretezza di cuore, di carne e parola, che ci si attende da loro e che le madri stesse hanno imposto alle figlie con la forza di una legge? Quanto è costato in fatica, dolore, malattie e morti, «esporsi, mostrarsi agli altri senza veli», affrancarsi dalla soggezione della mente per illuminare il proprio mondo poetico, e farlo prima di scoprire di non essere sole e potersi specchiare nelle opere di altre donne? Quanta strada resta ancora da fare perché le donne da Muse ispiratrici del racconto dell’altro, «via di passaggio per la gloriosa genealogia maschile», possano, da soggetti di scrittura, riscrivere la storia non ancora narrata, fuori da canoni, pregiudizi, attese sociali, permessi e divieti?

SONO QUESTE le domande da cui parte il singolare libro di Maria Rosa Cutrufelli, scritto con «l’inchiostro bianco» proprio di chi ha saputo sottrarsi a contrapposizioni note – tra saggistica e poesia, vita letteratura e scrittura, finzione e realtà, autore e opera, Nord e Sud – e farne un felice, originale intreccio, quale dice essere stata la sua vita di «donna e meridionale». Femminista combattiva, capace di tenere di pari passo la scrittura e l’impegno sociale, Maria Rosa Cutrufelli sa che l’ostilità della «gente del Nord» per la sua Sicilia – vista come «terra di sangue e di miseria» – ha parentele con il sessismo, di cui le donne sono state vittime e forzatamente complici, costrette, nel momento in cui hanno tentato di far valere la loro presenza e la loro parola, a districarsi tra stereotipi di sesso e di razza, a dover scegliere tra paura, silenzi e «impudicizia», tra la paziente, faticosa ricerca di una individualità autonoma da modelli imposti e una «emancipazione nera», segnata dal machismo di padri, mariti, fratelli. A Manuela, la ragazza di mafia con le armi in pugno, emersa come una nuova Proserpina dal buio di un mondo femminile a lei sconosciuto, miscellando dati di realtà e fantasia, Maria Rosa offrirà il «colore di Tina», la protagonista del suo romanzo Canto nel deserto. Ma quando sarà aggredita da lei, come persona reale, alla presentazione del libro a Gela, riconoscerà di aver desiderato quell’incontro nella vita come nella scrittura. Di quel corpo a corpo tra due donne , appartenenti pur con destini diversi a una storia comune, dirà di aver visti «la stessa ansia di imprimere nel mondo il proprio marchio, la stessa brama di affermarsi».

I MITI, LE SCRITTURE degli uomini, raccontano di figlie strappate violentemente alle madri, costrette a vedersi riflesse dallo sguardo dell’uomo, come nel caso della «coppia sacra» di Demetra e Core, o piegate a un amore femminile, senza contropartita, di silenzio e sacrificio, come la ribelle Antigone di Sofocle riportata, forse non a caso, «sotto l’egida paterna» nell’Edipo a Colono. Figure doppie, contraddittorie, vissute per secoli nell’immaginazione e nei racconti dell’altro sesso, debitrici della loro grandezza al fatto di essere «figlie e spose di grandi», il corpo attraverso cui passa la memoria e la storia di altri. «Non c’è lirica, non c’è poema senza una donna che lo ispiri. Peccato che i ruoli non siano intercambiabili».
Ebbene, qualcuna ci ha provato a farsi cantora. È Madama Gasparina, la poetessa Gaspara Stampa, a cui il libro dedica alcune delle pagine più intense del libro. La sua scoperta «impudicizia» nel modo irriverente di apostrofare l’uomo amato non aveva impedito a tanti personaggi noti di cercare le sue lodi. Dispensatrice di gloria, le sue rime «imprudenti» erano rimaste al contrario consegnate al silenzio e la sua persona fatta oggetto di curiosità pettegola. Sarà la sorella Cassandra ad assicurare alla sua virtù poetica un riconoscimento postumo e tardivo.
Che cosa ha impedito alle donne – si chiede Cutrufelli – di dare parola alla storia che l’altro sesso ha cercato in tutti i modi di cancellare? Se non si può parlare di genere femminile della scrittura, è innegabile che l’essere sessuato «preme ai margini del testo», anche solo come esitazione a esporsi, bisogno di corrispondere a ciò che ci si attende da una donna, paura di perdere anche l’amore della propria simile.

COME POTEVANO le donne dare corso alla «storia non narrata», se non partendo da sé, da quella «libertà del cuore» anche solo intuita che avevano dovuto celare anche alle cure e ai pregiudizi di una madre? È toccato non a caso all’autobiografia, al memoir e alla scrittura di esperienza quella ricerca di sé che ha visto, in tempi più vicini a noi, «ri-nascere» singolarmente e collettivamente le donne con una visione propria del mondo, spingere la parola e la scrittura nelle zone di frontiera tra inconscio e coscienza, dove ancora si cela l’enigma di ogni dualismo, imparare la lingua del mondo interno e con quella scardinare i saperi e i linguaggi sociali.
Se l’autobiografia è stata un modo per uscire dalla prigione del privato, per dare un senso e una storia all’io femminile, la scrittura di esperienza – fa notare Maria Rosa – si pone come «scrittura del sé», passaggio attraverso i «frammenti dell’identità femminile», esplorazione di quell’impronta che lasciano nella memoria del corpo i vissuti e le passioni più elementari, a cominciare da quella che ha visto l’uomo appropriarsi e addomesticare la potenza del corpo che l’ha generato. Per risalire dall’Ade, liberarsi dei credi introiettati, richiede pazienza, amore di sé e delle proprie radici, è la chiusa del singolare «romanzo» lirico e riflessivo di Maria Rosa Cutrufelli.

di Arianna Di Genova

Un’intervista del 6/9/2017 con la scrittrice Helena Janeczek, che presentava il suo romanzo «La ragazza con la Leica», pubblicato da Guanda, allora appena uscito, oggi vincitore del premio Strega 2018.

All’inizio c’era la Reflex, che permetteva un’inquadratura più grande e una maggiore precisione di dettagli; poi, per la sua comodità «da viaggio», la fotocamera divenne quella mitica, la stessa con cui Gerda Taro passò alla storia. Così La ragazza con la Leica, a cui la scrittrice Helena Janeczek ha dedicato il suo ultimo romanzo (domani in uscita per Guanda, pp. 336, euro 18) prende le sembianze che conosciamo e rimane in acrobatico bilico tra il suo essersi trasformata in icona e la necessità di riappropriarsi di se stessa, di un passato a più dimensioni, attraverso il ricordo di chi c’era e le parole dell’autrice.
Prima di diventare la fotoreporter della Guerra civile spagnola insieme al compagno Robert Capa e al polacco Chim, prima ancora di volare di bocca in bocca come la fotografa che morì sul campo per testimoniare i propri ideali – era il 26 luglio del 1937 e lei, attaccata al predellino di una vettura che trasportava feriti, venne travolta da un carroarmato che sbandò nel caos di un mitragliamento tedesco dal cielo – Gerda Taro è stata una ragazza che ha vissuto al centro di una comitiva di giovani studenti politicizzati a Lipsia. E poi a Parigi, dove «si teneva a galla con la macchina da scrivere», conquistando pezzi di rivoluzione.
Helena Janeczek è partita proprio da qui per il suo libro, lavorandoci alacremente per sei anni, tra ricerche e diverse stesure.

È stato difficile restituire una memoria, che non sia un santino, a Gerda Taro?

In realtà, su di lei il materiale da consultare non manca: c’è il lavoro importantissimo della studiosa tedesca Irme Schaber, che pubblicò la sua prima biografia (qualche anno fa si trovava ancora in traduzione italiana da Deriveapprodi). Al principio, per me, ci fu anche la mostra su di lei transitata al Forma di Milano nel 2007. La biografia di Schaber non ricostruiva solo la vita ma anche il corpo fotografico, spesso confuso con quello di Capa e parzialmente con David Seymour (Chim). Con il ritrovamento e la riapertura della cosiddetta «valigia messicana» è stato fatto un salto di qualità: lì c’era un quantitativo notevolissimo di negativi di Gerda Taro, conservati come tali.

Cosa ci può dire riguardo le caratteristiche della sua personalità?

Una delle cose che più mi ha affascinato è stata proprio la sua personalità inqualificabile. Le stava stretta qualsiasi griglia mentale. Definizioni come «il grande amore» di Capa, o anche quella che la vuole spavalda e imperterrita pasionaria non la coprono completamente. Gerda Taro aveva una grandissima capacità di adattarsi e un forte desiderio di autonomia. Era emancipata in una maniera forse tipica per le ragazze degli anni ’30 nella Germania della Repubblica di Weimar. Donna minuta, era dotata di un fascino brillante, contagiosa nella sua vitalità e intelligenza.

Alla sua morte Giacometti scolpì la lapide, Neruda e Aragon lessero l’orazione funebre, eppure nel tempo è stata dimenticata…

Ha avuto una carriera brevissima come fotografa. Fin dai suoi primi reportage in Spagna aveva una posizione relativamente autonoma, nonostante vi fosse andata con Capa e spesso firmassero insieme le fotografie (o anche solo lui, quando questo garantiva un cachet e una visibilità migliore). Lei già lavorava per giornali importanti e si guadagnava copertine di riviste ad alta tiratura. Morì però giovanissima (a soli 26 anni) e restò del tutto legata a quel periodo, diventando un’appendice di Robert Capa. Nel suo oblio, aleggia anche una questione politica. Quando si cominciò a ricostruire una biografia ufficiale di Capa, vigeva ancora l’idea, non del tutto veritiera, che tra i due lui fosse quello interessato a fare foto, appassionato alla causa per idealismo giovanile e impegno antifascista, lei quella più strutturalmente militante e comunista. Capa morì nell’anno peggiore del maccartismo e la sua figura sollevò diversi problemi. Era comunque stato il grande fotografo di guerra che aveva scattato l’immagine dello sbarco degli dèi, un mito arci-americano. Probabilmente, fece comodo affibbiare a Gerda la patente della comunista rabbiosa. Eppure, lei non era neanche iscritta al partito, anzi si era formata a Lipsia in una cerchia di giovani tutti simpatizzanti o militanti fuoriusciti dal partito comunista, critici della linea stalinista. Sia lei che Capa in Spagna, però, volevano che quella guerra si vincesse e l’unico paese che la stava sostenendo militarmente era la Russia.

Gerda Taro, Folla dopo raid aereo a Valencia

Studiando le immagini per comporre il romanzo, ha dedotto qualcosa di particolare sullo stile di Gerda Taro come fotografa?

Sono una scrittrice e non una esperta di fotografia. Però avendo tra le mani molti scatti, ho potuto constatare quanto fosse vera per Capa la frase famosa «se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino». Gerda Taro, invece, era portata verso una composizione più equilibrata, geometrica ed estremamente felice nel quadro d’insieme. La differenza si nota moltissimo nelle non rare occasioni in cui i due fotografavano gli stessi soggetti. Di fronte ai profughi di Malaga arrivati a Almería lei crea un quadro rinascimentale, lui si concentra sullo sconforto, la nipotina attaccata alla gamba della nonna.

In «La ragazza con la Leica» si torna a Lipsia e scorre fra le pagine un passato sconosciuto della fotoreporter. Anzi, lo sguardo è quello dei suoi amici/fidanzati di allora…

Non volevo raccontare Gerda Taro come se la sua vita cominciasse con Capa, mi interessava invece molto narrare la Germania degli anni ’30, quella della crisi che precipita nel nazismo. E volevo mostrare la rete di relazioni molto forti fra ragazzi assai giovani. Lei era la più grande del gruppo e quel cambio di ambiente (dopo il trasloco della sua famiglia) la condusse verso una rapida politicizzazione. Nel giro di breve tempo, l’ascesa al potere dei nazisti costringerà tutti loro a fare le valigie in quattro e quattr’otto e ad andarsene altrove. Volevo che l’energia di Gerda rilucesse, ma far vedere come anche i suoi amici avessero voglia di reagire e divertirsi.

La Germania descritta nel suo romanzo sfodera molte somiglianze con la nostra attualità…

Il periodo in cui Taro è vissuta e operato ha purtroppo notevoli contatti con l’oggi. Ho iniziato a scrivere in un momento in cui nell’Europa soprattutto meridionale prendeva forma una politica di austerità, producendo qualcosa di non del tutto dissimile dall’austerità tedesca anni ’30: grande disoccupazione giovanile, negozi che chiudevano, sfiducia generalizzata. Naturalmente, lì c’era un antefatto molto più pesante, il paese era uscito dalla guerra mondiale, ma la botta finale arrivò con i tagli che mandarono alle stelle il numero dei disoccupati. Speravo che, più o meno, le analogie rimanessero circoscritte a tutto ciò, ma nel tempo sono cresciute. Il ritorno alla destra, l’ostilità nei confronti dei profughi e rifugiati. Anche Gerda Taro e i suoi compagni erano tali: vivevano in Francia lavorando al nero, sfruttati. E intorno, si espandeva una propaganda di destra che parlava di invasori e di ladri di lavoro ai danni dei francesi.

Poi, ancora, le foto delle guerrigliere spagnole… Se non fosse che le nuove immagini sono a colori, non si distinguerebbero dalle miliziane curde della Siria. Bisogna ricordarsi che in Spagna si sperimentò per la prima volta la distruzione della popolazione civile: è la matrice di tutte le guerre dove si cerchi di piegare il paese non militarmente ma con l’uso deliberato della violenza inflitta agli inermi, creando profughi e morti a non finire… Per contrasto, spero di poter comunicare qualcosa di positivo attraverso quei ragazzi – Gerda e i suoi amici – che non si sono lasciati imporre il destino dalla temperie storica. Erano capaci di stare vicini, di trovare in loro stessi le risorse per non sentirsi vittime, nullità di fronte agli eventi. Noi oggi facciamo parecchia fatica a immaginare che tutto ciò sia ancora possibile.

 

(il manifesto, 6 settembre 2017)

di Luisa Muraro

 

La storia del femminismo si racconta spesso per ondate. Io sono vecchia e ho perso il conto, per cui preferisco raccontarla per titoli, quelli dei grandi libri del femminismo. Il loro successo non era moda, infatti non passano, avanzano con noi, talvolta ci precedono. E ci fanno attraversare i confini e le generazioni, creando genealogie che durano.

Recentemente abbiamo visto arrivare in Italia Rachel Moran e il suo libro. S’intitola Stupro a pagamento. Sottotitolo: La verità sulla prostituzione. Tutto molto forte ed esplicito: sono passati quattro anni dalla prima edizione, Dublino 2013, e i titoli echeggiano le importanti conferme ricevute. Ne cito una per tutte, quella di Jane Fonda: “Questo è di sicuro il libro migliore, più personale, profondo e lucido che sia mai stato scritto sulla prostituzione”.

Il titolo originale inglese dice Paid for: pagata per, che ha l’impronta della lingua inglese, understatement compreso. Il sottotitolo, per contro, rispecchia il linguaggio femminista in ogni paese: My Journey Through Prostitution, il mio viaggio attraverso la prostituzione. C’é l’idea del movimento, il partire da sé e la traversata di una condizione che l’autrice ci farà conoscere con racconti e ragionamenti, una condizione di cui ci dimostrerà quanto sia dannosa e devastante.

Non ho la competenza ma ci sarebbe da commentare anche la parte grafica; l’immagine di copertina dell’edizione italiana mi piace molto, la firma Lucia Sinibaldi.

Man mano che andavo avanti con la lettura, in me ha preso forma un pensiero definitivo: questo libro segna la fine della prostituzione. Secoli di complicità tra uomini, di assoggettamento delle donne, di moralismo ingiusto, di cattiva letteratura e di assuefazione, hanno portato la società a non rendersi conto che la ferita inflitta all’umanità con la pratica della prostituzione, non è più accettabile. E non lo è mai stata. Non ci sono regole che tengano. Così com’è accaduto per i ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di quelli che hanno più potere, verrà il momento – ed è questo – in cui la non eliminabile vergogna della prostituzione, sempre rigettata sulle donne, tornerà alla sua vera causa, che è una concezione maschile degradata del desiderio e della corporeità.

La donna che ha scritto questo libro, ne ha patito gli effetti sul suo stesso corpo, tra i quindici e i ventidue anni. E poi, passo passo, in dieci anni di scavo e di ricerca, ha trovato le parole per dirlo. Le più impressionanti sono non tanto le parole della rivolta, del non più accettabile, per quanto importanti, ma quelle che spiegano il mai: mai si sarebbe dovuto accettare. Sono, precisamente, le parole che riassumono il danno da lei patito nei termini di quello che ha perduto. Perduta, per lei, lo dice più volte (specialmente nel cap. 18, The Losses of Prostitution), anche la capacità di entrare in contatto vivo e sensibile con il proprio sé, ed è la perdita più terribile perché irrimediabile. Lo dice calmamente, ma a chi legge viene da piangere. Per fortuna, andando avanti, si trovano le parole di un riscatto simbolico: parole sublimi, direbbe Freud. Le introduce una domanda: di quella che ero prima, che cosa mi rimane “dopo la carneficina mentale ed emotiva della prostituzione”? Non riesco a stabilirlo con sicurezza, risponde, “ma so per certo che questo libro, questo svisceramento dell’esperienza della prostituzione, scaturisce da un luogo dentro di me che rifiuta la prostituzione a un livello molto profondo, per me come per le altre; di conseguenza so che, qualsiasi cosa mi abbia spinto a scriverlo, è qualcosa che la prostituzione non è riuscita a distruggere”.

L’editore, a suo tempo, si dichiarò disposto a pubblicare il racconto del suo passato, purché fosse scritto senza tanto riflettere sulla prostituzione. Le memorie di un’ex prostituta sono un prodotto che si vende, ma non era il libro che Rachel Moran gli stava proponendo. In un’altra collana o un altro editore (e un altro tipo di autrice) avrebbe pensato in alternativa a un saggio sulla prostituzione… ma neanche questo era il libro di lei.

Che cos’è, dunque, questo libro? Adesso possiamo rispondere in tante. È un grande libro femminista e, per me, un capolavoro nella ricerca della verità soggettiva, che è più vera di quella oggettiva. Quest’idea filosofica sulla verità mi viene dalla pratica femminista dell’autocoscienza alla quale il libro di Rachel Moran porta un contributo di prim’ordine che fa nuova luce sul come idee vere per tutte e tutti possano generarsi dal racconto di esperienze particolari.

La rivoluzione femminista (chiamatela come volete) non è destinata a finire nei libri di storia, come mi ha detto uno per darle importanza: “lo so che voi finirete nei libri di storia”. Non ci finirà, perché saranno semmai i libri di storia a finire così come li abbiamo conosciuti finora: prodotti per riprodursi, che ha voluto dire anche: riprodurre, tutte o in parte, le condizioni della violenza e del privilegio. La rivoluzione femminista non finirà, è fatta per cominciare ancora e ancora. Comincia da dentro, quel dentro inesauribile dell’essere di ogni cosa che è, quando trova le parole per significarsi. Detto altrimenti, comincia ogni volta che una donna prende la parola per raccontare di sé alle altre, sapendo che sarà ascoltata e creduta, e va in profondità, fino a quella che Lea Melandri ha chiamato la memoria del corpo. “Amo le parole”, leggiamo verso la fine del libro, proprio così: I love words. Si sente che è vero e si capisce che lo dica nel capitolo dedicato a smascherare i tentativi di “normalizzare” la prostituzione.

Rachel Moran appartiene a quella minoranza di esseri umani che dicono cose mai dette prima e si fanno capire da tutte e tutti, perché, nell’esporre quello che hanno dentro, accendono anche la mente di chi ascolta e può così partecipare attivamente allo sviluppo del testo o del discorso. Su questa strada, la trasgressione non è contro questo o quello, è un oltrepassamento di limiti imposti e subiti che ha luogo dentro e fuori, come un passaggio che ha le caratteristiche congiunte di una rivelazione e di un ritrovamento. Il ragionamento contribuisce al passaggio ma senza processi di astrazione e generalizzazione, in quanto la parola narrante e ragionante, oltre a fare luce, disfa, grazie al contributo di chi la riceve, le barriere che impedirebbero il passaggio della luce stessa.

Il risultato non è un libro a tesi. Se l’esperienza della lettura non modifica lo sguardo e il sentire, come fa ogni presa di coscienza, il fatto di mettersi a discutere sui contenuti probabilmente sarebbe un esercizio inutile. Ragionare e discutere sì, io dico, ma come sanno fare le femministe e i ricercatori onesti.

In seguito allo scandalo Weinstein, che ha dato inizio al movimento del Me-too, ho commentato i fatti con un breve testo entusiasta che volevo intitolare “W le Americane!” e che poi ho intitolato La vendetta di Marilyn Monroe. Al che mi hanno fatto un’obiezione. Pare che Marilyn Monroe, ripetutamente abusata da uomini potenti nel mondo del cinema, abbia detto poi, in un’intervista, che lei non dava importanza alla cosa. Parlava così, in lei, il bisogno che aveva di difendersi, pubblicamente e intimamente. Ma se qualcuno non intuisce la mossa difensiva, serve mettersi a discutere? Quello che serve è imparare a conoscere la vita, cominciando magari da quella di Marilyn Monroe.

Rachel Moran conosce e nel suo libro spiega la mossa difensiva della persona innocente che si vergogna di essere ferita e lo nega. Il perno dell’intero suo libro è un tipo d’intelligenza che ha il senso medievale dell’intus legere (leggere dentro), da lei guadagnata a costo di un ragionare che non si esonera dalla sofferenza. Chi ha questa intelligenza capta gli effetti della prepotenza e non si lascia tentare dai mezzi pensieri.

Rachel Moran conosce anche i discorsi di un liberismo che, parlando di libertà e di libera impresa, promuove la disponibilità a pagamento del corpo femminile. E li sa giudicare, alla luce della sua esperienza personale e della realtà documentata, con parole taglienti e pensieri che vanno fino in fondo. Ai tempi di Lina Merlin, la senatrice socialista che in Italia ha messo fine ai bordelli di Stato con la legge che porta il suo nome, si facevano altri discorsi, come quello dell’igiene pubblica, ma la storia era la stessa, permettere all’uomo di violare a suo piacimento il corpo femminile, con il permesso degli altri uomini. E la sfida era molto simile: far coincidere il rigetto della prostituzione con un di più di stima e simpatia per le donne che la praticano; simile era anche l’impegno di trovare la misura giusta fra le parole da dire e quelle da non dire.

Notiamo la rispondenza profonda di questo libro con la legge Merlin proprio su quest’ultimo punto della misura che fa il taglio giusto: questo sì, questo no. Ci sono dei silenzi nella legge Merlin che parlano da sé in vista di un cambiamento che è la fine della prostituzione. (Ne hanno scritto Silvia Niccolai e Chiara Calori.) Come ha fatto la legge Merlin a suo tempo e nel suo ambito, così Stupro a pagamento ci porta fino al punto in cui, più avanti, c’è solo il fatto che gli uomini la finiscano con la prostituzione.

A coloro, donne comprese, che si fermano prima e s’illudono (o fanno finta) che la risposta si trovi nella regolamentazione, arriva da entrambe, la senatrice socialista e la scrittrice irlandese, un preciso avvertimento: non ci sono regole che tengano. La ragione di principio è stata formulata anni fa da alcune giuriste di Milano, è il principio dell’inviolabilità del corpo femminile, che ritorna con parole per i nostri tempi nello slogan coniato dalla giornalista Julie Bindel: l’interno del corpo femminile non è un posto di lavoro.

 

Rachel Moran, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Nota di traduzione di Resistenza femminista, Round Robin Editrice, Roma 2017, euro 16.

 

(www.libreriadelledonne.it, 21 giugno 2018)

 

Consigli di lettura di Rosaria Guacci e Liliana Rampello

Naomi Alderman, Ragazze elettriche, Nottetempo, 2017, pp. 446, € 20,00

Romanzo visionario: cosa succede se le donne rese improvvisamente potenti da una scarica elettrica diventano capaci di ridurre gli uomini in semischiavitù? Cosa significa abusare del potere? Un tema affrontato con sapienza da un’“allieva” di Margaret Atwood.

 

Mia Alvar, Famiglie ombra, Racconti edizioni, 2017, pp. 453, € 18,00

Nove storie della diaspora filippina raccontano quello che non sappiamo, e non vogliamo sapere, di chi in esilio cerca di ricomporre la geografia dei propri sentimenti superando la distanza e i confini reali o solo immaginati. E deve convivere con il desiderio di tornare a casa.

 

Silvia Avallone, Da dove la vita è perfetta, Rizzoli, 2017, pp. 384, € 19,00

Dopo la Piombino di Acciaio e la pianura biellese di Marina Bellezza, Silvia Avallone cambia paesaggio: si va dalla Riccione dell’adolescenza alla Bologna dell’età più adulta. Altre le esperienze, altre le responsabilità: qui si parla di maternità, di una bambina non voluta ma che quando nasce ti prende corpo e anima, di rapporti ambivalenti. La scrittura dell’autrice in questa terza prova punta, più che alla forza e a una sua resa sanguigna, alla bellezza della parola, “rosa bianca” che può appartenere a tutti i personaggi del romanzo. Agli ultimi, quelli che come dice l’autrice «hanno più bisogno di essere raccontati», costretti a vivere rapporti difficili, ammassati in tristissime case popolari ma portatori sempre di respiro, movimento, desiderio di una vita migliore. L’autrice ha più volte dichiarato che uno scrittore non deve cambiare la società ma dare un’altra possibile idea del mondo. Che muta, e questo è il dono che arriva al lettore.

 

Emanuela Canepa, L’animale femmina, Einaudi Stile Libero, 2018, pp. 272, € 17,50

Rosita è una studentessa che vuole emanciparsi dalla famiglia per andare a studiare altrove. Ci riesce ma deve anche lavorare perché ha perso la borsa di studio che aveva guadagnato. Dopo tentativi fallimentari durati alcuni anni, a Padova, il luogo scelto per i suoi studi, incontra un maturo avvocato che si dichiara disposto ad aiutarla impiegandola nel suo ufficio. Professionista irreprensibile, affascinante e manipolatore quanto basta, riesce a nascondere la sua misoginia che, come scopriamo via via nel romanzo, ha radici profonde nel suo passato. L’uomo lavora sulla dipendenza di lei: sensibile e insicura, vorrebbe opporsi ai desideri di lui ma gli è legata da una sensualità di cui non ha piena coscienza. Una vittima perfetta. Un animale femmina, di quelli che tieni al laccio ma che nella cattività imparano a conquistare, con una strategia inaudita, la propria libertà.

Romanzo femminista nel senso migliore del termine, capace di raccontare con mano sicura i rapporti di potere che imprevedibilmente, nella passione, possono legare uomini e donne, L’animale femmina ha vinto all’unanimità il Premio Calvino 2018.

 

Emma Cline, Le ragazze, Einaudi, 2016, pp. 344, € 18,00

Evie ha quattordici anni, l’unica cosa che vuole è che qualcuno si accorga di lei. Leggete la prima pagina di questo romanzo e scoprirete in poche righe la profondità di una prosa esatta, di una lingua capace di dire il desiderio di un’adolescente, la sua realtà emotiva, sensoriale e mentale.

 

Elena Favilli e Francesca Cavallo, Storie della buona notte per bambine ribelli, Mondadori, 2017, pp. 224, € 19

Virginia Woolf è una ragazza timida ed emotiva che si sfoga con la scrittura, Margaret Thatcher, una donna “ammirevole”. Favilli e Cavallo, una sorta di bambine ribelli italiane trapiantate in America (la definizione è loro) – una giornalista fondatrice di Timbuktu, la prima rivista iPad realizzata per bambini, l’altra autrice e regista teatrale che con Elena ha fondato Timbuktu Labs, laboratorio mediatico per l’infanzia – raccontano in chiave del tutto personale la storia di cento donne famose e non di tutto il mondo. Ci sono come già detto Woolf e Thatcher e ancora la Regina Elisabetta, Frida Kahlo, Rita Levi Montalcini, Serena Williams e via elencando; dalle piratesse alle esploratrici, dalle infermiere alle astronaute e alle tatuatrici. Tutte donne ribelli al destino femminile come lo può, o meglio lo poteva percepire un tempo, una bambina. Storie di donne che ce l’hanno fatta e la cui vita può essere raccontata come una bella favola della buonanotte. Con illustrazioni originali di sessanta illustratrici, alla fine c’è perfino una pagina bianca in cui la piccola lettrice può disegnare se stessa come si vede e si percepisce. Il libro, quasi un fumetto prezioso, è dedicato: «Alle bambine ribelli di tutto il mondo: sognate più in grande, puntate più in alto». È stato nella classifica dei bestseller 2017 e ha un recente sequel: Storie della buona notte per bambine ribelli 2.

 

Chimamanda Ngozi Adichie, Quella cosa intorno al collo, Einaudi, 2017, pp. 224, € 19,00

Dodici racconti, tra Nigeria e Stati Uniti, due mondi in conflitto e da attraversare con il carico di tutti i sentimenti, anche i più contrastanti. “Quella cosa intorno al collo” è il senso profondo della solitudine, di non appartenenza di Akunna. Ma lei non è la sola interprete del dolore di chi è smarrito, ma deve vivere.

 

Rossella Postorino, Le assaggiatrici, Feltrinelli, 2017, pp. 285, € 17,00

Come rivela una nota finale del romanzo, durante la guerra, nel quartiere generale di Hitler fu assunta un’assaggiatrice, Margot Wölk, per evitare che il cibo del Führer venisse avvelenato. Nel romanzo, Rosa Sauer, la protagonista, ne assume le sembianze: ha fame, una fame nera e per saziarla è disposta a tutto. Comincia così il romanzo di Rossella Postorino. Rosa non è la sola ad avere quell’ingaggio; tra le altre donne convocate allo stesso scopo, incontra l’ostile Elfriede il cui fascino la soggioga e il tenente nazista Ziegler.

«Mi ero fidata di un tenente nazista, lo stesso che io avevo amato. Non ho mai detto nulla e non lo dirò. Tutto quello che ho imparato è sopravvivere… Il mio corpo aveva assorbito il cibo del Führer, il cibo del Führer mi circolava nel sangue. Hitler era salvo. Io avevo di nuovo fame.», dice Rosa, alter ego dell’autrice nel romanzo. Il rapporto con Ziegler la porterà in territori inesplorati: così come inesplorato è l’animo umano e gli orrori che può ordire. Già autrice di Corpo docile e L’estate che perdemmo Dio (romanzi di spessore editi anch’essi da Einaudi). Le assaggiatrici è finalista al Premio Campiello 2018.

 

Monica Romano, Gender (R)evolution, Mursia, 2017, pp. 222, € 16,00

Monica Romano, già autrice di Trans. Storie di ragazze XY, ha firmato sempre per Mursia, nel 2017, Gender (R)evolution. Tra memoir e romanzo, Gender (R)evolution racconta frammenti di vita e percorsi dell’autrice e di altre attiviste del movimento trans internazionale. Come Romano ha dichiarato in un’intervista sul web, il suo è stato un lavoro in cui ha cercato di amalgamare rigore e distacco sul piano della narrazione storica, ma anche l’amore, l’ammirazione e la gratitudine che prova per “queste combattenti”. Le combattenti sono le attiviste che da Stonewall, passando per figure come quella di Renée Richards, icona sportiva degli anni ’70 ed altre ancora, arrivano ad Hande Kader, uccisa in modo orribile a Istanbul pochi giorni dopo il Gay Pride che l’aveva vista sfidare con fermezza gli attacchi della polizia. Che il tema sia più o meno congeniale, che lo si ascriva all’ideologia lgbt o che si aderisca con cuore e mente alla narrazione, l’autrice, giovane donna trans, tiene viva l’attenzione di chi prende in mano il libro. Legato a un’attualità politica battente.

 

Sally Rooney, Parlarne tra amici, Einaudi, 2018, pp. 304, € 20,00

Intelligenza, autocontrollo, freddezza: tutto questo sarà utile a Francis per imparare a trovare il senso delle relazioni? Amore, tradimento, temi classici sotto la lente di un’esordiente che scrive con notevole sensibilità una storia contemporanea.


(www.libreriadelledonne.it, 21 giugno 2018)


Numero 15

La lingua delle donne taglia e cuce

Il diavolo affila la lingua delle donne. Uno dei motivi più presenti nelle “Panjske končnice”, arnie per le api decorate con scene popolari, diffuse in Slovenia.

http://www.diotimafilosofe.it/edizione/numero-15-2018/

La Rivista di Diotima in rete

ISSN 2384-8944

INDICE

PER COMINCIARE

La lingua delle donne taglia e cuce

PER AMORE DEL MONDO

www.diotimafilosofe.it

Audre Lorde Litania per la sopravvivenza

INTRODUZIONE

Diana Sartori La lingua delle donne taglia e cuce

LA RIVOLTA LINGUISTICA (Grande Seminario 2017)

Sara Bigardi Breve cronaca del Grande Seminario

Wanda Tommasi Parla come mangi

Elisabeth Jankowski La nostra brutta bella lingua

Maria Livia Alga Per la libera circolazione delle lingue

María José Gil Mendoza La lingua che non scordo

María Milagros Rivera Garretas Né inglese né spagnolo. Tradurre la poesia di Emily Dickinson

Federica Giardini Ripensare il materialismo

Anna Simone Il linguaggio neoliberista e la trasformazione della società

LINGUA MATERNA

Ursula K. Le Guin sulla lingua materna. Una silloge

a cura di Diana Sartori

SU FEMMINISMO FUORI SESTO

Nadia Setti Il libro aperto del femminismo

María Milagros Rivera Garretas Feminismo sin fiel

Dorothee Markert Gedanken zum Diotima-Buch Femminismo fuori sesto

Fina Birulés ¿Tiempo de feminismo? Un movimento che non può fermarsi

Delfina Lusiardi L’energia del serpente

Sara De Falco Femminismo o transfemminismo

PAROLE SANTE

Parola di donna

La lingua delle donne taglia e cuce

www.diotimafilosofe.it

DI BOCCA IN BOCCA

Laura Bellin Il nutrimento che non passa

VIOLENZA MASCHILE

Anna Maria Piussi Per un’altra civiltà di rapporti

Barbara Verzini Passione

ALTRI MONDI AL MONDO

Mariateresa Muraca Come un seme nella terra. La mistica del Movimento di Donne Contadine (Brasile)

SCRITTURE

Francesca Riccardi Far esperienza dello straordinario nell’ordinario

SU ADATEORIAFEMMINISTA

Chiara Zamboni La teoria non è un ombrello

VISIONI

Barbara Verzini Introduzione a Riparare le relazioni

Donatella Franchi Riparare le relazioni

HO LETTO

Chiara Zamboni Due voci vicine e diverse sul pensiero di Etty Hillesum: Giancarlo Gaeta e Antonella Fimiani

Sara Bigardi “La penombra toccata di allegria”: leggere la storia per orientare la vita con la politica. Una lettura del testo “Esperienza, politica e antropologia in Maria Zambrano” di Sara Del Bello

Giulia Testi Leggere l’io sul piano dell’esperienza, per una metamorfosi in rapporto alla natura. Un confronto tra Rocco Ronchi e Rosi Braidotti

Caterina Diotto La ragazza che ero, la riconosco. Schegge di autobiografie femministe

Antonietta Potente In amicizia con Simone Weil. Su Gloria Zanardo, Un’apertura di Infinito nel Finito

TESI DI LAUREA

Anastasia Rossato Genealogie femminili: ereditare nel femminismo

Angelica Paroli Nancy Fraser: una lettura neo-polanyiana della crisi capitalista

di Alessandra Pigliaru

Tempi presenti. Conosciuta e amata da milioni di lettori grazie al suo «Amabili resti», un incontro con la scrittrice statunitense a partire dal memoir «Lucky» in cui racconta il suo stupro del 1981

«La dimostrazione più impressionante di quanto fossi innocente era che a diciott’anni credevo ancora in un mondo giusto». Difficile immaginare qualcosa di più lieve di una ragazza che, in piena adolescenza, si sporge con fiducia incrollabile verso il futuro. Sembra quasi che la felicità del circostante possa essere convocata per il solo desiderio di somigliarle.

Siamo nel 1981, anni di poesia letta e scritta, quando la giovane Alice Sebold, percorre la galleria sotterranea in cui viene violentata. Altri diciotto anni trascorrono prima della pubblicazione del suo libro che racconta quella terribile esperienza. Anche per questo, Lucky (e/o, pp. 333, euro 9,90, traduzione di Claudia Valeria Letizia) è un memoir coraggioso e straordinario. Dopo la prima uscita statunitense nel 1999 (e una prima traduzione italiana nel 2002), è questa recente una riedizione che arriva in un momento storico e politico importante. Sia per la potenza di un testo che percorre una tra le vicende più orribili che possono abbattersi nella vita di una donna, sia perché Alice Sebold, nella introduzione aggiornata al gennaio 2017, colloca il processo culturale entro cui si muove il fenomeno della violenza nella amara presa d’atto della elezione di un «molestatore seriale nonché palpeggiatore di figa, eletto quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti».

Occhi e incarnato chiari, oggi incontriamo all’età di 54 anni Alice Sebold, il volto di chi ha cercato di non cedere all’inferno che l’ha attraversata. Di questo laborioso rifiuto in cui non conta la retorica sciocca e inutile di chi immagina che le disgrazie ci rendano più sensati e saggi, la scrittrice (nota al grande pubblico con il suo indimenticabile Amabili resti) – è piuttosto sicura: «Può succedere che qualcuno, dopo un grande trauma, si senta più forte ma temo che perlopiù vi sia l’esigenza di raccontarlo a se stessi. Qualcun altro dice di essere contento che gli o le sia capitato perché altrimenti non sarebbe la persona che è. È un’affermazione comune tra i sopravvissuti a una guerra, al cancro, tra coloro che sono rimasti orfani dopo una calamità naturale o paralizzati a causa di un incidente d’auto. E, per molto tempo, l’ho ripetuta anch’io. Ma poi ho smesso, perché se avessi la possibilità di cancellare quanto mi è capitato lo farei senza indugio e in mancanza di una gomma che me lo consenta ho trovato, con grande fatica, una strada possibile solo nella scrittura».

Nonostante da bambina abbia dovuto lottare con la dislessia, cresciuta in mezzo ai libri, è la lettura ad averla educata allo scrivere. «Eppure Lucky non lenisce il dolore, anzi. Non ho scritto il libro per me stessa né come atto di guarigione. Se avessi voluto guarire avrei potuto scrivere poesie o altro, non raccontare quanto mi è capitato. Invece è stato più qualcosa di prossimo alla responsabilità verso un pubblico. I libri sono dei doni, quando poi l’argomento è così crudo l’effetto di quel dono deve poter essere controllabile».

Gesticola lievemente, mentre ci racconta con fermezza quanto faccia la differenza dare il nome esatto alle cose: «Durante la prima presentazione pubblica di Lucky, diciotto anni fa, sono stata introdotta come l’autrice di un testo basato su una vicenda terribile. Quando mi è stata data la parola ho subito detto “stupro” perché prima di qualsiasi altra cosa viene la nominazione, capace di innescare un processo all’interno della cultura. Solo dopo arriva il resto. Compresi i malintesi, le battute o tutto ciò che non si capisce né si vuole spesso accettare intorno allo stupro. Ma prima bisogna dire la parola, indicarla. È un punto di partenza irrinunciabile».

Se la protagonista di Amabili resti è una ragazzina uccisa, in Lucky il tratto autobiografico è segnato dalla sopravvivenza a una violenza sessuale. L’arco non è solo dettato da variazioni letterarie di circostanza, conduce invece a un nodo – anzitutto politico – che la scrittrice statunitense segnala con chiarezza: «Nella parola stupro c’è una minaccia di fondo. Morire o rimanere in vita dopo un simile evento è qualcosa che condiziona la pubblica opinione. Quando una donna viene assassinata se è stata anche stuprata la sua fine diventa ancora più dolorosa, è come una doppia rapina. Se infatti nel comune sentire essere violate significa perdere la propria purezza, con la morte si espia quella perdita. Quando invece si sopravvive a qualcosa di così enorme non c’è un giudizio netto. Una ragazzina morta fa concentrare sul colpevole. Quando si sopravvive a un’aggressione c’è qualcosa che – di contro – fa attribuire la colpa ai vivi, che divide spesso ambiguamente quella colpa». La morte «libera» così dai fraintendimenti perché «più onorevole rispetto l’ardire del rimanere – nonostante tutto – vive».

Il testo segue il passo di una fortuna capovolta, di un paradosso incomprensibile e al contempo schiacciato sulla necessità di quanto successo. «La polizia disse che ero stata appunto fortunata perché non mi avevano uccisa; mio padre disse che era contento fosse successo a me e non a mia sorella perché io ero più forte. Il rovescio della fortuna – precisa poi l’autrice – restituisce anche la cifra dell’ironia, la più amara e drammatica ma pur sempre l’ironia con cui cerco di guardare le cose».

È tuttavia il «lavoro costante con le donne che hanno subito violenza ciò che di cruciale va fatto. Ho avuto la mia personale autorizzazione quando ho conosciuto le prime che venivano a seguire i miei reading. Da allora, ogni anno, ne incontro tantissime. Ciò che è fondamentale, ancora più delle parole, è la presenza, essere insieme». Ecco perché osserva il movimento #metoo con interesse, perché c’è un tratto di esperienza personale che racconta una storia complessa – non solo rivelazione da parte di chi è stata abusata ma anche il baratro che si cela dietro chi ha agito la molestia. «Intravvedo una speranza nell’apertura di una discussione pubblica. Perché credo vi sia una forma di empatia tra chi ha subito un trauma e chi no. Con Trump abbiamo a che fare con la prepotenza, con l’onnipotenza della cultura machista. Mi auguro possa essere questa una occasione di comunanza contro qualcosa da rigettare. Si potrebbe cominciare con il contrapporre alla onnipotenza la risorsa della vulnerabilità, per esempio».

Da ascoltare, oltre che da leggere, con cura e attenzione, Sebold ci tiene a specificare come il suo non sia stato un atto di denuncia, né il tentativo di comporre un trattato sociologico sulla violenza maschile contro le donne. «Diffido degli approcci troppo teorici, senza dati di esperienza rischiano di non arrivare a tutte e tutti. Ho inteso scrivere qualcosa che non risultasse pesante, chi avrebbe letto si sarebbe fidato. Ho desiderato questa fiducia totale. Non ho condannato il genere maschile, la restituzione da parte dei lettori è stata infatti corrispondente alle mie intenzioni. Certo non sollevo nessuno ma nemmeno vorrei fare analisi generaliste e grossolane».

Ed è qui che si intuisce la ragione per cui, oltre al ritratto impietoso del suo stupratore – condannato a pagare penalmente – l’autrice di Lucky sceglie di raccontare le sue successive relazioni con altri uomini. Non si arrende a una visione «prestazionale» che, dice, «prevede una reazione attiva verso la violenza sessuale subita; quindi palestra, impegni costanti e molto sesso fin da subito». A schiudersi per lei è invece la scoperta, dopo molto patimento durato più di un anno, di una quiete, cioè l’imprevisto di una intimità ritrovata.

Sceglie così l’amore disarmante per sigillare e cambiare di segno la prostrazione. Dice sì alla prossimità di un uomo caro invece dell’odio sterminatore. Solo in questo modo la rabbia può restare intatta e generativa. Quella di Alice Sebold, di rabbia, ha un sorriso impareggiabile e stretto come la linea degli occhi. Si impara molto da certi precipizi del volto altrui. A quel graffio della voce, che a capofitto arriva fino al cuore, a quella impercettibile intermittenza oculare mentre tiene con sé il peso di quanto vissuto, tantissime donne – e altrettanti uomini – possono dire grazie.

(il manifesto, 31 maggio 2018)

di Anna Paola Moretti

 

Qualche tempo fa, in occasione della presentazione del libro Leda. La memoria che resta, col quale nonostante la scarsità delle tracce documentali avevo ricostruito la vita della diciottenne partigiana fanese Leda Antinori, Barbara Montesi, una giovane storica dell’Università di Urbino, aveva accostato quel lavoro alle modalità di ricerca utilizzate da Natalie Zemon Davies, suscitando la mia curiosità. Per conoscere Natalie Zemon Davis ho scelto di leggere La passione della storia. Un dialogo con Denis Crouzet, in cui lei dà conto della sua lunga esperienza. È un nome celebre, associato anche al volume Storia delle donne. Dal Rinascimento all’età moderna. È stata una pioniera; all’epoca in cui iniziò, oggi ha quasi novanta anni, c’erano pochissime storiche e alcune studiose di letteratura. Negli anni Cinquanta della Guerra Fredda ha attraversato l’ostracismo anticomunista del maccartismo americano, senza lasciarsi condizionare da risentimento o amarezza. I suoi interessi si sono rivolti prevalentemente al XVI e XVII secolo in area francese, scegliendo protagoniste e protagonisti rimasti ai margini della storiografia. Dice di aver fatto storia delle donne per via indiretta, per esempio, in occasione del suo studio sul dono, osservando i differenti comportamenti tra donne e uomini nelle diverse dinamiche tra dono e scambio.

Mi rendo conto di quanto definizioni categorizzanti, che la indicano come storica sociale o della microstoria, possano rivelarsi riduttive e fuorvianti. Dalle sue parole scopro infatti che non si è interessata solo alla condizione delle donne, ma alla soggettività di ciascuna a cui ha rivolto la sua attenzione. Nei confronti di Maria Sybilla Merian dice di voler “vedere quello che lei avrebbe visto”, riguardo a Glikl bas Yehudah Leib vuole “salvare questa donna, ridare valore a questa donna, restituirla a lei stessa”; mentre di una schiava nel Suriname del XVIII secolo, scrive: “Cerco la sua voce, le sue speranze, i suoi pensieri”. Della ricerca su quest’ultima, ancora in corso al momento dell’intervista, non ho trovato indicazioni di successiva pubblicazione, solo qualche segnalazione in interviste o conferenze.

Natalie Zemon Davies ha scritto di vite in cui donne o uomini hanno conservato la loro dignità malgrado sofferenze e delusioni; è il senso di quelle vite che vuole non vada perduto: frammenti di umanità, risposte umane a situazioni di vincolo, la capacità di elaborare soluzioni ai problemi da fronteggiare, di cavarsela con accorgimenti, astuzie, strategie per sopravvivere “tra”: “un’arte di vivere”. Dice tuttavia di non scrivere delle biografie, che mirano piuttosto all’esaustività, lei invece concentra la sua attenzione su alcuni aspetti per ottenere un’apertura sulla società, per rendere visibile la natura delle pressioni, delle risorse e delle possibilità che entrano in gioco in una vita individuale.

Lavora con empatia sulle fonti, mettendo in gioco la sua personale esperienza e il dialogo che ne scaturisce diventa dono e ricompensa di un lavoro continuo di apprendistato e riapprendistato, un esercizio di responsabilità. La ricerca sulle storiche vissute in Europa prima della Rivoluzione francese era stata “anche un modo per riflettere sulla mia situazione”, su “cosa significa essere una donna che scrive di un argomento storico”. Nel Prologo, sviluppato come scena teatrale, a Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, aveva convocato a una immaginaria conversazione con lei Glik bas Yehudah Leib, Maria Sibylla Merian, Marie de l’Incarnation, tre donne europee che in contesti diversi avevano scritto nel XVII secolo, dicendo loro: “Vi ho messo insieme perché volevo imparare dalle vostre somiglianze e differenze”.

Si situa simultaneamente al centro e al margine, muovendosi continuamente dall’una all’altra visuale, usa un doppio registro di partecipazione e di rigore: “questa storia richiede l’empatia e la distanza”; come lei lo crede anche Graziella Bernabò. Quando le fonti sono scarse, cosa frequente soprattutto per le vite delle donne, con uno sguardo ravvicinato Zemon esplora i contorni e i dintorni, per evocare ciò che è noto della mentalità relativa a un contesto analogo. E usa l’immaginazione.

L’immaginazione non genera prove, ma possibilità, è una facoltà conoscitiva con ancoraggio al reale, in grado di aprire varchi che restituiscono al reale la sua complessità, come ci ricorda Wanda Tommasi, filosofa di Diotima. Tuttavia la storica ha la responsabilità di indicare in ogni momento quanto di quello che afferma è documentato e allora Natalie Zemon Davis segnala puntualmente i passaggi tra realtà provata e possibile ricorrendo al condizionale o a segni di espressione: “forse”, “è certo”, “probabilmente”. Afferma con consapevolezza: “io scompiglio la frontiera tra poesia e storia così come è stata fissata da Aristotele tanto tempo fa. […] ricorro al possibile in ragione dei silenzi delle fonti”. Il superamento della divaricazione indotta anche tra poesia e filosofia ha impegnato la riflessione di María Zambrano, per la quale esiste un momento iniziale in cui sentire e capire non sono separati.

Zemon ribadisce con forza a Crouzet, suo interlocutore, che non si tratta di operare una proiezione o di scivolare in un’identificazione: “Voglio fare i miei salti di immaginazione a partire da un trampolino di dati” e con riferimento alle storiche antecedenti il XIX secolo dice: “per ciascuna potevo attestare l’universo mentale nel quale avevano scritto e ciò che i lettori maschi si aspettavano da loro”.

L’importanza di questa metodologia era stata colta e sottolineata da Carlo Ginzburg: “La ricerca (e la narrazione) della Davis non s’impernia sulla contrapposizione tra ‘vero’ e ‘inventato’ ma sull’interpretazione, sempre segnalata puntualmente, di ‘realtà’ e ‘possibilità’ (al plurale). […] il margine di incertezza […] innesca un approfondimento dell’indagine, che lega il caso specifico al contesto, inteso qui come luogo di possibilità storicamente determinate. […] ‘Vero’ e ‘verosimile’, ‘prove’ e ‘possibilità’ s’intrecciano, pur rimanendo rigorosamente distinti”. Aggiungeva: “Una maggiore consapevolezza della dimensione narrativa non implica un’attenuazione delle possibilità conoscitive della storiografia ma, al contrario, una loro intensificazione”. Ginzburg richiamava anche le riflessioni maturate dal Manzoni successivamente alla pubblicazione del suo romanzo storico I promessi sposi: “Non sarà fuor di proposito l’osservare che, anche del verosimile la storia si può qualche volta servire […] distinguendolo così dal reale. […] Infatti, per poter riconoscere quella relazione tra il positivo raccontato e il verosimile proposto, è appunto una condizione necessaria, che questi compariscano distinti. Fa, a un di presso, come chi, disegnando la pianta di una città, ci aggiunge, in diverso colore, strade, piazze, edifizi progettati; e col presentar distinte dalle parti che sono, quelle che potrebbero essere, fa che si veda la ragione di pensarle riunite. La storia, dico, abbandona allora il racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera possibile, a ciò che è lo scopo del racconto. Congetturando come raccontando, mira sempre al reale: lì è la sua unità”.

Anche Monica Martinat, preoccupata dell’indebolirsi dei confini tra storia e fiction veicolato dai media e dal mercato editoriale, riconosce a Zemon Davis una modalità magistrale, purtroppo a suo dire non troppo seguita dagli storici: “L’accettazione della parzialità del documento storico, del limite, dell’incertezza, diventa una fonte di possibilità cognitive interessanti”. “Io abito nella Possibilità” (I dwell in Possibility, [657]), scriveva Emily Dickinson.

Non sono tanto gli oggetti su cui ha scelto di lavorare Zemon Davis a destare il mio interesse, ma il suo sguardo.

Uno sguardo simile era arrivato a me per altra via e mi aveva sostenuto nella ricerca su Leda. Lo avevo scoperto in Marirì Martinengo che, nella sua appassionata e rigorosa ricerca sulla nonna paterna ne La voce del silenzio, scriveva: “è a partire dalla mancanza apparente o carenza o trascuratezza o interpretazione lacunosa dell’esistente che voglio ‘fare storia’”; “si può ‘fare storia’ anche in assenza o in penuria di documenti certi e attestati, facendo ricorso alle testimonianze o agli scritti dei contemporanei”; “Ho imparato da tempo a decifrare il linguaggio dell’assenza”; “L’area della non scrittura non è né muta né meno significante delle altre”. Lei mi aveva mostrato una storia che “non respinge l’immaginazione” rimanendo sempre ancorata a “pietre autentiche”, come diceva con le parole di Marguerite Yourcenar. In più aveva interrogato se stessa come documento vivente, depositaria di un nodo irrisolto che, sciolto, aveva aperto a nuove categorie interpretative dei fatti vissuti; la nuova pratica di storia vivente, sviluppata nel gruppo che lavora con lei da oltre vent’anni, già raccontata sulla rivista DWF (n.3/2012) e sul sito della Libreria delle donne di Milano, è stata oggetto di un convegno a Milano nel marzo 2017.

Natalie Zemon Davis mantiene la ricerca storica legata a un impegno politico. È conscia della tragicità della storia umana, ad esempio la spirale di violenza religiosa che ha insanguinato il Cinquecento europeo conosciuta coi suoi studi, o la Shoah che la tocca come ebrea. Nonostante “la guerra che continua ancora e sempre”, pensa che la storia possa trasmettere anche altro dalla violenza, poiché in ogni sistema esistono degli interstizi in cui si può definire una forma di libertà. “Voglio che la gente di oggi sia capace di collegarsi al passato guardando le tragedie e le sofferenze, le crudeltà gli odii, la speranza e la bellezza. Gli uomini del passato cercavano di dominare l’uno sull’altro, ma si aiutavano anche. Facevano cose sia per amore che per paura, questo è il mio messaggio. Soprattutto voglio mostrare che le cose potevano essere diverse, che erano diverse e che vi sono alternative. […] Voglio essere una storica della speranza”, poiché rivelare “i possibili del passato ci fa pensare i possibili per il presente e il futuro. Per me questi possibili del passato invitano all’impegno umano e suggeriscono un barlume di speranza per l’avvenire.

Come non avvicinare queste parole a quelle di filosofe che ho imparato ad amare come pensatrici della differenza sessuale? Mi richiamano nuovamente María Zambrano e la sua analisi sulla storia tragica e sacrificale, per umanizzare la quale è necessario recuperare il proprio passato, mettere allo scoperto le piaghe nascoste, sciogliere le amarezze contenute nella memoria; ciò che è rimasto presenza muta riaffiora e si protende verso il futuro, verso l’aurora di una nuova crescita; aurora che si ripete continuamente, così che le cose “si mostrano a noi come sempre nascenti”.

Mi ricordano anche la recente scelta di occuparsi del sangue risparmiato fatta da Anna Bravo, che scrive: “[…] tra gli storici c’è un’implicita accettazione dell’idea che siano la violenza e la guerra che fanno la storia. In realtà, come diceva Gandhi, se fosse stata egemone la guerra noi non saremmo vivi. Quindi, la domanda vera, anche da una prospettiva storiografica, è chi abbia risparmiato il sangue nelle grandi vicende storiche e come abbia fatto. Le storie di sangue risparmiato bisogna saperle riconoscere, bisogna saperle vedere”..

Accade che donne distanti, provenienti da formazioni diverse, dotate di capacità di ascolto e di interrogazione, diano vita a pensieri che risuonano densi di convergenze e di elementi in comune.

Tessere il filo per rendere visibili i nessi possibili, ponendo a interprete la nostra soggettività, è creare genealogia femminile, espressa da Mary Daly con la metafora delle radici invisibili che si collegano sotto terra a formare un reticolo da cui attingere energia. Quel nutrimento aiuta a dire le urgenze che fanno parte della nostra consapevolezza di oggi: “qualcosa che il mio presente richiede che sia detto proprio da me in dialogo fedele con le fonti che ho scelto di cercare e il caso mi ha portato a trovare”, come ha scritto María-Milagros Rivera Garretas. Le sue parole, che a Roma nel 2006, al convegno “Il pensiero dell’esperienza”, mi avevano sorpreso tanto da invitarla poco dopo a Pesaro per un incontro seminariale, ci sollecitano a rinnovare costantemente il proprio mettersi in gioco nella scrittura femminile della storia.

 

Nota. Mi sono confrontata più volte con Luciana Tavernini che ringrazio.

 

Riferimenti bibliografici

Graziella Bernabò, Scrivere biografie di donne, in «DWF» n.3, 2012; cfr. anche l’intervista a lei di Marina Santini e Luciana Tavernini, Parlare con onestà alle persone oneste, in«Via Dogana» . 88 marzo 2009

Anna Bravo, “Sangue risparmiato”, in «Gli asini», n. 19 gennaio/febbraio 2014; cfr. anche La conta dei salvati. dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato”, Laterza, Bari 2013

Mary Daly, Quintessence: il viaggio metapatriarcale di Rabbia e Speranza, a cura di Luciana Percovich, Libera Università delle donne, Milano 2003

Emily Dickinson, Poesie e lettere, traduzione di Margherita Guidacci, Sansoni, Firenze 1961

Carlo Ginzburg, Prove e possibilità. (Postfazione a Natalie Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento, 1984), in Id Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce.Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006

Monica Martinat, La frontiera tra vero e finto, seminario Università di Padova 11/11/2013 in https://www.youtube.com/watch?v=URqXrAERFEU; cfr. anche Monica Martinat, Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporaneo, Milano: Et al, nonché il resoconto dell’incontro del 9/11/2013 al Circolo della rosa a Milano in http://www.libreriadelledonne.it/tra-storia-e-fiction-il-racconto-della-realta-nel-mondo-contemporaneo-et-al-edizioni-2012.

Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005. Vedi anche http://www.libreriadelledonne.it/category/approfondimenti/storia_vivente/

María-Milagros Rivera Garretas, La storia vivente: una storia più vera. I guadagni di una relazione che non ha fine, in «DWF» n. 3, 2012

Anna Paola Moretti, Maria Grazia Battistoni, Leda. La memoria che resta, Anpi Fano, 2015

Wanda Tommasi, Introduzione a Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale, Liguori, Napoli 2009

María Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000

María Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 2010

Intervista a Natalie Zamon Davis, in «Memoria. Rivista di storia delle donne», n.9/1983

Natalie Zemon Davis, Arlette Farge ( a cura di) Storia delle donne Dal Rinascimento all’età moderna, in Georges Duby, Michelle Perrot, Storia delle donne in occidente Laterza, Bari 1991.

Natalie Zemon Davis, Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Laterza Bari 1996

Natalie Zemon Davis, La passione della storia. Un dialogo con Denis Crouzet, a cura di Angiolina Arru e Sofia Boesch Gajano, Viella, Roma 2007

https://bukubooks.wordpress.com/jews/mattheus/, http://www.skript-ht.nl/vervolg-interview-natalie-zemon-davis/

 

(Duoda, n. 54, 2018)

di Daniela Bezzi

«Fin da bambina, era come se nel mio intimo ci fosse un tizzone di brace ardente. Crescendo, fui testimone della violenza domestica su mia madre e già in giovane età questa brace prese la forma di poesie…» Così si presenta Jacinta Kerketta nell’incipit alla sua prima raccolta di poesie dal titolo Angor, appena pubblicata dalla Miraggi Edizioni di Torino, con il titolo appunto Brace. Una quarantina di poems vibranti di tensione per quel continuo stupro di terre (oltre che di corpi) del quale è stata testimone fin da bambina nelle zone tribali del sud Jharkhand, in cui è nata. Land grabbing, sfollamenti, regolamento di conti tra minatori e caporali, dispute regolarmente risolte in favore del più forte, foreste teatro di ogni genere di saccheggio – e poi la fame, “che diventa fuoco”; campi impunemente sacrificati, magari a una diga. E la città che avanza, annulla/rimescola ogni identità: questi i temi che ricorrono nel lavoro di Jacinta, fortemente intriso di determinazione al riscatto e impegno a tutto campo, come animatrice di workshop di scrittura creativa nei villaggi, come role model per tante donne (e anche maschi) più giovani di lei, come esploratrice di quell’infinito field work che è il personale/politico – e quindi appunto scrittrice.

In questi giorni Jacinta è in Italia, protagonista di un lancio degno di una star: ieri era alla Ca’ Foscari di Venezia, per una lecture dal titolo quanto mai intrigante, Voices of Nature, Voices of Human Beings. Milano la vedrà oggi ospite della Libreria delle Donne, e lunedì dell’Università Statale; e poi Torino, Roma (tutti i dettagli nel Box) «e senza alcun bisogno di crowdfunding, perché ci sono situazioni, come questa che siamo riusciti a mettere in moto, dove bastano e avanzano le relazioni» commenta il suo editore/agente/amico Johannes Laping, che da anni frequenta quelle zone in rivolta in cui lei è nata, come attivista della piccola Adivasi Koordination che ha contribuito a fondare in Germania nel 1993 – quando le popolazioni indigene dell’India non se le filava nessuno…

Quel che segue è il succo di una lunga chiacchierata telefonica con Jacinta Kerketta qualche giorno fa, in attesa di incontrarla di persona.

 

Il tuo CV racconta di uno strepitoso debutto professionale come giornalista: borse di studio, premi, promettente carriera da inviata nelle zone calde del centro India, che poi interrompi per darti alla poesia…  

Avevo deciso di diventare giornalista, iscrivendomi alla Facoltà di Mass Communication di Ranchi (e per questo devo ringraziare mia madre), dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia. Avevo voglia di raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là, e poi i Premi, alcuni importanti… al punto da farmi decidere a un certo punto di lasciare il quotidiano Prabhat Khabar (testata in lingua hindi con enorme seguito, ndr) e continuare come free lance. Una gioia alzarmi presto la mattina, fiondarmi dove mi pareva a bordo del mio scooter, il pomeriggio tutto per me, pubblicare quel che volevo, magari solo sulla mia pagina Facebook – ed è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.

 

Ho dato uno sguardo alla tua pagina FB: non c’è componimento che non registri centinaia di condivisioni, ti ho visto nominata “ambasciatrice della causa adivasi fuori dal Jharkhand”…

Sorprendente anche per me. L’unica spiegazione è che la poesia risuona con un’intimità speciale, in immediata sintonia con la musicalità rapsodica della gente per cui scrivo, che magari è inurbata da due generazioni ma nel suo intimo non ha perso il ricordo di ciò che nutre anche il mio scrivere: e parlo del sarna, quello che voi tradurreste come animismo, e che per noi è proprio un sentirsi dentro, ritrovarsi nella propria essenza dentro il creato, immaginare ciò che certi alberi o pietre hanno visto, in dialogo con il profilo delle colline, con la voce dei fiumi… un senso di viscerale appartenenza che nei miei versi si intreccia a fatti di inaudita brutalità, di cui tutti ormai sanno (grazie ai social networks) senza bisogno dei giornali. L’ultimo è di pochi giorni fa: decine di morti ammazzati, contadini innocenti, nell’ennesima battuta di caccia contro i naxaliti, in Bastar. Una guerra di cui nessuno parla da voi e che ha di nuovo traumatizzato quella terra di foreste da cui provengo.

 

Di tutto questo scrivi in hindi, che non sarebbe la tua lingua madre…

Ti sorprenderà sapere che l’hindi è la mia prima lingua, benché io appartenga all’etnia Oraon la cui lingua sarebbe il kuruk. Ero piccola quando i miei genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla più vicina cittadina, Manoharpur. Mio padre era entrato nei ranghi della polizia (un sogno per un giovane adivasi di allora, come per tanti giovani di oggi, ahimè) e la mia educazione fu in hindi e poi in inglese, neppure a casa si parlava il kuruk. L’ho dovuto quasi imparare, quando ho cominciato a tenere i miei corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…

 

Su questo tema è appena uscita infatti la tua seconda raccolta poetica, Land of the Roots, Terra di Radici, che presenterai in Germania subito dopo questo tour italiano.

Importanti le radici, questo ho scoperto rivivendomi nella mia identità più ancestrale di donna adivasi – questo cerco di trasmettere con le mie poesie. Esattamente come per quegli alberi secolari, quei campi che sono stati ricavati disboscando solo alcune zone, quegli esseri che armonicamente ci vivono dentro, partecipi di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalits contro adivasi, e all’interno del mondo adivasi ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia. Ma come dimostrano i corpi rimasti sul terreno nel massacro di pochi giorni in Bastar, questa è una guerra che non risparmia nessuno. 

(il manifesto, 5 maggio 2018)

 

Il libro di Jacinta Kerketta, Brace (Miraggi Edizioni, Torino 2018), con testo a fronte in hindi, è in vendita presso la Libreria delle donne di Milano.

di Cinzia Colajanni

Di Leda Antinori, staffetta partigiana, si è parlato a Catania il 18 aprile 2018, in preparazione della festa della Liberazione. Per iniziativa de La Ragna-Tela, Le Città vicine e Catania Libri è stato, infatti, presentato il libro “Leda. La memoria che resta” di Anna Paola Moretti e Maria Grazia Battistoni, che hanno fatto un eccellente lavoro di ricerca per recuperare la memoria di questa giovane partigiana. “La sua storia è un’occasione per ‘riguardare’ la presenza delle donne nella Resistenza, che fu partecipazione di massa, silenziosa, anonima, collettiva, ricercando le parole delle protagoniste e il senso che diedero alle loro azioni”. Con questo spirito, si sono confrontati con le autrici Domenico Stimolo e Sara Crescimone, dopo un’introduzione di Anna Di Salvo che ha sottolineato la figura di questa donna “molto giovane ma capace di scelte determinate, che ha qualcosa di significativo da dire a donne e uomini non solo sulla ricerca di libertà dall’occupazione straniera e dall’ideologia fascista, ma anche sulla ricerca di una misura per sé, senza dover corrispondere a modelli imposti, neppure a quelli emancipativi”. Cinzia Colajanni, componente della rete La Ragna-Tela, ci ha inviato una sintesi del dibattito, che volentieri pubblichiamo.

La vita di Leda può essere considerata una rappresentazione del rapporto donna-Resistenza. Leda mette a repentaglio la vita non solo per dare il proprio contributo alla liberazione degli italiani dall’ideologia fascista e dall’occupazione nazista ma anche per un bisogno di riscatto personale. Come lei, le donne della Resistenza decisero di agire per una libertà futura, declinabile perché già presente in ciascuna di esse.

La mentalità patriarcale e maschilista, presente anche nelle menti dei partigiani, sopita durante il periodo della lotta armata, riaffiorerà in tutta la sua virulenza quando, al ritorno alla normalità, dovendo ripristinare gli atavici ruoli degli uomini e delle donne, si celebrerà la Resistenza come guerra di uomini, “supportati amorevolmente” dalle cure di madri, mogli e figlie.

A poco servirà, per il riconoscimento della eroicità di Leda, avere perso la vita, perché oltre al suo essere donna un altro elemento metterà in ombra il suo sacrificio, l’avere combattuto senza armi.

Si dovrà attendere la fine del Novecento perché si affermi il concetto di Resistenza civile. Solo allora si darà importanza a chi ha messo a repentaglio la propria vita non con gesti che comunemente gli uomini considerano eroici ma con gesti per così dire semplici ma assolutamente necessari per la sopravvivenza di chi si trovava in prima linea, nelle montagne o nei luoghi di preparazione delle azioni di guerriglia; necessari anche per le azioni di ribellione della cittadinanza, che era il principale bersaglio di quella guerra, azioni di cui soprattutto le donne si erano rese protagoniste. “Le staffette sapevano che, se catturate, avrebbero dovuto affrontare carcere e interrogatori, il rischio delle torture e degli stupri, anche la deportazione, come è stato in alcuni casi. Non era una mansione che si potesse compiere inconsapevolmente. La loro azione era pericolosissima e il loro ruolo non residuale; in un esercito regolare queste mansioni erano compiute da ufficiali di collegamento”. Scrive ancora Pietro Secchia “Le staffette costituivano un ingranaggio importante della complessa macchina dell’esercito partigiano. Senza i collegamenti assicurati dalle staffette le direttive sarebbero rimaste lettera morta, gli aiuti, gli ordini, le informazioni non sarebbero arrivati nelle diverse zone”. È ormai riconosciuto, numeri alla mano, che l’esercito di liberazione, considerando le forze combattenti e le forze d’appoggio, era composto in maggioranza da donne e che senza esse non sarebbe stata possibile alcuna azione militare. Non generico contributo alla lotta quindi ma condizione indispensabile per lo sviluppo della Resistenza.

A febbraio del 1945 (due mesi prima della sua morte) Leda prova a scrivere un diario perché vuole fare conoscere la sua storia smentendo il luogo comune sulla “modestia” delle donne che non avrebbero voluto riconoscimenti.

Uomini hanno deciso che le donne che avevano partecipato alla Resistenza volevano l’anonimato. Le autrici ricordano che in una pubblicazione per “l’anno internazionale della donna”, nel 1975, la Presidenza del Consiglio dei Ministri scriveva: “Ci siamo astenuti da citare i nomi di queste eroine perché abbiamo ritenuto doveroso rispettare il carattere che le donne italiane hanno voluto dare alla loro generosa ed eroica partecipazione. Le donne italiane della Resistenza vollero infatti partecipare alla lotta per la libertà in modo collettivo e anonimo”.

In realtà le donne non chiesero riconoscimenti perché pensavano che ciò che avevano fatto fosse semplicemente doveroso, anche se alcune non volevano rendere noto ciò che avevano fatto per ragioni di prudenza.

Le condizioni eccezionali scaturite dalla guerra permisero di sorvolare su un comportamento pubblico che non fu considerato possibile mantenere, per donne rispettabili, in un paese ormai pacificato. Sembrò naturale rinchiudere nuovamente le donne in casa ed esse trovarono impossibile tradurre, nella mutata situazione, l’esperienza vissuta.

Le donne, partecipando alla guerra, avevano cominciato a ripensare il mondo e a rifondare valori. Non si sentivano più madri o figlie ma persone. La loro partecipazione ebbe quindi un carattere politico, anche se l’occultamento di questo carattere politico fece sì che le donne della Resistenza fossero rappresentate come figure secondarie di cui, nei documenti e nelle ricorrenze pubbliche, si poteva anche non dirne il nome.

Così tante figure di rilievo sono state a lungo ignorate.

Uomini e donne ebbero comunque un diverso modo di vivere la Resistenza, anche quando le donne combatterono con le armi. La diversa identità sessuale le porta infatti a percepire il mondo in termini di vita e di creazione e non di morte e distruzione.

E questa pratica orientata alla vita spiega la richiesta finale avanzata alla famiglia da Leda: non fare vendette, anche se si conoscevano i nomi dei suoi delatori.

 

(www.argocatania.org, 3 maggio 2018)

di Stefania Tarantino

 

Presento questo libro alla luce di tre esperienze che ho vissuto recentemente. La prima. Qualche giorno fa ho avuto un incontro raro. Ero impegnata nei lavori di pulizia di una casa appena ristrutturata nel Cilento. Ho sentito un canto di uccelli che non avevo mai sentito prima. Incuriosita da quel canto, ho lasciato ciò che stavo facendo e mi sono precipitata fuori. Ciò che mi è apparso davanti mi ha lasciato senza fiato e mi ha riempito di stupore. Una ventina di coloratissimi gruccioni, conosciuti scientificamente come Merops apiaster, volteggiavano in una danza emettendo trilli continui. Devo dire che ho scoperto solo dopo che si trattava di gruccioni. Quando li ho visti non sapevo che tipo di uccelli fossero e quei colori intensi che andavano dal blu al giallo, dal rosso al verde, e quelle ampie ali appuntite mi avevano fatto pensare che fossero una specie di pappagalli, ma la cosa era davvero un po’ strana. Che cosa ci facevano i pappagalli nel Cilento? No, non era possibile. Così, cercando le specie di uccelli migratori che passano per le coste cilentane e scandagliando un po’ di immagini, ho capito che si trattava dei gruccioni. Questo incontro mi sembra perfetto per introdurre e invitare alla lettura dell’ultimo libro di Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare (ed. Paoline, Milano 2017), in cui c’è una parte dedicata proprio al nome e al canto degli uccelli. Ho compreso meglio che cosa l’autrice ci indica con il sottotitolo: la mistica luogo dell’incontro. Infatti, questo suo libro che non è una storia della mistica in senso stretto né la descrizione degli stati estatici vissuti nell’esperienza mistica è la storia di tutti quegli incontri inaspettati che hanno il potere di trasformare la nostra vita. Ma c’è di più: è anche un invito a non stancarsi mai di osservare ciò che ci circonda nella sua evidenza. Imparare a fare spazio a ciò che percepiamo nella sua misteriosità e inesprimibilità. Nelle differenti testimonianze che emergono sul senso della mistica e attingendo a fonti cristiane, ebraiche e islamiche, l’autrice parla della mistica come asse trasversale che sottende i nostri movimenti, come esperienza di un accadimento indescrivibile che fa parte di un percorso assolutamente umano e naturale. È proprio nel mistero delle cose che ci accadono e che ci circondano che, secondo l’autrice, c’è disvelamento della realtà più reale. E ciò accade non in momenti straordinari, ma nella vita di tutti i giorni. Antonietta Potente fa notare come una delle vie mistiche di radice antichissima sia proprio la lingua degli uccelli che troviamo nei miti, nelle fiabe, nei racconti popolari, nei cantici e nei modi di dire delle tradizioni orali popolari. Il corpo ha un suono e il corpo alato e sonoro degli uccelli ha sempre assunto, nelle variegate e differenti civiltà, un ruolo spirituale molto importante, sia rivelatore che ammonitore. Non esiste una mistica senza il coinvolgimento del corpo e il corpo è possibilità di unione, di condivisione, di scambio. Il suono risveglia forze interiori, energie misconosciute e assopite che, se solo vi prestiamo attenzione, ci mostrano un legame indissolubile. Da qui la domanda: che cosa ne facciamo di tutti quei bellissimi cantici di una divina presenza che lascia scie di luce al suo passaggio? La risposta la potremmo trovare se solo iniziassimo a pensare che più che di nozioni è di ali che abbiamo bisogno.

La seconda esperienza riguarda una mia recente visita a Palazzo Steri di Palermo, dove ho visto per la prima volta i graffiti e le scritte lasciate da tutti quegli uomini e quelle donne che hanno vissuto nell’infernale macchina dell’Inquisizione. Si tratta di mura che, nonostante lo scorrere del tempo, trasudano dolore e sofferenza. Parole e disegni che testimoniano di torture indescrivibili, di disumani isolamenti, di corpi in cui è stato spento qualsiasi barlume di scintilla interiore. Antonietta Potente ci spiega come la mistica sia ricucitrice di ferite, spostamento in ogni direzione, sbilanciamento dal limite del corpo, trasformazione per l’indicibilità di ciò che si sente e si vede. Ed è anche ciò che ritorna sempre poiché, lo spirito degli uomini e delle donne libere, ritorna anche quando li bruci, li torturi o li allontani. La mistica è ciò che sottende alla vita come il rizoma lo è per le piante.

La terza esperienza riguarda il sapere nella sua forma più generale. Se la nostra conoscenza non ci apre le porte della nostra interiorità, se non smuove qualcosa nel profondo di noi stessi, tutto ciò che diciamo e facciamo resta miseramente sterile. Non a caso, in questo libro, la ragione deve diventare porta maestra dell’amore. La porta è un altro significante importante della mistica a Oriente come a Occidente e indica il superamento di ciò che pensiamo separato chiudendo così qualsiasi possibilità di incontro. Qui la forza politica trasformante del messaggio mistico, come cammino di ricerca che apre spazi, riunifica le vite, riporta alla sorgente delle cose nella loro semplicità. La sapienza cui la mistica allude nasce dalla sete e ha il tono di un’invocazione che travalica gli stretti confini della razionalità che, anche nel suo massimo dispiegamento, non ha impedito gli orrori ed errori della storia. È necessario guardare e guardarsi dentro perché è solo nella profondità che possiamo vedere il principio. Il libro è cosparso di citazioni che provengono dal mondo mistico dell’Islam. È in quel mondo che l’autrice vede l’origine di quella pura luce che dobbiamo lasciare entrare negli interstizi più oscuri. Un’immensa sete di sapere, di giustizia, di bene, ha accomunato da sempre spiriti lontani e diversi. Unire la propria sete a quella degli altri, capire che ciò che dà significato vero alle nostre vite ci proviene dal di fuori di noi stessi, oltre ai perimetri su cui abbiamo tracciato i nostri confini sempre più tristi e mortiferi. L’accumulazione, la guerra, la privatizzazione, tutto ciò ci fa perdere la gioia dell’incontro, di qualsiasi natura sia. Non si tratta di essere credenti o meno. Questo libro ci domanda quali sono oggi le pratiche politiche che possiamo mettere in campo per imparare nuovamente a leggere la realtà e per uscire da questa storia che distrugge tutto e separa ogni cosa. E ci domanda anche di rivolgerci a quelle dimensioni che si intersecano e si legano tra loro poiché, come scrive l’autrice, ci deve essere un luogo in comune, uno spazio, un cuore dove viviamo, nella verità della differenza, questa bellissima appartenenza gli uni agli altri, le une alle altre.

 

La composizione del libro

“Come il pesce che sta nel mare” riprende una frase presente all’interno del Dialogo della divina provvidenza di Caterina da Siena. L’autrice ne riprende anche la forma dialogica. Si tratta, infatti, di sei lettere indirizzate ad amici e amiche che condividono con lei percorsi sperimentali di vita e di saperi. Il libro si apre con un’introduzione cui l’autrice dà, significativamente, il titolo di una lettera di San Paolo ai Corinzi: La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Il primo dialogo s’interroga sul senso della mistica ed è una lettera indirizzata a un suo fratello boliviano. Il secondo dialogo traccia un cammino interiore ed è una lettera indirizzata a un’amica musulmana. Il terzo dialogo tratta del nome e del linguaggio degli uccelli ed è una lettera indirizzata a una sua sorella boliviana. Il quarto dialogo approfondisce il significato della questione mistica e del fatto che se anche Dio non fosse, ci sarebbero comunque i corpi con la loro sete ed è una lettera indirizzata a una sua amica veronese. Il quinto dialogo riguarda una riflessione sulla quotidianità della mistica ed è una lettera indirizzata a un’altra sua amica veronese. Il sesto dialogo si occupa del significato attuale delle pratiche mistiche ed è una lettera a una sua amica veneziana. Le conclusioni sono fatte come se dovessimo concludere.

 

Il libro sarà presentato all’Istituto Italiano per gli studi filosofici di Napoli (Via Monte di Dio, 14) da Stefania Tarantino il 7 maggio 2018 alle ore 17 alla presenza dell’autrice.

 

(www.libreriadelledonne.it, 1 maggio 2018)

di Annalena Benini

Che sollievo rileggere Luisa Muraro tutte le volte che prende una rabbia o anche solo una confusione

Degli uomini piace il loro andare a caccia di grandezza e inventarsi imprese e avventure, ma fa paura quello che poi troppo spesso si lasciano dietro, come rotoli di filo spinato, lattine, carcasse, odi, confini tracciati a caso… E non piace niente quando si rincorrono in un pulviscolo di titoli, cariche, carriere, promozioni; vedere fra loro delle donne è imbarazzante. Il privilegio di essere donna dà una grandezza d’altro tipo, che viene incontro fra le cose ordinarie della vita e arriva fino alle più straordinarie.

Questo libro è uscito parecchi anni fa, ma tutte le volte che mi prende una rabbia, o anche solo una confusione, io sento il sollievo di rileggerlo. Luisa Muraro è un filosofa, socia fondatrice della Libreria delle Donne di Milano, e le sue parole danno forma ai pensieri confusi, danno pace quando si sente venire vicina la guerra, per il potere, per la rivalsa, per l’affermazione di un’uguaglianza fra uomini e donne che però non deve mai cancellare la differenza fra uomini e donne. La differenza è importante, importantissima: noi siamo diverse dagli uomini, e non significa che gli uomini siano nemici. Non significa nemmeno che gli uomini non siano grandi, o non possano diventare grandi, ma nelle donne, scrive Luisa Muraro, «la grandezza c’era da prima, era sua da prima, non appariscente, come un’avventura segreta, come un abito di tutti i giorni ma disegnato da Valentino».

Partendo da questo presupposto, un privilegio di nascita, una potenza nascosta, è tutto più semplice, e si può usare creativamente, pacificamente, l’energia che deriva dalla differenza, e capire, come giovanissima ha capito Simone Weil, prima di arrivare a sentire la giustizia «è necessario avere sentito fino a che punto essa non esiste». Giustizia di comportamento, giustizia di trattamento, giustizia di un’esistenza giusta. «Quando c’entra la differenza sessuale (e in questo senso dico: fra donne e uomini come anche fra donna e donna), si gioca una partita che oltrepassa le misure della giustizia, con effetti di tensione e conflitti che finora sono stati malamente capiti e peggio ancora risolti». Essere donne è una fortuna per l’umanità, ma non è facile per noi, non è semplice, e si rischia di fare ingiustizia nel nome della giustizia, o di cedere al rancore, anche perché l’idea di un’eccellenza femminile non chiude la partita, non basta, anzi la riapre. Però ecco, c’è, «nelle donne per sé stesse, che siano madri o no, qualcosa che eccede il confronto con gli uomini, qualcosa di incomparabile. Un teologo, Pierangelo Sequeri, commentando la creazione di Eva nell’arte cristiana, lo ha espresso bene con parole sue: la donna e Dio hanno un segreto di cui Adamo (raffigurato dormiente) non verrà mai a capo».

Le donne dovrebbero dirselo più spesso, gli uomini dovrebbero riconoscerlo in un modo più esplicito, anche per liberarsi dal narcisismo. Ma è difficile, e succede quasi solo segretamente, però Luisa Muraro consiglia una mossa benefica, quando tutto diventa insopportabile e finto, la mossa dello schivare: «Si tratta di uscire di colpo, con un salto di essere, dalla traiettoria del sempre più potere che ti si para davanti o ti prende di mira da dietro, dove i predatori saranno prede. E darsi invece a vivere nel mondo reale con il semplice potere che è un poter essere e un far essere, e con le capacità ricevute insieme alla vita di godere, soffrire, desiderare e, in caso, amare». Non significa non desiderare tutto, non avere tutto. Significa stare sul crinale, vivere come il surfista, sulla cresta dell’onda, e del surfista avere l’umore felice.

(Il Foglio, 7 aprile 2018)