Consigli di lettura di Rosaria Guacci e Liliana Rampello

Naomi Alderman, Ragazze elettriche, Nottetempo, 2017, pp. 446, € 20,00

Romanzo visionario: cosa succede se le donne rese improvvisamente potenti da una scarica elettrica diventano capaci di ridurre gli uomini in semischiavitù? Cosa significa abusare del potere? Un tema affrontato con sapienza da un’“allieva” di Margaret Atwood.

 

Mia Alvar, Famiglie ombra, Racconti edizioni, 2017, pp. 453, € 18,00

Nove storie della diaspora filippina raccontano quello che non sappiamo, e non vogliamo sapere, di chi in esilio cerca di ricomporre la geografia dei propri sentimenti superando la distanza e i confini reali o solo immaginati. E deve convivere con il desiderio di tornare a casa.

 

Silvia Avallone, Da dove la vita è perfetta, Rizzoli, 2017, pp. 384, € 19,00

Dopo la Piombino di Acciaio e la pianura biellese di Marina Bellezza, Silvia Avallone cambia paesaggio: si va dalla Riccione dell’adolescenza alla Bologna dell’età più adulta. Altre le esperienze, altre le responsabilità: qui si parla di maternità, di una bambina non voluta ma che quando nasce ti prende corpo e anima, di rapporti ambivalenti. La scrittura dell’autrice in questa terza prova punta, più che alla forza e a una sua resa sanguigna, alla bellezza della parola, “rosa bianca” che può appartenere a tutti i personaggi del romanzo. Agli ultimi, quelli che come dice l’autrice «hanno più bisogno di essere raccontati», costretti a vivere rapporti difficili, ammassati in tristissime case popolari ma portatori sempre di respiro, movimento, desiderio di una vita migliore. L’autrice ha più volte dichiarato che uno scrittore non deve cambiare la società ma dare un’altra possibile idea del mondo. Che muta, e questo è il dono che arriva al lettore.

 

Emanuela Canepa, L’animale femmina, Einaudi Stile Libero, 2018, pp. 272, € 17,50

Rosita è una studentessa che vuole emanciparsi dalla famiglia per andare a studiare altrove. Ci riesce ma deve anche lavorare perché ha perso la borsa di studio che aveva guadagnato. Dopo tentativi fallimentari durati alcuni anni, a Padova, il luogo scelto per i suoi studi, incontra un maturo avvocato che si dichiara disposto ad aiutarla impiegandola nel suo ufficio. Professionista irreprensibile, affascinante e manipolatore quanto basta, riesce a nascondere la sua misoginia che, come scopriamo via via nel romanzo, ha radici profonde nel suo passato. L’uomo lavora sulla dipendenza di lei: sensibile e insicura, vorrebbe opporsi ai desideri di lui ma gli è legata da una sensualità di cui non ha piena coscienza. Una vittima perfetta. Un animale femmina, di quelli che tieni al laccio ma che nella cattività imparano a conquistare, con una strategia inaudita, la propria libertà.

Romanzo femminista nel senso migliore del termine, capace di raccontare con mano sicura i rapporti di potere che imprevedibilmente, nella passione, possono legare uomini e donne, L’animale femmina ha vinto all’unanimità il Premio Calvino 2018.

 

Emma Cline, Le ragazze, Einaudi, 2016, pp. 344, € 18,00

Evie ha quattordici anni, l’unica cosa che vuole è che qualcuno si accorga di lei. Leggete la prima pagina di questo romanzo e scoprirete in poche righe la profondità di una prosa esatta, di una lingua capace di dire il desiderio di un’adolescente, la sua realtà emotiva, sensoriale e mentale.

 

Elena Favilli e Francesca Cavallo, Storie della buona notte per bambine ribelli, Mondadori, 2017, pp. 224, € 19

Virginia Woolf è una ragazza timida ed emotiva che si sfoga con la scrittura, Margaret Thatcher, una donna “ammirevole”. Favilli e Cavallo, una sorta di bambine ribelli italiane trapiantate in America (la definizione è loro) – una giornalista fondatrice di Timbuktu, la prima rivista iPad realizzata per bambini, l’altra autrice e regista teatrale che con Elena ha fondato Timbuktu Labs, laboratorio mediatico per l’infanzia – raccontano in chiave del tutto personale la storia di cento donne famose e non di tutto il mondo. Ci sono come già detto Woolf e Thatcher e ancora la Regina Elisabetta, Frida Kahlo, Rita Levi Montalcini, Serena Williams e via elencando; dalle piratesse alle esploratrici, dalle infermiere alle astronaute e alle tatuatrici. Tutte donne ribelli al destino femminile come lo può, o meglio lo poteva percepire un tempo, una bambina. Storie di donne che ce l’hanno fatta e la cui vita può essere raccontata come una bella favola della buonanotte. Con illustrazioni originali di sessanta illustratrici, alla fine c’è perfino una pagina bianca in cui la piccola lettrice può disegnare se stessa come si vede e si percepisce. Il libro, quasi un fumetto prezioso, è dedicato: «Alle bambine ribelli di tutto il mondo: sognate più in grande, puntate più in alto». È stato nella classifica dei bestseller 2017 e ha un recente sequel: Storie della buona notte per bambine ribelli 2.

 

Chimamanda Ngozi Adichie, Quella cosa intorno al collo, Einaudi, 2017, pp. 224, € 19,00

Dodici racconti, tra Nigeria e Stati Uniti, due mondi in conflitto e da attraversare con il carico di tutti i sentimenti, anche i più contrastanti. “Quella cosa intorno al collo” è il senso profondo della solitudine, di non appartenenza di Akunna. Ma lei non è la sola interprete del dolore di chi è smarrito, ma deve vivere.

 

Rossella Postorino, Le assaggiatrici, Feltrinelli, 2017, pp. 285, € 17,00

Come rivela una nota finale del romanzo, durante la guerra, nel quartiere generale di Hitler fu assunta un’assaggiatrice, Margot Wölk, per evitare che il cibo del Führer venisse avvelenato. Nel romanzo, Rosa Sauer, la protagonista, ne assume le sembianze: ha fame, una fame nera e per saziarla è disposta a tutto. Comincia così il romanzo di Rossella Postorino. Rosa non è la sola ad avere quell’ingaggio; tra le altre donne convocate allo stesso scopo, incontra l’ostile Elfriede il cui fascino la soggioga e il tenente nazista Ziegler.

«Mi ero fidata di un tenente nazista, lo stesso che io avevo amato. Non ho mai detto nulla e non lo dirò. Tutto quello che ho imparato è sopravvivere… Il mio corpo aveva assorbito il cibo del Führer, il cibo del Führer mi circolava nel sangue. Hitler era salvo. Io avevo di nuovo fame.», dice Rosa, alter ego dell’autrice nel romanzo. Il rapporto con Ziegler la porterà in territori inesplorati: così come inesplorato è l’animo umano e gli orrori che può ordire. Già autrice di Corpo docile e L’estate che perdemmo Dio (romanzi di spessore editi anch’essi da Einaudi). Le assaggiatrici è finalista al Premio Campiello 2018.

 

Monica Romano, Gender (R)evolution, Mursia, 2017, pp. 222, € 16,00

Monica Romano, già autrice di Trans. Storie di ragazze XY, ha firmato sempre per Mursia, nel 2017, Gender (R)evolution. Tra memoir e romanzo, Gender (R)evolution racconta frammenti di vita e percorsi dell’autrice e di altre attiviste del movimento trans internazionale. Come Romano ha dichiarato in un’intervista sul web, il suo è stato un lavoro in cui ha cercato di amalgamare rigore e distacco sul piano della narrazione storica, ma anche l’amore, l’ammirazione e la gratitudine che prova per “queste combattenti”. Le combattenti sono le attiviste che da Stonewall, passando per figure come quella di Renée Richards, icona sportiva degli anni ’70 ed altre ancora, arrivano ad Hande Kader, uccisa in modo orribile a Istanbul pochi giorni dopo il Gay Pride che l’aveva vista sfidare con fermezza gli attacchi della polizia. Che il tema sia più o meno congeniale, che lo si ascriva all’ideologia lgbt o che si aderisca con cuore e mente alla narrazione, l’autrice, giovane donna trans, tiene viva l’attenzione di chi prende in mano il libro. Legato a un’attualità politica battente.

 

Sally Rooney, Parlarne tra amici, Einaudi, 2018, pp. 304, € 20,00

Intelligenza, autocontrollo, freddezza: tutto questo sarà utile a Francis per imparare a trovare il senso delle relazioni? Amore, tradimento, temi classici sotto la lente di un’esordiente che scrive con notevole sensibilità una storia contemporanea.


(www.libreriadelledonne.it, 21 giugno 2018)


Numero 15

La lingua delle donne taglia e cuce

Il diavolo affila la lingua delle donne. Uno dei motivi più presenti nelle “Panjske končnice”, arnie per le api decorate con scene popolari, diffuse in Slovenia.

http://www.diotimafilosofe.it/edizione/numero-15-2018/

La Rivista di Diotima in rete

ISSN 2384-8944

INDICE

PER COMINCIARE

La lingua delle donne taglia e cuce

PER AMORE DEL MONDO

www.diotimafilosofe.it

Audre Lorde Litania per la sopravvivenza

INTRODUZIONE

Diana Sartori La lingua delle donne taglia e cuce

LA RIVOLTA LINGUISTICA (Grande Seminario 2017)

Sara Bigardi Breve cronaca del Grande Seminario

Wanda Tommasi Parla come mangi

Elisabeth Jankowski La nostra brutta bella lingua

Maria Livia Alga Per la libera circolazione delle lingue

María José Gil Mendoza La lingua che non scordo

María Milagros Rivera Garretas Né inglese né spagnolo. Tradurre la poesia di Emily Dickinson

Federica Giardini Ripensare il materialismo

Anna Simone Il linguaggio neoliberista e la trasformazione della società

LINGUA MATERNA

Ursula K. Le Guin sulla lingua materna. Una silloge

a cura di Diana Sartori

SU FEMMINISMO FUORI SESTO

Nadia Setti Il libro aperto del femminismo

María Milagros Rivera Garretas Feminismo sin fiel

Dorothee Markert Gedanken zum Diotima-Buch Femminismo fuori sesto

Fina Birulés ¿Tiempo de feminismo? Un movimento che non può fermarsi

Delfina Lusiardi L’energia del serpente

Sara De Falco Femminismo o transfemminismo

PAROLE SANTE

Parola di donna

La lingua delle donne taglia e cuce

www.diotimafilosofe.it

DI BOCCA IN BOCCA

Laura Bellin Il nutrimento che non passa

VIOLENZA MASCHILE

Anna Maria Piussi Per un’altra civiltà di rapporti

Barbara Verzini Passione

ALTRI MONDI AL MONDO

Mariateresa Muraca Come un seme nella terra. La mistica del Movimento di Donne Contadine (Brasile)

SCRITTURE

Francesca Riccardi Far esperienza dello straordinario nell’ordinario

SU ADATEORIAFEMMINISTA

Chiara Zamboni La teoria non è un ombrello

VISIONI

Barbara Verzini Introduzione a Riparare le relazioni

Donatella Franchi Riparare le relazioni

HO LETTO

Chiara Zamboni Due voci vicine e diverse sul pensiero di Etty Hillesum: Giancarlo Gaeta e Antonella Fimiani

Sara Bigardi “La penombra toccata di allegria”: leggere la storia per orientare la vita con la politica. Una lettura del testo “Esperienza, politica e antropologia in Maria Zambrano” di Sara Del Bello

Giulia Testi Leggere l’io sul piano dell’esperienza, per una metamorfosi in rapporto alla natura. Un confronto tra Rocco Ronchi e Rosi Braidotti

Caterina Diotto La ragazza che ero, la riconosco. Schegge di autobiografie femministe

Antonietta Potente In amicizia con Simone Weil. Su Gloria Zanardo, Un’apertura di Infinito nel Finito

TESI DI LAUREA

Anastasia Rossato Genealogie femminili: ereditare nel femminismo

Angelica Paroli Nancy Fraser: una lettura neo-polanyiana della crisi capitalista

di Alessandra Pigliaru

Tempi presenti. Conosciuta e amata da milioni di lettori grazie al suo «Amabili resti», un incontro con la scrittrice statunitense a partire dal memoir «Lucky» in cui racconta il suo stupro del 1981

«La dimostrazione più impressionante di quanto fossi innocente era che a diciott’anni credevo ancora in un mondo giusto». Difficile immaginare qualcosa di più lieve di una ragazza che, in piena adolescenza, si sporge con fiducia incrollabile verso il futuro. Sembra quasi che la felicità del circostante possa essere convocata per il solo desiderio di somigliarle.

Siamo nel 1981, anni di poesia letta e scritta, quando la giovane Alice Sebold, percorre la galleria sotterranea in cui viene violentata. Altri diciotto anni trascorrono prima della pubblicazione del suo libro che racconta quella terribile esperienza. Anche per questo, Lucky (e/o, pp. 333, euro 9,90, traduzione di Claudia Valeria Letizia) è un memoir coraggioso e straordinario. Dopo la prima uscita statunitense nel 1999 (e una prima traduzione italiana nel 2002), è questa recente una riedizione che arriva in un momento storico e politico importante. Sia per la potenza di un testo che percorre una tra le vicende più orribili che possono abbattersi nella vita di una donna, sia perché Alice Sebold, nella introduzione aggiornata al gennaio 2017, colloca il processo culturale entro cui si muove il fenomeno della violenza nella amara presa d’atto della elezione di un «molestatore seriale nonché palpeggiatore di figa, eletto quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti».

Occhi e incarnato chiari, oggi incontriamo all’età di 54 anni Alice Sebold, il volto di chi ha cercato di non cedere all’inferno che l’ha attraversata. Di questo laborioso rifiuto in cui non conta la retorica sciocca e inutile di chi immagina che le disgrazie ci rendano più sensati e saggi, la scrittrice (nota al grande pubblico con il suo indimenticabile Amabili resti) – è piuttosto sicura: «Può succedere che qualcuno, dopo un grande trauma, si senta più forte ma temo che perlopiù vi sia l’esigenza di raccontarlo a se stessi. Qualcun altro dice di essere contento che gli o le sia capitato perché altrimenti non sarebbe la persona che è. È un’affermazione comune tra i sopravvissuti a una guerra, al cancro, tra coloro che sono rimasti orfani dopo una calamità naturale o paralizzati a causa di un incidente d’auto. E, per molto tempo, l’ho ripetuta anch’io. Ma poi ho smesso, perché se avessi la possibilità di cancellare quanto mi è capitato lo farei senza indugio e in mancanza di una gomma che me lo consenta ho trovato, con grande fatica, una strada possibile solo nella scrittura».

Nonostante da bambina abbia dovuto lottare con la dislessia, cresciuta in mezzo ai libri, è la lettura ad averla educata allo scrivere. «Eppure Lucky non lenisce il dolore, anzi. Non ho scritto il libro per me stessa né come atto di guarigione. Se avessi voluto guarire avrei potuto scrivere poesie o altro, non raccontare quanto mi è capitato. Invece è stato più qualcosa di prossimo alla responsabilità verso un pubblico. I libri sono dei doni, quando poi l’argomento è così crudo l’effetto di quel dono deve poter essere controllabile».

Gesticola lievemente, mentre ci racconta con fermezza quanto faccia la differenza dare il nome esatto alle cose: «Durante la prima presentazione pubblica di Lucky, diciotto anni fa, sono stata introdotta come l’autrice di un testo basato su una vicenda terribile. Quando mi è stata data la parola ho subito detto “stupro” perché prima di qualsiasi altra cosa viene la nominazione, capace di innescare un processo all’interno della cultura. Solo dopo arriva il resto. Compresi i malintesi, le battute o tutto ciò che non si capisce né si vuole spesso accettare intorno allo stupro. Ma prima bisogna dire la parola, indicarla. È un punto di partenza irrinunciabile».

Se la protagonista di Amabili resti è una ragazzina uccisa, in Lucky il tratto autobiografico è segnato dalla sopravvivenza a una violenza sessuale. L’arco non è solo dettato da variazioni letterarie di circostanza, conduce invece a un nodo – anzitutto politico – che la scrittrice statunitense segnala con chiarezza: «Nella parola stupro c’è una minaccia di fondo. Morire o rimanere in vita dopo un simile evento è qualcosa che condiziona la pubblica opinione. Quando una donna viene assassinata se è stata anche stuprata la sua fine diventa ancora più dolorosa, è come una doppia rapina. Se infatti nel comune sentire essere violate significa perdere la propria purezza, con la morte si espia quella perdita. Quando invece si sopravvive a qualcosa di così enorme non c’è un giudizio netto. Una ragazzina morta fa concentrare sul colpevole. Quando si sopravvive a un’aggressione c’è qualcosa che – di contro – fa attribuire la colpa ai vivi, che divide spesso ambiguamente quella colpa». La morte «libera» così dai fraintendimenti perché «più onorevole rispetto l’ardire del rimanere – nonostante tutto – vive».

Il testo segue il passo di una fortuna capovolta, di un paradosso incomprensibile e al contempo schiacciato sulla necessità di quanto successo. «La polizia disse che ero stata appunto fortunata perché non mi avevano uccisa; mio padre disse che era contento fosse successo a me e non a mia sorella perché io ero più forte. Il rovescio della fortuna – precisa poi l’autrice – restituisce anche la cifra dell’ironia, la più amara e drammatica ma pur sempre l’ironia con cui cerco di guardare le cose».

È tuttavia il «lavoro costante con le donne che hanno subito violenza ciò che di cruciale va fatto. Ho avuto la mia personale autorizzazione quando ho conosciuto le prime che venivano a seguire i miei reading. Da allora, ogni anno, ne incontro tantissime. Ciò che è fondamentale, ancora più delle parole, è la presenza, essere insieme». Ecco perché osserva il movimento #metoo con interesse, perché c’è un tratto di esperienza personale che racconta una storia complessa – non solo rivelazione da parte di chi è stata abusata ma anche il baratro che si cela dietro chi ha agito la molestia. «Intravvedo una speranza nell’apertura di una discussione pubblica. Perché credo vi sia una forma di empatia tra chi ha subito un trauma e chi no. Con Trump abbiamo a che fare con la prepotenza, con l’onnipotenza della cultura machista. Mi auguro possa essere questa una occasione di comunanza contro qualcosa da rigettare. Si potrebbe cominciare con il contrapporre alla onnipotenza la risorsa della vulnerabilità, per esempio».

Da ascoltare, oltre che da leggere, con cura e attenzione, Sebold ci tiene a specificare come il suo non sia stato un atto di denuncia, né il tentativo di comporre un trattato sociologico sulla violenza maschile contro le donne. «Diffido degli approcci troppo teorici, senza dati di esperienza rischiano di non arrivare a tutte e tutti. Ho inteso scrivere qualcosa che non risultasse pesante, chi avrebbe letto si sarebbe fidato. Ho desiderato questa fiducia totale. Non ho condannato il genere maschile, la restituzione da parte dei lettori è stata infatti corrispondente alle mie intenzioni. Certo non sollevo nessuno ma nemmeno vorrei fare analisi generaliste e grossolane».

Ed è qui che si intuisce la ragione per cui, oltre al ritratto impietoso del suo stupratore – condannato a pagare penalmente – l’autrice di Lucky sceglie di raccontare le sue successive relazioni con altri uomini. Non si arrende a una visione «prestazionale» che, dice, «prevede una reazione attiva verso la violenza sessuale subita; quindi palestra, impegni costanti e molto sesso fin da subito». A schiudersi per lei è invece la scoperta, dopo molto patimento durato più di un anno, di una quiete, cioè l’imprevisto di una intimità ritrovata.

Sceglie così l’amore disarmante per sigillare e cambiare di segno la prostrazione. Dice sì alla prossimità di un uomo caro invece dell’odio sterminatore. Solo in questo modo la rabbia può restare intatta e generativa. Quella di Alice Sebold, di rabbia, ha un sorriso impareggiabile e stretto come la linea degli occhi. Si impara molto da certi precipizi del volto altrui. A quel graffio della voce, che a capofitto arriva fino al cuore, a quella impercettibile intermittenza oculare mentre tiene con sé il peso di quanto vissuto, tantissime donne – e altrettanti uomini – possono dire grazie.

(il manifesto, 31 maggio 2018)

di Anna Paola Moretti

 

Qualche tempo fa, in occasione della presentazione del libro Leda. La memoria che resta, col quale nonostante la scarsità delle tracce documentali avevo ricostruito la vita della diciottenne partigiana fanese Leda Antinori, Barbara Montesi, una giovane storica dell’Università di Urbino, aveva accostato quel lavoro alle modalità di ricerca utilizzate da Natalie Zemon Davies, suscitando la mia curiosità. Per conoscere Natalie Zemon Davis ho scelto di leggere La passione della storia. Un dialogo con Denis Crouzet, in cui lei dà conto della sua lunga esperienza. È un nome celebre, associato anche al volume Storia delle donne. Dal Rinascimento all’età moderna. È stata una pioniera; all’epoca in cui iniziò, oggi ha quasi novanta anni, c’erano pochissime storiche e alcune studiose di letteratura. Negli anni Cinquanta della Guerra Fredda ha attraversato l’ostracismo anticomunista del maccartismo americano, senza lasciarsi condizionare da risentimento o amarezza. I suoi interessi si sono rivolti prevalentemente al XVI e XVII secolo in area francese, scegliendo protagoniste e protagonisti rimasti ai margini della storiografia. Dice di aver fatto storia delle donne per via indiretta, per esempio, in occasione del suo studio sul dono, osservando i differenti comportamenti tra donne e uomini nelle diverse dinamiche tra dono e scambio.

Mi rendo conto di quanto definizioni categorizzanti, che la indicano come storica sociale o della microstoria, possano rivelarsi riduttive e fuorvianti. Dalle sue parole scopro infatti che non si è interessata solo alla condizione delle donne, ma alla soggettività di ciascuna a cui ha rivolto la sua attenzione. Nei confronti di Maria Sybilla Merian dice di voler “vedere quello che lei avrebbe visto”, riguardo a Glikl bas Yehudah Leib vuole “salvare questa donna, ridare valore a questa donna, restituirla a lei stessa”; mentre di una schiava nel Suriname del XVIII secolo, scrive: “Cerco la sua voce, le sue speranze, i suoi pensieri”. Della ricerca su quest’ultima, ancora in corso al momento dell’intervista, non ho trovato indicazioni di successiva pubblicazione, solo qualche segnalazione in interviste o conferenze.

Natalie Zemon Davies ha scritto di vite in cui donne o uomini hanno conservato la loro dignità malgrado sofferenze e delusioni; è il senso di quelle vite che vuole non vada perduto: frammenti di umanità, risposte umane a situazioni di vincolo, la capacità di elaborare soluzioni ai problemi da fronteggiare, di cavarsela con accorgimenti, astuzie, strategie per sopravvivere “tra”: “un’arte di vivere”. Dice tuttavia di non scrivere delle biografie, che mirano piuttosto all’esaustività, lei invece concentra la sua attenzione su alcuni aspetti per ottenere un’apertura sulla società, per rendere visibile la natura delle pressioni, delle risorse e delle possibilità che entrano in gioco in una vita individuale.

Lavora con empatia sulle fonti, mettendo in gioco la sua personale esperienza e il dialogo che ne scaturisce diventa dono e ricompensa di un lavoro continuo di apprendistato e riapprendistato, un esercizio di responsabilità. La ricerca sulle storiche vissute in Europa prima della Rivoluzione francese era stata “anche un modo per riflettere sulla mia situazione”, su “cosa significa essere una donna che scrive di un argomento storico”. Nel Prologo, sviluppato come scena teatrale, a Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, aveva convocato a una immaginaria conversazione con lei Glik bas Yehudah Leib, Maria Sibylla Merian, Marie de l’Incarnation, tre donne europee che in contesti diversi avevano scritto nel XVII secolo, dicendo loro: “Vi ho messo insieme perché volevo imparare dalle vostre somiglianze e differenze”.

Si situa simultaneamente al centro e al margine, muovendosi continuamente dall’una all’altra visuale, usa un doppio registro di partecipazione e di rigore: “questa storia richiede l’empatia e la distanza”; come lei lo crede anche Graziella Bernabò. Quando le fonti sono scarse, cosa frequente soprattutto per le vite delle donne, con uno sguardo ravvicinato Zemon esplora i contorni e i dintorni, per evocare ciò che è noto della mentalità relativa a un contesto analogo. E usa l’immaginazione.

L’immaginazione non genera prove, ma possibilità, è una facoltà conoscitiva con ancoraggio al reale, in grado di aprire varchi che restituiscono al reale la sua complessità, come ci ricorda Wanda Tommasi, filosofa di Diotima. Tuttavia la storica ha la responsabilità di indicare in ogni momento quanto di quello che afferma è documentato e allora Natalie Zemon Davis segnala puntualmente i passaggi tra realtà provata e possibile ricorrendo al condizionale o a segni di espressione: “forse”, “è certo”, “probabilmente”. Afferma con consapevolezza: “io scompiglio la frontiera tra poesia e storia così come è stata fissata da Aristotele tanto tempo fa. […] ricorro al possibile in ragione dei silenzi delle fonti”. Il superamento della divaricazione indotta anche tra poesia e filosofia ha impegnato la riflessione di María Zambrano, per la quale esiste un momento iniziale in cui sentire e capire non sono separati.

Zemon ribadisce con forza a Crouzet, suo interlocutore, che non si tratta di operare una proiezione o di scivolare in un’identificazione: “Voglio fare i miei salti di immaginazione a partire da un trampolino di dati” e con riferimento alle storiche antecedenti il XIX secolo dice: “per ciascuna potevo attestare l’universo mentale nel quale avevano scritto e ciò che i lettori maschi si aspettavano da loro”.

L’importanza di questa metodologia era stata colta e sottolineata da Carlo Ginzburg: “La ricerca (e la narrazione) della Davis non s’impernia sulla contrapposizione tra ‘vero’ e ‘inventato’ ma sull’interpretazione, sempre segnalata puntualmente, di ‘realtà’ e ‘possibilità’ (al plurale). […] il margine di incertezza […] innesca un approfondimento dell’indagine, che lega il caso specifico al contesto, inteso qui come luogo di possibilità storicamente determinate. […] ‘Vero’ e ‘verosimile’, ‘prove’ e ‘possibilità’ s’intrecciano, pur rimanendo rigorosamente distinti”. Aggiungeva: “Una maggiore consapevolezza della dimensione narrativa non implica un’attenuazione delle possibilità conoscitive della storiografia ma, al contrario, una loro intensificazione”. Ginzburg richiamava anche le riflessioni maturate dal Manzoni successivamente alla pubblicazione del suo romanzo storico I promessi sposi: “Non sarà fuor di proposito l’osservare che, anche del verosimile la storia si può qualche volta servire […] distinguendolo così dal reale. […] Infatti, per poter riconoscere quella relazione tra il positivo raccontato e il verosimile proposto, è appunto una condizione necessaria, che questi compariscano distinti. Fa, a un di presso, come chi, disegnando la pianta di una città, ci aggiunge, in diverso colore, strade, piazze, edifizi progettati; e col presentar distinte dalle parti che sono, quelle che potrebbero essere, fa che si veda la ragione di pensarle riunite. La storia, dico, abbandona allora il racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera possibile, a ciò che è lo scopo del racconto. Congetturando come raccontando, mira sempre al reale: lì è la sua unità”.

Anche Monica Martinat, preoccupata dell’indebolirsi dei confini tra storia e fiction veicolato dai media e dal mercato editoriale, riconosce a Zemon Davis una modalità magistrale, purtroppo a suo dire non troppo seguita dagli storici: “L’accettazione della parzialità del documento storico, del limite, dell’incertezza, diventa una fonte di possibilità cognitive interessanti”. “Io abito nella Possibilità” (I dwell in Possibility, [657]), scriveva Emily Dickinson.

Non sono tanto gli oggetti su cui ha scelto di lavorare Zemon Davis a destare il mio interesse, ma il suo sguardo.

Uno sguardo simile era arrivato a me per altra via e mi aveva sostenuto nella ricerca su Leda. Lo avevo scoperto in Marirì Martinengo che, nella sua appassionata e rigorosa ricerca sulla nonna paterna ne La voce del silenzio, scriveva: “è a partire dalla mancanza apparente o carenza o trascuratezza o interpretazione lacunosa dell’esistente che voglio ‘fare storia’”; “si può ‘fare storia’ anche in assenza o in penuria di documenti certi e attestati, facendo ricorso alle testimonianze o agli scritti dei contemporanei”; “Ho imparato da tempo a decifrare il linguaggio dell’assenza”; “L’area della non scrittura non è né muta né meno significante delle altre”. Lei mi aveva mostrato una storia che “non respinge l’immaginazione” rimanendo sempre ancorata a “pietre autentiche”, come diceva con le parole di Marguerite Yourcenar. In più aveva interrogato se stessa come documento vivente, depositaria di un nodo irrisolto che, sciolto, aveva aperto a nuove categorie interpretative dei fatti vissuti; la nuova pratica di storia vivente, sviluppata nel gruppo che lavora con lei da oltre vent’anni, già raccontata sulla rivista DWF (n.3/2012) e sul sito della Libreria delle donne di Milano, è stata oggetto di un convegno a Milano nel marzo 2017.

Natalie Zemon Davis mantiene la ricerca storica legata a un impegno politico. È conscia della tragicità della storia umana, ad esempio la spirale di violenza religiosa che ha insanguinato il Cinquecento europeo conosciuta coi suoi studi, o la Shoah che la tocca come ebrea. Nonostante “la guerra che continua ancora e sempre”, pensa che la storia possa trasmettere anche altro dalla violenza, poiché in ogni sistema esistono degli interstizi in cui si può definire una forma di libertà. “Voglio che la gente di oggi sia capace di collegarsi al passato guardando le tragedie e le sofferenze, le crudeltà gli odii, la speranza e la bellezza. Gli uomini del passato cercavano di dominare l’uno sull’altro, ma si aiutavano anche. Facevano cose sia per amore che per paura, questo è il mio messaggio. Soprattutto voglio mostrare che le cose potevano essere diverse, che erano diverse e che vi sono alternative. […] Voglio essere una storica della speranza”, poiché rivelare “i possibili del passato ci fa pensare i possibili per il presente e il futuro. Per me questi possibili del passato invitano all’impegno umano e suggeriscono un barlume di speranza per l’avvenire.

Come non avvicinare queste parole a quelle di filosofe che ho imparato ad amare come pensatrici della differenza sessuale? Mi richiamano nuovamente María Zambrano e la sua analisi sulla storia tragica e sacrificale, per umanizzare la quale è necessario recuperare il proprio passato, mettere allo scoperto le piaghe nascoste, sciogliere le amarezze contenute nella memoria; ciò che è rimasto presenza muta riaffiora e si protende verso il futuro, verso l’aurora di una nuova crescita; aurora che si ripete continuamente, così che le cose “si mostrano a noi come sempre nascenti”.

Mi ricordano anche la recente scelta di occuparsi del sangue risparmiato fatta da Anna Bravo, che scrive: “[…] tra gli storici c’è un’implicita accettazione dell’idea che siano la violenza e la guerra che fanno la storia. In realtà, come diceva Gandhi, se fosse stata egemone la guerra noi non saremmo vivi. Quindi, la domanda vera, anche da una prospettiva storiografica, è chi abbia risparmiato il sangue nelle grandi vicende storiche e come abbia fatto. Le storie di sangue risparmiato bisogna saperle riconoscere, bisogna saperle vedere”..

Accade che donne distanti, provenienti da formazioni diverse, dotate di capacità di ascolto e di interrogazione, diano vita a pensieri che risuonano densi di convergenze e di elementi in comune.

Tessere il filo per rendere visibili i nessi possibili, ponendo a interprete la nostra soggettività, è creare genealogia femminile, espressa da Mary Daly con la metafora delle radici invisibili che si collegano sotto terra a formare un reticolo da cui attingere energia. Quel nutrimento aiuta a dire le urgenze che fanno parte della nostra consapevolezza di oggi: “qualcosa che il mio presente richiede che sia detto proprio da me in dialogo fedele con le fonti che ho scelto di cercare e il caso mi ha portato a trovare”, come ha scritto María-Milagros Rivera Garretas. Le sue parole, che a Roma nel 2006, al convegno “Il pensiero dell’esperienza”, mi avevano sorpreso tanto da invitarla poco dopo a Pesaro per un incontro seminariale, ci sollecitano a rinnovare costantemente il proprio mettersi in gioco nella scrittura femminile della storia.

 

Nota. Mi sono confrontata più volte con Luciana Tavernini che ringrazio.

 

Riferimenti bibliografici

Graziella Bernabò, Scrivere biografie di donne, in «DWF» n.3, 2012; cfr. anche l’intervista a lei di Marina Santini e Luciana Tavernini, Parlare con onestà alle persone oneste, in«Via Dogana» . 88 marzo 2009

Anna Bravo, “Sangue risparmiato”, in «Gli asini», n. 19 gennaio/febbraio 2014; cfr. anche La conta dei salvati. dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato”, Laterza, Bari 2013

Mary Daly, Quintessence: il viaggio metapatriarcale di Rabbia e Speranza, a cura di Luciana Percovich, Libera Università delle donne, Milano 2003

Emily Dickinson, Poesie e lettere, traduzione di Margherita Guidacci, Sansoni, Firenze 1961

Carlo Ginzburg, Prove e possibilità. (Postfazione a Natalie Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre. Un caso di doppia identità nella Francia del Cinquecento, 1984), in Id Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce.Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006

Monica Martinat, La frontiera tra vero e finto, seminario Università di Padova 11/11/2013 in https://www.youtube.com/watch?v=URqXrAERFEU; cfr. anche Monica Martinat, Tra storia e fiction. Il racconto della realtà nel mondo contemporaneo, Milano: Et al, nonché il resoconto dell’incontro del 9/11/2013 al Circolo della rosa a Milano in http://www.libreriadelledonne.it/tra-storia-e-fiction-il-racconto-della-realta-nel-mondo-contemporaneo-et-al-edizioni-2012.

Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005. Vedi anche http://www.libreriadelledonne.it/category/approfondimenti/storia_vivente/

María-Milagros Rivera Garretas, La storia vivente: una storia più vera. I guadagni di una relazione che non ha fine, in «DWF» n. 3, 2012

Anna Paola Moretti, Maria Grazia Battistoni, Leda. La memoria che resta, Anpi Fano, 2015

Wanda Tommasi, Introduzione a Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale, Liguori, Napoli 2009

María Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000

María Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 2010

Intervista a Natalie Zamon Davis, in «Memoria. Rivista di storia delle donne», n.9/1983

Natalie Zemon Davis, Arlette Farge ( a cura di) Storia delle donne Dal Rinascimento all’età moderna, in Georges Duby, Michelle Perrot, Storia delle donne in occidente Laterza, Bari 1991.

Natalie Zemon Davis, Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Laterza Bari 1996

Natalie Zemon Davis, La passione della storia. Un dialogo con Denis Crouzet, a cura di Angiolina Arru e Sofia Boesch Gajano, Viella, Roma 2007

https://bukubooks.wordpress.com/jews/mattheus/, http://www.skript-ht.nl/vervolg-interview-natalie-zemon-davis/

 

(Duoda, n. 54, 2018)

di Daniela Bezzi

«Fin da bambina, era come se nel mio intimo ci fosse un tizzone di brace ardente. Crescendo, fui testimone della violenza domestica su mia madre e già in giovane età questa brace prese la forma di poesie…» Così si presenta Jacinta Kerketta nell’incipit alla sua prima raccolta di poesie dal titolo Angor, appena pubblicata dalla Miraggi Edizioni di Torino, con il titolo appunto Brace. Una quarantina di poems vibranti di tensione per quel continuo stupro di terre (oltre che di corpi) del quale è stata testimone fin da bambina nelle zone tribali del sud Jharkhand, in cui è nata. Land grabbing, sfollamenti, regolamento di conti tra minatori e caporali, dispute regolarmente risolte in favore del più forte, foreste teatro di ogni genere di saccheggio – e poi la fame, “che diventa fuoco”; campi impunemente sacrificati, magari a una diga. E la città che avanza, annulla/rimescola ogni identità: questi i temi che ricorrono nel lavoro di Jacinta, fortemente intriso di determinazione al riscatto e impegno a tutto campo, come animatrice di workshop di scrittura creativa nei villaggi, come role model per tante donne (e anche maschi) più giovani di lei, come esploratrice di quell’infinito field work che è il personale/politico – e quindi appunto scrittrice.

In questi giorni Jacinta è in Italia, protagonista di un lancio degno di una star: ieri era alla Ca’ Foscari di Venezia, per una lecture dal titolo quanto mai intrigante, Voices of Nature, Voices of Human Beings. Milano la vedrà oggi ospite della Libreria delle Donne, e lunedì dell’Università Statale; e poi Torino, Roma (tutti i dettagli nel Box) «e senza alcun bisogno di crowdfunding, perché ci sono situazioni, come questa che siamo riusciti a mettere in moto, dove bastano e avanzano le relazioni» commenta il suo editore/agente/amico Johannes Laping, che da anni frequenta quelle zone in rivolta in cui lei è nata, come attivista della piccola Adivasi Koordination che ha contribuito a fondare in Germania nel 1993 – quando le popolazioni indigene dell’India non se le filava nessuno…

Quel che segue è il succo di una lunga chiacchierata telefonica con Jacinta Kerketta qualche giorno fa, in attesa di incontrarla di persona.

 

Il tuo CV racconta di uno strepitoso debutto professionale come giornalista: borse di studio, premi, promettente carriera da inviata nelle zone calde del centro India, che poi interrompi per darti alla poesia…  

Avevo deciso di diventare giornalista, iscrivendomi alla Facoltà di Mass Communication di Ranchi (e per questo devo ringraziare mia madre), dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia. Avevo voglia di raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là, e poi i Premi, alcuni importanti… al punto da farmi decidere a un certo punto di lasciare il quotidiano Prabhat Khabar (testata in lingua hindi con enorme seguito, ndr) e continuare come free lance. Una gioia alzarmi presto la mattina, fiondarmi dove mi pareva a bordo del mio scooter, il pomeriggio tutto per me, pubblicare quel che volevo, magari solo sulla mia pagina Facebook – ed è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.

 

Ho dato uno sguardo alla tua pagina FB: non c’è componimento che non registri centinaia di condivisioni, ti ho visto nominata “ambasciatrice della causa adivasi fuori dal Jharkhand”…

Sorprendente anche per me. L’unica spiegazione è che la poesia risuona con un’intimità speciale, in immediata sintonia con la musicalità rapsodica della gente per cui scrivo, che magari è inurbata da due generazioni ma nel suo intimo non ha perso il ricordo di ciò che nutre anche il mio scrivere: e parlo del sarna, quello che voi tradurreste come animismo, e che per noi è proprio un sentirsi dentro, ritrovarsi nella propria essenza dentro il creato, immaginare ciò che certi alberi o pietre hanno visto, in dialogo con il profilo delle colline, con la voce dei fiumi… un senso di viscerale appartenenza che nei miei versi si intreccia a fatti di inaudita brutalità, di cui tutti ormai sanno (grazie ai social networks) senza bisogno dei giornali. L’ultimo è di pochi giorni fa: decine di morti ammazzati, contadini innocenti, nell’ennesima battuta di caccia contro i naxaliti, in Bastar. Una guerra di cui nessuno parla da voi e che ha di nuovo traumatizzato quella terra di foreste da cui provengo.

 

Di tutto questo scrivi in hindi, che non sarebbe la tua lingua madre…

Ti sorprenderà sapere che l’hindi è la mia prima lingua, benché io appartenga all’etnia Oraon la cui lingua sarebbe il kuruk. Ero piccola quando i miei genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla più vicina cittadina, Manoharpur. Mio padre era entrato nei ranghi della polizia (un sogno per un giovane adivasi di allora, come per tanti giovani di oggi, ahimè) e la mia educazione fu in hindi e poi in inglese, neppure a casa si parlava il kuruk. L’ho dovuto quasi imparare, quando ho cominciato a tenere i miei corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…

 

Su questo tema è appena uscita infatti la tua seconda raccolta poetica, Land of the Roots, Terra di Radici, che presenterai in Germania subito dopo questo tour italiano.

Importanti le radici, questo ho scoperto rivivendomi nella mia identità più ancestrale di donna adivasi – questo cerco di trasmettere con le mie poesie. Esattamente come per quegli alberi secolari, quei campi che sono stati ricavati disboscando solo alcune zone, quegli esseri che armonicamente ci vivono dentro, partecipi di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalits contro adivasi, e all’interno del mondo adivasi ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia. Ma come dimostrano i corpi rimasti sul terreno nel massacro di pochi giorni in Bastar, questa è una guerra che non risparmia nessuno. 

(il manifesto, 5 maggio 2018)

 

Il libro di Jacinta Kerketta, Brace (Miraggi Edizioni, Torino 2018), con testo a fronte in hindi, è in vendita presso la Libreria delle donne di Milano.

di Cinzia Colajanni

Di Leda Antinori, staffetta partigiana, si è parlato a Catania il 18 aprile 2018, in preparazione della festa della Liberazione. Per iniziativa de La Ragna-Tela, Le Città vicine e Catania Libri è stato, infatti, presentato il libro “Leda. La memoria che resta” di Anna Paola Moretti e Maria Grazia Battistoni, che hanno fatto un eccellente lavoro di ricerca per recuperare la memoria di questa giovane partigiana. “La sua storia è un’occasione per ‘riguardare’ la presenza delle donne nella Resistenza, che fu partecipazione di massa, silenziosa, anonima, collettiva, ricercando le parole delle protagoniste e il senso che diedero alle loro azioni”. Con questo spirito, si sono confrontati con le autrici Domenico Stimolo e Sara Crescimone, dopo un’introduzione di Anna Di Salvo che ha sottolineato la figura di questa donna “molto giovane ma capace di scelte determinate, che ha qualcosa di significativo da dire a donne e uomini non solo sulla ricerca di libertà dall’occupazione straniera e dall’ideologia fascista, ma anche sulla ricerca di una misura per sé, senza dover corrispondere a modelli imposti, neppure a quelli emancipativi”. Cinzia Colajanni, componente della rete La Ragna-Tela, ci ha inviato una sintesi del dibattito, che volentieri pubblichiamo.

La vita di Leda può essere considerata una rappresentazione del rapporto donna-Resistenza. Leda mette a repentaglio la vita non solo per dare il proprio contributo alla liberazione degli italiani dall’ideologia fascista e dall’occupazione nazista ma anche per un bisogno di riscatto personale. Come lei, le donne della Resistenza decisero di agire per una libertà futura, declinabile perché già presente in ciascuna di esse.

La mentalità patriarcale e maschilista, presente anche nelle menti dei partigiani, sopita durante il periodo della lotta armata, riaffiorerà in tutta la sua virulenza quando, al ritorno alla normalità, dovendo ripristinare gli atavici ruoli degli uomini e delle donne, si celebrerà la Resistenza come guerra di uomini, “supportati amorevolmente” dalle cure di madri, mogli e figlie.

A poco servirà, per il riconoscimento della eroicità di Leda, avere perso la vita, perché oltre al suo essere donna un altro elemento metterà in ombra il suo sacrificio, l’avere combattuto senza armi.

Si dovrà attendere la fine del Novecento perché si affermi il concetto di Resistenza civile. Solo allora si darà importanza a chi ha messo a repentaglio la propria vita non con gesti che comunemente gli uomini considerano eroici ma con gesti per così dire semplici ma assolutamente necessari per la sopravvivenza di chi si trovava in prima linea, nelle montagne o nei luoghi di preparazione delle azioni di guerriglia; necessari anche per le azioni di ribellione della cittadinanza, che era il principale bersaglio di quella guerra, azioni di cui soprattutto le donne si erano rese protagoniste. “Le staffette sapevano che, se catturate, avrebbero dovuto affrontare carcere e interrogatori, il rischio delle torture e degli stupri, anche la deportazione, come è stato in alcuni casi. Non era una mansione che si potesse compiere inconsapevolmente. La loro azione era pericolosissima e il loro ruolo non residuale; in un esercito regolare queste mansioni erano compiute da ufficiali di collegamento”. Scrive ancora Pietro Secchia “Le staffette costituivano un ingranaggio importante della complessa macchina dell’esercito partigiano. Senza i collegamenti assicurati dalle staffette le direttive sarebbero rimaste lettera morta, gli aiuti, gli ordini, le informazioni non sarebbero arrivati nelle diverse zone”. È ormai riconosciuto, numeri alla mano, che l’esercito di liberazione, considerando le forze combattenti e le forze d’appoggio, era composto in maggioranza da donne e che senza esse non sarebbe stata possibile alcuna azione militare. Non generico contributo alla lotta quindi ma condizione indispensabile per lo sviluppo della Resistenza.

A febbraio del 1945 (due mesi prima della sua morte) Leda prova a scrivere un diario perché vuole fare conoscere la sua storia smentendo il luogo comune sulla “modestia” delle donne che non avrebbero voluto riconoscimenti.

Uomini hanno deciso che le donne che avevano partecipato alla Resistenza volevano l’anonimato. Le autrici ricordano che in una pubblicazione per “l’anno internazionale della donna”, nel 1975, la Presidenza del Consiglio dei Ministri scriveva: “Ci siamo astenuti da citare i nomi di queste eroine perché abbiamo ritenuto doveroso rispettare il carattere che le donne italiane hanno voluto dare alla loro generosa ed eroica partecipazione. Le donne italiane della Resistenza vollero infatti partecipare alla lotta per la libertà in modo collettivo e anonimo”.

In realtà le donne non chiesero riconoscimenti perché pensavano che ciò che avevano fatto fosse semplicemente doveroso, anche se alcune non volevano rendere noto ciò che avevano fatto per ragioni di prudenza.

Le condizioni eccezionali scaturite dalla guerra permisero di sorvolare su un comportamento pubblico che non fu considerato possibile mantenere, per donne rispettabili, in un paese ormai pacificato. Sembrò naturale rinchiudere nuovamente le donne in casa ed esse trovarono impossibile tradurre, nella mutata situazione, l’esperienza vissuta.

Le donne, partecipando alla guerra, avevano cominciato a ripensare il mondo e a rifondare valori. Non si sentivano più madri o figlie ma persone. La loro partecipazione ebbe quindi un carattere politico, anche se l’occultamento di questo carattere politico fece sì che le donne della Resistenza fossero rappresentate come figure secondarie di cui, nei documenti e nelle ricorrenze pubbliche, si poteva anche non dirne il nome.

Così tante figure di rilievo sono state a lungo ignorate.

Uomini e donne ebbero comunque un diverso modo di vivere la Resistenza, anche quando le donne combatterono con le armi. La diversa identità sessuale le porta infatti a percepire il mondo in termini di vita e di creazione e non di morte e distruzione.

E questa pratica orientata alla vita spiega la richiesta finale avanzata alla famiglia da Leda: non fare vendette, anche se si conoscevano i nomi dei suoi delatori.

 

(www.argocatania.org, 3 maggio 2018)

di Stefania Tarantino

 

Presento questo libro alla luce di tre esperienze che ho vissuto recentemente. La prima. Qualche giorno fa ho avuto un incontro raro. Ero impegnata nei lavori di pulizia di una casa appena ristrutturata nel Cilento. Ho sentito un canto di uccelli che non avevo mai sentito prima. Incuriosita da quel canto, ho lasciato ciò che stavo facendo e mi sono precipitata fuori. Ciò che mi è apparso davanti mi ha lasciato senza fiato e mi ha riempito di stupore. Una ventina di coloratissimi gruccioni, conosciuti scientificamente come Merops apiaster, volteggiavano in una danza emettendo trilli continui. Devo dire che ho scoperto solo dopo che si trattava di gruccioni. Quando li ho visti non sapevo che tipo di uccelli fossero e quei colori intensi che andavano dal blu al giallo, dal rosso al verde, e quelle ampie ali appuntite mi avevano fatto pensare che fossero una specie di pappagalli, ma la cosa era davvero un po’ strana. Che cosa ci facevano i pappagalli nel Cilento? No, non era possibile. Così, cercando le specie di uccelli migratori che passano per le coste cilentane e scandagliando un po’ di immagini, ho capito che si trattava dei gruccioni. Questo incontro mi sembra perfetto per introdurre e invitare alla lettura dell’ultimo libro di Antonietta Potente, Come il pesce che sta nel mare (ed. Paoline, Milano 2017), in cui c’è una parte dedicata proprio al nome e al canto degli uccelli. Ho compreso meglio che cosa l’autrice ci indica con il sottotitolo: la mistica luogo dell’incontro. Infatti, questo suo libro che non è una storia della mistica in senso stretto né la descrizione degli stati estatici vissuti nell’esperienza mistica è la storia di tutti quegli incontri inaspettati che hanno il potere di trasformare la nostra vita. Ma c’è di più: è anche un invito a non stancarsi mai di osservare ciò che ci circonda nella sua evidenza. Imparare a fare spazio a ciò che percepiamo nella sua misteriosità e inesprimibilità. Nelle differenti testimonianze che emergono sul senso della mistica e attingendo a fonti cristiane, ebraiche e islamiche, l’autrice parla della mistica come asse trasversale che sottende i nostri movimenti, come esperienza di un accadimento indescrivibile che fa parte di un percorso assolutamente umano e naturale. È proprio nel mistero delle cose che ci accadono e che ci circondano che, secondo l’autrice, c’è disvelamento della realtà più reale. E ciò accade non in momenti straordinari, ma nella vita di tutti i giorni. Antonietta Potente fa notare come una delle vie mistiche di radice antichissima sia proprio la lingua degli uccelli che troviamo nei miti, nelle fiabe, nei racconti popolari, nei cantici e nei modi di dire delle tradizioni orali popolari. Il corpo ha un suono e il corpo alato e sonoro degli uccelli ha sempre assunto, nelle variegate e differenti civiltà, un ruolo spirituale molto importante, sia rivelatore che ammonitore. Non esiste una mistica senza il coinvolgimento del corpo e il corpo è possibilità di unione, di condivisione, di scambio. Il suono risveglia forze interiori, energie misconosciute e assopite che, se solo vi prestiamo attenzione, ci mostrano un legame indissolubile. Da qui la domanda: che cosa ne facciamo di tutti quei bellissimi cantici di una divina presenza che lascia scie di luce al suo passaggio? La risposta la potremmo trovare se solo iniziassimo a pensare che più che di nozioni è di ali che abbiamo bisogno.

La seconda esperienza riguarda una mia recente visita a Palazzo Steri di Palermo, dove ho visto per la prima volta i graffiti e le scritte lasciate da tutti quegli uomini e quelle donne che hanno vissuto nell’infernale macchina dell’Inquisizione. Si tratta di mura che, nonostante lo scorrere del tempo, trasudano dolore e sofferenza. Parole e disegni che testimoniano di torture indescrivibili, di disumani isolamenti, di corpi in cui è stato spento qualsiasi barlume di scintilla interiore. Antonietta Potente ci spiega come la mistica sia ricucitrice di ferite, spostamento in ogni direzione, sbilanciamento dal limite del corpo, trasformazione per l’indicibilità di ciò che si sente e si vede. Ed è anche ciò che ritorna sempre poiché, lo spirito degli uomini e delle donne libere, ritorna anche quando li bruci, li torturi o li allontani. La mistica è ciò che sottende alla vita come il rizoma lo è per le piante.

La terza esperienza riguarda il sapere nella sua forma più generale. Se la nostra conoscenza non ci apre le porte della nostra interiorità, se non smuove qualcosa nel profondo di noi stessi, tutto ciò che diciamo e facciamo resta miseramente sterile. Non a caso, in questo libro, la ragione deve diventare porta maestra dell’amore. La porta è un altro significante importante della mistica a Oriente come a Occidente e indica il superamento di ciò che pensiamo separato chiudendo così qualsiasi possibilità di incontro. Qui la forza politica trasformante del messaggio mistico, come cammino di ricerca che apre spazi, riunifica le vite, riporta alla sorgente delle cose nella loro semplicità. La sapienza cui la mistica allude nasce dalla sete e ha il tono di un’invocazione che travalica gli stretti confini della razionalità che, anche nel suo massimo dispiegamento, non ha impedito gli orrori ed errori della storia. È necessario guardare e guardarsi dentro perché è solo nella profondità che possiamo vedere il principio. Il libro è cosparso di citazioni che provengono dal mondo mistico dell’Islam. È in quel mondo che l’autrice vede l’origine di quella pura luce che dobbiamo lasciare entrare negli interstizi più oscuri. Un’immensa sete di sapere, di giustizia, di bene, ha accomunato da sempre spiriti lontani e diversi. Unire la propria sete a quella degli altri, capire che ciò che dà significato vero alle nostre vite ci proviene dal di fuori di noi stessi, oltre ai perimetri su cui abbiamo tracciato i nostri confini sempre più tristi e mortiferi. L’accumulazione, la guerra, la privatizzazione, tutto ciò ci fa perdere la gioia dell’incontro, di qualsiasi natura sia. Non si tratta di essere credenti o meno. Questo libro ci domanda quali sono oggi le pratiche politiche che possiamo mettere in campo per imparare nuovamente a leggere la realtà e per uscire da questa storia che distrugge tutto e separa ogni cosa. E ci domanda anche di rivolgerci a quelle dimensioni che si intersecano e si legano tra loro poiché, come scrive l’autrice, ci deve essere un luogo in comune, uno spazio, un cuore dove viviamo, nella verità della differenza, questa bellissima appartenenza gli uni agli altri, le une alle altre.

 

La composizione del libro

“Come il pesce che sta nel mare” riprende una frase presente all’interno del Dialogo della divina provvidenza di Caterina da Siena. L’autrice ne riprende anche la forma dialogica. Si tratta, infatti, di sei lettere indirizzate ad amici e amiche che condividono con lei percorsi sperimentali di vita e di saperi. Il libro si apre con un’introduzione cui l’autrice dà, significativamente, il titolo di una lettera di San Paolo ai Corinzi: La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Il primo dialogo s’interroga sul senso della mistica ed è una lettera indirizzata a un suo fratello boliviano. Il secondo dialogo traccia un cammino interiore ed è una lettera indirizzata a un’amica musulmana. Il terzo dialogo tratta del nome e del linguaggio degli uccelli ed è una lettera indirizzata a una sua sorella boliviana. Il quarto dialogo approfondisce il significato della questione mistica e del fatto che se anche Dio non fosse, ci sarebbero comunque i corpi con la loro sete ed è una lettera indirizzata a una sua amica veronese. Il quinto dialogo riguarda una riflessione sulla quotidianità della mistica ed è una lettera indirizzata a un’altra sua amica veronese. Il sesto dialogo si occupa del significato attuale delle pratiche mistiche ed è una lettera a una sua amica veneziana. Le conclusioni sono fatte come se dovessimo concludere.

 

Il libro sarà presentato all’Istituto Italiano per gli studi filosofici di Napoli (Via Monte di Dio, 14) da Stefania Tarantino il 7 maggio 2018 alle ore 17 alla presenza dell’autrice.

 

(www.libreriadelledonne.it, 1 maggio 2018)

di Annalena Benini

Che sollievo rileggere Luisa Muraro tutte le volte che prende una rabbia o anche solo una confusione

Degli uomini piace il loro andare a caccia di grandezza e inventarsi imprese e avventure, ma fa paura quello che poi troppo spesso si lasciano dietro, come rotoli di filo spinato, lattine, carcasse, odi, confini tracciati a caso… E non piace niente quando si rincorrono in un pulviscolo di titoli, cariche, carriere, promozioni; vedere fra loro delle donne è imbarazzante. Il privilegio di essere donna dà una grandezza d’altro tipo, che viene incontro fra le cose ordinarie della vita e arriva fino alle più straordinarie.

Questo libro è uscito parecchi anni fa, ma tutte le volte che mi prende una rabbia, o anche solo una confusione, io sento il sollievo di rileggerlo. Luisa Muraro è un filosofa, socia fondatrice della Libreria delle Donne di Milano, e le sue parole danno forma ai pensieri confusi, danno pace quando si sente venire vicina la guerra, per il potere, per la rivalsa, per l’affermazione di un’uguaglianza fra uomini e donne che però non deve mai cancellare la differenza fra uomini e donne. La differenza è importante, importantissima: noi siamo diverse dagli uomini, e non significa che gli uomini siano nemici. Non significa nemmeno che gli uomini non siano grandi, o non possano diventare grandi, ma nelle donne, scrive Luisa Muraro, «la grandezza c’era da prima, era sua da prima, non appariscente, come un’avventura segreta, come un abito di tutti i giorni ma disegnato da Valentino».

Partendo da questo presupposto, un privilegio di nascita, una potenza nascosta, è tutto più semplice, e si può usare creativamente, pacificamente, l’energia che deriva dalla differenza, e capire, come giovanissima ha capito Simone Weil, prima di arrivare a sentire la giustizia «è necessario avere sentito fino a che punto essa non esiste». Giustizia di comportamento, giustizia di trattamento, giustizia di un’esistenza giusta. «Quando c’entra la differenza sessuale (e in questo senso dico: fra donne e uomini come anche fra donna e donna), si gioca una partita che oltrepassa le misure della giustizia, con effetti di tensione e conflitti che finora sono stati malamente capiti e peggio ancora risolti». Essere donne è una fortuna per l’umanità, ma non è facile per noi, non è semplice, e si rischia di fare ingiustizia nel nome della giustizia, o di cedere al rancore, anche perché l’idea di un’eccellenza femminile non chiude la partita, non basta, anzi la riapre. Però ecco, c’è, «nelle donne per sé stesse, che siano madri o no, qualcosa che eccede il confronto con gli uomini, qualcosa di incomparabile. Un teologo, Pierangelo Sequeri, commentando la creazione di Eva nell’arte cristiana, lo ha espresso bene con parole sue: la donna e Dio hanno un segreto di cui Adamo (raffigurato dormiente) non verrà mai a capo».

Le donne dovrebbero dirselo più spesso, gli uomini dovrebbero riconoscerlo in un modo più esplicito, anche per liberarsi dal narcisismo. Ma è difficile, e succede quasi solo segretamente, però Luisa Muraro consiglia una mossa benefica, quando tutto diventa insopportabile e finto, la mossa dello schivare: «Si tratta di uscire di colpo, con un salto di essere, dalla traiettoria del sempre più potere che ti si para davanti o ti prende di mira da dietro, dove i predatori saranno prede. E darsi invece a vivere nel mondo reale con il semplice potere che è un poter essere e un far essere, e con le capacità ricevute insieme alla vita di godere, soffrire, desiderare e, in caso, amare». Non significa non desiderare tutto, non avere tutto. Significa stare sul crinale, vivere come il surfista, sulla cresta dell’onda, e del surfista avere l’umore felice.

(Il Foglio, 7 aprile 2018)

di Antonella Cilento e Rosaria Guacci

Le storie hanno una potenza inesauribile, prevedono tenacia, dedizione al dire, capacità di ascoltare. Possono salvarci la vita, come sapeva bene Sherazade, l’eroina delle Mille e una notte: pagina dopo pagina, notte per notte, lei non smette di narrare per essere risparmiata dal sultano che, esigente, pende dalle sue labbra. Il nostro moderno sultano è il tempo: narrare significa andare a patti con questo assoluto padrone delle nostre vite. Davvero, parafrasando il titolo di un indimenticato libro di Alberto Savinio, noi, donne e uomini, dovremmo essere obbligati a narrare le nostre storie per avere più vita. O ancor meglio, per essere restituiti a una sorta di esistenza più piena di quella che temiamo sia resa grama dalla quotidianità. Di questo sì è parlato in Libreria delle donne sabato 24 marzo durante la presentazione di Morfisa o l’acqua che dorme di Antonella Cilento.

Un po’ di trama e le ragioni del romanzo:

«Non siamo soli se per noi brilla di notte la lanterna del faro che Stevenson guardava, da bambino, immaginando sfrenatamente storie.

Quella lanterna brilla tutta la vita, a letto con la febbre, dalle finestre di scuola, lungo le strade, nel buio e nella luce. Brucia anche col sole. Chiudiamo gli occhi e c’è, luminosa finché viviamo.

Mi conosco, dunque invento. Mi conosco, dunque creo.”» È a questa logica che risponde il romanzo Morfisa o l’acqua che dorme scritto da Antonella Cilento per Mondadori. Morfisa è l’ultimo romanzo di questa scrittrice feconda (a quarantasette anni ha scritto quindici romanzi) e non appartiene alle cosiddette narrazioni mainstream, quelle oggi di moda: «non è un’autofiction, non è una non fiction novel, cioè un romanzo che finge, denunzia o solletica i buoni sentimenti. Appartiene piuttosto a un’antica tradizione, messa a lato, almeno per ora, dall’ansia di realismo di un Paese che non sa più distinguere la finzione dalla realtà.»

Morfisa è la storia di una bambina nera, la giovanissima figlia del duca Giovanni – per questo è chiamata ducissa – che regge il Ducato filo-bizantino di Napoli nell’Anno Mille. La piccola non può camminare ma miracolosamente entra nei sogni di tutti. È il “monstrum vel prodigium” prediletto dagli autori greci e latini: una creatura meravigliosa che fa ogni genere di prodigi, risana i malati, ne lenisce le pene del corpo e dell’anima. I napoletani la venerano come la loro “Marunnella” nera o Theotókos, la Madre di Dio che al solo tocco o al tono della voce li può salvare. Soprattutto è polimorfa, come l’etimologia del suo nome suggerisce: può mutarsi in ciò che vuole – balena, aquila, cinghiale, atleta che, come l’Atalanta del mito, vince tutte le gare e si impone sui segni e sui sogni che chi in sonno la rievoca produce. Al posto della sorella maggiore Crisorroè, morta in un naufragio, va condotta a Bisanzio come sposa dell’imperatore Costantino dal poeta Teofanès Arghili, inviato a questo scopo a Napoli dalle due imperatrici bizantine Teodora e Zoe, per ricucire l’alleanza tra Bisanzio e Napoli. 

In che situazione è la Napoli dell’undicesimo secolo in cui il romanzo ha inizio? Sono molti i pretendenti che la desiderano: i longobardi l’hanno persa, i salernitani la odiano, gli amalfitani la contendono, i mori la pretendono, i normanni l’occuperanno, il papa non la vorrà sotto il suo protettorato perché «i napoletani sono più greci che cristiani»: l’avventura, insomma si complica.

«Teofanès scoprirà che Napoli è rimasta pagana e che le donne, per quanto vittime di stupri e incesti, sono depositarie di antichi saperi e poteri» (se li contendono le Sangennare, le seguaci della tradizione, e le Virgiliane, donne più libere discendenti dal poeta Virgilio qui addirittura assurto a santo protettore della città). Tornando a Morfisa, lei possiede, fra i suoi molti doni, l’arte che manca all’incapace Teofanès, quella di raccontare storie. «Mentre il romanzo del poeta non va avanti di un rigo, Morfisa conosce invece le trame di tutte le storie raccontate e da raccontarsi (persino la versione sumera di “Orgoglio e pregiudizio” o quella bizantina di Peter Ibbetson – ricordate il film Sogno di prigioniero? – Ha le sue personali versioni di Cervantes, Kafka, Saramago e altri ancora.)»

La trama da qui in poi si fa sempre più intricata e popolata ma la interrompiamo. Qualcosa l’abbiamo già anticipata: essa affonda i suoi piedi in pezzi di storia autentica. «Napoli, per oltre sei secoli Ducato autonomo di pertinenza bizantina, di fatto nell’Anno Mille è del tutto indipendente. È l’unica epoca in cui non è colonia, vittima o regno straniero e pochi e complicati a leggersi sono i documenti di un periodo pur così lungo, favoleggiato da Benedetto Croce e dagli storici risorgimentali come l’epoca felice dell’indipendenza cittadina. Insomma, fino all’anno Mille, all’XI secolo del romanzo, Napoli città piccola (molto più piccola della grande città angioina e della megalopoli spagnola che è l’antenata della città odierna) ma fornita di un grande esercito e di navi competitive, salva spesso Roma; però è destinata ad esser presa dai Normanni e a finire nell’orbita occidentale, perdendo la sua fortissima radice greca. Che resta altresì nella lingua, nella filosofia, nell’immaginario letterario e nelle sue leggende.» Potente, sapiente e libera come lo sono le protagoniste della narrazione, donne che conoscono ciò che a pochi è noto, e amministrano il mistero della creazione – il segreto dell’Acqua che nel romanzo avvolge la città come un manto e che può stare ferma e muoversi freneticamente nel corso dei secoli. Non importa che a interrogarla e muoverla siano mercantesse disinibite, ducisse decapitate, “marunnelle” dai piedi monchi, imperatrici viziate, monache volanti, atlete in corsa, immani balene. Qui le donne sono potenti: il romanzo mette in scena il Girl-Power, come si dice in linguaggio più corrente. Da tempo Antonella Cilento pensava che questa epoca andasse narrata in un romanzo, «specie considerando che noi abitiamo in pieno romanzo bizantino», lei suggerisce nel testo; «quest’antesignano del romanzo moderno, notissimo a Boccaccio o ad Ariosto, è oggi, come la gloriosa storia dell’Impero d’Oriente, relegato negli studi specialistici, mentre se lo leggessimo ci accorgeremmo che Beautiful, Sentieri, Il trono di spade, House of Cards e qualunque narrazione seriale, qualunque telenovela e qualunque romanzo vengono da lì. Siamo abituati a vedere personaggi che inopinatamente muoiono e risorgono? Bene, è quel che accade nel romanzo bizantino. Siamo abituati a vedere matrimoni incrociati? Anche questo accade. E la forma era già così consumata che Boccaccio nella novella del Decamerone intitolata “Alatiel” la prende in giro: Alatiel, stuprata in ogni porto del Mediterraneo, arriva infine al matrimonio, vergine.»

I riferimenti letterari (le madri)

Per finire, alcuni cenni agli antecedenti letterari di questo romanzo, alle scrittrici e agli scrittori che l’hanno nutrito. L’Anna Maria Ortese del racconto Un paio di occhiali (in Il mare non bagna Napoli), non fosse altro perché a dieci anni, era il 1980, come Antonella ha raccontato in un’intervista, quella raccolta fu il suo libro di lettura a scuola. Alla piccola Eugenia nel racconto «mettono gli occhiali da vista, e da “cecata” di colpo il mondo le appare molto diverso: la Napoli a lei più prossima, quella dei genitori, dei nonni, volta il dito verso di lei: “de te fabula narratur”. Non si trattava più di divertirsi, di viaggiare in mondi lontani e immaginarsi storie diverse, moltiplicate in pirati e piratesse, ragazzi che fuggono nella brughiera, principesse (non solo Salgari, Verne, Stevenson e tutte le letture che si facevano a quei tempi e si dovrebbero sempre fare) ma si tratta di lei»: per colpa di quel racconto l’autrice cominciò a scrivere.

Un altro libro-guida tre anni dopo lo ricevette in dono dal padre, i Racconti italiani del Novecento curati da Enzo Siciliano. «Fra molti altri, Anna Banti narrava in Tela e cenere di un Caravaggio maledetto (una Negazione di San Pietro) che continua a passare, secolo dopo secolo, di mano in mano portando una terribile sfortuna», così come l’uovo magico di Morfisa, quello che la tradizione napoletana vuole custodito a Castel dell’Ovo in una brocca d’acqua, capace di ispirare le storie – uovo che come il magico anello del Signore degli anelli fa impazzire dal desiderio ma danna chi lo possiede. E ancora di Ortese va ricordata L’infanta sepolta, «il bellissimo racconto in cui una madonna nera (la relazione con Morfisa è evidente) chiusa in una teca di cristallo, poco visitata, buia, fa venire in mente a una ragazza che va a vederla in chiesa ogni giorno che la madonna possa essere viva; sia una vera donna chiusa dietro il vetro e che tutti lo sappiano, specie i preti, e che lei muova una mano e chieda notizie del mondo esterno, “urgenti notizie della notte”». E questo è il titolo che avrebbe dovuto avere Lisario, o l’infinito piacere delle donne, penultimo romanzo di Cilento, incluso nella Cinquina del Premio Strega 2014. «Come Lisario che cade in catalessi e viene esposta a mo’ di miracolo vivente, nel romanzo del 2014, e Morfisa esposta nella grotta sopra la Crypta Neapolitana perché fa miracoli, l’ostensione del corpo femminile, il suo uso fraudolento, è evidente. Ma sia Lisario che Morfisa non sono soggetti passivi, sono due inaffondabili bambine o ragazzine potenti della loro intatta infanzia spirituale, nonostante le violenze subite e da subirsi.»

E se dentro Antonella Cilento si agitano il fantasma potente di Stevenson e quello inarrestabile di Bulgakov, è innegabile, però, il debito di questa scrittura col padre della letteratura napoletana, Giambattista Basile, l’autore de Lo cunto de li cunti, «coi suoi orchi che fanno puzze capaci di generare alberi (orchi perseguitati dagli umani, come capita al popolo napoletano perseguitato dagli Spagnoli); coi corridoi di cristallo sotterranei che percorrono gli innamorati, e i piedi tagliati e insanguinati della Gatta Cenerentola.

Un’idea barocca di lingua (che non significa inutilmente complicata, anzi piana ma carica di immagini) e una fantasia barocca che trasfigura di continuo la realtà sono frutto sicuro delle letture infantili e ripetute di Basile e dei novellieri antichi», che arrivavano in casa di Antonella – racconta ancora lei nell’intervista già citata – «sotto forma di bellissimi libri illustrati, in particolare da un genio pittorico come Adelchi Galloni. Galloni che nelle sue piccole selve popolate di salsicce e gatti, nei balconcini dei paesi e dei castelli, portava con sé Carpaccio e Dürer, gli olandesi, i lombardi e gli italiani, le selve dell’Appenino e il mare carico di vele e nuvole che s’intrecciava con le nuvole del grande Miyazaki.»

I debiti di Cilento sono poi con tante altre scrittrici e scrittori, ne nominiamo, tra gli altri, la più vicina nel tempo, Fabrizia Ramondino, almeno per quel capolavoro che è Althénopis. «Infine ricordiamo i due esergo di Morfisa: Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che è racconto notissimo ma necessario per dare una sia pur vaga idea di cosa significhi essere davvero meridionali, napoletani come siciliani. Lo studente immerso nello studio del dialetto ionico che si ritira su una spiaggia e vede, nei fumi dei classici e delle declinazioni, una vera sirena, che parla fluentemente la lingua che lui a fatica studia (la lingua morta che incontra la viva) e che con la sua grecità finisce con il mangiare e fare l’amore, commuove. La sirena, la nostra vera identità feroce e antica, abita in noi da sempre, non solo nei vocabolari che abbiamo faticosamente compulsato a scuola.

L’altro esergo viene da La pazza di casa di Rosa Montero, che è libro bellissimo, in Italia assai noto grazie al Premio Grinzane: la pazza di casa è la nostra fantasia, la nostra immaginazione che trattiamo come fosse la parente matta o povera, la pecora nera, che abita nell’ultima stanza della nostra casa e mai vogliamo mostrare agli ospiti. In questo libro, Rosa Montero narra della sua personale danza con la scrittura e c’è un capitolo su tutti, bellissimo, in cui Montero va a vedere le balene nell’oceano e osservando l’improvvisa, fulminea apparizione della balena che, data la mole, si vede sempre e solo per dettagli, capisce che è così che ci vengono le idee. Improvvise apparizioni, illuminazioni che ci dicono che oggi, proprio oggi, immagineremo di scrivere l’inizio di un romanzo che cambierà la letteratura del nostro tempo. Poi, così come l’immagine è apparsa, scompare, rubata dal suono del telefono, dalla lavatrice da attaccare, dal tempo che ci sfugge e che ci sembra sempre insufficiente. Se non siamo veloci ad arpionare le idee, se non siamo sempre presenti alla nostra immaginazione, tutto ci sfugge e può capitarci, come lei narra in un altro capitolo, di esserci riservati una giornata per scrivere e di averla sprecata in risposte alle mail. Perché? Perché, dice Montero, abbiamo paura di rovinare ciò che abbiamo perfetto in mente ma che, sulla carta, dovrà confrontarsi con i nostri limiti tecnici, con la nostra voce stonata.»

In Morfisa l’ultima parte del romanzo, La coda della balena, è ispirata a Montero. «Laddove l’incrocio fra le locali leggende sul “pistrice immane” e le balene immaginarie (Moby Dick, quella di Pinocchio, i grandi pesci di Hemingway, ecc…) producono la potenza inesauribile che anima Morfisa. Che, mutandosi nell’atleta che corre, si dice potente: quella forza che anima le cose tutte scorre in lei, quando immagina, quando ama», quando concepisce fecondata in sogno un suo bambino e un nuovo uovo, in sostituzione dell’originale andato distrutto, ispiratore di altrettante inesauribili storie. La letteratura può fare anche questo.

(www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2018)

di Laura Fortini

NARRAZIONI DIFFERENTI. Un percorso a partire da «Ritratti di donne da vecchie», di Luisa Ricaldone pubblicato da Iacobelli Editore. Sabato 24 marzo nell’ambito di Book Pride, l’autrice discuterà del volume e delle sue tematiche. Da Veronica Gambara a Goliarda Sapienza, il discorso sull’età che avanza percorre epoche e storie. Coraggiosamente scandalose e spesso sul filo della reprensione pubblica perché reputate indegne, sarebbe inutile parlarne attraverso retoriche sentimentali. Altro accade in luoghi e contesti diversi da dove il prolungarsi della vita è dovuto a un benessere economico che solo a un certo Occidente pertiene

A significare che qualcosa di sostanziale è cambiato vi è la nota immagine di Louise Bourgeois, ritratta a 71 anni da Robert Mattlethorpe nel 1982, all’indomani degli anni Settanta, con un enorme fallo sotto braccio e il volto pieno di rughe, sorridente in una bella e elegante giacchetta pelosa: guarda l’obiettivo e noi sorridiamo con lei di tanta serena disinvoltura nel rappresentare la fine dell’ordine simbolico patriarcale da una postazione di indubbio coraggio quale la sua età.

NONOSTANTE CIÒ, e sicuramente meno nota, risulta sostanzialmente dello stesso tenore la lettera che nel 1542, all’età di cinquantasette anni, la poeta e scrittrice Veronica Gambara scrisse a Pietro Bembo, ormai cardinale e intellettuale illustre. Lei, donna savia e sapiente dell’arte del governo di una pur piccola città come Correggio oltre che di letteratura e cultura, annota che «io sono in questo istante, quella stessa che era già tant’anni, e benché abbia cangiato il pelo, non ho però cangiato voglia».
Si tratta della voglia e del desiderio di comunicare con il proprio interlocutore nonostante i capelli ormai bianchi, nonostante i quaranta anni passati dalle loro prime missive, nonostante tutto quello che è accaduto alla vita di ognuno, sentendosi sempre la stessa, desiderosa di parlare e scrivere di letteratura e poesia.
È possibile abitare il tempo biologico, fisico e corporeo dell’età avanzata senza sentirsi spossessate di sé? Quanto scritto da donne appartenenti anche a periodi storici assai diversi, da Veronica Gambara fino alle scrittrici dell’età contemporanea, aiuta a comprendere come affrontare un’età tutta ancora da inventare sotto il profilo dell’elaborazione collettiva ma non certo letteraria, al punto che le sono stati dedicati saggi che sono andati a costituire, soprattutto in area statunitense, gli Age Studies e che hanno tratto ispirazione e fondamento daLa vieillesse di Simone de Beauvoir, del 1970, da Marguerite Duras, e più oltre da Vita Sackville-West, fino ad arrivare alla pittrice e scrittrice Leonora Carrington che nel 1976 pubblica l’esilarante e acuminato Il cornetto acustico, ambientato in un ospizio.

Alla rappresentazione e all’autorappresentazione della vecchiaia a firma di donne è dedicato il bel libro di Luisa Ricaldone intitolato Ritratti di donne da vecchie (Iacobelli Editore, pp. 136, euro 12). Studiosa di letteratura italiana contemporanea, l’autrice riflette da tempo sulla rappresentazione letteraria della vecchiaia femminile: insieme a Edda Melon, Luisa Passerini e Luciana Spina nel 2012 ha curato Vecchie allo specchio, e-book del Cirsde (scaricabile gratuitamente dall’archivio on line del Cirsde, acronimo per Centro interdisciplinare di ricerche e studi delle donne e di genere dell’università di Torino), e si è soffermata sullo stile tardo di Said nel volume Passaggi d’età (a cura di Anna Maria Crispino e Monica Luongo, Iacobelli Editore 2013).

VOLUTAMENTE e in modo dichiarato Ricaldone non adotta giri di parole per parlare delle vecchie, coraggiosamente scandalose e sul filo della reprensione pubblica perché reputate indegne: come non ricordare le immagini video di Doris Lessing che a 88 anni, nel 2007, riceve la notizia del Nobel per la letteratura tornando a casa dalla spesa, trasandata e quasi indegna di tanto riconoscimento e proprio per questo scandalosamente grande nel suo esercizio di confortante quotidianità? La stessa Doris Lessing che ha scritto il bellissimo Diario di Jane Somers, pubblicato nel 1983, dedicato proprio al rapporto tra una donna che, nel pieno della propria vita adulta e all’apice della sua carriera, incontra una donna vecchia, di cui, in modo che sorprende anche lei stessa, si prende cura, affezionandosi e volendole bene.

LA VICINANZA al tempo scandito dal corpo a partire dalla cadenza mensile delle mestruazioni fa sì che lo sguardo sulla decadenza fisica, anche la propria, possa avere caratteri di comprensione dell’umano che ne fanno occasione di vivere quest’età in modo pieno e inatteso. Sorprendente che Maria Bellonci abbia iniziato a scrivere Rinascimento privato a 81 anni, nel 1983, e lo abbia terminato nel 1985, un anno prima di morire, ripercorrendo in esso la vita di Isabella d’Este dai suoi 59 anni in poi; altrettanto che Anna Banti scriva quella sorta di autobiografia in terza persona che è Un grido lacerante a 86 anni, nel 1981.
Sorprende e fa pensare a un divenire in continua mutazione e modulazione nell’elaborazione di scrittura che costituì scommessa di vita e di pensiero per ognuna di queste signore, e il pensiero va anche a Grazia Deledda e a Sibilla Aleramo, che scrissero fino alla morte, entrambe, così come Goliarda Sapienza, che scrive pagine memorabili sull’eros da vecchi nella sua Arte della gioia,pubblicata postuma nel 1998.

STIAMO PERÒ PARLANDO delle vecchiaie delle donne bianche occidentali, lo ricorda con fermezza Ricaldone, perché altro sarebbe il discorso in luoghi e storie diversi dall’Occidente e da un prolungarsi della vita dovuto a un benessere economico che solo all’Occidente – e a un certo Occidente – pertiene.
Donne bianche occidentali e femministe, che arrivate all’età della vecchiaia interrogano quest’età proprio come hanno interrogato le età precedenti a partire da sé e facendone materia di narrazione, da Luisa Passerini che ne La fontana della giovinezza, pubblicato nel 1999, scrive in terza persona una sorta di esame in pubblico del divenire – e sentirsi – vecchia, fino a Rossana Rossanda che ne La ragazza del secolo scorso, del 2005, riattraversa la propria vita a partire da una posizione di vecchiaia, senza però mai interloquire con la propria età presente, ma tutta protesa sull’esercizio della memoria autobiografica e collettiva.
Signore del tempo si vorrebbe definirle, pensando alla bellezza della scrittrice Toni Morrison, che nelle interviste video a ottanta e più anni parla avvolta dalla sua vecchiaia e dei colori vivaci del suo scialle in modo regale. E riprendendo il titolo di un intervento del 2012 di Marirì Martinengo pubblicato sul sito della Libreria delle donne di Milano, in cui si considera la vecchiaia un’occasione, un’invenzione da non perdere, riecheggiando così il titolo di un libro di Betty Friedan sulla vecchiaia, L’età da inventare, pubblicato da Frassinelli nel 1993, che insieme al volume di Germaine Greer del 1992, dedicato a La seconda metà della vita. Come cambiano le donne negli anni della maturità, sono stati antesignani della riflessione sui cambiamenti delle età e sulla possibilità di viverle altrimenti.

CERTO È BENE non avere retoriche sentimentali, al proposito, però: se la letteratura di vecchiaia è ormai un genere, questo non vuol dire che essa si sostanzi solo di caratteri positivi, ma ciò potrebbe dirsi di qualsiasi età. Si è però di fronte a una letteratura di compimento e della fine, a volte anche della smemoratezza della fine che si appresta e che ha le parole di altri perché vi sia narrazione, come nel caso della demenza senile e dell’Alzheimer, cui è dedicato l’ultimo, toccante capitolo del volume.
Ricaldone ricostruisce con attenzione e delicatezza fili di narrazione che attraverso racconti di figli e figlie, mariti e amiche, cercano di guardare in volto la perdita di memoria delle persone care, perturbante come poche altre cose perché significa affacciarsi sull’orlo della perdita di senso di sé e della propria vita e, insieme, però, possibile di altre forme di articolazione dell’amore e dell’affetto, la cui narrazione diviene altra forma di memoria, per sé e per le persone cui si è accanto.
«Quando sarò vecchia mi vestirò di viola» ha scritto Jenny Joseph nel 1961 e molto si vorrebbe fare proprio di quel viola, dissacrante, bizzarro e birbone, ma soprattutto assai libero. Si tratta di un esercizio che va oltre l’età della vecchiaia ma che quando praticato dalle vecchie diviene scandaloso: è ora e tempo di andare a passeggio con un fallo sotto il braccio, è ora e tempo di desiderare, ci dicono Veronica Gambara, Louise Bourgeois, Goliarda Sapienza e le molte altre, basta solo seguirle.

(il manifesto, 22 marzo 2018)

 

Pubblichiamo con interesse questo articolo di Christian Raimo che propone un quadro dei testi femministi presenti o assenti sul mercato editoriale. Molti di questi in realtà, e per fortuna, si possono acquistare presso la Libreria delle donne di Milano. Per esempio quelli di Carla Lonzi e di Luisa Muraro.9

 

Di Christian Raimo

 

La questione femminista è una questione anche di spazi culturali, e quindi editoriali. Me ne rendevo conto leggendo Perché non sono femminista (libro notevolissimo) di Jessa Crispin, appena edito da Sur, che s’incentra sul riconoscimento di autrici praticamente inedite in Italia, come Andrea Dworkin (il suo Intercourse è del 1987, mai tradotto) o Germaine Greer (Il suo classico L’eunuco femmina edito da Bompiani nel 1970 non si trova da anni).

Nell’ultimo anno, sull’onda del #metoo, qualcosa viene tradotto. Ponte alle grazie ha ripubblicato un classico narrativo come Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, che è del 1985. Un libro che era citato nell’incipit di Libere tutte di Giorgia Serughetti e Cecilia D’Elia, che oltre tante importantissime cose è anche un tentativo di ricognizione del panorama editoriale femminista. Sempre Ponte alle grazie per esempio ha tradotto Gli uomini mi spiegano le cose (che era uscito nel 2014), di Rebecca Solnit, di cui è praticamente quasi tutto inedito in Italia; dieci anni fa probabilmente grazie a Tiziana Triana, Fandango aveva pubblicato due suoi bellissimi testi, Un paradiso all’inferno e Speranza nel buio. Sempre Fandango ha pubblicato nel 2015 il libro cardinale di Paul B. Preciado, Testo tossico, che era del 2008. Edizione Alegre ha appena pubblicato Donne, razza, classe di Angela Davis, un testo del 1981. Di Judith Butler sono disponibili i testi di Laterza, come Soggetti del desiderio e Questioni di genere, ma mancano da anni il suo testo fondamentale che aveva tradotto Meltemi, ossia La disfatta del genere (lo rifarà Mimesis, che ha ripreso parte del catalogo Meltemi?), e Critica della violenza etica, che Feltrinelli aveva tradotto nel 2006. Di Susan Faludi, Isbn aveva tradotto Il sesso del terrore (oggi non si trova nemmeno sulle bancarelle), ma è ancora non tradotto un libro imprescindibile del 1991, Backlash.

Un buco enorme in libreria è il femminismo storico italiano. I testi di Luisa Muraro non sono ripubblicati da anni, o vengono ristampati da piccole case editrici: per esempio L’ordine simbolico della madre è stato sì ripreso da Editori Riuniti nel 2006 ma non più ristampato; la maggior parte dei suoi testi non esiste in libreria, dove si trova solo – e raramente – il suo pamphlet del 2012 Dio è violent (pubblicato da Nottetempo). Adriana Cavarero è ugualmente assente in liberia, si trova qualcosa su Amazon, ma testi importanti, come Corpo in figure o Tu che parli, tu che mi racconti, non sono disponibili nemmeno su ordinazione, e il suo Filosofie femministe (scritto con Franco Restaino) è un libro praticamente introvabile e del 1999, andrebbe aggiornato. Di Carla Lonzi ogni tanto compare in modo quasi carbonaro in libreria il suo Manifesto di rivolta femminile e il suo Sputiamo su Hegel: il suo Autoritratto e i suoi Scritti sull’arte sono pubblicati da Et.Al, ma in modo quasi clandestino. Lea Melandri? Il suo libro, Amore e violenza, entusiasmante per l’intelligenza, un piccolo classico contemporaneo sul femminismo, in libreria non c’è, in rete si può ordinare ma ci vuole un settimana. Rosi Braidotti è un oggetto non identificato in libreria, qualcosa – non molto – è reperibile online. Persino Il trucco di Ida Dominjianni che è un libro cruciale, del 2014, ricomincia a circolare sul passaparola soltanto oggi, dopo le mobilitazioni del #metoo. E potremmo andare avanti a lungo.

Insomma, va benissimo, è giusto e bello che Le storie della buonanotte delle bambine ribelli stia già al sequel; ma sarebbe molto auspicabile che del pensiero femminista non si rimuovesse l’articolazione, l’importanza storica, la radicalità.

 

(www.minimaetmoralia.it, 9 marzo 2018)

di Sara Gandini

 

Dai femminielli di Napoli al travestitismo, dalle “favolose” alla prostituzione trans, dalle lotte per la legge che ha permesso il cambiamento del sesso anagrafico (n.164/1982) al rischio di sparire nella normalità. Porpora Marcasciano, presidente onoraria del Mit (Movimento identità trans), racconta come è cambiato il movimento trans, storicamente e politicamente, un movimento poco conosciuto ma che porta con sé una radicalità rivoluzionaria.

Si ride e si pensa leggendo L’aurora delle trans cattive (ed. Alegre, 2018), l’ultimo libro di Porpora Marcasciano, che sa mostrare la potenza e la radicalità della politica del simbolico e del suo legame con l’immaginario, col desiderio, con il linguaggio, con il corpo, nell’epoca in cui «si cominciò a rivendicare, prima che i diritti, il diritto di esistere».

Provocazioni e contraddizioni si rincorrono in questo libro ben scritto e coinvolgente, in cui l’autrice si mette in gioco personalmente.

Il libro nasce in un’epoca storica in cui esorcizzare lo stigma della prostituzione sembra divenuta la priorità assoluta e il movimento trans attuale sembra volersi sbarazzare del passato perché imbarazzante. Ma la sacrosanta ricerca di serenità può portare con sé quella «rimozione storica e culturale che fa sparire tutto ciò che è spurio, scarto, non funzionale, cancellando vite e esperienze non assimilabili perché ritenute degenerate, ibride, bastarde, pericolose».

Nel linguaggio di Porpora si ripetono aggettivi come leggendarie, favolose, spettacolari in una accezione fondamentalmente politica perché il truccarsi diventa entrare nella scena del mondo, finalmente esserci e significare la propria presenza nel mondo: «se il mio corpo era il calco del mondo, di riflesso esso diventava la mia impronta nell’universo.» Plasmano il loro corpo perché diventi «un corpo produttivo di senso e significato».

Porpora Marcasciano da una parte provoca il movimento trans, esplicitando le contraddizioni attuali, e dall’altra apre conflitti con quel femminismo che le accusa di «scimmiottare e creare parossismi che nulla hanno a che fare con la pratica femminista» e spiega che il trucco, gli abiti, la chirurgia erano esagerati per rimarcare la decostruzione di genere, la presa di distanza dal patriarcato: «le trans entrano in scena con i colori della guerra».

Allo stesso tempo scrive: «Nonostante ripetessimo all’infinito, a noi stesse e al mondo di essere donne rivendicandone l’appartenenza, in cuor nostro percepivamo il limite di quella dichiarazione che per quanto mi riguarda, restava profondamente simbolica, quindi fondamentalmente politica».

Porpora declina tutto al femminile, prima di tutto per un motivo politico, e si esprime in questi termini: l’utilizzo del femminile è uno «straordinario metodo di sconvolgimento semantico nel leggere e definire il mondo, anzi la monda!».

Anche per molte femministe accettare di essere identificate come donne è una vera e propria decisione politica, e per me ha coinciso con l’impegno per un senso libero della differenza sessuale, che non è qualcosa che sta tra donne e uomini e spartisce l’umanità in due. Le trans nella storia hanno pagato duramente e tuttora vengono umiliate per questa scelta. Chi più delle trans può essere testimone che la differenza sessuale non è una invenzione e che non si può ridurre tutto solo ad anatomia e biologia o solo a cultura, stereotipi e costruzione del genere? Mi riferisco a quella differenza che ci impedisce di identificarci con noi stesse e che ci mette in relazione con quello che non siamo: “Non c’è un’identità sicura e stabile nell’essere chiamata donna, e in questo si comincia finalmente a vedere un pregio”, scrive Luisa Muraro in un articolo sul manifesto dal titolo Il pensiero della differenza va capito. Il libro di Porpora ci dà la possibile di riflettere sui rischi della cancellazione della differenza sessuale e il valore simbolico e quindi politico di definirsi donna.

In questo libro infatti emerge chiaramente che se la storia trans è stata marginalizzata, assorbita, neutralizzata sono responsabili anche i loro compagni di viaggio, quelli del movimento gay. Prendere la parola e raccontare in prima persona la propria esperienza diventa quindi fondamentale perchè il registro narrativo non sia diretto esclusivamente dagli omosessuali maschi, avverte Porpora.

Interessanti anche i vari percorsi che l’autrice racconta per arrivare alla legge 164 che le ha liberate da una situazione in cui erano considerate soggetti pericolosi per l’ordine pubblico, e quindi private di passaporto, patente, diritto al voto o spedite in galera perché giravano truccate. Un ruolo importante in parlamento l’ha avuto il sostegno e le strategie di Rosa Russo Iervolino, ma anche la solidarietà di donne come Tina Anselmi e Roberta Tatafiore.

Se da una parte quindi la legge 164 ha cambiato letteralemente la loro vita, dall’altra Porpora avverte che il rischio attuale è di attraversare spazi e luoghi «rimanendo inosservate, senza peso, diafane». Si tratta di un contrasto interiore e di una contraddizione interna al movimento trans: la politica dei diritti è legata a filo stretto con il desiderio di essere integrate e “normalizzate” in una società che andrebbe invece rivoluzionata. E quindi Porpora riafferma con orgoglio il desiderio di definirsi non normali e specifica «Eviterei anche la parola diversi, perché essa presuppone l’altro da sé, quello non diverso, quindi uguale, quindi normale. Sarebbe come svilire, privare di senso le tantissime meravigliose creature che negli anni ho incontrato, svuotandole della loro splendente dignità.»

La necessità di questo libro nasce qui. Porpora rimesta nella memoria per riportare al mondo quella costellazione di trans cattive che hanno fatto una vera e propria rivoluzione. Il rimettere in scena queste figure ha a che fare con quello che fanno «i miti e le favole in cui la fantasia trova spazio e forma infiniti e diventa lo spettacolo come nutrimento di umanità».

 

(libreriadelledonne.it, 04/03/2018)

Consigliamo di leggere questo splendido articolo dopo aver letto il libro.
La redazione del sito

 

di Benedetto Vecchi

Noir. L’ultimo romanzo della scrittrice francese Fred Vargas, «Il morso della reclusa» (edito da Einaudi), indaga la guerra degli uomini contro le donne.

La tanto desiderata vacanza interrotta dall’ordine di rientro per motivi di lavoro. È l’avvio del nuovo romanzo di Fred Vargas, la nota scrittrice francese di noir che ha ormai un pubblico fedele nel tempo ma a geografia variabile.

DOPO CHE LE VENDITE sono cresciute nel suo paese di origine, i titoli dei suoi romanzi hanno cominciato a campeggiare nelle classifiche dei libri più venduti anche fuori dai confini nazionali. Il titolo del nuovo noir – Il morso della reclusa (Einaudi, pp. 431, euro 20) – è allusivo di una condizione dove la privazione della libertà non sempre coincide con le sbarre di una prigione, visto che le recluse erano, nel mondo contadino, donne che sceglievano di segregarsi da sole dalla società. Ma reclusa è anche chiamato un tipo di ragno che vive sempre nascosto in qualche anfratto perché pauroso come pochi altri aracnidi; ha inoltre un morso innocuo se unico, ma letale se il veleno inoculato in un corpo umano è quello di venti ragni.
Da diversi anni, il protagonista indiscusso dei libri di Vargas è il commissario Adamsberg, capo carismatico e tuttavia più che discusso della squadra anticrimine del 13 arrondissement parigino. Il commissario, considerato un eccentrico e poco produttivo cacciatore di nuvole per l’aria svagata e distratta che lo contraddistingue, è in vacanza in Islanda, l’isola dove si è svolto il precedente romanzo. È però richiamato a Parigi per risolvere un caso di omicidio, la cui vittima è una donna. Il colpevole è indicato in un uomo di origine arabe che conduce tuttavia una vita al confine tra inclusione e esclusione sociale: è una figura che, in un clima di xenofobia diffusa e razzismo di stato, è ideale per spegnere la paura e il risentimento della maggioranza non più silenziosa.

IL CUORE DEL ROMANZO non riguarda tanto l’omicidio di quella donna, rapidamente risolto da Adamsberg. Quell’assassinio si è soliti chiamarlo, a ragione, femminicidio, perché episodio della feroce guerra che molti maschi conducono contro la libertà femminile. È infatti attorno a questa guerra che ruota il romanzo.
I maschi, è noto, misurano il proprio potere nella società attraverso una estenuante competizione su chi è più bravo. Adamsberg apprenderà che anche nella sua squadra la battaglia per la supremazia è cosa di tutti i giorni.

LA LOTTA PER STABILIRE la gerarchia di potere nella squadra anticrimine è condotta secondo modalità urbane, borghesi, propedeutiche a una soluzione «politica» che salvaguardi la dignità di tutti i componenti della squadra. Ma, altrove, la lotta su chi ce l’ha più lungo – la triste passione che anima molti maschi – si combatte con altri mezzi.
Alcuni anziani signori muoiono e si scopre che sono stati uccisi con il veleno del ragno chiamato la reclusa. Impazzano le discussioni sui social network sulla possibilità o meno che i mutamenti climatici e l’inquinamento ambientale abbiano provocato mutazioni nei ragni. Ma i flame della Rete sono nulla rispetto a quanto emerge dalle indagini.
Gli anziani morti facevano parte di una banda formatasi in un orfanotrofio e che quello stesso gruppo di bambini aveva usato i morsi della reclusa nelle sue sadiche scorribande contro altri bambini. E che proprio quella banda era diventata – durante e dopo l’adolescenza dei suoi componenti – una gang di stupratori seriali.
La seconda parte del romanzo è una discesa negli inferi della brutale guerra alle donne condotta da maschi incapaci di stabilire relazioni con i propri simili e con il genere femminile. Adamsberg conosce le sopravvissute a stupri e una vecchia usanza che vedeva donne che sceglievano di diventare recluse ai margini di piccoli paesi dopo essere state violentate. Nel romanzo vengono squadernate le cifre della guerra contro le donne: sono migliaia gli stupri compiuti da uomini senza volto e senza nome; e altrettanti i comportamenti riduttivi della polizia che, al primo vicolo cieco delle indagini, archivia i casi.

ADAMSBERG SI SCHIERA con le donne, ma sa che anche il suo maschile è intriso dal veleno del machismo. L’antidoto sta nel mettere a nudo la propria fragilità senza il timore di apparire debole, rompendo la gabbia del ruolo che rende reclusi anche i maschi. Chissà non sia questa la strada per praticare un liberatorio partire da sé, declinato al maschile. Ma le morti continuano. Il cacciatore di nuvole ipotizza che dietro le morti ci sia la volontà di vendetta di una donna stuprata o una vittima del bullismo della banda dei «bacarozzi», così l’aggettivo affibbiato ai ragazzi di un tempo. Manifesta empatia verso questo desiderio di vendetta, ma non ama la giustizia fai da te, anche se fa esplodere il suo furore quando si imbatte in uno stupro, un femminicidio, una molestia sessuale. Ma è pur sempre un servo dello Stato. Obbligato al rispetto della legge.
Romanzo amaro e bellissimo questo di Fred Vargas. Come i precedenti, racconta storie intrecciate, tematicamente collegate: l’affresco finale mette in evidenza una società violenta, in cui la divisione in classi è opacizzata dal grigio scorrere della vita quotidiana. Dove la violenza sulle donne non è però prerogativa di dinamiche arcaiche che la modernità ha sterilizzato, come molta pubblicistica afferma per ridimensionare la guerra a bassa intensità condotta contro le donne. Nella postmoderna Francia o Italia, Germania, Inghilterra il femminicidio, le molestie e la violenza sessuali sembrano infatti scandire il divenire di un maschile incapace di misurarsi con la libertà femminile. È questo il filo rosso che il noir riavvolge. Con ironia certo, ma anche con doloroso disincanto.

 

(il manifesto 21/02/2018)

di Stefania Tarantino

Paul Vieille. Pubblicato di recente dalla casa editrice Geuthner, un articolato omaggio all’intellettuale francese. Con la prefazione di Alain Touraine e la postfazione di Edgar Morin, in ordine la sua genealogia critica. Personaggio chiave nella lettura che Foucault diede della rivoluzione iraniana tra il 1978 e il 1979.

Ci sono libri che hanno un effetto detonatore in chi li legge. Creano movimenti profondi da far uscire dal torpore di discorsi triti e ritriti, dall’opacità che impedisce di avere un’adeguata visione della realtà. Non solo di libri si tratta. Ci sono figure che, una volta incontrate, innescano il desiderio di nuove ricerche. Il libro Méditerranée, mondialisation, démocratisation. Hommage à Paul Vieille, a cura del gruppo di iniziativa Paul Vieille, con una prefazione di Alain Touraine e una postfazione di Edgar Morin, (pubblicato di recente in Francia dalla casa editrice Geuthner) ha reso questa esperienza possibile.

La vita e la ricerca di Paul Vieille sono state consacrate a una visione plurale del Mediterraneo. Socio-antropologo di fama mondiale, direttore di ricerca al Cnsr dal 1975 al 1988 e poi professore all’Università d’Illinois negli Stati Uniti, è stato il primo sociologo a concepire in Francia un progetto Mediterraneo ancorato alle capacità di quegli strati popolari e urbani che da millenni hanno condiviso una storia comune. Distante dalle teorie dominanti delle scienze sociali e dall’orientalismo che giudicava di ispirazione coloniale, fu un profondo conoscitore dell’Iran, paese in cui visse tra il 1959 e il 1968 svolgendo le sue ricerche sul campo presso l’istituto di studi di ricerche sociali dell’Università di Teheran. Nel suo soggiorno iraniano si trovò nel pieno della rivoluzione bianca dello Shah che fece passare il Paese da una società rurale e tribale a una società cittadina e mondializzata. Fu colpito dalle ingiustizie profonde che resistevano, si rese conto del bisogno di ridare visibilità al pensiero critico arabo sempre molto forte ma quasi invisibile e comunque taciuto dalle potenze occidentali.

Ha saputo affrontare il pensiero-mondo sulla vita concreta dei popoli mediterranei a partire dalle loro rappresentazioni e aspirazioni contro le iniquità della dominazione, lo sradicamento e la dipendenza.

L’importanza delle fonti orali, della cultura e delle religioni popolari, scoprivano nuove rappresentazioni del sociale. Formatosi sul pensiero di Louis Massignon e di Henry Corbin, condivideva con Edgar Morin i tre principi che dovrebbero essere alla base delle scienze umane: la trasdisciplinarietà, la trasnazionalità e la complessità. Nell’ottobre del 1977 fondò la rivista trimestrale Peuples Méditerranéens per colmare la lacuna degli scambi in scienze umane e sociali tra tutti i paesi che costeggiano le due rive del Mediterraneo. Il riferimento costante era a un mediterraneo plurale che si spingeva oltre i suoi confini fino ad arrivare all’Iran, all’Afghanistan, ai paesi della penisola arabica, al Sudan, all’Etiopia.

In una lettera indirizzata a Evelyne Accad, sua compagna di vita e depositaria della sua eredità intellettuale, Paul Vieille le scriveva che ciò che lo aveva sempre avvilito e portato a riflettere e agire è l’idea di giustizia. Per comprendere il mondo arabo e ciò che agli occhi degli occidentali sembra incomprensibile è necessario capire che per trasformare occorre trasformarsi. Sapeva bene di non essere diventato iraniano, ma di aver acquisito una doppia cultura. Era convinto che una mancata articolazione delle differenze ne comportava necessariamente la degradazione e la manipolazione.

Per lui l’immaginario è ovunque e non può essere distrutto dal potere. L’accesso all’immaginario è una questione di libertà, né lo sorprendeva il fatto che la potenzialità dell’arte, così presente in molte rivoluzioni, funziona come elemento catalizzatore delle trasformazioni sociali in atto.

Così ha praticato un percorso aprendo la strada alla riconoscenza del simbolico e della sua assoluta efficacia. Sensibile alla causa femminista, Paul Vieille riponeva molta fiducia nelle pratiche e nei gesti inattesi che le donne agiscono nel mondo trasformando le coordinate culturali dei sistemi patriarcali. Riconobbe l’esistenza di affinità esplicite e implicite tra le donne delle differenti rive del Mediterraneo. Vale la pena ricordare che fu un personaggio chiave nella lettura che Michel Foucault diede della rivoluzione iraniana tra il 1978 e il 1979.

Foucault non ha mai smesso di essere attento all’insurrezione dei saperi assoggettati e all’emergere di una spiritualità politica come desiderio di liberazione irriducibile a qualunque presa del potere. Paul Vieille non ha mai parlato di spiritualità politica in questi termini, ma ha colto quanto la soggettività sia decisiva nella piega degli avvenimenti. Entrambi hanno riposto molta fiducia nelle credenze delle persone e si rifiutarono di leggere la rivoluzione iraniana come un movimento antimoderno reazionario. Seppur su differenti interpretazioni della rivoluzione iraniana, abbiamo molto da apprendere, come nota Alain Touraine, sia dall’uno che dall’altro dal momento che entrambi hanno cercato di evitare una scelta doppiamente distruttrice tra un imperialismo neocoloniale e un comunitarismo religioso, autoritario e repressivo.

La postfazione che chiude il libro riprende un articolo di Edgar Morin pubblicato nel 1998 che ci dà elementi per ritrovare la vocazione storica del Mediterraneo nella sua aspirazione alla giustizia, alla pace e in direzione di un universalismo plurale. Insistere sul decentramento dell’Europa in rapporto alla sua posizione di centro nella storia del mondo, potrebbe portarci alla mediterraneizzazzione del nostro pensiero e, soprattutto, dell’Europa stessa.

Scrive Morin che il contrario delle nostre verità profonde sono sempre altre verità profonde. È da queste verità che per Paul Vieille il Mediterraneo è un luogo che interroga il mondo e spazio che offre nuove letture. Ritrovare l’essenza profana del Mediterraneo, la sua sostanza materna come paradigma relazionale che veicola una visione che ha al suo centro la «vita» in tutte le sue forme. Solo da questa realtà è possibile lasciarsi alle spalle la grande necropoli liquida che abbiamo creato e dire, con Paul Vieille, di essere di nuovo felici di andare verso il mare.

L’ITINERARIO DEL VOLUME

Sarebbe auspicabile una traduzione italiana degli articoli più significativi del volume «Méditerranée, Mondialisation, Démocratisation. Hommage à Paul Vieille» (1922-2010), che riunisce 37 autori e autrici originari di 8 paesi differenti. Il libro è diviso in 4 parti a loro volta divisi in capitoli 1) «Itinerario di Paul Vieille. Studi e testimonianze», saggi di C. Veauvy, E. Accad, B. Hourcade, L. Hurbon, D. Spieth, J. Jenny. 2) «Mediterraneo, Mediterraneità, Scienze Sociali» diviso in due sezioni. A) «Elaborare, editare, mettere on line la rivista» in «Popoli mediterranei», saggi di P. Eftékhari, G. Grandguillaume, R. Siebert, C. Fauré, K. Chachoua, E. Dupuy, B. Stafford. B) «Il Mediterraneo come luogo che interroga il mondo, spazio che si dà a leggere», saggi di E. Hooglund, H. Bresc, C. Veauvy, M. Marié, N. Abdi, E. Rota, A. Bayat, R. Sebaa, C.C. Hahn. 3) «Politica, Religione, Movimento sociale, guerra», saggi di B. Ghamari-Tabrizi, R. Naba’a, C. Brandabur, L. Pisano, B.M. Scarcia-Amoretti, F. Khosrokhavar, I. Sobhani, F. Zabbal, M. Cooke. 4) «Cultura, Globalizzazione, Convinzione, Libertà», saggi di A.H. Bani-Sadr, J. Ireland, J. Alagha, S. Dayan-Herzbrun, W. Dressler, L. Taghian Eftékhari, B. Lawrence. Postfazione di E. Morin (1998-1999), «Pensare il Mediterraneo, mediterraneizzare il pensiero»

(il manifesto, 9 febbraio 2018)


È disponibile in formato .pdf la versione aggiornata al 2017 della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file (175 pagine – 2,7 MB) sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it

(www.libreriadelledonne.it, 25 gennaio 2018)

di Marisa Rastellini

Nonne che muoiono davanti a bambine che imparano cos’è la vita; mogli annoiate in spiagge deserte, ricche signore sole. Nei Racconti ritrovati la voce di una grande scrittrice dimenticata.

Sfilano i luoghi che ha frequentato: Firenze, dove è nata, Roma dove sposa Roberto Longhi e dove fonderà assieme al marito la rivista Paragone. La sua fantasia ha il passo nobile di altre figure novecentesche da Anna Maria Ortese a Lalla Romano, da Elsa Morante a Fabrizia Ramondino.

Racconti ritrovati (La nave di Teseo) mette insieme 46 racconti di Anna Banti, appunto ritrovati lì dove lei, sbadata perché prolifica, distratta perché nobile, li ha dimenticati, nel corso degli anni, dal 1930, quando il suo primo racconto comparve sulle pagine del periodico La Tribuna, al 1985, anno della sua morte a Ronchi di Massa.

Essi sono raccolti da Fausta Garavini, che ne firma la curatela con rigore filologico ma anche con una lacrima nell’angolo degli occhi: la sua prefazione è un racconto nel racconto, è come si leggono le donne tra di loro. Apre e spiega, ma anche rappresenta, questa curatela, un modo affettuoso di custodire un’anima. Pare dire la Garavini in queste pagine: guardate che vi spiego da dove arrivano i racconti così che voi possiate capirli meglio e non profanarli. Prolifica Anna Banti, si diceva, ma soprattutto così impegnata a vivere e così consapevole della vita da non potersi certo permettere di dare importanza ai suoi scritti. Basta leggerne uno qualunque: Anna Banti delle donne, e quindi degli uomini, sa tutto. I suoi personaggi partono da se stessa, lei si usa, piccola Alice, come specchio per guardare la società: quella che le piace e quella che le fa ribrezzo.

Proietta il silenzio delle campagne nella sua vocazione monacale mai esperita, la lussuria dei lupanari diventa tutto il non detto, tutto il non vissuto, l’esperienza mancata.

Così gli opposti creano il senso e il senso dello scrivere racconti così copiosamente e poi dimenticarli nei cassetti è: la vita è troppo frammentata perché la si possa dire una volta sola e per tutte, l’esperienza della vita è la somma dei suoi frammenti. Ecco che quindi dalle pagine dei giornali, dalle prime edizioni di racconti che avrebbe ripreso in seguito, e dai luoghi in cui non ricordava più di aver messo quel tale manoscritto, fioriscono quarantasei nuovi quadri. Sono bambine che crescono e che devono compiere un rito iniziatico, e il passaggio è l’incontro con la morte, quella di una nonna: fu il suo primo racconto questo, inviato a un concorso che non vinse, e in cui, per non arrischiare il suo nome, Lucia Lopresti, usava per la prima volta lo pseudonimo Anna Banti («Del resto il nome ce lo facciamo noi. Non è detto che siamo tutta la vita il nome della nostra nascita», confesserà a Sandra Petrignani). Sono donne pigre che tramano su una spiaggia, in codici segreti agli occhi di chi le osserva, contro o per uomini che credono invece di essere padroni della loro vita. Sono donne annoiate della borghesia romana, o donne ciarliere a passeggio per via Condotti. Sono paesaggi di campagna, di periferia, ma periferie del tempo, come la fine dell’estate, il settembre dopo la villeggiatura, quando il mare si vela d’acqua e il sole non scotta più. Tutto è perfettamente chiaro, cristallino alla lettura e tutto pervaso però di un senso umbratile, che non consente di mettere per sempre a fuoco gli elementi: si muovono in controluce le “personagge” di Banti, così che sia possibile distinguerne le silhouette e mai i volti, perché forse sono età diverse e possibilità diverse del modo in cui si manifestano le donne alle scrittrici donne. È questo effetto a creare un riserbo nobile, un doppio livello di prossimità: ci si è vicini, alla protagonista, perché si conosce come la pensa fin nel midollo che le percorre la schiena, eppure ci si è lontani lontanissimi, perché Banti la fa muovere dietro un velatino che ottunde il boccascena, così da rivelarla solo a tratti. Ci siamo vicini, perché sappiamo cosa vuole dire, eppure ci siamo lontani perché la lingua così tagliata, la penna così sicura ci distanziano, ci dicono di una generazione di scrittrici che ha trovato – solo le donne ci riuscirono, nella seconda metà del Novecento – l’impossibile equilibrio tra il neorealismo e il surreale. I personaggi di Banti sono quasi tutte donne, quasi tutte – dice Garavini, formidabile – “sprecate”.

Che è il sentimento dominante della condizione femminile nel mondo. Intravedere che si potrebbe oltre e non poterlo raggiungere. Ma poi ci sono i luoghi dell’infanzia, della vita: Firenze, dove è nata, Roma dove conosce e sposa Longhi storico dell’arte, dove fonderà assieme al marito la rivista Paragone che diresse in alcune sue parti e, dopo la morte del marito, in toto. E c’è, soprattutto, nei Racconti ritrovati, la memoria della guerra. Il ricordo della fame, dell’abbrutimento, e delle figure che spiccano in mezzo alle altre perché non hanno paura. Qui il confronto con le lettere si fa serrato, e il filo della memoria che costruisce, che ripesca per ampliare diventa ordito con quello dell’autobiografia, innestando la propria storia sulla Storia. Lavorerà sempre così Banti, con la fantasia che comanda, distorce e cristallizza: è lo stesso passo nobile di Althenopis di Fabrizia Ramondino, è l’isola che si fa ragazzo di Elsa Morante, ed è L’Iguana di Anna Maria Ortese, ma sono anche i passi vividi de La villeggiante di Lalla Romano, e il salotto di Maria Bellonci.

Per quest’ultima, per la casa dei Parioli in cui Annamaria Rimoaldi la stava detronizzando, ci sono pagine di tenera gelosia. E una punta di disprezzo per gli Amici della Domenica (i votanti dello Strega), che ricorda Il silenzio della ragione di Ortese: e che rappresenta bene il conflitto dell’intellettuale, lì dove sente di aver bisogno di un pubblico d’élite – l’unico da cui si aspetta un attendibile spirito critico, l’unico di cui in qualche modo si fida davvero – e assieme lo rifugge, inquietandosi per quel punto di cerniera che esso ingaggia con la mondanità.

 

Repubblica, 18 gennaio 2018

di Mariangela Mianiti

INTERVISTA. Una conversazione con l’autrice del romanzo «La compagnia delle anime finte», edito da Neri Pozza. «Volevo coniugare uno sguardo fiabesco e violento nello stesso tempo perché amo raccontare gli opposti»

Ho conosciuto Wanda Marasco un pomeriggio dello scorso novembre. Alla libreria delle donne di Milano, Rosaria Guacci e Romana Petri presentano La compagnia delle anime finte (Neri Pozza), arrivato terzo allo Strega 2017. Wanda, che è diplomata in regia e recitazione all’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico di Roma, legge alcuni passaggi con la sua voce roca da fumatrice e i protagonisti di questa storia incarnata in e con Napoli sbucano dalle pagine come se fossero lì. La scrittura di Wanda Marasco canta.
Di lei Giovanni Raboni disse: «È narratrice e cantastorie di una città in stretto rapporto con i suoi abitanti. Manifesta un’originalità e una profondità d’invenzione linguistica che purtroppo quasi mai troviamo nei romanzi contemporanei, da cui l’autrice si distacca in modo netto e violento».

Quel pomeriggio di novembre provai un desiderio: andare a trovarla dove i suoi romanzi nascono. Lei, che è donna generosa e curiosa, ha accettato mi intrufolassi nella sua intimità creativa che è inscindibile dalla città in cui vive.
Wanda Marasco abita in via Moiariello, a Capodimonte, dove è nata e cresciuta. In via Moiariello ha vissuto Vincenzo Gemito, il grande scultore protagonista de Il genio dell’abbandono, per un soffio non entrato in cinquina allo Strega 2015. A Capodimonte è ambientato La compagnia delle anime finte. La villa che si vede dalle sue finestre è appartenuta ai protagonisti del romanzo cui sta lavorando: Ferdinando Palasciano, medico filantropo precursore della Croce Rossa internazionale, e la moglie Olga Vavilova, principessa russa. Venire qui è come entrare nel magnete ispiratore della scrittrice.

Arrivo in via Moiariello all’ora di pranzo. Wanda, che è ottima cuoca, ha preparato pasta con carciofi e una sua specialità, parmigiana di melanzane alla napoletana. «Com’è?», mi chiede mentre traffica ai fornelli. Buona, e diversa. «Invece della mozzarella ci metto la provola affumicata».

La casa di Wanda parte dal primo piano di un palazzetto con torretta che si affaccia su un parco. Dentro, le stanze sono tutte passanti, persino il bagno, e disegnano un cerchio. Si sale di un piano e c’è il suo studio comunicante con un grande terrazzo, si sale di un altro piano e c’è un solarium. Il mare non si vede, ma se ne sente il profumo. Nello studio, al centro della scrivania affollata di carte e libri un po’ in ordine e un po’ alla rinfusa, spiccano gli autori che sta rileggendo (Puskin, Tolstoj), una rubrica stropicciatissima, gli occhiali appoggiati su fogli scritti con una grafia tempestosa, una Olivetti lettera 32 bianca e un po’ spelacchiata. «Ho un problema agli occhi, non riesco a lavorare al computer per cui scrivo a macchina, correggo a mano. Il mio metodo di lavoro è da contadina: scrivo, correggo, riscrivo fino a due o tre stesure. E poi la carta ridà in modo più veritiero che il video la forza espressiva del linguaggio».

Già, il suo linguaggio. Diverso in ogni romanzo, sa passare dal dialetto al letterario, sgusciare da un tempo verbale a un altro, inventare, come ne Il genio dell’abbandono, una terza lingua potente ed espressiva. Entra nella carne dei personaggi. «Prima ancora che dalla lettura degli scrittori napoletani, Basile, Eduardo, Viviani, Di Giacomo, Russo, mi ha influenzato la lingua complessa di Virgina Woolf, Thomas Mann, Herman Hesse. Penso che il primo personaggio debba essere proprio la lingua perché è mimesi, cioè si plasma, si adatta, si serve di ogni tipo di sfumatura. Costruendolo Il genio, per esempio, ho studiato la scrittura come una partitura musicale, ho pensato al contrappunto, alle voci della personalità scissa di Gemito come al richiamo tra famiglie strumentali che rappresentano tutti i temi presenti: famiglia, arte, follia. Anche nel nuovo romanzo sarà così. Ho già in mente l’inizio, Olga che sale le scale con il suo passo, claudicante a causa di un incidente subito nell’infanzia. Venne in Italia per farsi operare da Palasciano, si innamorarono e lei, per amore, finse di essere guarita. Con questa donna voglio dire verità profonde che riguardano l’universo femminile».

Per esempio?

I temi sono due, la claudicanza dell’umanità e il sentimento delle assenze. Il femminile ha sempre avuto delle assenze: l’uomo che non c’è o non è quello desiderato, la storia senza identità, la famiglia da recuperare, le passioni artistiche o scientifiche cui dare vita.

Ne «La compagnia» definisce le vicine di casa orche. Perché?

Volevo coniugare uno sguardo fiabesco e violento nello stesso tempo perché nulla mi piace di più che trattare gli opposti, e poi c’è la memoria del mio sguardo di bambina. Vedevo queste donne spesso grasse, il volto da vecchie già a quarant’anni, le tinte fatte in casa o da parrucchieri improvvisati, il nero corvino, i capelli stopposi da bambola vecchia, le gambe piene di varici, gonfie. Ero incuriosita dalla loro fisicità repulsiva e attrattiva, la stessa che Rosa sente nei confronti del degrado e della povertà perché sono comunque elementi di conoscenza. Questo aspetto a volte demoniaco me le ha fatte chiamare orche, ma anche con affetto, come fossero personaggi di fiabe che possono essere invadenti, tiranne, pettegole e nello stesso tempo capaci di dolcezza. Queste donne hanno tutte il progetto di amare e, insieme, l’avidità di divorare quello che amano. Si sostituiscono a Crono.

Come Vincenzina, la madre della protagonista, che per mantenere i figli diventa usuraia.
L’usura era una ragnuola diffusa a Napoli nel dopoguerra. In ogni vicolo c’erano piccole usuraie che prestavano soldi alla sorella, al parente, al vicino di casa. Ricordo benissimo anche quella di qui, donna Rinuccia. A lei mi sono ispirata. Dovevo costruire la metafora di Napoli.

Città così complessa che, dopo aver letto i suoi romanzi, se ne sospende il giudizio.
Napoli è ricchissima di fili rossi, cause della distruzione, valori, imprigionamento, preveggenza. Questa città è un serbatoio meraviglioso e terribile. E poi c’è il tema dell’assenza che qui si sente con una marca donchisciottesca. Se si segue la vita di uno scienziato o medico, matematico, artista, e penso a Mancini, Gemito, Palasciano, hanno sempre davanti un limite insormontabile, un’indifferenza della società, ideali smisurati, una tensione idealistica che arriva alla follia e che da metà Ottocento a metà Novecento è densissima. Scrivendo Gemito ho scoperto che Palasciano fu ricoverato a Villa Fleurent nel 1887 e che stettero insieme in manicomio. Queste congiunture fanno pensare a un tessuto storico che ha reso la creatura umana particolarmente sensibile di fronte, per esempio, all’uomo nuovo che si stava per creare, agli ideali della patria, dell’innocenza dell’arte, al valore dell’educazione. Questa città è fatta da storie fortemente simboliche, è un teatro del mondo.

Parliamo dello Strega. Secondo molti avrebbe dovuto vincerlo lei.
La prima volta, con Il genio, mi aspettavo di entrare in cinquina e ho sofferto parecchio quando non avvenne. Ho scoperto sulla mia pelle che il potere del mercato è una cosa tremenda, come la macchina editoriale. Tutto è un po’ deciso a priori tant’è che almeno da vent’anni non vince il libro migliore, ma la casa editrice più forte. Non è detto che la casa editrice potente non possa presentare libri notevoli, ma a volte, pur avendoli, non li fa concorrere per obbedienza alla domanda di mercato. La commissione centrale non ha ancora il potere di sganciarsi dai grandi gruppi editoriali e quindi c’è un’impasse terribile. Date queste premesse, quest’anno ero preparata e mi sono divertita con ironia osservando tutto ciò che si agitava nell’aria. Però che bello che il comitato centrale abbia votato all’unanimità La compagnia. In ogni caso lo Strega dà maggiore visibilità, porta editori stranieri e queste sono cose positivissime. Alla fine quello che conta non è avere il numero di lettori di Camilleri, ma raggiungerne di nuovi.

Lei ha insegnato per molti anni. Riusciva a scrivere allora?

Poco e per questo a volte entravo a scuola in lacrime. Il rapporto con i ragazzi è stato bello e molto mi hanno dato, ma mi sentivo sempre sottratta, volevo tornare alla stanza da sola.

Perché non ci riusciva?

C’era nella mia vita una difficoltà contingente dovuta in gran parte al fatto di essere donna. Una donna, quando ha figli, ha un senso di responsabilità enorme e non può dire «Me ne vado». Se poi ti capita un’unione dove l’atro non è precisamente un alleato, ma ha paura di perderti a causa delle cose che ami, spesso la vita si trasforma in una battaglia dolente. Tendi a salvare la sopravvivenza degli altri e di te stessa, di mantenere un po’ di dignità, rimandi nel tempo il progetto di te che, nel mio caso, è un demone che mi segue fin dall’infanzia. Ho corso in questa vita una sorta di cancellazione di me che mi ha dato non pochi problemi. Ora posso sorriderne, ma le piaghe ci sono state e la loro memoria oggi è da me considerata una ricchezza che torna non solo nei rapporti con gli altri, ma anche nella forza della scrittura. Ogni volta che ho avuto un problema, un dolore, ho combattuto come un soldato e con una forza deontologica che mi aspettava al varco. Solo dopo essere andata in pensione ho avuto davvero il tempo di dedicarmi alla scrittura.

(il manifesto, 7 gennaio 2018)

di Sarah Barberis

 ‘Gli uomini mi spiegano le cose’ è l’ultimo saggio della scrittrice femminista americana Rebecca Solnit: mentre Time sceglie come persona dell’anno il movimento #MeToo, questo libro illumina il continuum cha va dal mansplaining alla violenza e ai suoi effetti, tra i quali la paura e il silenzio. E ci dice però che non si deve rinunciare all’immaginazione e alla speranza, perché se questa è la malattia, tutte e tutti siamo responsabili della cura

Da piccola avevo ereditato da mia sorella un gioco che si chiamava “L’allegro chirurgo. Su una tavola di cartone era disegnato un ometto panciuto con una lampadina rossa al posto del naso che aveva il corpo costellato da piccoli vani a forma di organi come il pomo d’adamo, il cuore o la milza. Lo scopo era quello di estrarre dal vano l’organo senza toccare i bordi metallici con il bisturi altrimenti l’uomo “strillava” di dolore e il naso diventava rosso.

Quello che avevo ereditato dalla mia scatenata sorella era un po’ scassato e quindi tre o quattro organi non rilevavano il contatto neanche se ci battevi sopra con il bisturi. Mi era venuto il dubbio che forse quegli organi funzionassero in quel modo, nel silenzio, salvo poi ovviamente vedere altri Allegri chirurghi a casa di amiche che confermavano il malfunzionamento del mio sensore di rilevazione del dolore.

Per me affrontare testi di femminismo significa molto spesso accorgermi che il mio sistema di rilevazione sensibile ha qualche malfunzionamento e che non sento dolore dove sarebbe normale sentirlo: che non sento più rabbia se il dottore mi guarda troppo a lungo il seno, che non mi irrita quando mi chiamano “bimba” o “bellezza”, che non mi urta vedere antologie di saggi in cui 3/4 degli autori interpellati sono maschi, che non mi infastidisce vedere quasi sempre uomini nei ruoli esecutivi mentre le donne abitano con grazia dimessa i propri ruoli ancillari, ad ogni livello e in qualsiasi azienda, soprattutto in Italia, (non penso ci fosse bisogno di sottolinearlo eppure penso ci sia comunque bisogno di sottolinearlo, prima di perdere davvero ogni sensibilità rispetto al problema), che per insultare un politico lo si chiama ladro mentre una politica donna la si definisce puttana, che sinceramente poi non me ne frega più niente di cambiare le cose perché tanto “loro sono sempre gli stessi” e “nulla cambia” e quindi “carine e colorate le marce femministe ma oltre a fare amicizia non servono a nulla”.

Rebecca Solnit, scrittrice californiana, femminista, attivista, autrice di diversi testi di non-fiction letteraria tra cui Gli uomini mi spiegano le cose  mi direbbe che sono una cinica naive e che la disperazione è un lusso che non mi posso permettere.

Leggere Gli uomini mi spiegano le cose è stato come risvegliare alcuni vani del mio corpo fisico, emotivo e intellettuale che pensavo fossero ormai completamente desensibilizzati. Già il titolo tira una piccola scossa alla memoria personale, perché mi pone di fronte a certe domande: quante volte mi sono fatta spiegare dagli uomini delle cose senza neanche provare a darmi una spiegazione da sola? Quante volte ho ascoltato risposte per domande che non avevo posto? Quante volte ho posto domande o provato a dare risposte che non hanno ricevuto ascolto? Quante volte ho preferito astenermi dal domandare per paura di sentirmi stupida? Quante volte ho preferito tacere per non togliere al maschio il piacere di spiegarmi qualcosa o per paura di risultare isterica?

L’episodio che ispira il titolo si svolge nella casa di un “uomo importante” che, dopo aver saputo che Solnit ha scritto su Muybridge, un pioniere della fotografia in movimento, le suggerisce di leggere questo importantissimo saggio su Muybridge ed è talmente assorto nelle proprie parole da non rendersi conto che stanno provando ripetutamente a dirgli che è proprio Solnit autrice di quel saggio che lui, in ogni caso, non ha neanche letto.

Premetto che questo non è un libro preparato per far fare una figura meschina agli uomini, anche se ce la mettono davvero tutta per farla e Solnit non risparmia episodi e dati né prova a negare il fatto che la quasi totalità delle azioni criminali violente nel mondo è commessa dagli uomini. Ma lei stessa inizia e chiude questa raccolta di saggi ricordando che tra gli uomini ci sono preziosi alleati e che “gli uomini che comprendono il problema capiscono anche che il femminismo non è un complotto per defraudare i maschi, ma una campagna per la libertà di tutti”. Fatte le premesse però, si comincia sempre dal corpo delle donne, da questo “allegro paziente” assopito e assuefatto alle percosse.

Il richiamo alle cifre che la Solnit elenca nel secondo saggio con un ritmo implacabile è un risveglio brusco e spiacevole: 1 donna su 5 subisce una violenza sessuale nel corso della vita e il fatto che negli Stati Uniti si denunci uno stupro ogni sei minuti significa solo che in realtà la cifra effettiva è forse cinque volte maggiore, senza dimenticare che “le oltre 11.776 vittime di omicidi riconducibili a violenza domestica registrate tra l’11 settembre e il 2012 superano la somma del numero delle vittime di quel giorno e di tutti i soldati americani morti nella «guerra al terrore»”. Queste cifre ricordano che le donne sono in una guerra da cui non tornano mai a casa.

E ancora: “«In tutto il mondo le donne di età compresa fra i 15 e i 44 anni hanno maggiori probabilità di morire o di restare menomate a causa della violenza maschile che non a causa della somma complessiva di tumori, malaria, guerra e incidenti stradali» scrive Nicholas D. Kristof, una delle poche figure di rilievo a occuparsi della questione con regolarità”.

Il riverbero della percossa e della violenza è la paura, quella che mi chiude in casa la sera, mi allunga la gonna, mi copre il décolleté, mi serra la bocca, mi fa fare corsi di autodifesa e mi fa passare troppo tempo a pensare a come difendermi dalla violenza piuttosto che a fare qualsiasi altra cosa. Così come succede al movimento femminista oggi che conta i morti, tampona le emergenze e prepara piani di difesa piuttosto che prendersi tempo per l’immaginazione e l’incertezza e usare questa rabbia per creare altri mondi e altre relazioni sociali. Solnit spiega meravigliosamente cosa sia questo tempo oscuro nel saggio L’oscurità in Virginia Woolf – Abbracciare l’inesplicabile dove descrive una discussione con Sontag in cui “lei sosteneva la tesi che bisogna resistere per principio, anche se potrebbe essere inutile. Io avevo appena iniziato a portare avanti l’idea della speranza nella scrittura, e controbattei che non si può sapere se le nostre azioni saranno inutili, che non si possiede memoria del futuro; che il futuro è davvero oscuro, il che tutto sommato è la cosa migliore che possa essere”, proprio come sapeva anche la Woolf che decenni prima “portava avanti le sue istanze per la liberazione femminile non perché le donne potessero fare alcune delle cose istituzionali che facevano gli uomini (e che oggi fanno anche le donne), ma perché avessero piena libertà di muoversi, sia in senso geografico che con l’immaginazione”.

Questo è il potere che voglio anche io. Il potere di dire non lo so cosa sia una società femminista, ma sono disposta a rischiare di immaginarla. A questo proposito non so dire cosa sia il patriarcato, ma uno dei pregi di Solnit sia in questo libro che nelle interviste (se capite l’inglese andate su youtube, Solnit è una straordinaria oratrice) è di prestare ascolto a tutte le modalità con cui il patriarcato, che non è semplicemente “il maschio sciovinista”, impedisce un reale progresso nella società: “La liberazione femminile è stata spesso descritta come un movimento determinato a usurpare o portare via agli uomini il potere e i privilegi, come se, in uno squallido gioco a somma zero, il potere e la libertà potessero appartenere di volta in volta solo all’uno o all’altro sesso. Ma o si è liberi e libere insieme, o si è schiavi e schiave insieme”. (…)

(ci siamo fermate qui perchè ci siamo fermate allo scoglio dell’intersezionalità n.d.r.)

(www.cultweek.com, 9 dicembre 2017)


È la relazione primaria con la madre che struttura la capacità di dare e di creare un mondo dove non prevalga la logica dello scambio, come dimostrano le società matriarcali. Alla Libreria delle donne di Milano l’incontro con la studiosa che per prima ha messo in evidenza il nesso che c’è tra la cura materna e il dono. Un modello sociale ed economico che può scardinare i pilastri del patriarcato.

di Luciana Tavernini

Genevieve Vaughan (a cura di), Le radici materne dell’economia del dono, con la collaborazione di Francesca Lulli, VandA.ePublishing, Milano 2017, pp. 347, Euro 19,50, EPUB, EURO 14,00.

Capita a volte che una propria visione della realtà incroci una riflessione che la conferma, la rafforza, l’apre a orizzonti più vasti. Si prova la leggerezza del non camminare da sole, di trovare già illuminati aspetti che si intuivano e altri impensati che balzano in evidenza. Così è stato per me conoscere i lavori di Genevieve Vaughan e conoscere lei stessa, la coerenza tra i suoi scritti e il suo modo di agire.

Genevieve Vaughan è la maggiore studiosa dell’economia del dono e delle sue origini materne: dagli anni Ottanta mette in luce una complessa e articolata concezione del mondo, collegando ma anche confliggendo con scoperte e interpretazioni dell’economia, sociologia, politica, biologia, neuro-scienze, linguistica, filosofia, antropologia, come dimostra il convegno di Roma del 2015 Le radici materne dell’economia del dono, da cui è nato il libro dall’omonimo titolo.

Sono arrivata a scoprire la teoria del dono e a incontrare Genevieve grazie alla pratica della Storia Vivente che dal 2006 porto avanti con le amiche della Comunità omonima: come abbiamo mostrato nel convegno dello scorso 11 marzo a Milano presso la Libreria delle donne (http://www.libreriadelledonne.it/category/approfondimenti/storia_vivente/). Si tratta di una pratica che fa dell’indagine dei nodi nella vita della storica il metodo per individuare aspetti della storia ancora rimasti invisibili, un’invisibilità funzionale al patriarcato e a una storia che valorizza i rapporti di forza e di potere. Districare questi nodi libera la soggettività femminile e mostra altre possibilità di leggere il mondo.

In questo lavoro avevo enucleato un nodo relativo al comportamento di mia madre che a volte mi irritava e infastidiva: lei mi pareva troppo generosa, non nascondeva però la nostra povertà ed era capace di esprimere giudizi senza infingimenti, senza bon ton. Leggendo questi comportamenti all’interno del sistema patriarcale e capitalistico li vedevo come dispendio, oblatività, rozzezza e non coglievo il nesso tra generosità e autorizzarsi a esprimere giudizi non condiscendenti. Quando, riflettendoci, nel 2010 scrissi per la rivista spagnola Duoda un saggio pubblicato l’anno successivo in DWF (“Gli oscuri grumi del disordine simbolico” in La pratica della storia vivente DWF, n.3 2012), individuai la categoria della munificenza, che non dipende dall’essere ricche o povere. Si può essere ricche e misere e invece povere e munifiche.

Avevo visto in mia madre e anche in mia nonna “modelli di autorità femminile per un altro modo di esserci”, come dice Chiara Zamboni (“La notte ci può aiutare” in a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, Il pensiero dell’esperienza, Baldini e Castoldi Dalai, 2008), donne che non aspettano che il capitalismo finisca, ma qui e ora aprono altri spazi dove regna una sapienza femminile dei rapporti umani. Questa interpretazione mi rese capace di leggere diversamente anche comportamenti miei, di amiche, di mio marito e mio figlio, cosa che mi rese più libera e autorevole e spinse a cercare riflessioni simili anche in altri testi. Così da note nei libri, da siti internet (www.gift-economy.com e www.Economiadeldono.org) sono entrata in contatto con l’economia del dono di origine materna e con Genevieve Vaughan, l’autrice di Per-donare. Una critica femminista dello scambio (Meltemi, Roma 2005), di Homo donans. Per un’economia del materno (VandAePublishing, 2015), ma soprattutto ho avuto l’opportunità di invitarla alla Libreria delle donne di Milano per un confronto sul libro, frutto del convegno romano.

Nell’introduzione al libro Genevieve mostra la forza interpretativa della teoria da lei messa a punto e ricostruisce la rete internazionale che ha dato vita all’incontro e che dal 2001 ha sviluppato diverse iniziative in Norvegia, in Texas, nei World Social Forum d Porto Alegre, Nairobi, Bamako, Mumbai, ha partecipato a conferenze mondiali delle donne in diversi paesi, ha prodotto convegni specifici sull’economia del dono, ha intrecciato relazioni con i Moderni Studi Matriarcali, con le riflessioni di teorici della decrescita e con studiose di diverse discipline che, pur non essendo iscritte all’International Feminists for a Gift Economy, ne colgono l’importanza.

Vaughan nel suo saggio, che inaugura la prima parte intitolata Teoria, delinea sinteticamente il tema del dono. Non usa la parola munificenza ma economia del dono unilaterale di origine materna. Cogliendo il valore, anche economico, dell’esperienza, comune nei primi anni di vita a tutti gli esseri umani, del ricevere ciò che la madre, o chi per lei, dà, si può analizzare diversamente la società attuale. Si tratta di un’esperienza sottesa allo sviluppo delle prime capacità sociali: l’attenzione congiunta, la capacità di leggere le intenzioni altrui, le proto-conversazioni infantili universalmente diffuse. Il ricevere e dare a turno è all’origine ma anche struttura il linguaggio. Inoltre, come dimostrano gli studi di psico e neuro biologia, porta a riconoscersi e a sviluppare la propria soggettività in quanto connessi alla madre, vedendola “come me” e apprendendo dal suo comportamento ad agire nel mondo e a interagire con altre persone, interattività facilitata dai neuroni a specchio. È un’esperienza che struttura in tutti la capacità di donare, ma nella società attuale viene contraddetta dalla logica di mercato che impone uno spostamento di soggettività per i maschi. A partire dai 4 anni, essi imparano ad appartenere alla categoria opposta a quella della madre, dove l’opposizione viene intesa come non prendersi cura degli altri, dare solo per ricevere, e che le femmine devono adeguarsi a loro. Una situazione non naturale né inevitabile, dato che non avviene nelle società matriarcali, come riferiscono anche altri saggi nel libro.

Aver presente l’origine materna dell’economia del dono ci mostra che oggi sono presenti due economie e che quella di scambio è parassitaria della prima. Riconoscere il carattere economico della cura materna permette di individuare due paradigmi: quello di un materialismo maternalista di dono e quello dell’economia capitalista dello scambio e del mercato. Permette di cogliere ciò che mette in atto la logica dello scambio e che spesso non vediamo connesso: violenza e rappresaglia; attacco militare e contrattacco, giustizia come ripagare un crimine o vendetta; persino sentirsi in colpa è predisporsi a pagare un prezzo, solo per fare qualche esempio.

Il saggio è ricchissimo di spunti che mi hanno aiutato a liberare i miei comportamenti da letture svalutanti, dall’impiccio di cercare sempre un prezzo per dar valore a ciò che facevo, senza la libertà di far circolare il di più che avevo nelle relazioni, certa che ne può venire del meglio nel mondo in cui anch’io vivo.

Voglio accennarvi brevemente ad alcuni dei 27 interventi del libro sul convegno perché ciascuno amplia il discorso con prospettive inaspettate e un linguaggio che la necessità di sintetizzare ha reso chiaro e godibilissimo, mantenendo quasi sempre la vivacità dello scambio in presenza e nel contempo una scorrevolezza, dovuta all’attenta riscrittura dei testi da parte delle autrici ed anche all’accurato editing della casa editrice.

Nei saggi della prima parte dedicati alla Teoria, segnalo quello di Luciana Percovich, che molte di noi conoscono come femminista, saggista e curatrice della collana Le civette della casa editrice Venexia. Esso mette in luce, anche sulla scia delle ricerche pionieristiche di Marja Gimbutas, chiavi di lettura comuni per le sculture e pitture nelle grotte santuario del Paleolitico fino a giungere alle numerose Madonne del latte dipinte in Italia tra l’anno Mille e il Quattrocento. Ho trovato particolarmente interessanti quello di Francesca Brezzi, docente di Filosofia Morale all’università Roma 3, che ripercorre le teorie del dono ma soprattutto si sofferma sulla relazione placentare incrociando il pensiero di Luce Irigaray e le opere placentarie della fine degli anni Settanta della pittrice futurista Barbara; quello di Elena Pulcini, docente di Filosofia Sociale a Firenze, che, dialogando anche con altri teorici del dono, mostra come esso ci porti a una nuova concezione dell’essere, capace di accettare la costitutiva fragilità del soggetto e la necessità della relazione, una passione per l’altro da sé, proponendo dunque l’universalità della cura, facendo sì che le donne da soggette alla cura (e al dono) diventino soggetti di cura (e di dono); quello di Alberto Castagnola, ricercatore dello SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo del Mezzogiorno) e dell’ISPE (Istituto di Studi per la Programmazione Economica), sui contributi del pensiero della decrescita alle teorie del dono.

Penso anche all’analisi che Daniela Falcioni, docente di Etica Sociale in Calabria, fa della struttura del dono a partire dal romanzo del 2005 Slow man di Coeetze, premio Nobel nel 2003; alla denuncia dei tentativi di eliminazione della madre operati dal neoliberismo con il concetto di parità del femminismo liberale dell’Unione europea, la medicalizzazione della maternità, le tecnologie riproduttive, l’espropriazione delle competenze materne, come fa la ricercatrice che si muove tra Austria e USA Mariam Irene Tazi Preve; al saggio di Susan Petrilli, docente di Semiotica a Bari, che sintetizza i principali aspetti della teoria del dono applicata al linguaggio, delineata nel libro della Vaughan, per ora solo in inglese, The Gift in the Heart of Language: The Maternal Source of Meaning (Mimesis 2015): dal come lo apprendiamo, alla costruzione del mondo attraverso di esso, alla relazione tra chi scrive e chi legge, alla pratica della traduzione.

Nella seconda parte, intitolata Pratica, mi hanno colpito gli esempi di odierne società matriarcali come l’eco-villaggio Nashira in Colombia, di cui parla Angela Dolmetch, giurista che ha studiato tra la Colombia e la Gran Bretagna, oppure come la Pagoda Community, costituita da donne lesbiche a St. Augustine in Florida dal 1976 alla fine degli anni Novanta, e il Michigan Women’s Music Festival dal 1975 al 2015, di cui ricostruisce le storie l’attivista statunitense Lyn Daniels. Soprattutto mi ha fatto riflettere l’esame di Kaarina Kailo, docente e politica finlandese, su come nel suo paese le politiche neoliberali stiano distruggendo quel tipo di stato sociale, le cui caratteristiche possono leggersi come espressione del dono. Lei lo fa con casi precisi, a volte raccapriccianti come l’introduzione di animali meccanici per anziani o lampade per ricordare ai malati di Alzheimer di mettere in forno il cibo surgelato, il tutto nel tentativo di ridurre i costi dell’assistenza. Esempi che insieme alle sue riflessioni teoriche ci permettono di cogliere quello che anche da noi si sta tentando di fare, collegandolo tra l’altro agli obiettivi del recente Trattato di Lisbona dell’Unione Europea.

Inoltre mi ha colpito la resistenza in Italia alla medicalizzazione della maternità e della nascita, di cui un esempio è la creazione di madri peer to peer, nell’intervento di Elena Skoko, fondatrice tra l’altro dell’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica Italia (ovoitalia.wordpress.com); il modo diverso di utilizzare internet da parte delle donne di cui parla Anna Cossetta della facoltà di Sociologia a Genova.

La terza parte, Pratica nelle realtà non occidentali, inizia con un breve saggio Heide Goettner-Abendroth, che con il suo lavoro quarantennale di ricerca sul campo, ma soprattutto di comparazione tra le ricerche, in particolare di studiose e studiosi nativi, ha fornito il paradigma delle società matriarcali fondando i Moderni Studi Matriarcali. Nel suo libro Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo (Venexia 2012) ne ha messo in luce le caratteristiche a 4 livelli, sociale, economico, politico, spirituale/culturale, consentendoci di cogliere elementi comuni strutturali nella diversità delle attuazioni legate alle condizioni specifiche. Un piccolo assaggio che invoglia ad approfondire.

Segue la comunicazione di Francesca Rosati Freeman che col suo libro Benvenuti nel paese delle donne. Un viaggio straordinario alla scoperta dei Moso (XL edizioni 2010) e poi con il documentario Nu Guo. Nel nome della madre, girato con Pio D’Elia (Dharma production 2014) ci ha fatto conoscere il popolo Moso, un esempio vivente di società matriarcale. Sono circa 40.000 persone che vivono in Cina con un’organizzazione sociale matrilocale e matrilineare, dove figli e figlie vivono e producono nella casa e nella terra della madre, separando la vita familiare da quella amorosa: una ragazza giunta a maturità sessuale ha una stanza in cui accogliere il giovane scelto come amante, che il mattino successivo torna alla casa di sua madre.

Si pratica la maternità allargata per cui ogni componente della famiglia materna (madre, nonna, sorelle, fratelli, zie e zii materni) dona alla creatura le cure materne necessarie e alla genitrice libertà nel vivere la sua maternità. Le decisioni collettive vengono prese col metodo del consenso.

In questa società vi è assenza di violenza, di gelosia, non esiste abbandono di minori né di persone anziane. In questo saggio Freeman ci aggiorna su come il popolo Moso abbia organizzato i soccorsi per i villaggi colpiti dal terremoto del 2012 e su come nella situazione attuale sia in atto un attacco al modo tradizionale di vivere da parte di società e del governo cinese con quelle modalità capitalistiche che stanno diffondendosi in Cina, ma ci mostra anche come il popolo Moso abbia reagito, in modo pacifico senza rompere la solidarietà e salvaguardando la natura del lago Lugo, diventato zona turistica.

Ho dato più spazio ai lavori di Goettner-Abendroth e di Freeman perché ho potuto conoscerle personalmente e approfondire le loro scoperte, invitandole a Milano.

In questa parte segnalo anche il testo della scrittrice senegalese Coumba Toure sul tema dell’adozione in cui confronta le modalità occidentali con quelle di popoli dell’Africa Occidentale e quello dell’attivista canadese Diem Lafortune sulla compravendita di neonati di popolazioni native, mascherata da adozione.

Infine nell’ultima parte intitolata Spiritualità ho potuto constatare, grazie a Morena Luciani Russo fondatrice dell’Associazione Laima di Torino, il permanere di elementi matriarcali e di dono in riti praticati ancor oggi legati alla panificazione collettiva in Abruzzo, Campania e Sardegna. Mi ha colpito anche nel saggio della scrittrice statunitense Vicki Noble, che chiude il libro, la relazione tra la produzione naturale dell’ossitocina attraverso riti di guarigione contemporanei, soprattutto femminili, e le più recenti ricerche di neurobiologia che mostrano la funzione sociale e curativa di questo ormone.

Ho fatto questa carrellata personale e non esaustiva per darvi un’idea della ricchezza e dei legami internazionali legati all’economia del dono, infatti il libro offre molte indicazioni per piste di ricerca personali.

John Maxwell Coeetze, Slow man, trad. di M. Baiocchi, Einaudi, Torino 2006, pp.253, EURO 17,00.

Heide Goettner-Abendroth, Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia 2013, pp. 710, Euro 28,00.

Francesca Rosati Freeman, Benvenuti nel paese delle donne. Un viaggio straordinario alla scoperta dei Moso, XL edizioni 2010, pp.183, euro 15,00.

Francesca Rosati Freeman e Pio D’Elia, Nu Guo. Nel nome della madre, Dharma production 2014, Giappone- Italia 56’.

Luciana Tavernini, “Gli oscuri grumi del disordine simbolico” in La pratica della storia vivente DWF, n.3 2012.

Genevieve Vaughan, Per-donare. Una critica femminista dello scambio, trad. Francesca Buffo, Meltemi, Roma 2005, pp.503, Euro 25,00, VandAePublishing, EPUB, EURO 4,99.

Genevieve Vaughan, Homo donans. Per un’economia del materno, trad. di Nicoleugenia Prezzavento, VandAePublishing, Milano 2015, pp. 418, Euro 19,50, EPUB, EURO 14,00.

Genevieve Vaughan (a cura di), Le radici materne dell’economia del dono, con la collaborazione di Francesca Lulli, Genevieve Vaughan, Per-donare. Una critica femminista dello scambio, Milano 2017, pp. 347, Euro 19,50, EPUB, EURO 14,00.

Genevieve Vaughan, The Gift in the Heart of Language: The Maternal Source of Meaning (Il Dono nel Cuore del Linguaggio: la Fonte Materna del Signficare), Mimesis, 2015, pp. 486, EURO 28,00, EPUB, EURO 6,99.

Chiara Zamboni, “La notte ci può aiutare” in a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini, Il pensiero dell’esperienza, Baldini e Castoldi Dalai, 2008, pp. 480, Euro 20,00

www.gift-economy.com

www.Economiadeldono.org

http://www.libreriadelledonne.it/category/approfondimenti/storia_vivente/


(Leggendaria n.226/2017 p.33-35)

Marina Santini | Luciana Tavernini
Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua
Il Poligrafo 2015


di Donatella Franchi

Il libro ci restituisce una grande energia creativa, non solo per la vivezza delle forme che via via prende il dialogo tra una madre e sua figlia sulle parole inventate dalle donne per dire la loro esperienza, sul corpo pensante, sui luoghi creati per rispondere ai propri bisogni e desideri e sul lavoro, ma anche per le quasi cento fotografie che ci restituiscono la vitalità di un’epoca e per la varietà delle testimonianze di 58 femministe.

Sono testimonianze nate nel passato, testimonianze di un’esperienza di trasformazione ricca di invenzione la cui energia ha lasciato in chi parla una impronta che dura nel presente.

Non sono memorie di un periodo finito, ma mostrano una storia che continua ancor oggi.

Dato il mio amore per l’arte visiva mi soffermo sulle testimonianze di Paola Mattioli e di Marcella Campagnano, oggi due fotografe riconosciute e affermate. Le loro testimonianze ci dimostrano che dalle esperienze delle artiste femministe di quegli anni deriva un nuovo modo di pensare l’arte oggi. Le pratiche artistiche delle donne hanno cambiato il panorama dell’arte. Infatti il femminismo è il movimento politico del ‘900 che più l’ha influenzata.

Quella che io chiamo “la novità fertile” che le donne hanno portato nel mondo dell’arte è il fare interagire l’energia della creazione con l’energia dei rapporti.

Marcella Campagnano esordisce dicendo “non sono una fotografa”, nelle sue fotografie sperimentali sui ruoli che le donne incarnavano e che le imprigionavano, quello che le importava era l’incontro con le donne, lo stare insieme in relazione, da cui scaturivano le fotografie sui travestimenti.

Preferisco usare il termine pratica artistica, esprime meglio il lavoro artistico come azione trasformativa che innesca processi vitali e crea spostamenti che mettono in circolo energie creative che tutte e tutti possiedono.

Il femminismo è stata una grande creazione che sento agire nel mio presente: mi ha permesso di formarmi un po’ alla volta un pensiero mio sull’arte.

Ho sempre utilizzato l’arte in modo relazionale, ma ne ho avuto coscienza solo attraverso il femminismo. Per me comunicare attraverso immagini, ha sempre significato “arricchire il vivere insieme”, come ha detto Carla Lonzi parlando delle Preziose nel suo testo rimasto incompiuto Armande sono io!

Infatti la rivoluzione femminista, portando la vita al centro della cultura e della politica, ha modificato profondamente anche il rapporto con l’arte. Il nostro presente continua a nutrirsi di questo cambiamento.

Oggi continuo a pensare che fare arte significhi agire nella trasformazione in relazione.

(Nel libro vi è anche la testimonianza di Donatella Franchi “Un andirivieni necessario. Pratica artistica e vita quotidiana” in cui a partire dal un suo lavoro Progetto Clotilde, durato dieci anni, offre alcune riflessioni sul fare artistico.)

(www.libreriadelledonne.it, 7 dicembre 2017)