di Donatella Franchi
Ancora con qualche reticenza riesco a dirmi vecchia. Forse perché la parola vecchiaia mi rimanda a qualcosa di concluso e compiuto, “ogni passione spesa”, mentre continuo a vivere in una perenne ricerca e divenire, ma voi mi suggerite che l’invenzione della vecchiaia è proprio questo, e questo mi piace.
Del vostro testo trovo molto significativo il titolo, appunto perché rimanda a qualcosa di dinamico e di creativo. La vecchiaia è l’ultima occasione che la vita ci offre, e la nostra generazione è chiamata a questo tipo di creazione.
Quello che trovo interessante nel testo è la sua struttura aperta e circolare, quella di una conversazione, una tessitura di pensieri, che invita a partecipare, che non è mai conclusa.
Mi pare che il tono che avete scelto sia quello della leggerezza, in un flusso di coscienza, di pensieri, dove il dramma dell’esistenza, l’angoscia di solitudine, la paura della malattia, sono tenute sullo sfondo, anche con coraggio.
C’è un desiderio di ricomposizione, di ricerca d’armonia e di equilibrio nel piacere dell’incontro e della condivisione.
Il sentimento e la pratica dell’amicizia ci salva, vi salva. E così ho pensato alla conversazione delle Preziose e alla Cartografia dei sentimenti di Madeleine de Scudéry, su cui ho lavorato, dove l’amicizia è l’unità di misura del territorio, del proprio mondo interiore. E anche in questo ho trovato risonanza.
AA. VV., L’invenzione della vecchiaia, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano, 2017.
(www.libreriadelledonne.it, 11 gennaio 2018)
di Antonietta Lelario (Circolo La Merlettaia di Foggia)
Cambio di civiltà, punti di vista e di domanda è il titolo significativo dell’ultimo Sottosopra, discusso oggi 19 dicembre 2018 a Foggia, Parco San felice, ore 18.30. La proposta politica è introdotta da Katia Ricci e Gemma Pacella, presenti alcune delle donne che vi hanno scritto, nomi storici del femminismo italiano: Lia Cigarini, Giordana Masotto e Alessandra Bocchetti.
I Sottosopra
Dalla metà degli anni ’70 i fogli periodici con il titolo di SOTTOSOPRA, pubblicati dalla Libreria delle donne di Milano, ci hanno accompagnati per aiutare una lettura della Storia che svelasse la presenza femminile. Non solo la Storia passata, ma quella presente, la cui lettura è tanto più difficile perché vi siamo immersi ed è tanto più necessaria perché senza un’analisi condivisa del presente non si dà politica.
Cambio di civiltà
Quindi molte di noi, del circolo la Merlettaia ma non solo, abbiamo accolto con particolare piacere quest’ultimo numero del Sottosopra Cambio di civiltà, punti di vista e di domanda del settembre 2018, che nasce dalla collaborazione di amiche della libreria di Milano e di Roma.
In questo numero c’è una rotazione dello sguardo che permette di vedere le cose più importanti in un’altra prospettiva. Vi si sostiene che non sono le donne ad aver bisogno di sfondare tetti di cristallo per farsi spazio, ma la società tutta ha bisogno delle donne per un cambio di civiltà. Essendo quella attuale a rischio di perdita di umanità.
È necessaria una svolta storica
In questo sottosopra Giordana Masotto invita le donne a non attardarsi più sullo scontro fra chi pensa che il patriarcato sia morto o vivo. Tutte verifichiamo che “è morente, ma pericoloso, ferito, ma trasformista e dunque rimane un campo di battaglia da cui non possiamo prescindere” e possiamo anche smetterla di dividerci fra quelle della parità e quelle della differenza. Possiamo invece far tesoro del fatto, dimostrato dal MeToo, che la parola delle donne ha credito e che la narrazione della realtà che le donne fanno può vincere su quella degli uomini. Piuttosto Lia Cigarini si chiede “se la pratica messa in campo dal MeToo possa avere efficacia anche nel lavoro e nella politica”. Questo è il desiderio che lei ci consegna nella consapevolezza che non è solo il suo. Ché anzi questa è la scommessa del nostro tempo.
Una visione femminista del mondo
Con slancio rinnovato questo sottosopra ci fa intravvedere il salto di civiltà a cui le donne stanno lavorando da anni. Perché “Le donne sono portatrici di un tale scardinamento dell’idea, della qualità e del senso del lavoro che non possiamo pensare di affrontare discriminazioni e segregazioni senza cambiare il punto di vista sul quadro generale. Le donne al lavoro ci vanno intere… il di più che portano chiede di ripensare il lavoro per tutti… perché il lavoro è tutto ‘quello necessario per vivere’, quello pagato per il mercato e quello di riproduzione sociale. Un insieme di denaro, tempo, senso, espressione di sé, relazioni”, aggiunge Giordana Masotto.
Quando presentammo alla CGIL il precedente Sottosopra dal titolo intrigante “Immagina che il lavoro” ci fu risposto che il problema è la carenza di lavoro, soprattutto al Sud. Avevano ragione se si rimane nelle logiche esistenti, altrettanta ragione se, nel leggere i mutamenti in corso, si vedono solo quelli determinati dal potere. Ma in questo modo contribuiamo anche noi a cancellare una seconda volta la soggettività femminile che invece nel frattempo ha posto sul piatto della bilancia le sue necessità e ha operato già importanti modificazioni. Occorre quella rotazione di sguardo per ricordare che non è scontato che esista l’attuale super sfruttamento né che venga ignorato il tempo necessario alla vita. La mancanza del tempo necessario per coltivare il senso di ciò che facciamo, per prenderci cura di coloro che amiamo, viene oggi considerata normale. È considerato normale dire che si possa andare al lavoro fino al nono mese di gravidanza. È considerato normale concedere 5 giorni all’anno ai padri per le necessità della crescita. Invece tutto questo normale non è, ma occorre che la narrazione femminile che conosce i tempi della cura, della crescita dei figli vinca sulla narrazione che vede il profitto come unico motore del lavoro, subordinandogli tutto il resto. È lo sguardo che deve allargarsi e riavvicinarsi alla vita! Questo sguardo ha bisogno delle donne perché ciò che è considerato secondario si riprenda invece il centro! Proprio l’attenzione ai corpi e al valore dell’esperienza fa riconoscere alle donne quell’annodamento di lavoro e cura che solo un pensiero astratto può illudersi di tenere separati. E, se lo fa, lo fa a patto di mutilare la realtà, e di separarsene irrimediabilmente.
Una verità incontrovertibile
Il presente ha bisogno delle donne anche per affermare un ruolo della tecnologia che appunto liberi tempo o protegga la salute o permetta quel meraviglioso miracolo avvenuto qualche giorno fa per cui in una donna con la sindrome di Mayer è stato trapiantato un utero donato da una donna morta ed è nata una bambina. La tecnologia deve essere al servizio della nostra umanità non stravolgerla, come sostiene nel Sottosopra Luisa Muraro. C’è un punto limite nel tradimento del corpo a cui rischia di giungere la società attuale. Dobbiamo saper dire “no”: il corpo gravido non è un contenitore del nuovo nato come se la creatura fosse un prodotto che può essere venduto o regalato.
In questi anni noi donne abbiamo conquistato ancora più coscienza, non solo di avere un corpo la cui integrità va rispettata, ma soprattutto di essere il nostro corpo nel quale sono iscritte le nostre relazioni, nel quale avviene il colloquio intimo con noi stesse, che ci accompagna sulla scena sociale, che attraverso l’agire quotidiano mostra ciò che pensiamo e sentiamo. “In ogni corpo c’è anche l’anima” dice Alessandra Bocchetti nel monologo, presente all’interno del Sottosopra, contro la prostituzione, ispirato al libro di Rachel Moran, Stupro a pagamento. Questa è per noi una verità incontrovertibile.
Naturale non significa banale
Al circolo La merlettaia abbiamo lavorato a lungo su questa concezione unitaria del corpo, In molte siamo insegnanti e sapevamo di aver portato il corpo a scuola e di esserci lasciate guidare nell’insegnamento da ciò che sentivamo, dal bisogno di dare possibilità di esistenza alle soggettività di ragazze e ragazzi, di aver introdotto una modalità di conoscenza che passa per i corpi e le esperienze, di aver voluto restituire spazio alle relazioni e all’imprevedibilità che esse portano con sé. Sapevamo che questa concezione unitaria del corpo è la bussola che ci ha permesso di agire e nello stesso tempo di immaginare un altro modo di lavorare. Questo sapere “naturale” che è di tante insegnanti, che rimette insieme ciò che era stato artificialmente separato intellettualizzando i saperi e considerando muto il corpo, ha ancora bisogno di essere narrato, sottratto al rischio di banalità, come si dice in questo Sottosopra.
Proprio il riferimento all’esperienza ci fa riconoscere quell’annodamento di lavoro professionale e cura che solo un pensiero astratto può illudersi di tenere separati. E su questo la narrazione femminile è appena cominciata, ha ragione Lia Cigarini.
Ora è il tempo
La grandezza di questo Sottosopra sta proprio nel far vedere i punti a nostro vantaggio da cui partiamo. Come si è detto intanto c’è il credito che le donne si sono conquistate e poi il modo in cui se lo stanno giocando, assumendosi la responsabilità di indicare una nuova civiltà per tutti. In una riunione di Libera poco tempo fa si denunciava il meccanismo del potere che funziona cooptando dall’alto i suoi simili e omologando ogni differenza, per cui l’apertura alle donne, anche quando c’è, non lo scalfisce. Molto opportuna ho trovato quindi la sottolineatura di Giordana Masotto: “gli uomini non possono più accontentarsi di fare spazio alle donne e alla loro differenza, ma devono farsi carico di un cambiamento che riguarda la natura stessa del potere”. C’è discrepanza fra ciò che è ormai maturo nella coscienza ed è una necessità per tutti, da una parte, e l’immobilismo sociale e politico dall’altra. Questo è causa di sofferenza, ma sta anche suscitando una potente presa di parola femminile.
Inoltre devono cambiare i presupposti della società moderna iscritti nel contratto sessuale, stipulato fra uomini per l’accesso al corpo femminile, basti pensare al rito del matrimonio in cui il padre conduce la sposa all’altare e la affida al futuro marito. Certo quel contratto sta già crollando, ma questo non basta, si sente la mancanza di una teoria della libertà femminile. Le donne l’hanno praticata e agita nell’impensabile, ma ora le loro vite e il loro racconto l’hanno resa pensabile e hanno reso possibile porla come limite inviolabile agli uomini. Quando una donna dice no, è no. La libertà inoltre non agisce solo come limite per l’altro, agisce anche come tensione per il di più che vogliamo. In questi anni, e in passato secondo ciò che ci dicono grandi figure di donne, la libertà femminile si è espressa mostrando un desiderio di altro che usciva dai contesti smarginandoli. Sia sull’ascolto del no femminile che su ciò che le donne desiderano la narrazione è appena cominciata. Manca una concezione diffusa della natura dell’Infinito a cui tende il desiderio delle donne È possibile dargli corpo senza una teologia della donna? Luisa Muraro ci pone di fronte a questa domanda. Punti di vista e di domanda è infatti il sottotitolo di questo Sottosopra. Sapremo esserne all’altezza tutte e tutti? L’incontro del 19 è una buona occasione per parlarne.
(L’Attacco, 19 dicembre 2018)
di Pinella Leocata
La maternità surrogata è una delle forme in cui si esprime la violenza maschile contro le donne. Legittimare la pratica della “gestazione per altri”, che cancella l’importanza e il significato profondo della gestazione e del parto, significa assumere un approccio maschile che nega e svaluta il ruolo della madre e la specificità della procreazione per la quale non può valere il principio della simmetria dei sessi. Una posizione, questa – condivisa da molte femministe – di cui si è discusso nei giorni scorsi a Catania nel corso di un incontro promosso dalle donne de La Ragna-Tela sul libro-ricerca Maternità. Surrogata? di Daniela Danna, docente di Scienze politiche alla Statale di Milano. Sottotitolo: Nel bazar della vita: il prezzo di un figlio? Trattabile (Asterios editore).
La ricerca condotta dalla prof. Danna in Usa, in India e in tanti Paesi in cui questa pratica è legittima le ha consentito di mettere a fuoco alcuni punti cruciali della questione, a partire da quello relativo alla salute della gestante e del nascituro. La donna che “offre” il proprio utero per la gestazione viene sottoposta, spesso senza essere avvertita, a pesanti “cure” in vista della fecondazione, procedure – debilitanti dal punto di vista fisico – che si traducono in gravidanze e parti difficili e in maggiori rischi per il bambino. Non solo. Durante la gestazione la donna è obbligata a essere controllata dal medico della coppia per cui genera e a seguire il tipo di vita che le viene imposto. Al parto, poi, il bambino le viene subito tolto, con i gravi danni che questo provoca emotivamente non solo alla madre, ma anche al neonato che per 9 mesi ha vissuto con lei, nutrendosi del suo sangue, delle sue emozioni, della sua voce, del suo odore. Non solo. In caso di gravidanze multiple, e sono frequenti visto che per sicurezza vengono impiantati più ovuli, è il committente a scegliere quanti e quali embrioni tenere e quanti e quali eliminare. La gestazione per altri, dunque, sconfina nell’eugenetica e considera la gestante come una macchina di produzione a disposizione del committente, negando alla maternità il significato profondo di relazione tra madre-figlio.
Ancora. Lì dove questa pratica è legale si è passati rapidamente dal “dono”, con divieto di pagamento per la gestazione, al rimborso spese e al contratto di pagamento; e dalla possibilità per la partoriente di scegliere di tenersi il bambino all’eliminazione di questo diritto. Una clausola capestro che non è data in nessun altro contratto di lavoro dal quale si può sempre retrocedere. E anche nei Paesi dove la legge non è scritta, in caso di conflitto, i tribunali finiscono per scegliere la situazione migliore per bambino, intesa sempre come la famiglia che ha più soldi.
Secondo il diritto romano “la madre è sempre certa”, cioè è colei che ha partorito, ed è questo che sancisce la filiazione. Regolare la maternità attraverso l’istituto giuridico del contratto, invece – denuncia la prof. Daniela Danna – significa non solo stabilire che la filiazione non passa dalla generazione ma dal contratto, ma anche mettere in piedi un mercato della filiazione di cui, come per tutti i mercati, lo Stato si fa regolatore. «E nel mercato entrano le dinamiche del potere economico, tant’è che la gestazione per altri è diffusa in India e nei Paesi poveri dove per alcune donne questo, insieme alla prostituzione, è considerato l’unico modo di guadagnare». Una realtà che si cerca di nascondere attraverso la neutralizzazione del linguaggio per cui si parla della gestante come di una “portatrice”, reificando così l’evento della maternità come se si trattasse di cose e non di relazioni.
«Non è vero che la gestazione per altri è un dono – sostiene Daniela Danna – tant’è che i committenti preferiscono pagare per assicurarsi il figlio e la libertà di imporre le proprie decisioni alla gestante. E questo parla di un’idea di figlio come possesso e come diritto. Un falso diritto perché un diritto presuppone che dall’altra parte ci sia qualcuno che abbia il dovere di dare».
Tra le tante questioni poste dalla pratica dell’utero in affitto c’è anche il tema della libertà della donna (ma di quale libertà parliamo?) e quello del “lavoro” che in questo caso viene declinato non certo come uno strumento di emancipazione, ma come mera possibilità di fare dei soldi. Ancora. Sostenere che la madre è colei cui appartiene l’ovocita significa fare prevalere il legame genetico con il figlio e, dunque, assumere una posizione maschile a discapito della relazione madre/figlio che è legata alla gestazione e al parto. E significa non tenere conto dei diritti del neonato, a partire dal diritto alla continuità familiare.
Alla luce di tutte queste considerazioni, Daniela Danna conclude che il movimento LGBT – di cui è stata alfiera – rivendicando il diritto alla gestazione per altri «rischia di essere la testa di ponte per una trasformazione della procreazione umana che iscriverà la disuguaglianza negli stessi corpi, con il ricorso crescente a tecniche di riproduzione assistita che non si distinguono dall’eugenetica».
(www.libreriadelledonne.it, 12 dicembre 2018)
L’11 dicembre verrà presentato alla Libreria delle donne di Milano il libro di Gisella Modica, Come voci in balìa del vento. Un viaggio nel tempo tra storia personale e storie collettive, Iacobellieditore, pp.208, 13 euro
«Come voci in balìa del vento», di Gisella Modica
di Claudia Bruno
Una ragazza alle prese con una figlia appena nata si appassiona al passato della sua terra e decide di lasciare la bambina a sua madre, alla ricerca della verità. Siamo nella Palermo degli anni Settanta e la ragazza racconta cosa è successo dopo. Una donna rientra nella casa di sua madre, a dieci anni dalla sua scomparsa, e trova abbandonato nel cassetto di un vecchio scrittoio un registratore. Siamo nella Palermo degli anni duemila e la donna racconta cosa è successo prima.
Come voci in balìa del vento (Iacobelli editore, pp. 224, euro 13) ha almeno due inizi e due fini, ma la donna in questione è sempre Gisella Modica, attivista, femminista, autrice del volume in cui racchiude una parte importante di sé. «Si fa storia quando si dà senso a ciò che si vive», scrive Maria Milagros Rivera Garretas. Ecco, il memoir di Gisella Modica è forse prima di ogni altra cosa un libro sulle asperità che comporta il voler raccontare una storia vera, tradurre in parole l’esperienza vissuta e trovarle una forma. Perché se c’è una cosa che una forma non ce l’ha quella è la vita, Modica lo sa bene, e in questa raccolta di frammenti fa una scelta precisa: invece che la narrazione di una storia, ci consegna il diario di una scrittura.
Un viaggio nel tempo tra la nascita di una figlia e la morte di una madre – tra la morte di una madre e il ritrovamento di una figlia – dove il vero protagonista è un registratore a nastro che è chiamato a incarnare il filo che ricuce, un filo in cui si può anche inciampare. Al centro, la Sicilia del dopoguerra, la lotta contadina per l’occupazione delle terre incolte e la ripartizione dei raccolti.
Che ruolo hanno avuto le donne in tutto questo? Modica inizia a chiederselo in mezzo al fumo delle sigarette di un raduno comunista. Ha appena partorito, ma la domanda le punge più di quello straniamento. E non trovando informazioni nei documenti d’archivio la domanda si fa ingombrante, invade tutto. Per questo Modica decide di partire, prende il registratore, un’agenda, e va a cercare la risposta nell’entroterra palermitano. Piana degli Albanesi, Prizzi, Polizzi, Valledolmo, San Cipirrello, San Giuseppe Jato, Bisaquino, Corleone, Castellana. È un itinerario attraverso i luoghi – crepe e ciuffi d’erba, campagne e caseggiati seccati dal sole – quello in cui l’autrice s’inoltra, un percorso a ritroso in una parte significativa della storia italiana, della questione meridionale. La riforma agraria seguita agli anni delle grandi guerre, la fame dei contadini e la ribellione per la mancata attuazione della legge Gullo che prevedeva una redistribuzione più equa, la politica come ancora di salvezza alternativa e a volte persino contigua alla religione, l’autodeterminazione delle donne prima del femminismo.
C’è sempre un’anziana pronta a lasciar entrare la ragazza con il registratore, sedersi a un tavolo, puntellare il nutrimento del racconto di gesti burberi e severi ammonimenti. «La vita della rivoluzionaria» dice Antonietta, la prima a indossare i pantaloni nel suo paese da ragazza «è andare dove c’è bisogno, buttare semi anche dove non c’è niente. Ma non basta. Bisogna stare attente a convincere prima se stesse per poi convincere gli altri». Eccole le voci in balia del vento di cui l’autrice custodirà per sempre l’eco. Sono voci che lungo quarant’anni di esistenza si trasformeranno, mescolandosi ai deliri e ai sogni e che solo a un certo punto si faranno pronte a diventare racconti. Dieci, raccolti nell’ultimo capitolo, dove ogni storia ha la sua forma che sa lasciarla andare.
(il manifesto, 06 giugno 2018)
di Luisa Cavaliere
Dolore, smarrimento, paura e, anche, un filo di felicità sono le emozioni contrastanti e tumultuose che ci assalgono (assalgono noi donne) quando scopriamo il “pregiudizio di genere”. Una lente deformante travestita in mille modi che si annida velenosa dappertutto. Nel linguaggio che la svela pervasiva. Nelle relazioni d’amore. In codificate abitudini trasformate dolosamente in leggi di natura. Nei processi di simbolizzazione che presiedono alle concezioni del mondo, agli stili di vita, alle gerarchie, alle regole morali, all’etica. Scopriamo ognuna a suo modo e, come tante volte pure è avvenuto, insieme alle altre (insieme al gruppo che ci associa intorno ad un desiderio, a un diritto da rivendicare, a un sopruso da contrastare) la verità che segnala quel pregiudizio come causa prima di differenti solitudini, di silenzi, di violenza, di odio che non arretra e si nutre della sua miseria che vuole l’altra addomesticata e silente. Una verità non dogmatica che si innerva nella storia della relazione uomo – donna e la impressiona, la pervade con i suoi frutti velenosi. Di questo tumulto che è anche timore, senso di colpa e che è certezza e, insieme, onda che porta dubbi e genera abbandoni di porti apparentemente sicuri, racconta la giudice Paola di Nicola nel suo utilissimo “La mia parola contro la sua”.
Paola Di Nicola racconta quel suo “venire alla luce” che la scoperta dell’inganno ha provocato. Una scoperta che le ha cambiato la vita, il rapporto con il lavoro, con la maternità, con l’altro. Gliel’ha resa più difficile, più faticosa ma, anche, più vicina ai suoi sentimenti, più capace di nominare il disagio, di raccontare l’inquietudine, di fare crescere la responsabilità che lo svelamento di un inganno così radicale impone. La responsabilità di trovare mediazioni efficaci per un conflitto che, lasciato a se stesso, sarebbe (è) distruttivo, impolitico. “La mia parola contro la sua” narra con sapienza e linguaggio pieno di passione questo percorso “iniziatico” dentro il mondo del diritto, della legge del padre, dei tribunali, delle motivazioni delle sentenze. Dentro quel dispositivo di rimozione politica che sono le parole che, con apparente innocenza, nascondono, negano, quella prima differenza, la più significativa, che sta alla base dell’umano. La scrittura, impietosa, avanza e svela contraddizioni, bugie, complicità, debolezze. Offre statistiche, cifre impressionanti, crudeli mistificazioni. “La mia parola contro la sua” è un libro importante che arriva in un momento inquieto del femminismo non solo italiano costellato di significativi passi avanti ma, anche, afflitto da continui attacchi qualunquistici volti a ridicolizzare e a rifiutare le risposte non ideologiche che esso offre. Per le donne, per noi, questa “messa in ordine”, questo smascheramento minuzioso dell’occultamento è utile come lo è un manuale per stare meglio al mondo. Agli uomini potrebbe servire per alzare lo sguardo vedere ciò che è tanto evidente e che pure non riescono a vedere. Un libro per costruire la mia parola e la sua. Per provare a generare sintesi provvisorie ma efficaci. Risposte che nascano dal reciproco ascolto di una lingua che tutti i giorni si modula come effetto dell’incontro e non più dell’occultamento. Per far venire al mondo ciò che oggi (e Paola Di Nicola sembra pensarlo) è impossibile.
(www.libreriadelledonne.it, 30 novembre 2018)
di Elvia Franco
Ho appena letto il libro «Tacita Muta» di Neria De Giovanni, edizioni Nemapress, 2018.
È un testo molto bello che parla nel profondo della differenza delle donne. Della violenza, reale e di pensiero, che sono costrette a subire e della determinazione a redimersi da sé. Con le loro forze.
Racconta della bellissima ninfa Lala, la cui voce era un gorgoglio squillante che inneggiava alla gioia della vita. Per proteggere la sorella che Zeus bramava e voleva violentare, fu lei fatta oggetto di brutale violenza da parte di Zeus con il taglio della lingua. Fu poi da lui consegnata ad Hermes perché la rinchiudesse nell’Ade. Hermes aggiunse violenza a violenza e la possedette contro la sua volontà. Sapendo che era muta, non esitò a soddisfare le sue voglie sul corpo di lei. E la ingravidò.
Muta e violentata, Lala, ora Tacita Muta, decise di tenere quei bambini innocenti a cui pose il nome di Lari. Erano due. Divennero i custodi delle soglie delle case, con la funzione di proteggere i loro abitanti da ogni forma di violenza. La madre non era stata protetta. Loro ora proteggevano chi abitava le case.
Lala, la bellissima ninfa, diventò Tacita Muta. Ma rifiutò di accettare la violenza subita e trasformò il suo silenzio in voce nuova. La voce del silenzio, appunto. Rivolse il suo sguardo all’interiorità e lì trovò nuove parole, un nuovo linguaggio, una nuova visione del mondo. Trovò la differenza. Stravolse la violenza della lingua tagliata in sapienza di lingua nuova. Lingua di Grande Madre, voce di Dea “simile al vento”. Lingua che permette ogni anno a Tacita Muta di ritornare Lala, rivedere Cibele, la sua Grande Madre, e «narrare ancora la gloria della vita, la felicità di eros, la potenza della Grande Madre».
In questo tempo di “lingue tagliate” e di mutismo di senso, circolante ovunque, solo nei recessi fecondi dell’interiorità si trovano i suggerimenti per una lingua nuova e le intuizioni, che dovranno diventare pensiero, di nuovi paradigmi di lettura del mondo.
Continuando ad usare i paradigmi di pensieri già fatti, cercando in essi scappatoie di senso, pensando di liberare l’esistente con chiavi arrugginite che non aprono più, dando consigli di redenzione a destra e a manca, come ahimè si fa, si finisce elegantemente di inaridire un pensiero già inaridito. Come si vede ogni giorno.
(www.libreriadelledonne.it, 9 novembre 2018)
di Luciana Tavernini
Jacinta Kerketta, Brace, traduzione e prefazione di Alessandra Consolaro, con testo hindi a fronte, Miraggi edizioni, Torino 2017, Euro 16,00
L’incontro con Jacinta Kerketta amplia il nostro sguardo non solo sulla complessa realtà dei popoli tribali dell’India dal punto di vista di una giovane donna, con una soggettività forte ma riesce a farci riflettere anche sulla nostra.
Conoscendo il suo lavoro e lei, come è avvenuto alla Libreria delle donne di Milano il 5 maggio 2018 durante il tour italiano che l’ha portata in varie università e librerie italiane (Venezia, Torino, Milano, Roma) ho capito da dove le proveniva questa forza e la capacità di muoversi in ambienti sempre più ampi. È una testimone in grado di mostrare non solo ciò che vede ma anche quello che non si vuol vedere e che lei sente, un sentire femminile fonte di conoscenza per tutte e tutti, alla maniera indicata dalla filosofa María Zambrano.
Ho scoperto attraverso la lettura delle sue poesie, pubblicate in Italia nel volume Brace, che Kerketta riconosce l’importanza del legame con la madre per una soggettività capace di trovare le parole che non nascondano ma illuminino la realtà e che aiutino a trasformarla, insomma per quello che il femminismo della libertà chiama politica del simbolico. Infatti fin dalla dedica, «A mia madre, Pushpa Anima Kerketta, fonte della mia ispirazione poetica», esprime riconoscenza pubblica verso sua madre, una donna che ha sostenuto il desiderio della figlia di diventare giornalista, con l’iscrizione alla facoltà di Mass Comunication di Ranchi, fatto che Jacinta ricorda nelle sue interviste.
La figura di una madre che, pur avendo sperimentato la violenza maschile e capitalistica, continua a lottare appare nella poesia Le armi nelle mie mani. Una madre che, anche se soccomberà, insegna alla figlia a portare avanti una lotta, in cui si tratta di salvare i sogni della madre, una lotta che va ben oltre la sola militanza.
La potenza immaginifica delle poesie di Kerketta è radicata nel suo essere donna e subito mi è venuto in mente il libro di Luisa Muraro, Non è da tutti, L’indicibile fortuna di nascere donna (Carocci, Roma 2011, p. 92 e seg) dove si sottolinea l’eccellenza femminile non come «superiorità relativa che richieda continui confronti […] ma che va riconosciuta per se stessa come un saper tenersi in presenza del mondo».
Ad esempio, nella poesia La lingua umana l’io poetante guarda «come il ramo di un albero/ fa cadere pian piano le foglie/ dal suo petto/ come una madre/ che toglie il proprio latte/ al bimbo che cresce» e questo permette alla sua anima di ascoltare «una conversazione che non si è mai potuta registrare/ in un documento storico.// e quelli che sono intenti a riempire documenti/ con mucchi di parole/ quelle parole non le possono capire./ perché l’umanità non riesce a capire/ proprio la lingua umana…?»
Mi viene in mente, come dice Zambrano, che la storia vera dovrebbe mostrare lo spessore invisibile dei fatti, trovando il linguaggio più adatto. Non a caso la filosofa spagnola, come Kerketta, rivaluta la poesia come fonte sia di una conoscenza più autentica sia della possibilità della sua comunicazione. Infatti nell’intervista di Daniela Bezzi (Dalla terra delle foreste. Incontro. Della scrittrice indiana Jacinta Kerketta esce in Italia «Brace», poesie dedicate al riscatto in Alias, supplemento de il manifesto, 5 maggio 2018, p.8-9 leggibile anche in http://www.libreriadelledonne.it/dalla-terra-delle-foreste-incontro-con-jacinta-kerketta/) racconta che «dopo essere stata testimone di tanti abusi nella totale disattenzione dei reporters locali, e sarebbe fuorviante parlare di corruzione, spesso si tratta solo di pigrizia» aveva deciso di diventare giornalista per «raccontare come stavano veramente le cose e sono stati anni straordinari, prima come apprendista, poi inviata di qua e di là». Avendo vinto premi importanti lasciò il quotidiano Prabhat Khabar, testata in lingua hindi con grande seguito per continuare come free lance. Ed «è stato in quel periodo di totale libertà che la poesia ha cominciato a guadagnare spazio, non in alternativa al giornalismo, semmai come trasmissione più immediata di ciò che mi stava a cuore, e dritto al cuore di chi mi leggeva. Ha influito in questo cambio di registro la consapevolezza che il giornalismo, a determinati livelli, ha le mani legate – difficile non ricevere pressioni nella regione ricchissima di risorse minerarie, dove vivo io… Il che ha reso ancor più semplice la mia ritirata dalla stampa. I socials mi hanno aiutato.»
Kerketta conosce il valore della lingua materna, di cui ci segnala l’amorosa cura perché essa sia linfa vitale che scorre tra le generazioni e ci segnala il rischio che le parole diventino solo belle parole. Le sue parole sono l’espressione del radicamento nella propria esperienza soggettiva che solo così si apre all’universale.
Ad esempio nella poesia «Esseri umani e parole», «all’alba la mamma con delicatezza/solleva il cestino colmo di parole/toglie la pula, le mette sul focolare/ fa marinare le parole/le avvolge in foglie di saraī/e poi le dà da mangiare ai suoi bambini».
Jacinta Kerketta ci mostra anche come in questo mondo globalizzato occorra essere capaci di destreggiarsi tra lingua madre e altre lingue, come e perché salvaguardare quelle delle minoranze. Lei scrive in hindi: questa è stata la sua prima lingua, benché appartenga all’etnia Oraon che parla il kuruk. I suoi genitori si spostarono dal villaggio di Khudpos alla cittadina, Manoharpur, dove il padre trovò lavoro nella polizia e la sua educazione fu in hindi e poi in inglese. Il kuruk l’ha imparato, quando ha cominciato a tenere corsi di scrittura creativa per le ragazzine del villaggio di Kacchabari, nella zona di Khunti. Lei nell’intervista la definisce: «Esperienza straordinaria, dalla quale ho ricevuto moltissimo, che mi ha messo a confronto con un mondo di cui sapevo ma di cui non immaginavo la felicità, per quella totale consonanza con la natura, e una natura che ovunque guardi letteralmente ti parla… e poi le feste, per ogni momento del ciclo agrario, con le danze, donne e uomini, tutti in circolo, al suono dei tamburi, fin dentro la notte, unica luce quella della luna che non hai idea quanto riesce a illuminare. Letteralmente una gioia scappare dalla città per sentirmi a casa lì, perché è lì che so di avere le mie radici…»
Dunque si passa da una lingua all’altra per amore delle relazioni, per radicarsi e poi comunicare le proprie scoperte.
Della sofferenza per la perdita della lingua materna «[…] imprigionata/ proprio dentro la bocca della mamma/» scrive in La morte della madrelingua, tradotta in inglese in Land of the Roots, Terra di Radici per l’editore tedesco Johannes Laping. La mamma «di fronte alle prospettive che mostravano/ sogni di pane per i propri figli/ lei ha serrato i denti/ e sotto i sogni di quei bocconi/ la madrelingua è rimasta stritolata.» Non è stata morte naturale anche se alla mamma sembra solo un incidente.
Ricordo quando insegnavo italiano, e non solo, a una scuola per mamme straniere come loro cercassero di parlarlo con le loro creature passando così una lingua sgrammaticata e incompleta e come invece, quando dicevo loro di parlare a casa la loro lingua, capivano subito che era la scelta giusta.
Kerketta è capace di osservare empaticamente ciò che la circonda e di sentire la natura in stretta relazione con gli esseri viventi, mostrando i legami tra microcosmo e macrocosmo.
Ad esempio nella poesia Una sera al villaggio scrive: la sera accende il fuoco/ nella stufa a legna del giardino/ dalla stufa esce fumo/ e la luna, sbirciando fra gli alberi, /si mette a tossire, /la ragazza accorre a dare un colpetto/ sulla schiena della luna.
Nelle poesie la personificazione non è una figura retorica, ma risponde a una concezione della natura e di quale rapporto gli esseri umani possono intrecciare.
Nell’incontro alla Libreria delle donne ha sottolineato il valore dell’essere donna nella cultura ancestrale ādivāsī e come cerchi di trasmetterla con le sue poesie. Si tratta di una cultura che rispetta gli alberi secolari, i campi ricavati disboscando solo alcune zone, perché gli esseri umani sanno viverci armonicamente, non considerandosi separati dalla natura. Nell’intervista ci propone una riflessione: «partecipe di quello stesso humus che continuamente si arricchisce proprio in virtù di quella infinitamente rinnovata convivenza, l’umanità dovrebbe capire che, nel profondo, we are all one, figli della stessa terra. La politica cercherà sempre di dividerci, per dominarci meglio: hindu contro mussulmani, dalit contro ādivāsī, e all’interno del mondo ādivāsī ecco che stanno fomentando il risentimento contro i cristiani. Anche la violenza contro le donne rientra in questa strategia: non è solo violenza di genere, è violenza istigata per dividere ancor meglio uomini di comunità diverse che fino a ieri riuscivano a convivere e oggi conviene che siano in guerra, perché in questo modo ci si appropria più facilmente di territori che magari fanno gola – ed ecco che anche il corpo delle donne diventa campo di battaglia.»
Con una potenza espressionista che ci scuote, in Fiumi rossi denuncia sia la distruzione delle foreste con i disboscamenti e con le piogge acide, sia la distruzione dei saperi ancestrali attraverso i modi moderni di intervenire nelle calamità naturali come in Tempeste e soccorsi, dove i soccorritori fanno «a brandelli la storia dei villaggi».
Vi è uno stretto rapporto tra le sue emozioni, ciò che testimonia e la sua scrittura come in Occhi inondati di lacrime dove racconta: «succede spesso che/ mentre scrivo una poesia/ chissà perché/ mi si riempiono gli occhi di lacrime.» Forse dovrebbe costruire una diga, ma le dighe sono anche quelle che provocano inondazioni e lacrime nelle popolazioni che lei conosce.
Non è una poesia intimistica: denuncia senza perdere la speranza perché conosce la forza della natura ma anche quella del linguaggio che rende coscienti e spinge alla lotta.
Ad esempio in Quando la fame diventa fuoco, se all’inizio «il corpo dell’inchiostro sembra sciogliersi/ perdendosi in una profonda apprensione», alla fine «una poesia canticchia/ mentre arrostisce al fuoco della fame/ e con lei si sollevano insieme/ i fuochi di molte case/ contro tutte le cause della fame.»
È molto attenta a ciò che accade alle donne e voglio terminare con qualche verso di Quando il tempo alzerà la voce? dove «una madre/ che conosce ogni cellula /dei suoi bambini,/ questa volta/ non riesce a capire/ come mai il bastone della sua vecchiaia/ non è altro che pelle e ossa.// Da molto tempo ormai/ il suo petto soffre di una spaventosa/ siccità di latte/ come un ciocco bagnato fumante/ lei si consuma all’interno/ bruciando di disperazione/ e continua a percepire/ fisso sulla sua porta/ lo sguardo di un avvoltoio.//»
Questo testo mi ricorda le battaglie di Lina Merlin per la situazione di miseria del nostro Polesine: in un suo intervento parlamentare del 1951 contro gli stanziamenti per armi raccontava di aver visto «una piccola creatura con gli occhi spenti, simile a tante altre che malamente vegetano nel Delta padano, e ciò perché i seni materni sono inariditi dalla fame» (Lina Merlin, La mia vita, a cura di Elena Marinucci, Giunti, Firenze 1989, p.174).
Come Lina ci incitava a lottare così Kerketta denuncia gli accaparratori di terre e si domanda quando inizierà il tempo della rivolta, così «le giovani ossa finora dormienti/ quando si leveranno in un boato/ e si metteranno a battere/ i nagāṛā come tamburi di guerra? /quando verrà il tempo/ di reclamare a gran voce/ i diritti che spettano come propri/ e di scacciare gli avvoltoi/ che si accalcano sulla soglia?»
Kerketta crea poesia per avere uno sguardo più profondo che diventa capace di trasformare anche il nostro.
(www.el-ghibli.org/brace, 5 novembre 2018)
di Valeria Palumbo
«Perché parlate degli schiaffi ricevuti da vostra figlia come di “alterchi” tra coniugi?»: la giudice Paola Di Nicola, in prima linea nella battaglia contro la violenza e le discriminazioni di genere, punta il dito anche contro i testimoni ai (pochi) processi per violenze sulle donne. Lo fa in occasione della presentazione del suo nuovo libro, La mia parola contro la sua (HarperCollins), alla Feltrinelli di Milano. Non per assolversi e assolvere la magistratura o le forze di polizia che sembrano tutelare così poco le vittime. Ma per sottolineare che è proprio il profondo radicamento, in ciascuno di noi, dei pregiudizi contro le donne a rendere difficile la lotta contro la violenza. Ogni forma di violenza. Lo ha ripetuto durante il suo intervento di cui, nel video qui sotto, riproduciamo una parte.
Il 50% dei processi per violenze finisce con l’assoluzione
Scrive Di Nicola ne La mia parola contro la sua: «Se in Italia – così come in Europa e nel mondo – la percentuale di donne vittime di violenza che denuncia quanto subisce è inferiore al 10 per cento, i magistrati dovrebbero interrogarsi sulle ragioni per le quali un fenomeno criminale e culturale di tale drammatica portata rimane ancora sotterraneo. A febbraio 2018 si sono chiusi i lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza contro le donne nel nostro paese ed è emerso che circa il 50 per cento dei processi per questo tipo di reati si conclude con l’assoluzione degli imputati e che il dato tiene conto delle enormi differenze tra i tribunali italiani, a dimostrazione di quanto la cultura e la preparazione dei singoli giudici siano il vero discrimine».
Gli stereotipi che le donne si portano dentro
Nel libro, che è anche molto intimo e che si rivolge direttamente agli uomini, Paola Di Nicola non fa sconti a nessuno. Tanto meno a se stessa. Scrive: «Ci ho messo oltre venti anni per accorgermi, sia come giudice che come persona, del pregiudizio collettivo che travolge le donne che subiscono violenza maschile. Se oggi lo osservo navigare di soppiatto e poi prendere intrepidamente le onde in tutta la sua cruda rozzezza è per due motivi: il primo è che ho sperimentato su di me e sul mio ruolo istituzionale lo stereotipo di genere, il secondo è che sono stata costretta ad affinare gli strumenti conoscitivi e culturali per togliermi di dosso quella familiare sensazione di insopportabile disagio».
La sentenza che ha conquistato la scena
Eppure ben pochi magistrati possono vantare una battaglia come la sua a favore delle donne, che si estesa anche all’uso del linguaggio (come ha dimostrato anche nel suo libro precedente, La giudice, edito da 881 nel 2012). E soprattutto a sentenze innovative come quella per cui è più conosciuta. Risale al 2016, ed è stata emessa al termine del processo contro uno dei clienti delle ragazze adolescenti che si prostituivano al quartiere Parioli, a Roma. Due anni di reclusione, come prima cosa. Ma, al posto dei 20mila euro richiesti dalla curatrice della ragazza, costituitasi parte civile, Di Nicola decise di far investire la somma in letteratura e cinema. La lettera del dispositivo recitava: «Libri e film sulla storia ed il pensiero delle donne, di letteratura femminile e sugli studi di genere». Non un’imposizione alla lettura, come ha precisato alla Feltrinelli, ma un invito. Affidato alla coscienza. Non soltanto della ragazza. Adesso quella sentenza sta per diventare spettacolo, Tutto quello che volevo: Cinzia Spanò, autrice e interprete, lo presenterà in anteprima a Bookcity (16-18 novembre, a Milano) e poi dal 2 al 19 maggio 2019 al Teatro Elfo Puccini.
(27esimaora.corriere.it, 2 novembre 2018)
di Alberto Asor Rosa
Sulla strada tracciata da Amelia Rosselli e Alda Merini, le raccolte di versi più interessanti degli ultimi anni sono di autrici. Donne capaci di costruire una lingua nuova e anticonformista. Ecco un vademecum per orientarsi
È assai notevole – come ho già rilevato più volte anche su queste pagine – il ruolo giocato dalle poesie scritte da donne nella storia della poesia italiana contemporanea. Alle cose già dette, vorrei aggiungere ora altre considerazioni, approfittando di alcune recenti, importanti pubblicazioni.
In una linea genealogica approssimativa, s’intende, ma penso, non del tutto incoerente, ci sono all’inizio di questa fase del discorso le autrici che, sia pure su di una scalarità generazionale non indifferente, sono di sicuro punti di riferimento per quanto è avvenuto dopo: parlo di Amelia Rosselli; Alda Merini; Patrizia Cavalli (da vedere Poesie, 1974-1992, Einaudi); Biancamaria Frabotta (da vedere ora il recentissimo Tutte le poesie, 1971-2017, uscito nella collana Lo specchio di Mondadori).
Giovanna Rosadini, nella prefazione a Nuovi poeti italiani, vol. 6 della serie della collana “bianca” einaudiana, che elenca e rappresenta poetesse delle generazioni successive (dal ’47 all’81 le date di nascita delle autrici presenti), si chiede esplicitamente: «Si può parlare di una specificità femminile in poesia?»; e risponde con una frase di Amelia Rosselli: «Scrivere è chiedersi come è fatto il mondo: quando sai come è fatto forse non hai più bisogno di scrivere». Spiega più avanti Rosadini: il «primo elemento che accomuna le scrittrici riunite in questo volume» è «la forte tensione conoscitiva che ne permea i versi».
Se dipendesse da me, specificherei. Se la tensione conoscitiva è effettivamente presente in quasi tutte le poetesse italiane conosciute, dalla Rosselli, appunto, in poi, questa tensione si fonda e si trasmette su di un’esperienza linguistica che si allontana per quanto è possibile – cioè, il più possibile, senza al tempo stesso sfiorare i confini dell’incomunicabilità – dai linguaggi della comunicazione quotidiana. Vale a dire: è un’invenzione linguistica pura; molto più di quanto, secondo me, non accada nei poeti italiani contemporanei di sesso maschile, che continuano a mirare, nonostante tutto, ad un livello più alto e più semplice della comunicazione.
L’introspezione, quanto più si fa profonda, tanto più richiede un linguaggio proprio. Cioè: la conoscenza è conoscenza, è fuor di dubbio; ma a me pare che la conoscenza, per così dire, non si esaurisca in questo caso nel conoscere, ma pretenda di creare un mondo nuovo e diverso, che soltanto un linguaggio nuovo e diverso ha la facoltà, se non di conoscere, per lo meno d’intravedere. Ammesso che queste considerazioni abbiano un minimo di senso, altri, – o altre, ovviamente – potranno meglio di me approfondirle, o contestarle. A me pare, tuttavia, che queste considerazioni di ordine generale trovino una conferma in due splendide raccolte, apparse molto recentemente nella collana bianca di Einaudi, opera di due poetesse, direi, della generazione di mezzo: Patrizia Valduga (1953), Poesie erotiche; e Antonella Anedda (1955), Historiae. Siamo di fronte a esperimenti che testimoniano di un permanente lavoro di scavo e di approfondimento, su premesse già chiaramente date in passato, degno di ammirazione.
Valduga è autrice notissima, che nella “bianca” einaudiana ha già pubblicato diversi volumi. Mi concentrerò qui su poche osservazioni, che rimandano principalmente, anche se non esclusivamente, all’ultimo volume citato in precedenza.
Valduga è una maestra della forma chiusa, in particolare della quartina a rime alternate. In passato: Cento quartine e altre storie d’amore (1993), Quartine. Seconda centuria (2009); ora, in Poesie erotiche, nelle ampie sezioni “Lezione di tenebre” e “Cento quartine”, ma forme chiuse, per esempio la terzina, sono sparse un po’ dappertutto. Questo non esclude misure più lunghe del discorso; ma la ricorrenza dei metri chiusi mi sembra degna di considerazione.
Che vuol dire? Vuol dire che il pensiero-canto di Valduga è trattenuto dentro una ferma misura espositiva, nella quale parla più e prima a se stessa che ai suoi interlocutori.
Questo è ancor più visibile quando il tema dominante, come in questo ultimo caso, è l’amore: l’amore di ogni tipo e natura, da quello sentimentale e appassionato a quello più libero e sfrenato, fino a essere sboccato. Qui evidentemente c’è un’interlocuzione… come potrebbe non esserci, se il tema è erotico? Ma l’interlocuzione, anche nelle sue punte di voluta, volutissima volgarità, è il frutto di un colloquio che in un certo senso prescinde dall’interlocutore – oggi ovviamente, “il lettore” – e si rivolge pressoché integralmente ad un essere che una volta molto concretamente c’era, e con il quale appunto s’interloquiva, ma che ora non c’è più. Solo cogliendo l’eco profonda di questo lontano rapporto, il lettore di oggi entra nel gioco e coglie l’interlocuzione profonda che anche a lui viene offerta.
Di tutt’altro registro è la poesia di Antonella Anedda. Si potrebbe dire che la poesia di Valduga è fieramente asseverativa, quella di Anedda profondamente discorsiva. Comporta cioè sempre l’ipotesi di un colloquio, magari solo ipotetico o potenziale, con qualcuno che sta appena al di là della parola scritta, e potrebbe essere (anche solo potenzialmente), ripeto, uno qualsiasi di noi. Farò due esempi.
Scrive Anedda nel componimento di esordio: «Ogni tanto uso una lingua mia / la invento impastandola al passato / non la consegno se non in traduzione». I tre versi si spiegano meglio se si tengono presenti i tre versi che precedono quelli che abbiamo appena citato, e che dunque aprono l’intera raccolta. Sono in lingua sarda, cioè la lingua originaria, archetipica, dell’autrice. Il gioco ritorna diverse volte nella raccolta: sta a significare che, per l’appunto, come dice con grande chiarezza la stessa autrice, si può inventare una lingua poetica solo dall’introiezione di un passato, che si è depositato sul fondo del proprio presente, e aiuta a rivelarlo.
L’altro esempio. Scrive in un altro componimento Anedda: «Succede a volte fino a che siamo vivi, / di provare una pace inspiegabile. Forse la letizia / di cui parlano i santi e che non chiede niente, / è solo attenta, premuta sulla terra, / distante dalle stelle…». «Premuta sulla terra,/ distante dalle stelle…»: potrebbe essere una autodefinizione della poesia di Antonella Anedda.
È «contro la terra», cercando di spremere il senso – anzi, i sensi – e di tradurlo in un linguaggio comprensibile e umano, ma non ovvio, e mai scontato, che il ragionamento-discorso di Anedda si dispiega. Ci fa pensare che sia ancora possibile immaginare una realtà che non sia tutta ridotta a polvere e scarto.
(la Repubblica, 15 ottobre 2018)
di Vittoria Longoni
È bello e fresco il libro appena pubblicato da Enciclopedia delle donne, 2018, a cura della Fondazione Badaracco, Ragazze nel ’68. Fresco perché non c’è modo migliore, per descrivere e narrare un anno cruciale di trasformazioni collettive e individuali, che dare voce diretta a chi ha avuto la fortuna di viverlo personalmente, quel periodo infuocato e creativo. La copertina, nei toni di un bel rosso scuro con un po’ di grigio, riproduce l’opera di Paola Mattioli, Case occupate al quartiere Gallaratese, Milano 1974. Case occupate, momenti di lotta: sul grigiore dei casermoni di periferia si levano astratte immagini di muri rossi, di percorsi paralleli e labirintici verso la luce del futuro, intravisto nell’opera al termine di una scalinata ascensionale.
Il libro mantiene poi le sue promesse nelle voci dirette di diciannove donne che rievocano il loro Sessantotto, facendo perno proprio su quell’anno cruciale, anche se ci sono in ogni biografia pure dei momenti “prima” e “dopo”. Le minibiografie delle autrici s’intersecano con una premessa di Assunta Sarlo, con due intermezzi di Carlotta Cossutta e di Sveva Magaraggia, figlie di anni successivi, con un’introduzione (messa alla fine) a cura del Comitato Scientifico della Fondazione e con la biografia di Elvira Badaracco, scritta da Marina Zancan. Molte fotografie d’epoca, che raffigurano le nostre ragazze nel ’68 o dintorni, ritratte in momenti di lotta o di ricerca o di ribellione, accompagnano le testimonianze e riconducono efficacemente chi legge al sapore di quegli anni.
Molti fili rossi uniscono le diversissime testimonianze. Ragazze che hanno la fortuna di intersecare il loro percorso di emancipazione, liberazione, scoperta del mondo e dei propri desideri con un’esplosione collettiva e simultanea, a livello globale, di movimenti di giovani (e non solo) che contestano l’autoritarismo e le strutture oppressive, imperialistiche, consumistiche, militariste del potere contemporaneo. Figlie del “baby boom”, cresciute in un clima di espansione economica e sociale, si sentono in partenza forti, numerose e solidali nei loro conflitti con padri e madri, con autorità accademiche e culturali, con le istituzioni che la “lunga marcia” proposta da Rudi Dutschke intendeva attraversare, rovesciare, modificare profondamente. Nella stessa situazione e all’incirca negli stessi anni si sviluppano i collettivi e le forme di autocoscienza dei vari femminismi, in un intreccio fertile e spesso conflittuale. Le ragazze del ’68 vivono questa coincidenza, se ne lasciano attraversare con un’inquietudine produttiva e con un’appassionata ricerca del nuovo. Praticamente tutte diventano femministe, alla fine, e prolungano il loro impegno nei decenni successivi nelle varie forme nei movimenti delle donne, più duraturi della fiammata sessantottina.
Giustamente si rivendica il carattere profondamente innovativo e periodizzante di quell’anno, in cui molti percorsi di novità, di critica e di rivoluzione, prima percepibili ma un po’ sotterranei, si manifestano in modo strepitoso e inconfondibile. Il ’68 è un po’ come il mitico Quarantotto del secolo XIX per la simultaneità dei movimenti di lotta e di contestazione, ma si manifesta su una scala mondiale globale e interconnessa (sia pure solo tramite telefono, manifesti, giornali, viaggi e contatti personali, stampa e convegni ecc. e senza web).
Rileggendo oggi le testimonianze, ci si rende conto anche di ciò che da molto tempo covava sotto la cenere. La vicenda di parecchie di noi – studentesse universitarie che per gli studi lasciano la casa e spesso le città di origine – richiama per alcuni aspetti le storie di ragazze che, nel romanzo di Alba de Céspedes Nessuno torna indietro uscito nel lontano 1938, coltivavano solidarietà, trasgressioni e confidenze nel Collegio “Grimoldi”, diretto e gestito da suore. Percorsi di emancipazione e di liberazione s’intersecano. Finalmente le ragazze studiano, scelgono la propria facoltà, ne fanno un’occasione di cultura e di comunicazione profonda. Magari le famiglie d’origine sono rassicurate da questi collegi femminili a gestione benpensante e “ordinata”, in cui però maturano anche le premesse di nuove relazioni tra donne, di nuovi modelli, di ribellioni che traggono forza dalla condivisione di malesseri e di desideri.
Insomma, il nostro Sessantotto è stato “mitico”, ma dobbiamo essere riconoscenti a tutte le lotte delle donne delle generazioni precedenti, e a tutti i movimenti anteriori e contemporanei di protesta e di contestazione. Le parole che esprimono nel libro donne più giovani, come Carlotta Cossutta e Sveva Magaraggia, incoraggiano a pensare che la trasmissione di valori e di messaggi é ancora possibile. Il libro appena uscito è prezioso, in questa direzione. Perché, come diceva già nel romanzo di Alba de Céspedes proprio Xenia, la ragazza che non torna indietro, «Chi può dimenticare di essere stata padrona di se stessa?».
(www.casadonnemilano.it, 11 ottobre 2018)
di Vita Cosentino
È stata per me una fonte di sorpresa e gioia leggere Sessantotto, due generazioni di Francesca Socrate (Laterza euro 22,00). Mi sono ritrovata in pieno in quelle pagine, con le mie scelte di allora e i miei azzardi, con la differenza sostanziale di approccio al movimento che sentivo per esempio con mia sorella maggiore o con il suo compagno, di solo tre anni più grandi di me.
Ma andiamo con ordine.
L’autrice prende in considerazione, in Italia, il ’68 breve, quello che si riduce a un anno compreso tra l’autunno del ’67 e l’autunno successivo, ma non per farne la storia politica delle idee, delle azioni, dei passaggi. Lascia da parte anche l’esame delle conseguenze e dei lasciti, per concentrarsi sul piano concreto della sua realtà sociale e antropologica: ragazzi e ragazze con il loro passato, la cultura che avevano alle spalle e il mondo mentale che incarnavano. La stessa autrice fa parte di quella storia e lo dichiara all’inizio: «studentessa universitaria al primo anno e nel movimento dalla prima assemblea». Nel testo si avverte una negoziazione continua tra il suo punto di vista di storica e quello di una del ’68. Per lei l’unica possibilità di affrontare la questione è «l’esserne consapevole e che ne sia consapevole anche chi legge.» (XVI)
La ricerca di Francesca Socrate è basata su interviste raccolte nell’arco di quasi un decennio a uomini e donne che hanno partecipato al movimento nelle varie sedi universitarie italiane. Tutto il materiale raccolto è stato poi analizzato tramite la linguistica computazionale, che usa l’analisi automatica dei testi. Ammetto una mia iniziale diffidenza per la scelta di inserire automatismi nella sua ricerca. Ultimamente sono molto critica al riguardo, considerando, per esempio l’invasione degli algoritmi in ogni aspetto della nostra vita. In questo caso mi sono dovuta ricredere perché ha usato gli strumenti informatici con discernimento, per individuare piste di ricerca e non per determinare risultati. Come sostiene l’autrice, su un corpus di 63 interviste questo trattamento permette di evidenziare elementi linguistici spesso inaspettati che indirizzano la ricerca su strade diverse da quelle previste. Porta come esempio il fatto che nelle parole che hanno usato le donne ricorrono avrei e sarei quasi sempre come ausiliari di condizionali passati: “Se non avessi fatto il ’68 avrei… sarei…”. L’autrice è partita da qui, per chiedersi che significato avesse questo condizionale in prima persona nel racconto di ciascuna. E in due interviste in particolare, quelle di Maria Frieri (Torino) e Maria Sofia Cutolo (Napoli) con quella formulazione linguistica le intervistate delineano fin nei dettagli il percorso di vita prefissato – di mogli e di madri, possibilmente con un lavoro compatibile – che hanno schivato scegliendo il ’68.
La lettura del libro mi ha così intrigata perché sono due le differenze che la Socrate prende in esame e sviscera: quella generazionale e quella dell’essere donna. Ed entrambe mi riguardano.
La sua prima affermazione importante è che nel ’68 confluirono due generazioni sostanzialmente diverse per cultura politica, per atteggiamenti, per visione del mondo, sebbene siano separate da uno scarto minimo di età: la generazione della guerra nata fino al ’45 e la generazione del dopoguerra – a cui io appartengo – nata fino al ’50. La prima ha potuto ancora fare esperienza delle organizzazioni giovanili dei partiti, del loro declino, delle minoranze eretiche che ne sono scaturite, del fermento intorno a riviste e a nuove riflessioni, e sarà la generazione che più esprimerà i leader del movimento. La seconda è già al di là di tutto questo in una sorta di nomadismo politico che guarda più alla piazza come spazio pubblico. Infatti a cominciare dal ’62 con la crisi dei missili a Cuba compaiono nelle piazze masse di studenti a prescindere dalle forme organizzative della politica ufficiale, per culminare poi con la protesta contro la guerra in Vietnam nel ’67. È una generazione non più disposta a riconoscere la legittimità di gerarchie fondate sulla rappresentanza, «insomma quello che si andrà definendo di lì a poco come rifiuto della delega». (p. 23) È un’esperienza di politica diretta, di politica in prima persona, quella che più segna la seconda generazione, che andrà a costituire la massa del movimento. Nel libro questa tesi è argomentata a fondo sia con ricerche storiche sulle organizzazioni giovanili dei partiti, sia con l’analisi di ampli stralci di interviste rispetto al vissuto, alla memoria delle due generazioni e alle differenze sociali che le attraversano.
Francesca Socrate nel suo lavoro dedica molto spazio alla differenza di essere donna. È un’attenzione che percorre tutto il testo e che viene messa a tema nel capitolo Mai così tante. In precedenza non si era mai vista una così grande partecipazione spontanea di ragazze e con un tale grado di adesione. Certo poche intervenivano in assemblea, poche erano dirigenti, la loro presenza era più attiva nei controcorsi, nei seminari, nelle occupazioni, nello scambio quotidiano, nella vita in comune. Nel ’68 la leadership è e rimane sostanzialmente maschile. Lo sappiamo. Si è parlato di occasione mancata di incontro con il femminismo. Si è parlato di rivolta nella rivolta (Muraro) per definire quel gesto di separazione dai maschi che è il gesto inaugurale del femminismo, cominciato proprio in una università americana nel 1966.
Lo sa bene anche l’autrice, tuttavia le interessa indagare l’aspetto esistenziale che emerge dalle interviste e che la porta ad affermare che «partecipare al ’68 per le donne è stato uno strappo, una rottura profonda che mette in pericolo l’intera impalcatura del destino sociale scritto per loro». (p. 87) Rottura e non sono infatti le parole più ricorrenti nelle interviste femminili. Non lo è in assoluto, a segnare conflitti duri con l’autorità patriarcale, più duri di quelli affrontati dai maschi. Per le ragazze di allora, me compresa, da tempo erano già in atto conflitti in famiglia per l’autonomia delle scelte, per la libertà di muoversi, di leggere, di pensare, di vestirsi a proprio modo, in una parola di esistere. Nel ’68, con la forza della dimensione collettiva trovano il modo di esprimersi radicalmente. La rottura si traduce per lo più nell’andare via di casa a volte in modo drammatico, come nel mio caso, a volte in modo più conciliante. “Non mi comandi più” detto da una figlia al padre, è la frase che meglio la esprime.
Leggendo quella frase la verità che mi si è ripresentata davanti è che io ho fatto il ’68 e sono scappata di casa senza un soldo, per sfuggire al dominio paterno e avere un’esistenza libera. Fatto quel passo, penso che per me fosse quasi inevitabile diventare in seguito femminista.
(www.libreriadelledonne.it, 5 ottobre 2018)
di Laura Fortini
GENEALOGIE. A proposito di «Elena Ferrante. Parole chiave», di Tiziana De Rogatis. Una densa e articolata monografia sull’autrice della fortunata tetralogia dell’Amica geniale, edita da e/o. Il volume verrà presentato sabato alle 18 nell’ambito di «InQuiete, festival delle scrittrici a Roma»
Per il percorso compiuto da Elena Ferrante e le sue opere si potrebbe adoperare il titolo di un libro di Carol Lazzaro-Weis dedicato alle scrittrici italiane e intitolato From Margin to Mainstream, del 1993: Ferrante ancora non vi compare perché L’amore molesto è del 1992, ma vi sono già tutti i presupposti perché la sua opera, che si svilupperà nei decenni successivi, sia rappresentativa di quel lungo percorso compiuto da scrittrici e critica in Italia di spostamento progressivo ma inesorabile dai margini al centro, appunto.
Tiziana De Rogatis dedica un intenso e articolato volume a Elena Ferrante. Parole chiave (edizioni e/o, pp. 295, euro 18), soffermandosi soprattutto sulla tetralogia de L’amica geniale, i cui quattro volumi si sono succeduti uno l’anno a partire dal 2011, concludendosi con ritmo serrato nel 2014. Ma è interessante già nel titolo del volume di de Rogatis lo slittamento dalle opere all’autrice, la cui identità per altro è così tanto misterica e discussa anche troppo inopinatamente, e difesa nella sua discrezionalità assai giustamente da de Rogatis.
Si potrebbe però osservare che l’identità di Elena Ferrante scrittrice appartiene alla World Literature tanto quanto le sue opere, soprattutto a partire dal successo del ciclo de L’amica geniale, davvero mainstream, come ricorda Tiziana de Rogatis, che nota, anche, come le opere precedenti, da L’amore molesto a I giorni dell’abbandono, del 2002, fino a La figlia oscura, del 2006, non abbiano avuto i caratteri di centralità della tetralogia, mantenendosi piuttosto ai margini del dibattito critico.
Come si diviene quindi un classico della contemporaneità? Riscrivendo il grande romanzo delle origini, definizione tratta da La frantumaglia di Ferrante (nella nuova edizione del 2016), che Tiziana de Rogatis fa propria: il che significa giocare con generi e sottogeneri, dal romanzo storico di manzoniana memoria al melò e addirittura il fotoromanzo, perché no, con caratteri di pastiche innovativi che per altro sembrano essere una delle marche distintive delle scrittrici tutte, italiane e di altre lingue madri.
Il pensiero va ad esempio ad Antonia Byatt, autrice di un’altra altrettanto importante tetralogia dedicata alla meravigliosa storia della vita di Frederica Potter, al punto che i volumi de La Vergine nel giardino del 1978, Natura morta del 1985, La torre di Babele del 1996, Una donna che fischia del 2002 (tutti pubblicati in Italia da Einaudi) vanno sotto il titolo di The Frederica Quartet Series, e il cui dialogare con i generi e sottogeneri letterari è una delle tracce distintive di una scrittura che si può definire classicamente contemporanea., anche senza necessariamente tirare in ballo il postmoderno e con esso tutto quello che comporta.
Molte le parole chiave individuate da Tiziana de Rogatis, il cui libro ha innanzitutto il pregio godibile di effettuare una efficace rilettura e un riattraversamento complessivo delle opere di Ferrante con un dialogo serrato in cui sovente si adopera La frantumaglia come documento di poetica e una sorta di auto-bio-grafia implicita, anche se potrebbe essere letto e analizzato come opera a sé stante con caratteri di finzione e architettura compositi e complessi proprio come i romanzi. Napoli, le due lingue (quella italiana e quella regionale), la violenza raccontata dalle donne, la Storia e le storie, sono alcuni dei nessi forti presi in esame, ma soprattutto la smarginatura della trama e la frantumaglia del vivere sono due parole chiave distintamente individuate da de Rogatis come proprie della World Literature cui appartiene Ferrante autrice e scrittrice. Che si colloca tra Ortese e Morante, entrambe sicuramente sue antecedenti come in modo esplicito ricordato da Ferrante stessa: romanzo genealogico perciò del conflitto e del riconoscimento – altre due parole chiave individuate da de Rogatis – anche con le scrittrici che la precedono, come de Céspedes e Ginzburg, ricordate per il loro Discorso sulle donne del 1949, ma si potrebbero rievocare le due amiche protagoniste di Prima e dopo di Alba de Céspedes, a riprova di una letteratura che sulle relazioni amicali tra donne, a partire da Veronica Gambara e Vittoria Colonna, ha ancora molto da dare per ciò che riguarda quanto irrapresentato dalla scrittura a firma di uomini della tradizione.
E se le Lila e Lenù dei quattro volumi de L’amica geniale sono due nomadi in cerca della loro Heimat, come scrive efficacemente de Rogatis, altrettanto nomade è il loro oscillare tra emancipazione e liberazione, tra personale e politico come da nesso forte del pensiero e delle pratiche femministe degli anni Settanta, evidente sottotesto di Ferrante che non a caso ricorda ne L’amica geniale Carla Lonzi e il suo Sputiamo su Hegel.
Come altrettanto evidente, pur se nel complesso e magistrale viluppo perturbante della narrazione, è il riferimento all’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro.
Figlie quindi di molte madri, le Lila e Lenù di Elena Ferrante: dalla Didone emblema dell’amore tra polis e passione e rispetto alla sua complessa figura il riferimento è agli studi su Il mito di Didone di Paola Bono e Maria Vittoria Tessitore (Bruno Mondadori editore, 1998), di cui Ferrante costituisce ulteriore tessera da aggiungere alle sue avventure di una regina tra secoli e culture; fino alla Modesta di Goliarda Sapienza, molte sono le personagge che si possono rievocare come antecedenti e genealogicamente precursore. E che rappresentano l’elemento di forza e di equilibrio di una ormai costituenda per non dire costituita a tutti gli effetti tradizione di scrittrici in lingua italiana e in altre lingue, rispetto a quella che de Rogatis individua come una genealogia femminile della svalutazione al punto di definirla una «genealogia obliqua».
Lila e Lenù nel loro complesso attraversare il Novecento – proprio come Modesta e molte altre – sono oltre che figlie del padre così come da definizione di Maria Serena Sapegno, anche figlie di madri. Padri violenti e madri altrettanto violente nel plot narrativo, padri autorevoli come Lewis Carrol per la sua Alice, madri altrettanto autorevoli anche quando matrigne come Napoli città e la sua letteratura, o madri simboliche come le scrittrici italiane tutte del Novecento alle quali la critica a firma di donne rende oggi omaggio in molti modi, tra i quali quello di Tiziana de Rogatis a Elena Ferrante, appassionato e ricco per determinazione critica e complessità degli elementi in gioco.
Ma Lila e Lenù sono anche precursore di quanto focalizzato nella contemporaneità da geniacci della sceneggiatura come Shonda Rhimes, che in Grey’s Anatomy mette al centro della narrazione non solo la voce di Meredith Grey ma anche la relazionalità amicale in cui si è l’una la persona dell’altra, senza infingimenti, veli di sorta né occultamenti, anche in virtù dell’invidia reciproca, dei furti non poi tanto prometeici, dei cambiamenti al limite della rispettiva irriconoscibilità, proprio come nel caso di Lila e Lenù che dall’infanzia e dal loro essere bambine arrivano alle soglie della vecchiaia. E quindi figlie e al tempo stesso già antenate di quante verranno poi, questo fa di loro e di Ferrante già un classico della contemporaneità.
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Prende il via oggi la seconda edizione di InQuiete, il festival delle scrittrici che a Roma lo scorso anno si è distinto in un panorama cittadino e nazionale come una delle manifestazioni più sorprendenti e attese. Anche quest’anno il progetto della Libreria delle donne Tuba e dell’Associazione MIA luccica di ospiti di rilievo, da Luciana Castellina (che presenterà il suo libro «Amori comunisti» domenica alle 17, presso il palco biblioteca) a Vivian Lamarque, da Jhumpa Lahiri, Chiara Ingrao, Ritanna Armeni (che presenterà il suo libro in dialogo con Daniela Preziosi), Maria Rosa Cutrufelli a Michela Murgia, Chiara Valerio e molte altre; come lo scorso anno, focus su alcuni ritratti di scrittrici: da Sylvia Plath a Natalia Ginzburg passando per Laudomia Bonanni e altre. Novità riguardo gli esordi in una sezione (che si svolgerà domenica) a cura della Società Italiana delle Letterate; alle 15, Carla Fiorentino presenta «Cosa fanno i cucù nelle mezz’ore» e Carolina Orlandi presenta «Se tu potessi vedermi ora». Alle 20 invece sarà la volta di Giorgia Tribuiani che presenta «Guasti» e Sara Gamberini con «Maestoso è l’abbandono» (Introduce Laura Marzi).
Il programma completo: http://www.inquietefestival.it/
(il manifesto, 4 ottobre 2018)
di Tanina Cordaro
Chiedere a una vittima di violenza come era vestita. O a una donna picchiata perché aveva fatto arrabbiare il marito. Gli stereotipi di genere contenuti nelle sentenze nel libro La mia parola contro la sua.
Giudice penale, nominata Wo-Men Inspiring Europe 2014 dall’EIGE (European Institute for Gender Equality), Paola Di Nicola è ricordata per la sua sentenza rivoluzionaria nel processo sulla prostituzione di due minorenni della Roma bene, quando sostituì il risarcimento in denaro con libri sul pensiero delle donne. Il 4 ottobre edito da HarperCollins esce il suo nuovo libro La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio, dove la giudice svela il pregiudizio che si nasconde anche nelle aule dei tribunali e nelle sentenze. «L’impressionante estensione del fenomeno della violenza contro le donne impone di chiedersi se ci sia o meno un’incapacità della magistratura e, prima ancora, delle forze di polizia nel perseguire efficacemente questi crimini», spiega l’autrice. Paola Di Nicola ha spiegato a LetteraDonna perché nessuno può dirsi sicuro di essere libero dai propri pregiudizi, neanche chi giudica.
DOMANDA: Qual è secondo lei il peggior pregiudizio giudiziario nel nostro Paese?
RISPOSTA: Che le donne che denunciano esagerano o, peggio, potrebbero mentire quando subiscono dai loro compagni violenza domestica. Una violenza spesso tradotta inspiegabilmente in termini inoffensivi come «liti familiari, incomprensioni, alterchi».
Gli stereotipi di genere contenuti nelle sentenze possono contribuire a creare un clima di sfiducia nella giustizia da parte delle donne che hanno subito violenza. In che modo avvocati e giudici possono estirparli dalle decisioni che prendono nei processi?
Hanno un ruolo determinante perché, attraverso le domande che pongono alle vittime e agli imputati dei reati di violenza maschile o di violenza sessuale, rischiano di replicare stereotipi che indirizzano la risposta, contengono un giudizio di valore o morale.
Può farci un esempio?
Se l’avvocato, il pm o il giudice chiede alla donna vittima di violenza sessuale come fosse vestita o perché avesse reagito in un modo piuttosto che in un altro, appare evidente che il pregiudizio inquinante che entra nel processo è che la vittima abbia una qualche forma di responsabilità. Non è un caso che a una vittima di rapina questa domanda non venga mai posta.
Oppure?
Chiedere a una donna massacrata di botte dal marito perché avesse assunto un certo comportamento (come uscire con le amiche o restare a lavoro fino a tardi), pur prevedendo che avrebbe potuto scatenare quella furia violenta: questo determina l’immediata convinzione, anche nella vittima oltre che nell’imputato, di essere stata la prima la vera causa della commissione del reato.
Lei si definisce una giudice. Perché in Italia la declinazione al femminile delle professioni di potere è ancora così osteggiato?
Perché la lingua è lo spazio più importante di rappresentazione ed esercizio del potere, infatti chi non è nominato non esiste, mentre chi lo è c’è e ci sarà sempre. Le donne si escludono dai luoghi di potere anche non nominandole quando vi si trovano e vi sono arrivate dopo durissime battaglie di chi le ha precedute. Dovrebbe essere chiesto a chi usa il femminile solo per parrucchiera perché non riesce ad usarlo per ingegnera o per ministra visto che la grammatica italiana ce lo imporrebbe, come scrive l’Accademia della Crusca.
Quali altre conseguenze comporta la declinazione esclusiva al maschile?
Quella di dimenticare donne straordinarie, coraggiose e competenti. Come Alma Sabatini che nel lontano 1987 riuscì a scrivere, su incarico della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell’epoca, le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana. Raccomandazioni a cui ci dovremmo istituzionalmente attenere. E io mi chiedo: questo lavoro culturale e simbolico enorme che fine fa se le donne si nominano al maschile proprio nei luoghi di potere in cui quelle donne le hanno portate?
Nel suo libro si legge che per i mafiosi l’unica donna veramente importante è e deve essere la madre dei suoi figli. Le altre sono tutte «puttane». Questa idea però è comune anche agli uomini non mafiosi. Secondo lei chi può «educare» questi uomini a un maggiore rispetto delle donne?
Ognuno di noi, donne e uomini, nessuno escluso.
Tre sono le «fimmini ribelli» che ritrae nel suo libro (Rita Atria, Carmela Iuculano e Maria Concetta Cacciola), donne che hanno avuto la forza di sradicare gli stereotipi all’interno della cultura mafiosa. Oggi chi è la fimmina più ribelle?
Non ce n’è una sola per fortuna, sono ribelli tutte le donne che vivono libere dagli stereotipi che vengono loro affibbiati dal giorno della nascita fino a quello della loro morte. Per farlo ci vogliono consapevolezza e tanto tanto coraggio.
Qual è secondo lei il prossimo passo che dovrebbero compiere le donne del movimento #MeToo?
Dare una forma anche teorica a questa straordinaria rivoluzione non violenta e creare una nuova forma di gestione del potere, non fondata sulla sopraffazione, per donne e uomini liberi.
Il 30 novembre arriva su Netflix una delle serie tv più attese, Baby, ispirata al caso delle baby-squillo della Roma bene. Il caso, scoppiato nel 2013, aveva coinvolto anche lei in veste di giudice. Cosa spera di vedere in questa serie e cosa si augura di non trovare?
Mi auguro di non vedere replicata l’idea, a suo tempo proposta da molti giornali, fondata solo sull’ignoranza del fenomeno, che le ragazzine che si prostituiscono sono libere e smaliziate, sono arrampicatrici sociali che cercano solo denaro e che la prostituzione è una scelta glamour e inoffensiva. Mi auguro che quegli uomini adulti che comprano l’adolescenza e talvolta persino l’infanzia, per pochi o tanti soldi, vengano chiamati con il loro nome, quello che è dato loro dalla legge italiana e dalle Convenzioni internazionali: pedofili.
(www.letteradonna.it, 4 ottobre 2018
di Silvia Niccolai
Interpretare i «diritti riproduttivi» come possibilità di accesso a tecniche di procreazione artificiale può far dimenticare che in un’altra prospettiva l’espressione indica i «diritti di riproduzione delle minoranze etniche e delle donne del Sud del mondo, che non hanno a che vedere con sofisticate tecnologie ma con una più equa distribuzione delle ricchezze, con la sopravvivenza indigena, con la lotta contro il patriarcato, il razzismo e la globalizzazione neoliberista». La ricerca di Laura Corradi, Nel ventre di un’altra. Una critica femminista alle tecnologie riproduttive (Castelvecchi, pp. 93, euro 13.50) mostra le contraddizioni che intercorrono tra le due accezioni del lemma.
Nell’ambito della riproduzione corre una «divisione del lavoro» che vede «da una parte le non abbienti che vendono ovociti o «affittano» l’utero, dall’altra le benestanti che pagano, per problemi di salute, di infertilità, perché non vogliono sottoporsi a una gravidanza» o vogliono risparmiarsi l’iter di una fecondazione artificiale. Le «operaie della riproduzione» si sottopongono a procedimenti che «distruggono l’integrità della donna come persona umana e la riducono a una massa di materiale riproduttivo», messi a punto in laboratori strettamente «collegati al mondo degli affari». Tecniche «costose» diventano «accessibili» perché il loro prezzo è pagato da donne «localizzate altrove, geograficamente o socialmente, rispetto a chi le percepisce come un mezzo per ottenere un brandello di felicità».
Laura Corradi è una «sociologa del corpo» che guarda alla procreazione artificiale e alla surrogazione di maternità cosiddetta «gestazionale» (dove una donna si rende «portatrice» di un ovulo fecondato artificialmente, con l’impegno di rinunciare al bambino e consegnarlo ai committenti), tenendo presenti le femministe che negli anni Settanta seppero «condensare nel tema della salute delle donne diversi elementi di critica al capitalismo e al patriarcato», e, come ricordano Marina Santini e Luciana Tavernini in Mia madre femminista (Il poligrafo 2015), «ruppero il silenzio intorno al corpo femminile».
La sindrome da iper-stimolazione ovarica, rileva Corradi, è indagata ma sottostimata: così con la «donatrice» (spesso «seriale») di ovociti ci abituiamo a considerare «normale» che una persona sopporti rischi medici «senza alcun beneficio sanitario». Mentre mancano i finanziamenti per approfondire «i rischi di cancro e altre malattie associate ai trattamenti per la fecondazione artificiale», gli studi che individuano i rischi per i nascituri (in termini di percentuali maggiori, rispetto ai bambini concepiti naturalmente, di difetti alla nascita), e i cambiamenti nell’immunotolleranza dell’embrione il cui genoma non è concordante con quello della gestante non sono diffusi perché scoraggerebbero il mercato. I danni del taglio cesareo, normale in caso di surrogazione, il lavoro femminista sulla «gravidanza e il parto come momenti naturali da vivere nella pienezza delle sensazioni e delle emozioni» (ancora Santini e Tavernini), il diritto della donna e del neonato all’allattamento al seno sono rimossi. Non potrebbe essere altrimenti nel quadro di biotecnologie che, impegnate nella «messa a valore della vita sin dal suo concepimento», guardano al corpo femminile come al teatro inanimato di processi cui sono altri a dare senso e scopo.
Soffermandosi sulle candidate madri surroganti americane premiate dal giudizio di avere un «buon equilibrio mentale» perché capaci di capire «di essere solo il vettore del bambino», Corradi denuncia un mondo che vuole le donne, diremmo con parole di Luisa Muraro, «tanto necessarie, affinché si produca la traiettoria che va dall’embrione al genitore, e tanto dotate di capacità deliberativa, quanto prive di autorità» (Perché l’uomo? in Utero in affitto o gravidanza per altri?, a cura di Lidia Cirillo, edito da Franco Angeli nel 2017); la buona madre surrogante, osserva Laura, «deve essere obbediente e non avere pretese sul prodotto del suo lavoro riproduttivo». Questo il nodo politico.
Studiando con «lo sguardo rivolto a popolazioni e contesti diversi: indigene messicane, profughe dei campi palestinesi, contadine indiane», Laura ha visto che «di norma, le donne individuano abbastanza bene quali siano le decisioni da prendere per il benessere della comunità, perché da sempre hanno la responsabilità della riproduzione», siano o meno, come singole, madri.
Davanti alla portata espropriativa delle tecniche riproduttive occorre riprendere questa responsabilità, esercitarla a tutto campo: saper essere disobbedienti, e sapienti. Per Laura Corradi è urgente riaprire, nel femminismo, la «questione scientifica» come «critica femminista della scienza» e questione che riguarda tutti i campi del sapere.
«Il gergo medico non è mai stato un ostacolo per il movimento femminista» e le ormai tante donne scienziate possono essere stimolate a diventare «interlocutrici, in un rapporto dialettico, anche conflittuale». Per pensare «una forma differente di scienza, un sapere non alienato dai soggetti», possono esserci maestre le femministe di colore, le ricerche condotte in condizioni diverse e lontane, «troppo spesso ignorate», che riscoprono «forme non dicotomiche di sapere, saggezza e intelligenza», e le pratiche improntate a «relazioni fondate su reciprocità, azione per il bene comune e rispetto della natura», che rendono possibili «tecnologie utili nella prospettiva di una economia solidale».
Decostruire la «scienza del capitale, patriarcale e razzista», è un impegno al quale in Italia, osserva Corradi, il «fronte laico» ha in larga parte rinunciato sin dai tempi del referendum sulla fecondazione assistita. Le conseguenze si fanno sentire sul dibattito odierno. L’alternativa tra surrogazione gratuita e onerosa omette di considerare che «i problemi di salute per la donna sono indipendenti dal compenso o dalla gratuità»; il richiamo alla «libertà di scelta sul proprio corpo» ignora che ogni scelta avviene in «uno spettro di possibilità ristretto da interessi economici e politici». Il legame coi diritti dei gay, che tende a far bollare come politicamente scorretto il contrasto alla surrogazione, mentre fa dimenticare che «la stragrande maggioranza di coloro che vi fanno ricorso sono coppie eterosessuali» sposta l’attenzione dall’unico soggetto davvero centrale, la donna, e dal sostantivo portatore di interessi: la «potente lobby delle tecnologie riproduttive» che si legittima manipolando l’aspettativa di «un figlio a tutti i costi».
Il pur giusto rilievo secondo cui le tecniche riproduttive possono contribuire al superamento di un modello tradizionale di famiglia e di sessualità si risolve nella «delega del cambiamento politico e sociale alle tecnologie», quando non è associato alla ricerca delle condizioni di «una scienza controllata dal basso» ed è argomentato senza tener conto della differenza sessuale.
Da un punto di vista «post-coloniale e intersezionale», attento alla «critica eco-femminista della scienza» e che «riflette sul rapporto tra donne», Laura Corradi contribuisce al rinnovamento e alla maggiore apertura di una discussione qualche volta provinciale e dimentica che nei confronti del bio-potere («quello sì, contro-natura») che riduce la generazione della vita a fatto tecnico si possono muovere critiche che non originano «da considerazioni religiose o morali ma dall’interesse per la salute delle donne, e che si inseriscono nel contesto internazionale di un femminismo radicale critico e sonoro su questioni riguardanti scienza, salute, ambiente e politiche del corpo».
(il manifesto, 18 settembre 2018 )
a cura di Antonella De Gregorio
Lui è andato vicino al premio Nobel per la Fisica (2013) per aver partecipato alla scoperta del bosone di Higgs. Lei lo scorso anno ha sfiorato il «Nobel» degli insegnanti, il Global Teacher Prize, arrivando – unica italiana – nei 50 finalisti tra 40 mila candidati. Ma Guido Tonelli, fisico delle particelle, scienziato del Cern di Ginevra, docente all’Università di Pisa, e Lorella Carimali, che insegna matematica al Liceo scientifico Vittorio Veneto di Milano, hanno molto altro in comune. Personalità, passione e metodo. La convinzione che la matematica sia un’impresa creativa e un’ostentazione di audacia. Oltre a una non comune capacità di innovare. «Anche se gli innovatori vivono periodi difficili e sono soli. Perché quando innovi, nella scuola italiana non c’è nessuno che ti sostiene», dice Carimali, che al palcoscenico di Dubai, tra i prof più meritevoli del mondo, è arrivata grazie al suo approccio pratico e creativo alla materia, fatto di lavori di gruppo, ipertesti, progetti multimediali, sceneggiature teatrali che sono i suoi studenti a scrivere, mettendo in scena la teoria della relatività o la geometria non euclidea.
Adesso, nel suo ruolo di «ambasciatrice» della matematica, pubblica un romanzo (La radice quadrata della vita, Rizzoli) che mette a confronto due generazioni di insegnanti, parla del lavoro instancabile dei docenti e della matematica: come tecnica per affrontare la vita attraverso il ragionamento ed espediente per trovarne gli aspetti positivi. Come la radice quadrata, appunto, che può esistere solo se il numero sotto radice è positivo. Un libro che punta a trasmettere a tutti la bellezza del pensiero matematico, in cui convivono libertà, armonia e rigore.
Anche per Tonelli la matematica insegna ad affrontare i problemi con razionalità ed efficacia. «Ma ha anche la capacità di portare in mondi sconosciuti e strabilianti. Quando immagini che cos’accade accanto a un buco nero, le deformazioni dello spazio-tempo legate alla massa e all’energia, e lo fai con espressioni semplici da scrivere alla lavagna anche se difficili da capire, lì vedi la potenza e la bellezza della matematica».
Com’è nato questo libro, professoressa Carimali? E cosa ci ritrova, professor Tonelli, della sua esperienza?
LORELLA CARIMALI – Volevo stimolare una riflessione sul significato della formazione e l’importanza della condivisione; raccontare un passaggio di consegne tra generazioni di maestri. E andare contro la scissione che resiste tra cultura umanistica e scientifica. Soprattutto, trasmettere l’idea che la scuola è un luogo di relazioni e che il futuro lo si costruisce insieme. Pensando matematicamente.
GUIDO TONELLI – Sì, tutto questo l’ho trovato. Assieme a una questione fondamentale: come esercitare la professione di docente, come farsi rispettare, come esercitare l’autorità. Leggendolo, ho rivissuto il breve periodo in cui insegnai alle superiori. Ricordo un ambiente duro, insegnavo elettronica ed elettrotecnica all’Istituto nautico di La Spezia. Mi stupì quanto rapido fu l’innamoramento dei ragazzi per quest’insegnante, pur giovane come loro, quando avvertirono carisma e passione. La supplente del libro, Bianca, è come un flashback: il primo ingresso in classe, il pregiudizio degli studenti, magari pluriripetenti, quasi coetanei.
Nel libro Donatella, docente esperta, spinge la giovane supplente a volare alto, a confrontarsi con problemi sempre più difficili. È così? L’istruzione offre sfide adeguate agli allievi?
GUIDO TONELLI – Non mi sembra. Ultimamente vedo piuttosto una tendenza a semplificare, come se trattassimo i ragazzi da incapaci. Bisogna invece metterli di fronte a difficoltà anche superiori rispetto a quelle che incontravamo noi dopo l’adolescenza, perché il mondo al quale si affacceranno loro sarà più complicato. Il ruolo della scuola è anche di trasmettere fiducia.
LORELLA CARIMALI – Se penso a ciò che faccio io di diverso in classe, è proprio questo: infondere fiducia, fare in modo che i ragazzi credano in sé stessi. Va liberata l’energia che hanno dentro.
GUIDO TONELLI – Sì, è vero, per certi versi è una generazione spaventata ma hanno dentro questa forza. Bisogna valorizzarla e allora il destino di tanti non sarà più quello di andarsene dall’Italia. Io ho il privilegio di lavorare circondato da giovani menti brillanti, selezionate nelle migliori università del mondo. Tra di loro, i nostri non sfigurano certo; anzi, corrono veloci come e più degli altri.
Qualche mese fa, in una lettera aperta su «la Lettura» alla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, professor Tonelli, ricordava uno dei suoi insegnanti, capace di coltivare negli allievi la logica e la capacità di superare gli ostacoli. E invitava la ministra a trovare e sostenere insegnanti così. Oggi riformulerebbe la richiesta al ministro Marco Bussetti?
GUIDO TONELLI – Certo, continuo a pensare che nelle scuole ci sia bisogno di persone appassionate del proprio mestiere oltre che competenti. Io giro centinaia di scuole per fare divulgazione e ne trovo tanti di insegnanti così. Magari anche guardati con diffidenza dai colleghi, perché spesso chi vuol fare qualcosa di nuovo trova ostacoli. L’istituzione dovrebbe «vedere» queste persone e riconoscerne il ruolo. Allora avevo usato provocatoriamente la questione dei soldi, proponendo retribuzioni adeguate e progressioni di carriera. Ma l’importante è riconoscere le punte di eccellenza e consentire loro di espandersi. Se diamo insegnanti bravi, i nostri ragazzi imparano cose incredibili. È questa la sfida.
LORELLA CARIMALI – I bravi insegnanti non mancano ma tante esperienze si perdono in una scuola che oggi paradossalmente è più indietro rispetto a dieci anni fa. Le lezioni frontali, le bocciature, le prove parallele per classi… che senso hanno? Sono d’accordo con il professor Tonelli, ovviamente: quando un insegnante fa innovazione va sostenuto. Ma penso anche che il rilancio della scuola debba passare attraverso il rilancio della figura dell’insegnante. Bisogna riportarlo al centro, come persona autorevole, di cui si ascoltano i pareri. Per farlo, quello che manca in Italia e che invece ho visto funzionare all’estero è proprio la progressione di carriera.
In che modo?
LORELLA CARIMALI – Si potrebbe pensare a un sistema che faccia diventare i professori che hanno maturato esperienze significative una risorsa anche per i colleghi. Per esempio tenendoli metà delle ore in classe e metà nelle università, distaccati nei corsi dove si formano i nuovi insegnanti. Nel periodo di distacco verrebbe riconosciuto quello che hanno fatto di nuovo, la loro produzione intellettuale.
In una società in cui i ruoli educativi sono sempre più articolati e segmentati, si trasmette ancora ai ragazzi il rispetto per l’istruzione e per gli insegnanti?
GUIDO TONELLI – Si andava un tempo al colloquio con gli insegnanti con timore e sussiego. Il professore aveva un prestigio sociale che nasceva non dallo stipendio ma dalla funzione. Guardando alla mia esperienza, io sono il primo non solo che si è laureato ma che ha preso un diploma nella mia famiglia: mi han fatto studiare non per diventare una persona importante o guadagnare, ma perché l’istruzione era considerata uno strumento in più per diventare persone libere. Questa cosa si è persa un po’ per motivi culturali, un po’ per azione politica che è mancata nei governi di tutti gli orientamenti. È rarissimo trovare ministri dell’Istruzione che siano persone di grande competenza e professionalità. Manca, nelle famiglie, a livello politico e di opinione pubblica, l’idea che l’innovazione e la conoscenza siano la cosa più importante per il futuro del nostro Paese. E se ne pagano prezzi altissimi.
Quali sono i vostri modelli, chi ha dato un imprinting al vostro lavoro?
GUIDO TONELLI – Il professor Tartaglione, di cui si parlava in quello scritto su «la Lettura», che ha fatto appassionare alla storia e alla filosofia tutta la classe. L’imprinting che ci ha dato, il rigore, la ricerca, la passione e il suo impegno intellettuale e civile sono stati decisivi per generazioni di studenti.
LORELLA CARIMALI – Per il mio stile di insegnamento il modello è stata forse un’anziana maestra delle elementari, rigorosa ma dolcissima, che dopo avermi dato un’insufficienza per un compito tutto corretto ma disordinato, tornò sui propri passi: la mia reazione di sconforto le fece capire che non aveva usato lo strumento giusto. Mi ha insegnato che dobbiamo guardare sempre chi abbiamo davanti. I miei studenti sentono che non li giudico e che sono lì per aiutarli a far uscire quello che hanno dentro.
Veniamo alla ricerca, grande ammalata del sistema Italia, dove gli investimenti sono tra i più bassi dei Paesi del G7. Di recente, professor Tonelli, ha fatto discutere la sua affermazione riguardo agli investimenti europei in ambito scientifico, inferiori di almeno tre volte rispetto agli Usa. Ma quando si arriva al tempio della ricerca, il Cern, si gode di giusta considerazione?
GUIDO TONELLI – Nel ranking internazionale la fisica delle alte energie occupa un ruolo di rilievo e si avverte meno la mancanza di investimenti. Ma è vero, non si è compreso a sufficienza a livello europeo e soprattutto in Italia che nel XXI secolo avranno da dire qualcosa nel mondo i Paesi che producono innovazione, tecnologia e cultura. In Italia, in particolare, gli investimenti sono discontinui, manca una visione strategica dell’innovazione e della ricerca. E sì che le condizioni di base ci sono: creatività accumulata, un’enorme tradizione, soprattutto nella fisica e nella matematica. Ma non c’è nessuna visione politica che metta al centro un serio potenziamento della ricerca.
Su cosa deve puntare l’istruzione per formare le giovani generazioni?
LORELLA CARIMALI – Molte ricerche oggi dicono che i lavori basati solo sulle conoscenze saranno in futuro sostituiti da robot, dunque una scuola che insegni solo nozioni è destinata a formare infelici senza possibilità di inserirsi nella vita. Dobbiamo invece impegnarci per costruire una scuola che formi alle «4C»: Critical Thinking, Comunicazione, Collaborazione e Creatività.
E che dia più spazio alle discipline Stem (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica)?
GUIDO TONELLI – Non credo nell’eccessiva specializzazione: viviamo in una società tumultuosa in cui le cose cambiano rapidamente e dobbiamo aspettarci nuove rivoluzioni nei prossimi decenni, per le quali bisogna essere preparati. Serve una formazione di base molto solida, con la capacità di adattarsi alle novità. La creatività in fondo è capacità di risolvere problemi nuovi e a noi italiani viene particolarmente bene. Quando nelle grandi aziende internazionali ci si trova davanti a una crisi, a un oggetto tecnico che non funziona, spesso sono gli italiani, nel team, quelli che trovano le soluzioni. Forse perché la storia così complessa del nostro Paese ci ha permesso di selezionare, nel nostro Dna, la capacità di sopravvivere, di trovare la via d’uscita.
Che fare contro lo stereotipo che vuole le ragazze più brave nelle materie letterarie o creative che in matematica?
LORELLA CARIMALI – Che le ragazze «non siano portate per la matematica» è uno stereotipo molto italiano: va combattuto con convinzione. Così come il pregiudizio che la matematica sia una materia per pochi. Il pensiero matematico va allenato come ci si allena in palestra.
GUIDO TONELLI – All’università ho visto cambiare drasticamente la situazione negli ultimi vent’anni: a Fisica più della metà degli studenti sono ragazze; a ingegneria informatica, dove si contavano sulle dita di una mano, ora sono almeno il 30%. E sono determinate e preparate spesso più dei colleghi maschi. Aumenta la presenza femminile ai piani alti delle istituzioni scientifiche. Nella fisica abbiamo visto un fiorire di personalità di rilievo: Fabiola Gianotti direttore del Cern produce effetti a valanga. Penso che l’Italia sia destinata a cambiare rapidamente.
LORELLA CARIMALI – Non sono così ottimista: ho fatto molte ricerche, da donna e da insegnante che vuole dare a tutti gli stessi strumenti e che vede la matematica come fondamentale per esercitare il proprio diritto di cittadinanza. Il gap tra maschi e femmine scompare solo in quei Paesi dove il lavoro di cura viene considerato al livello degli altri lavori.
(Corriere della sera-La lettura, 9 settembre 2018)
di Laura Minguzzi
Alex Martinis Roe, To Become Two. Propositions for Feminist Collective Practice, Published by Archive Books, 2018, pp.277, in collaborazione con ar/ge kunst; Casco-office for Art, Design and Theory; If I Can’t Dance, I Dont’t Want To Be Part Of Your Revolutin; and The Showroom
“Per diventare due” questo il titolo del libro, in lingua inglese, ricco di fotografie, illustrazioni e disegni, con cui l’autrice Alex Martinis Roe, che opera a Berlino dove si è trasferita dall’Australia, racconta con precisione, cura e fedeltà la sua ricerca di artista film maker femminista. Ricerca che ha avuto inizio da un incontro con Luce Irigaray nel 2012. In un susseguirsi di dialoghi, conversazioni, incontri alla Librairie des Femmes (Psychanalyse et Politique) di Parigi, alla Libreria delle donne di Milano, alla Ca la Dona di Barcellona, a Duoda Centre de recerca de dones dell’Università di Barcellona, all’Università di Utrecht, a Sydney al Feminist Film Workers and the Sydney Filmmakers Co-opewrative-as a practice of alliance ecc., l’autrice ha filmato, scritto e creato una storia della generazione genealogica del femminismo europeo intrecciandolo con le sue radici australiane. Il femminismo delle origini e la pratica relazionale con le sue invenzioni sono restituite vivificate dal desiderio di Alex di comprendere dove e come sono nate. Il libro è suddiviso in due distinte sezioni, precedute dall’introduzione dell’autrice.
Nella prima sezione, To Become Two, una serie di brevi saggi esplora la singolare genealogia di pratiche e teorie della differenza sessuale. L’autrice ha messo in relazione in uno scambio fertile le sue personali esperienze e riflessioni con le varie teorie e pratiche delle comunità femministe di cui ha voluto indagare le pratiche politiche.
Nella seconda sezione, Our Future Network, espone venti progetti-esperienze frutto di altrettanti workshops residenziali in diverse città europee. A Berlino in una grande casa ha riunito e sviluppato con un gruppo di artiste il progetto Propositions for Feminist Collective Practice. Essendo convinta dell’efficacia e dell’importanza cruciale della pratica di relazione inventata dalla Libreria delle donne di Milano, Alex Martinis Roe dichiara di avere coinvolto artiste attive in vari ambiti culturali specifici (danza, musica, letteratura, cinema) o attiviste in campo ambientale, economico, accademico, storico, istituzionale, abitativo per farle interagire con la pratica di relazione del femminismo della differenza e da questa interazione-scambio sono nate le Propositions di cui sopra. Il libro è utilmente leggibile o consultabile anche per la dettagliata bibliografia in varie lingue che fornisce e le biografie di tutte le collaboratrici che hanno contribuito alla realizzazione del lavoro e che l’autrice ringrazia.
(www.libreriadelledonne.it, 7 settembre 2018)
Recensione di Mira Furlani
Sulla scrittura delle donne in passato si è registrata una cancellazione che ha impedito di annoverarla nella cultura canonica, nascondendo così alle successive generazioni la creatività sorgiva di tanti testi femminili. Ma, afferma Luisa Muraro, l’inganno numero uno è un altro: si è voluto “far credere trattarsi di una semplice discriminazione antifemminile, vale a dire di una questione di diritti negati. Si tratta, invece, di una contraddizione riguardante il rapporto fra la scrittura e la tradizione: il senso della scrittura per una donna e la vita stessa del suo desiderio sono di una qualità che non si presta alla fissazione di un canone, e domandano un’altra tradizione”. E prosegue: “Finora molte studiose hanno lavorato sui testi di donne con l’intento di riparare ad un torto di dimenticanza o di discriminazione, e con l’obiettivo di iscriverli nella tradizione canonica. Ma quel fatto che dicevo, ora che è venuto alla luce e se la mia intuizione non è sbagliata, ci invita a lasciar perdere le illusioni progressiste e le rivendicazioni femministe, per interrogarci sulla scrittura femminile che resta fuori dai canoni della cultura ufficiale: se è vero che qualcosa la rende, di suo, non traducibile in quelle forme, CHE COS’È?” (Le amiche di Dio, 2001 pag. 205).
Nella mia ignoranza sono rimasta a lungo ferma su questa domanda: che cos’è? La risposta mi è arrivata poco tempo fa, dopo aver letto il recentissimo libro intitolato Dire Dio nella lingua materna.
Dire Dio nella lingua materna è un testo-intervista con domande che Lucia Vantini, giovane teologa e filosofa di Verona, rivolge a Luisa Muraro. Le domande (lo percepisce bene una donna come me che l’amore verso il Vangelo e una lunga pratica cristiana fuori dai canoni tradizionali, l’ha portata a un duro conflitto con il parroco di una comunità parrocchiale definita progressista), fanno affermazioni e considerazioni, a volte mostrando incertezze che complicano il ragionamento che poi le successive risposte di Luisa Muraro riescono a sgarbugliare, sciogliendo i nodi come neve al sole. Quasi un miracolo, mi sono detta più volte durante la lettura! Dire Dio nella lingua materna è così difficile? Sì e no. Per Giuliana di Norwich è facilissimo: nel suo Libro delle rivelazioni, che risale verso la fine del 1300, essa sviluppa una teologia della maternità di Dio scrivendo in lingua materna.
Dopo un’introduzione scritta dall’intervistatrice, il testo si snoda fra domande e risposte, ciascuna delle quali porta un titolo suo proprio. Tutte le risposte di Luisa Muraro dicono e aprono alla lingua materna fra verità soggettiva, cultura e sapienza che conducono, sia chi interroga che chi legge, verso una autocoscienza illuminante, dentro e fuori di sé.
Di seguito segnalo solo alcuni temi che mi hanno colpita e fatto riflettere, con l’unico scopo di mostrare la profondità degli argomenti trattati nel libro:
- Che cosa c’entra Dio con una donna che va al mercato senza farsi intimidire dai prezzi, spinta solo dal proprio desiderio? (pag. 50-51);
- Andare oltre la Sacra Scrittura, come tipica impresa del dio Spirito Santo (pag. 71-72);
- Credere nella felicità come fatto che può capitare, crederci per esperienza propria e come punto di partenza presente nelle rivelazioni mistiche (pag. 74). Per es. nel comunismo l’essenziale era sentirsi uguali, compagni, protagonisti: era il punto di partenza di tutto il resto. Che cosa viene a mostrarsi nelle “rivelazioni” scritte dalle mistiche? Il punto di partenza! (pag. 75);
- La mistica e poeta Hadewijck scrive: soffrire per amore è guadagnare (pag. 106). Com’è illuminante e controcorrente la sua visione rispetto la mentalità moderna e post-moderna del dominio e del possesso e quella di una società dei femminicidi e l’inumana alternativa del mors tua vita mea delle migrazioni respinte (pag. 69);
- Sostiene Luisa Muraro: Il desiderio non ha l’ultima parola (pag. 106). Infatti la beghina e mistica Margherita Porete, morta nel 1310 bruciata viva a Parigi a causa del suo libro Lo specchio delle anime semplici, parla di una morte del desiderio che porta il personaggio di Anima (Margherita stessa) in vista del paese della libertà (pag. 105-106): “…il non bastarmi, la mancanza, è quello che ho di più valido, perché se mi bastasse in quanto riesco io ad amare, sarei scadente tanto quanto poco ho di amore” (pag. 107).
Non dirò nulla sul finale, parole stupende di verità che sembrano, e forse lo sono, direttamente ispirate dal dio Spirito Santo.
Luisa Muraro con Lucia Vantini, Dire Dio nella lingua materna, editrice Il Margine, 2018, pp. 124, 12 euro.
Attualmente il libro è acquistabile solo alla Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29 Milano, e si può richiedere via e-mail a info@libreriadelledonne.it.
(www.libreriadelledonne.it, 6 settembre 2018)
di Lea Melandri
Tra le domande ricorrenti alle donne che scrivono (come scrivi?, perché scrivi?) ce n’é una particolarmente fastidiosa: esiste una scrittura «femminile» diversa da quella «maschile»? Il fastidio – scrive Maria Rosa Cutrufelli nelle prime pagine del suo ultimo libro Scrivere con l’inchiostro bianco (Iacobelli editore, pp. 161, euro 13) – è dovuto anzitutto al fatto che viene rivolta esclusivamente alle scrittrici: «come se la differenza sessuale fosse una faccenda di donne, dato che quella maschile non è una differenza: è la norma». Come già osservava Patrizia Violi (L’infinito singolare; Essedue, 1986), il linguaggio, come la cultura in genere, dà voce a un solo soggetto, apparentemente neutro e universale, in realtà maschile.
Se la parola delle donne è spesso così difficile – era la conclusione – non è dunque «perché le donne sono inadeguate al linguaggio, ma perché è il linguaggio inadeguato alle donne». Del resto, già all’inizio del ‘900, Sibilla Aleramo con la lucida intuizione di una coscienza femminile anticipatrice aveva scritto: «Io non mi esprimo, non mi traduco neppure: rifletto la vostra rappresentazione del mondo, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù di analisi».
QUANTO TEMPO è passato prima che le donne potessero avere accesso a quella «città proibita» che è stata per loro l’invenzione letteraria, uscire dalla «notte linguistica della prudenza emotiva» – la segretezza di cuore, di carne e parola, che ci si attende da loro e che le madri stesse hanno imposto alle figlie con la forza di una legge? Quanto è costato in fatica, dolore, malattie e morti, «esporsi, mostrarsi agli altri senza veli», affrancarsi dalla soggezione della mente per illuminare il proprio mondo poetico, e farlo prima di scoprire di non essere sole e potersi specchiare nelle opere di altre donne? Quanta strada resta ancora da fare perché le donne da Muse ispiratrici del racconto dell’altro, «via di passaggio per la gloriosa genealogia maschile», possano, da soggetti di scrittura, riscrivere la storia non ancora narrata, fuori da canoni, pregiudizi, attese sociali, permessi e divieti?
SONO QUESTE le domande da cui parte il singolare libro di Maria Rosa Cutrufelli, scritto con «l’inchiostro bianco» proprio di chi ha saputo sottrarsi a contrapposizioni note – tra saggistica e poesia, vita letteratura e scrittura, finzione e realtà, autore e opera, Nord e Sud – e farne un felice, originale intreccio, quale dice essere stata la sua vita di «donna e meridionale». Femminista combattiva, capace di tenere di pari passo la scrittura e l’impegno sociale, Maria Rosa Cutrufelli sa che l’ostilità della «gente del Nord» per la sua Sicilia – vista come «terra di sangue e di miseria» – ha parentele con il sessismo, di cui le donne sono state vittime e forzatamente complici, costrette, nel momento in cui hanno tentato di far valere la loro presenza e la loro parola, a districarsi tra stereotipi di sesso e di razza, a dover scegliere tra paura, silenzi e «impudicizia», tra la paziente, faticosa ricerca di una individualità autonoma da modelli imposti e una «emancipazione nera», segnata dal machismo di padri, mariti, fratelli. A Manuela, la ragazza di mafia con le armi in pugno, emersa come una nuova Proserpina dal buio di un mondo femminile a lei sconosciuto, miscellando dati di realtà e fantasia, Maria Rosa offrirà il «colore di Tina», la protagonista del suo romanzo Canto nel deserto. Ma quando sarà aggredita da lei, come persona reale, alla presentazione del libro a Gela, riconoscerà di aver desiderato quell’incontro nella vita come nella scrittura. Di quel corpo a corpo tra due donne , appartenenti pur con destini diversi a una storia comune, dirà di aver visti «la stessa ansia di imprimere nel mondo il proprio marchio, la stessa brama di affermarsi».
I MITI, LE SCRITTURE degli uomini, raccontano di figlie strappate violentemente alle madri, costrette a vedersi riflesse dallo sguardo dell’uomo, come nel caso della «coppia sacra» di Demetra e Core, o piegate a un amore femminile, senza contropartita, di silenzio e sacrificio, come la ribelle Antigone di Sofocle riportata, forse non a caso, «sotto l’egida paterna» nell’Edipo a Colono. Figure doppie, contraddittorie, vissute per secoli nell’immaginazione e nei racconti dell’altro sesso, debitrici della loro grandezza al fatto di essere «figlie e spose di grandi», il corpo attraverso cui passa la memoria e la storia di altri. «Non c’è lirica, non c’è poema senza una donna che lo ispiri. Peccato che i ruoli non siano intercambiabili».
Ebbene, qualcuna ci ha provato a farsi cantora. È Madama Gasparina, la poetessa Gaspara Stampa, a cui il libro dedica alcune delle pagine più intense del libro. La sua scoperta «impudicizia» nel modo irriverente di apostrofare l’uomo amato non aveva impedito a tanti personaggi noti di cercare le sue lodi. Dispensatrice di gloria, le sue rime «imprudenti» erano rimaste al contrario consegnate al silenzio e la sua persona fatta oggetto di curiosità pettegola. Sarà la sorella Cassandra ad assicurare alla sua virtù poetica un riconoscimento postumo e tardivo.
Che cosa ha impedito alle donne – si chiede Cutrufelli – di dare parola alla storia che l’altro sesso ha cercato in tutti i modi di cancellare? Se non si può parlare di genere femminile della scrittura, è innegabile che l’essere sessuato «preme ai margini del testo», anche solo come esitazione a esporsi, bisogno di corrispondere a ciò che ci si attende da una donna, paura di perdere anche l’amore della propria simile.
COME POTEVANO le donne dare corso alla «storia non narrata», se non partendo da sé, da quella «libertà del cuore» anche solo intuita che avevano dovuto celare anche alle cure e ai pregiudizi di una madre? È toccato non a caso all’autobiografia, al memoir e alla scrittura di esperienza quella ricerca di sé che ha visto, in tempi più vicini a noi, «ri-nascere» singolarmente e collettivamente le donne con una visione propria del mondo, spingere la parola e la scrittura nelle zone di frontiera tra inconscio e coscienza, dove ancora si cela l’enigma di ogni dualismo, imparare la lingua del mondo interno e con quella scardinare i saperi e i linguaggi sociali.
Se l’autobiografia è stata un modo per uscire dalla prigione del privato, per dare un senso e una storia all’io femminile, la scrittura di esperienza – fa notare Maria Rosa – si pone come «scrittura del sé», passaggio attraverso i «frammenti dell’identità femminile», esplorazione di quell’impronta che lasciano nella memoria del corpo i vissuti e le passioni più elementari, a cominciare da quella che ha visto l’uomo appropriarsi e addomesticare la potenza del corpo che l’ha generato. Per risalire dall’Ade, liberarsi dei credi introiettati, richiede pazienza, amore di sé e delle proprie radici, è la chiusa del singolare «romanzo» lirico e riflessivo di Maria Rosa Cutrufelli.
di Arianna Di Genova
Un’intervista del 6/9/2017 con la scrittrice Helena Janeczek, che presentava il suo romanzo «La ragazza con la Leica», pubblicato da Guanda, allora appena uscito, oggi vincitore del premio Strega 2018.
All’inizio c’era la Reflex, che permetteva un’inquadratura più grande e una maggiore precisione di dettagli; poi, per la sua comodità «da viaggio», la fotocamera divenne quella mitica, la stessa con cui Gerda Taro passò alla storia. Così La ragazza con la Leica, a cui la scrittrice Helena Janeczek ha dedicato il suo ultimo romanzo (domani in uscita per Guanda, pp. 336, euro 18) prende le sembianze che conosciamo e rimane in acrobatico bilico tra il suo essersi trasformata in icona e la necessità di riappropriarsi di se stessa, di un passato a più dimensioni, attraverso il ricordo di chi c’era e le parole dell’autrice.
Prima di diventare la fotoreporter della Guerra civile spagnola insieme al compagno Robert Capa e al polacco Chim, prima ancora di volare di bocca in bocca come la fotografa che morì sul campo per testimoniare i propri ideali – era il 26 luglio del 1937 e lei, attaccata al predellino di una vettura che trasportava feriti, venne travolta da un carroarmato che sbandò nel caos di un mitragliamento tedesco dal cielo – Gerda Taro è stata una ragazza che ha vissuto al centro di una comitiva di giovani studenti politicizzati a Lipsia. E poi a Parigi, dove «si teneva a galla con la macchina da scrivere», conquistando pezzi di rivoluzione.
Helena Janeczek è partita proprio da qui per il suo libro, lavorandoci alacremente per sei anni, tra ricerche e diverse stesure.
È stato difficile restituire una memoria, che non sia un santino, a Gerda Taro?
In realtà, su di lei il materiale da consultare non manca: c’è il lavoro importantissimo della studiosa tedesca Irme Schaber, che pubblicò la sua prima biografia (qualche anno fa si trovava ancora in traduzione italiana da Deriveapprodi). Al principio, per me, ci fu anche la mostra su di lei transitata al Forma di Milano nel 2007. La biografia di Schaber non ricostruiva solo la vita ma anche il corpo fotografico, spesso confuso con quello di Capa e parzialmente con David Seymour (Chim). Con il ritrovamento e la riapertura della cosiddetta «valigia messicana» è stato fatto un salto di qualità: lì c’era un quantitativo notevolissimo di negativi di Gerda Taro, conservati come tali.
Cosa ci può dire riguardo le caratteristiche della sua personalità?
Una delle cose che più mi ha affascinato è stata proprio la sua personalità inqualificabile. Le stava stretta qualsiasi griglia mentale. Definizioni come «il grande amore» di Capa, o anche quella che la vuole spavalda e imperterrita pasionaria non la coprono completamente. Gerda Taro aveva una grandissima capacità di adattarsi e un forte desiderio di autonomia. Era emancipata in una maniera forse tipica per le ragazze degli anni ’30 nella Germania della Repubblica di Weimar. Donna minuta, era dotata di un fascino brillante, contagiosa nella sua vitalità e intelligenza.
Alla sua morte Giacometti scolpì la lapide, Neruda e Aragon lessero l’orazione funebre, eppure nel tempo è stata dimenticata…
Ha avuto una carriera brevissima come fotografa. Fin dai suoi primi reportage in Spagna aveva una posizione relativamente autonoma, nonostante vi fosse andata con Capa e spesso firmassero insieme le fotografie (o anche solo lui, quando questo garantiva un cachet e una visibilità migliore). Lei già lavorava per giornali importanti e si guadagnava copertine di riviste ad alta tiratura. Morì però giovanissima (a soli 26 anni) e restò del tutto legata a quel periodo, diventando un’appendice di Robert Capa. Nel suo oblio, aleggia anche una questione politica. Quando si cominciò a ricostruire una biografia ufficiale di Capa, vigeva ancora l’idea, non del tutto veritiera, che tra i due lui fosse quello interessato a fare foto, appassionato alla causa per idealismo giovanile e impegno antifascista, lei quella più strutturalmente militante e comunista. Capa morì nell’anno peggiore del maccartismo e la sua figura sollevò diversi problemi. Era comunque stato il grande fotografo di guerra che aveva scattato l’immagine dello sbarco degli dèi, un mito arci-americano. Probabilmente, fece comodo affibbiare a Gerda la patente della comunista rabbiosa. Eppure, lei non era neanche iscritta al partito, anzi si era formata a Lipsia in una cerchia di giovani tutti simpatizzanti o militanti fuoriusciti dal partito comunista, critici della linea stalinista. Sia lei che Capa in Spagna, però, volevano che quella guerra si vincesse e l’unico paese che la stava sostenendo militarmente era la Russia.
Gerda Taro, Folla dopo raid aereo a Valencia
Studiando le immagini per comporre il romanzo, ha dedotto qualcosa di particolare sullo stile di Gerda Taro come fotografa?
Sono una scrittrice e non una esperta di fotografia. Però avendo tra le mani molti scatti, ho potuto constatare quanto fosse vera per Capa la frase famosa «se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino». Gerda Taro, invece, era portata verso una composizione più equilibrata, geometrica ed estremamente felice nel quadro d’insieme. La differenza si nota moltissimo nelle non rare occasioni in cui i due fotografavano gli stessi soggetti. Di fronte ai profughi di Malaga arrivati a Almería lei crea un quadro rinascimentale, lui si concentra sullo sconforto, la nipotina attaccata alla gamba della nonna.
In «La ragazza con la Leica» si torna a Lipsia e scorre fra le pagine un passato sconosciuto della fotoreporter. Anzi, lo sguardo è quello dei suoi amici/fidanzati di allora…
Non volevo raccontare Gerda Taro come se la sua vita cominciasse con Capa, mi interessava invece molto narrare la Germania degli anni ’30, quella della crisi che precipita nel nazismo. E volevo mostrare la rete di relazioni molto forti fra ragazzi assai giovani. Lei era la più grande del gruppo e quel cambio di ambiente (dopo il trasloco della sua famiglia) la condusse verso una rapida politicizzazione. Nel giro di breve tempo, l’ascesa al potere dei nazisti costringerà tutti loro a fare le valigie in quattro e quattr’otto e ad andarsene altrove. Volevo che l’energia di Gerda rilucesse, ma far vedere come anche i suoi amici avessero voglia di reagire e divertirsi.
La Germania descritta nel suo romanzo sfodera molte somiglianze con la nostra attualità…
Il periodo in cui Taro è vissuta e operato ha purtroppo notevoli contatti con l’oggi. Ho iniziato a scrivere in un momento in cui nell’Europa soprattutto meridionale prendeva forma una politica di austerità, producendo qualcosa di non del tutto dissimile dall’austerità tedesca anni ’30: grande disoccupazione giovanile, negozi che chiudevano, sfiducia generalizzata. Naturalmente, lì c’era un antefatto molto più pesante, il paese era uscito dalla guerra mondiale, ma la botta finale arrivò con i tagli che mandarono alle stelle il numero dei disoccupati. Speravo che, più o meno, le analogie rimanessero circoscritte a tutto ciò, ma nel tempo sono cresciute. Il ritorno alla destra, l’ostilità nei confronti dei profughi e rifugiati. Anche Gerda Taro e i suoi compagni erano tali: vivevano in Francia lavorando al nero, sfruttati. E intorno, si espandeva una propaganda di destra che parlava di invasori e di ladri di lavoro ai danni dei francesi.
Poi, ancora, le foto delle guerrigliere spagnole… Se non fosse che le nuove immagini sono a colori, non si distinguerebbero dalle miliziane curde della Siria. Bisogna ricordarsi che in Spagna si sperimentò per la prima volta la distruzione della popolazione civile: è la matrice di tutte le guerre dove si cerchi di piegare il paese non militarmente ma con l’uso deliberato della violenza inflitta agli inermi, creando profughi e morti a non finire… Per contrasto, spero di poter comunicare qualcosa di positivo attraverso quei ragazzi – Gerda e i suoi amici – che non si sono lasciati imporre il destino dalla temperie storica. Erano capaci di stare vicini, di trovare in loro stessi le risorse per non sentirsi vittime, nullità di fronte agli eventi. Noi oggi facciamo parecchia fatica a immaginare che tutto ciò sia ancora possibile.
(il manifesto, 6 settembre 2017)
di Luisa Muraro
La storia del femminismo si racconta spesso per ondate. Io sono vecchia e ho perso il conto, per cui preferisco raccontarla per titoli, quelli dei grandi libri del femminismo. Il loro successo non era moda, infatti non passano, avanzano con noi, talvolta ci precedono. E ci fanno attraversare i confini e le generazioni, creando genealogie che durano.
Recentemente abbiamo visto arrivare in Italia Rachel Moran e il suo libro. S’intitola Stupro a pagamento. Sottotitolo: La verità sulla prostituzione. Tutto molto forte ed esplicito: sono passati quattro anni dalla prima edizione, Dublino 2013, e i titoli echeggiano le importanti conferme ricevute. Ne cito una per tutte, quella di Jane Fonda: “Questo è di sicuro il libro migliore, più personale, profondo e lucido che sia mai stato scritto sulla prostituzione”.
Il titolo originale inglese dice Paid for: pagata per, che ha l’impronta della lingua inglese, understatement compreso. Il sottotitolo, per contro, rispecchia il linguaggio femminista in ogni paese: My Journey Through Prostitution, il mio viaggio attraverso la prostituzione. C’é l’idea del movimento, il partire da sé e la traversata di una condizione che l’autrice ci farà conoscere con racconti e ragionamenti, una condizione di cui ci dimostrerà quanto sia dannosa e devastante.
Non ho la competenza ma ci sarebbe da commentare anche la parte grafica; l’immagine di copertina dell’edizione italiana mi piace molto, la firma Lucia Sinibaldi.
Man mano che andavo avanti con la lettura, in me ha preso forma un pensiero definitivo: questo libro segna la fine della prostituzione. Secoli di complicità tra uomini, di assoggettamento delle donne, di moralismo ingiusto, di cattiva letteratura e di assuefazione, hanno portato la società a non rendersi conto che la ferita inflitta all’umanità con la pratica della prostituzione, non è più accettabile. E non lo è mai stata. Non ci sono regole che tengano. Così com’è accaduto per i ricatti sessuali sul posto di lavoro da parte di quelli che hanno più potere, verrà il momento – ed è questo – in cui la non eliminabile vergogna della prostituzione, sempre rigettata sulle donne, tornerà alla sua vera causa, che è una concezione maschile degradata del desiderio e della corporeità.
La donna che ha scritto questo libro, ne ha patito gli effetti sul suo stesso corpo, tra i quindici e i ventidue anni. E poi, passo passo, in dieci anni di scavo e di ricerca, ha trovato le parole per dirlo. Le più impressionanti sono non tanto le parole della rivolta, del non più accettabile, per quanto importanti, ma quelle che spiegano il mai: mai si sarebbe dovuto accettare. Sono, precisamente, le parole che riassumono il danno da lei patito nei termini di quello che ha perduto. Perduta, per lei, lo dice più volte (specialmente nel cap. 18, The Losses of Prostitution), anche la capacità di entrare in contatto vivo e sensibile con il proprio sé, ed è la perdita più terribile perché irrimediabile. Lo dice calmamente, ma a chi legge viene da piangere. Per fortuna, andando avanti, si trovano le parole di un riscatto simbolico: parole sublimi, direbbe Freud. Le introduce una domanda: di quella che ero prima, che cosa mi rimane “dopo la carneficina mentale ed emotiva della prostituzione”? Non riesco a stabilirlo con sicurezza, risponde, “ma so per certo che questo libro, questo svisceramento dell’esperienza della prostituzione, scaturisce da un luogo dentro di me che rifiuta la prostituzione a un livello molto profondo, per me come per le altre; di conseguenza so che, qualsiasi cosa mi abbia spinto a scriverlo, è qualcosa che la prostituzione non è riuscita a distruggere”.
L’editore, a suo tempo, si dichiarò disposto a pubblicare il racconto del suo passato, purché fosse scritto senza tanto riflettere sulla prostituzione. Le memorie di un’ex prostituta sono un prodotto che si vende, ma non era il libro che Rachel Moran gli stava proponendo. In un’altra collana o un altro editore (e un altro tipo di autrice) avrebbe pensato in alternativa a un saggio sulla prostituzione… ma neanche questo era il libro di lei.
Che cos’è, dunque, questo libro? Adesso possiamo rispondere in tante. È un grande libro femminista e, per me, un capolavoro nella ricerca della verità soggettiva, che è più vera di quella oggettiva. Quest’idea filosofica sulla verità mi viene dalla pratica femminista dell’autocoscienza alla quale il libro di Rachel Moran porta un contributo di prim’ordine che fa nuova luce sul come idee vere per tutte e tutti possano generarsi dal racconto di esperienze particolari.
La rivoluzione femminista (chiamatela come volete) non è destinata a finire nei libri di storia, come mi ha detto uno per darle importanza: “lo so che voi finirete nei libri di storia”. Non ci finirà, perché saranno semmai i libri di storia a finire così come li abbiamo conosciuti finora: prodotti per riprodursi, che ha voluto dire anche: riprodurre, tutte o in parte, le condizioni della violenza e del privilegio. La rivoluzione femminista non finirà, è fatta per cominciare ancora e ancora. Comincia da dentro, quel dentro inesauribile dell’essere di ogni cosa che è, quando trova le parole per significarsi. Detto altrimenti, comincia ogni volta che una donna prende la parola per raccontare di sé alle altre, sapendo che sarà ascoltata e creduta, e va in profondità, fino a quella che Lea Melandri ha chiamato la memoria del corpo. “Amo le parole”, leggiamo verso la fine del libro, proprio così: I love words. Si sente che è vero e si capisce che lo dica nel capitolo dedicato a smascherare i tentativi di “normalizzare” la prostituzione.
Rachel Moran appartiene a quella minoranza di esseri umani che dicono cose mai dette prima e si fanno capire da tutte e tutti, perché, nell’esporre quello che hanno dentro, accendono anche la mente di chi ascolta e può così partecipare attivamente allo sviluppo del testo o del discorso. Su questa strada, la trasgressione non è contro questo o quello, è un oltrepassamento di limiti imposti e subiti che ha luogo dentro e fuori, come un passaggio che ha le caratteristiche congiunte di una rivelazione e di un ritrovamento. Il ragionamento contribuisce al passaggio ma senza processi di astrazione e generalizzazione, in quanto la parola narrante e ragionante, oltre a fare luce, disfa, grazie al contributo di chi la riceve, le barriere che impedirebbero il passaggio della luce stessa.
Il risultato non è un libro a tesi. Se l’esperienza della lettura non modifica lo sguardo e il sentire, come fa ogni presa di coscienza, il fatto di mettersi a discutere sui contenuti probabilmente sarebbe un esercizio inutile. Ragionare e discutere sì, io dico, ma come sanno fare le femministe e i ricercatori onesti.
In seguito allo scandalo Weinstein, che ha dato inizio al movimento del Me-too, ho commentato i fatti con un breve testo entusiasta che volevo intitolare “W le Americane!” e che poi ho intitolato La vendetta di Marilyn Monroe. Al che mi hanno fatto un’obiezione. Pare che Marilyn Monroe, ripetutamente abusata da uomini potenti nel mondo del cinema, abbia detto poi, in un’intervista, che lei non dava importanza alla cosa. Parlava così, in lei, il bisogno che aveva di difendersi, pubblicamente e intimamente. Ma se qualcuno non intuisce la mossa difensiva, serve mettersi a discutere? Quello che serve è imparare a conoscere la vita, cominciando magari da quella di Marilyn Monroe.
Rachel Moran conosce e nel suo libro spiega la mossa difensiva della persona innocente che si vergogna di essere ferita e lo nega. Il perno dell’intero suo libro è un tipo d’intelligenza che ha il senso medievale dell’intus legere (leggere dentro), da lei guadagnata a costo di un ragionare che non si esonera dalla sofferenza. Chi ha questa intelligenza capta gli effetti della prepotenza e non si lascia tentare dai mezzi pensieri.
Rachel Moran conosce anche i discorsi di un liberismo che, parlando di libertà e di libera impresa, promuove la disponibilità a pagamento del corpo femminile. E li sa giudicare, alla luce della sua esperienza personale e della realtà documentata, con parole taglienti e pensieri che vanno fino in fondo. Ai tempi di Lina Merlin, la senatrice socialista che in Italia ha messo fine ai bordelli di Stato con la legge che porta il suo nome, si facevano altri discorsi, come quello dell’igiene pubblica, ma la storia era la stessa, permettere all’uomo di violare a suo piacimento il corpo femminile, con il permesso degli altri uomini. E la sfida era molto simile: far coincidere il rigetto della prostituzione con un di più di stima e simpatia per le donne che la praticano; simile era anche l’impegno di trovare la misura giusta fra le parole da dire e quelle da non dire.
Notiamo la rispondenza profonda di questo libro con la legge Merlin proprio su quest’ultimo punto della misura che fa il taglio giusto: questo sì, questo no. Ci sono dei silenzi nella legge Merlin che parlano da sé in vista di un cambiamento che è la fine della prostituzione. (Ne hanno scritto Silvia Niccolai e Chiara Calori.) Come ha fatto la legge Merlin a suo tempo e nel suo ambito, così Stupro a pagamento ci porta fino al punto in cui, più avanti, c’è solo il fatto che gli uomini la finiscano con la prostituzione.
A coloro, donne comprese, che si fermano prima e s’illudono (o fanno finta) che la risposta si trovi nella regolamentazione, arriva da entrambe, la senatrice socialista e la scrittrice irlandese, un preciso avvertimento: non ci sono regole che tengano. La ragione di principio è stata formulata anni fa da alcune giuriste di Milano, è il principio dell’inviolabilità del corpo femminile, che ritorna con parole per i nostri tempi nello slogan coniato dalla giornalista Julie Bindel: l’interno del corpo femminile non è un posto di lavoro.
Rachel Moran, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Nota di traduzione di Resistenza femminista, Round Robin Editrice, Roma 2017, euro 16.
(www.libreriadelledonne.it, 21 giugno 2018)