Utero in affitto: le distorsioni della modernità in un romanzo feroce, delicato, disarmante. A Genova la presentazione del libro di Roberta Trucco Il mio nome è Maria Maddalena, appena pubblicato dalla Marlin editrice.


Coinvolgente, diretto, pieno di quell’umanità che pare sopita nella società in cui regna il dio denaro, il romanzo della Trucco pone al centro un tema delicato, controverso, politicamente scorretto ma correttissimo dal punto di vista del rispetto della stessa natura umana: parla della forzatura dell’utero in affitto, di maternità surrogata, di quel corpo delle donne, ancora una volta, e senza nessuno scandalo, messo alla mercé del desiderio altrui. In questo caso si tratta di un desiderio di genitorialità che, con la forza dei soldi, non ha riguardo di nulla, nemmeno di andare a comprare, legalmente autorizzato, la parte più intima di una donna, che è quella di mettere tutta la sua fisicità nel diventare madre. Un corpo che si lascia forzare per bisogno, vendere, affittare. E l’interesse economico è talmente forte da fare di questo argomento un tabù del quale è più semplice non parlare, che è meglio sottrarre a qualunque discussione.

La storia è quella di Maria Maddalena, una ragazza giovane e bella che in una Los Angeles priva di scrupoli accetta di firmare un contratto per fare da madre surrogata a una coppia di omosessuali, ma quando questi decidono, e il contratto glielo consente, di farle abortire uno dei due gemelli che porta in grembo… […]

L’autrice. Roberta Trucco, genovese, ha fondato nella sua città il comitato “Se non ora quando” e da allora collabora con Cristina Comencini, Francesca Izzo, Licia Conte, Sara Ventroni, Serena Sapegno e altre. Collabora con i siti www.cheliberta.it e www.ferraraitalia.it e con il blog La27ora del “Corriere della sera”.


(laprovinciaonline.info, 6 ottobre 2019)

di Marcel Gauchet


«L’avvenimento non è di poco conto… stiamo assistendo alla fine del dominio maschile». Così inizia il nuovo libro di Marcel Gauchet (in libreria dal 19 settembre), filosofo sempre attento a cogliere le dinamiche che caratterizzano i rapporti umani nella società contemporanea. In attesa di poterlo sfogliare tra le mani, vi anticipiamo un brano intitolato Il defunto padre.

«Se c’è un indizio che non inganna riguardo alla radicalità di questa rottura è il rapido liquefarsi della figura del padre. Era il punto nevralgico del dispositivo, avendo il compito di garantire l’articolazione tra la cellula famigliare e l’organismo sociale. […] In questo senso era giustificato parlare di un ordine patriarcale, quello stesso che è ora evaporato senza lasciare tracce se non quelle che un primato millenario lascia necessariamente nel paesaggio culturale.

La de-istituzionalizzazione della famiglia ha svuotato di senso la funzione paterna, così come, del resto, l’omologia tra famiglia e società. Il padre, nel senso dello stato civile, non deve più essere il ‘capo’ dentro uno spazio famigliare intimizzato, così come il capo, in senso istituzionale (il ‘capo di Stato’), non è più un ‘padre’. Il modello dell’autorità si è ‘de-patriarcalizzato’ o ‘de-paternalizzato’. Tra le immagini che i cittadini si fanno oggi del potere e dei suoi attributi, nessuna è più lontana di quella del ‘patriarca’. In materia di esercizio dell’autorità, il ‘paternalismo’ è diventato uno spauracchio.

Allo stesso modo, la ‘Legge del padre’, con la L maiuscola, nei termini proposti dalla psicoanalisi e portata alla sua espressione più sistematica da Lacan, non ha più niente da dire. […] L’errore, come possiamo registrare retrospettivamente, è stato di ipostatizzarla elevandola a invariante antropologica. Non era invece che un fatto sociologico, certo storicamente radicato, ma comunque revocabile e, del resto, in piena crisi. La psicoanalisi è figlia del terremoto nel sistema di riproduzione sociale che abbiamo descritto e della crisi delle sue successive traduzioni famigliari. Su queste basi ha teorizzato un modello che sta crollando. […]

Il famoso ‘padre separatore’, incarnazione della fondativa proibizione dell’incesto e investito della funzione di staccare il bambino dalla fusione con la madre, non era nient’altro che la dimensione psichica del padre mediatore, ponte tra l’interno privato e l’esterno pubblico della famiglia-istituzione. In realtà, ciò che si esprimeva per suo tramite era l’imperativo supremo di piegarsi alle necessità di sopravvivenza del gruppo, nel duplice aspetto di perpetuazione della vita e difesa contro una minaccia esterna. La ‘Legge del padre’, da questo punto di vista, era intimamente legata al diritto di vita e di morte della collettività sui suoi membri e al tributo di sangue, cui veniva associato il dovere di riprodursi, nei termini fissati dalla disgiunzione e dalla congiunzione gerarchica dei sessi e sotto la garanzia dell’autorità del capo famiglia.

Per questo non stupisce, sia detto di passaggio, che tali differenti attestazioni dell’imprescindibile primato del collettivo abbiano visto anch’esse la loro aura affievolirsi e spegnersi. Una simile scomparsa dell’ingiunzione intima da parte della legge del gruppo, per come si concentrava nella figura del padre, avrebbe dovuto accompagnarsi a enormi sconvolgimenti nell’economia psichica. E invece, con o senza grande separatore, l’umanizzazione dei nuovi venuti in qualche modo continua a compiersi, così come continua a operarsi il loro ‘accesso al simbolico’. Il fatto è che questi fondamentali processi, modellati effettivamente da quei sistemi di regole, seguono percorsi più profondi e sono quindi in grado di riconfigurarsi dentro un ambiente nuovo, generando nuovi problemi. È questa la novità che andrebbe esplorata, piuttosto che insistere nella constatazione di una carenza che non spiega più nulla. Ciò che comunque è acquisito, ormai, è che, perdendo la chiave di volta del principio paterno, il dominio maschile ha perso il suo più solido punto di appoggio.»


Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile, Vita e Pensiero, Milano 2019, pp. 76, euro 10.


(www.vitaepensiero.it, 3 settembre 2019)

di Rosaria Guacci e Paola Mammani


…qualcosa, una ferma utopia, sta per fiorire (fine anni ’60, Piera Oppezzo, poeta)

Ed è infatti una piena fioritura quella dei GRANDI CLASSICI del pensiero femminista.

Anni ’70: Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, È già politica, Taci, anzi parla. A seguire Clarice Lispector, La passione secondo G.H.; Carole Pateman, Il contratto sessuale; Luisa Muraro,L’ordine simbolico della madre, Al mercato della felicità, L’anima del corpo; Lia Cigarini, La politica del desiderio, C’è una bella differenza; Comunità filosofica Diotima, La magica forza del negativo, L’ombra della madre, La festa è qui, Femminismo fuori sesto.

Era già una fioritura incomparabile quella dei GRANDI ROMANZI del passato che continua nelle fervide scrittrici contemporanee: inglesi (Nancy Mitford) francesi (Annie Ernaux, Amélie Nothomb, Yasmina Reza) italiane (Maria Attanasio, Antonella Cilento, Donatella Di Pietrantonio) e in mille altre in giro per il mondo e negli scaffali della Libreria.

FRESCHI DI STAMPA:

Irene Di Caccamo, Dio nella macchina da scrivere, La Nave di Teseo. Una scrittura dolente, un occhio amante per rileggere la vita di Anne Sexton, grande poeta americana del secondo Novecento.

Eleonora Marangoni, Lux, Neri Pozza. La luce è quella di un’isola nel Suditalia che il giovane Thomas Edwards si trova a ereditare. È quasi la stessa luce dell’isola di Ocaña de L’Iguana di Anna Maria Ortese e de L’isola di Arturo di Elsa Morante, ma è anche quella, forte e pervasiva, della nostalgia.

Elizabeth Day, Il party, Neri Pozza. Un romanzo di ossessioni, gelosie e scissioni che attraversano la vita intera del protagonista. Illustri ascendenze da Il servo di Harold Pinter e dal ciclo di Tom Ripley di Patricia Highsmith. Elizabeth Day fornisce una superba prova narrativa.

Annalena Benini (a cura di), I racconti delle donne, Einaudi. I venti racconti compresi in quest’antologia sono scelti tra il meglio che ha offerto e offre la letteratura mondiale femminile. È la festa della società sovversiva delle ragazze.


(www.libreriadelledonne.it, 28 giugno 2019)


Segnaliamo l’ultimo numero di Leggendaria (n. 136, luglio 2019), intitolato “Storie nella storia”. «Mette a fuoco un genere di sempre maggiore successo: il romanzo storico, che vede una forte presenza di firme femminili, oltre a una attenta riflessione su che cosa oggi possiamo definire Storia, e come raccontarla». Con articoli di Stefania Tarantino sulla “storia vivente”, di Giovanna Pezzuoli su Bibi Tomasi e Donatella Borghesi, di Antonella Fimiani sulla scelta di non fare figli, di Loredana Magazzeni sull’educazione sentimentale delle ragazze, di Luciana Tavernini sulla prostituzione, che non è né sesso né lavoro, e tanti altri…


(www.libreriadelledonne.it, 18 luglio 2019)

di Laura Colombo


Il nuovo disco di Ardesia, gruppo di ricerca filosofica politica e femminista


Dove non potrò è il secondo e ultimo lavoro del gruppo musicale Ardesia band, un progetto ideato dalla filosofa e musicista Stefania Tarantino, che fa della ricerca musicale una delle strade del suo lavoro filosofico e del suo impegno politico femminista. Il primo album, Incandescente, ispirato dalla lettura de Le tre ghinee di Virginia Woolf, era stato portato al grande convegno femminista di Paestum del 2013 e le donne presenti avevano sentito dal vivo quanto fosse potente la trasposizione in musica delle parole di chi, con un libro, ha operato un vero e proprio taglio nella storia.

La cifra del lavoro di Tarantino e della sua band è “tenere insieme”: musica, storia, filosofia, letteratura, parole e pratiche radicali delle donne, femminismo, differenza. Il linguaggio musicale permette di distillare significati, dopo che le parole hanno risuonato nell’intimità dello spirito, la pratica filosofica ha permesso di guadagnare pensiero, le pratiche femministe del partire da sé e della relazione con le altre donne hanno regalato nuove possibilità alla libera creatività. Un tratto che dà carattere al lavoro di Ardesia band è la “musicalità mediterranea”: si tratta dell’intensità della musica e della lingua, delle parole di donne come Angela Putino o Lina e Teresa Mangiacapre, dell’esperienza condivisa con loro, della vita di Stefania Tarantino e le altre donne del gruppo, Claudia Scuro e Giovanna Grieco, insieme alle due ragazze che hanno contribuito ai lavori dell’ultimo album, Giusy Franzese e Veruska Graziano. È un’impronta che tuttavia non chiude, al contrario, il lavoro di Ardesia band è aperto al mondo, si fa interprete di ciò che il presente pone come sfida oltre a restituire in musica le parole delle grandi donne del Novecento, filosofe, romanziere, poete.

Dove non potrò è un lavoro accurato e raffinato, a partire dalla copertina realizzata da Marianna Sannino, una riproduzione dell’affresco delle tre dame in blu che si trova nel Palazzo di Cnosso a Creta. Tre donne con il corpo di prospetto e il volto di profilo, accurate nell’acconciatura e nel vestiario, sullo sfondo un blu intenso che esalta il loro fiero portamento. Queste nobili figure restituiscono l’immagine di una consapevolezza e una forza femminile che ha radici lontane, messa al mondo dal movimento delle donne a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e diventata ormai imprescindibile: “the rules of the game change” canta Stefania Tarantino in “Me too”. C’è una verità nascosta che si sta facendo avanti e cresce, dilaga in tutto il mondo, domanda di essere ascoltata e pretende di cambiare le regole del gioco, a partire dal rapporto tra i sessi, “No, you can do nothing without my consent”. Tiene questo filo anche la canzone “Libera di essere”, ispirata al testo di Ingeborg Bachman Ondina se ne va, un testo potente, inserito nella raccolta Il trentesimo anno, un misto di invettiva e saggio filosofico dove l’autrice trasforma la sirena, amante marina, in una figura di libertà. Stefania Tarantino è “alla ricerca di frasi vere”, è fedele all’incessante lavoro sulla lingua che l’autrice austriaca ha ostinatamente condotto per tutta la vita e così canta che “il corpo non è un gioco ma terra acqua aria fuoco” e “guardo il tuo ordine fatto di crimini / ubbidiente solo a ciò che segue / la tua ragione solitaria”. Questa canzone è stata scritta da Stefania Tarantino per supportare un centro antiviolenza e, attraverso il lavoro sul testo di Ingeborg Bachman, diventa un manifesto in musica contro la violenza sulle donne.

La poesia entra potente nelle liriche di Stefania Tarantino: “C’è la vita / Ci sarà la vita / una strada che porta sempre oltre” è l’incipit della poesia messa in musica di Lina Mangiacapre “Dove non potrò”, che dà il titolo all’intero album, dedicato alle Nemesiache e in particolare a Lina e Teresa Mangiacapre, figure storiche del femminismo napoletano. Ancora poesia in “Mani sulla pelle”, che mette in musica la libera elaborazione dei versi di Anna Santoro. Infine “Di che no!”, ispirata a una poesia di Giovanna Petrelli dedicata ad Angela Putino, maestra di Stefania: “Muoio, se vuoi, del tuo falso potere / Unico vero ritratto / per distrazione da compassione / Vivo, se vuoi, della tua leggerezza / Unica vera risorsa / che cura un cuore mai guarito”.

Le canzoni di Stefania Tarantino danno parole e fanno conoscere anche testi nuovi e non pubblicati. È il caso della bellissima “Non sappiamo chi siamo”, un testo intenso, liberamente tratto da un inedito di Anna Correale: “No, non sappiamo chi siamo / e andiamo a caccia di vita come belve affamate”.

Infine ci sono un paio pezzi cantautorali di Stefania Tarantino, dove la centralità sembra essere la riflessione sul tempo, da far decantare perché emerga una verità, perché venga restituita giustizia (“Il tempo ti darà ragione / bisogna solamente attendere”); ancora il tempo e la ricerca soggettiva di abitarlo in modo sensato e in fedeltà a sé (“Ciò che riempie il tempo è il perderlo”).

La ricerca musicale di Ardesia band è accurata e si è trasportati dalle melodie intense, che esaltano la densità dei testi, in cui si incrociano i temi cardine del pensiero politico delle donne: identità e differenza, cruda vita e senso del limite, desiderio e bisogno, amore e lotta. Si tratta di canzoni però, di più, l’album Dove non potrò è un insieme di belle canzoni, non sono trattati politico-filosofici. Sono liriche in cui perdersi, brani in cui ci si può ritrovare, sono canzoni da cantare a squarciagola per gridare giustizia e affermare libertà, sono musiche da ballare a perdifiato.


Per informazioni sul gruppo e sulle date degli appuntamenti live: http://www.ardesiaband.it/index.php

Video di presentazione dell’album:
https://www.youtube.com/watch?v=KKbcoWI_B2g

Per acquistare il disco (presente anche su Spotify):
https://www.adestdellequatore.com/shop/dove-non-potro/


(Leggendaria n. 136/2019)

di Cristiana Fischer


Care tutte,

dopo avere ascoltato l’altra sera il vostro incontro su Piera Oppezzo, (Dicono: o vivi o scrivi, Libreria delle donne, 15 giugno 2019) voglio aggiungere una riflessione, a integrare quanto è stato detto.

C’ero anch’io nella rivista di poesia fatta solo da donne, mi aveva suggerito Bibi, che conosceva il progetto di Piera Oppezzo, di telefonarle. Forse la prima sera in cui andai in via Monti incontrai Milli Graffi e Giulia Niccolai, che allora non conoscevo e dopo frequentai.

Essendo una rivista di poesia di donne, le femministe eravamo Piera ed io.

La rivista scoppiò dopo il primo numero, che era un numero 0. Non ricordo però che il “litigare troppo” – per cui Laura Lepetit decise di non pubblicare oltre – fosse nato in seguito alla agitazione creata da una donna nuova nel gruppo. A meno che lei non fosse diventata la causa occasionale, per un conflitto che non era diventato esplicito ma era già presente.

Piera scrive affermando, dice “questo è, è così, poi c’è questo, e questo”. Frasi brevi, come faceva Gertrude Stein. Ma Piera ci dice che lei è diversa da Stein. Il mondo è slegato, mancano connessioni fondamentali, “io” dice, e resta sospesa, isolata. In un periodo in cui invece, in poesia e non solo, dominano un io/noi collettivo o, all’opposto, altri io parlano ispirati dal noto “demone della poesia”.

Ai tempi le donne erano state protagoniste di battaglie, e in generale si pensava che fosse importante ascoltarle e averle con sé. Piera è apprezzata per il suo stile, non per il sé estraneo e la solitudine che propone. La poesia di avanguardia, cui allora si riferivano Milli e Giulia, era espressiva e decisa, le donne che vi si riconoscevano non pensavano alla loro differenza femminile come un limite, superabile con chiarezza e convinzione. Racconto questo episodio: una sera in redazione si cercavano temi condivisi su cui poi ognuna avrebbe lavorato per sé. Cominciarono a uscire rabbia e accuse, una sbottò: basta con questo rivendicare, altrimenti hanno ragione a dire che “siete” delle galline… Silenzio, poi risate. Ecco, eravamo diventate importanti, ma lorsignori guidavano la compagnia.

Dopo quarant’anni, l’altra sera Milli ha fatto capire come fosse allora inconcepibile il senso che avrebbe potuto avere, in letteratura, l’infelicità che Piera voleva esprimere: «la poesia per lei era una continua autoanalisi, straordinaria perché per un verso aveva questa capacità di iniziare un discorso con una espressione diretta… poi dopo non trapela niente, gira tutto intorno, diventa un rebus straordinario, ma non affronta assolutamente il problema che normalmente si dice… amore». E ancora: «aveva sia da una parte la capacità di un’espressione molto comune, molto popolare, molto diretta, che affrontava direttamente il problema così com’era, e poi invece un’autoanalisi che era spesso come sospesa… perché non è che ogni volta che fai una autoanalisi trovi esattamente quello che tu vuoi».

Sapientemente Milli isola alcune figure importanti, la sfera di cristallo che rotola, la lunga sciarpa, e spiega che, in termini freudiani «quello che hai nell’inconscio si srotolerà e diventerà conscio». In termini freudiani. In un senso simbolico femminile sarebbe stata altra cosa, da scoprire per poterla dire.

Piera non ha trovato attenzione proprio per i vuoti che lei dichiarava: «Sono le pause che sono troppe. Io ho troppe pause. Lo faccio apposta / lo faccio per raccogliere / dirmi che ci sono state delle cose. / Se ci fosse qualcuno per liberarmi delle pause per un periodo un po’ lungo. Diciamo un giorno intero / tre giorni sarebbe meglio / qualche mese sarebbe il massimo.» La questione che poneva era di esplicitare l’infelicità, poterla tradurre in parole condivisibili nel medium letterario dell’epoca.

Milli ha tenuto a parlare dell’ultima poesia di Piera: «riesce a esprimere il sentimento che ha verso la poesia e verso la vita, alla fine ha avuto il contatto – lo ha sempre avuto – con la realtà, è una espressione di gioia». Quindi l’infelicità di Piera avrebbe anche potuto, anzi dovuto, non essere.

Nemmeno io amavo la sua tristezza, potevo capirla, perché estraneità e solitudine femminile il femminismo cominciava a metterle in parole, ma non condividevo lo stato d’animo. Eravamo giovani, Milli ha detto «avevamo… avevo il bambino», io ne avevo due, era un periodo di liberazione e di attacco, più che di stasi e sofferenza.

Oggi è possibile, perché abbiamo ormai una storia, riconoscere l’esplicita intenzione espressiva di Piera, Anna Nogara leggendo ad alta voce lo ha mostrato. Allora non ci fu un ambiente letterario neutro-maschile che la inserisse, e solo uno femminile in formazione, che poco ha saputo, e maldestramente, autorizzarla.


(www.libreriadelledonne.it, 17/6/2019)


È uscita nel 2016 una raccolta di sue poesie, Piera Oppezzo, Una lucida disperazione, edizioni Interlinea, riproposta da Luciano Martinengo

di Livia De Paoli


Misurare le parole; le distanze; la durata di un amore; lo spazio che offre una città; e poi perdere il conto di tutto. Claudia Durastanti scrive da molteplici punti di rottura, interruzioni del tempo; e da un luogo dislocato appena sotto la soglia del visibile. Fading. Lì dove le cose si stanno dissolvendo e perdono forma, e tuttavia si possono ancora rintracciare i contorni e interrogarli così come si interroga un oracolo: senza risposte certe. La straniera è un romanzo che accoglie l’eco di una genealogia femminile, da cui l’autrice discende, e diventa poi anche il brusio proveniente da una generazione che viaggia e sposta continuamente il proprio punto di vista sul mondo e non smette di sentirsi straniera, di cercare casa, e finisce con familiarizzare proprio con questo senso perenne di estraneità, di non completa appartenenza.

Se nessun significato è stabile, se anche lo scrivere e l’abitare assumono la necessità di movimento, l’unica forma di adattamento è nella disponibilità continua alla trasmigrazione e all’errore, è la narrazione di tutte le nostre ripartenze. Come scrisse Eliot: «We must be still and still moving / Into another intensity».

«L’incapacità di fare cose che dovremmo saper fare, l’impossibilità di vedere, sentire, ricordare o camminare non è un’eccezione quanto una destinazione», scrivi nella prima parte di «La straniera», quella sulla famiglia. Partiamo da questo ribaltamento di prospettiva: l’incapacità come appartenenza. Nel ripercorrere la tua biografia e la storia di famiglia sembri in qualche modo rivendicare questo legame con l’imperfezione, con la fallibilità. È un modo di pensare del tutto antitetico rispetto all’ideale americano e occidentale: la ricerca e il mito dell’invulnerabilità. Come ci sei arrivata?

Stavo leggendo un saggio di Lennard Davis che si chiama Enforcing Normalcy. Disability, Deafness, and the Body (Verso Books, 1995) che parla della sordità come di una costruzione culturale e descrive come si è andata rafforzando la concezione di un corpo abile, di un corpo sano. Dopo questa lettura ho scritto quella parte del libro che riguarda poi mio padre e che cerca di immaginare la disabilità come se fosse una sorta di errore del tempo; non si tratta di sminuire l’esperienza, significa relativizzarla.

Mi sono formata attraverso una serie di studi antropologici e sono riuscita, anche grazie alle mie letture universitarie, a problematizzare l’idea di classe e l’essere donna, ciò che viene spontaneamente definito come «cultura». In molte letture ho ritrovato questa barriera inoppugnabile del corpo: la disabilità intesa come un insieme coerente di significati e di limiti. L’esperienza di vita, ma anche romanzesca, dei miei genitori è stata quella di prendere il concetto di limite e sfidarlo; di continuare ben oltre quel limite. E questo ha avuto un forte impatto su di me: io sono stata educata a concepire il superamento del limite, sono stata educata a pensare che la sordità dei miei genitori fosse relativa.

Dopo aver scritto Cleopatra va in prigione (minimum fax, 2016), sono stata a Rebibbia e ricordo che quando sono entrata in carcere, confrontandomi sul libro con le persone che ci vivono, in molti mi facevano presente che alcuni dettagli non erano verosimili. Dicevano: «Hai messo un’altalena». Erano risentiti perché pensavano che io avessi inserito degli elementi di finzione nella loro esperienza reale; poi c’è stato un detenuto che ha detto: «Magari c’è stata quell’altalena tre anni fa, o magari ci sarà domani, questo spazio cambia ogni giorno».

Anche l’esperienza del carcere da come viene raccontata e percepita appare immutabile, fatta da una reiterazione di giorni e del tempo che non passa. Invece, attraverso lo sguardo di chi è entrato davvero in relazione con lo spazio, se ne immaginano i cambiamenti; quindi è emersa anche lì l’idea che si potesse scardinare un insieme che sembrava compatto e monolitico. È qualcosa che io penso di aver sempre avuto nella scrittura e che in La straniera si è espresso al massimo.

Per me scrivere significa spostare costantemente un oggetto e il punto di vista sull’oggetto. La scrittura deve mostrare i diversi modi in cui la luce cade su quell’oggetto, quindi anche la sordità dei miei genitori e le vite dei miei genitori che sembravano la cosa più letteraria possibile. Margine, disabilità, classe subalterna: il mondo li aveva incasellati violentemente e loro non hanno fatto altro che uscire da queste gabbie. In questo credo ci sia un insegnamento meta sulla scrittura, perché per me l’attività di scrittura è il modo in cui i miei genitori hanno vissuto la loro vita.

La straniera è un romanzo sull’inadeguatezza, sulla percezione di sentirsi sbagliati rispetto al posto dove ci si trova: non importa che sia la palazzina di un sobborgo di Brooklyn abitata da un gruppo di italiani emigrati, un paesino della Basilicata o una grande metropoli europea come Londra. È in fondo una storia sul migrare e l’abitare, sulla ricerca di «uno spazio per sé». Nel tuo romanzo citi Virginia Woolf e Jean Rhys; la storia tra donne e città ha le sue radici anche nelle figure mitiche di Didone, o Arianna.

Secondo te le donne, e le scrittrici, hanno un rapporto specifico con la città? Guardando alla città come a una rete di relazioni affettive e sociali, intime.

Sì, una cosa interessante è che tutte le persone che attivano la migrazione nel romanzo sono donne e i motivi per cui l’hanno fatto spesso esulano dalle ragioni convenzionali della migrazione, dallo stato di necessità o di fuoriuscita da una condizione di disagio economico. Mia nonna è emigrata perché mio nonno le era infedele; ha fatto questa scelta totalmente folle di dire: me ne vado dall’altra parte dell’oceano. Mia madre invece è ritornata dagli Stati Uniti a trentaquattro anni – l’età in cui ho iniziato a scrivere La straniera – per un desiderio di indipendenza assoluta. La sua è stata una scelta consapevole di un margine lontano dal centro – cioè la sua famiglia –, voleva mettersi nelle condizioni di estraneità assoluta rispetto al contesto. Questo modo ambivalente di abitare un posto, di adattarsi o di restare senza attecchire, è anche mio e sento in questo un passaggio matrilineare: ho adottato questa funzione. Non so quanto sia attiva la componente di genere, ma io ho sempre occupato gli spazi innamorandomi e, quindi, ho sempre confuso un luogo con una storia d’amore.

Una cosa che per esempio fa anche Joan Didion, una delle mie scrittrici preferite. In Prendila così (il Saggiatore, 2014), un romanzo abbastanza nichilista – la protagonista è un’attrice mancata, sua figlia vive in una clinica psichiatrica e lei ha una relazione tormentata con un regista –, Didion descrive la vita di Maria Wyeth come una donna a cui non interessano tanto le relazioni con le persone ma l’unica cosa che le sta a cuore è la mitologia del posto da cui viene. Il legame embrionale che lei ha con il posto in cui è nata e in cui non ha più abitato è più potente di qualsiasi altro tipo di rapporto. Io ho avuto un’esperienza simile con l’America, che per me è stata la terra mitica, e questo ha fatto sì che in qualche modo sopravvalutassi le mie forze perché pensavo che la sola spinta del desiderio sarebbe stata sufficiente per impostare un rapporto, avere una relazione con un luogo. Ma, in qualche modo, un luogo ti risponde: ti accoglie o non ti accetta.

Io avevo tutte le carte in regola per diventare la migrante perfetta a Londra; al contrario di mia nonna avevo la prima forma di adattamento – la lingua –, invece lei si è adattata meglio anche se non parlava l’inglese. È rimasto un po’nel mistero questo mio mancato radicarmi, parallelo e opposto a quello di un’altra persona che era partita con me, il mio compagno, che invece si è radicato. Ed è poi quello di cui parlo nell’ultima parte del libro: il fatto che non siamo riusciti ad abitare una città nello stesso modo, questo è stato forse un vero elemento di rottura, a sua volta parte di uno scollamento più profondo. Impone una malinconia tutta particolare il fatto di occupare uno spazio e di non saperlo abitare.

Da questo mancato adattamento si creano delle forme di esistenza transitorie, che hanno una loro bellezza, ma non so ancora classificarle o nominarle; è difficile definire il mio rapporto con Londra – anche perché spesso sono in viaggio. Una cosa che ho imparato e, secondo me, la dice bene Olga Tokarczuk in I vagabondi (Bompiani, 2019) è che noi veniamo da anni di viaggio in cui si confondono «aeroporti con non luoghi». Ecco, io ho ribaltato completamente questa prospettiva perché gli aeroporti sono luoghi in cui si creano delle forme di cittadinanza che sento vere e mi trasmettono una calma profonda; invece di sperimentare l’anonimato mi sento accolta. Sono luoghi di partenza e di arrivo dove, anziché sperimentare il massimo della transitorietà, io sono ferma e definibile. Paradossalmente più di quando sono a Londra, dove vivo questa esperienza angosciosa che è stata anche quella di tante scrittrici che ho amato.

A proposito di donne e di abitare la città, Vivian Gornick in Legami Feroci (Bompiani, 2016) descrive il rapporto con la madre attraverso le passeggiate che fanno in città; Sylvia Plath ha scritto della sua vita londinese come di un’esperienza di non radicamento, dove ha cercato l’appartenenza nella fuoriuscita, facendo vita di campagna. Alle donne è stata negata per molto tempo la flânerie, perché per passeggiare devi essere libera e invisibile; è interessante come questo rapporto con la città cambi anche con l’età. Tokarczuk scrive: «Sono diventata una donna di cinquant’anni, adesso mi posso muovere liberamente nello spazio perché non vengo più percepita come un corpo». Anche per Annie Ernaux gli anni più liberi della sua vita sono stati tra i quarantacinque e i sessanta. Io non vedo l’ora d’arrivarci.

In un saggio sulla traduzione letteraria Susan Sontag afferma che tradurre significa sperimentare nella pratica l’irriducibilità dell’altro, e del suo linguaggio, «approfondire la consapevolezza che altre persone, diverse da noi, esistano davvero» («Tradurre letteratura», Archinto, 2004). Da scrittrice e traduttrice, ma non solo, in quanto donna cresciuta in due continenti diversi, hai mai fatto esperienza di questa estraneità della lingua? Sia tu in prima persona, sia nel tradurre in italiano la storia di qualcun altro.

John Berger diceva che nella traduzione intervengono tre lingue: la lingua di partenza, la lingua di arrivo e poi una lingua nascosta. Questa terza lingua, figlia dell’interpretazione di ogni singolo e individuale atto di lettura, fa sì che ogni traduzione dello stesso testo sia diversa. Io per tanto tempo mi sono mossa tra italiano e inglese perché venivo sempre sollecitata nel giostrarmi tra questi due piani e ho ignorato questa terza lingua, che poi è quella di mia madre: una lingua fatta di segni, una lingua tutta rotta.

È una lingua che interviene tantissimo nel mio modo di leggere e di scrivere, e viene scambiata come un errore rispetto a quelle che sono le convenzioni letterarie perché porta al fraintendimento; una tendenza che io ho sempre riconosciuto nei miei genitori. Mi sono chiesta quanto conti nella mia attività di traduzione questa sorta di disabilità che ho anche nella lettura: la mancata capacità di radicarsi al contesto, la confusione continua di piani di realtà – fiction e non fiction.

Ho fatto una lotta continua con questa mia tendenza all’errore, perché poi devo produrre dei risultati precisi; viviamo un momento in cui siamo tutti ossessionati dalla forma, dall’ortodossia, dalla correttezza della parola, dalla perfetta corrispondenza di significati. È qualcosa che applicato alla realtà mi pare fortemente repressivo, quindi anche l’idea del testo comporta diverse interpretazioni sulle relazioni di potere.

Deborah Smith, per esempio, ha tradotto La vegetariana (Adelphi, 2016; The Vegetarian, Portobello Books, 2015) in inglese dal coreano e ha fatto una serie sistematica di errori e di travisamenti culturali che sono stati interpretati come un atto di colonialismo, perché la lingua subalterna viene ignorata del tutto. Invece, se un traduttore fa degli errori dall’inglese all’italiano non sono mai visti come una sorta di vendetta nei confronti di una lingua egemonica, ma semplicemente come disattenzione: al traduttore non è permesso sbagliare l’inglese perché per noi questa lingua è universale, neutrale quasi. Io da traduttrice non ho la possibilità di insediare dei margini di sospetto sul testo originale, perché mi viene presentato come testo canonico e assoluto.

Credo però che questa disabilità nella traduzione possa portare a dei risultati poetici. La Pivano ha tradotto male: ha fatto errori, censure e strafalcioni; però aveva con i testi un’intimità bellissima, un’intimità di orizzonti, di scelte politiche e di stile di vita, che secondo me si rifletteva nelle sue pagine. Che cosa significa per il traduttore avere intimità con il testo al di fuori della pagina, al di fuori del semplice esercizio? Vorrei leggere di più in relazione non tanto all’esperienza della traduzione come tradimento, ma alla traduzione come una questione di identità. Un aspetto che mi interessa è proprio quello della funzione poetica dell’errore all’interno delle traduzioni. Avevo tutte le carte in regola per diventare la migrante perfetta e tutte le carte in regola per essere una traduttrice imperfetta.

I traduttori non devono essere bilingue, devono essere fortissimi in una lingua, non possono stare in uno spazio di mezzo. Io invece sto tantissimo in questo spazio e a questo si aggiunge la dimensione di questa sintassi rotta che ho, che è un’eredità familiare. Quando dicono che la scrittura è sintatticamente aliena io vorrei che anche le mie traduzioni lo fossero, invece di avere corrispondenze univoche. A volte, mi sembra talmente bello quando c’è un significato che appare senza senso o fuori luogo, e poi invece schiude mondi ulteriori. Io non sono paranoica nemmeno ora che vengo tradotta, leggo la traduzione di La straniera e mi rendo conto di quanto significherebbe per me se qualcuno si prendesse la libertà di fare dei salti creativi personali; perché io l’ho già perso quel testo, in qualche modo: l’ho dato via e se subisce dei passaggi di stato sono solo contenta, perché dà vita a delle forme nascoste del mio libro che c’erano e che io non ho visto.

Scrivi che «Terramai» è la traduzione letterale di «Neverland», una resa più fedele a quelle che sono le intenzioni dei bambini perduti, al loro futuro. «Terramai! funziona ancora meglio» perché può essere letto come un grido di battaglia. Rileggere il titolo di un’opera di James Barrie come un invito a combattere mi sembra anche un incoraggiamento per la letteratura; come qualcosa per cui vale ancora la pena di battersi. Sia dal punto di vista individuale, sia collettivo. E poi, tu perché scrivi?

Io ho vissuto la scrittura come un modo per salvare me stessa e poi la storia della mia famiglia, anche come un tentativo di contenere l’isolamento. La scrittura però cambia significato con il tempo, cambia anche la passione. Ultimamente ho avuto una fase più costruttiva, anche più generosa se vogliamo, nata dalla capacità di creare storie anche fuori da me come nei libri precedenti a La straniera. Qui mi sono posta il problema se ricorrere alla narrazione in prima persona mi portasse verso l’opposto di quello che volevo: che significasse rafforzare l’io, mentre ero molto più interessata a vedere dove questo io si sfalda e diventa un noi.

Per me è importantissimo individuare un punto specifico in cui una storia – al di là di forma, dello stile e del linguaggio – diventa una storia collettiva, un desiderio che forse ha degli elementi di presunzione e corrisponde a quella che è diventata oggi una forma di militanza, in parallelo al luogo comune sull’irrilevanza della scrittura nel mondo. Forse è anche un tentativo di difesa della letteratura, per sentirla meno astratta, o meno scoordinata, scollata.

Il politico come categoria astratta non mi interessa, secondo me un testo genuinamente pensato riesce a essere militante anche quando non si propone dichiaratamente di esserlo. Non credo in una scrittura che nasce per essere impegnata, ma credo in ogni testo che fa il suo lavoro, cioè che riflette profondamente sulla parola e sulla costruzione di una storia, finisca per avere una sorta di militanza che si esprime in un sentimento di sorellanza. Un lettore l’altro giorno mi ha detto: «Non ho letto La straniera pensando a termini come stile ammirabile, invidia o cose simili, ma a fine lettura ho avuto un senso fortissimo di fratellanza e di sorellanza». Un senso che mi auguravo di trovare con questo testo e, quindi la battaglia nella scrittura per me è arrivare a individuare, più che l’empatia, questo punto di intimità.


(minima&moralia, 11/6/2019)

di Franca Fortunato


Il libro La spirale del tempoStoria vivente dentro di noi, a cura delle donne della Comunità di storia vivente di Milano, contiene dieci racconti e tre testi teorici, che mostrano e spiegano che cos’è la pratica della storia vivente. In ogni racconto c’è autobiografia ma non è un testo autobiografico, c’è autocoscienza ma non è un testo di autocoscienza, c’è letteratura, romanzo storico, narrazione, politica, memoria, contesto storico-patriarcale in cui avvengono i fatti narrati, insomma c’è una molteplicità. È questa la storia vivente, storia di vite di donne, raccontata e scritta in relazione, a partire da sé, dal profondo, portata fuori dalle “viscere”, seguendo un movimento a spirale, che richiede un tempo lungo. La storia vivente è un modo nuovo di fare storia, un modo femminile fuori dal patriarcato e dagli schemi della storiografia tradizionale, secondo cui senza documenti oggettivi non c’è storia. Nella storia vivente, invece, l’esperienza della storica, la sua soggettività, il suo sentire profondo, è il primo documento storico su cui si fonda la narrazione e la sua verità. Storia vivente e storia tradizionale non sono complementari, né in opposizione, ma sono semplicemente due storie diverse, sia nei contenuti che nei modi di fare storia. Ogni racconto del libro porta in sé un dolore inespresso – sono racconti dolorosi ma non cupi – un dolore rimosso, tacitato che nella storia vivente trova redenzione. Ecco perché non c’è odio, vendetta, risentimento, nei racconti, neanche in quelli più duri che parlano di violenza di padri sulle madri, di violenza di uomini estranei sulla bambina e adolescente, di tradimenti paterni, ma c’è, invece, amore femminile per la madre, genealogia femminile, redenzione dal dolore per sé e per l’altra/o. I fatti narrati vengono ricondotti al contesto storico in cui sono accaduti, per cui la storia personale di ognuna diventa testimonianza di un’epoca storica-patriarcale. A inventare la storia vivente è stata una donna, Marirì Martinengo, con il suo libro La voce del silenzio Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta” (2005), dove tra rimembranze, narrazione e documentazione, narra della nonna, sottratta a lei, alla memoria familiare e alla storia del suo tempo, rinchiusa nel 1895 in una casa di cura, dopo la nascita dell’ultima figlia. Quel libro segna una svolta nel suo lungo percorso di ricerca storica, iniziato alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, quando, dopo aver inventato la Pedagogia della differenza, Martinengo ha fondato la Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storicacon le donne con cui condivideva un percorso politico all’interno della Libreria delle donne di Milano. Nel suo scritto Mi ha chiamata da sempre: la risposta alla chiamata, con cui si apre La spirale del tempo, chiama digressione la ricerca storica di quegli anni perché la sviava dall’attenzione al grumo oscuro, e riconosce però che quella ricerca, in un certo senso, l’aveva preparata a prendere in considerazione il suo malessere, abituandola a scendere e a fare riemergere dal buio vite di donne cancellate, dimenticate dalla storia (Le trovatore, le badesse medievali). Ho conosciuto Marirì Martinengo in quegli anni, quando da insegnante mi sono fidata e affidata alla sua ricerca storica. Quando lei scrisse il libro sulla nonna non aveva nessuna certezza che stesse scrivendo storia. Questa le venne dal riconoscimento della donna con cui era in relazione da anni, María Milagros Rivera Garretas – come racconta nel libro – storica medievalista all’università di Barcellona e studiosa di María Zambrano.Martinengo si è fidata e affidata al suo giudizio e così si è liberata da ogni insicurezza e ansia, si è sentita anche legittimata a proporre la storia vivente alle donne della sua Comunità che le hanno dato credito e l’hanno seguita. Dare credito alle parole di una donna è un atto politico. La Comunità ha cambiato nome, ad essa si sono unite altre donne, compreso un gruppo di Foggia, tutte autrici de La spirale del tempo. Il libro è coinvolgente, a volte commovente, è scritto in modo eccellente, da cui scaturisce una lettura scorrevole e piacevole. Leggerlo, però, richiede un atto di fiducia per poter fare spazio dentro di sé al riconoscimento del nuovo, perché in tutte/i è molto radicata la formazione scolastica sui paradigmi della storia tradizionale.

Il libro obbliga chi legge, donne e uomini, a mettersi in relazione di differenza o somiglianza con chi scrive, con se stessa/o, perché – come scrive Marirì Martinengo – c’è una storia vivente annidata in ciascuna e ciascuno di noi.


La spirale del tempo – Storia vivente dentro di noi, a cura della Comunità di storia vivente di Milano, Ed. Moretti &Vitali,pagg. 198, € 17,00


(Il Quotidiano del Sud, 3 giugno 2019)

di Antonella Mariani


Non è una scelta, non è libertà né autodeterminazione. E la Legge Merlin è ancora viva e vegeta. In un saggio quattro studiose spiegano perché la prostituzione si deve abolire. Come la schiavitù


La prostituzione può essere considerata un lavoro? No, per nulla. Il sex work (come ora si usa dire per nascondere la realtà dei fatti, cioè la sopraffazione e l’abuso nascosti in un rapporto sessuale a pagamento) non è affatto un lavoro. E non è nemmeno sesso. Con passione e competenza quattro esperte in diversi campi analizzano il mercato del sesso in Italia, un Paese in cui una ottima legge (la Merlin del 1958), animata da una forte tensione etica, è ancora ben lungi dall’essere applicata fino in fondo: la lotta alla tratta non è una priorità e sulla prostituzione vige il laissez-faire, mentre si moltiplicano proposte di legge che mirano, sessant’anni dopo, alla riapertura delle case chiuse.

In “Sex work, né sesso né lavoro” (VandA, pagg. 208, euro 15,90) la sociologa Daniela Danna offre uno sguardo sulle politiche sulla prostituzione in vari Paesi del mondo. La giurista Silvia Niccolai ripercorre la vita travagliata della Legge Merlin, che oggi si vorrebbe ingiustamente smantellare, l’avvocata Grazia Villa commenta le tante proposte di legge avanzate in Italia e infine la pedagogista Luciana Tavernini ragiona sul rapporto tra gli uomini e la prostituzione, e tra quest’ultima e il femminismo, anche alla luce del movimento antimolestie #Metoo.

Nel complesso, un libro prezioso, che offre un contributo di documentazione e di riflessione per chi è convinto, come lo sono le autrici, che la linea giusta sia quella di abolire la prostituzione, così come in passato si è arrivati a cancellare la schiavitù.

Servendoci dei contenuti di questo libro, largamente citati, abbiamo provato a sfatare alcuni tra i falsi miti più diffusi sulla prostituzione.

1) La prostituzione può essere una scelta, espressione della libertà sessuale e dell’autodeterminazione femminile. FALSO

Molte ex prostitute (le cosiddette sopravvissute, la più famosa delle quali è Rachel Moran che ha raccontato la sua esperienza in Stupro a pagamento) chiariscono come la prostituzione non è mai una libera scelta, nemmeno quando si tratta delle cosiddette escort. Nessuna donna può essere felice di essere umiliata e trattata come una merce. Chi si prostituisce di fatto rinuncia alla sua autodeterminazione sessuale, quindi alla sua libertà. Chi difende la (presunta) libertà della donna di prostituirsi in realtà difende la possibilità del cliente di approfittare del suo corpo. Quanto alla libertà di impresa economica, essa non ha diritto di essere riconosciuta come tale se genera profitti ingiusti, come pensava la senatrice Lina Merlin richiamandosi all’articolo 41 comma 2 della Costituzione (L’iniziativa economica privata (…) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana). La prostituzione, anche se “libera”, rientra nel caso di un’economia immorale che alimenta i suoi profitti con lo sfruttamento puro e semplice del corpo delle donne. La prostituzione, in conclusione, è la negazione della libertà: è la dimostrazione che tutto – perfino la sfera sessuale – è misurabile con denaro, in un’ottica biecamente consumistica e capitalistica.

2) Si deve legalizzare la prostituzione: se le donne stanno al chiuso sono più protette. FALSO

Chi sostiene questo sta dalla parte degli sfruttatori e dei trafficanti di esseri umani che riforniscono i bordelli della merce-sesso. L’esperienza dimostra che oggi, in Germania come negli Stati Uniti, nei bordelli legali si trovano normalmente donne vittime di tratta, in gran parte straniere, soggette a violenze sessuali e in generale fisiche in misura ancora maggiore di coloro che esercitano “all’aperto”, dato che i clienti, poiché hanno pagato e si trovano in una situazione priva di rischi, si sentono legittimati a fare ciò che vogliono.

3) Con la legalizzazione almeno le prostitute pagherebbero le tasse e il Pil sarebbe più alto. CINICO

È quantomeno cinico considerare lo sfruttamento del corpo delle donne come una economia “sommersa” da far emergere, per partecipare anch’essa alla crescita del Pil. “Ce lo chiede l’Europa”, è la giustificazione che porterebbe, in nome del dio-Pil, ad abbatterebbe ogni confine alla mercificazione femminile. 

4) Il lavoro sessuale (sex work) è un lavoro come gli altri. FALSO

Niente affatto, e lo dimostrano le testimonianze di chi è uscito dal “mercato”, che parlano di umiliazioni e soprusi continui. Ma è l’idea stessa di scambiare rapporti sessuali con denaro ad essere contraria alla dignità della donna e alla parità di genere. Nonostante la prostituzione sia regolamentata in diversi Paesi, la sessualità non è un bene commerciabile. Il termine “servizio sessuale” nasconde l’abuso; legalizzare il lavoro sessuale significa trasformare il corpo della donna in luogo di lavoro e legalizzare l’abuso sessuale. La differenza soggettiva con uno stupro è solo perché si è pattuito di non fare resistenza. Il “lavoratore del sesso” rinuncia alla propria sfera intima e mette sul mercato non solo la propria forza lavoro ma principalmente l’intimità sessuale, cosa che è strettamente tutelata in qualsiasi altro impiego. In ogni lavoro ogni sopraffazione, ogni abuso sono severamente perseguiti dalla legge, qui invece ne sono parte essenziale. Quindi, sex work non è lavoro. E non è nemmeno sesso.

5) Poter esercitare il sex work è un diritto umano. FALSO

Questo è il falso mito diffuso in particolare da alcune agenzie per i diritti umani (tra cui Human Right Watch, l’Oms, Unaids e Amnesty International), secondo il quale i sex workers sono un gruppo oppresso. In realtà il diritto che il modello del sex work difende è quello di chi compra, che vuole essere libero di offrire denaro per ottenere una prestazione sessuale. Chi la vende, invece, è solitamente in uno stato di bisogno. E le persone più deboli della società dovrebbero poter far valere ben altri diritti umani: al cibo, alla casa, alla sanità, al lavoro.

6) La prostituzione è una cosa, la tratta è un’altra. INGENUO

Chi sostiene questo finge di non sapere che per un cliente non c’è nessuna differenza tra “merce libera” e “merce trafficata”. Anzi, la maggior parte dei clienti cerca ragazze molto giovani, poco più che bambine. Come può credere che siano libere? In alcuni ambienti ultraliberisti la finzione è così avanzata che si cancella la parola tratta per parlare di migrazione per il sex work. Al contrario la posizione abolizionista, condivisa da una parte importante e qualificata del mondo femminista, “considera la tratta non il caso particolare di ciò che di malvagio accade nella prostituzione, ma che l’acquisto dell’accondiscendenza al proprio sfogo sessuale diretto sul corpo altrui – quasi sempre femminile – è violento e inumano di per sé” (Daniela Danna).

7) Non ci sono solo donne nel mercato del sesso. IRRILEVANTE

No, ma sono la maggioranza. La narrazione di persone transessuali e ragazzi gay che rivendicano di scegliere la prostituzione non può oscurare le voci, sempre più numerose, di ex prostitute (le sopravvissute) che denunciano il falso mito della libertà di prostituirsi.

8) La Legge Merlin ha fatto il suo tempo. Bisogna prendere atto che è superata. FALSO

La Legge Merlin stabiliva un principio tuttora valido: il corpo di una donna non può essere oggetto di regolamentazione pubblica, perché questo offende l’eguaglianza e la libertà di ciascuna e mette a repentaglio le coordinate di una convivenza civile. Non considera affatto l’attività della prostituta lecita o libera, ma vuole tutelare la donna che si prostituisce come una cittadina, e rivolgere il suo giudizio d’immoralità non alle prostitute ma al mercato che le sfrutta. La Legge Merlin non è superata, bensì attualissima: persegue la libertà dalla prostituzione, cioè dal non essere considerati una merce in vendita.


(Avvenire, 8 maggio 2019)

di Francesca Maffioli


Storia delle idee. Un’intervista con Mona Chollet a proposito del suo libro «Streghe», appena tradotto per Utet


«Le streghe sono ovunque» scrive Mona Chollet nel suo ultimo libro intitolato appunto Streghe (Utet, pp. 256, euro 18, traduzione di Eleonora Marangoni). Eloquente il sottotitolo dell’originale francese: «la potenza imbattuta delle donne», a disambiguare ogni dubbio di vittimismo o resa da parte delle protagoniste. Fin dagli anni Settanta l’immaginario femminista, secondo la giornalista e saggista franco-svizzera, è abitato dalla figura della strega che avrebbe preso sempre più spazio acquisendo una dimensione divisa tra il riconoscimento dell’oppressione storica e l’esaltazione della componente ribelle e rivoltosa.

Emblema delle persecuzioni, la strega è anche rappresentazione dell’inafferrabilità di quelle donne che non hanno voluto adeguarsi al modus vivendi delle varie epoche, già del 1976 Luisa Muraro ne La signora del gioco (riedito da La Tartaruga, nel 2006) aveva fatto risuonare le voci delle donne processate tramite l’esposizione diretta delle loro testimonianze. In Calibano e la strega (Mimesis, 2015), Silvia Federici interpretava la caccia alle streghe (XV-XVI) secondo la convinzione che le persecuzioni nei confronti delle donne avessero l’obiettivo di consolidare la supremazia del capitalismo, altrettanto utile è il volume di Barbara Ehrenreich e Deirdre English intitolato Witches midwives and nurses, pubblicato a New York nel 1973 (edito in Italia nel 1975 con il titolo Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna presso La Salamandra).

Incontriamo Mona Chollet nella sede di Le monde diplomatique, in un dialogo aperto alla comprensione delle similitudini tra l’antico e il moderno e a quelle che l’ecofemminismo continua a reperire tra la distruzione progressiva del pianeta e le istanze dominatrici dell’essere umano.

Lei scrive che i processi alle streghe non si sono svolti durante i secoli d’oscurantismo medioevale, bensì nel «mondo nuovo» – umanista – dove a regnare sarebbero dovuti essere razionalismo e chiarezza. La filosofa americana Susan Bordo parla di questo cambiamento epocale come qualcosa di drammatico…

Io stessa, nel mio immaginario, attribuivo al medioevo caratteristiche d’oscurantismo. Il processo di svalorizzazione è stato supportato da una logica «per opposizione» secondo cui l’umanesimo, l’antropocentrismo e la razionalità rappresenterebbero dei valori indiscutibili. In realtà la questione è profondamente più complessa, prova ne è che i processi alle streghe e le uccisioni di massa delle stesse si siano svolti perlopiù in epoca moderna. Invece di inneggiare ottusamente all’evoluzione della storia in senso forzatamente progressista sarebbe un onesto arricchimento culturale riconoscere che l’evoluzione in termini antropocentrici non esclude sistematicamente che si possa virare verso l’oppressione e la violenza sociale. I processi alle streghe sono nati da tutto questo, con il sovrappiù dell’oppressione sessista.

Le forme di controllo sui corpi delle donne e i processi per stregoneria cosa hanno in comune?

Nel mio libro ho voluto soffermarmi sulla questione, molto estesa, dei corpi non conformi e del rifiuto di ogni eccedenza che non fosse gestibile da parte del potere maschile. Durante i processi per stregoneria, ma anche prima (per la recluta delle colpevoli) le donne venivano sottoposte a una speciale e terribile «perlustrazione corporea»: venivano rasate, depilate e messe a nudo alla mercé di cosiddetti esperti che avrebbero dovuto riscontrare la presenza di «segni» della possessione demoniaca. Tuttavia la storia ci ha già detto molto a riguardo: bastava un neo, un’imperfezione, una cicatrice o anche nulla a scatenare accuse che generavano automaticamente condanne. Nei processi per stregoneria il corpo delle donne doveva essere visibile nella sua totalità e in seguito a sentenze sommarie questo stesso corpo era spesso bruciato e ridotto in cenere. Annientato. Per ritornare alla sua domanda mi sento di risponderle che in comune c’è sicuramente un desiderio di annientamento risolutivo del corpo delle donne, un grande timore per un’estraneità considerata fuori controllo, non dominabile nella sua interezza e quindi potenzialmente pericolosa.

[…]

Il movimento ecofemminista degli anni Ottanta nacque dall’idea che la cultura occidentale si comportasse con la terra allo stesso modo di come si comportava con le donne: entrambe erano identificate con i processi di creazione della vita e della morte. Trova possibile ricostruire un legame con la natura dalla quale le donne si sono autoescluse per timore di esservi identificate per forza?

Io ho scelto di non vedere il legame tra le donne e la terra come a un’intimazione essenzialista. Dico questo riconoscendo, come molte altre prima di me, i rischi dell’essenzialismo. Ma è importante rimarcare cosa hanno subito, in maniera analoga, le donne e la natura: esse hanno patito e patiscono del desiderio di domesticazione da parte dell’uomo. La «donna addomesticata» sarebbe infatti meno pericolosa, alla pari di un giardino domestico confrontato a una foresta. Gli studi ecofemministi poi hanno dimostrato come l’agricoltura, intesa come sfruttamento intensivo e abusivo della terra, abbia rappresentato una violenza molto simile a quella perpetrata per secoli sui corpi delle donne, e che continua a perpetrarsi. Trovo che i movimenti ecofemministi stiano riprendendo vigore e gli studi che continuano a farsi (come quelli riportati in Reclaim, a cura di Emilie Hache – Cambourakis, 2016) stiano generando delle rappresentazioni più eterogenee e insieme risolte del rapporto tra le donne e la natura.


(il manifesto, 7 maggio 2019)

di Luciana Tavernini


Intervista a Pinuccia Corrias sul libro Abbardente, Neos edizioni, Torino 2017


Nella Sardegna barbaricina del XV secolo, ai tempi della dominazione spagnola, si svolge la vicenda di Grixenda, una storia fatta di memoria mito e immaginazione.


Conosco Pinuccia Corrias da diversi anni soprattutto come femminista che nella scuola ha contribuito alla pedagogia della differenza. Vive tra Torino, la Sicilia e la Sardegna, ma ha vissuto a Milano, Roma e Napoli. Questo suo radicarsi in luoghi molto diversi le ha permesso di saperne vedere, con uno sguardo sia interno che esterno, le peculiarità che sa mostrare con la sua scrittura. Mi aveva commossa il suo racconto «ShalomInshallahAmén» con cui, nel 2014, aveva vinto il concorso Lingua Madre. Ho quindi accolto con curiosità l’uscita del libro Abbardente, una ballata sarda che, attraverso la voce della cantadora-narratrice, mi ha immerso in un mondo antico ma straordinariamente vivo per me oggi. Ho voluto quindi intervistarla sul suo ultimo lavoro.


1. La scrittura è un elemento fortissimo del fascino del libro: il ritmo di un racconto cantato, la lingua italiana con intarsi preziosi di termini sardi (balentía, faddhisa, laóre…), modi di dire e proverbi inseriti in maniera colloquiale («chi può s’aggiusti, chi non può s’impicchi», «i bambini appena usciti dall’uovo» eccetera), l’uso personale delle maiuscole come faceva Emily Dickinson, le frasi incisive e brevi. Si tratta di una scrittura che ha la forza di aprire squarci su un mondo sconosciuto e allo stesso tempo vitale, coinvolgendo tutti i sensi, in contatto con le e i protagonisti di questa storia che pian piano veniamo scoprendo. Capisco che questa lingua inaudita finora è fortemente viva per te e per come risuona in me che leggo. Come l’hai creata, qual è stata la sua sorgente?

Questa lingua è frutto di una vita emotiva e relazionale trascorsa dentro ordini simbolici e registri linguistici diversi, vissuta fin da bambina con una presenza attiva e riflessiva che, da quando ne ho avuto gli strumenti, si è sempre trasformata in scrittura. Da una parte l’italiano colto di mio padre, vissuto da giovane, tranne durante la guerra, a Firenze e Parigi. Dannunziano come la mia anziana maestra, insieme curarono da subito la mia scrittura e le mie abbondanti e ottime letture. Accanto a loro, la lingua ciceroniana del parroco – dottor Peana! -, maestro di Sacre scritture e di retorica. A Leopardi e Pascoli delle elementari si contrappose nelle medie la poesia ermetica del Novecento; quindi l’Iliade e l’Odissea riempirono i miei quaderni di parafrasi e commenti e la mia classe di appassionate discussioni. Dall’altra parte il mondo di mia madre, dei miei fratelli maggiori, delle donne del vicinato, delle feste popolari, delle gare di poesia estemporanea in sardo, dei riti e dei misteri… della vita, insomma. Abbardente è il succo di tutto questo. Il titolo, infatti,indica la grappa sarda che si fa distillando raspi di uve diverse.


2. La vicenda che narri è costruita come un’indagine, piena di colpi di scena, in cui fin dal prologo si sa che vi è stato, tantissimo tempo fa, un delitto: i soldati spagnoli hanno impiccato una donna. Il mistero da scoprire riguarda il perché quella donna si trovava sola nel paese. Porre al centro una donna ti permette di mettere a fuoco diverse personagge e personaggi in relazione con lei, delineando la storia di un’intera comunità, in cui privato e pubblico non sono separati, in cui la materialità dell’esistenza, la socialità, il rapporto con forze ultraterrene, il potere di chi opprime sono interconnessi. Su che cosa hai basato la tua ricostruzione storica e qual è la tua idea di storia?

Poca ricerca storica: la dominazione aragonese è una metafora e Oráne un luogo dell’anima. Il popolo sardo, come le donne, è assente dalla grande storia e predilige le parahistorias,racconti fatti, come il mio, di memoria mito immaginazione, per dare voce e dignità, con la poesia, alla vita che ostinatamente c’è dietro la marginalità. Antropologia più che storia; rimembranze, frammenti di un fare arcaico che intesse il presente, echi di voci lontane incapsulate nelle viscere, “scarti” che la storia ufficiale disdegna. Proprio come quelli che aveva gettato nella mia vita l’ossessione del vecchio professor Manca che da ragazzo aveva avuto sotto gli occhi quel lacerto di storia locale in un disordinato archivio notarile: una donna trovata sola in un paese abbandonato dagli abitanti per sottrarsi a un tributo esoso. Cosa potevo farne io? E perché sembrava appartenermi? La prima cosa che seppi fu il suo nome: Grixenda, pronunciato con la “x” dolce del Campidano da dove veniva mia madre. Portava uno scialle a fiori: quello sardo in cui mi ero avvolta il capo per andare a cercare in una città ignota l’altra che mi aveva strappata di colpo al mio “sogno d’amore”. E l’avevo già vista a Venezia nelle sculture di Antìne Nivòla, nato a Orani e vissuto a New York. Grixenda apparteneva a un popolo che reagiva all’ingiustizia e all’offesa sottraendosi. Come me. Chi mi conosce sa, infatti, che pur non essendo una biografia, in Abbardente non c’è niente che non parli di me.


3. La storia che racconti è ambientata in un paese dell’interno della Sardegna nel periodo della dominazione aragonese, quasi 600 anni fa, eppure la seguiamo sentendo che le forze che la muovono sono ancora attuali perché le donne e gli uomini che agiscono sono spinti da sentimenti, passioni, bisogni, forze tuttora presenti. Amori, tradimenti, silenzi, alleanze, sconforti, speranze, potere, sessualità, legami tra donne. Un microcosmo con continui e imprevisti cambiamenti che illumina il mondo in cui viviamo. Quali sono state le tue fonti, non solo letterarie, di ispirazione?

Il microcosmo è la mia vita e la scrittura è nata per rivelazioni, scavi e autorizzazioni di più di trent’anni di letture e riflessioni, spesso con altre donne. Ti farò solo degli esempi, perché il libro, oltre a un esergo, che delinea il percorso filosofico del testo, ha un’appendice, Note di guida alla lettura, con la traduzione e la spiegazione antropologica dei termini sardi e con l’origine letteraria e/o filosofica di determinate concezioni e modi di sentire. Nei Ringraziamenti inoltrerisulta chiaro il filo che lega luoghi e persone che hanno nutrito la lunga gestazione del testo e reso possibile la sua pubblicazione. Innanzitutto S. Atzeni mi ha dato lo stupore di capire come il brulichio di “sussurri e grida” che mi abitava aveva un timbro sardo, che poteva essere messo in parole nel modo come già Grazia Deledda aveva praticato, inventando una lingua italiana sapida di sardità. Le filosofe di Diotima misonostateessenziali per “mettere al lavoro il negativo” e riflettere sulla lingua materna. Christa Wolf mi ha autorizzata a dare voce e volto all’odio nella figura di Arrega Loj. E infine le mistiche del ’900, con la cui farina ho impastato il concetto di “identità vocazionale”. Chiamo così la consapevolezza dì sé a cui, come un cavaliere medievale, giunge, grazie alla grandezza delle donne che lo hanno amato e educato, Toriccu, servo-pastore non solo di pecore ma anche di creature umane.


4. Hai scelto di farci partecipare a riti della tradizione sarda, permettendoci di seguire gli esseri viventi, animali compresi, che li creano. Penso alla Sartiglia, alla panificazione ma anche alla realizzazione delle Prendas, ai canti funebri come l’attitu. Il rito nel suo farsi, con le emozioni che suscita, i ruoli definiti, non solo rivive ma si riesce a coglierne il significato profondo che apre a una concezione della realtà che supera il limite del solo visibile. Come hai scelto i riti di cui hai parlato e come sei giunta a capirne e mostrarne il senso?

Eccetto la Sartiglia, diventata da tempo un evento folcloristico, quelli che racconto sono i riti di una liturgia nella quale mia madre e le altre donne della mia infanzia trasformavano i gesti della quotidianità. È stato poi il riconoscimento dell’ordine simbolico materno e della mia genealogia biologica e culturale (dono delle femministe del pensiero della differenza) la chiave per dare significato a quei gesti. Tutte sono madri le personagge del mio testo. Nella realtà, nel sogno, nella follia o, come Grixenda, nell’ora della morte. Perfino Marigosa: la cavalla che – tutt’una con il Componidore – vincendo la Sartiglia, genera augurio di fecondità per la Terra. Perché la fecondità (non la maternità come istituto sociale o modello culturale), paradigma fondante dell’antropologia barbaricina, è il segno della relazione che misteriosamente connette l’Universo; il rito intende, nel suo farsi, mostrare e rafforzare questa mistica unità.


5. Le donne del libro sono depositarie di una sapienza che sanno trasmettere alle altre, con modalità diverse da quelle che vengono utilizzate a scuola. Si tratta di fare insieme, di narrare, di imparare il peso e la misura nell’agire attraverso l’osservazione dei comportamenti altrui, di conoscere i ritmi dei corpi, di tener conto dei sogni e delle premonizioni, di saper autorizzare in silenzio. Una sapienza collettiva che riusciva a farsi ascoltare anche dagli uomini ma che è stata negata o svalorizzata quando siamo entrate all’università. Quale bisogno ti ha spinta a vederla, chi e che cosa ti hanno aiutato? Che cosa è valido per noi oggi?

La durezza delle “madri di roccia” della mia infanzia pervade ogni pagina del mio testo e solo verso la fine si apre il primo spiraglio di dolcezza nel pianto liberatorio che unisce Angheledda, la bambina sempre senza misura, e sua madre. Da qui in avanti la potenza delle madri si trasformerà in sapienza amorosa che cambia il cuore degli eventi, perché sa trovare «nelle doglie della contingenza, parole capaci di dare voce al lato muto dell’esperienza e luce al mistero, interrompendo la catena del male e cambiando verso alla storia». È quella sapienza amorosa che le donne possono portare nella cura del mondo sempre: anche oggi. Io l’ho capita passando dal timore delle “madri di roccia” alla riconoscenza per le “madri simboliche” (p.122). Ma questa è un’altra… parahistoria.


Riferimenti bibliografici

– Sergio Atzeni, Apologo del giudice bandito, Sellerio Editore, Palermo (prima ed. 1986), 148 pagine, 9 euro

– Ivana Ceresa, L’utopia e la conserva. Una vita spirituale nella contemporaneità, Tre Lune Edizioni, Mantova 2011, 244 pagine, 24 euro

– Giuseppina Corrias, Dalle madri sarde alle figure di scambioin «Nati da donna. La mia genealogia femminile», a cura del Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile, Thélème edizioni, Torino 2002, 222 pagine, pp.93-126

– Giuseppina Corrias, Il coraggio della dipendenza. G. Deledda, “La madre” (1920) in «Il simbolico in gioco. Letture situate di scrittrici del Novecento», a cura di A. Ribero e L. Ricaldone, Il Poligrafo, Verona 2013, 283 pagine, 22 euro, pp. 15-22

– Grazia Deledda, Romanzi,volume I, Il Maestrale, Nuoro 2010, 1008 pagine, 12,90 euro

– Diotima, La magica forza del negativo,Liguori editore, Napoli 2005, 201 pagine, 13,50 euro

– Diotima, L’ombra della madre, Liguori Editore, Napoli 2007, 196 pagine, 15,50 euro

– Alicia Dujovne Ortiz, Giacinta, La Tartaruga Edizioni, Milano1981, 124 pagine, 6.800 lire

– Clarice Lispector, La passione secondo G.H., Feltrinelli, Milano 1991, 164 pagine, 5,68 euro

– Antonietta Potente, Qualcuno continua a gridare. Per una mistica politica, edizioni La meridiana, Molfetta 2008, 92 pagine, 13,00 euro

– Chiara Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio, Liguori Editore, Napoli 2001,148 pagine, 12,39 euro

– María Zambrano, Filosofia e poesia, Editore Pendragon, Bologna 2010, 150 pagine; 14 euro

– Christa Wolf, Medea, Editore E/O, Roma 2000, 197 pagine, 10 euro


(Intervista di Luciana Tavernini, Leggendaria n. 130, luglio 2018)

di Franca Fortunato

 

Scrivere con l’inchiostro bianco è l’ultimo libro della scrittrice di origine siciliana Maria Rosa Cutrufelli (Iacobelli editore), ospite, insieme alla giornalista e scrittrice Annarosa Macrì, venerdì 1° marzo a un incontro con alcune scrittrici calabresi – Eliana Iorfida, Daniela Rabia, Giusy Staropoli Calafati, Giulia De Sensi, Marilia Ciconte, Nuccia Benvenuto, Daniela Lucia – tenuto nel magnifico complesso San Domenico di Lamezia. La lodevole iniziativa, a cui ho partecipato insieme ad altre, che ha visto la presenza di qualche uomo e tante donne accomunate dall’amore per la lettura e la scrittura, è stata organizzata da Daniela Grandinetti, scrittrice, e Annamaria Persico giornalista e direttora di Reportage, giornale on line, insieme al Circolo dei lettori e delle lettrici Librellula in collaborazione con il Sistema Bibliotecario lametino e il Chiostro Caffè letterario. Un incontro “storico” l’ha definito la Macrì, perché «una cosa così in Calabria non si era mai fatta. Resterà negli annali culturali di questa regione». Scrittrici calabresi giovani, talentuose, piene di entusiasmo, a cui il libro della Cutrufelli indica, a partire da sé, la strada per chi voglia arrivare a scrivere in fedeltà a se stessa e al proprio essere donna. Un saggio in cui l’autrice ripercorre la sua esperienza di donna che scrive romanzi e che negli anni si è affermata come una delle scrittrici più importanti nel mondo letterario. L’amore per la lettura e la scrittura fa parte della storia delle donne e oggi, a differenza di ieri, di solo vent’anni fa, le donne pubblicano tanto, partecipano vittoriose a importanti premi letterari, tante sono recensite, più degli uomini, ma resta comunque un pregiudizio sui loro libri, è come se dovessero sempre dimostrare di essere all’altezza, di essere cresciute. I libri delle donne vengono recensiti soprattutto da altre donne, e «molte recensore preferiscono recensire uomini anziché donne, perché questo è come se fosse un di più, un punto in più nella carriera». Convinzioni da emancipate in carriera! E se è vero che la “tradizione letteraria” l’hanno scritta gli uomini, cancellando le donne, è anche vero che esiste una genealogia femminile di scrittrici – sconosciuta alle più – da cui ogni donna può attingere e imparare a scrivere narrativa, restando fedele a se stessa, mentre ancora molte sono le scrittrici, anche calabresi, che preferiscono rifarsi e affidarsi all’autorità di scrittori. Sta qui gran parte della forza della tradizione letteraria maschile, che si presenta come unica, neutra e universale. Gli uomini si sostengono a vicenda, si riconoscono e si danno autorità letteraria. E le donne? Sono molte in questa regione, e non solo, quelle che sostengono gli uomini, gli scrittori, nutrendo il loro narcisismo, supponenza e autoreferenzialità, come hanno dimostrato alcuni di loro, di cui ha parlato Annamaria Persico, in occasione del Salone del libro di Torino che hanno trovato “normale” che a rappresentare la Calabria letteraria fossero solo uomini, cancellando così le tante donne, giovani e no, che in questa terra si cimentano nella narrativa. Fare le vittime non serve, non paga, ma fare circolare autorità femminile, facendo riferimento l’una all’altra e alle grandi madri della letteratura e della narrativa, del passato e del presente, come Maria Rosa Cutrufelli insegna nel suo libro, questo sì che crea forza e libertà femminile, che non ha alcun bisogno del riconoscimento maschile. Dove siamo oggi? Dove ci collochiamo? Con quale libertà scriviamo? Sono domande che le donne che vogliono scrivere in fedeltà a se stesse si devono porre, come ha ripetuto nell’incontro la Cutrufelli. «Siamo diventate soggetto di scrittura, non siamo più muse ispiratrici, l’oggetto della scrittura maschile. Questa liberazione c’è stata». Una liberazione che a lei e a tante donne è venuta con la presa di coscienza femminista degli anni ’70. Da lì è iniziato un percorso, che lei racconta nel libro, partendo da sé, per cercare e trovare nella scrittura “una propria voce” che non fosse la ripetizione di quella degli uomini, una voce libera, “originale” nel senso di un ritorno alle “origini”, che per ogni donna è la relazione con la madre, reale o simbolica, rappresentata nel libro dal mito di Demetra e Core, la coppia madre figlia sulla cui rottura gli uomini hanno costruito la loro civiltà, la loro cultura, la loro tradizione letteraria, da cui le donne sono state prima escluse ed oggi incluse, ponendo se stessi come unico metro di misura per una donna che vuole scrivere. Scrivere con voce libera – come ha ripetuto la Cutrufelli – significa diventare soggetto della propria immaginazione, il che è un’impresa non facile, perché “le voci maschili”, che ti vogliono insegnare come devi scrivere, sono un coro potente, la loro tradizione letteraria, con il suo immaginario, è un coro potente. Sottrarsi a quel coro, liberarsi dalla colonizzazione culturale dell’altro, dall’immaginario maschile, è passo decisivo per una scrittura libera, su cui, come donne “non ci siamo interrogate abbastanza”, in Calabria mai. Interrogarsi sulla libertà con cui scriviamo, cercare una nuova strada nel romanzo, come in ogni altro campo, è cruciale per ogni donna che ambisce a diventare veramente soggetto della propria scrittura. È quello che hanno fatto le grandi scrittrici. L’importante, come ha ripetuto la Cutrufelli, non è tanto scrivere libri e farli pubblicare – magari a pagamento, il che è poco professionale – quanto interrogarsi sulla libertà con cui scriviamo, e a quale immaginario facciamo riferimento quando scriviamo. Di questa libertà fa parte il linguaggio che non è mai neutro – come invece insegna la tradizione linguistica, scritta dagli uomini, dove il maschile si è elevato a universale-neutro, cancellando la differenza femminile – ma è sempre incarnato in un corpo di donna o di uomo. La sessuazione del linguaggio da parte delle donne – come ci siamo autorizzate a fare molte di noi a partire dalla fine degli anni ’80 del Novecento – richiede un’assunzione consapevole della propria differenza e un darsi e dare all’altra l’autorità per significare quel “Io sono una donna” da cui si è partite, nel farsi soggetto di parola, pensiero e scrittura. È dalla libertà femminile nella scrittura, non solo in letteratura, che può scaturire un nuovo modo di guardare, raccontare, narrare la Calabria, fuori dalla complementarietà alla narrazione degli uomini, che hanno un loro schema narrativo ben consolidato. Libertà nella scrittura, è la questione da cui è partito l’incontro, questione poco indagata e poco interrogata anche lì. Alle donne che hanno organizzato l’incontro va il mio ringraziamento per aver creato l’opportunità di porre tra noi, per la prima volta, tale questione, che vale per chiunque di noi voglia scrivere, e mi auguro che possiamo riprenderla in altri incontri, in altre città, anche per moltiplicare, rafforzare e non disperdere quello che abbiamo iniziato a Lamezia.

 

(Il Quotidiano del Sud, 5 marzo 2019)

recensione di Simona Lunadei

 

Anna Paola Moretti, Considerate che avevo quindici anni. Il diario di prigionia di Magda Minciotti tra Resistenza e deportazione, Affinità Elettive, Ancona 2017, pp. 313.

 

Questa pubblicazione consta di due parti ben distinte e allo stesso tempo inaspettatamente coese: il diario di una adolescente, rara testimonianza femminile del lavoro coatto, e due saggi di Anna Paola Moretti. Il primo è una accurata esegesi del diario, il secondo offre un importante quadro storico sulla deportazione della popolazione civile. Tre scritture con un registro diverso, una autobiografia, un’analisi del testo e un saggio storiografico, che si integrano una con l’altra, in un crescente armonico. Se il diario ha una immediatezza, tuttavia lontana da ingenuità, la lettura appassionata e partecipe di Anna Paola Moretti disegna un incontro quasi complice e allo stesso tempo profondamente rispettoso. Infine la ricostruzione puntuale degli studi sulla deportazione e delle contraddizioni politiche del dopoguerra tra memoria e rimozione si arricchisce dell’analisi di un contesto particolare, quale quello marchigiano, in cui è radicata la vicenda familiare di Magda Minciotti.

Il diario di Magda Minciotti, pubblicato nel 2017, scritto tra il 1944 e il 1945, è un documento prezioso per diverse ragioni. Innanzitutto perché pone al centro il lavoro coatto, una infamia a lungo assente dalla storiografia sulla resistenza al nazifascismo. Questa ha avuto un centro di studi cadenzato dai soggetti presi in considerazione e dal contesto politico. In modo schematico immediatamente dopo la liberazione sono stati studiati i combattenti maschi organizzati nelle formazioni legate ai partiti di massa della repubblica, PCI e DC, poi a partire dagli anni Ottanta i resistenti non armati e le donne. Infine i militari che hanno rifiutato di giurare fedeltà alla RSI e sono stati internati in campi di concentramento nazisti. Ultima categoria presa in considerazione i deportati in Germania per il lavoro coatto, sui quali solo nel 2006 l’Aned ha avviato una ricerca-raccolta delle loro memorie. Un’assenza stupefacente visto che milioni furono le donne e bambine ebree, polacche, zingare, militanti antifasciste, partigiane, dissidenti costrette per anni a dissanguarsi nelle fabbriche del III Reich. I campi di concentramento a partire dal ’42 si trasformano in gigantesche fabbriche, alimentate da forza lavoro gratuita rastrellata in tutta l’Europa occupata. Tuttavia, come ha notato Brunello Mantelli, il confine tra deportati per motivi politici e/o razziali e lavoratori coatti è molto labile e ricorrere a queste classificazioni rischia di sviare la ricerca storica e quindi il giudizio politico sul nazifascismo. È possibile che questa rimozione sia dovuta anche alla scelta volontaria di molte e molti fuorviati da una propaganda che prometteva lavoro e cibo. Un’opportunità, rivelatasi ben presto ingannevole, che ha proiettato su di loro un’aurea infamante di collaborazionismo, cui è seguito un isolamento, condiviso peraltro con quasi tutti quelli che sono scampati alla deportazione. Basta citare per tutti gli scritti di Primo Levi e di Lidia Rolfi Beccaria, anche lei costretta al lavoro coatto presso la Siemens con ragazzine di appena 12 e 14 anni.

Magda Minciotti, appena poco più che adolescente, viene arrestata per rappresaglia nel luglio del 1944 in quanto sorella di Giacinto, un esponente della resistenza marchigiana, in cui era coinvolta tutta la famiglia. La stessa Magda con grande coraggio aveva sventato la distruzione di un ponte dove i nazisti avevano collocato della dinamite, dunque una partigiana, anche se il suo arresto non sembra motivato da questa azione. In realtà il suo giovane e prestante fisico risponde all’impellente necessità dell’apparato produttivo tedesco di mano d’opera gratuita. La pubblicazione di questo diario è preziosa perché getta una luce non solo sulle sofferenze dei vinti ma sul sistema di sfruttamento della manodopera da parte di importanti industrie tedesche, più che complici sodali con il nazismo. La Minciotti lavorò per la Siemens, che non a caso nel dopoguerra, malgrado sul suo sito sia costretta a menzionare il lavoro forzato, si è sottratta a qualsiasi inchiesta e ha avuto l’accortezza di bruciare tutto il suo archivio due giorni prima dell’arrivo degli alleati.

La lettura di questo diario sorprende per la maturità dei sentimenti, ben oltre la giovane età dell’autrice. Se da un lato vi è la descrizione puntuale dei disagi materiali, dalla fame al freddo, alla fatica, dall’altra c’è quasi un atteggiamento di sfida al nemico nel non voler manifestare le sue debolezze. Allo stesso tempo cerca di comprendere le sue compagne di sventura, anche quando le relazioni sono conflittuali. Difende a tutti i costi la sua dignità e il suo legame con la famiglia. È straziante la nostalgia della madre, così come il richiamo continuo ai valori mazziniani nei quali è cresciuta: la patria, la solidarietà, l’eguaglianza, non corrotti dalla prigionia. Simbolico è il fermo rifiuto a tagliare le sue lunghe trecce, quasi che in queste si concentrasse tutto il suo essere di prima della deportazione. Ciò che sorprende è anche la scrittura, colta, matura, complessa nel costrutto sintattico ed estremamente incisiva. Non a caso era stata una studentessa brillante, tuttavia il suo mancato inserimento nel sistema scolastico al ritorno dice molto sulla ferita irreparabile subita.

Un ritorno lungo e sfibrante, che reitera l’odissea di tutti i reduci, compreso il difficile reinserimento in una esistenza “civile”, minato da una grave forma di tubercolosi renale, contratta in Germania.

Un interrogativo nasce dal suo rifiuto di pubblicare il diario, come le era stato proposto dall’Anpi subito dopo la guerra, una prova che la memoria è un silenzio che attende, una prova di pazienza. Ma anche come ipotizza acutamente Anna Paola Moretti un rifiuto dalle contraddizioni del quadro politico della resistenza marchigiana dopo la liberazione, alle quali forse la Minciotti si sente estranea e probabilmente offesa.

Anna Paola Moretti riceve questo diario dal figlio della Minciotti e se ne prende “cura” con rara sensibilità e acume interpretativo. È difficile, fiumi di inchiostro sono stati dedicati a come “trattare” queste fonti, praticare un’intensa vicinanza e al contempo prendere le distanze da un soggetto che non può replicare. Altrettanto difficile è penetrare senza tradire l’esperienza dolorosa di chi consegna a un diario pensieri e parole. Una consegna anche gelosa della propria intimità, visto che la Minciotti aveva rifiutato di renderlo pubblico. Anna Paola Moretti è all’altezza di questa sfida e ci consegna non solo un diario, ma anche importanti indicazioni metodologiche.

Infine, ma non ultimo per importanza, il corposo saggio della curatrice sulla deportazione della popolazione civile. Un contributo essenziale a questa tematica a lungo trascurata dalla storiografia. La ricostruzione puntuale del dibattito scientifico si intreccia alle vicende successive alla liberazione dei protagonisti della resistenza al nazifascismo, in particolare nelle Marche. Le fonti archivistiche, la letteratura scientifica consultate e intelligentemente connesse alle memorie dei protagonisti tessono una narrazione equilibrata tra storia e memoria, come la stessa autrice menziona nel titolo del suo saggio.

(“DEP Deportate, esuli, profughe”, n. 39, gennaio 2019)


È disponibile in formato pdf la versione aggiornata al 2018 della
Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file (182 pagine – 3,2 MB) sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it

(www.libreriadelledonne.it, 20 febbraio 2019)

di Vittoria Longoni

AAVV, La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi a cura della Comunità di storia vivente di Milano, Moretti&Vitali, 2019

Una copertina elegante e sobria, un bel titolo, una nuova frontiera del fare storia: ecco come si presenta il libro che raccoglie gli scritti della Comunità di storia vivente. Una modalità che non si pretende esaustiva, ma che consapevolmente affaccia alla ricerca storica (nell’accezione più ampia possibile) e alla comunicazione tra donne una prospettiva nuova: accanto e oltre il paradigma sociale, che non viene però accantonato. La spirale del tempo evoca subito la possibilità di una circolazione viva tra passato e presente, in cui schegge, figure, fatti, momenti e persone del passato si ripresentano, ogni volta rivisitati, resi nuovi, potenzialmente riscattati o ricompresi e riscritti. Leggiamo storie di donne che partono da un proprio nodo interiore per analizzarlo insieme e per riattraversare, mediante la relazione, la propria storia e quella del mondo. Sono spesso storie di un dolore che chiede di avere parola e significato, figure di madri e di nonne che aspettano di tornare viventi nella memoria e nel racconto per trasmettere messaggi alle figlie, per riproporre parti di sé e della propria vicenda che erano state accantonate e trascurate, prospettive lasciate fuori dallo sguardo e dall’emozione. La storia in tutte le sue accezioni torna a essere viva e si gioca nel presente, diventa elemento di trasformazione del passato e del presente perché si modifica lo sguardo, perché la relazione tra le donne la fa cambiare di segno e di senso nel momento stesso in cui viene riproposta. Accanto a questi passaggi di tipo “autobiografico” (ma il termine è inadeguato, è una pratica di autonarrazione e di autocoscienza che passa attraverso un metodo rigoroso di ascolto reciproco di sé e dell’altra) e inscindibilmente connessi con essi, troviamo nel libro momenti di riflessione teorica e metodologica: di Marirì Martinengo, di Laura Modini, di Laura Minguzzi, di Luciana Tavernini, di Marina Santini, di Marìa Milagros Rivera Garretas. Un modo nuovo di sentire e fare storia, e insieme un modo nuovo di scoprirsi e di dirsi. Ringrazio la mia cara amica Laura Minguzzi per avermi donato il libro e per avermi lasciato una narrazione di sé e della sua “casa interiore” che non mi era mai sembrata tanto intensa e ricca, e tanto connessa con le origini. E ringrazio tutta la Comunità per aver allargato in più dimensioni il mio modo di intendere, sentire e praticare la storia.

 

(www.libreriadelledonne.it, 14 febbraio 2019)

di Mira Furlani

 

Premetto che il libro qui recensito – Anna. Una differente trinità di Nadia Lucchesi (Luciana Tufani editrice) è stato scritto nel 2014. Ne sono venuta a conoscenza per caso (un intelligente regalo di Natale) e sono rimasta colpita dal titolo e dalla copertina che mostra un dipinto del Masaccio e Masolino da Panicale (1424-1425). Il quadro l’avevo già visto alla galleria degli Uffizi di Firenze. Il dipinto mostra una allegoria trinitaria in cui Anna abbraccia Maria la quale, più sotto, in misura più piccola, tiene in braccio Gesù bambino.

 

Ci voleva che qualcuna scrivesse un libro su Anna, madre di Maria madre di Gesù. Non so se esistono altri libri su questo tema, ma quello scritto da Nadia Lucchesi non è solo coraggioso, è rivoluzionario. In esso si chiarisce e si delinea una trinità che si fonda sulla fecondità della genealogia femminile (Anna, Maria, Gesù, ndr.), non sulla logica, di fatto subordinativa e inclusiva, del rapporto tra Padre, Figlio e Spirito Santo, tutto declinato al maschile, nel segno di una universalistica omologazione (leggi in seconda di copertina).

Il libro di Nadia spazia in campo mitologico e archeologico, includendo storia, filosofia e teologia. Roba da far girare la testa, la mia intendo. Prende in considerazione non solo Antico e Nuovo Testamento (Bibbia), ma anche testi apocrifi e gnostici. Più precisamente, nel procedere della lettura, sono stata colpita dalla conoscenza che l’autrice possiede delle sacre scritture, canoniche, apocrife e gnostiche; in particolare il protovangelo di Giacomo, che io credevo di conoscere e che, invece, l’autrice mi ha insegnato a guardare con occhio libero dai pregiudizi.

Vado per punti, quelli che più degli altri mi sono rimasti impressi.

Molto precisa, bella e interessante la ricostruzione dell’annuncio dell’angelo che Anna, benché anziana, rimarrà incinta, ricevuto mentre si trova sotto un albero di alloro, il cui significato simbolico di sempreverde viene spiegato in modo affascinante.

Altro punto che mi ha attratta è l’instaurarsi della cultura patriarcale nel luogo di Delfi, ombelico del mondo, e il ruolo di Apollo, divinità degli invasori che occupa il santuario dove era venerata la Grande Madre, dea dei Pelasgi che vi abitavano. Io che ho viaggiato e che conosco abbastanza bene Delfi, attraverso il racconto del libro ho rivissuto, non senza emozione, i tempi delle mie scoperte che l’autrice racconta con chiarezza e precisione.

Il libro per me resta oggetto di studio, ignorante come sono di storia mitologica e archeologica; di quest’ultima però ho subito il fascino delle ricerche della famosa Maria Gimbutas. E nel libro si va oltre la Gimbutas: si mette in evidenza la figura della Grande Madre, attraversando con sguardo acuto L’Antico Testamento per arrivare al Nuovo Testamento, mostrando che dove troneggia Maria madre di Gesù, esiste anche e soprattutto Anna sua Madre, il cui ruolo nella storia della salvezza è primario pur se (volutamente?) ignorato. In questo senso, secondo me, è un libro rivoluzionario. I testi canonici cattolici hanno cancellato Anna, figura storica di potenza materna scomoda. Il libro la rimette al posto che le spetta, dando valore alla potenza materna generatrice di vita che corre dal paleolitico al neolitico, fino ai giorni nostri. Inoltre dimostra come nel popolo continui a persistere una forte devozione per la Anna, Madre di Maria, sia nell’arte che nei luoghi di culto.

Libro rivoluzionario, dicevo, soprattutto perché si pone alla base di una rivoluzione in atto, ancora silenziosa, ma potente come la potenza della verità quando preme per mostrarsi. Quale verità? Quella che la differenza sessuale e la potenza materna riguardano tutto, naturale e soprannaturale. E cominciano ad accorgersene anche i grandi teologi come Hans Küng (Hans Küng, 16 tesi sulla donna nella chiesa).

Ora proseguo solo con alcune note lampo per me molto importanti:

– dalla lettura del testo san Paolo non ne esce bene (pag. 116);

– la versione dell’Ave Maria approvata da papa Alessandro IV, salito al soglio nel 1254, in cui si recita: “…e benedetta Anna tua madre…” (pag. 116) è bellissima e la si dovrebbe rivalutare e diffondere come preghiera rivolta alla Madre Anna, alla figlia Maria madre di Gesù, la trinità differente, appunto.

– differenza e non fusionalità fra Anna e la figlia Maria (pag. 118);

– che cos’é la Grazia? (note: pag. 173);

– Anna si sente magnificata all’annuncio che sua figlia sarà una femmina (pag.119);

– in Teresa d’Avila il finito si annulla nell’infinito, l’immanente nel trascendente. Nella storia di Anna e Maria, invece, trascendenza e immanenza stanno insieme…

Chiudo con quest’ultima affermazione, che è anche il mio campo di battaglia.

 

(www.libreriadelledonne.it, 12 febbraio 2019)

di Alessandra Pigliaru

Poesia. «Matrilineare. Madri e figlie» nella poesia italiana dagli anni Sessanta a oggi, un volume collettaneo pubblicato dalla casa editrice La Vita Felice

Grande arca, enorme noce di latte o forse farina, colore di smeraldo, si impone con l’aria del mattino e resta in una bolla. A scorrere le pagine di Matrilineare. Madri e figlie nella poesia italiana dagli anni Sessanta a oggi (La Vita Felice, pp. 231, euro 18), si rimane affascinate dalla profondità sondata dalle tantissime poete che hanno indagato un tema tanto spinoso quanto inaggirabile. Molte le immagini utilizzate, molti i versi che sgranano l’impossibile restituzione di cosa sia una madre, di cosa sia una figlia. Di dove stia la relazione, punto medio o sottofondo. Le curatrici Loredana Magazzeni, Fiorenza Mormile, Brenda Porster e Anna Maria Robustelli, vanno a comporre una trama che sia plurale. E in questa tessitura è la scoperta: quale importanza abbia la relazione «madre-figlia» nella poesia italiana, arcipelago di storie, contesti e formazioni e che raccoglie voci poetiche tra le più acute del panorama nazionale. Da Nadia Agustoni ad Antonella Anedda, da Patrizia Cavalli a Mariangela Gualtieri, Mariapia Quintavalla, Anna Maria Farabbi, Jolanda Insana e poi ancora Elisa Biagini, Biancamaria Frabotta e numerose altre.

Fa bene Maria Teresa Carbone – nella prefazione al volume – a segnalare come la ricerca delle curatrici risponda a un progetto più ampio di riordino e postura critica militante che arriva da lontano. Altrettanto appropriato è appunto collocare questo volume all’interno di un percorso cominciato dieci anni fa (come collaborazione fra loro poiché, individualmente e insieme ad altre, lavorano con la scrittura da decenni). La collettanea del 2009 si intitolava Corporea (edita da un’altra lodevole casa editrice, Le Voci della Luna) e raccontava l’urgenza di saldare, di nome e di fatto, tutte le poesie di lingua inglese che ruotassero intorno al corpo, grande rimosso. Così è da intendere ciò che è arrivato dopo, non un esito ma un processo di significazione che, finemente, registra nella postfazione a Matrilineare Saveria Chemotti. Separazioni, spine, sguardi, contrappunti, malattie e morti; e poi ritratti di madri e di figlie, dialoghi a distanza; nelle quattro dense e articolate sezioni in cui è suddiviso il volume c’è un punto che accomuna. Non è quello di essere state figlie né di avere avuto una madre, ma è la costante ricerca di un Tu – originario, una dissennata e talvolta meditata interrogazione di come stiano le cose quando si arriva all’osso: il sapere di se stesse, insieme alla notizia che si vorrebbe avere del proprio caro bene.

 

(il manifesto, 2 febbraio 2019)

di Francesca Maffioli

Mondo in versi. Il numero 161 della rivista letteraria «Nuova Corrente» è dedicato alla figura, poco conosciuta, della poeta Fernanda Romagnoli

In un’intervista del febbraio del 1991, Attilio Bertolucci, interrogato sulla poesia contemporanea, scelse di citare tre poete: Alda Merini, Amelia Rosselli e Fernanda Romagnoli. Delle tre, l’ultima è certamente la meno conosciuta, nonostante le sue opere siano state editate da Guanda, Signorelli e Garzanti. Causa, forse, certo manierismo dal sapore dannunziano, oppure una non dichiarata ma fattuale indifferenza della critica nei confronti della poesia femminile.

A colmare questo vuoto, ci pensa ora il numero 161 della rivista letteraria Nuova Corrente (pp. 229, euro 22), che raccoglie dieci interventi dedicati all’opera di Fernanda Romagnoli (Roma, 1916-1986). Il volume, attraverso studi che si ancorano felicemente al dettato poetico dell’autrice, cerca di tracciare una parabola dell’opera omnia della poeta in relazione al panorama letterario italiano del XX secolo.

Come riporta Tatiana Bisanti nel suo saggio, dovremmo riflettere sulle parole usate nel 1943 dal critico Giuseppe Lipparini, nel tentativo di lodare Romagnoli. Descrivendo la sua lirica come «squisitamente femminile», accompagnava questa sua definizione con l’elogio dell’accuratezza formale della scrittura, nell’ambiguo sottointeso che le due caratteristiche fossero in contraddizione. E aggiungendo, a rincarare la dose già esagerata d’essenzialismo, che tale accuratezza fosse più istintiva che ricercata. Bisanti ha ragione nel dire che, invece, proprio tale ricercatezza può risultare manierata e che la maestria nella tessitura delle figure retoriche (in particolare l’allitterazione, ma anche l’anafora e la sinestesia) ci parla più d’artificiosità che d’istintività dell’espressione poetica.

Laura Toppan, nel suo saggio intitolato Povero corpo e sempre / sei campo di battaglia», Confiteor (1973) di Fernanda Romagnoli spiega la pregnanza della cifra tematica del corpo, nella più cruenta delle guerre, quella interiore e «civile» combattuta dal corpo contro sé stesso. Corpo come campo di battaglia delle proprie sofferenze: quelle relative biograficamente alla scoperta della malattia che minerà la salute fisica della poeta, ma anche quelle legate all’insistere dei conflitti familiari e dell’insofferenza al ruolo di casalinga. La rappresentazione della quotidianità si declina non solo nello svelamento dei rapporti interpersonali con i membri della propria famiglia – i genitori scomparsi, così come il marito e la figlia – ma anche nello straniamento provocato dall’orizzonte casalingo.

Proprio gli oggetti domestici, elementi così significativamente presenti nella poesia di Romagnoli, fanno capolino a ricordare quanto ipnotica e straniante sia la loro influenza sulle vite delle donne: «Qui, fra i robot smaltati di cucina / il rosso vivo d’invernali frutti / sul tavolo – fra i gesti abituali / che mitemente vanno consumandoti / con le mani anche l’anima – distratta –: / mentre accendi un fiammifero e la fiamma / sprizza verde veleno all’improvviso, / ecco rinasci intatta una mattina / d’alberi e odori sopravvento, e fiori / sino al fiore del seno. Ah, la tua fuga / libera, a perdifiato, sotto i piedi / levando uccelli. La tua gioia, il sangue / senza briglie, innocente. Ah, sulla nuca / la risata d’Adamo che ti coglie / prima ancora d’abbatterti… – Su, donna: / hai sognato, risvegliati? Tu – Eva? / Tu – massaia dal dito bruciacchiato?».

Anche Giorgia Bongiorno, a proposito della raccolta Il tredicesimo invitato (Garzanti, 1980), spiega come, attraverso l’uso di caratteristiche stilistiche che ne confermano il dissidio, il destino dell’individuo sembri situarsi nello spazio dialettico che contempla gli oggetti della quotidianità nella loro tra dimensione corporea – l’umano – e nello spazio della tensione religiosa e metafisica, della ricerca disperata d’assoluto – il divino. Si noti che quando si parla di «divino» in Romagnoli si intende l’orizzonte semantico riguardante la sfera del sacro ma anche quella, più inconsueta, dello «spettrale», del rapporto con i propri defunti. Mentre la tensione tra la dimensione metafisica e quella fisica degli oggetti occupa quest’ultima raccolta di Romagnoli, nelle prime raccolte a dominare era invece il paesaggio, seguito poi dalla variante faunistica: gli animali. Essi emergono in quanto personaggi non passivi di un universo simbolico in cui sono portatori, come in un bestiario medievale, di significati ulteriori.

Gli ultimi articoli del volume ricostituiscono poi i rapporti della poeta con altri autori italiani suoi contemporanei. Nell’utilissimo articolo di Ambra Zorat è riportato il fitto carteggio conservato al Vieusseux di Firenze intrattenuto dalla poeta con Carlo Betocchi e Nicola Lisi, necessario alla comprensione della dimensione psico-biografica dell’autrice. Seguono poi saggi in cui emerge la prospera intertestualità dell’opera di Fernanda Romagnoli, che lega il suo lavoro a quello di poeti stranieri come Emily Dickinson o Konstantinos Kavafis.

In particolare, il saggio di Lucia Aiello ci dice come la relazione delle due poete cammini sulle sponde del linguaggio, per cui l’esperienza del sé attraverso la parola poetica aprirebbe a zone di «possibilità» in cui la tradizione poetica patriarcale potrebbe essere ridiscussa, alla luce dell’emersione di una nuova e diversa poetica.

 

Il manifesto, «L’ipnosi degli oggetti quotidiani», 2 febbraio 2019

di Luisa Muraro

Anni fa, nella campagna piemontese, un ragazzo di leva (la leva militare esisteva ancora) uccise una ragazza con la quale si era appartato a fare sesso. La massacrò con una bottiglia rotta trovata sul posto. Di lei non sappiamo niente tranne che era giovanissima e che era africana. «Perché lo hai fatto?» gli chiesero i carabinieri. «Perché quando lo ha visto si è messa a ridere».

La ragazza uccisa perché aveva riso della piccolezza del membro virile del suo “cliente”, evidentemente non aveva esperienza. E non sapeva, né avrà mai il tempo d’imparare, che cosa vogliono, al novanta per cento, gli uomini che pagano per fare sesso, da Berlusconi al più sprovveduto degli adolescenti: essere rassicurati al cento per cento che sono veri maschi.

Il resto è letteratura, come si dice. Ed è proprio così, perché la letteratura, anche quella grande, e il cinema, anche quello di qualità, raccontano tante storie di prostituzione femminile che sono fasulle. Storie fasulle ma autentico aiuto all’insicurezza sessuale degli uomini così come al bisogno sociale di fare finta che non è questo il problema.

Tra queste storie è nota quella di Pretty Woman, un film del 1990 con Richard Gere e Julia Roberts. Tento di farne un riassunto: racconta il caso di un miliardario annoiato che, per finire, s’innamora di una donna che, da lui presa al suo servizio 24 ore su 24 per una settimana, doveva fare finta di essere quella che non era… Se mi chiedete che cosa lei fosse e che cosa doveva fingere di essere, non saprei rispondere, sono i misteri della prostituzione femminile nell’immaginario maschile. Ma nella fiction la pretty woman se la cava benissimo e alla fine sarà una donna felice. Il film è stato un grande successo.

Il mito Pretty Woman s’intitola l’inchiesta condotta da Julie Bindel sul mercato del sesso ai nostri giorni. Sottotitolo: Come la lobby dell’industria del sesso ci spaccia la prostituzione, editrice VandA per l’edizione italiana curata da Resistenza femminista.

Chi è Julie Bindel? Il libro dà qualche notizia, per esempio che è una giornalista britannica rinomata per le sue inchieste. Dalle sue parole risulta che è una femminista, sensibile al fatto di vivere in una civiltà che attribuisce agli uomini un potere sulle donne, potere che si esercita anche con la violenza. Secondo lei, pagare per avere a disposizione il corpo di un essere umano è una forma di violenza grave. Come Rachel Moran, pensa che la prostituzione sia uno stupro a pagamento.

Non scrive il libro per dimostrare queste cose, di cui è già convinta, così come lo sono, per l’essenziale, molte altre donne, fra cui la sottoscritta, e quegli uomini, quanti non so, che ci hanno riflettuto. Il libro è una grande inchiesta durata anni che Julie Bindel conduce per documentare quello che capita sul mercato del sesso in vari paesi del mondo. La sua attenzione è rivolta costantemente a valutare l’ordinamento giuridico del paese (proibizionista, pro-regolamentazione, anti-regolamentazione) alla luce dei vantaggi/danni/pericoli per le donne, la loro sicurezza e la loro libertà. Personalmente, lei sostiene il modello nordico creato nel 1999 dalla Svezia con una legge che non reprime la prostituzione in sé ma scoraggia il mercato del sesso reprimendo la domanda. Chiama abolizionista questa posizione.

Julie Bindel non conosce e quindi non discute l’ordinamento italiano basato sulla legge Merlin, che, al pari della legge svedese, non reprime la prostituzione in sé, ma che, diversamente da questa, non reprime neanche la domanda. E, per scoraggiare il mercato, ricorre alla repressione dei comportamenti di persone terze che si inseriscono nello scambio sesso-denaro avendo da questo qualche vantaggio, che si tratti dello sfruttatore o della padrona d’albergo. Legge geniale, messa in un delicato equilibrio, di cui c’è da temere che qualcuno voglia “migliorarla”. Con ciò non sono contraria al confronto con la legge svedese, anzi, purché fatto con cognizione di causa.

Il libro di Julie Bindel, in questo senso, è utile. Lo è ancor più in quanto esercita l’indispensabile funzione della carta stampata in un’epoca di enormi flussi d’informazione per via digitale, la funzione cioè di selezionare le notizie e di disegnare delle mappe di orientamento. Leggendo Il mito Pretty Woman ripensavo alle affascinanti battaglie di Anghiari dipinte da Vittoria Chierici (v. la rivista “Via Dogana” n. 68, marzo 2004). Al centro dei dipinti c’è una mischia: è la battaglia per lo stendardo, mi ha spiegato la pittrice. Anche nel libro della Bindel è riconoscibile in posizione centrale una battaglia, ed è quella della narrazione, secondo l’espressione che fa da titolo al testo di Lia Cigarini sull’ultimo Sottosopra.

Qui, nella Bindel, la battaglia è fra i banalizzatori da una parte, che dicono furbescamente: prostituirsi è un lavoro come tanti, anzi in certi casi è un servizio sociale. E, dall’altra, chi la sente invece come una grave ferita ai rapporti tra donne e uomini.

Questo tipo di battaglia, sempre più frequente nel regime del vero/falso del sec. XXI, è centrale nella politica del simbolico. Ma, perché valga la pena di combatterla e vincerla, c’è una condizione. Ed è che non affidiamo il suo esito soltanto a criteri esteriori. Il campo di battaglia non si riduce all’opinione pubblica e al conteggio dei voti o dei like, la vittoria nella battaglia della narrazione si raggiunge con parole che interpretano un sentire profondo e condiviso, quello di donne che desiderano il meglio per sé e di uomini che prendono coscienza.

Anche Julie Bindel cerca queste parole e offre a chi legge le conoscenze indispensabili non per schierarsi pro o contro ma per formulare le domande giuste nel modo giusto. Tra le domande, ne riporto una che sorge bruscamente nel capitolo intitolato «L’uomo invisibile». Dall’inchiesta di Bindel risulta che gli stessi compratori di sesso (i cosiddetti clienti) ammettono talvolta di avere (spesso?) comportamenti indegni o violenti con le donne. Domanda di lei: «Allora perché c’è così tanto sostegno nei confronti del compratore di sesso da parte della sinistra liberale?». Non è una domanda qualsiasi. Riguarda, infatti, una cultura politica di uomini, donne non escluse, che si è allontanata dal sentire comune per essere moderna, progressista, spregiudicata, all’avanguardia dei nuovi diritti. E si ritrova senza antenne per captare gli umori e i sentimenti di quelli che non fanno moda, tagliata fuori dalle sue risorse originali e, in definitiva, perdente. Sfogarsi sulla misoginia dell’avversario (o, tipica variante, sul suo razzismo) è inutile. Il partire da sé non è intimismo, è politica. Ma che sia un vero partire per andare verso l’aperto, e non un gingillarsi con le proprie buone ragioni.

(www.libreriadelledonne.it, 25 gennaio 2019)

di Elvia Franco

«L’ecofemminismo in Italia. Le radici di una rivoluzione necessaria» a cura di Franca Marcomin e Laura Cima è un libro che va segnalato. Un libro che va letto. Un libro che rivela la ricchezza dell’ecofemminismo in Italia a partire dal 1985. Un libro che trabocca di “ragioni seminali” in grado di svilupparsi, fiorire e fare futuro. Perché non c’è futuro senza il coraggio dell’ecofemminismo sul territorio, negli ideali, nel mondo.

Il libro è una polifonia di voci che testimoniano il tempo di lavoro dei Verdi del Sole che ride, e di tutto l’arcipelago verde, un tempo di entusiasmo, di speranze in cui sembrava di poter cambiare vivacemente il mondo in senso ecologista, antinucleare, pacifista attraverso idee forti assertive e idee forti critiche. Critiche rispetto alla gestione patriarcale dell’esistente, che si prefigurava sempre di più come globalizzazione, (leggi imperialismo) da parte delle élites economico-finanziarie e neoliberiste e come pretesa della tecnoscienza di gestire ogni aspetto della vita umana, e non, nell’orizzonte del profitto e del prestigio, coniugati al maschile.

Le tante idee forti, allora e oggi, riguardano le proposte per un’agricoltura rispettosa della terra, un’agricoltura che tiene cari gli insegnamenti di Vandana Shiva, per una mobilità sostenibile, per una scuola attenta all’alterità e alla complessità, per la conversione ecologica dell’industria, per la difesa degli animali, per favorire il parto in casa, per il rispetto delle differenze, per la consapevolezza di essere donne capaci di gestire l’esistente che si trasforma, ecc. (se è permesso, questa è immagine e metafora del corpo gravido accogliente che consente sviluppo e trasformazione).

Tutte queste posizioni non stanno a sé, ma confluiscono a formare un’unica sinfonia: la sinfonia verde della speranza e della vita in cui anch’io, mischiata a tante donne, ho avuto la mia piccola parte.

Ora i Verdi in Italia hanno perso quella forza utopica-concreta che avevano quando Laura Cima era stata eletta deputata nel 1987 e, poco dopo, presidente di un direttivo di sole donne. Come a indicare che la vita, il pensiero, le pratiche sono stimolate e vivono quando si delinea un orizzonte di senso femminile che fa respirare ed è accogliente.

Alcuni maschi delle sinistre (demoproletari, radicali…) confluiti opportunisticamente nei Verdi hanno mortificato questa esperienza di guida femminile e sono tornati loro in primo piano. Hanno di nuovo vinto, comunque perdendo. Perché lo slancio e l’entusiasmo del movimento sono stati assorbiti dalla voracità organizzativa-piramidale maschile, questa sì davvero universale, ma sempre più impacciata e debole, perciò più violenta.

Quei semi di verde e di speranza, gettati allora, hanno creato una coscienza diffusa. Oggi c’è un maggior interesse per l’agricoltura biologica, un maggior rispetto per gli animali, un’attenzione per la raccolta differenziata, uno svilupparsi della bioarchitettura, una sensibilità per una mobilità ecologica…

Certamente questi sono frutti maturati in quella prodigiosa stagione (fine anni ’80, primi anni ’90) in cui i Verdi, più rosa che verdi, sono stati protagonisti della politica italiana.

Ma anche in questo caso, non si può non fare un’amara e indignata constatazione.

La coscienza ecologista non maturava contemporaneamente insieme a una nuova e diffusa coscienza politica e la governance rimaneva, più forte di sempre, nelle mani delle élites neoliberiste che si gettarono a capofitto sulla coscienza “verde” delle persone per gestirla dal loro punto di vista. Per cui nonostante le piccole comunità laboriose, nonostante le piccole imprese ecologiste e rispettose della terra, le multinazionali capirono che avevano tra le mani una nuova occasione di profitto e non se la lasciarono scappare. Si potrebbe dire «Lasciamole fare, se fanno ecologia!». Ma non sarebbe da ingenui pensare che il motore del profitto, che ha fatto immensi disastri, sia anche quello che li risolve? Perché se fanno, per esempio, agricoltura bio qui, non la fanno forse anche sfruttando i migranti pagati in nero un niente, e con l’evasione fiscale conseguente? E magari anche con la distruzione di terre in altre aree del mondo, perché il profitto è il profitto e cinicamente si fa dove si può!

Oggi l’ecofemminismo è necessario più che mai. Oggi che si è posto il dramma delle migrazioni, l’inquietudine dei cambiamenti climatici, oggi che i viventi che abitano la Terra Madre sono oggetto di grandissimo interesse da parte della tecnoscienza che ambisce un po’ per volta a modificarli geneticamente, così come ambisce a completare del tutto l’espropriazione della donna dal processo riproduttivo con l’embrione ingegnerizzato e la costruzione prossima di grembi supertecnologici, proprio oggi le donne sono consapevoli della loro forza. E se il potere, ancora patriarcale, progetta anche di sostituire le relazioni vive con relazioni finte di robot come sorveglianti, amici, istruttori, mandando fuori campo gli affetti, la cura, la responsabilità di stare insieme solidali, le donne sono consapevoli che queste cose sono il loro modo di stare nel mondo e non staranno con le braccia conserte a guardare.

L’ecofemminismo è più necessario di sempre. È necessario che le donne prendano a governare il mondo che si trasforma e comincino a dare realtà all’intuizione femminile di un uomo caro, Alexander Langer, per cui i paradigmi dell’esistenza dovevano rovesciarsi da altius, citius, fortius, a lentius, profundius, suavius che sono i tempi della Madre Terra e della femminilità.

Il libro «L’ecofemminismo in Italia, radici di una rivoluzione necessaria» non solo è vivace, non solo è un concentrato di fermenti che attendono di fiorire, ma è anche, e soprattutto, utilissimo per riportare speranza, movimento e pratiche nuove a quest’epoca buia.

(L’ecofemminismo in Italia. Le radici di una rivoluzione necessaria, a cura di Franca Marcomin e Laura Cima. Giugno 2017. Casa editrice Il Poligrafo, Padova)

(www.libreriadelledonne.it, 17 gennaio 2018)