di Laura Minguzzi


Un libro sulla gratitudine, un racconto sulla riconoscenza alla madre e al padre, una restituzione simbolica di un debito: la nascita in primis, la crescita e gli insegnamenti. Belli e brutti, il negativo dopo il positivo. Uno spostamento interiore dell’autrice: non colpevolizzare la madre, non idealizzarla, non è un’icona, non va mitizzata la figura materna ma riscattata, nel bene e nel male. Questo è l’essenziale del racconto. Un passo obbligato per accedere all’ordine simbolico della madre e all’accettazione dell’autorità femminile nel mondo reale e farla finita con le recriminazioni e la richiesta illimitata di riconoscimenti, smisurata, un pozzo senza fondo… Trovo in quest’approccio un taglio che me lo avvicina alla pratica della storia vivente. Scegliendo la forma del memoir l’autrice riattraversa i suoi ricordi, le sue emozioni e con tocco leggero e accattivante anche il nodo della relazione con la madre reale. Riscattandola ricomincia a vederne i lati positivi, la sua concretezza materica, la pone nel giusto luogo, quello della riconoscenza, della gratitudine malgré tout.

Il tempo è l’adolescenza negli anni sessanta del secolo scorso. Due sorelle, una famiglia borghese ma con radici contadine. «Tra le cose buone, mia madre mi ha insegnato a cucinare. La preparazione del tortino di finocchi – avrò avuto dodici anni – era interamente a mio carico. […] Cucinando imparavo la misura che serve per tutto il resto. […] È tutta questione di togliere e mettere come quando si scrive e si dipinge.» Fin dalla prima pagina ho sentito delle forti assonanze con una scrittrice che io ho amato tantissimo e fatto conoscere alle mie allieve quando insegnavo francese e parlo di Colette. In particolare un romanzo, Le Blé en herbe (Il grano in erba). Al centro un’adolescente, la natura di una femminilità in erba, un’età acerba ma colma di energia e di promesse. Lo stile di scrittura me la fa ricordare: lunghi elenchi di nomi di fiori e di alberi, frutto degli insegnamenti materni, amore per la natura, per i dettagli della preparazione del cibo. L’incipit è una ricetta della madre e un abbozzo del desiderio di autonomia della figlia. Il padre le ha «insegnato a condire l’insalata prima il sale, poi l’aceto che lo scioglie e infine con l’olio, non viceversa»…


Francesca Avanzini, Quel che di buono, ed. Consulta Librieprogetti, 2020


(www.libreriadelledonne.it, 19 giugno 2020)

di Laura Piccinini


Jia Tolentino è bionda e filippina, cioè asian-american figlia di immigrati a Houston, ha trentun anni, è la più giovane reporter voluta e assunta nello staff dell’autorevole New Yorker, già segnalata dalle liste under 30 dei magazine preposti alla Forbes. Ha scritto un libro subito best-seller, definito “fondamentale guida al presente”. Seguitissima sui social in qualità di “influencer culturale”. Un nuovo tipo di star, la versione intellettuale dei dispensatori di marchi e stili di vita con relativi prodotti e cose da consumare. A differenza di loro, lei non vuole venderti niente, anzi, semmai invita a “riflettere” bene prima di credere a tutto quello che vedi, e il termine non è casuale. […]

Una generazione allo specchio, recita il titolo del suo volume, Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo (in uscita qui il 29 giugno per NR Edizioni). E il posto in cui si vede meglio come funziona lo scherzo dello specchio, l’abbaglio, spiega lei, «sono i social media, dove spesso gli individui pensano di star guardando il mondo, ma vedono solo se stessi riflessi, le proiezioni che hanno e quelle che gli rimanda la rete, che con i loro “data” li insegue e sa cosa vogliono vedere». Il trucco dello specchio è diventata una specie di formula, come un algoritmo che sta dietro a tutto quello che succede oggi. «Così ci ritroviamo una giovane popolazione fondata sulla truffa come etica generazionale. In un capitolo elenca le maggiori 7 scams, truffe, e loro derivate, legate alle promesse della new economy, dagli organizzatori di festival fantasma ai fondatori seriali di compagnie che falliscono (loro le chiudono e reinvestono, e gli ex dipendenti imparino come si diventa leader) […]».

Quando l’ha capito? La prima volta che ha sperimentato lo scherzo dello specchio è stato su se stessa, piccolissima.

«Me l’ha insegnato l’essere filippina. La stessa diversità può punirti o premiarti. Tu ti vedi uguale, un altro ti vede diversa. Da asian-american vieni “graziata” rispetto agli afroamericani perché assimilata ai bianchi, ritorni diversa quando nei giochi da ragazzini sei costretta a fare il Power Ranger giallo come il tuo “muso”, e non puoi identificarti nella bianca Baby Spice o nelle eroine dei romanzi, per fare gli esempi più innocui. Ma se cambi “narrazione” e contesto puoi essere, come me, estremamente fortunata. Perché improvvisamente tutte le cose che potevano essere viste come ostacoli – non avere avuto i soldi per uno stage a New York, niente college esclusivi tipo Ivy League – sono stati punti di forza. Credo che la gente si sia rotta di vedere in tv o leggere cose fatte e scritte da bianchi liberal della classe medio-alta. Ma quel piccolo choc, o grande choc da piccola, ha profondamente influenzato il mio modo di giudicare altri sistemi, il capitalismo truccato da mito della condivisione, il femminismo inglobato dal marketing o usato come marchio e alibi, come le girlboss, che se volete vi svelano la formula a colpi di conferenze a pagamento. Comincia in un modo e finisce in un altro. Illusione, disillusione».

Cominciamo dalle tre I, Illusioni, Internet, Identità. […] Identità. Cos’è che ce la dà oggi, da spiegare un giorno a sua figlia/suo figlio?

«[…] Quello che direi a un figlio è che la rete rischia di farti dimenticare che gran parte delle esperienze che ci fanno sentire individui completi – il sesso, l’amore, ballare a un concerto o perfino pregare – sono quelle in cui le identità sembrano dissolversi e confondersi. L’identità non serve a sentirsi vivi, contano le relazioni, i corpi».

Corpi, parliamone. Pensavamo di essere quasi immortali.

«E adesso abbiamo scoperto di no, che non siamo per niente virtuali. In quarantena e maternità ho letto il finale della trilogia di Hilary Mantel che impazza negli Usa, The mirror and the light [“Lo specchio e la luce”, ndr]. […] E c’è qualcosa di confortante nello scoprire che le epidemie sono parte della storia umana e se siamo qui è perché le abbiamo superate. […]»

Metterci il corpo, impegnarsi attivamente, un po’ come si dice da noi “metterci la faccia”, lei si è arruolata nei Peace Corps (l’organizzazione di volontariato internazionale).

«Già, il lusso di entrare in un negozio dopo il lockdown mi ha ricordato quell’anno in Kirghizistan dove negozi non ce n’erano, né acqua corrente, tornavi nella tua stanza sapendo che fuori continuava il genocidio. Fui arrestata. Avevo vent’anni e il virus che colpiva in patria molte di noi erano i disturbi alimentari, anoressia e bulimia. Arrivata là, non c’era tempo di pensare al corpo, se non a mantenerlo forte per non ammalarsi di cose tipo la tubercolosi, e darsi da fare per i corpi degli altri».

[…]

E adesso, i social network come li stiamo usando?

«Uno degli ostacoli psicologici della rete e che non c’è contesto, ci vedi scorrere roba idiota e ironia quotidiana e, come nei giorni appena vissuti, conteggi mortuari e tombe collettive nei parchi. Senza avere il tempo di cambiare stato d’animo. È quello che ci fa sentire sopraffatti. Ma sui social in quei giorni è circolata anche una dolcezza inaspettata, e i valori che Internet aveva esasperato sembravano offensivi e fuori luogo, facendo capire che mandare foto di vite pazzesche è un po’ da sociopatici. Abbiamo imparato a tenere più conto del fondale di fatalità che abbiamo dietro. Questa del coronavirus è una crisi completamente nuova, per la prima volta la nostra salute dipende da quella di cittadini più fragili e chissà che non faccia ripensare ad altre minacce, come il cambiamento climatico, non più come a qualcosa di lontano e separabile da noi, siamo interconnessi. […] Per questo seguo le vostre concittadine della Libreria delle donne di Milano, avevo letto il loro Sexual Difference [originale it. Non credere di avere dei diritti, ed. Rosenberg & Sellier 1987, ndr], quando è uscito il mio libro mi hanno mandato una calorosissima e-mail dicendomi che erano contente di sentire un legame tra generazioni».


[…]


(D – la Repubblica, 13 giugno 2020)

di Franca Fortunato


Lupini violetti dietro il filo spinato – Artiste e poete a Ravensbrück è l’ultimo libro della critica d’arte Katia Ricci, la cui pubblicazione ha coinciso con questo tempo di pandemia. Il titolo riprende una frase di una delle lettere che Etty Hillesum, morta ad Auschwitz, scrisse per esprimere la bellezza che lei riusciva a cogliere anche in un luogo di grandi sofferenze come il campo di smistamento di Westerbork. Capacità di cogliere la bellezza in situazioni estreme è quello che mostra di avere anche l’autrice nell’avvicinarsi e nel narrare le storie delle donne rinchiuse nel campo di concentramento per sole donne di Ravensbrück. Come hanno fatto a sopravvivere agli orrori del campo? Quali strategie si sono inventate? Quali rapporti, quali relazioni le hanno sostenute? Che cosa spinge l’autrice ad interessarsi di loro? Sono domande di fondo che accompagnano chi scrive e chi legge e che fanno del libro, come i precedenti dell’autrice, un testo di ricerca e di interrogazione di sé, della propria esperienza di donna in relazione all’altra, alle altre, pur riconoscendone l’incommensurabilità esperienziale. «Scrivere sulle donne del campo di concentramento di Ravensbrück ha significato per me non solo e non tanto fare un viaggio nell’orrore e provare sentimenti di pietà, di dolore e di sdegno – condivisi da chi legge – ma soprattutto è stato un viaggio dentro di me. Infatti la domanda più corrente che mi ponevo era perché mi interessasse tanto. Mi sono riaffiorate immagini della mia infanzia e giovinezza, che avevo rimosso, ma che mi sembrava non avessero la minima attinenza con la storia di cui mi occupavo. Poi ho capito che in qualche modo io e le donne di Ravensbrück avevamo qualcosa in comune: l’essere nate e essere state sottoposte, in una misura incomparabilmente diversa, alla stessa cultura patriarcale, che per loro si è tramutata in un’estrema violenza», violenza che riconduce l’autrice a sua madre, alla violenza del padre a cui lei bambina ha assistito. Da qui il desiderio intimo e profondo che la spinge verso le donne del campo per riscattare sé stessa, la madre, loro e tutte le donne che subiscono la violenza maschile, da un sistema patriarcale che le vuole vittime. Nell’orrore del campo, come nella vita della madre, pur nell’incomparabile diversità, lei cerca e trova un’immagine altra di donna/e, trova grandezza, forza, coraggio, creatività, umanità, senso di sé, guadagnate attraverso il primato delle relazioni, la solidarietà, l’amicizia tra donne, che nel campo “davano dignità”.

Un racconto diverso da quello che comunemente accompagna la narrazione della deportazione e dello sterminio che, se pur accomuna nella sofferenza donne e uomini, cancella la differenza femminile che l’autrice, invece, indaga e narra attraverso le testimonianze delle sopravvissute, delle poesie e dei disegni che hanno prodotto. Tra il 1939 e il ’45 scrissero ben 1200 poesie di cui alcune riportate nel libro. Scrivevano inventandosi vari stratagemmi e aiutandosi l’una con l’altra. Scrivevano per piacere, per lasciare un ricordo di sé, per testimoniare un avvenimento; scrivevano “perché scrivere era salvarsi” come il raccontarsi. Si raccontavano e si scambiavano le ricette di cucina e quasi le recitavano ad alta voce a turno, traendone un grande conforto. La sera, distese nei loro giacigli, o durante il lavoro nelle cucine a pelare patate, si raccontavano reciprocamente storie, trame di libri o opere teatrali, come appare nei disegni realizzati dalle artiste del campo. Frammenti di vita quotidiana, veri documenti e testimonianze di quanto succedeva nel campo, sono quei disegni realizzati con carte e mozziconi di matite sottratte dalle deportate che lavoravano negli uffici. Il libro ne contiene 42 che l’autrice legge e interpreta. La maggior parte dei disegni furono distrutti dalle SS che non volevano testimoni. Ma per fortuna una parte è rimasta e alcune sopravvissute, dopo la liberazione, sono riuscite a rifare molti di quelli andati perduti.

Un libro originale, reso unico dallo sguardo che l’attraversa, che vede e fa vedere, nonostante l’orrore che non viene taciuto, la bellezza che teneva insieme la vita di quelle donne, la vitalità, la speranza, l’amore, l’umanità che fecero di loro delle sopravvissute non solo e non tanto nei corpi quanto nelle anime. Un libro da leggere e fare conoscere, in particolare alle nuove generazioni di donne e uomini.


Katia Ricci, Lupini violetti dietro il filo spinato – Artiste e poete a Ravensbrück, Luciana Tufani editrice, pagg. 105, €14,00.


(Il Quotidiano del Sud, 6 giugno 2020)

di Luisa Muraro


Con Francesco Pacifico intendo l’autore di Io e Clarissa Dalloway, sottotitolo: Nuova educazione sentimentale per ragazzi, edito da Marsilio di Padova, nell’anno (o: nel primo anno) della pandemia da covid 19, cioè nel 2020. Altra precisazione: i “tutti” del titolo sono un maschile plurale che vuol dire tutti al maschile, non comprende donne. Ho ancora in mente la protesta di quello studente che mi disse: perché noi ci chiami “i maschi” e loro invece sono le ragazze, non le chiami “le femmine”? Colpa della grammatica che si è fatta impressionare dal maschile totalizzante, gli ho risposto, e me lo impone sempre al plurale, anche quando il maschio è uno in uno sterminio di femmine. Siamo già in argomento.

C’è una minoranza di uomini che scrivono usando il maschile al maschile, cioè tenendo presente il fatto della (loro) differenza sessuale. Di alcuni sono diventata amica. E nulla di quello che dico deve risuonare come una critica nei loro confronti. Ma, allora, perché tra questi Francesco Pacifico è quello che mi è piaciuto di più? Perché lo fa meglio di tutti. Lo sa fare, semplicemente. Detto nel gergo femminista: è uno che sa fare autocoscienza. Non: lo sa fare come una femminista! Ma come non avevo mai sentito un uomo farlo con altrettanta bravura. Sa mettere in parole la consapevolezza di essere quello che è, un uomo di sesso maschile, e lo fa senza caricature, senza trascenderla, senza dogmatizzare, senza aggirare la cosa con teorie negazioniste, senza denigrare né denigrarsi.

Come ci riesce, mi sono chiesta.

La risposta è relativamente semplice, non dico facile. Ci riesce perché è uno scrittore e ha applicato il suo saper-fare alla questione di dire “io sono un uomo” senza ingarbugliarsi. L’ha risolta? No, ma ci ha dato un ottimo esempio su un tema importante, quello della formazione sentimentale. Io penso, anzi, che una soluzione una volta per tutte non ci sia, penso che le difficoltà (per non dire le contraddizioni) di essere un essere umano in due versioni, maschile e femminile, si ripropongono fatalmente. Mi spiego. La vita, per riprodursi, a un certo punto ha inventato la sessuazione e non ha cambiato idea, per cui noi siamo una sola specie in due versioni, entrambe indispensabili alla sua conservazione e riproduzione, ma non ugualmente indispensabili, due versioni irrimediabilmente asimmetriche.

Come si affronta, senza ingarbugliarsi, questo nodo che non si scioglie? Come fa in pratica l’autore di Io e Clarissa Dalloway?

Lo ha fatto così come ogni scrittrice e scrittore sa che si fa, anzi così come la lingua materna prima e poi quelle che impariamo, se e quando ci diventano amiche, ci insegnano che si può fare, e cioè inventando delle mediazioni. In ciò consiste il saper scrivere. E, in generale, il saper-fare proprio della cultura. La cultura è un insieme di mediazioni, che gli umani inventano, trasmettono, cambiano, rifiutano, accettano, impongono… Anche il presunto primato del maschile sul femminile si è imposto come una mediazione che, bene o male, più male che bene, ha funzionato per secoli. E che, si tende a pensare oggi, è stato il modello di ogni ingiusto ordine gerarchico tra esseri umani, divenuto non più accettabile e questo anche per merito del femminismo. Esemplare per la sua estrema semplicità trovo, nelle rivolte provocate negli Usa dall’uccisione di George Floyd, il gesto di una manifestante afroamericana che abbraccia un poliziotto che si è inginocchiato… mediazione effimera? Forse, ma chi lo sa?

La mediazione escogitata da Francesco Pacifico è riassunta nel titolo del suo saggio sull’educazione sentimentale dei maschi giovani. Consiste nel confronto tra due personaggi creati da due grandi della scrittura letteraria, Virginia Woolf e Stendhal… Mi sono interrotta perché ho sentito affiorare l’idiozia di voler riassumere quello che si può cogliere solo con la lettura, alla quale il mio commento vi invita.

Scoprirete così il segreto dell’eccellenza che attribuisco a questo autore e cioè che, prima di vedere nella differenza sessuale un fatto oggettivo, si tratta di vederci e farne una verità soggettiva, che illumina la scrittura. O, detto meno misticamente, trovare il passaggio dal dato anatomico, quello che ci accomuna con il mondo animale, all’ordine simbolico, quello del nostro essere animali parlanti, cioè capaci di dire il vero o di ignorarlo o di falsificarlo…

Se mi chiedete: che ne è della transessualità? Forse che le trans non parlano? Forse che non sanno fare il passaggio? Certamente che lo sanno fare, lo fanno senza piegarsi alla deduzione del loro essere uomini dal dato anatomico. Neanch’io mi sono piegata a una simile deduzione (ma ho accettato il dato) e, quando sono interrogata sul cosiddetto pensiero della differenza, preciso che è il pensiero del senso libero della differenza sessuale. “Io sono una donna” lo dico liberamente. La sessuazione non è libera ma il suo significato umano lo è o può diventarlo. Forse serve tener presente che la differenza sessuale non è una legge di natura come la legge di gravità, è un’invenzione della vita nella sua evoluzione, alla quale i viventi umani collaborano per il meglio o per il peggio. Cioè liberamente.


(www.libreriadelledonne.it, 5 giugno 2020)


Jolanda Guardi, che insegna Letteratura araba all’Università di Torino, e la giovane regista teatrale Silvia Rigon introducono a una serie di conversazioni su Le 1001 notte,mostrandone l’autorialità femminile, ipotesi più volte sostenuta anche in campo accademico, non solo perché protagonista e narratrice è Sherazade in relazione con la sorella Dunyazad, ma anche per i modi di agire delle donne in questo capolavoro della letteratura mondiale. Ci parlano anche del progetto teatrale di Lidelab che ha già all’attivo tre spettacoli ispirati al libro e capaci di aprirci prospettive sul presente. Vedi il video di introduzione n. 0

La prima conversazione è dedicata all’eros. Attraverso un intenso dialogo, Jolanda Guardi e Silvia Rigon ci fanno scoprire la forza dell’eros femminile ne Le 1001 notte. E raccontano di uno spettacolo e di un libro ad esso connesso, dove Sherazade diventa maestra di libertà anche per noi oggi, mostrando le sue fonti sulla scienza dell’erotismo, come il passaggio di sapere tra donne anziane e giovani, di cui con incontri intergenerazionali lo scorso anno si è realizzata una possibilità. Un distillato del sottile profumo del piacere che coinvolge tutti i sensi. Vedi il video n. 1.


(www.libreriadelledonne.it, 23 maggio 2020)

segnalazione di Luciana Tavernini


L’importante convegno Mater Iuris, tenutosi alla Facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali di Milano il 29 novembre 2018, ha visto confrontarsi studiose di diverse università (oltre a Milano, Cagliari, Roma, Pisa, Trieste, Trento, Parigi) e di varie discipline, dal diritto alla sociologia, dalla linguistica all’economia e alla filosofia, per ragionare su come “fingere la simmetria dei sessi per applicare la parità al diritto di famiglia è un’ingiustizia che consolida la prevaricazione del sesso e del genere maschili sul sesso e genere femminili”. La procreazione non è simmetrica e dunque anche le norme che la riguardano non possono essere simmetriche. “Sotto la rivisitazione paritaria e neutra, che ha interessato nel corso degli anni il diritto di famiglia, sembra essere all’opera ancora, o nuovamente, un diritto prevalente del padre.” Si tratta di osservare che “anche le relazioni familiari di cura nella maggior parte delle famiglie sono squilibrate a sfavore delle donne, che in famiglia svolgono la maggior parte del lavoro – domestico e di cura. Ma la simmetria è pretesa e applicata nel diritto vigente e in molte proposte di riforma”.

Il convegno ha offerto la possibilità di ripensare, alla luce del patrimonio del pensiero femminista nel diritto, questa pretesa e questo assetto.

Ora è possibile leggere online o scaricare, dal sito di Daniela Danna, il volume con gli interventi di diverse partecipanti, Federica Bastiani, Francesca Coppola, Daniela Danna, Sofie della Vanth, Mariachiara Feresin, Barbara Katz Rothman, Cristina Luzzi, Patrizia Romito, M. Dolores Santos Fernandez, che con lo sguardo della differenza sessuale si sono confrontate su temi attuali come: asimmetria giuridica tra i sessi; procreazione; affido condiviso; bigenitorialità; maternità surrogata; conciliazione lavoro e famiglia; violenza contro le donne; amore; matriarcato; aborto; separazioni; etica delle relazioni.


Mater Iuris. Uscire dalla simmetria giuridica dei sessi nella procreazione (Milano: Editrice XXD 2020). In libera distribuzione a questo link

http://www.danieladanna.it/wordpress/wp-content/uploads/2020/05/Mater-Iuris.pdf


(www.libreriadelledonne.it, 14 maggio 2020)

Recensione di Doranna Lupi


Marcel Gauchet, importante filosofo francese, nel suo libro La fine del dominio maschile riesce a mettere a fuoco, con chiarezza e lucidità, alcuni nodi cruciali di una realtà che sta cambiando velocemente, di un passaggio di civiltà a cui tutte e tutti stiamo assistendo più o meno consapevolmente. Come già anticipava nel 1996 il Sottosopra Rosso della Libreria delle donne di Milano, il patriarcato è finito ed è una cosa talmente grande che, per essere vista, domanda l’impegno di una presa di coscienza. Più di vent’anni dopo Gauchet, osservando questo processo in atto, sostiene che ciò a cui stiamo assistendo è talmente enorme da suscitare incredulità, ma l’apparente indifferenza che provoca nasconde un sollievo generale, perché il dominio maschile rappresentava una costrizione per tutti: donne e uomini. Si trattava di un assetto sociale plurimillenario profondamente radicato e ora, con il suo crollo, abbiamo la straordinaria opportunità di esplorare, penetrare e comprendere le ragioni di fondo che lo hanno determinato.

Dove, nella notte dei tempi, è prevalso il dominio maschile gli uomini si sono dotati di dispositivi le cui chiavi di volta erano il potere dello spirito e il potere della forza, ossia la religione e la guerra. Alle donne, quindi, il dono della vita, la cui appropriazione sociale da parte maschile era all’origine della subordinazione femminile; agli uomini la vittoria sulla morte attraverso la guida religiosa e politica della società, dettando leggi, ispirando codici e guidando le condotte. Un sistema di ruoli in cui era l’anatomia a segnare i destini e a regolare la convivenza. La cellula base era la famiglia, depositaria delle virtù di autorità e obbedienza, che consentivano di mantenere o ricostruire un ordine sociale fondato sulla tradizione.

La modernità occidentale ha rielaborato le figure tradizionali del maschile soprattutto a partire dal XVIII secolo attraverso la dimensione del “pubblico”. Si diffonde così lo spirito della cosa pubblica e dell’interesse generale dei cittadini, liberi individui di diritto. Tutto l’insieme dei rapporti sociali viene rimodellato su di una tacita dissociazione tra ciò che riguarda tutti e ciò che riguarda soltanto se stessi, tra il pubblico e il privato, separando la sfera sociale politica ed economica dalla sfera domestica. L’autorità del padre, che comandava un gruppo, una stirpe, un clan, si restringe così al nucleo familiare. In questa prima fase, pur assumendo teoricamente l’uguaglianza degli esseri umani e attribuendo alle donne una individualità giuridica, nella pratica è stato negato loro l’accesso all’universo sociale pubblico, monopolizzato dagli uomini, confinandole nel privato domestico.

Negli anni Settanta del Novecento una svolta globale ha dissolto ciò che ancora era rimasto del vecchio ordine. Un vero e proprio terremoto antropologico, che ha cambiato completamente le condizioni della riproduzione biologica e della riproduzione culturale, imponendo, molto velocemente, un cambiamento di norme e valori. L’ordine delle priorità si è rovesciato: la famiglia è stata affidata alla libera disponibilità dei suoi membri, perdendo la sua portata collettiva. Nel nuovo ordine esistono solo più individui di diritto che dispongono liberamente della propria sessualità e della facoltà di riprodursi. Diventare genitori non è più un atto che coinvolge l’intera società, bensì una scelta che riguarda solo i genitori, comportando anche problemi di natalità, poiché il figlio del desiderio è più raro di quello del caso. Uno degli indizi più chiari di questa rottura è stato proprio il rapido liquefarsi della figura del padre La deistituzionalizzazione della famiglia ha svuotato di senso la figura paterna. Non è più necessario che il padre sia un capo e che il capo sia un padre. L’autorità si è depatriarcalizzata e il dominio maschile ha perso il suo più solido punto di appoggio.

Secondo l’autore, però, il colpo di grazia non è arrivato dall’importantissima e necessaria lotta per l’uguaglianza delle donne, bensì dalla presa in carico, da parte del politico, del lavoro simbolico istituente della società stessa. Nell’ordine precedente la religione e la politica ponevano la differenza dei sessi nel cuore dell’essere-in-società e della sua perpetuazione. Ora, nel nuovo simbolico, esistono solo individui di diritto, imparzialmente e oggettivamente uguali e neutri. La società degli individui vive tuttavia una profonda dissociazione tra ciò che i suoi membri devono condividere in quanto uguali, con identici diritti, e ciò che riguarda solo loro, in virtù della loro libertà di singoli, del loro sentire soggettivo secondo l’emozione, l’empatia per la specificità di ognuno, la promozione dell’individualità privata. La differenza non è più tra i sessi, ma negli individui stessi. Non si sceglie il proprio sesso, ma si ha la libertà di scegliere in che rapporto stare con questa dimensione del proprio essere. Per questo, sostiene Gauchet, non ha senso pretendere un superamento statutario della parzialità sessuata tanto quanto non ne ha cristallizzarsi in essa. Con ogni evidenza, comunque, l’emancipazione femminile è stata il cuore dell’avvento di una società degli individui, la sua massima espressione, e la detronizzazione pacifica del maschio ha portato anche a un’emancipazione maschile, poiché il dominio e i privilegi avevano un prezzo molto alto. I vincoli della virilità e gli obblighi che accompagnavano il monopolio dell’esistenza pubblica erano pesanti.

Tanto che la gran parte degli interessati ha accolto la fine del proprio regno senza troppo dispiacere: mai dei dominanti si sono accomodati con tanta facilità all’abbandono delle loro prerogative. La verità è che questa fine ha rappresentato la liberazione da un fardello anche per loro, e infatti rarissime sono le nostalgie per l’antico regime. Questa rivoluzione ha di bello che anche i presunti perdenti ci hanno guadagnato (p. 49).

Senza dubbio la fine del dominio maschile ha sconvolto le relazioni tra i sessi e siamo ancora lontani dal raggiungimento di un nuovo equilibrio. Ora che procreare e creare una famiglia non rispondono più a imperativi sociali e a precisi codici di comportamento, gli appartenenti ai due sessi possono manifestare attitudini e prospettive esistenziali potenzialmente divergenti. Infatti è sempre più evidente una discordanza dei desideri tra uomini e donne. Nell’universo maschile l’autore mette in evidenza la disaffezione scolastica riscontrata nei giovani uomini e una controcultura dell’immaturità, conseguenze naturali della perdita nella società di responsabilità paterna. Un altro dei segni distintivi è la pornografia, che evidenzia un rapporto con la sessualità per nulla interessato alle reali aspettative femminili, nel segno della dissociazione e del rifiuto di qualsiasi legame con la procreazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, le donne non si riconoscono in questa strumentalizzazione erotica. Uno dei principali motivi di separazione delle coppie resta però la discordanza dei desideri rispetto alla procreazione. Mentre un numero significativo di uomini vivono la paternità con un senso di rifiuto o di rassegnazione, la gran parte delle donne aspira a conciliare maternità desiderata e vita professionale. Inoltre, a fronte del rifiuto maschile, molte donne decidono di fare famiglia a prescindere dal padre.

Oggi, con ogni evidenza, esiste e coesiste di tutto, e le situazioni descritte da Gauchet sono accompagnate da controtendenze molto significative. Accanto al rifiuto di una funzione paterna senza più un contenuto preciso emerge, infatti, lo sforzo di reinventare la paternità elaborando nuovi significati, dotandola di un’identità adatta alle circostanze. All’opposto della discordanza e dell’incomprensione tra i sessi è all’opera la ricerca di una rinnovata alleanza tra uomini e donne: Il disamore reiterato si accompagna a eroiche esplorazioni amorose che spingono gli esseri ad affrontare insieme una verità su se stessi che le convenzioni avevano sempre imposto di tenere nascosta (p. 58).

In questa diversità di linee di condotta però giocano molti fattori: il diverso livello di educazione, gli strumenti e l’inventiva che abbiamo a disposizione per giocarci come individui, per affrontare la complessità delle scelte e la vastità delle loro conseguenze. Purtroppo la libertà che abbiamo guadagnato si accompagna ad una disuguaglianza nascosta ma vertiginosa di mezzi e questo è un fattore che pesa e peserà molto per quanto riguarda gli esiti di questa trasformazione.

Per concludere, il filosofo francese entra nel merito delle ripercussioni simboliche provocate dalla rivoluzione tranquilla dell’uguaglianza,che ha sconvolto la figura dell’autorità paterna. Il principio di uguaglianza comporta un resto irriducibile: se le donne possono fare tutto quello che fanno gli uomini, non è la stessa cosa per gli uomini, che non possono procreare. Le donne hanno acquisito con l’uguaglianza lo status di individue di diritto e attrici sociali, in più mantengono la differenza costitutiva del potere di partorire. Il ruolo materno diventa così la figura della responsabilità per eccellenza, di esemplarità e quindi di autorità che guida senza imporsi. Non un dominio femminile né un regime matriarcale, bensì, una volta garantita l’uguaglianza tra i sessi, la nuova autorità materna ispira il modo in cui l’uguaglianza verrà applicata, lo stile dell’azione pubblica, la trama di relazioni che si stabiliranno. Alla freddezza astratta e all’impersonalità istituzionale predisposte dalla società degli individui di diritto, i valori materni aggiungono l’attenzione alla singolarità, l’empatia e la fermezza benevola per accompagnare gli individui verso il loro bene. Definiscono così il modello della buona autorità aperto a tutti, poiché anche gli uomini possono farvi riferimento, contrariamente al modello di autorità paterna che restava esclusiva maschile. Tutta la catena educativa, inoltre, è interessata a questa metamorfosi del modello di autorità, toccando l’insieme dei rapporti sociali. Ma, mette in guardia Gauchet, la promozione del modello materno di autorità non ha ancora riempito il vuoto creato dal superamento del vecchio ordine. Siamo a cavallo di un cambio di civiltà e il lavoro di simbolizzazione è in pieno svolgimento, viviamo un vuoto e un’assenza che ci inquietano.

A questo punto io credo sia fondamentale lavorare il più possibile per ridurre la disuguaglianza nascosta e vertiginosa e consentire a ogni uomo e a ogni donna di avere i mezzi necessari per affrontare, nel qui e ora della propria esistenza, il passaggio epocale e collettivo nel quale siamo lanciati. Se possibile contribuendo, in prima persona, con una propria competenza simbolica.


Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile, ed. VP Vita e Pensiero, Milano 2019.


(Uomini in cammino, n. 1, 2020)


Sei ragazze appassionate di storie che hanno creato un sito dove consigliare a ragazze e ragazzi tra i 9 e i 12 anni libri, film e serie tv: abbiamo fatto quattro chiacchiere con le fondatrici del Dafne Club


Com’è nata l’idea del Dafne Club online e come vi siete divise i compiti per realizzare il sito?
Due anni fa io, Sara, avevo un blog di libri. Ma, poi, solo poche settimane fa, mi è venuta un’idea: avrei potuto riprendere l’attività e ricominciare a scrivere recensioni! Dopo però mia mamma mi ha dato l’illuminazione: invece di un semplice blog, avrei potuto fare un vero e proprio sito, in cui comprendere altre amiche! E così ho fatto: ogni weekend di quarantena, io e papà, programmavamo insieme il sito, mentre durante la settimana io e le mie amiche scrivevamo recensioni su recensioni da mettere nel nostro sito appena fosse stato pronto.
Principalmente, la programmazione, è stata svolta da me e mio padre, perché lui se ne intende di queste cose, mentre le altre ragazze e io scrivevamo recensioni. Viola scrive recensioni di graphic novel, Tita di mistero, amore e avventura, Alma gialli e avventura, Marta (mia sorella) fantasy, favole e film, Anna serie tv e avventura e io un po’ di tutto. Ma non abbiamo mai stabilito dei veri e propri ruoli, ognuno recensiva ciò che voleva, confrontandosi con le altre.

Siete “ragazze appassionate di storie” e si nota perfettamente in ogni recensione, ma come scegliete le storie da consigliare ai vostri coetanei?
Noi scegliamo le storie da recensire in base a quelle che riteniamo che siano belle da condividere con altri ragazz* come noi e quelle che hanno lasciato l’impronta nel nostro cuore. 

Quanti spunti state raccogliendo durante queste settimane di quarantena e come vi dividete tra voi sei il calendario editoriale del sito?
Questa quarantena ci sta lasciando molto tempo per leggere e scrivere racconti, immaginando mondi nuovi che prima non avevamo neanche considerato. Adesso, inoltre, riusciamo a stare molto di più insieme alla famiglia, guardando la sera film e serie tv. Per esempio, nella nostra famiglia, ogni sera uno di noi sceglie il film da vedere, così variamo genere e scopriamo dei lungometraggi che non avremmo mai avuto intenzioni di vedere. Per il programma editoriale abbiamo realizzato una tabella su Excel, dove ognuno si prenota il giorno dove pubblicar la propria recensione/racconto. Abbiamo aggiunto anche dei giorni dove pubblicheremo delle interviste a delle/degli scrittrici/scrittori con cui riusciamo a metterci in contatto.

Il consiglio che vi sentireste di dare anche a vostri non coetanei che hanno perso un po’ di vista il potere (e la magia) delle storie che ci circondano?
Vogliamo assicurarvi che, anche iniziando da libri corti, scoprirete mondi magici e incantati, anche se non avete mai creduto che esistessero. L’importante non è subito ricominciare a leggere con romanzi classici e lunghi (che noi, lettrici esperte, adoriamo), ma divertirsi anche con libri di poche pagine, basta che ti appassioni.

Durante le puntate di Zai.Time, il nostro programma di network, ogni giorno consigliamo un libro, un film e un disco per affrontare la quarantena (qui trovate i podcast): quali sarebbero i vostri consigli, se doveste fare una scelta?
Allora, io (Sara) propongo Il diritto di contare, un film; Volevo essere Maradona, come libro; South of the Border, una canzone di Ed Sheeran. Marta consiglia Peter Pan, un cartone; La grande dinastia dei paperi, una raccolta di fumetti di Paperino fatta dall’autore originale e Mamma Maria, una canzone dei Ricchi e Poveri. Alma propone La storia infinita, un film; Il rinomato catalogo Walker&Dawn, un libro; Hey Jude, dei Beatles come canzone. Anna consiglia Mary Poppins 2, un film; Stargirl, un libro e IDGAF di Dua Lipa. Margherita propone I sospiri del mio cuore come film; L’albero delle bugie, un libro, La Otra Mitad, di Pilu Velver, una canzone in spagnolo.
Inoltre, vorremmo consigliare a tutti un luogo dove noi ci troviamo perfettamente a nostro agio, pieno di libri divertenti e appassionanti, dove lavorano donne storiche che hanno fatto la rivoluzione: La Libreria delle Donne di Milano, dove si svolgono anche incontri di filosofia, a cui consigliamo di partecipare (quando la quarantena sarà finita).


(https://www.zai.net, 9 aprile 2020)

di Roberto Finelli


L’ultimo libro di Enzo Modugno, Il Cybercapitale («Dalla macchina per filare senza dita alla macchina per pensare senza cervello», manifestolibri, pp. 125, euro 12) propone tre tesi essenziali. Primo, la categoria di «general intellect» è un concetto mitologico che non serve a comprendere la realtà del presente, anzi la imbelletta e la mistifica; secondo, i cyberutopisti, come i teorici della moltitudine – che cadono nell’errore di ritenere che il nuovo mezzo di produzione con le tecnologie informatiche «non sia una macchina capitalistica ma la facoltà di pensare e di parlare» – sono lontanissimi dal frequentare e dall’intendere la lezione più rigorosa di Marx su Machinerie e Technologie; terzo, va allargata la categoria di postfordismo dalla struttura economica al «postfordismo sovrastrutturale», perché la dequalificazione radicale della scuola pubblica e delle università è segmento fondamentale e ormai interno al ciclo produttivo per la formazione di una mente superficiale e dequalificata, pronta a interagire e ad ubbidire ai codici delle macchine informatiche.

Con questo libro Modugno conferma che per tutta la sua vita di studioso e di militante ha continuato, con radicale coerenza etico-politica e con singolare fermezza di mente, a riflettere su quegli stessi temi che aveva cominciato a introdurre sulla rivista Marxiana già durante gli anni del ’68: come lo snaturamento e la mercificazione del sapere nel capitalismo moderno e la produzione diretta delle forme della coscienza sociale e del conoscere da parte della stessa produzione di capitale.

Così oggi con il suo Cybercapitale torna a parlarci di una pretesa società della conoscenza in cui, a ben vedere, la conoscenza è tutta nelle mani del sistema di accumulazione del capitale, dato che, con le nuove tecnologie, è codificata e depositata in macchine dell’informazione, che lavorano ed operano secondo modalità ed automatismi che sono al di fuori del cervello umano.

Coloro che ritengono che il capitalismo metta al lavoro la mente umana, oggi certamente in modo subalterno, ma con tutte le sue potenzialità riflessive, creative e immaginative, che potrebbero proprio per la loro potenza essere domani condizioni di trasformazione e rivoluzione – coloro che vedono nella forza lavoro solo una potenza di essere e per nulla una impotenza e povertà di essere – hanno, secondo Modugno, scarsamente ragionato, sulla eterogeneità profonda che esiste tra i codici dei linguaggi storico-naturali e i codici matematico-formali delle macchine informatiche.

Il computer infatti elabora, calcola e trasmette informazioni attraverso regole e procedimenti che devono la loro enorme velocità proprio al fatto che sono solo formali, ovvero calcoli di segni, indipendenti da ogni significato. I codici informatici cioè sono pensati e programmati ad un livello altissimo di astrazione il quale, sottraendo quei segni ad ogni contenuto interpretativo concreto, ne consente la matematizzazione. In questo senso il computer tratta informazioni ma certamente non conoscenza, se per conoscenza s’intende l’interpretazione, il senso, che un organismo vivente, o un individuo, o una classe sociale dà come possibile risposta ad una situazione aperta e problematica del suo ambiente storico-vitale.

La moderna invenzione di macchine che calcolano e trasmettono informazioni, come stringhe di punti e linee prima nell’alfabeto Morse, oggi con l’alternanza di 0 e 1 nel linguaggio dei computer, ha completamente separato l’informazione – come spiega Giuseppe Longo dell’Ens di Parigi – da ogni significato empirico, da ogni interpretazione concreta. L’enorme potenza nell’accumulare, elaborare e trasmettere informazioni oggi è fondata sulla possibilità di tradurre il codice alfabetico del linguaggio naturale in un codice numerico-matematico, che a sua volta viene tradotto in un codice elettronico basato su differenziali di energia.

In questo modo la trasmissione ed elaborazione di informazioni – si badi non di conoscenza – è divenuta una scienza matematica e l’informazione può essere formalmente elaborata, indipendentemente da ogni interpretazione, secondo norme di spostamento/calcolo di segni che prescrivono come scriverli e ri-scriverli. Tale opera di codificazione, di matematizzazione e meccanizzazione delle informazioni, è tenuta assai ben salda, sottolinea Modugno, nelle mani del capitale, che appunto oggi è divenuto Cybercapitale, e che per tale monopolio del sapere ridotto a informazione, e depositato nelle macchine, ha bisogno di un lavoratore mentale con un livello di qualificazione assai basso: purché capace di quelle generiche (nel senso di superficiali) attitudini linguistico-calcolanti che lo rendono abile a interloquire e a seguire passivamente la crescente capacità di calcolo e di decisione dell’apparato cibernetico.

Il mito del general intellect, di un conoscere sociale generalizzato, in cui ciascuno sarebbe in comunicazione con tutti, in rete con tutte le altre menti, mistifica e dissimula per Modugno una ben diversa realtà fatta da un lato di programmatori esperti di codificazione, che lavorano sugli algoritmi che automatizzano l’acquisizione e l’elaborazione dei Big Data, e dall’altro dalla moltitudine dei lavoratori dequalificati della mente, preparati a tal fine, e «cucinati a puntino», da una scuola/università evolutasi nell’ultimo ventennio, con l’ilare e sciagurato consenso di una buona parte della docenza, in una fabbrica di «vuoti a perdere».

Ma «Cybercapitale», va aggiunto, è un libro prezioso anche per la memoria storica, non solo teorica, ma politica e sociale, che, appunto a partire dal ’68, l’autore, da protagonista appassionato, ha accumulato nel corso della sua vita e che restituisce ora al nostro ricordo e alla nostra riflessione.


(il manifesto, 3 aprile 2020)

di Ina Praetorius


Nel tempo sospeso che stiamo vivendo, bloccate in casa dal coronavirus, si apre lo spazio di un ripensamento che abbraccia tutti gli aspetti della vita. A noi due – Vita e Marina – sono tornate in mente le parole orientanti di una pensatrice postpatriarcale che da tempo lavora a un nuovo inizio del pensiero sul mondo. Vi proponiamo stralci della sua comunicazione al Simposio delle filosofe 2006. Il testo completo si trova nel libro Il pensiero dell’esperienza, a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini (Baldini Castoldi Dalai editore 2008). (Vita Cosentino e Marina Santini)

Con una parola qualsiasi può prendere inizio un nuovo modo di parlare. Per esempio la parola “quotidiano”. Ma cosa vuol dire quotidiano? Esiste davvero il “quotidiano”? 

[…]

Cosa intende davvero la gente quando pronuncia questa parola?

Un ragioniere, per esempio, si lamenta della monotonia della sua vita professionale quotidiana. Ragazze e ragazzi che frequentano la scuola sospirano quando dopo le vacanze estive devono ricominciare ad andare a scuola. La rigidità dell’organizzazione scolastica, la necessità di alzarsi presto, il curriculum prestabilito e i traguardi di apprendimento da raggiungere sembrano riempire di senso ciò che si chiama quotidiano. Il contrario di ciò che avviene durante le vacanze quando si può disporre abbastanza liberamente del proprio tempo, oppure quando si può fare un viaggio verso mete ignote. Comunque anche durante le vacanze vivo un senso di quotidiano perché, per quanto io sia libera, devo però mangiare, dormire, andare in bagno. La parola “quotidiano” sembra un concetto relazionale. Il significato concreto di questa parola si può definire solamente in relazione a un suo contrario, quello di non-quotidiano. Sembra che resti comunque invariato il fatto che “quotidiano” significhi sempre il lato ripetitivo e funzionale di un’esperienza. Una vincita al Lotto, una festa, un incidente, una malattia improvvisa, degli ospiti che mi possono «far uscire dalla mia routine quotidiana». Forse mi torna poi la voglia di ritornare al tranquillo trascorrere sempre uguale del tempo. L’avvenimento particolare, che sia atteso o inatteso, o proveniente da un contesto più ampio – una istituzione per esempio – può accadere senza che ci si chieda ogni momento che senso possa avere ciò che si sta facendo e quale libertà ci possa dare.

[…]

Se il quotidiano fosse la noiosa routine data dalla ciclicità del corpo umano e dalla necessità di amministrare la convivenza umana, allora oggi, rispetto ai tempi passati, per molte persone le cose sarebbero cambiate in meglio. Perché oggi si parte generalmente dal presupposto che tutti e tutte, donne, uomini e bambini, persone di ogni età e di ogni professione, possono fare esperienza di entrambe le cose: quotidianità e festa, funzionamento sempre uguale e libertà da scopi ben precisi. Una gran parte di ciò che una volta riempiva le giornate di molta gente – come far il fieno, il fuoco, il pane, camminare molto a lungo, fare il bucato, abbattere alberi… – è oggi svolta da macchine. Sembra che ci si avvicini a uno stato delle cose nel quale il lavoro rivolto immediatamente alla riproduzione può scomparire lentamente, se si vuole farlo scomparire. Ora et labora, la regola dei Benedettini, che si rifà alla vita vissuta da Gesù Cristo di Nazareth, aveva trasformato il parallelismo tra vita ripetitiva e contemplativa in virtù. Tutti dovevano vivere in un alternarsi di fare ripetitivo e stare contemplativo.

Nel frattempo però l’esistenza finalizzata a uno scopo sembra debba scomparire dalla vita di tutti noi, ma a favore di che cosa? A favore della libertà, dell’avvenimento particolare? Abbiamo a disposizione ancora altri termini per contrario del quotidiano: tempo libero, dinamicità, avventura, festa, creatività, progresso… Tutte queste parole promettono di coltivare in forma pura l’avvenimento che esce dal quotidiano. Tutta la vita tende a trasformarsi in qualcosa di speciale.

Il progetto di modernità che sembra essere valido e imposto a tutti, e che intende rendere possibile una vita umana che possa delegare la gestione della routine alle macchine, è però continuamente eluso e contaminato da un’antica visione occidentale del mondo che prevede l’esistenza di certe persone addette ai servizi di routine e altre dedite a una vita libera dai bisogni. In La politica, Aristotele scrive a proposito della «scienza dei rapporti fra padrone e schiavo», e dice: «È ovvio che la natura ha creato esseri liberi e schiavi e che per quest’ultimi è bene e giusto servire. In ugual modo si regola il rapporto fra maschi e femmine: uno è migliore, l’altro inferiore, uno governa e l’altro è governato».

[…]

Non sbaglia allora chi a volte ha la sensazione che la vita quotidiana (da eliminare) sia una cosa in qualche modo femminile, che questa vita quotidiana si svolga soprattutto a casa mentre le donne in carriera, le top manager, le docenti universitarie e i politici parlano ogni tanto della “vita passata in riunione”, dei problemi durante il semestre o dei tanti spostamenti che devono compiere. Proprio lì nella libertà del mondo maschile, fuori di casa avvengono le cose più importanti, le cose non quotidiane. 

[…]

Oggi l’essere umano giusto è l’homo oeconomicus, talvolta anche sotto forma di essere femminile emancipata il/la quale aziona solo bottoni quando vuole mangiare, espellere escrementi o riprodursi. La noia del cucinare, pulire, fare il bucato è scomparsa per coloro che hanno fatto carriera. Scomparirà per tutti. Nessuno dovrà più doverla subire. Rispetto a questa meta, se capisco bene, capitalismo e comunismo tirano dalla stessa parte. Entrambi partono dal presupposto che la sfera del funzionamento quotidiano è femminile e che questa sfera femminile deve scomparire dalla definizione di una vita umana-modello alla quale tutte e tutti aspiriamo. Ma fino a quando questa sparizione non sarà realizzata, si tace semplicemente la vita quotidiana delegandola tuttora alle persone non ancora appartenenti alla nostra società dei diritti, domestiche straniere, badanti slave… delle quali comunque non si parla mai.

E di che cosa ci occuperemo in futuro quando non dovremo più cucinare, pulire e fare il bucato; forse non dovremo più neanche fare la pipì, dormire, partorire o morire? Ci occuperemo di cose diverse dalla quotidianità: di cose speciali.

Ma potranno dare un senso alla nostra vita le cose speciali? La maggior parte di noi vivrà per qualche decennio. Si esordirà come neonati bisognosi di cura e si finirà la vita come vecchi, sempre più vecchi, bisognosi di cura. Cosa può succedere se tutta la vita dovesse diventare un avvenimento speciale? In altre parole, non sarà ritenuto assurdo quello che succederà?

[…]

Hannah Arendt ha coniato, nel suo libro Vita activa, un concetto dal quale voglio partire per proseguire il mio pensiero: «il tessuto relazionale delle faccende umane».

Diversamente dalla Arendt, non intendo vedere questo tessuto relazionale, nel quale iscrivo la mia vita, come un «cerchio di eterno ritorno» ma come un bambino appena nato per il quale non esiste differenza di significato fra fare la pipì oppure contemplare qualcosa, per il quale lavoro e gioco non hanno ancora acquisito un diverso valore. In questo modo considero la mia esistenza come un tutt’uno.

Anche durante i giorni di grande creatività spirituale e intellettuale dipendiamo dal nostro corpo che deve andare in bagno più volte, e quando sto cucinando non sono separata dalla lingua. Quando vado in cucina e mi metto davanti ai fornelli non scendo in un cerchio di eterno ritorno ma proprio qui, ai fornelli, come alla scrivania, nutro ciò che mi nutre: il tessuto relazionale del mondo. Ogni pietanza che cucino e ogni pensiero che penso è nutrimento per me e per gli altri. Ogni pietanza è come ogni pensiero, vecchio e nuovo nello stesso momento: è già esistito e si presenta qui per la prima volta. Entrambi provengono dalla tradizione: già mia madre ha cucinato in modo simile. Ma il gulasch di oggi nasce ora perché le cipolle che ora taglio a pezzetti non sono mai esistite. Esse sono un primum come anche lo spazio temporale, la giornata unica, nella quale mescolo olio e cipolle. È vero che ho cucinato già centinaia di volte il gulasch e talvolta questa cosa è noiosa come lo è scrivere libri, se faccio riferimento al mondo del riconoscimento pubblico, se penso a là fuori. Comunque quel gulasch è scientificamente diverso dall’ultimo perché oggi è oggi, e non ieri. Oggi ho pensato qualcosa che ieri non pensavo ancora. Forse prendo in mano la cipolla, che ieri si trovava ancora nel supermercato, in modo diverso rispetto a ieri, quando sbucciare la cipolla mi sembrava noiosissimo. Mentre oggi mescolo olio e cipolle, parlo con mia figlia in modo diverso da ieri. Lei è diventata un’altra e anch’io perché la notte ci separa da ieri. Stamattina ci siamo svegliate in un modo diverso e i sogni mai sognati prima ci hanno cambiato. Nessuna goccia d’acqua, nessun filo d’erba, nessun lavaggio di denti è identico a quello precedente: il tessuto relazionale umano è iscritto nella pienezza mobile dell’origine, nella tradizione e nel tessuto relazionale delle faccende della natura: il cosmo. È aperto verso il futuro: la pienezza delle cose a venire.

[…]

Pensare tutto in modo nuovo, come un unico tessuto relazionale, non fa scomparire la noia perché la vita umana mediamente impegna parecchio tempo. Anche gli avvenimenti particolari e la differenza fra monotonia e novità non cambiano, ma liberano la differenza fra funzionalità e libertà dalle catene con le quali era legata alla struttura mentale della coppia concettuale: funzionalità e libertà non stanno più sotto o sopra ma dovunque, oppure assenti, che sia nell’ufficio del manager o ai fornelli. Libertà non è più il contrario di funzionalità. Fintanto che gli esseri umani restano dotati di corpo e di spirito la libertà potrà significare «dare inizio a qualcosa di nuovo», tenendo presente la dipendenza da altre e altri. La quotidianità non potrà e non dovrà scomparire perché non è il contrario di libertà. Ora si può dire: allacciandosi a certe tradizioni si può pensare un mondo che si rinnova.

[…]

Più di un pensatore ha sospirato: «Magari potessimo stupirci come i bambini!» ma non l’ha voluto veramente perché, se lo si volesse, sarebbe già possibile provare stupore. Posso percepire l’esistenza come un tutt’uno. Posso anche protestare come fanno i bambini quando si annoiano, e posso cominciare un altro gioco. Anche quello annoierà ma per fortuna ho altre cose da fare: mangiare, pensare, dormire e andare in bagno, scrivere libri, sognare, apprendere e fare molte cose.


(www.libreriadelledonne.it, 19 marzo 2020)


È disponibile in formato pdf la versione aggiornata al 2019 della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file (184 pagine – 3,2 MB) sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it

di Vita Cosentino


Sono contenta di presentare L’Economia è cura di Ina Praetorius in un luogo storico di Milano, come è la Casa della cultura, perché penso che le riflessioni teoriche e politiche di lei ci possono veramente aiutare in questo momento di forte disorientamento, con il pianeta vicino al collasso e una transizione inevitabile verso qualcosa che ancora non conosciamo. La crisi ambientale, infatti, è sempre presente al suo pensiero, anche quando parla di economia o di teologia o di altro ancora.

Il rapporto con la libreria delle donne di Milano è di vecchia data ed è un rapporto speciale – anche se a distanza – di scambio politico e teorico. La rivista Via Dogana è stata la prima ad introdurla in Italia nel 2002, e in seguito le ha dedicato un quaderno, Penelope a Davos (2011). Per parte sua Praetorius nel saggio Ripensare tutto fin dall’inizio, a cominciare dal quotidiano dice di essere stata “ispirata” da quelle che nel suo ambiente vengono chiamate “le italiane”. «Ho appreso da loro – dice – che è possibile e necessario passare quella soglia, che sembrava invalicabile, dell’ordine patriarcale per approdare a un nuovo inizio del pensiero» (in Il pensiero dell’esperienza, 2008, p. 72).

Oggi possiamo constatare, discutendo questa sua opera, che quel “nuovo inizio del pensiero” è andato molto avanti e siamo noi qui in Italia a imparare da lei.

Con Adriana Maestro ci siamo divise i temi: lei, che ha tradotto, curato e introdotto ottimamente il volume, vi ha illustrato la tesi principale del libro; io mi sono riproposta di trattare due elementi che definirei di sfondo.


Il senso e la generatività di una postura post-patriarcale.


Praetorius in ogni occasione si definisce una pensatrice post-patriarcale e il tema di un nuovo inizio è ricorrente nei suoi scritti, perché – come dice – ha varcato una soglia e si trova dall’altra parte. Ha acquisito distanza e punto di vista e non è invischiata in una posizione contro che, come si sa, in qualche modo partecipa sempre di ciò a cui si oppone. La sua personale posizione offre invece la possibilità di una diversa dislocazione mentale, pone in un’altra prospettiva.

Ora come questa postura post-patriarcale può riorientarci per affrontare il presente?

Luca Mercalli, in un recente articolo, fa notare che siamo in grado di pensare alla fine della vita sul pianeta, ma non siamo in grado di pensare alla fine del capitalismo (AREL La rivista 3/2019). Quando l’ho letto, l’ho sentito subito vero e da approfondire perché si sta rendendo sempre più evidente – ne abbiamo parlato nel numero di Via Dogana 3 online, Crisi ambientale: i nodi al pettine (dic. 2019) – che non ci sarà un’effettiva transizione ecologica se nello stesso tempo non si andrà oltre il capitalismo.

Ho trovato una credibile spiegazione di quella difficoltà nelle riflessioni di Guido Viale. Sia in un articolo del Manifesto (La radice del patriarcato e il concetto di proprietà privata, 20/11/2018) che nel suo libro Slessico familiare (2017), mette in evidenza il nesso indissolubile tra il patriarcato e tutte le realtà pervasive come proprietà, dominio, sfruttamento, e mostra come il patriarcato sia il fondamento «di tutte le forme che quelle realtà hanno assunto nelle diverse fasi della storia, compreso il capitalismo finanziario, estrattivo e predatorio attuale». La radice del patriarcato è la proprietà dell’uomo sulla donna. Questo è il modello di tutte le altre forme di proprietà, nel succedersi delle civiltà, come la proprietà degli schiavi, dei campi, dei mezzi di produzione, della conoscenza. Secondo Viale queste radici sono molto profonde e impediscono di prospettare e praticare «una vera alternativa a una società il cui fine ultimo è l’acquisizione di reddito, ricchezza o potere, come condizioni irrinunciabili per conservare in qualche forma una proprietà degli uomini sulle donne.»

Le parole di Viale rappresentano un’importante presa di coscienza maschile perché dicono esplicitamente che, soprattutto nelle menti maschili, questo è il segreto impedimento a pensare la fine del capitalismo. Ne consegue che sradicare quelle radici è anche il possibile punto di leva per il cambiamento. Da qui l’importanza di tenere in conto le idee di pensatrici post-patriarcali come Ina Praetorius e di assumere la sua postura che è generativa di pensiero e di pratiche. Secondo lei il pensiero post-patriarcale comincia «nel momento in cui il lavoro costruttivo di dare forma a un nuovo ordine simbolico diventa più importante della critica», e si smette «di sentirsi in primo luogo vittime del sistema contro il quale scagliarsi con furia ma, tutto sommato, senza alcuna speranza di cambiarlo» (in Penelope a Davos, p. 41).

Quando si tratta di una pensatrice dichiaratamente femminista ci sono almeno due ostacoli interiori: che sia una cosa solo per donne; che siano idee e proposte che escludono in qualche modo gli uomini.

Su questo Praetorius è molto chiara e nel saggio Penelope a Davos si prende la briga di rivisitare con occhi nuovi la figura di Penelope togliendola da quell’immagine di moglie esemplare, che aspetta il marito in obbedienza a una norma patriarcale. La rappresenta come una donna intelligente e scaltra che aspetta Ulisse «perché ha buoni motivi di nutrire fiducia in quell’uomo». Penelope ha sì la stanza della tessitura in cui tesse e disfa e parla con le altre donne, ma è in attesa di qualcosa che succeda fuori dalla stanza.

La pensatrice post-patriarcale sa che un nuovo inizio è possibile solo se riguarda entrambi i sessi. Per questo dice: «Sappiamo infatti, che non è possibile dare forma al nuovo ordine senza che anche l’altro sesso desideri un futuro diverso e si trasformi per amore del mondo, da guerriero assetato di potere in qualcosa di nuovo. In che cosa? È ciò che vogliamo sapere, noi tessitrici di oggi, come voleva saperlo Penelope» (p. 68).


L’immaginario e le modalità del cambiamento

Il cambiamento radicale immaginato da Ina Praetorius è profondamente diverso da come è stato pensato finora secondo lo schema dell’evento eccezionale – che sia rivoluzione o crollo – che mette fine a un certo ordine a cui segue l’instautazione di un nuovo ordine.

Ne parla esplicitamente nel saggio Dalla parità al dare forma al mondo quando dice: «Il concetto di trasformazione esprime a mio parere nel modo migliore che cosa sta a cuore alla maggior parte delle femministe. Soltanto poche desiderano una rivoluzione secondo l’accezione comune del termine. Noi non vogliamo violenza né spargimento di sangue, perché amiamo troppo la vita reale nel mondo» (in Penelope a Davos, p.34).

Io condivido in pieno la sua posizione, essendo io stessa arrivata a un’intuizione simile quando ho proposto sulle pagine di Via Dogana di pensare il cambiamento come metamorfosi (Che cosa tenere che cosa buttare, in Via Dogana n. 103, dic. 2012).

Praetorius ha in mente una modalità differente di cambiamento e per articolare il suo ragionamento riprende la teoria del cambio di paradigma introdotta da Thomas Kuhn nel suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1969). Nel volume che presentiamo, Praetorius vi fa riferimento sia nell’introduzione che nella sezione intitolata Dal post-dicotomico Durcheinander a un paradigma differente.

Ho ripreso in mano la teoria di Kuhn e secondo lui le rivoluzioni scientifiche «si considerano come quegli episodi di sviluppo non cumulativi sui quali un vecchio paradigma viene rimpiazzato completamente o in parte da uno nuovo e incompatibile»(p119). Sono precedute da una sensazione crescente di cattivo funzionamento che porta a una crisi. Si arriva a un punto in cui “le anomalie” (cioè i problemi non risolti) si presentano all’interno del paradigma funzionante fino a quel momento, rendendo necessaria la formulazione di nuovi assunti che superino le possibilità contenute nel paradigma corrente.

Questa è in estrema sintesi la teoria del cambio di paradigma in Kuhn e la grande novità di questa strada per il cambiamento è rappresentata dal fatto che un paradigma cambia dall’interno e non è un’idea decisa a tavolino da qualcuno. Per l’autore le rivoluzioni scientifiche modificano il concetto che si ha del mondo e l’accoglienza di un nuovo paradigma «spesso richiede una nuova definizione di tutta la scienza corrispondente». (p. 132)

È a partire da questa idea del cambiamento che Praetorius affronta la scienza economica, che è oramai il fondamento delle nostre società. Parte dall’anomalia crescente che è sotto gli occhi di tutti. Mostra infatti come l’economia – che si è proposta come scopo di «soddisfare il bisogno umano di preservare la vita e la qualità della vita» – perde sistematicamente di vista la metà di quello che essa stessa ha definito il proprio oggetto di ricerca, quando ruota ossessivamente intorno al denaro e non considera tutte quelle attività gratuite legate alla vita che avvengono nella sfera domestica. In questione non è la monetizzazione di quelle attività, riducendole in tal modo al mercato, quanto piuttosto di allargare l’oggetto di studio dell’economia «perché combaci con la definizione che si è data». «Includere le attività non pagate in una scienza che non si risolve più solo intorno al denaro può avere ripercussioni utili e pioneristiche nella risposta alla questione se effettivamente non esista una alternativa a questo meccanismo della retribuzione, come correntemente si afferma» (p.77).

Il ri-centramento dell’economia cambia le priorità e crea ordine nel pensiero. In La vita alla radice dell’economia Praetorius afferma di: «porre al centro ciò a cui spetta il centro, spostare al margine ciò a cui spetta una posizione marginale». (p. 17). Nella sua analisi il mercato smette di essere al primo posto e assume di nuovo il suo ruolo di sistema secondario di scambio e di distribuzione delle eccedenze.

Su questi temi, Praetorius sa di essere all’interno di una ricerca corale e dedica l’ultimo capitoletto – dal titolo Care Revolution: la rivoluzione della cura – ai movimenti e alle situazioni che già si pongono in questo orizzonte. È tuttavia consapevole che «oggi ci sono molti movimenti ma ancora non si può parlare di un’irruzione di un nuovo paradigma scientifico che ponga (di nuovo) al centro gli esseri umani» (p. 44). Quindi la strada è aperta ma c’è ancora tanto lavoro da fare. Siamo a metà del cammino – così dice.

Mi interessa sottolineare che nella sua impostazione cambiare le priorità in economia, cioè mettere al primo posto i bisogni primari e al secondo posto il mercato, costituisce un orientamento politico che si può applicare in ogni situazione, trasformandola. Un esempio convincente di cui parla in più occasioni riguarda negli anni ’90 del secolo scorso la lotta delle insegnanti svizzere di applicazioni tecniche ed economia domestica perché il loro lavoro era minacciato da una riforma scolastica che voleva abolire queste materie, per sostituirle con ore di inglese e di informatica. In quella lotta, Praetorius ha spostato il piano dalla difesa sindacale a quello del senso e delle priorità nel vivere, con approfonditi ragionamenti che hanno portato le insegnanti alla vittoria e i responsabili cantonali dell’educazione ad impegnarsi a valorizzare le «competenze di esserci»da lei proposte. In un importante discorso rivolto a quelle insegnanti – primo articolo pubblicato su Via Dogana n. 60, La filosofia del saper esserci (2002) – l’autrice oppone all’attuale primato dell’economico per cui sono importanti solo l’inglese e il computer, l’importanza fondamentale delle arti del vivere, che sono ancora considerate come affari di donne, quindi private e non pubbliche. Nella scena pubblica, secondo la visione (maschile) del mondo che è invalsa fino ad ora, agire significa un fare sistematico, razionale, verso determinati obiettivi. Ina Praetorius obbietta che in realtà gli esseri umani funzionano in questo modo solo quando effettivamente producono oggetti, ma che questa è solo una minima parte dell’agire umano. Propone la competenza di esserci e di farne una filosofia. Esserci significa l’insieme della nostra esistenza, dalla nascita alla morte con tutto quello che ne fa parte, giovinezza, malattia, libertà, bisogno, debolezza, forza.


(www.libreriadelledonne.it, 21 febbraio 2020)

di Gabriella Dal Lago


Nella vignetta uscita sul «The Guardian» a inizio gennaio, il fumettista e illustratore Tom Gauld propone la parodia del dialogo tra Jo March e il proprio editore a cui assistiamo in una delle scene del film di Greta Gerwig. La striscia, intitolata proprio «Jo March riceve alcuni consigli dal proprio editore», è divisa in tre riquadri: nel primo, un signore con la barba e gli occhialetti regge in mano il manoscritto di Piccole donne e asserisce «Se il personaggio principale è una ragazza, accertati che per la fine del libro sia sposata. O morta»; nel secondo riquadro, una ragazza con i capelli corti e un abbigliamento maschile alza il dito indice con una divertita aria di sfida chiedendo «O entrambe le cose?», mentre un baloon che proviene dalla direzione in cui sappiamo essere seduto l’editore riporta la risposta dell’uomo, un titubante «Ehm… certo». L’ultimo riquadro della striscia di Tom Gauld, privo di dialogo, raffigura il manoscritto da cui è stato cancellato con la penna rossa il titolo Piccole donne e sostituito con, sempre in rosso, la nuova alternativa L’attacco delle spose zombie

Rileggere i quattro libri di Piccole donne di Louisa May Alcott nel 2020, a parecchi anni di distanza dalle letture dell’infanzia, offre l’occasione di guardare da una nuova prospettiva un testo in cui solitamente si resta imbrigliati, attaccati a reminiscenze che si accompagnano a delusioni ancora brucianti e passioni non sopite per le avventure delle giovani sorelle March. Non solo: rileggere Piccole donne nel 2020, sull’onda di un discorso femminista che tocca cultura, letteratura, cinema, politica, diventa un modo per orientarci, per capire dove stiamo andando e da dove siamo partite. Soprattutto, ci interroga su come porci nei confronti di un classico della letteratura per ragazze che ha formato, in maniera radicale o anche solo tangenzialmente, moltissime generazioni. Il proposito è quello di affrontare la rilettura con una lanterna tra le mani che non ci porti a cercare qualcosa che nel libro non c’è, ma che ci porti a vedere con più chiarezza quello che nel libro c’è sempre stato, e che oggi guardiamo con occhi nuovi. 

L’adattamento cinematografico scritto e diretto da Greta Gerwig inizia con una Jo March adulta, alle prese con la propria scrittura e il tentativo di farne un mestiere, e procede poi con una serie di salti temporali che intrecciano tra loro Piccole donne e Piccole donne crescono. La figura di Jo March si sovrappone a quella di Louisa May Alcott (è quello che accade anche nella vignetta di Gauld, che cita appunto Gerwig): il film inizia e finisce con la prima copia data alle stampe di Piccole donne e firmato Jo March. Se la sovrapposizione tra la protagonista dei romanzi e la loro scrittrice è così esposta nella scelta di Gerwig, il gioco di specchi e di riflessi tra Jo e Louisa è una tensione essenziale all’interno dei quattro libri delle Piccole donne, tensione che viene resa ancora più evidente dalla lettura della biografia di Alcott scritta da Martha Saxton nel 1995, e pubblicata in Italia nel 2019. Jo incarna la battaglia di Louisa per diventare buona (aggettivo che più volte trova il sinonimo di “femminile” nelle dispute in casa Alcott), e che porta la protagonista del libro a quietare la propria irrequietezza e la scrittrice a coltivarla, a renderla radicale e mai davvero pacificata. 

Piccole donne è il romanzo della sorellanza ma è anche e soprattutto il romanzo di Jo March e della sua lotta per sentirsi bene nel corpo (e conseguentemente nel ruolo) in cui è nata: quello di una donna. «Non mi va per niente giù l’idea di dover crescere e diventare Miss March! È già una bella scocciatura essere donna, quando mi piace tutto quello che è riservato agli uomini, giochi, mestieri, modo di vivere. Non riesco proprio ad accettare di non essere un ragazzo», esclama Jo nelle prime pagine del romanzo. Se le altre sorelle March riescono a vedere davanti a loro un futuro che ha fatto pace con il loro essere donne nell’America vittoriana dell’Ottocento, Jo sa solo quello che non vuole: sposarsi, avere dei figli, seguire quel sentiero che vede così ben delineato di fronte a sé. Il circolo Picwick, in cui le sorelle March e Laurie giocano a fare i gentiluomini, è per Beth, Amy e Meg un passatempo, mentre per Jo diventa lo spazio in cui performare la parità dei generi. La visione di Jo, che non mette barriere tra sé e l’amico, è proprio ciò che porta Laurie a fraintendere i sentimenti della ragazza e a spingerlo a dichiararsi. Il rifiuto di Jo è quasi un’accusa di tradimento nei confronti di Laurie. «Ho solo una cosa da aggiungere: credo che non mi sposerò mai. Sono felice così, amo troppo la mia libertà per accettare la prospettiva di rinunciarci», dice Jo a Teddy. Jo vive in una società all’interno della quale non si sente adatta all’amore, perché amare significa accettare un insieme di regole e obblighi a cui la giovane March non vuole sottomettersi.
Nella raccolta di saggi di Jia Tolentino dal titolo Trick Mirror, ancora inedita in Italia, è incluso Pure Heroines, una riflessione sulla costruzione dell’identità femminile sulla base del confronto con le protagoniste della letteratura. Tolentino osserva che se le eroine dell’infanzia sono forti, resilienti, spesso ostinate e verbose, le eroine dell’adolescenza si dividono tra la disperazione e l’insulsaggine (tratto tipico delle eroine dei romanzi Young Adults), mentre quelle dell’età adulta sono frustrate, depresse e inclini al suicidio. In una triade esemplificativa: Jo March, le sorelle Lisbon de Il giardino delle vergini suicide, Emma Bovary. Le eroine dell’infanzia sono molto sovente dei “maschiacci”: non ancora sopraffatte dalla trasformazione del loro corpo in un oggetto sessualizzato, possono muoversi in una zona grigia, uno spazio in cui è loro concesso di immaginare un futuro di cui sono pienamente in controllo. Nel caso di Jo, un futuro da scrittrice in una città grande come New York. Quando la trasformazione da bambina a giovane donna si compie, quello spazio di libertà viene improvvisamente oscurato dalle aspettative e dal desiderio che il mondo proietta sui corpi (e conseguentemente sulle menti) delle eroine adolescenti: scrive Tolentino, «le eroine dell’infanzia mi avevano mostrato ciò che avrei voluto diventare, ma le eroine adolescenti mi avevano mostrato ciò che avevo paura di diventare – una donna la cui vita si sarebbe sviluppata attorno alla propria desiderabilità». Con l’adolescenza di Jo arriva la proposta di matrimonio di Laurie, che inizia a vederla come una donna. Nell’età adulta, le donne della letteratura affrontano le conseguenze del matrimonio e di una società che ha tracciato per loro un sentiero da seguire. Piccoli uomini e I ragazzi di Jo fotografano la vita delle Piccole donne diventate adulte. Mentre Piccoli uomini segue le storie degli studenti ospiti della scuola fondata da Jo con suo marito, il professor Bhaer, I ragazzi di Jo si colloca una decina di anni dopo questo terzo libro e racconta la crescita, il successo e le difficoltà degli studenti di Jo. I veri protagonisti di questi ultimi due libri sono Nat, Dan, Daisy, Demi e Nan, una nuova generazione di bambini. Gli adulti sono invece pallidi, molto diversi dalle figure che ci avevano appassionato nei primi due libri della serie: Laurie e Amy sono sposati e hanno dei figli; Meg e John Brooke vivono sereni con i loro bambini; i signori March sono sempre più sullo sfondo. La strenua opposizione al matrimonio e alla maternità di Jo si è trasformata in un matrimonio tranquillo con un professore tedesco più anziano di lei, e in una scuola in cui, oltre ad accudire i propri figli, è diventata la madre di un sacco di bambini presi sotto la sua ala.
Agli occhi di una lettrice, la Jo adulta si è macchiata di alto tradimento nei confronti dei propri sogni di bambina. Agli occhi di Louisa May Alcott, invece, Jo adulta è riuscita a trovare un equilibrio che si è tradotto nel trasformarsi da una piccola donna a una donna. A raccogliere il testimone dell’eroina dell’infanzia c’è Nan: bambina difficile da domare in Piccoli uomini, ne I ragazzi di Jo Nan è una brillante studentessa di medicina che rifiuta l’amore per dedicarsi solo alla propria professione. Jo, che frequenta un circolo femminile, ascolta con stupore le discussioni di quelle nuove piccole donne, e domanda «Ma se non vi sposerete, che cosa farete?», ricevendo come risposta «Oggi non si ride più delle zitelle come una volta, almeno da quando qualcuna di loro non è diventata famosa e ha chiaramente provato che la donna non è solo la dolce metà, ma un essere autonomo che può benissimo fare da sé». La titubanza di Jo, quella che la porta a confessare a Nan di chiedersi se le scelte che ha fatto non abbiano tradito la sua vera vocazione, è la titubanza di una donna che vede il mondo cambiare, diventare un po’ più simile a quello che avrebbe sperato per sé quando era una bambina che sognava di vivere da sola a New York in mezzo ai propri libri. 

È proprio in quella titubanza che possiamo cogliere l’invito con cui Tolentino chiude il proprio saggio sulle eroine dei romanzi: iniziare a guardarle non più come delle sorelle, delle pari, ma come delle madri, delle figure da cui discendiamo e a partire dalle quali abbiamo il compito di diventare qualcosa di diverso, di più nostro. Rileggere Piccole donne nel 2020 significa smettere di essere Jo March e trasformare Jo March in una madre: in attesa di essere noi le autrici di L’attacco delle spose zombie. 


(L’Indice, n. 3, marzo 2020)

di Franca Fortunato


Dopo il grande successo televisivo della prima parte dello sceneggiato L’Amica geniale, la Rai sta trasmettendo la seconda, Storia del nuovo cognome, tratte dai romanzi di Elena Ferrante, a cui seguono Storia di chi fugge e di chi resta e Storia della bambina perduta. Una quadrilogia, un racconto epico di una grande amicizia tra due donne, Lila ed Elena, “un grande affresco storico”, un’“istruttoria” – come ebbe a dire Ferrante – intorno alle vite e alle loro lacerazioni. Sin dal suo primo romanzo L’amore molesto (1992) Ferrante, ancora ignara del successo che avrebbe avuto in seguito con L’Amica geniale (7 milioni di lettori in tutto il mondo, tradotto in 48 lingue), scelse di non rivelare la sua identità per «il desiderio (…) che l’angolo dello scrivere resti un luogo nascosto, senza sorveglianza e urgenza di nessun tipo». Una condotta di riservatezza – scrive Tiziana de Rogatis in Elena Ferrante. Parole chiave (e/o edizioni 2018) – estranea al narcisismo di oggi. L’amicizia tra due donne, poco raccontata, sta al centro della sua narrazione, che abbraccia un lungo periodo storico che va dall’infanzia, nella misera periferia di Napoli, alla maturità delle protagoniste, dal 1950 al 2010 (dai sei ai 66 anni di entrambe), quando Lila decide di sparire senza lasciare traccia ed Elena, che se l’aspettava, decide di raccontare la loro amicizia “geniale”, “tenere a genio” come si dice a Napoli, con cui Lila chiama la sua relazione con Elena.

Uno dei luoghi comuni è che le donne non sappiano essere amiche, non sappiano stabilire una relazione leale e duratura, il che contraddice l’esperienza di tante di noi. L’Amica geniale fa i conti con questo stereotipo e lo smonta – come scrive de Rogatis – mettendo al centro del racconto un’amicizia tra due donne intensissima, un legame forte e duraturo con tutte le sue contraddizioni e turbolenze, senza alcun tentativo di esemplarità e di idealizzazione. Invidia e competizione, amore e astio, slanci ed egoismi, confessioni e segreti si amalgamano in quella relazione da cui, almeno fino all’adolescenza, entrambe traggono la forza per sopravvivere, sottraendosi ad ogni vittimismo, e per riappropriarsi nell’età adulta della propria vita, nello scenario della contestazione e del femminismo degli anni ’70. Lila ed Elena hanno salvato la loro amicizia dalla distruttività dell’invidia con l’ammirazione che in fondo hanno sempre avuto l’una per l’altra. Loro, come la mia generazione, vengono da millenni di cultura patriarcale che ha glorificato l’amicizia tra uomini e disprezzato quella tra donne. Un sottile veleno contro le relazioni tra donne, a partire da quella madre-figlia, è circolato in quella cultura che ha generato diffidenza tra donne e ingratitudine verso la madre. Se da mia madre ho imparato l’amicizia tra sorelle, dalle altre donne ho imparato a riconoscere nell’amicizia una pratica politica, che viene dall’amore femminile per la madre e trova fondamento nella fiducia, stima, affetto, riconoscenza e gratitudine tra donne. Un’amicizia, come l’amore o una relazione politica, può finire, ci si può allontanare e riavvicinare, ciò che conta è imparare a fare vivere l’amicizia oltre sé stessa, che vuol dire che l’altra non è mai la mia nemica, non le faccio la guerra, non ne parlo male, non l’aggredisco, non la insulto, non la delegittimo. Insomma salvo ciò che mi sta più a cuore, la civiltà della relazione tra donne.


(Il Quotidiano del Sud, 20 febbraio 2020)

di Erica Moretti


Anniversari. A 150 anni dalla nascita della scienziata marchigiana, il suo metodo pedagogico l’ha resa famosa nel mondo. A oggi il suo approccio educativo conta migliaia di scuole, soprattutto in Nord Europa e negli Stati Uniti. Femminista, pacifista e viaggiatrice, molte le iniziative per omaggiarla


Il 2020 segna il centocinquantesimo anniversario della nascita di Maria Montessori. Convinta della necessità di liberare l’infanzia dalla repressione insita nei sistemi educativi improntati sul «principio di schiavitù», la scienziata marchigiana ideò un nuovo approccio pedagogico che ripensava il ruolo del bambino tanto nella classe quanto nella società.
Rigore scientifico, coraggio intellettuale, profonda fede nelle infinite capacità del fanciullo: furono queste le caratteristiche distintive di Maria Montessori, nata a Chiaravalle, in provincia di Ancona, il 31 agosto 1870.

In occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita, in varie parti d’Italia prenderà vita un ricco calendario di eventi, conferenze, spettacoli, installazioni e laboratori: dalla mostra Toccare la bellezza presso la Mole Vanvitelliana di Ancona sul valore estetico della tattilità, al Congresso internazionale organizzato dall’Opera Nazionale Montessori, o la riqualificazione della casa dove nacque.

La grande varietà dei temi affrontati, dalla psichiatria al pacifismo, dall’umanitarismo all’applicazione del metodo nel trattamento di persone con demenza, permetterà di riscoprire, accanto alla ben consolidata immagine di Montessori come pedagogista della libertà, anche una figura di intellettuale eclettica e ricca di sfaccettature, femminista, filantropa, teosofa, cattolica, imprenditrice, scienziata positivista e pacifista. Una poliedricità straordinaria, che trovò inevitabile riflesso nel suo testo principale, Il Metodo della pedagogia scientifica. Pubblicato nel 1909, ha fatto da spartiacque nella vita di Maria Montessori e, soprattutto, nella storia della pedagogia internazionale.

Montessori visse e morì viaggiando. La leggenda narra che l’ultima conversazione avuta con il figlio Mario, all’età di 81 anni, riguardasse la pianificazione di un viaggio in Africa. La costante mobilità e le lunghe permanenze in Spagna, Olanda e India certamente raffinarono e influenzarono la sua visione pedagogica e posero le basi per la diffusione del metodo all’estero che all’oggi conta migliaia di scuole in tutto il mondo, soprattutto in Nord Europa e negli Stati Uniti. Eppure, fu l’atmosfera dinamica e cosmopolita respirata nella Roma di fine Ottocento, durante gli anni della formazione universitaria, a segnare profondamente il percorso scientifico, intellettuale e umanitario della dottoressa. Maria Montessori si trasferì a Roma con la famiglia, all’età di cinque anni, per seguire il padre Alessandro, impiegato ministeriale. La madre Renilde Stoppani, donna d’insolita cultura e guidata da idee liberali, sostenne la figlia, fin dal principio, nelle sue scelte formative anticonformiste. Proprio negli anni in cui la psichiatria, in accordo con l’antropologia, dichiarò la scientifica inferiorità morale e intellettuale femminile, Montessori scelse, dopo aver conseguito gli studi tecnici superiori, di laurearsi in medicina, confrontandosi con tutti gli ostacoli politici e culturali posti alle donne intenzionate a intraprendere una carriera in campi storicamente dominati dagli uomini.

Quando, nel 1896, Montessori parlò dal palco del congresso internazionale femminile di Berlino nelle vesti di rappresentante dell’Associazione femminile di Roma, sollevando temi scottanti come i diritti delle donne lavoratrici e la parità di salario, il Corriere della Sera preferì evidenziare l’appartenenza di genere sessuale, sottolineandone il connotato negativo, invece che l’urgenza dei temi affrontati o lo straordinario successo raggiunto dalla compatriota: «il discorsetto della Signorina Montessori, con quelle cadenze musicali, col gesto parco delle braccia correttamente inguantate, sarebbe stato invece un trionfo – anche senza il diploma dottorale e le velleità emancipatrici – un trionfo della grazia femminile italiana». Ciononostante, spinta da una tenacia e una costanza ferree, «la medichessa» non solo ottenne la specializzazione in Psichiatria, ma partecipò attivamente alle iniziative scientifico-umanitarie promosse dai suoi mentori e colleghi, tra cui la Lega Nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti presieduta da Clodomiro Bonfigli.

La scrittura di Montessori fu specchio della società da cui prese ispirazione per oltre mezzo secolo. Di fatto, Il Metodo, come un gioco di scatole cinesi, apre a lettori e lettrici scenari complessi e ancora attuali: ci informa del diritto degli emarginati a un’educazione di qualità, della necessità di una formazione scientifica per gli insegnanti, dell’urgenza di garantire un sostegno alle donne lavoratrici e, soprattutto, dell’inalienabile diritto di crescere scegliendo liberamente ciò che si vuole diventare. Una Montessori viva, che parla di un passato profondamente simile al presente.
Nasce, con lei, un nuovo modo d’intendere l’educazione, la scuola e il bambino. L’insegnante passa dall’essere soggetto attivo della lezione a osservatore silenzioso e il fanciullo, in piena libertà, si avvicina al materiale didattico auto-correttivo. La scuola e la classe sono concepite come proprietà collettive. I bambini, non più «fissi sul posto rispettivo, sul banco come farfalle infilate a uno spillo», sono liberi di perseguire il proprio sviluppo, fisico, intellettuale e spirituale. Questo pensiero caleidoscopico non si limita al suo testo più famoso ma s’irradia in una costellazione di scritti brevi, saggi e conferenze.

Una Montessori pacifista emerge nel progetto della Croce Bianca, l’organizzazione umanitaria pensata per soccorrere tutti «i bambini che avevano sofferto emozioni violente nelle zone di guerra, ed erano rimasti indeboliti nel sistema nervoso». Pronta a curare i «piccoli derelitti», Montessori li accolse in più occasioni nelle sue scuole, in «uno stato di stupefazione, incapaci di comprendere, tremanti all’approssimarsi di chicchessia, paurosi del giorno come della notte» e bisognosi di un clima di protezione e di stimolante tranquillità.

Un messaggio, quest’ultimo, che non può che trovare echi nella nostra crisi contemporanea. Commentando il suo impegno pacifista, il leader spirituale Mohandas K. Gandhi disse a Montessori: «Hai giustamente osservato che se vogliamo ottenere una pace vera in questo mondo e se vogliamo combattere contro la guerra, dobbiamo cominciare dai bambini. Se quest’ultimi cresceranno nella loro naturale innocenza, non saremo più costretti a lottare, non dovremo approvare inutili risoluzioni, ma passeremo dall’amore all’amore e dalla pace alla pace».
L’anniversario della nascita offre l’occasione per ripensare Montessori in grande, per far luce su aspetti del suo pensiero fino a questo momento rimasti nell’ombra della riflessione pedagogica. Un’occasione da non perdere per dare il giusto risalto a una figura famosa nel mondo ma ancora non sufficientemente apprezzata in patria.

Ci sarà anche un tulipano speciale

Il volto di Montessori insieme a materiali per lo sviluppo della mente logico-matematica è stato impresso in una nuova moneta per festeggiare l’anniversario dall’artista Luciana De Simoni. Lo avevamo già visto su francobolli, sulle monete da duecento e i biglietti da mille lire. Questa volta l’effigie, fortemente voluta dall’Opera Nazionale Montessori, non rappresenta l’icona di una gloria nazionale passata, ma il tributo di una comunità intellettuale globale che festeggia insieme la poliedricità della scienziata di Chiaravalle, il cui lavoro ha tutt’ora ripercussioni transnazionali. E anche l’Olanda si prepara a festeggiare la sua figura con un tulipano speciale che scuole e famiglie potranno coltivare presso di loro. È un omaggio alla sua visione ecologica dell’educazione. «Quando il bambino esce, è il mondo stesso che si offre a lui. Non esiste una descrizione, un’immagine in qualsiasi libro che sia in grado di sostituire la vista di alberi reali e tutta la vita che si trova intorno a loro, in una foresta vera e propria». Infine, per saperne di più: Maria Montessori, «Il Metodo della pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile nelle case dei bambini» (Lapi, 1909); Maria Montessori, «Educazione e pace» (Opera Nazionale Montessori, 2004); «Le ricette di Maria Montessori» (Fefè Editore, 2008); «In giardino e nell’orto con Maria Montessori» (Fefè Editore, 2010); Renato Foschi, «Maria Montessori» (Ediesse, 2012).


(Il manifesto, 14 febbraio 2020)

di Franca Fortunato


Il bellissimo film Piccole donne della regista americana Greta Gerwig, che ha riscosso un clamoroso successo di pubblico, anche nella nostra città, e di critica, è stato girato a Concord, Massachusetts, nella casa-museo in cui la sua autrice, Louisa May Alcott lo scrisse più di 150 anni fa. La regista ha riunito in uno i due libri Piccole donne e Piccole donne crescono, così come vengono pubblicati in America sin dal 1880. L’autrice pubblicò il primo volume nel 1868 e il secondo nel 1869 a cui seguirono Piccoli uomini e I ragazzi di Jo, ultimo suo romanzo. In Italia i due libri, tradotti nel 1930 e 1940, sono sempre stati pubblicati separatamente.

Louisa – come scrive la sua biografa Martha Saxton in Louisa May Alcott. Una biografia di gruppo (Jo March ed. 2019) – aveva 35 anni quando, nella primavera del 1860, cominciò a scrivere Piccole donne. Era una donna alta, dalle spalle forti, con gli occhi scuri e i capelli neri. Lei era riluttante a scrivere il libro che l’avrebbe resa famosa e ricca. Fu spinta dal padre e dall’editore che le richiese un “libro per ragazze”. Non stimava questo tipo di letteratura, ma avrebbe scritto qualsiasi cosa – come aveva fatto fino ad allora, incoraggiata dalla madre, Abby, pubblicando poesie, racconti, favole sotto lo pseudonimo A.B. Barnad – pur di fare soldi per aiutare la madre, caricata di tutte le responsabilità familiari da un marito, Bronson, irresponsabile. «Non mi sono mai piaciute le ragazze né ne ho mai conosciute molte, a eccezione delle mie sorelle», rispose all’editore. Invece di cercare in un mondo immaginario, si mise giorno dopo giorno a ripercorrere e rielaborare, in forme e immagini ideali, l’infanzia e l’adolescenza sua e delle sorelle – Anna, Elizabeth, May – cresciute in assoluta povertà, accanto alla madre. Per anni coltivò il sogno di dare a sua madre sicurezza economica e serenità, «cosa più importante di ogni successo personale», e fu felice quando poté realizzarlo.

A trentacinque anni Louisa era una donna stanca e malata. Era uscita da una malattia che per poco non le era costata la vita; aveva visto sua sorella Elizabeth (Lizzie) morire, Anna stava per maritarsi e la sua breve esperienza della guerra civile, come infermiera in un ospedale, era stata drammatica e da allora non era stata più bene. Aderì alla causa dell’antischiavismo e fu una suffragista, come la madre. Louisa avrebbe voluto che Jo, come lei, non si sposasse, perché «una donna non è la metà di nessuno, ma un essere umano completo, che sa reggersi sulle proprie gambe» e perché «la libertà è un marito migliore dell’amore, per molte di noi», ma cedette alle richieste delle lettrici e del suo editore. La popolarità di Piccole donne la colse di sorpresa. Si era annoiata a scriverlo, cosa che, invece, non aveva provato scrivendo il suo primo romanzo Mutevoli umori, da cui restò delusa. Scoprì di detestare la notorietà e, prevedendo sue biografie, censurò tutte le sue lettere e i diari, distruggendo tutto ciò che le pareva inaccettabile. Louise era orgogliosa di sé, della sua autonomia e scrisse sempre, nonostante la cattiva salute, il dolore per la sorella Anna, rimasta vedova con due figli, per la morte della madre e dell’amata sorella May, promettente pittrice, morta dopo il parto affidandole la piccola Lulu. Pensando al suo senso del dovere «che mi tiene incatenata alla galea», scrisse: «Il mio desiderio più grande è sempre stato la libertà, ma non l’ho mai avuta». Morì da sola, senza nessun familiare accanto, il 6 marzo 1888, due giorni dopo del padre. La sorella Anna morirà nel 1893.


(Il Quotidiano del Sud, 14 febbraio 2020)

di Paolo Giordano


Credo che in molti ricordiamo il momento in cui sullo schermo del computer è comparsa per la prima volta una pubblicità che sembrava leggerci nei pensieri. O lo sbigottimento simile quando ci siamo chiesti: è possibile che lo smartphone mi abbia appena ascoltato? O ancora, il misto di gratificazione e imbarazzo quando è stato l’iPhone stesso, spavaldamente, a domandarci: «A cosa stai pensando?».

Ricordiamo il giorno in cui accedendo alle nostre foto abbiamo scoperto che erano state arbitrariamente suddivise in categorie, raggruppate in base ai volti ricorrenti, ai paesaggi, perfino alle emozioni sottese, come se una mano materna e invisibile si fosse preoccupata di mettere ordine nelle nostre vite. Io ricordo anche il tuffo al cuore iniziale nel percorrere su Street View la via dove abitavo, nello scovare la facciata della mia casa di allora. E il pomeriggio, molto tempo prima, in cui mio padre mi chiamò per mostrarmi la meraviglia di Google Earth, la palla della Terra tutta contenuta nel monitor, la promessa implicita in quella tecnologia di poter presto arrivare ovunque, di vedere tutto, di conoscere ogni dettaglio del pianeta.

Ma soltanto oggi, dopo le seicento pagine del Capitalismo della sorveglianza, riconosco quei momenti come le tappe di un accerchiamento, di un percorso occulto diretto all’espropriazione della mia esperienza, della mia privacy, della mia natura stessa di essere umano.

Definizione: «Il capitalismo della sorveglianza è un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita». Significa, in modo più diretto e grossolano, che aziende come Google, Facebook, Microsoft e Twitter, all’apparenza così magnanime nella loro gratuità, lucrano sui dati che il loro utilizzo gli permette di raccogliere su di noi. Significa che quei dati sulle nostre vite, che forniamo in parte volontariamente e in larga parte no, sono il bene più prezioso e richiesto oggi dal mercato, il petrolio della nostra epoca. Shoshana Zuboff ha consacrato un’opera monumentale a questa mutazione ultima del capitalismo, forse la più estrema e la più subdola, di certo la più sfuggente che la civiltà si sia trovata ad affrontare.

Se il capitalismo di Karl Marx si cibava di forza lavoro, se la sua materia prima era la classe operaia, il capitalismo della sorveglianza si ciba «di ogni aspetto della vita umana». E la sua materia prima siamo, semplicemente, noi: le nostre fotografie, i nostri commenti, i nostri viaggi, i nostri amici, le nostre idiosincrasie, le nostre paure, i nostri desideri, le nostre condivisioni, i nostri like. L’analogia è fertile, quindi conviene spingerla più avanti: se il capitalismo industriale ha portato alla distruzione dell’ambiente che oggi cerchiamo malamente di fronteggiare, il capitalismo della sorveglianza minaccia di distruggere niente meno che la nostra libertà.

Zuboff documenta passo dopo passo la costruzione di questo potere trasparente e ormai ubiquo. Gli attori principali della storia che racconta hanno nomi precisi: si chiamano Google, Facebook, Microsoft, Twitter; si chiamano Zuckerberg, Page, Brin, Schmidt e Sandberg, ma hanno raccolto attorno a sé una folla di comprimari, tutti bramosi di avere un pezzo della nostra esperienza da rivendere sul mercato. E si tratta di una storia recente, sebbene il mondo sia quasi irriconoscibile da com’era prima. «L’anno spartiacque nel quale il capitalismo della sorveglianza mise radici» è il 2002, quando Google inventò il targeted advertising, la pubblicità mirata. All’incirca, insomma, quando abbiamo visto comparire sullo schermo quell’inserzione che sembrava averci letto nei pensieri.

Le pubblicità online di prima erano casuali, ci cadevano addosso a pioggia, indistintamente, un po’ come i manifesti che attirano o no il nostro sguardo per strada. Google, sulla cui barra le persone digitavano parole alle quali erano interessate in un preciso istante, capì che avrebbe potuto sfruttare quelle stesse parole per supporre cosa passasse nella testa dei suoi utenti e proporre loro, di conseguenza, pubblicità selezionate. Conoscere con esattezza i desideri di ogni singolo consumatore è sempre stato «il Sacro Graal della pubblicità»: i templari di Brin e Page lo avevano trovato. Era semplice. Era geniale. Così geniale da far schizzare Google fuori dalla selva delle start-up a rischio di estinzione in quegli anni di crisi. Ma non bastava. Seguendo fino in fondo lo spirito inaugurato con le pubblicità mirate, Google sarebbe infine diventato il colosso dell’economia mondiale che è oggi, nonché la potenza egemone delle nostre singole vite, l’entità che tutto sa e tutto prevede di miliardi di persone sul pianeta.

Dal 2002 le tecniche di raccolta – o sarebbe meglio dire di mietitura – dei dati personali si sono perfezionate a una velocità sbalorditiva. Altri capitalisti della sorveglianza si sono affiancati a Google. Facebook in particolare, con l’introduzione del tasto Mi piace, si è trovato all’improvviso in vetta alla classifica. Non doveva nemmeno fare la fatica di supporre ciò che i suoi utenti desideravano, perché erano loro smaniosi di dichiarare ogni preferenza: vestiti, animali domestici, cibo, serie tv, scuole, farmaci, partner sessuali, candidati alle prossime elezioni. Tutto.

La corsa all’oro era aperta. Facebook, Google e gli altri hanno assoldato i giovani informatici più brillanti del pianeta, così come matematici, fisici e ingegneri; se li sono strappati di mano con stipendi vertiginosi, tanto da creare una crisi di cervelli nella ricerca. Li hanno chiusi in ufficio a estrarre e analizzare dati, e hanno aggiunto altri soldi affinché non pensassero troppo alle conseguenze etiche di quanto stavano combinando. Tutte quelle menti fibrillanti insieme hanno fatto una scoperta ancora più grandiosa. Hanno capito che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i dati più interessanti per profilare un utente non sono quelli che l’utente fornisce in modo esplicito. Non sono le nostre preferenze dichiarate né le parole chiave digitate sulla barra di Google, bensì tutti quei dati impliciti legati alle nostre azioni mentre utilizziamo internet, i social network e la galassia di dispositivi collegati alla rete. Ciò che Shoshana Zuboff battezza il «surplus comportamentale».

Gli algoritmi sviluppati nella Silicon Valley sono in grado di comprenderci molto meglio se analizzano gli orari in cui facciamo più scrolling su Instagram, il numero di profili che seguiamo, i filtri che usiamo volentieri per valorizzare le nostre foto. Misurano la lunghezza delle nostre frasi, la quantità di emoji che ci mettiamo dentro e quanto abusiamo di punti esclamativi. Di più: riconoscono le smorfie impercettibili nei nostri selfie e le esitazioni nei messaggi vocali, potrebbero perfino contare i battiti di ciglia mentre guardiamo un video di YouTube che ci appassiona o ci disgusta o ci intenerisce. Forse lo fanno. Tutti questi metadata, elaborati opportunamente, dicono di noi più di quanto saremmo in grado di spiegare a parole. Eccolo il cibo preferito del capitalismo della sorveglianza: psicologia del comportamento combinata con statistica e capacità di calcolo sempre più estese. Così «non è la sostanza che viene analizzata, ma la forma». A essere scandagliato non è più il nostro conscio, tutto sommato abbastanza semplice da catturare e per noi da controllare, ma l’inconscio stesso.

L’ambizione folle del capitalismo della sorveglianza è diventata quella di conoscere tutto di noi prima che noi stessi lo sappiamo. Il suo fine ultimo: utilizzare quella certezza su di noi, contro di noi, per manipolarci, modificarci e spingerci ad acquistare sempre di più. «Lo scopo – scrive Zuboff – non è imporre norme comportamentali come l’obbedienza o il conformismo, ma produrre un comportamento che in modo affidabile, definitivo e certo conduca ai risultati commerciali desiderati».

Il meccanismo principe di mietitura dei dati è la trasmissione dei cookies, quelle informazioni condivise, «mandate indietro» ogni volta che siamo online, ovvero sempre. Ecco un altro evento, più recente, che ricordiamo tutti: il giorno in cui è diventato obbligatorio per i siti esporre le loro politiche sui cookies e, per noi, accettare di volta in volta le condizioni che ci vengono proposte. In quanti ci siamo preoccupati di approfondire le ragioni di quella norma? Per lo più, me compreso, l’abbiamo vissuta come un intralcio. Esaminare tutti i contratti che sottoscriviamo con i nostri clic sarebbe impossibile in ogni caso. «Due professori della Carnegie Mellon hanno calcolato che per leggere in modo adeguato tutte le policy sulla privacy che s’incontrano in un anno sarebbero necessari 76 giorni lavorativi». Era il 2008, figurarsi oggi. A essere sinceri, poi, sono altre le cose che c’interessano sul serio riguardo a internet: la larghezza della banda, i giga di traffico, il costo dell’abbonamento. Vogliamo navigare liberi e veloci, «senza limiti», il resto non conta. Quindi accettiamo accettiamo accettiamo, diamo il nostro consenso senza leggere, senza nemmeno guardare. Basta che ci lascino navigare in pace.

I capitalisti della sorveglianza lo sanno. La nostra insofferenza è proprio ciò che gli permette di proseguire indisturbati nell’esproprio dei dati. Siamo noi a spalancare le porte.

Il «kentuki» è un peluche simpatico collegato a uno sconosciuto da un’altra parte del mondo che costantemente, attraverso gli occhi e le orecchie del pupazzo, ci osserva, ascolta, registra. La scrittrice argentina Samanta Schweblin ha immaginato questo antidoto perverso alla solitudine. Il suo romanzo, Kentuki, è uno dei primi a raccontare questa nuova epoca – l’epoca del capitalismo della sorveglianza. Ma il «kentuki» non è pura fantasia. Nel 2017 la bambola Cayla è stata ritirata dal mercato statunitense. Il governo ha invitato chi ne era già in possesso a distruggerla. Cayla, si è scoperto, sorvegliava gli smartphone dei suoi giovanissimi proprietari e quelli dei loro genitori. Una bambola spiona, insomma. Nella stanza dei bambini.

I capitalisti della sorveglianza sono sempre più numerosi, rapaci e spregiudicati nella caccia al surplus comportamentale. Alcuni esempi, come quello della “mia amica Cayla”, sono inquietanti. Le auto nere di Google che si aggiravano per le strade nel 2010 per realizzare la grande opera di Street View raccoglievano in segreto dati personali dalle reti wi-fi delle abitazioni. «Nomi, numeri di telefono, informazioni sul credito bancario, password, messaggi, trascrizioni di email e chat, dating online, pornografia, informazioni sull’uso del browser, dettagli medici, geolocalizzazione, file audio, video e fotografici». Tutto quanto, insomma. Chi gliene aveva dato il diritto? Nessuno.

E se fuori casa non si è al sicuro, dentro è peggio. L’aspirapolvere autonomo Roomba è stato studiato non solo per tirare a lucido il parquet, ma anche per mappare l’interno dei nostri appartamenti. Le informazioni che raccoglie vengono poi vendute a Google, Apple e Amazon, in modo che possano indicarci quale pianta comprare per riempire quell’angolo che abbiamo lasciato miseramente vuoto. La condivisione di quei dati ovviamente è facoltativa, ma se non si acconsente Roomba non sarà «smart» com’è stato concepito. Anche il sogno della domotica, visto dalla prospettiva di Zuboff, non è altro che una mietitura massiccia d’informazioni, un’incursione violenta nel nostro spazio più intimo.

Eppure, imprenditori come Zuckerberg, Brin e Page fanno di tutto per presentarsi come nostri alleati. Sono gli eroi del nostro tempo, i campioni dello “Zeitgeist neoliberista” della Silicon Valley: vi renderemo liberi, padroni delle vostre scelte, in contatto sempre più stretto con i vostri desideri e la vostra comunità, e senza chiedervi nulla in cambio. Una retorica stucchevole che mantiene qualche strascico della sua origine hippy e lascia intravedere quasi sempre lampi di megalomania. Se non fossimo tutti così ubriachi d’innovazione tecnologica sapremmo riconoscere le loro parole per quel che sono davvero: spaventose.

A Davos, nel 2015, Eric Schmidt, ceo di Google, dichiarò: «Ci saranno talmente tanti indirizzi IP, […] un’infinità di dispositivi, sensori, cose indossabili, cose con le quali interagire, che non ve ne accorgerete neanche più. Sarà parte di noi costantemente».

Larry Page al «Financial Times», nel 2016: «Abbiamo bisogno di un cambiamento che non sia incrementale, ma rivoluzionario. Probabilmente possiamo risolvere gran parte dei problemi degli esseri umani».

Mark Zuckerberg, di recente, mentre difendeva la sua criptovaluta Libra al Congresso: «Facebook significa mettere il potere nelle mani della gente» (appena cinque mesi prima, il co-fondatore di Facebook Chris Hughes aveva definito il potere di Mark Zuckerberg “sconcertante” sul New York Times).

E ancora Larry Page: «In termini generali è meglio che sia Google e non il governo a detenere i dati delle persone». Google, non il governo. Perché Google sta sopra il governo. Google sta sopra la democrazia.

Mentre alle convention infiocchettano scenari di armonia tecnologica, Schmidt, Zuckerberg e Page sanno esattamente da dove arrivano i guadagni delle loro aziende. Altrimenti perché investirebbero decine di milioni di dollari l’anno in attività di lobbying per contrastare ogni proposta di legge che possa anche solo limitare la mietitura dei dati? Zuboff non ha mezzi termini: «Google è guidata da due uomini che non amano la legittimità del voto o la supervisione democratica, e che da soli controllano come viene organizzata e presentata tutta l’informazione del mondo. Facebook invece è guidata da un uomo che non ama la legittimità del voto o la supervisione democratica, e che controlla da solo un mezzo di connessione sociale sempre più diffuso e l’informazione presentata o nascosta nelle sue reti».

Dopo aver letto queste parole, non ci tremeranno un po’ i polsi quando, tra pochi minuti, accetteremo ciecamente la condivisione di tutti i cookies?

Le motivazioni per cui Google, Facebook, Microsoft, Twitter e compagnia hanno prosperato indisturbati fino al punto in cui ci troviamo sono molteplici, alcune strutturali, altre circostanziali. Zuboff ne individua almeno dodici. La principale è senza dubbio il nostro consenso all’esproprio, ma l’invasione della privacy ha beneficiato anche di una congiuntura storica favorevole. L’11 settembre prima, i fatti di Parigi, Berlino, Nizza e Manchester dopo, hanno aumentato nell’opinione pubblica il bisogno di protezione e diminuito quello di privacy. Segretezza e sicurezza sono sempre inversamente proporzionali, o almeno è così che ci vengono presentati. Non è poi così grave essere sorvegliati se questo ci garantisce un po’ più d’incolumità. E cos’avrei da nascondere, io? Non sono un terrorista o un assassino o un truffatore. Se il mio segreto è qualche accesso sporadico al porno o qualche commento fuori tono su Twitter, che mi spiino pure.

Ecco sigillato una volta per tutte il nostro “patto faustiano” con i capitalisti della sorveglianza. Ne è prova che neppure gli scandali maggiori, come quello denunciato da Edward Snowden e l’affaire Cambridge Analytica, hanno portato a un cambiamento significativo delle abitudini. Sapere che i nostri profili social, i nostri innocui Mi piace sono stati venduti e sfruttati per influenzare scientificamente le intenzioni di voto, che quel traffico ha determinato il voto sulla Brexit, l’elezione di Trump e le elezioni italiane avrebbe dovuto provocare una disconnessione di massa. Non è successo. Evidentemente non basta: il patto è ancora troppo conveniente, i rischi troppo astratti. La nostra ignoranza abissale.

Molti anni fa accompagnai un’amica tra le montagne del Friuli. Stava preparando una tesi sperimentale sulla distribuzione dei cervi. La raccolta dati consisteva nel vagare giorno e notte a bordo di una Panda malmessa, per poi appostarsi con un’antenna e intercettare i segnali inviati dai radiocollari dei cervi. Una sera ci accorgemmo che un esemplare era particolarmente vicino. Proposi di avvicinarci per vederlo, ma la mia amica mi disse di no. La sua ricerca doveva essere rispettosa al massimo dell’intimità degli animali.

Dai capitalisti della sorveglianza non possiamo aspettarci nemmeno un briciolo di quella correttezza. I più esposti alla nuova forma rapinosa di esproprio, le prede più facili, sono ovviamente i giovani. Zuboff dedica loro un capitolo intero, dove condensa ciò che molti studi scientifici confermano, ciò che insegnanti e genitori hanno capito da tempo, ciò che tutti sappiamo ma non vogliamo ammettere per la paura, poi, di dover cambiare qualcosa: la «combinazione di scienza del comportamento e design avanzato» del mondo digitale è «pensata nel dettaglio per sfruttare le esigenze della gioventù […]. Per molti, questo design mirato, insieme al bisogno pratico di partecipazione sociale, trasforma i social media in un ambiente tossico, che non solo pesa su di loro psicologicamente, ma minaccia il loro sviluppo e quello delle generazioni a venire».

Minaccia il loro sviluppo e quello delle generazioni a venire.

Alcuni artisti, per fortuna, iniziano a svegliarsi, a interessarsi, a vedere. E così alcuni giornalisti, scrittori, attivisti. La politica? Speriamo che non tardi troppo, perché l’unico argine possibile allo strapotere dei capitalisti della sorveglianza è di tipo istituzionale, giuridico. Ma la spinta, esattamente come sta accadendo per il clima dopo decenni d’indugi, deve venire dai cittadini.

La posta in gioco è alta, forse un po’ ardua da comprendere, ma non impossibile. Aspirapolvere che misurano le nostre case, bambole che ci spiano, algoritmi che decodificano le nostre emozioni sommerse, cardiofrequenzimetri che parlano in giro delle nostre condizioni di salute, videogame che giocano con i nostri figli, dispositivi con voci rassicuranti che origliano le nostre conversazioni, altri dispositivi che sanno dove siamo in ogni momento, app che aprono altre app che ne aprono altre ancora; flussi mastodontici di dati spremuti dai nostri corpi e usati per prevederci e condizionarci, per farci votare in un certo modo e per farci comprare di più, ancora di più. È questa la società in cui ci piace vivere? In cui ci piacerà vivere? Quanto teniamo ancora alla nostra libertà individuale? E quanta connettività siamo disposti a sacrificare per difenderla?

Mentre Shoshana Zuboff lavorava al progetto che sarebbe infine diventato Il capitalismo della sorveglianza (ora pubblicato da Luiss), un fulmine si abbatté sulla sua casa, incendiandola. Zuboff perse in pochi minuti tutto il materiale raccolto. Pensò che non avrebbe avuto la forza di ricominciare e invece, grazie anche al sostegno dei familiari, si rimise all’opera dal principio. È un mito fondativo che mi piace, degno del libro che ha scritto – un libro che forse, un giorno, verrà guardato come il manifesto di una resistenza, speriamo già iniziata.


(Corriere della sera, 9 febbraio 2020)

di Désirée Urizio


Mi sono procurata il libro di Silvia Dai Pra’, Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria (Laterza 2019) che un’amica mi ha segnalato e che ho letto con interesse personale.

Ne sono stata piacevolmente stupita. La ricerca dell’autrice sulla propria famiglia paterna, che la porterà a interrogarsi sugli eccidi istriani e sulle “foibe”, prende le distanze dalle strumentalizzazioni politiche. Mi ha fatto piacere condividere con l’autrice il fastidio profondo che il termine “foibe” sia usato senza rispetto da una comica famosa e sia diventato uno stupido refrain (quando l’ho sentito la prima volta ho pensato che sarebbe stato meglio che la sinistra non ne avesse parlato, come era stato per anni). Quando ero giovane sull’esodo istriano ne parlava solo la destra più becera e violenta; purtroppo ancor oggi è spesso così. E anche questo mi esaspera: non sono certo i facinorosi di Casa Pound che possono rappresentare gli esuli giuliano dalmati.

La ricerca di Silvia Dai Pra’ si svolge su più piani: parte dal disagio del padre anoressico e dalla riservatezza e dagli attacchi di panico (nostalgici?) di nonna Iole, e prosegue con necessità di documentarsi, di relazionarsi con gli abitanti di Santa Domenica di Albona, di andare sulle tracce di un passato che diventa sempre più faticoso decifrare.

Mi sono documentata e su internet ho trovato un’intervista a Silvia Dai Pra’ che mi ha chiarito ancor di più la sua posizione che condivido, rispetto, per esempio, al “riemergere del tema delle foibe ogni anno con le prepotenze di un partito politico o dell’altro per appropriarsi di quei cadaveri” per conteggiare i morti a seconda della convenienza, per portare come esempio di verità storica episodi di violenza ingiustificabile.

Inoltre, la sua ricerca iniziata per curiosità nei confronti di sua nonna Iole nata in un paesino non più italiano, mi ha fatto rivivere la mia personale ricerca sulla famiglia di mio padre, a Umago e Cittanova.

Dall’infanzia all’adolescenza non avevo fatto che sentire la storia dell’Istria e dell’esodo e non ne avevo preso le distanze, anche perché non ne potevo parlare liberamente con nessuno (all’infuori della famiglia nessuno ne sapeva niente) tanto meno a scuola con i professori: sembrava un tema proibito, ma non ne capivo il perché. Devo però precisare che le scuole le ho fatte nella Romagna “rossa” e ho poi capito perché non se ne voleva parlare: era un tema che mandava troppo in fibrillazione gli animi. L’ignoranza sull’argomento esodo e foibe era incredibile.

Poi, col tempo, ho iniziato anch’io una ricerca che, insieme alla mia amica Sandra De Perini, mi ha portata a ripercorrere le strade dell’Istria, a cominciare dal percorso che a Umago mia nonna paterna faceva tutte le mattine per recarsi al lavoro. Gestiva un’agenzia di spedizioni navali: ho ritrovato la casa di famiglia e la porta del suo ufficio (incredibile, ma ancora riconoscibile!). Sandra mi ha fotografata in varie sequenze e ancora adesso quando rivedo quelle foto, specie l’ultima, quella di fronte al mare, penso a mia nonna che dall’ufficio guardava verso il porto. Chissà come avrà vissuto il momento in cui quel porto lo vide allontanarsi per l’ultima volta, scappando verso Trieste dopo che il marito venne preso di notte (eh sì, con violenza e di notte) e non più ritornato. Saprà poi che era stato infoibato. Inutile dire se era fascista o antifascista: era un italiano d’Istria e basta.

Su alcuni muri di vecchi negozi c’erano ancora, parlo di 8 anni fa, sbiadite, le insegne dei passati proprietari: dei cugini di mio padre di cui conoscevo i discendenti che ora abitano a Trieste e quando io e Sandra ci siamo informate per ricercare le tombe di famiglia, abbiamo trovato, da parte di una signora ben informata, prima, al mattino, una grande disponibilità, ma al pomeriggio, spaventata, sembrava non ricordare più niente e ci ha fatto capire che era meglio che smettessimo di farle domande.

Qualche anno dopo, sempre io e Sandra, senza la quale la mia ricerca non sarebbe neanche iniziata, siamo andate in giro per l’Istria accompagnate dal libro di Anna Maria Mori Nata in Istria (Rizzoli 2006) e ne abbiamo condiviso le riflessioni e il pensiero dell’autrice sul significato profondo di essere nata in Istria.

L’anno scorso, infine, facendo ricerche sempre sulla famiglia di mio padre, a Cittanova ci siamo imbattute in una chiesetta, probabilmente sconsacrata, dove erano accatastate delle vecchie panche in legno nero che ancora riportavano la scritta delle famiglie che le avevano donate alla chiesa (anni ’30/’40?) e c’era ancora impresso il cognome della mia famiglia come in alcune tombe del cimitero ormai abbandonate e dimenticate.

Nel libro Senza salutare nessuno vengono descritte situazioni a me molto vicine. L’autrice si pone domande, si documenta e riflette sull’“esodo” e questa sua ricerca è un inizio di storia vivente perché nata da un nodo personale e cerca di far capire i gravi fatti accaduti in Istria.

Io ho riflettuto sulle donne del ramo paterno della mia famiglia, ho riconosciuto la loro forza che è stata per me di grande esempio e ancora oggi continuo a cercare testimonianze, prevalentemente femminili, dell’esodo istriano: una parte della storia italiana ancora poco conosciuta quasi una calcolata mancanza di memoria collettiva.

Anche per questo sono grata a Silvia Dai Pra’ che ha scritto il libro e all’amica che me lo ha fatto conoscere.

Chiudo con l’ultimo paragrafo del libro Bora di Anna Maria Mori (Marsilio 2018), un’autrice a me cara: …“Lei è jugoslava”. “Veramente no: io sono italiana. Sono nata in Italia.” Un’illuminazione: “Ah già dimenticavo … Allora lei è profuga”.

E chissà perché la cosa “lei è profuga” faceva così ridere il professore, la professoressa, l’impiegata del comune o dell’anagrafe che me lo chiedevano.

A me veniva da piangere. Anche e soprattutto perché gli altri ridevano.


(www.libreriadelledonne.it, 8 febbraio 2020)


Désirée Urizio, appassionata di storia e originaria istriana, ha raccontato la sua ricerca in Raccontare l’esodo con l’aiuto di Simone Weil e un suo primo testo di storia vivente si può leggere in: La práctica de la historia viviente. Con un prólogo de María-Milagros Rivera Garretas (Español)

di Giuliana Ferraino, inviata a Davos


«All’inizio del XXI secolo, tutte le montagne erano già state scalate, gli oceani scoperti, non rimanevano molte cose da trasformare in commodity, come aveva fatto il capitalismo industriale nella sua evoluzione. Così per fare profitti, dopo lo scoppio della bolla delle dotcom, le nuove aziende tecnologiche hanno individuato nell’esperienza umana la nuova materia prima da monetizzare: dai dati potevano estrarre i segnali per individuare i comportamenti futuri delle persone», sostiene Shoshana Zuboff per spiegare l’origine del «capitalismo della sorveglianza», che è anche il titolo del suo ultimo libro, pubblicato nel 2019. Ieri Zuboff, 68 anni, docente alla Harvard Business School, era a Milano, ospite di un evento organizzato da Kairos, la piattaforma del risparmio gestito che si autodefinisce anche «laboratorio».

«Il capitalismo di sorveglianza è alla base del nuovo ordine economico, che sfrutta i nostri dati personali senza chiedercelo. Ma questo è un furto, un’espropriazione dei diritti umani fondamentali», sostiene Zuboff. E chiama «parassiti» le grandi multinazionali digitali, che con i nostri dati rubati hanno creato «un nuovo mercato per scambiare i nostri comportamenti futuri». Prima riguardava solo la pubblicità targetizzata, oggi invece il fenomeno «è dappertutto: nelle assicurazioni, nel retail, nell’entertainement». Perfino nell’industria automobilistica, dove «l’auto non è più chiamata auto, ma è diventata un’esperienza di mobilità». Grazie ai dati. Anche la finanza ha sposato la tecnologia, tanto che si parla di tecno-finanza. Sono «settori simbiotici» e «il primo trae profitto dal potere della seconda», afferma Zuboff.

Guido Brera, cofondatore di Kairos e responsabile delle gestioni collettive della Sgr, offre la versione degli investitori: «Tassi a zero e l’enorme liquidità in cerca di rendimenti hanno spinto la finanza tra le braccia delle aziende tecnologiche, identificate come il luogo dove investire capitali pazienti, grazie a questo modello di business capace di vendere prodotti migliori a prezzo più basso, che elimina i concorrenti». Ma «c’è un costo da pagare», dice. «Il XXI avrebbe dovuto migliorare la nostra vita, ci hanno promesso che con i big data avremmo risolto molti problemi. Invece il capitalismo di sorveglianza ha preso in ostaggio il digitale, sfruttando l’enorme asimmetria della conoscenza: loro sanno tutto di noi, mentre per noi è impossibile sapere quello che fanno», spiega. Che cosa possiamo fare? «Come dice il mio amico premio Pulitzer per la storia, Thomas McCraw, le regole e la democrazia sono gemelle, le norme permettono la democrazia, la democrazia richiede regolamentazione. Dobbiamo capire a fondo il capitalismo della sorveglianza per poterlo regolamentare. Dobbiamo capire come si origina questa logica, per fermarla». Il rischio? Un nuova forma di disuguaglianza sociale, che Zuboff chiama «disuguaglianza epistemica», basata su «quanto loro possono conoscere e quanto possiamo conoscere noi».

La disuguaglianza epistemica si accompagna alla disuguaglianza economica. Perciò «abbiamo bisogno di un New Deal, come ai tempi di Roosevelt, per creare nuovi diritti, che attribuiscano agli individui il potere di decidere se vogliono diventare un dato, come e a che scopo». Cioè «un nuovo insieme di regole e istituzioni per fermare le catena di fornitura dei dati sul nascere. Ma anche per agire sul lato della domanda, «eliminando gli incentivi finanziari del dividendo della sorveglianza». Abbiamo messo fuori legge il commercio degli organi umani, dei neonati, degli schiavi, dovremmo anche dichiarare «illegale il mercato del futuro umano», conclude Zuboff. Ottimista, nonostante tutto. «L’Europa è più avanti: la legge sulla privacy non basta, ma è la migliore speranza per il futuro dell’umanità».


(La nuova disuguaglianza di Zuboff: «I grandi del tech sanno tutto di noi, noi nulla di loro», Corriere della Sera, 28 gennaio 2020)

di Gad Lerner


L’impegno per ricordare la Shoah non ha fermato la nuova xenofobia. I testimoni hanno fallito? È la domanda del saggio di Valentina Pisanty I guardiani della Memoria


È un libro talmente scomodo – questo che la semiologa Valentina Pisanty dedica all’insuccesso dei Guardiani della memoria (Bompiani) sovrastati dal ritorno delle destre xenofobe – da lasciare interdetta l’autrice stessa. Siamo debitori a Valentina Pisanty di analisi efficacissime sul fenomeno del negazionismo della Shoah (L’irritante questione delle camere a gas, s’intitolava un saggio del 1998), e anche questo suo ultimo lavoro è meticoloso, severo, ben scritto. Però… c’è un però.

Forse non l’ho capito io, ma l’imbarazzante verità dell’assunto iniziale, quello che lei chiama “il plateale fallimento delle politiche della memoria degli ultimi vent’anni”, visto che “il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore”, avrebbe imposto una conclusione che invece viene lasciata in sospeso. Non credo per reticenza, semmai per precauzione, Pisanty evita di indicare che cosa di diverso, in alternativa agli eccessi di ritualizzazione, avrebbe dovuto proporsi l’elaborazione collettiva di un evento catastrofico, solo parzialmente spiegabile, qual è stato lo sterminio di milioni di ebrei europei.

È significativo che in un saggio così attento alla cronaca recente – credo d’ora in poi davvero indispensabile – nel descrivere “l’avvento dell’era del testimone” e poi “la mercificazione del trauma” e infine “la saturazione della memoria”, con richiami sistematici a film, serie tv, spettacoli teatrali, dibattiti politici e cerimonie istituzionali, non si faccia cenno alla scelta del presidente Mattarella di nominare senatrice a vita Liliana Segre nel gennaio 2018. L’atto formale più solenne e di maggior risonanza compiuto in Italia per valorizzare la funzione della testimonianza e per diffondere una memoria condivisa della Shoah. Comprendo bene lo scrupolo morale di Pisanty, che mai si abbasserebbe a criticare “l’impegno civico dei sopravvissuti che hanno profuso energie alla condivisione delle proprie esperienze di deportazione”. Al contrario, è lei la prima a restare allibita di fronte alle “risate cattive”, alla “goliardia dell’Olocausto”. Basti per tutti l’intervento radiofonico da lei citato di Vittorio Feltri: “Gli ebrei rompono i coglioni da decenni con la Shoah”.

Il libro è dunque una critica sofferta, assai bene argomentata, allo “sproporzionato investimento simbolico che il culto della memoria carica sulle spalle dei testimoni” e, soprattutto, di chi si è assunto l’onere (arrogato il diritto?) di farne le veci. Cioè degli autonominati portavoce delle vittime, Guardiani per delega, peraltro mai ricevuta. Ora, io ho seguito con crescente interesse i capitoli in cui Pisanty descrive gli effetti indesiderati prodotti dalla “stanchezza del paradigma vittimario”. È tristemente vero che, assumendo il modello semantico della memoria della Shoah, sostitutiva delle grandi ideologie novecentesche, proposta come pietra angolare dell’etica liberale, europea e cosmopolita, si è ottenuto un effetto indesiderato: la moltiplicazione di memorie vittimistiche locali, spesso in contrapposizione alla tragedia ebraica, nel solco del tribalismo xenofobo. D’accordo. Concediamo pure che l’insorgenza dei nuovi razzismi, verificatasi senza che il culto della memoria riuscisse a preservarcene, dalla rivolta contro quella stessa memoria abbia tratto incoraggiamento. Lo dimostra la riesumazione di eroi nazionali antisemiti nell’est post-comunista, ma anche la denigrazione volgare di icone-vittime come Anne Frank nei nostri stadi di calcio.

Ma allora? Quali conseguenze dovremmo trarne? Ammetto di essere condizionato, nel mio giudizio, dal lavoro di raccolta delle testimonianze filmate dei partigiani viventi che insieme a Laura Gnocchi stiamo conducendo sotto l’egida dell’Anpi. Sappiamo bene che presi di per sé questi racconti, benché spesso eccezionali e commoventi, non possono sostituirsi a una rigorosa interpretazione storica. Vale anche per i testimoni della Shoah, ormai rimasti in pochi. Non penso certo che Pisanty proponga di considerarli inutili, o addirittura fuorvianti. La conseguenza da trarne è piuttosto un’altra, tutt’altro che limitativa: si tratta di riconoscere che, a suo modo, la memoria dei sopravvissuti rappresenta una forma di lotta politica e culturale. Che si lascia consapevolmente strumentalizzare a fini di giustizia e consapevolezza nell’oggi. Non è il caso di lasciarsi turbare da questo esplicito richiamo alla strumentalizzazione, perché di strumenti il nostro agire ha bisogno. Come è noto, la memoria della Shoah viene posta al servizio di due diverse cause: la legittimazione dello Stato d’Israele che, secondo alcuni discutibilissimi critici come Sergio Romano pretenderebbe addirittura di utilizzarla come “salvacondotto morale” nella sua politica di difesa. E in aggiunta, o in alternativa, la seconda “causa” che si propone la memoria della Shoah è il richiamo a stare dalla parte dei discriminati e dei profughi del mondo contemporaneo. Pur consapevoli dell’unicità delle sofferenze patite, testimoni come Liliana Segre e Piero Terracina vi si sono prestati consapevolmente.

La memoria non è mai scientifica, s’impone nella controversia e per questo suscita rigetto. È immersa nelle lacerazioni sociali e culturali che alimentano ostilità, nuove competizioni, revival di pregiudizi. Siamo grati a Valentina Pisanty per la lucidità impietosa con cui descrive questi meccanismi di contrapposizione. Ma, insieme a lei, non smetteremo di richiamarci all’insegnamento delle vittime.


Il libro. I guardiani della Memoria di Valentina Pisanty (Bompiani, pagg. 256, euro 13).


(La Repubblica, 23 gennaio 2020)