di Gabriella Dal Lago
Nella vignetta uscita sul «The Guardian» a inizio gennaio, il fumettista e illustratore Tom Gauld propone la parodia del dialogo tra Jo March e il proprio editore a cui assistiamo in una delle scene del film di Greta Gerwig. La striscia, intitolata proprio «Jo March riceve alcuni consigli dal proprio editore», è divisa in tre riquadri: nel primo, un signore con la barba e gli occhialetti regge in mano il manoscritto di Piccole donne e asserisce «Se il personaggio principale è una ragazza, accertati che per la fine del libro sia sposata. O morta»; nel secondo riquadro, una ragazza con i capelli corti e un abbigliamento maschile alza il dito indice con una divertita aria di sfida chiedendo «O entrambe le cose?», mentre un baloon che proviene dalla direzione in cui sappiamo essere seduto l’editore riporta la risposta dell’uomo, un titubante «Ehm… certo». L’ultimo riquadro della striscia di Tom Gauld, privo di dialogo, raffigura il manoscritto da cui è stato cancellato con la penna rossa il titolo Piccole donne e sostituito con, sempre in rosso, la nuova alternativa L’attacco delle spose zombie.
Rileggere i quattro libri di Piccole donne di Louisa May Alcott nel 2020, a parecchi anni di distanza dalle letture dell’infanzia, offre l’occasione di guardare da una nuova prospettiva un testo in cui solitamente si resta imbrigliati, attaccati a reminiscenze che si accompagnano a delusioni ancora brucianti e passioni non sopite per le avventure delle giovani sorelle March. Non solo: rileggere Piccole donne nel 2020, sull’onda di un discorso femminista che tocca cultura, letteratura, cinema, politica, diventa un modo per orientarci, per capire dove stiamo andando e da dove siamo partite. Soprattutto, ci interroga su come porci nei confronti di un classico della letteratura per ragazze che ha formato, in maniera radicale o anche solo tangenzialmente, moltissime generazioni. Il proposito è quello di affrontare la rilettura con una lanterna tra le mani che non ci porti a cercare qualcosa che nel libro non c’è, ma che ci porti a vedere con più chiarezza quello che nel libro c’è sempre stato, e che oggi guardiamo con occhi nuovi.
L’adattamento cinematografico scritto e diretto da Greta Gerwig inizia con una Jo March adulta, alle prese con la propria scrittura e il tentativo di farne un mestiere, e procede poi con una serie di salti temporali che intrecciano tra loro Piccole donne e Piccole donne crescono. La figura di Jo March si sovrappone a quella di Louisa May Alcott (è quello che accade anche nella vignetta di Gauld, che cita appunto Gerwig): il film inizia e finisce con la prima copia data alle stampe di Piccole donne e firmato Jo March. Se la sovrapposizione tra la protagonista dei romanzi e la loro scrittrice è così esposta nella scelta di Gerwig, il gioco di specchi e di riflessi tra Jo e Louisa è una tensione essenziale all’interno dei quattro libri delle Piccole donne, tensione che viene resa ancora più evidente dalla lettura della biografia di Alcott scritta da Martha Saxton nel 1995, e pubblicata in Italia nel 2019. Jo incarna la battaglia di Louisa per diventare buona (aggettivo che più volte trova il sinonimo di “femminile” nelle dispute in casa Alcott), e che porta la protagonista del libro a quietare la propria irrequietezza e la scrittrice a coltivarla, a renderla radicale e mai davvero pacificata.
Piccole donne è il romanzo della sorellanza ma è anche e soprattutto il romanzo di Jo March e della sua lotta per sentirsi bene nel corpo (e conseguentemente nel ruolo) in cui è nata: quello di una donna. «Non mi va per niente giù l’idea di dover crescere e diventare Miss March! È già una bella scocciatura essere donna, quando mi piace tutto quello che è riservato agli uomini, giochi, mestieri, modo di vivere. Non riesco proprio ad accettare di non essere un ragazzo», esclama Jo nelle prime pagine del romanzo. Se le altre sorelle March riescono a vedere davanti a loro un futuro che ha fatto pace con il loro essere donne nell’America vittoriana dell’Ottocento, Jo sa solo quello che non vuole: sposarsi, avere dei figli, seguire quel sentiero che vede così ben delineato di fronte a sé. Il circolo Picwick, in cui le sorelle March e Laurie giocano a fare i gentiluomini, è per Beth, Amy e Meg un passatempo, mentre per Jo diventa lo spazio in cui performare la parità dei generi. La visione di Jo, che non mette barriere tra sé e l’amico, è proprio ciò che porta Laurie a fraintendere i sentimenti della ragazza e a spingerlo a dichiararsi. Il rifiuto di Jo è quasi un’accusa di tradimento nei confronti di Laurie. «Ho solo una cosa da aggiungere: credo che non mi sposerò mai. Sono felice così, amo troppo la mia libertà per accettare la prospettiva di rinunciarci», dice Jo a Teddy. Jo vive in una società all’interno della quale non si sente adatta all’amore, perché amare significa accettare un insieme di regole e obblighi a cui la giovane March non vuole sottomettersi.
Nella raccolta di saggi di Jia Tolentino dal titolo Trick Mirror, ancora inedita in Italia, è incluso Pure Heroines, una riflessione sulla costruzione dell’identità femminile sulla base del confronto con le protagoniste della letteratura. Tolentino osserva che se le eroine dell’infanzia sono forti, resilienti, spesso ostinate e verbose, le eroine dell’adolescenza si dividono tra la disperazione e l’insulsaggine (tratto tipico delle eroine dei romanzi Young Adults), mentre quelle dell’età adulta sono frustrate, depresse e inclini al suicidio. In una triade esemplificativa: Jo March, le sorelle Lisbon de Il giardino delle vergini suicide, Emma Bovary. Le eroine dell’infanzia sono molto sovente dei “maschiacci”: non ancora sopraffatte dalla trasformazione del loro corpo in un oggetto sessualizzato, possono muoversi in una zona grigia, uno spazio in cui è loro concesso di immaginare un futuro di cui sono pienamente in controllo. Nel caso di Jo, un futuro da scrittrice in una città grande come New York. Quando la trasformazione da bambina a giovane donna si compie, quello spazio di libertà viene improvvisamente oscurato dalle aspettative e dal desiderio che il mondo proietta sui corpi (e conseguentemente sulle menti) delle eroine adolescenti: scrive Tolentino, «le eroine dell’infanzia mi avevano mostrato ciò che avrei voluto diventare, ma le eroine adolescenti mi avevano mostrato ciò che avevo paura di diventare – una donna la cui vita si sarebbe sviluppata attorno alla propria desiderabilità». Con l’adolescenza di Jo arriva la proposta di matrimonio di Laurie, che inizia a vederla come una donna. Nell’età adulta, le donne della letteratura affrontano le conseguenze del matrimonio e di una società che ha tracciato per loro un sentiero da seguire. Piccoli uomini e I ragazzi di Jo fotografano la vita delle Piccole donne diventate adulte. Mentre Piccoli uomini segue le storie degli studenti ospiti della scuola fondata da Jo con suo marito, il professor Bhaer, I ragazzi di Jo si colloca una decina di anni dopo questo terzo libro e racconta la crescita, il successo e le difficoltà degli studenti di Jo. I veri protagonisti di questi ultimi due libri sono Nat, Dan, Daisy, Demi e Nan, una nuova generazione di bambini. Gli adulti sono invece pallidi, molto diversi dalle figure che ci avevano appassionato nei primi due libri della serie: Laurie e Amy sono sposati e hanno dei figli; Meg e John Brooke vivono sereni con i loro bambini; i signori March sono sempre più sullo sfondo. La strenua opposizione al matrimonio e alla maternità di Jo si è trasformata in un matrimonio tranquillo con un professore tedesco più anziano di lei, e in una scuola in cui, oltre ad accudire i propri figli, è diventata la madre di un sacco di bambini presi sotto la sua ala.
Agli occhi di una lettrice, la Jo adulta si è macchiata di alto tradimento nei confronti dei propri sogni di bambina. Agli occhi di Louisa May Alcott, invece, Jo adulta è riuscita a trovare un equilibrio che si è tradotto nel trasformarsi da una piccola donna a una donna. A raccogliere il testimone dell’eroina dell’infanzia c’è Nan: bambina difficile da domare in Piccoli uomini, ne I ragazzi di Jo Nan è una brillante studentessa di medicina che rifiuta l’amore per dedicarsi solo alla propria professione. Jo, che frequenta un circolo femminile, ascolta con stupore le discussioni di quelle nuove piccole donne, e domanda «Ma se non vi sposerete, che cosa farete?», ricevendo come risposta «Oggi non si ride più delle zitelle come una volta, almeno da quando qualcuna di loro non è diventata famosa e ha chiaramente provato che la donna non è solo la dolce metà, ma un essere autonomo che può benissimo fare da sé». La titubanza di Jo, quella che la porta a confessare a Nan di chiedersi se le scelte che ha fatto non abbiano tradito la sua vera vocazione, è la titubanza di una donna che vede il mondo cambiare, diventare un po’ più simile a quello che avrebbe sperato per sé quando era una bambina che sognava di vivere da sola a New York in mezzo ai propri libri.
È proprio in quella titubanza che possiamo cogliere l’invito con cui Tolentino chiude il proprio saggio sulle eroine dei romanzi: iniziare a guardarle non più come delle sorelle, delle pari, ma come delle madri, delle figure da cui discendiamo e a partire dalle quali abbiamo il compito di diventare qualcosa di diverso, di più nostro. Rileggere Piccole donne nel 2020 significa smettere di essere Jo March e trasformare Jo March in una madre: in attesa di essere noi le autrici di L’attacco delle spose zombie.
(L’Indice, n. 3, marzo 2020)
di Franca Fortunato
Dopo il grande successo televisivo della prima parte dello sceneggiato L’Amica geniale, la Rai sta trasmettendo la seconda, Storia del nuovo cognome, tratte dai romanzi di Elena Ferrante, a cui seguono Storia di chi fugge e di chi resta e Storia della bambina perduta. Una quadrilogia, un racconto epico di una grande amicizia tra due donne, Lila ed Elena, “un grande affresco storico”, un’“istruttoria” – come ebbe a dire Ferrante – intorno alle vite e alle loro lacerazioni. Sin dal suo primo romanzo L’amore molesto (1992) Ferrante, ancora ignara del successo che avrebbe avuto in seguito con L’Amica geniale (7 milioni di lettori in tutto il mondo, tradotto in 48 lingue), scelse di non rivelare la sua identità per «il desiderio (…) che l’angolo dello scrivere resti un luogo nascosto, senza sorveglianza e urgenza di nessun tipo». Una condotta di riservatezza – scrive Tiziana de Rogatis in Elena Ferrante. Parole chiave (e/o edizioni 2018) – estranea al narcisismo di oggi. L’amicizia tra due donne, poco raccontata, sta al centro della sua narrazione, che abbraccia un lungo periodo storico che va dall’infanzia, nella misera periferia di Napoli, alla maturità delle protagoniste, dal 1950 al 2010 (dai sei ai 66 anni di entrambe), quando Lila decide di sparire senza lasciare traccia ed Elena, che se l’aspettava, decide di raccontare la loro amicizia “geniale”, “tenere a genio” come si dice a Napoli, con cui Lila chiama la sua relazione con Elena.
Uno dei luoghi comuni è che le donne non sappiano essere amiche, non sappiano stabilire una relazione leale e duratura, il che contraddice l’esperienza di tante di noi. L’Amica geniale fa i conti con questo stereotipo e lo smonta – come scrive de Rogatis – mettendo al centro del racconto un’amicizia tra due donne intensissima, un legame forte e duraturo con tutte le sue contraddizioni e turbolenze, senza alcun tentativo di esemplarità e di idealizzazione. Invidia e competizione, amore e astio, slanci ed egoismi, confessioni e segreti si amalgamano in quella relazione da cui, almeno fino all’adolescenza, entrambe traggono la forza per sopravvivere, sottraendosi ad ogni vittimismo, e per riappropriarsi nell’età adulta della propria vita, nello scenario della contestazione e del femminismo degli anni ’70. Lila ed Elena hanno salvato la loro amicizia dalla distruttività dell’invidia con l’ammirazione che in fondo hanno sempre avuto l’una per l’altra. Loro, come la mia generazione, vengono da millenni di cultura patriarcale che ha glorificato l’amicizia tra uomini e disprezzato quella tra donne. Un sottile veleno contro le relazioni tra donne, a partire da quella madre-figlia, è circolato in quella cultura che ha generato diffidenza tra donne e ingratitudine verso la madre. Se da mia madre ho imparato l’amicizia tra sorelle, dalle altre donne ho imparato a riconoscere nell’amicizia una pratica politica, che viene dall’amore femminile per la madre e trova fondamento nella fiducia, stima, affetto, riconoscenza e gratitudine tra donne. Un’amicizia, come l’amore o una relazione politica, può finire, ci si può allontanare e riavvicinare, ciò che conta è imparare a fare vivere l’amicizia oltre sé stessa, che vuol dire che l’altra non è mai la mia nemica, non le faccio la guerra, non ne parlo male, non l’aggredisco, non la insulto, non la delegittimo. Insomma salvo ciò che mi sta più a cuore, la civiltà della relazione tra donne.
(Il Quotidiano del Sud, 20 febbraio 2020)
di Erica Moretti
Anniversari. A 150 anni dalla nascita della scienziata marchigiana, il suo metodo pedagogico l’ha resa famosa nel mondo. A oggi il suo approccio educativo conta migliaia di scuole, soprattutto in Nord Europa e negli Stati Uniti. Femminista, pacifista e viaggiatrice, molte le iniziative per omaggiarla
Il
2020 segna il centocinquantesimo anniversario della nascita di Maria
Montessori. Convinta della necessità di liberare l’infanzia dalla
repressione insita nei sistemi educativi improntati sul «principio
di schiavitù», la scienziata marchigiana ideò un nuovo approccio
pedagogico che ripensava il ruolo del bambino tanto nella classe
quanto nella società.
Rigore
scientifico, coraggio intellettuale, profonda fede nelle infinite
capacità del fanciullo: furono queste le caratteristiche distintive
di Maria Montessori, nata a Chiaravalle, in provincia di Ancona, il
31 agosto 1870.
In occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita, in varie parti d’Italia prenderà vita un ricco calendario di eventi, conferenze, spettacoli, installazioni e laboratori: dalla mostra Toccare la bellezza presso la Mole Vanvitelliana di Ancona sul valore estetico della tattilità, al Congresso internazionale organizzato dall’Opera Nazionale Montessori, o la riqualificazione della casa dove nacque.
La grande varietà dei temi affrontati, dalla psichiatria al pacifismo, dall’umanitarismo all’applicazione del metodo nel trattamento di persone con demenza, permetterà di riscoprire, accanto alla ben consolidata immagine di Montessori come pedagogista della libertà, anche una figura di intellettuale eclettica e ricca di sfaccettature, femminista, filantropa, teosofa, cattolica, imprenditrice, scienziata positivista e pacifista. Una poliedricità straordinaria, che trovò inevitabile riflesso nel suo testo principale, Il Metodo della pedagogia scientifica. Pubblicato nel 1909, ha fatto da spartiacque nella vita di Maria Montessori e, soprattutto, nella storia della pedagogia internazionale.
Montessori visse e morì viaggiando. La leggenda narra che l’ultima conversazione avuta con il figlio Mario, all’età di 81 anni, riguardasse la pianificazione di un viaggio in Africa. La costante mobilità e le lunghe permanenze in Spagna, Olanda e India certamente raffinarono e influenzarono la sua visione pedagogica e posero le basi per la diffusione del metodo all’estero che all’oggi conta migliaia di scuole in tutto il mondo, soprattutto in Nord Europa e negli Stati Uniti. Eppure, fu l’atmosfera dinamica e cosmopolita respirata nella Roma di fine Ottocento, durante gli anni della formazione universitaria, a segnare profondamente il percorso scientifico, intellettuale e umanitario della dottoressa. Maria Montessori si trasferì a Roma con la famiglia, all’età di cinque anni, per seguire il padre Alessandro, impiegato ministeriale. La madre Renilde Stoppani, donna d’insolita cultura e guidata da idee liberali, sostenne la figlia, fin dal principio, nelle sue scelte formative anticonformiste. Proprio negli anni in cui la psichiatria, in accordo con l’antropologia, dichiarò la scientifica inferiorità morale e intellettuale femminile, Montessori scelse, dopo aver conseguito gli studi tecnici superiori, di laurearsi in medicina, confrontandosi con tutti gli ostacoli politici e culturali posti alle donne intenzionate a intraprendere una carriera in campi storicamente dominati dagli uomini.
Quando, nel 1896, Montessori parlò dal palco del congresso internazionale femminile di Berlino nelle vesti di rappresentante dell’Associazione femminile di Roma, sollevando temi scottanti come i diritti delle donne lavoratrici e la parità di salario, il Corriere della Sera preferì evidenziare l’appartenenza di genere sessuale, sottolineandone il connotato negativo, invece che l’urgenza dei temi affrontati o lo straordinario successo raggiunto dalla compatriota: «il discorsetto della Signorina Montessori, con quelle cadenze musicali, col gesto parco delle braccia correttamente inguantate, sarebbe stato invece un trionfo – anche senza il diploma dottorale e le velleità emancipatrici – un trionfo della grazia femminile italiana». Ciononostante, spinta da una tenacia e una costanza ferree, «la medichessa» non solo ottenne la specializzazione in Psichiatria, ma partecipò attivamente alle iniziative scientifico-umanitarie promosse dai suoi mentori e colleghi, tra cui la Lega Nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti presieduta da Clodomiro Bonfigli.
La
scrittura di Montessori fu specchio della società da cui prese
ispirazione per oltre mezzo secolo. Di fatto, Il
Metodo, come un gioco
di scatole cinesi, apre a lettori e lettrici scenari complessi e
ancora attuali: ci informa del diritto degli emarginati a
un’educazione di qualità, della necessità di una formazione
scientifica per gli insegnanti, dell’urgenza di garantire un
sostegno alle donne lavoratrici e, soprattutto, dell’inalienabile
diritto di crescere scegliendo liberamente ciò che si vuole
diventare. Una Montessori viva, che parla di un passato profondamente
simile al presente.
Nasce,
con lei, un nuovo modo d’intendere l’educazione, la scuola e il
bambino. L’insegnante passa dall’essere soggetto attivo della
lezione a osservatore silenzioso e il fanciullo, in piena libertà,
si avvicina al materiale didattico auto-correttivo. La scuola e la
classe sono concepite come proprietà collettive. I bambini, non più
«fissi sul posto rispettivo, sul banco come farfalle infilate a uno
spillo», sono liberi di perseguire il proprio sviluppo, fisico,
intellettuale e spirituale. Questo pensiero caleidoscopico non si
limita al suo testo più famoso ma s’irradia in una costellazione
di scritti brevi, saggi e conferenze.
Una Montessori pacifista emerge nel progetto della Croce Bianca, l’organizzazione umanitaria pensata per soccorrere tutti «i bambini che avevano sofferto emozioni violente nelle zone di guerra, ed erano rimasti indeboliti nel sistema nervoso». Pronta a curare i «piccoli derelitti», Montessori li accolse in più occasioni nelle sue scuole, in «uno stato di stupefazione, incapaci di comprendere, tremanti all’approssimarsi di chicchessia, paurosi del giorno come della notte» e bisognosi di un clima di protezione e di stimolante tranquillità.
Un
messaggio, quest’ultimo, che non può che trovare echi nella nostra
crisi contemporanea. Commentando il suo impegno pacifista, il leader
spirituale Mohandas K. Gandhi disse a Montessori: «Hai giustamente
osservato che se vogliamo ottenere una pace vera in questo mondo e se
vogliamo combattere contro la guerra, dobbiamo cominciare dai
bambini. Se quest’ultimi cresceranno nella loro naturale innocenza,
non saremo più costretti a lottare, non dovremo approvare inutili
risoluzioni, ma passeremo dall’amore all’amore e dalla pace alla
pace».
L’anniversario
della nascita offre l’occasione per ripensare Montessori in grande,
per far luce su aspetti del suo pensiero fino a questo momento
rimasti nell’ombra della riflessione pedagogica. Un’occasione da
non perdere per dare il giusto risalto a una figura famosa nel mondo
ma ancora non sufficientemente apprezzata in patria.
Ci sarà anche un tulipano speciale
Il volto di Montessori insieme a materiali per lo sviluppo della mente logico-matematica è stato impresso in una nuova moneta per festeggiare l’anniversario dall’artista Luciana De Simoni. Lo avevamo già visto su francobolli, sulle monete da duecento e i biglietti da mille lire. Questa volta l’effigie, fortemente voluta dall’Opera Nazionale Montessori, non rappresenta l’icona di una gloria nazionale passata, ma il tributo di una comunità intellettuale globale che festeggia insieme la poliedricità della scienziata di Chiaravalle, il cui lavoro ha tutt’ora ripercussioni transnazionali. E anche l’Olanda si prepara a festeggiare la sua figura con un tulipano speciale che scuole e famiglie potranno coltivare presso di loro. È un omaggio alla sua visione ecologica dell’educazione. «Quando il bambino esce, è il mondo stesso che si offre a lui. Non esiste una descrizione, un’immagine in qualsiasi libro che sia in grado di sostituire la vista di alberi reali e tutta la vita che si trova intorno a loro, in una foresta vera e propria». Infine, per saperne di più: Maria Montessori, «Il Metodo della pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile nelle case dei bambini» (Lapi, 1909); Maria Montessori, «Educazione e pace» (Opera Nazionale Montessori, 2004); «Le ricette di Maria Montessori» (Fefè Editore, 2008); «In giardino e nell’orto con Maria Montessori» (Fefè Editore, 2010); Renato Foschi, «Maria Montessori» (Ediesse, 2012).
(Il manifesto, 14 febbraio 2020)
di Franca Fortunato
Il bellissimo film Piccole donne della regista americana Greta Gerwig, che ha riscosso un clamoroso successo di pubblico, anche nella nostra città, e di critica, è stato girato a Concord, Massachusetts, nella casa-museo in cui la sua autrice, Louisa May Alcott lo scrisse più di 150 anni fa. La regista ha riunito in uno i due libri Piccole donne e Piccole donne crescono, così come vengono pubblicati in America sin dal 1880. L’autrice pubblicò il primo volume nel 1868 e il secondo nel 1869 a cui seguirono Piccoli uomini e I ragazzi di Jo, ultimo suo romanzo. In Italia i due libri, tradotti nel 1930 e 1940, sono sempre stati pubblicati separatamente.
Louisa – come scrive la sua biografa Martha Saxton in Louisa May Alcott. Una biografia di gruppo (Jo March ed. 2019) – aveva 35 anni quando, nella primavera del 1860, cominciò a scrivere Piccole donne. Era una donna alta, dalle spalle forti, con gli occhi scuri e i capelli neri. Lei era riluttante a scrivere il libro che l’avrebbe resa famosa e ricca. Fu spinta dal padre e dall’editore che le richiese un “libro per ragazze”. Non stimava questo tipo di letteratura, ma avrebbe scritto qualsiasi cosa – come aveva fatto fino ad allora, incoraggiata dalla madre, Abby, pubblicando poesie, racconti, favole sotto lo pseudonimo A.B. Barnad – pur di fare soldi per aiutare la madre, caricata di tutte le responsabilità familiari da un marito, Bronson, irresponsabile. «Non mi sono mai piaciute le ragazze né ne ho mai conosciute molte, a eccezione delle mie sorelle», rispose all’editore. Invece di cercare in un mondo immaginario, si mise giorno dopo giorno a ripercorrere e rielaborare, in forme e immagini ideali, l’infanzia e l’adolescenza sua e delle sorelle – Anna, Elizabeth, May – cresciute in assoluta povertà, accanto alla madre. Per anni coltivò il sogno di dare a sua madre sicurezza economica e serenità, «cosa più importante di ogni successo personale», e fu felice quando poté realizzarlo.
A trentacinque anni Louisa era una donna stanca e malata. Era uscita da una malattia che per poco non le era costata la vita; aveva visto sua sorella Elizabeth (Lizzie) morire, Anna stava per maritarsi e la sua breve esperienza della guerra civile, come infermiera in un ospedale, era stata drammatica e da allora non era stata più bene. Aderì alla causa dell’antischiavismo e fu una suffragista, come la madre. Louisa avrebbe voluto che Jo, come lei, non si sposasse, perché «una donna non è la metà di nessuno, ma un essere umano completo, che sa reggersi sulle proprie gambe» e perché «la libertà è un marito migliore dell’amore, per molte di noi», ma cedette alle richieste delle lettrici e del suo editore. La popolarità di Piccole donne la colse di sorpresa. Si era annoiata a scriverlo, cosa che, invece, non aveva provato scrivendo il suo primo romanzo Mutevoli umori, da cui restò delusa. Scoprì di detestare la notorietà e, prevedendo sue biografie, censurò tutte le sue lettere e i diari, distruggendo tutto ciò che le pareva inaccettabile. Louise era orgogliosa di sé, della sua autonomia e scrisse sempre, nonostante la cattiva salute, il dolore per la sorella Anna, rimasta vedova con due figli, per la morte della madre e dell’amata sorella May, promettente pittrice, morta dopo il parto affidandole la piccola Lulu. Pensando al suo senso del dovere «che mi tiene incatenata alla galea», scrisse: «Il mio desiderio più grande è sempre stato la libertà, ma non l’ho mai avuta». Morì da sola, senza nessun familiare accanto, il 6 marzo 1888, due giorni dopo del padre. La sorella Anna morirà nel 1893.
(Il Quotidiano del Sud, 14 febbraio 2020)
di Paolo Giordano
Credo che in molti ricordiamo il momento in cui sullo schermo del computer è comparsa per la prima volta una pubblicità che sembrava leggerci nei pensieri. O lo sbigottimento simile quando ci siamo chiesti: è possibile che lo smartphone mi abbia appena ascoltato? O ancora, il misto di gratificazione e imbarazzo quando è stato l’iPhone stesso, spavaldamente, a domandarci: «A cosa stai pensando?».
Ricordiamo il giorno in cui accedendo alle nostre foto abbiamo scoperto che erano state arbitrariamente suddivise in categorie, raggruppate in base ai volti ricorrenti, ai paesaggi, perfino alle emozioni sottese, come se una mano materna e invisibile si fosse preoccupata di mettere ordine nelle nostre vite. Io ricordo anche il tuffo al cuore iniziale nel percorrere su Street View la via dove abitavo, nello scovare la facciata della mia casa di allora. E il pomeriggio, molto tempo prima, in cui mio padre mi chiamò per mostrarmi la meraviglia di Google Earth, la palla della Terra tutta contenuta nel monitor, la promessa implicita in quella tecnologia di poter presto arrivare ovunque, di vedere tutto, di conoscere ogni dettaglio del pianeta.
Ma soltanto oggi, dopo le seicento pagine del Capitalismo della sorveglianza, riconosco quei momenti come le tappe di un accerchiamento, di un percorso occulto diretto all’espropriazione della mia esperienza, della mia privacy, della mia natura stessa di essere umano.
Definizione: «Il capitalismo della sorveglianza è un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita». Significa, in modo più diretto e grossolano, che aziende come Google, Facebook, Microsoft e Twitter, all’apparenza così magnanime nella loro gratuità, lucrano sui dati che il loro utilizzo gli permette di raccogliere su di noi. Significa che quei dati sulle nostre vite, che forniamo in parte volontariamente e in larga parte no, sono il bene più prezioso e richiesto oggi dal mercato, il petrolio della nostra epoca. Shoshana Zuboff ha consacrato un’opera monumentale a questa mutazione ultima del capitalismo, forse la più estrema e la più subdola, di certo la più sfuggente che la civiltà si sia trovata ad affrontare.
Se il capitalismo di Karl Marx si cibava di forza lavoro, se la sua materia prima era la classe operaia, il capitalismo della sorveglianza si ciba «di ogni aspetto della vita umana». E la sua materia prima siamo, semplicemente, noi: le nostre fotografie, i nostri commenti, i nostri viaggi, i nostri amici, le nostre idiosincrasie, le nostre paure, i nostri desideri, le nostre condivisioni, i nostri like. L’analogia è fertile, quindi conviene spingerla più avanti: se il capitalismo industriale ha portato alla distruzione dell’ambiente che oggi cerchiamo malamente di fronteggiare, il capitalismo della sorveglianza minaccia di distruggere niente meno che la nostra libertà.
Zuboff documenta passo dopo passo la costruzione di questo potere trasparente e ormai ubiquo. Gli attori principali della storia che racconta hanno nomi precisi: si chiamano Google, Facebook, Microsoft, Twitter; si chiamano Zuckerberg, Page, Brin, Schmidt e Sandberg, ma hanno raccolto attorno a sé una folla di comprimari, tutti bramosi di avere un pezzo della nostra esperienza da rivendere sul mercato. E si tratta di una storia recente, sebbene il mondo sia quasi irriconoscibile da com’era prima. «L’anno spartiacque nel quale il capitalismo della sorveglianza mise radici» è il 2002, quando Google inventò il targeted advertising, la pubblicità mirata. All’incirca, insomma, quando abbiamo visto comparire sullo schermo quell’inserzione che sembrava averci letto nei pensieri.
Le pubblicità online di prima erano casuali, ci cadevano addosso a pioggia, indistintamente, un po’ come i manifesti che attirano o no il nostro sguardo per strada. Google, sulla cui barra le persone digitavano parole alle quali erano interessate in un preciso istante, capì che avrebbe potuto sfruttare quelle stesse parole per supporre cosa passasse nella testa dei suoi utenti e proporre loro, di conseguenza, pubblicità selezionate. Conoscere con esattezza i desideri di ogni singolo consumatore è sempre stato «il Sacro Graal della pubblicità»: i templari di Brin e Page lo avevano trovato. Era semplice. Era geniale. Così geniale da far schizzare Google fuori dalla selva delle start-up a rischio di estinzione in quegli anni di crisi. Ma non bastava. Seguendo fino in fondo lo spirito inaugurato con le pubblicità mirate, Google sarebbe infine diventato il colosso dell’economia mondiale che è oggi, nonché la potenza egemone delle nostre singole vite, l’entità che tutto sa e tutto prevede di miliardi di persone sul pianeta.
Dal 2002 le tecniche di raccolta – o sarebbe meglio dire di mietitura – dei dati personali si sono perfezionate a una velocità sbalorditiva. Altri capitalisti della sorveglianza si sono affiancati a Google. Facebook in particolare, con l’introduzione del tasto Mi piace, si è trovato all’improvviso in vetta alla classifica. Non doveva nemmeno fare la fatica di supporre ciò che i suoi utenti desideravano, perché erano loro smaniosi di dichiarare ogni preferenza: vestiti, animali domestici, cibo, serie tv, scuole, farmaci, partner sessuali, candidati alle prossime elezioni. Tutto.
La corsa all’oro era aperta. Facebook, Google e gli altri hanno assoldato i giovani informatici più brillanti del pianeta, così come matematici, fisici e ingegneri; se li sono strappati di mano con stipendi vertiginosi, tanto da creare una crisi di cervelli nella ricerca. Li hanno chiusi in ufficio a estrarre e analizzare dati, e hanno aggiunto altri soldi affinché non pensassero troppo alle conseguenze etiche di quanto stavano combinando. Tutte quelle menti fibrillanti insieme hanno fatto una scoperta ancora più grandiosa. Hanno capito che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i dati più interessanti per profilare un utente non sono quelli che l’utente fornisce in modo esplicito. Non sono le nostre preferenze dichiarate né le parole chiave digitate sulla barra di Google, bensì tutti quei dati impliciti legati alle nostre azioni mentre utilizziamo internet, i social network e la galassia di dispositivi collegati alla rete. Ciò che Shoshana Zuboff battezza il «surplus comportamentale».
Gli algoritmi sviluppati nella Silicon Valley sono in grado di comprenderci molto meglio se analizzano gli orari in cui facciamo più scrolling su Instagram, il numero di profili che seguiamo, i filtri che usiamo volentieri per valorizzare le nostre foto. Misurano la lunghezza delle nostre frasi, la quantità di emoji che ci mettiamo dentro e quanto abusiamo di punti esclamativi. Di più: riconoscono le smorfie impercettibili nei nostri selfie e le esitazioni nei messaggi vocali, potrebbero perfino contare i battiti di ciglia mentre guardiamo un video di YouTube che ci appassiona o ci disgusta o ci intenerisce. Forse lo fanno. Tutti questi metadata, elaborati opportunamente, dicono di noi più di quanto saremmo in grado di spiegare a parole. Eccolo il cibo preferito del capitalismo della sorveglianza: psicologia del comportamento combinata con statistica e capacità di calcolo sempre più estese. Così «non è la sostanza che viene analizzata, ma la forma». A essere scandagliato non è più il nostro conscio, tutto sommato abbastanza semplice da catturare e per noi da controllare, ma l’inconscio stesso.
L’ambizione folle del capitalismo della sorveglianza è diventata quella di conoscere tutto di noi prima che noi stessi lo sappiamo. Il suo fine ultimo: utilizzare quella certezza su di noi, contro di noi, per manipolarci, modificarci e spingerci ad acquistare sempre di più. «Lo scopo – scrive Zuboff – non è imporre norme comportamentali come l’obbedienza o il conformismo, ma produrre un comportamento che in modo affidabile, definitivo e certo conduca ai risultati commerciali desiderati».
Il meccanismo principe di mietitura dei dati è la trasmissione dei cookies, quelle informazioni condivise, «mandate indietro» ogni volta che siamo online, ovvero sempre. Ecco un altro evento, più recente, che ricordiamo tutti: il giorno in cui è diventato obbligatorio per i siti esporre le loro politiche sui cookies e, per noi, accettare di volta in volta le condizioni che ci vengono proposte. In quanti ci siamo preoccupati di approfondire le ragioni di quella norma? Per lo più, me compreso, l’abbiamo vissuta come un intralcio. Esaminare tutti i contratti che sottoscriviamo con i nostri clic sarebbe impossibile in ogni caso. «Due professori della Carnegie Mellon hanno calcolato che per leggere in modo adeguato tutte le policy sulla privacy che s’incontrano in un anno sarebbero necessari 76 giorni lavorativi». Era il 2008, figurarsi oggi. A essere sinceri, poi, sono altre le cose che c’interessano sul serio riguardo a internet: la larghezza della banda, i giga di traffico, il costo dell’abbonamento. Vogliamo navigare liberi e veloci, «senza limiti», il resto non conta. Quindi accettiamo accettiamo accettiamo, diamo il nostro consenso senza leggere, senza nemmeno guardare. Basta che ci lascino navigare in pace.
I capitalisti della sorveglianza lo sanno. La nostra insofferenza è proprio ciò che gli permette di proseguire indisturbati nell’esproprio dei dati. Siamo noi a spalancare le porte.
Il «kentuki» è un peluche simpatico collegato a uno sconosciuto da un’altra parte del mondo che costantemente, attraverso gli occhi e le orecchie del pupazzo, ci osserva, ascolta, registra. La scrittrice argentina Samanta Schweblin ha immaginato questo antidoto perverso alla solitudine. Il suo romanzo, Kentuki, è uno dei primi a raccontare questa nuova epoca – l’epoca del capitalismo della sorveglianza. Ma il «kentuki» non è pura fantasia. Nel 2017 la bambola Cayla è stata ritirata dal mercato statunitense. Il governo ha invitato chi ne era già in possesso a distruggerla. Cayla, si è scoperto, sorvegliava gli smartphone dei suoi giovanissimi proprietari e quelli dei loro genitori. Una bambola spiona, insomma. Nella stanza dei bambini.
I capitalisti della sorveglianza sono sempre più numerosi, rapaci e spregiudicati nella caccia al surplus comportamentale. Alcuni esempi, come quello della “mia amica Cayla”, sono inquietanti. Le auto nere di Google che si aggiravano per le strade nel 2010 per realizzare la grande opera di Street View raccoglievano in segreto dati personali dalle reti wi-fi delle abitazioni. «Nomi, numeri di telefono, informazioni sul credito bancario, password, messaggi, trascrizioni di email e chat, dating online, pornografia, informazioni sull’uso del browser, dettagli medici, geolocalizzazione, file audio, video e fotografici». Tutto quanto, insomma. Chi gliene aveva dato il diritto? Nessuno.
E se fuori casa non si è al sicuro, dentro è peggio. L’aspirapolvere autonomo Roomba è stato studiato non solo per tirare a lucido il parquet, ma anche per mappare l’interno dei nostri appartamenti. Le informazioni che raccoglie vengono poi vendute a Google, Apple e Amazon, in modo che possano indicarci quale pianta comprare per riempire quell’angolo che abbiamo lasciato miseramente vuoto. La condivisione di quei dati ovviamente è facoltativa, ma se non si acconsente Roomba non sarà «smart» com’è stato concepito. Anche il sogno della domotica, visto dalla prospettiva di Zuboff, non è altro che una mietitura massiccia d’informazioni, un’incursione violenta nel nostro spazio più intimo.
Eppure, imprenditori come Zuckerberg, Brin e Page fanno di tutto per presentarsi come nostri alleati. Sono gli eroi del nostro tempo, i campioni dello “Zeitgeist neoliberista” della Silicon Valley: vi renderemo liberi, padroni delle vostre scelte, in contatto sempre più stretto con i vostri desideri e la vostra comunità, e senza chiedervi nulla in cambio. Una retorica stucchevole che mantiene qualche strascico della sua origine hippy e lascia intravedere quasi sempre lampi di megalomania. Se non fossimo tutti così ubriachi d’innovazione tecnologica sapremmo riconoscere le loro parole per quel che sono davvero: spaventose.
A Davos, nel 2015, Eric Schmidt, ceo di Google, dichiarò: «Ci saranno talmente tanti indirizzi IP, […] un’infinità di dispositivi, sensori, cose indossabili, cose con le quali interagire, che non ve ne accorgerete neanche più. Sarà parte di noi costantemente».
Larry Page al «Financial Times», nel 2016: «Abbiamo bisogno di un cambiamento che non sia incrementale, ma rivoluzionario. Probabilmente possiamo risolvere gran parte dei problemi degli esseri umani».
Mark Zuckerberg, di recente, mentre difendeva la sua criptovaluta Libra al Congresso: «Facebook significa mettere il potere nelle mani della gente» (appena cinque mesi prima, il co-fondatore di Facebook Chris Hughes aveva definito il potere di Mark Zuckerberg “sconcertante” sul New York Times).
E ancora Larry Page: «In termini generali è meglio che sia Google e non il governo a detenere i dati delle persone». Google, non il governo. Perché Google sta sopra il governo. Google sta sopra la democrazia.
Mentre alle convention infiocchettano scenari di armonia tecnologica, Schmidt, Zuckerberg e Page sanno esattamente da dove arrivano i guadagni delle loro aziende. Altrimenti perché investirebbero decine di milioni di dollari l’anno in attività di lobbying per contrastare ogni proposta di legge che possa anche solo limitare la mietitura dei dati? Zuboff non ha mezzi termini: «Google è guidata da due uomini che non amano la legittimità del voto o la supervisione democratica, e che da soli controllano come viene organizzata e presentata tutta l’informazione del mondo. Facebook invece è guidata da un uomo che non ama la legittimità del voto o la supervisione democratica, e che controlla da solo un mezzo di connessione sociale sempre più diffuso e l’informazione presentata o nascosta nelle sue reti».
Dopo aver letto queste parole, non ci tremeranno un po’ i polsi quando, tra pochi minuti, accetteremo ciecamente la condivisione di tutti i cookies?
Le motivazioni per cui Google, Facebook, Microsoft, Twitter e compagnia hanno prosperato indisturbati fino al punto in cui ci troviamo sono molteplici, alcune strutturali, altre circostanziali. Zuboff ne individua almeno dodici. La principale è senza dubbio il nostro consenso all’esproprio, ma l’invasione della privacy ha beneficiato anche di una congiuntura storica favorevole. L’11 settembre prima, i fatti di Parigi, Berlino, Nizza e Manchester dopo, hanno aumentato nell’opinione pubblica il bisogno di protezione e diminuito quello di privacy. Segretezza e sicurezza sono sempre inversamente proporzionali, o almeno è così che ci vengono presentati. Non è poi così grave essere sorvegliati se questo ci garantisce un po’ più d’incolumità. E cos’avrei da nascondere, io? Non sono un terrorista o un assassino o un truffatore. Se il mio segreto è qualche accesso sporadico al porno o qualche commento fuori tono su Twitter, che mi spiino pure.
Ecco sigillato una volta per tutte il nostro “patto faustiano” con i capitalisti della sorveglianza. Ne è prova che neppure gli scandali maggiori, come quello denunciato da Edward Snowden e l’affaire Cambridge Analytica, hanno portato a un cambiamento significativo delle abitudini. Sapere che i nostri profili social, i nostri innocui Mi piace sono stati venduti e sfruttati per influenzare scientificamente le intenzioni di voto, che quel traffico ha determinato il voto sulla Brexit, l’elezione di Trump e le elezioni italiane avrebbe dovuto provocare una disconnessione di massa. Non è successo. Evidentemente non basta: il patto è ancora troppo conveniente, i rischi troppo astratti. La nostra ignoranza abissale.
Molti anni fa accompagnai un’amica tra le montagne del Friuli. Stava preparando una tesi sperimentale sulla distribuzione dei cervi. La raccolta dati consisteva nel vagare giorno e notte a bordo di una Panda malmessa, per poi appostarsi con un’antenna e intercettare i segnali inviati dai radiocollari dei cervi. Una sera ci accorgemmo che un esemplare era particolarmente vicino. Proposi di avvicinarci per vederlo, ma la mia amica mi disse di no. La sua ricerca doveva essere rispettosa al massimo dell’intimità degli animali.
Dai capitalisti della sorveglianza non possiamo aspettarci nemmeno un briciolo di quella correttezza. I più esposti alla nuova forma rapinosa di esproprio, le prede più facili, sono ovviamente i giovani. Zuboff dedica loro un capitolo intero, dove condensa ciò che molti studi scientifici confermano, ciò che insegnanti e genitori hanno capito da tempo, ciò che tutti sappiamo ma non vogliamo ammettere per la paura, poi, di dover cambiare qualcosa: la «combinazione di scienza del comportamento e design avanzato» del mondo digitale è «pensata nel dettaglio per sfruttare le esigenze della gioventù […]. Per molti, questo design mirato, insieme al bisogno pratico di partecipazione sociale, trasforma i social media in un ambiente tossico, che non solo pesa su di loro psicologicamente, ma minaccia il loro sviluppo e quello delle generazioni a venire».
Minaccia il loro sviluppo e quello delle generazioni a venire.
Alcuni artisti, per fortuna, iniziano a svegliarsi, a interessarsi, a vedere. E così alcuni giornalisti, scrittori, attivisti. La politica? Speriamo che non tardi troppo, perché l’unico argine possibile allo strapotere dei capitalisti della sorveglianza è di tipo istituzionale, giuridico. Ma la spinta, esattamente come sta accadendo per il clima dopo decenni d’indugi, deve venire dai cittadini.
La posta in gioco è alta, forse un po’ ardua da comprendere, ma non impossibile. Aspirapolvere che misurano le nostre case, bambole che ci spiano, algoritmi che decodificano le nostre emozioni sommerse, cardiofrequenzimetri che parlano in giro delle nostre condizioni di salute, videogame che giocano con i nostri figli, dispositivi con voci rassicuranti che origliano le nostre conversazioni, altri dispositivi che sanno dove siamo in ogni momento, app che aprono altre app che ne aprono altre ancora; flussi mastodontici di dati spremuti dai nostri corpi e usati per prevederci e condizionarci, per farci votare in un certo modo e per farci comprare di più, ancora di più. È questa la società in cui ci piace vivere? In cui ci piacerà vivere? Quanto teniamo ancora alla nostra libertà individuale? E quanta connettività siamo disposti a sacrificare per difenderla?
Mentre Shoshana Zuboff lavorava al progetto che sarebbe infine diventato Il capitalismo della sorveglianza (ora pubblicato da Luiss), un fulmine si abbatté sulla sua casa, incendiandola. Zuboff perse in pochi minuti tutto il materiale raccolto. Pensò che non avrebbe avuto la forza di ricominciare e invece, grazie anche al sostegno dei familiari, si rimise all’opera dal principio. È un mito fondativo che mi piace, degno del libro che ha scritto – un libro che forse, un giorno, verrà guardato come il manifesto di una resistenza, speriamo già iniziata.
(Corriere della sera, 9 febbraio 2020)
di Désirée Urizio
Mi sono procurata il libro di Silvia Dai Pra’, Senza salutare nessuno. Un ritorno in Istria (Laterza 2019) che un’amica mi ha segnalato e che ho letto con interesse personale.
Ne sono stata piacevolmente stupita. La ricerca dell’autrice sulla propria famiglia paterna, che la porterà a interrogarsi sugli eccidi istriani e sulle “foibe”, prende le distanze dalle strumentalizzazioni politiche. Mi ha fatto piacere condividere con l’autrice il fastidio profondo che il termine “foibe” sia usato senza rispetto da una comica famosa e sia diventato uno stupido refrain (quando l’ho sentito la prima volta ho pensato che sarebbe stato meglio che la sinistra non ne avesse parlato, come era stato per anni). Quando ero giovane sull’esodo istriano ne parlava solo la destra più becera e violenta; purtroppo ancor oggi è spesso così. E anche questo mi esaspera: non sono certo i facinorosi di Casa Pound che possono rappresentare gli esuli giuliano dalmati.
La ricerca di Silvia Dai Pra’ si svolge su più piani: parte dal disagio del padre anoressico e dalla riservatezza e dagli attacchi di panico (nostalgici?) di nonna Iole, e prosegue con necessità di documentarsi, di relazionarsi con gli abitanti di Santa Domenica di Albona, di andare sulle tracce di un passato che diventa sempre più faticoso decifrare.
Mi sono documentata e su internet ho trovato un’intervista a Silvia Dai Pra’ che mi ha chiarito ancor di più la sua posizione che condivido, rispetto, per esempio, al “riemergere del tema delle foibe ogni anno con le prepotenze di un partito politico o dell’altro per appropriarsi di quei cadaveri” per conteggiare i morti a seconda della convenienza, per portare come esempio di verità storica episodi di violenza ingiustificabile.
Inoltre, la sua ricerca iniziata per curiosità nei confronti di sua nonna Iole nata in un paesino non più italiano, mi ha fatto rivivere la mia personale ricerca sulla famiglia di mio padre, a Umago e Cittanova.
Dall’infanzia all’adolescenza non avevo fatto che sentire la storia dell’Istria e dell’esodo e non ne avevo preso le distanze, anche perché non ne potevo parlare liberamente con nessuno (all’infuori della famiglia nessuno ne sapeva niente) tanto meno a scuola con i professori: sembrava un tema proibito, ma non ne capivo il perché. Devo però precisare che le scuole le ho fatte nella Romagna “rossa” e ho poi capito perché non se ne voleva parlare: era un tema che mandava troppo in fibrillazione gli animi. L’ignoranza sull’argomento esodo e foibe era incredibile.
Poi, col tempo, ho iniziato anch’io una ricerca che, insieme alla mia amica Sandra De Perini, mi ha portata a ripercorrere le strade dell’Istria, a cominciare dal percorso che a Umago mia nonna paterna faceva tutte le mattine per recarsi al lavoro. Gestiva un’agenzia di spedizioni navali: ho ritrovato la casa di famiglia e la porta del suo ufficio (incredibile, ma ancora riconoscibile!). Sandra mi ha fotografata in varie sequenze e ancora adesso quando rivedo quelle foto, specie l’ultima, quella di fronte al mare, penso a mia nonna che dall’ufficio guardava verso il porto. Chissà come avrà vissuto il momento in cui quel porto lo vide allontanarsi per l’ultima volta, scappando verso Trieste dopo che il marito venne preso di notte (eh sì, con violenza e di notte) e non più ritornato. Saprà poi che era stato infoibato. Inutile dire se era fascista o antifascista: era un italiano d’Istria e basta.
Su alcuni muri di vecchi negozi c’erano ancora, parlo di 8 anni fa, sbiadite, le insegne dei passati proprietari: dei cugini di mio padre di cui conoscevo i discendenti che ora abitano a Trieste e quando io e Sandra ci siamo informate per ricercare le tombe di famiglia, abbiamo trovato, da parte di una signora ben informata, prima, al mattino, una grande disponibilità, ma al pomeriggio, spaventata, sembrava non ricordare più niente e ci ha fatto capire che era meglio che smettessimo di farle domande.
Qualche anno dopo, sempre io e Sandra, senza la quale la mia ricerca non sarebbe neanche iniziata, siamo andate in giro per l’Istria accompagnate dal libro di Anna Maria Mori Nata in Istria (Rizzoli 2006) e ne abbiamo condiviso le riflessioni e il pensiero dell’autrice sul significato profondo di essere nata in Istria.
L’anno scorso, infine, facendo ricerche sempre sulla famiglia di mio padre, a Cittanova ci siamo imbattute in una chiesetta, probabilmente sconsacrata, dove erano accatastate delle vecchie panche in legno nero che ancora riportavano la scritta delle famiglie che le avevano donate alla chiesa (anni ’30/’40?) e c’era ancora impresso il cognome della mia famiglia come in alcune tombe del cimitero ormai abbandonate e dimenticate.
Nel libro Senza salutare nessuno vengono descritte situazioni a me molto vicine. L’autrice si pone domande, si documenta e riflette sull’“esodo” e questa sua ricerca è un inizio di storia vivente perché nata da un nodo personale e cerca di far capire i gravi fatti accaduti in Istria.
Io ho riflettuto sulle donne del ramo paterno della mia famiglia, ho riconosciuto la loro forza che è stata per me di grande esempio e ancora oggi continuo a cercare testimonianze, prevalentemente femminili, dell’esodo istriano: una parte della storia italiana ancora poco conosciuta quasi una calcolata mancanza di memoria collettiva.
Anche per questo sono grata a Silvia Dai Pra’ che ha scritto il libro e all’amica che me lo ha fatto conoscere.
Chiudo con l’ultimo paragrafo del libro Bora di Anna Maria Mori (Marsilio 2018), un’autrice a me cara: …“Lei è jugoslava”. “Veramente no: io sono italiana. Sono nata in Italia.” Un’illuminazione: “Ah già dimenticavo … Allora lei è profuga”.
E chissà perché la cosa “lei è profuga” faceva così ridere il professore, la professoressa, l’impiegata del comune o dell’anagrafe che me lo chiedevano.
A me veniva da piangere. Anche e soprattutto perché gli altri ridevano.
(www.libreriadelledonne.it, 8 febbraio 2020)
Désirée Urizio, appassionata di storia e originaria istriana, ha raccontato la sua ricerca in Raccontare l’esodo con l’aiuto di Simone Weil e un suo primo testo di storia vivente si può leggere in: La práctica de la historia viviente. Con un prólogo de María-Milagros Rivera Garretas (Español)
di Giuliana Ferraino, inviata a Davos
«All’inizio del XXI secolo, tutte le montagne erano già state scalate, gli oceani scoperti, non rimanevano molte cose da trasformare in commodity, come aveva fatto il capitalismo industriale nella sua evoluzione. Così per fare profitti, dopo lo scoppio della bolla delle dotcom, le nuove aziende tecnologiche hanno individuato nell’esperienza umana la nuova materia prima da monetizzare: dai dati potevano estrarre i segnali per individuare i comportamenti futuri delle persone», sostiene Shoshana Zuboff per spiegare l’origine del «capitalismo della sorveglianza», che è anche il titolo del suo ultimo libro, pubblicato nel 2019. Ieri Zuboff, 68 anni, docente alla Harvard Business School, era a Milano, ospite di un evento organizzato da Kairos, la piattaforma del risparmio gestito che si autodefinisce anche «laboratorio».
«Il capitalismo di sorveglianza è alla base del nuovo ordine economico, che sfrutta i nostri dati personali senza chiedercelo. Ma questo è un furto, un’espropriazione dei diritti umani fondamentali», sostiene Zuboff. E chiama «parassiti» le grandi multinazionali digitali, che con i nostri dati rubati hanno creato «un nuovo mercato per scambiare i nostri comportamenti futuri». Prima riguardava solo la pubblicità targetizzata, oggi invece il fenomeno «è dappertutto: nelle assicurazioni, nel retail, nell’entertainement». Perfino nell’industria automobilistica, dove «l’auto non è più chiamata auto, ma è diventata un’esperienza di mobilità». Grazie ai dati. Anche la finanza ha sposato la tecnologia, tanto che si parla di tecno-finanza. Sono «settori simbiotici» e «il primo trae profitto dal potere della seconda», afferma Zuboff.
Guido Brera, cofondatore di Kairos e responsabile delle gestioni collettive della Sgr, offre la versione degli investitori: «Tassi a zero e l’enorme liquidità in cerca di rendimenti hanno spinto la finanza tra le braccia delle aziende tecnologiche, identificate come il luogo dove investire capitali pazienti, grazie a questo modello di business capace di vendere prodotti migliori a prezzo più basso, che elimina i concorrenti». Ma «c’è un costo da pagare», dice. «Il XXI avrebbe dovuto migliorare la nostra vita, ci hanno promesso che con i big data avremmo risolto molti problemi. Invece il capitalismo di sorveglianza ha preso in ostaggio il digitale, sfruttando l’enorme asimmetria della conoscenza: loro sanno tutto di noi, mentre per noi è impossibile sapere quello che fanno», spiega. Che cosa possiamo fare? «Come dice il mio amico premio Pulitzer per la storia, Thomas McCraw, le regole e la democrazia sono gemelle, le norme permettono la democrazia, la democrazia richiede regolamentazione. Dobbiamo capire a fondo il capitalismo della sorveglianza per poterlo regolamentare. Dobbiamo capire come si origina questa logica, per fermarla». Il rischio? Un nuova forma di disuguaglianza sociale, che Zuboff chiama «disuguaglianza epistemica», basata su «quanto loro possono conoscere e quanto possiamo conoscere noi».
La disuguaglianza epistemica si accompagna alla disuguaglianza economica. Perciò «abbiamo bisogno di un New Deal, come ai tempi di Roosevelt, per creare nuovi diritti, che attribuiscano agli individui il potere di decidere se vogliono diventare un dato, come e a che scopo». Cioè «un nuovo insieme di regole e istituzioni per fermare le catena di fornitura dei dati sul nascere. Ma anche per agire sul lato della domanda, «eliminando gli incentivi finanziari del dividendo della sorveglianza». Abbiamo messo fuori legge il commercio degli organi umani, dei neonati, degli schiavi, dovremmo anche dichiarare «illegale il mercato del futuro umano», conclude Zuboff. Ottimista, nonostante tutto. «L’Europa è più avanti: la legge sulla privacy non basta, ma è la migliore speranza per il futuro dell’umanità».
(La nuova disuguaglianza di Zuboff: «I grandi del tech sanno tutto di noi, noi nulla di loro», Corriere della Sera, 28 gennaio 2020)
di Gad Lerner
L’impegno per ricordare la Shoah non ha fermato la nuova xenofobia. I testimoni hanno fallito? È la domanda del saggio di Valentina Pisanty I guardiani della Memoria
È un libro talmente scomodo – questo che la semiologa Valentina Pisanty dedica all’insuccesso dei Guardiani della memoria (Bompiani) sovrastati dal ritorno delle destre xenofobe – da lasciare interdetta l’autrice stessa. Siamo debitori a Valentina Pisanty di analisi efficacissime sul fenomeno del negazionismo della Shoah (L’irritante questione delle camere a gas, s’intitolava un saggio del 1998), e anche questo suo ultimo lavoro è meticoloso, severo, ben scritto. Però… c’è un però.
Forse non l’ho capito io, ma l’imbarazzante verità dell’assunto iniziale, quello che lei chiama “il plateale fallimento delle politiche della memoria degli ultimi vent’anni”, visto che “il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore”, avrebbe imposto una conclusione che invece viene lasciata in sospeso. Non credo per reticenza, semmai per precauzione, Pisanty evita di indicare che cosa di diverso, in alternativa agli eccessi di ritualizzazione, avrebbe dovuto proporsi l’elaborazione collettiva di un evento catastrofico, solo parzialmente spiegabile, qual è stato lo sterminio di milioni di ebrei europei.
È significativo che in un saggio così attento alla cronaca recente – credo d’ora in poi davvero indispensabile – nel descrivere “l’avvento dell’era del testimone” e poi “la mercificazione del trauma” e infine “la saturazione della memoria”, con richiami sistematici a film, serie tv, spettacoli teatrali, dibattiti politici e cerimonie istituzionali, non si faccia cenno alla scelta del presidente Mattarella di nominare senatrice a vita Liliana Segre nel gennaio 2018. L’atto formale più solenne e di maggior risonanza compiuto in Italia per valorizzare la funzione della testimonianza e per diffondere una memoria condivisa della Shoah. Comprendo bene lo scrupolo morale di Pisanty, che mai si abbasserebbe a criticare “l’impegno civico dei sopravvissuti che hanno profuso energie alla condivisione delle proprie esperienze di deportazione”. Al contrario, è lei la prima a restare allibita di fronte alle “risate cattive”, alla “goliardia dell’Olocausto”. Basti per tutti l’intervento radiofonico da lei citato di Vittorio Feltri: “Gli ebrei rompono i coglioni da decenni con la Shoah”.
Il libro è dunque una critica sofferta, assai bene argomentata, allo “sproporzionato investimento simbolico che il culto della memoria carica sulle spalle dei testimoni” e, soprattutto, di chi si è assunto l’onere (arrogato il diritto?) di farne le veci. Cioè degli autonominati portavoce delle vittime, Guardiani per delega, peraltro mai ricevuta. Ora, io ho seguito con crescente interesse i capitoli in cui Pisanty descrive gli effetti indesiderati prodotti dalla “stanchezza del paradigma vittimario”. È tristemente vero che, assumendo il modello semantico della memoria della Shoah, sostitutiva delle grandi ideologie novecentesche, proposta come pietra angolare dell’etica liberale, europea e cosmopolita, si è ottenuto un effetto indesiderato: la moltiplicazione di memorie vittimistiche locali, spesso in contrapposizione alla tragedia ebraica, nel solco del tribalismo xenofobo. D’accordo. Concediamo pure che l’insorgenza dei nuovi razzismi, verificatasi senza che il culto della memoria riuscisse a preservarcene, dalla rivolta contro quella stessa memoria abbia tratto incoraggiamento. Lo dimostra la riesumazione di eroi nazionali antisemiti nell’est post-comunista, ma anche la denigrazione volgare di icone-vittime come Anne Frank nei nostri stadi di calcio.
Ma allora? Quali conseguenze dovremmo trarne? Ammetto di essere condizionato, nel mio giudizio, dal lavoro di raccolta delle testimonianze filmate dei partigiani viventi che insieme a Laura Gnocchi stiamo conducendo sotto l’egida dell’Anpi. Sappiamo bene che presi di per sé questi racconti, benché spesso eccezionali e commoventi, non possono sostituirsi a una rigorosa interpretazione storica. Vale anche per i testimoni della Shoah, ormai rimasti in pochi. Non penso certo che Pisanty proponga di considerarli inutili, o addirittura fuorvianti. La conseguenza da trarne è piuttosto un’altra, tutt’altro che limitativa: si tratta di riconoscere che, a suo modo, la memoria dei sopravvissuti rappresenta una forma di lotta politica e culturale. Che si lascia consapevolmente strumentalizzare a fini di giustizia e consapevolezza nell’oggi. Non è il caso di lasciarsi turbare da questo esplicito richiamo alla strumentalizzazione, perché di strumenti il nostro agire ha bisogno. Come è noto, la memoria della Shoah viene posta al servizio di due diverse cause: la legittimazione dello Stato d’Israele che, secondo alcuni discutibilissimi critici come Sergio Romano pretenderebbe addirittura di utilizzarla come “salvacondotto morale” nella sua politica di difesa. E in aggiunta, o in alternativa, la seconda “causa” che si propone la memoria della Shoah è il richiamo a stare dalla parte dei discriminati e dei profughi del mondo contemporaneo. Pur consapevoli dell’unicità delle sofferenze patite, testimoni come Liliana Segre e Piero Terracina vi si sono prestati consapevolmente.
La memoria non è mai scientifica, s’impone nella controversia e per questo suscita rigetto. È immersa nelle lacerazioni sociali e culturali che alimentano ostilità, nuove competizioni, revival di pregiudizi. Siamo grati a Valentina Pisanty per la lucidità impietosa con cui descrive questi meccanismi di contrapposizione. Ma, insieme a lei, non smetteremo di richiamarci all’insegnamento delle vittime.
Il libro. I guardiani della Memoria di Valentina Pisanty (Bompiani, pagg. 256, euro 13).
(La Repubblica, 23 gennaio 2020)
di Franca Fortunato
Ho incontrato Charlotte Salomon diversi anni fa, grazie al libro Charlotte Salomon – I colori della vita, della mia amica e critica d’arte Katia Ricci (ed. Palomar 2006). L’ho rincontrata giorni fa al Polivalente di via Fontana Vecchia, Catanzaro, alla presentazione del libro a fumetti Charlotte Salomon – I colori dell’anima, di Ilaria Ferramosca e Gian Marco De Francisco (ed. Becco Giallo 2019). Il mio primo pensiero è stato “ben tornata Charlotte”, ben tornata alla donna che, nell’epoca buia della Shoah, pur restando aderente alla realtà del suo/nostro tempo, ha saputo fare della sua arte, della sua creatività, la fonte della sua/nostra salvezza spirituale e umana, scegliendo di vivere intensamente fino all’ultimo giorno della sua vita, finita a 26 anni ad Auschwitz. Stessa sorte toccò al marito Alexander Nagler. Charlotte è nata a Berlino il 16 aprile 1917 da Franziska Grunewal, musicista, e Albert, medico chirurgo, entrambi ebrei assimilati. Era figlia unica ed ebbe un’infanzia serena fino a quando a nove anni la madre si suicidò, gettandosi da una finestra di casa. A lei, per proteggerla, fu detto che era morta per un’influenza. Soltanto dopo il suicidio della nonna, molti anni più tardi, il nonno le rivelò che anche la madre e altre quattro donne della famiglia si erano tolte la vita. Il padre si risposò con Paula Levi, cantante lirica, con cui Charlotte ebbe un rapporto molto intenso. All’avvento del nazismo, con l’emanazione delle leggi antisemite, dovette abbandonare il liceo. Dopo un viaggio con i nonni in Italia, dove rimase affascinata dalle opere di Michelangelo, decise di dedicarsi all’arte e nel ’36 entrò all’Accademia, anche se ebrea, perché il padre era un reduce di guerra. Dopo il pogrom della “notte dei cristalli” la famiglia la mandò a Nizza, dove si erano rifugiati i nonni. Con lo scoppio della guerra, dopo il suicidio della nonna, dopo l’internamento suo e del nonno per tre settimane nel campo di lavoro di Gurs nei Pirenei, Charlotte cadde in depressione ed è per uscirne ed allontanare da sé la minaccia del suicidio che dette inizio alla sua autobiografia illustrata, “Vita? o Teatro?”, lavorando moltissimo e in soli due anni (‘40-‘42) dipinse 1325 fogli che affidò all’amico dottor Moridis, dicendogli: “Ne abbia cura. Le affido tutta la mia vita”. Una vita raccontata, in immagini e parole, come un viaggio a ritroso nel tempo e nella interiorità, con sullo sfondo il clima torbido, crudele e insensato in cui le è toccato vivere. L’arte per Charlotte diventa, non evasione, non fuga dal reale, ma unica possibilità di sopravvivenza, di costruzione del proprio destino di donna, che ama e crea per salvarsi dalla trappola mortale dell’odio e della vendetta, in cui gli altri vorrebbero rinchiuderla. L’arte l’ha salvata dalla depressione, dal vittimismo, dal rancore così come il disseppellimento di Dio dentro di sé ha salvato Etty Hillesum, la pensatrice ebrea olandese morta ad Auschwitz a soli 29 anni, un mese e 21 giorni dopo Charlotte, che ha saputo, attraverso la scrittura – ha scritto finché ha potuto, fino all’ultima cartolina gettata dal treno nell’ultimo viaggio per Auschwitz – confrontarsi con la sofferenza sua e di coloro che la circondavano. Come Charlotte anche lei non mirava a “salvare se stessa” ma a lasciare testimonianza di come uscire da un destino, deciso da altri, che si presentava ineluttabile e dare un senso universale alla sua vicenda. Charlotte lo fece con la sua pittura, Etty con la sua “scrittura del cuore” e la sua presenza nel campo di smistamento di Westerbork. Quando Charlotte fu uccisa nella camera a gas era incinta di quattro mesi, testimonianza di amore per la vita, di speranza e umanità salvata per sé e per noi.
(Il Quotidiano del Sud, 23 gennaio 2020)
di Stefania Tarantino
A proposito de «La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe». Un libro a cura di Chiara Zamboni con saggi di Ida Dominijanni, Lia Cigarini, Manuela Fraire e altre.
La psicoanalisi, rivolta al corpo e alla sessualità, indagava l’autocoscienza e l’origine del disagio Come si fa a cambiare il mondo senza cambiare la nostra soggettività? È questa la domanda che attraversa La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, a cura di Chiara Zamboni, (Moretti & Vitali, pp. 155, euro 16) in una fitta trama di voci che, nelle differenze timbriche e teoriche, sono riuscite a creare un unico spartito grazie agli interventi di Ida Dominijanni, Cristina Faccincani, Lia Cigarini, Manuela Fraire, Antonella Moscati, Annarosa Buttarelli, Riccardo Fanciullacci, Wanda Tommasi e della stessa curatrice del volume. Ripercorrere la storia di ciò che sta all’origine del femminismo della differenza sessuale italiano, significa ripercorrere la storia di un patto tra femminismo e psicoanalisi. Questo sguardo all’indietro è oggi necessario perché indagare il ruolo che l’inconscio ha avuto nelle pratiche femministe, a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, significa fare un lavoro essenziale a evitare la definitiva cancellazione della differenza sessuale a favore di una indistinzione sessuale che avanza. La psicoanalisi conserva un assetto patriarcale nel disconoscere il valore simbolico della madre e della libido femminile. Ha offerto però gli strumenti critici per individuare i meccanismi di potere interiorizzati, le identificazioni con i modelli dominanti, l’accettazione dell’ordine sociale e dei ruoli connessi sradicandoli. La destrutturazione dell’impianto psichico su cui questi meccanismi si fondano ha permesso la liberazione del desiderio e l’avvio a una capacità trasformativa del proprio sé.
La praticapsicoanalitica muovendo dalla manifestazione del sintomo psichico, operava uno scavo profondo all’interno della soggettività fino ad arrivare nella sede stessa delle rimozioni, nel luogo dei desideri repressi e socialmente respinti: l’inconscio. Risale al 1974 l’uscita del foglio edito dalla Libreria delle donne di Milano dal titolo Pratica dell’inconscio e movimento delle donne. Dallo scambio con le amiche francesi, in particolare Antoniette Fouque e Luce Irigaray, la pratica psicoanalitica divenne un sapere capace di imprimere una svolta radicale alla pratica politica delle donne. Si rivolgeva al corpo e alla sessualità e indagava l’autocoscienza esplorando gli effetti dei meccanismi inconsci che stavano all’origine dell’irruzione del disagio. Iniziarono a dare parola alla parte muta, censurata e rimossa della propria interiorità. Dalla messa in parola del loro vissuto doloroso e traumatico scoprirono la necessità di rielaborare lo schema edipico, la relazione con la madre, la linea di continuità tra personale e politico. Il conflitto era il presupposto imprescindibile di ogni cambiamento e la pratica dell’inconscio e dell’autocoscienza rappresentava il percorso per liberarsi dall’interiorizzazione del fantasma patriarcale.
Il partire da séera una chiave di svolta decisiva per smascherare la presunta oggettività dei saperi. La relazione di disparità o di affidamento era matrice trasformativa per le donne, apriva al riconoscimento dell’altra potenziandone la presa di parola. La centralità dell’esperienza femminile, così profondamente intrecciata al sentire e alle pulsioni passive, rendeva conto di una capacità di dislocazione del proprio sé nell’alterità esterna e interna al soggetto. Le femministe, attraverso un’appropriazione critica del metodo psicoanalitico, riuscivano ad analizzare in se stesse le trappole psichiche della coazione a ripetere e, in un confronto dialettico serrato tra interno ed esterno, tra conscio e inconscio, aprirono una breccia decisiva per la trasformazione della loro stessa soggettività. La conseguenza fu la necessità di una modifica del paradigma della politica. Tenere insieme ragioni e pulsioni, sfera privata e sfera pubblica, dimensione passiva e attiva dell’intelligenza, comportava l’assunzione di una consapevolezza inedita. La trasformazione del mondo passa sempre e solo attraverso una radicale trasformazione di sé. La posta in gioco era dunque quella di passare da una politica della forza e della gestione del potere a una politica del desiderio. Il salto qualitativo e simbolico richiesto era coraggioso e smisurato. Dire «politica delle donne», alla luce della consapevolezza guadagnata dal percorso della differenza sessuale, significava dichiarare l’abbandono definitivo del soggetto politico tradizionale.
Avere consapevolezza della differenza sessuale significava e significa ancora avere consapevolezza della propria parzialità di contro all’espansionismo e all’onnipotenza imperialistica e narcisistica dell’Io. Una testimonianza preziosa di tale parzialità è rappresentata dalla realtà del sesso materno femminile che opera dal di dentro un’esperienza di relazione originaria con l’alterità.
La differenza sessualenon è una differenza tra le altre, ma la differenza da cui tutte le altre differenze si generano. È questo a essere oggi sotto attacco. Attraverso la cancellazione della madre e della differenza sessuale femminile, si ritorna a un neutro che si considera non più solo soggetto ma oggetto di sé. La scommessa attuale di questo volume sta allora nel rilanciare la matrice originaria del pensiero della differenza strutturata sulla triade inconscio/differenza sessuale/ordine simbolico. Una matrice utile e preziosa proprio oggi. Con molta acutezza è segnalato il passaggio dalla «nevrosi patriarcale» alla «perversione post-patriarcale», un passaggio che suscita, o che dovrebbe suscitare, la necessità di porsi di nuovo la domanda sullo statuto della differenza sessuale alla luce della soggettività attuale. Come osserva giustamente Ida Dominijanni, il passaggio da un’economia psichica nevrotica basata sul desiderio inoggettivabile a un’economia psichica perversa basata sulla coppia prestazione/godimento in cui l’oggetto sta nella realtà al pari della merce, denota lo scollamento definitivo da tutto ciò che faceva da inciampo alla nostra presunta onnipotenza, fino a esonerarci da quel confronto dialettico che consentiva di inoltrarci nelle profondità del sé. Nella conformazione della soggettività autoreferenziale e narcisista dove tutto è superficie, l’alterità è sempre secondaria come lo è la profondità. Non è un caso che nell’evidenza di questo passaggio gli e le psicoanaliste rilevino la manifestazione di nuovi sintomi che sono una diretta conseguenza del narcisismo dell’io e della schiavitù inerente al godimento mortifero.
Nell’aut-aut che oggi viviamo tra sovranismo reazionario e neoliberalismo libertario, riscoprire la passione della differenza sessuale, nella sua carica politica sovversiva, potrebbe riaprire quello spazio transizionale e imprevisto in cui la mediazione femminile nel mondo può essere generativa di un altro ordine simbolico. Il conflitto originario nasce dal sesso, sostenerlo obbliga la scoperta di una creaturalità corporea consapevole che sappia, da quegli anni Settanta, operare una critica ancora più radicale ed esperta, un «moto» che veda e metta lo scandalo patriarcale al centro della politica.
(il manifesto, 23 gennaio 2020)
di Redazione
È in tutte le librerie la raccolta delle storie più belle della Stefi, mitica bambina disegnata da Grazia Nidasio su Corriere dei Piccoli, Corriere dei Ragazzi, Corriere della Sera a partire dal 1972. Baldanzosa e fuori dagli schemi, la Stefi sboccia come una novità nel fumetto italiano, sull’onda del femminismo anni Settanta. Il tratto di Nidasio rende la Stefi una bambina più reale delle sue sorelle Lucy di Schulz e Mafalda di Quino, quasi una creatura in carne e ossa. Nel disegno e nelle storie si sente il piacere femminile di partorire una bambina scatenata e tenera.
Grazia, che ha collaborato con Aspirina la rivista e sostenuto la nascita di Erbacce, è morta nella sua casa di Certosa di Pavia la notte di Natale 2018. Con questo libro, la madre di tutte le fumettiste e i fumettisti italiani riappare per la gioia del suo fedele pubblico e di chi ora avrà l’occasione di conoscerla.
Grazia Nidasio, Il libro della Stefi, Rizzoli 2019.
(www.erbacce.org, 18 dicembre 2019)
di Stefania Tarantino
«La Nemesi di Medea. Una storia femminista lunga mezzo secolo», l’ultimo volume di Silvana Campese
La vertigine del corpo turba da sempre la normalità e mostra la realtà per quella che è. Lina Mangiacapre ha conosciuto quella vertigine. Ne ha tratto un sapere e un’esistenza in cui la verità riordina il corpo quasi a ricrearlo. Attraverso la sua arte ha rivelato l’inusuale che le permise di creare un gruppo come Le Nemesiache. Ha fatto della pratica politica – separatista e al contempo dialogante – un’esperienza inedita di femminismo militante. L’ultimo libro di Silvana Campese, La Nemesi di Medea. Una storia femminista lunga mezzo secolo(L’Inedito letterario, pp. 416, euro 24) ripercorre questo vissuto.
DI FORMAZIONE umanista e giuridica, nata in una famiglia napoletana della media borghesia, l’autrice ci narra del suo personale percorso di liberazione scavato nell’incontro «perturbante» con Lina Mangiacapre e, successivamente, con le altre donne del gruppo. Accadde nel settembre del 1975 in relazione a un delitto che la scosse profondamente: il massacro del Circeo. Quell’episodio segnò una ferita ma anche una spinta verso la pratica politica delle Nemesiache che, proprio in seguito al massacro, si erano attivate nel processo e nel sostegno alla sopravvissuta Donatella Colasanti e alla donna che prese le sue difese, l’avvocata Tina Lagostena Bassi.
L’impegno delle Nemesiache le era già noto per la radicalità delle battaglie contro le ingiustizie che si consumavano sui corpi delle donne e per la creatività con cui seppero agire. Lotte che si coniugavano con l’arte, il cinema, la pittura, la poesia, il teatro, la musica e la rimessa al mondo del mito. Dall’imposizione di una parola estranea che giudica, separa, condanna, definisce la norma di ciò che si è, all’assunzione piena di una parola libera e irriverente su di sé, Silvana Campese visse l’incontro con Lina come una rivelazione.
DA QUEL MOMENTO IN POI, per quanto inserita in un contesto cosiddetto «normale», la sua vita non fu più la stessa. E non lo fu più neanche il suo nome. La Nemesi si era compiuta e adesso era Medea. Per Lina Mangiacapre il significato più profondo di Nemesi non era nell’azione vendicativa, bensì nel recupero di quella forza originaria che consente di ristabilire l’equilibrio spezzato dalle ingiustizie e dagli abusi patriarcali. Dalla tracotanza umana che violenta i corpi, la terra, il mare, la natura tutta e ne distrugge l’equilibrio e la bellezza, la Nemesi denuncia che le azioni umane sono sempre soggette a un limite e che quando esso viene superato produce effetti devastanti. La provocazione già nel nome Nemesi era volutamente dissacrante e confermata dalle loro azioni performative e dal coraggio posto verso sentieri inesplorati. Per questa radicalità furono messi in campo meccanismi difensivi che denotavano insieme difficoltà e preoccupazione nel fronteggiare la messa in discussione delle radici stesse della civiltà patriarcale.
LA RIMESSA AL MONDO del mito rilegge in chiave femminista le radici dimenticate di un’altra storia. Le possibilità creative delle singolarità non sono radicate in ruoli già codificati. Qui vive il pensiero visionario e contemporaneo delle Nemesiache che già parlavano di transfemminismo, di trasversalità e di superamento dei ruoli di genere. Lo stravolgimento dei limiti imposti riguarda proprio la vertigine del corpo, di ciò che un corpo può nell’aderenza al proprio desiderio. I ruoli decadono, non i principi. La sottigliezza del pensiero mitosofico di Lina Mangiacapre è strettamente correlata alla molteplicità prospettica di una corporeità fluida e aperta, che in sé sperimenta la varietà e l’esuberanza del maschile e del femminile: l’androginia. Con il pensiero filosofico questa unità molteplice originaria si perde. Il concetto rappresenta per lei l’architrave di una binarietà, di un dualismo nato da un processo di astrazione mentale che fraziona, separa ciò che nella sua origine era indiviso. Nella riconquista del significato più ampio e profondo di questa unità molteplice che sorregge l’impalcatura della dimensione corporea e psichica di ciascun essere umano, possiamo fuoriuscire da gabbie che negano la libera espressione del sé. Nel prendere atto dell’inesauribilità della realtà e della fallibilità umana sorge un richiamo alla ricerca di senso che vale per la vita contro l’illusoria onnipotenza del possesso che la vuole ridotta e conforme a un oggetto da manipolare. Dalla visione lucida del disequilibrio e dell’ingiustizia di una realtà dimezzata e mutilata, dalla percezione corporea dell’imbroglio della «normalità», la ricerca delle Nemesiache ha saputo coniugare in modo magistrale arte e politica. Ha mostrato la possibilità della politica sganciata dall’idea del potere. La sua cifra è la bellezza, il suo linguaggio il corpo, il suo spazio vitale le esperienze non oggettivabili. In questo progetto di vita Lina, insieme a sua sorella Teresa/Niobe e alle altre Nemesiache, ha respirato altro pensiero e altra politica. Ha reso concreto il desiderio che, come seme portato dal vento, ha attraversato il labirinto della creazione.
(il manifesto, 29 novembre 2019)
di Anna Bravo
«Ho scelto di seguire la genealogia del sangue risparmiato», scrive la storica Anna Bravo in un libro che parte da un’idea straordinaria: parlare non di morti ma di vite salvate. Il libro s’intitola La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato (Laterza, 2013) e mostra «che “fare qualcosa” o non farlo dipende dai rapporti di forza ma quasi altrettanto dalla forza interiore, e che il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato» (p. 17). Per poterlo vedere, la storica si è sottratta al «vecchio automatismo che fa delle guerre qualcosa di simile ai buchi neri del cosmo, che attirano, assorbono, inghiottono quel che gli sta intorno – in questo caso il lavorio fatto di abboccamenti politico-diplomatici, azzardi, intrighi, compromessi, mediazioni, che precede e accompagna i conflitti. A volte si trama la guerra, a volte si trama la pace. […] Ancora oggi, molte tensioni inesplose, molte guerre rimaste locali, sono definite preludi o antefatti alla guerra “vera”, che così appare scritta nel destino» (pp. 3-4). Invece, «molte ricerche sulle resistenze civili e armate mostrano che fra il 1900 e il 2006 sono state le prime a ottenere più successi» sia nelle lotte interne antiregime sia in quelle contro l’occupazione o per l’autodeterminazione (p. 8).
Le storie narrate in questo libro sono state scelte perché «molto differenti per le caratteristiche e per l’attenzione storica e mediatica che hanno ottenuto (o non ottenuto)» e «perché mostrano che esistono modi per risparmiare il sangue praticabili anche da chi non ha potere, o ha un potere minimo, e, all’opposto, persino da chi ne ha tanto da rischiare di perdere il senso della realtà» (p. 16). «Molte e molti dei protagonisti riuniti qui sono rimasti anonimi. Le memorie di seconda e terza generazione aiutano, ma per risuscitare la forza di certi eventi bisognerà far entrare nel discorso storico i soggetti senza nome e probabilmente destinati a rimanere tali, che in genere compaiono solo nella fusione rivoltosa o dolente con altri corpi anonimi. “Consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili”, ha scritto Carla Lonzi a proposito della semi-cancellazione delle donne dalle memorie pubbliche; vale anche – un’altra analogia di rilievo – per molte e molti facitrici e facitori di pace» (p. 17).
Anche durante le guerre che non sono state sventate «si incontrano esempi di fraternità, senso dell’onore, autonomia di pensiero […] che aiutano a limitare la distruttività» (p. 37). Nel libro troviamo episodi noti della prima guerra mondiale come la tregua del primo Natale di guerra, decisa dai soldati stessi inglesi e tedeschi, e tanti altri meno noti della vita di trincea, perché «prima e dopo quel 25 dicembre 1914 non c’è il vuoto, c’è un tessuto a macchia di leopardo di accordi taciti, diversi per durata e obiettivi»: dalle tregue per il cibo («quando un gruppo della prima linea usciva per andare a prendere il rancio, dalla parte opposta non si sparava») a quelle per raccogliere i feriti, allo scambio di bigliettini tra trincee opposte… E «c’è la ritualizzazione della violenza, per risparmiare il sangue persino durante i combattimenti. […] A Verdun, un volontario tedesco riferisce che i francesi avevano l’ordine di bersagliarli con bombe a mano anche di notte, e di fatto le lanciavano, ma, come da accordi presi con compagni tedeschi, solo sulla destra e la sinistra della trincea». Tutto molto rischioso, va detto, perché «può bastare il sospetto o un episodio minore per deferire alla corte marziale» (pp. 45-47).
Durante le guerre balcaniche, che precedono di poco la prima guerra mondiale, due villaggi sono i protagonisti della storia che segue, narrata alle pp. 38-39:
Secondo tutti i resoconti, le guerre balcaniche sono un precipizio di spietatezza reciproca, in cui la norma era irrompere nei villaggi del «nemico», saccheggiarli e incendiarli, stuprare donne e bambine, torturare, uccidere.
Nessuno è esente. Non gli uomini della Lega balcanica, che lasciano dietro di sé cadaveri, rovine, e in qualche caso battesimi forzati a opera di preti ortodossi chiamati appositamente. Non gli ottomani che, salvo le conversioni, fanno lo stesso. L’alternarsi degli eserciti sul territorio dà spazio alle peggiori ritorsioni, in una pratica di «pulizia etnica» che spingerà molti a emigrare.
Ma ci sono due villaggi bulgari, uno a maggioranza cristiana, Derviche-Tepe, l’altro a maggioranza turco-musulmana, Khodjatli, dove le cose vanno diversamente. Durante la prima guerra (1912), mentre l’esercito bulgaro avanza, sessanta turchi chiedono protezione ai loro vicini cristiani. La ottengono, e al passaggio delle truppe restano indisturbati. Fra loro, un mercante di caffè che racconta ai delegati il seguito: «quando sono tornati i turchi, avevano l’ordine di non toccare il villaggio: ai contadini hanno detto: “Non abbiate paura, voi che avete salvato la nostra gente, abbiamo una lettera da Costantinopoli dove è scritto di lasciarvi in pace”». Evidentemente quei contadini turchi avevano fatto arrivare la notizia alla capitale.
(Via Dogana n. 107, dicembre 2013)
di Cristina Luzzi
Recensione del libro Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Grazia Villa, Luciana Tavernini, VandA.epublishing, 2019. Cristina Luzzi è dottoranda in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali, Università di Pisa.
Sommario. 1. Politiche sulla prostituzione: dal “sex work” al modello neoabolizionista. 2. L’ordinamento italiano e la prostituzione: tra “sabotaggio” della Legge Merlin e nuovi progetti di legge. 3. Quanto ma soprattutto dove ci tocca la prostituzione?
1. Politiche sulla prostituzione: dal “sex work” al modello neoabolizionista
In un crescente e affollato dibattito politico e giurisprudenziale sull’autodeterminazione femminile1 le autrici di Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione consegnano al panorama nazionale giuridico, e non solo, una visione unitaria del fenomeno della prostituzione. Il libro muove da una critica alle opinioni secondo le quali la vendita della propria intimità costituisce una libera scelta della donna, opinioni che sottovalutano o rimuovono il peso che condizionamenti, economici ma anche psicologici, esercitano su questa ed altre scelte della persona.
Sostenute in tal senso dalle numerosissime testimonianze, richiamate nel testo, di donne sopravvissute alla prostituzione, e richiamandosi anche a una linea di interpretazione della Costituzione che non ha mai inteso negare l’influenza dei contesti materiali e spirituali sulla qualità della libertà delle persone (ma ha anzi inteso nominarli per rimuoverli), le autrici si collocano apertamente lungo la linea abolizionista2.
Prima di analizzare la situazione italiana, accuratamente ricostruita da Silvia Niccolai e Grazia Villa, e chiusa dalla riflessione di più ampio respiro di Luciana Tavernini, il contributo di Daniela Danna, posto, non a caso, in apertura, ordina i diversi modelli legislativi che, fuori e dentro l’Europa, regolano ma soprattutto definiscono la prostituzione e la rappresentazione della stessa nella sfera pubblica.
L’Autrice passa in rassegna differenti sistemi, da quello europeo, tedesco e olandese spingendosi fino ai confini australiani e statunitensi, al fine di isolare i profili comuni alle politiche sulla prostituzione tra gli Stati che hanno adottato il cosiddetto modello “neoregolamentarista”3.
Nel tentativo di contrastare la tratta e la prostituzione minorile, favorendo solo la prostituzione “cosciente e responsabile”, si riscontra in questi casi una depenalizzazione delle diverse condotte riconducibili allo sfruttamento della prostituzione, accompagnata da una regolamentazione più o meno stringente su requisiti d’accesso e luogo di svolgimento dell’attività. In altre parole, si assiste a un processo di normalizzazione del “mercato del sesso”, in riferimento al quale il linguaggio svolge da subito un ruolo chiave4. Non si parla, infatti, di sesso ma di “servizio sessuale”; non di prostituzione, ma di “sex work”, nonostante il grado di ambiguità che circonda tale espressionee che spinge a ricondurvi le più diverse prestazioni sessuali (da quelle che prevedono il contatto sessuale più brutale a quelle che lo escludono, come le telefonate erotiche o la condivisone di video e immagini via webcam, accomunate a ben vedere soltanto dalla capacità di consentire presumibilmente il raggiungimento del piacere per colui che ne usufruisce).
In Germania, ad esempio, il procedimento neoregolamentarista avviatosi nel 2002, è culminato nel 2016 nella ProstSchG (Legge sulla protezione delle persone attive nella prostituzione, approvata dalla Grande coalizione SPD-CDU) la quale, come riporta Danna, «ha istituito in positivo un impianto regolamentarista, compresa – come è logico se si applica alla prostituzione il paradigma del lavoro – la registrazione delle prostitute e le regole per l’apertura di bordelli»5.
Coloro che vogliano prostituirsi devono sottoporsi a un colloquio semestrale con un ente pubblico, annuale dopo i ventuno anni d’età, all’esito del quale ricevono un documento che ne attesta la qualifica di prostituta e ne riporta foto e dati personali anche se sotto un alias. La consulenza include un momento informativo intorno ai rischi legati all’eventuale assunzione durante l’attività lavorativa di sostanze psicotrope6. Il che, di per sé, spinge l’Autrice a mettere in dubbio la riconducibilità del “sex work” alla categoria costituzionale del lavoro, riconoscendo peraltro la stessa legge tedesca che non si tratta di “un mestiere come un altro” ed escludendo, ad esempio, che le donne disoccupate possano essere contattate dai proprietari di bordelli con un’offerta lavorativa, in attuazione del workfare introdotto dal Piano Hartz IV.
Le nuove “case di tolleranza” devono, dal canto loro, sottostare a un sistema di regole puntuale quali, ad esempio, la predisposizione in ogni camera di un sistema d’allarme, a dimostrazione che il pericolo di una violenza sessuale perpetrata dal “consumatore” rimane costante.
La maggior parte delle prostitute tedesche considera la prostituzione «un episodio della loro vita da concludere al più presto senza lasciare traccia» e, per tale ragione – affermano i “datori di lavoro” – rifiuta la contrattualizzazione, preferendo affittare quotidianamente una stanza nei bordelli, sostenendo costi altissimi7 ma preservando almeno un minimo margine di decisionalità sulla selezione del cliente.
Il modello neoregolamentarista non sembra d’altra parte nemmeno aver arginato il problema della prostituzione di strada; nello Stato di Victoria ad esempio sono proliferati bordelli clandestini che offrono “servizi meno cari” o “senza restrizioni”. Sono, d’altra parte, i rischi del libero mercato, a cui gli imprenditori del sesso rispondono con sicurezza e competitività; in Germania e in Australia sorgono catene di bordelli, come il Paradise e il Pasha; il Daily Planet di Melbourne fino al 2016 era quotato in borsa.
Investimenti milionari che vedono sicuramente negli imprenditori del sesso il primo gruppo di beneficiari del modello neoregolamentarista, immediatamente seguiti dai clienti – la domanda che consente all’industria sessuale di prosperare e rigenerarsi – incoraggiati da nuove e convenienti formule come la “flat rate” o la “all inclusive”: «paghi, stai dentro un’ora e fai quello che vuoi, con chi vuoi, lasciando alle donne tutto l’onere di porre i limiti»8. All’ultimo posto tra i beneficiari le “sex workers” alle quali, in virtù di una nuova e risignificata autodeterminazione, viene accordata la possibilità di diventare imprenditrici di sé stesse cedendo la parte più intima della personalità per soddisfare non certo il proprio desiderio sessuale ma quello di qualcun altro.
Al contrario, nel modello neoabolizionista (definito anche, in senso critico, “proibizionista”9), adottato in Svezia, Norvegia, Canada, Irlanda del Nord, Francia, Irlanda e Israele, la diseguaglianza nel desiderio, il fatto cioè che il pagamento della prostituta assicuri un rapporto sessuale che gratuitamente non avverrebbe, viene stigmatizzato dall’ordinamento. Scrive Danna: «dal punto di vista sostanziale pagare chi ha bisogno di denaro perché rinunci alla sua sessualità e la metta al servizio della propria rappresenta un atto di costrizione e sfruttamento» rispetto al quale un legislatore neoabolizonista non rimane indifferente ma predispone un sistema sanzionatorio: non solo per gli imprenditori sessuali che dalla prostituzione traggono profitto, ma soprattutto per coloro che tale profitto lo alimentano in prima persona acquistando “prestazioni”10.
2. L’ordinamento italiano e la prostituzione: tra “sabotaggio”11 della Legge Merlin e nuovi progetti di legge
Rispetto al quadro sin qui delineato, il sistema italiano è transitato da un modello regolamentarista ad uno a vocazione abolizionista grazie all’introduzione della Legge Merlin.
L’intento della senatrice socialista umanitaria, di cui la legge porta il nome, è quello di porre fine in primis agli abusi e alle ingerenze, rafforzatisi in epoca fascista, perpetrati nelle case di tolleranza dalle autorità di polizia nei confronti delle prostitute. Non solo: come segnala Silvia Niccolai, Merlin aveva ben presente «il carattere antisociale del mercato prostitutivo» che consente agli imprenditori di trarre ricavi immensi grazie a una società che tratta alcune cittadine non come tali ma come merci12.
Mossa da una forte insofferenza verso l’ingiustizia economica e sorretta dai nuovi valori repubblicani di uguaglianza, libertà e pari dignità sociale, Merlin, sottraendo la sessualità delle donne allo sfruttamento, intende porre un limite invalicabile alle ingerenze della logica del profitto sulla persona umana. Se tale profilo, di portata universale, osserva Niccolai, viene a ben vedere neutralizzato anche dalla dottrina più attenta13che rintraccia nell’impianto normativo l’intento di protezione della sola “dignità delle donne”, la «prospettiva civica che innerva la legge» Merlin non ha trovato, dal canto suo, né nella giurisprudenza né nella dottrina, alcuna forma di comprensione.
Ad aver frainteso lo spirito della legge sarebbe stata, già nel 1964, la Corte costituzionale: escludendo che l’agevolazione e lo sfruttamento della prostituzione, così come contemplati dalla legge Merlin, fossero reati indeterminati, i giudici della Consulta ritennero che essi godessero di «una obiettività ben definita», anche perché «acquisiti da tempo nel codice penale e sottoposti a lunga elaborazione dottrinale. Essi hanno un preciso e inconfondibile significato, che non si presta a equivoche interpretazioni»14.
Non solo la Corte, ma anche – e soprattutto – la giurisprudenza e la dottrina hanno sostanzialmente equiparato i delitti previsti dalla legge Merlin a quelli del Codice Rocco e mutuato da quest’ultimo i differenti trattamenti sanzionatori previsti per le singole fattispecie di reato; ciò nonostante la Legge Merlin, all’art. 3, li punisca allo stesso modo e li consideri “fattispecie alternative”, «facce di un medesimo reato che consiste nel fare della prostituzione una risorsa produttiva e perciò colpisce ogni piccola e grande messa a profitto dell’attività della donna»15.
Ne è derivato un vero e proprio “sabotaggio” della Legge che, animata in primis – in nome del principio costituzionale di pari dignità sociale – dal bisogno di arginare gli abusi dell’autorità di pubblica sicurezza nei confronti della vita delle prostitute e, in generale, i trattamenti arbitrari e discriminatori a cui storicamente le donne prostituite erano sottoposte dai pubblici poteri, si è invece tramutata in uno strumento arbitrario di repressione. Svuotata del suo significato di lotta al mercato prostitutivo ha dato luogo, per mano della giurisprudenza, a soluzioni interpretative sconfortanti; come ricorda Niccolai, «la diga si è aperta sul piano dello sfruttamento, dimenticando che la legge incrimina solo chi fa profitti sulla prostituzione di una donna, sfruttatore è stato considerato il marito o il partner, il nipote al quale la prostituta paghi gli studi, chiunque tocchi il denaro che viene dai di lei “sporchi” commerci sessuali, anche se serve solo a far la spesa tutti i giorni»16.
Questa essendo la storia interpretativa della Legge Merlin, non stupisce che da numerosi e diversi versanti politici, come ricorda Grazia Villa nel volume in commento, provengano progetti di legalizzazione della prostituzione di ispirazione neoregolamentarista, tutti concordi, chi più chi meno, nella visione della legge come un meccanismo farraginoso, di difficile attuazione, ostacolo moralista alla realizzazione del “diritto fondamentale” delle donne alla piena libertà sessuale.
Individuata, infatti, nella tratta il solo nemico dello Stato, tutti i disegni di legge operano un distinguo tra prostituzione forzata e prostituzione libera17; quest’ultima viene definita ora «atto volontario della persona maggiorenne di utilizzare il proprio corpo a scopo di guadagno attraverso il compimento di atti sessuali con persone maggiorenni», ora «volontaria offerta a scopo di lucro di prestazioni sessuali che coinvolgono persone maggiorenni»18.
Escluso il suo esercizio in luoghi pubblici o aperti al pubblico, vengono indicate le zone nelle quali invece è concesso prostituirsi volontariamente. Si riscontra talvolta una maggiore attenzione a non riproporre il modello delle case chiuse, come nel progetto Turco, dove si precisa che non più di quattro persone possono disporre nella stessa dimora di ambienti personali e separati; in altri casi, come nel disegno di legge Casellati, si afferma con estrema disinvolturache «l’esercizio della prostituzione è consentito solo in luoghi chiusi, di seguito denominati “case di prostituzione”».
La necessità di conciliare l’esercizio della prostituzione con l’ordine pubblico e la sicurezza19 fa sì che, in un sistema amministrativo decentrato, il potere di controllo e governo delle attività sia affidato a Comuni, Regioni e organismi locali. I sindaci, ad esempio, si vedono attribuito il potere di individuare aree, ovviamente periferiche, in cui collocare le case di prostituzione, o quello di vietare l’esercizio di tale attività nel proprio territorio se la popolazione è inferiore ai 10.000 abitanti. Non mancano per loro anche incarichi insoliti quale il potere/dovere di raccogliere una dichiarazione sottoscritta dal soggetto che voglia esercitare l’attività liberamente e che ne attesti la mancanza di costrizione. In caso di esercizio non individuale della prostituzione, in appartamenti privati o luoghi autorizzati, si prevede l’istituzione di registri affidati ai Comuni in cui sono indicate le generalità delle persone che la praticano e i luoghi di esercizio: sono purtroppo immediate le assonanze tra questo tipo di previsioni e la schedatura delle prostitute precedente alla Legge Merlin.
Senza dimenticare i controlli sanitari, il necessario possesso per ciascuna prostituta di un libretto sanitario, l’obbligo periodico di sottoporsi ad un esame per escludere la presenza di malattie sessualmente trasmissibili; tutte procedure dall’evidente carattere discriminatorio, come ben noto a Lina Merlin. Da allora, purtroppo, non sembra passato molto tempo se si guarda alle ordinanze comunali degli ultimi anni in cui si ravvisa l’impegno nell’ostacolare una prostituzione che «favorisce il verificarsi di situazioni igienico ambientali pericolose per la salute pubblica»20. Ad uscirne indenni, infatti, oggi come ieri, gli “acquirenti” delle prestazioni sessuali, per i quali non si teorizza alcuna forma di controllo sanitario pur essendo evidentemente i responsabili di un eventuale contagio delle proprie partner o delle stesse prostitute, il tutto nella mortificazione totale del nobile tentativo della senatrice Merlin di liberare dalle ingerenze delle autorità i corpi delle donne in nome del principio di pari dignità sociale.
3. Quanto ma soprattutto dove ci tocca la prostituzione?
Le riflessioni contenute in Né sesso né lavoro, Politiche sulla prostituzione, in questa sede brevemente ripercorse, suscitano nel lettore molteplici interrogativi; una sensazione forse, in misura più o meno maggiore, condivisa dalle stesse Autrici, le quali pur schierandosi lungo la linea abolizionista, non giungono collettivamente a promuovere il modello nordico quale eventuale forma di regolazione del fenomeno. D’altra parte, è possibile ravvisare su tali temi diverse visioni anche all’interno del mondo femminista, che vede su posizioni fortemente divaricate il fronte abolizionista e quello pro sex work21, anche in rapporto ad alcune ambiguità della sentenza n. 141/2019 della Corte costituzionale22.
Non a caso Luciana Tavernini chiude il libro con una domanda: “quanto ci tocca la prostituzione?”; da una prospettiva costituzionale, tale quesito, a parere di chi scrive, potrebbe essere così riformulato: “Quanto, ma soprattutto dove, ci tocca la prostituzione?”.
Come affermato dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n.141/2019, la prostituzione riguarda “la sfera sessuale di chi la esercita”, e – si dovrebbe aggiungere – di chi la richiede, ma non per questo essa contribuisce automaticamente allo sviluppo della persona umana. In altri termini, la prostituzione non costituisce un’espressione alternativa dell’inviolabile libertà anche sessuale di ciascuna e ciascuno, a presidio della quale la Costituzione pone l’art. 2 Cost; né dunque, come affermato dal giudice rimettente, una «modalità auto-affermativa della persona umana, che percepisce il proprio sé in termini di erogazione della propria corporeità e genitalità (e del piacere ad esso connesso) verso o contro la dazione di diversa utilità»23.
L’interpretazione del giudice a quo, condivisibilmente respinta dalla Corte costituzionale, difetta di una consapevolezza che interessa tutto il discorso sulla prostituzione, e a cui le Autrici di Né sesso né lavoro danno voce: la disponibilità sessuale, la circostanza per cui alcune prostitute assicurano l’accesso al proprio corpo a un uomo dietro corrispettivo non ha niente a che fare con il piacere e la libertà femminile, né tantomeno con l’idea di una sessualità piena in cui uomini e donne agiscono nella totale empatia e reciprocità24. Il fatto cioè che alcune non vivano la prostituzione come uno stupro, ma che siano capaci, nella variabile infinita delle esperienze soggettive, di risignificarla decidendo anche di ricavarne un profitto, non vanifica la diseguaglianza del desiderio.
Nella lettura del fenomeno prostitutivo, a parere di chi scrive, trascurare questo dato significa, da un lato, riproporre l’ottocentesca idea «che un corpo di donna si può comprare, che esistono le donne per bene e quelle per male, che quelle per male esistevano per il piacere, e quelle per bene esistevano per fare e curare la famiglia»25; dall’altro, neutralizzare la premessa da cui femministe abolizioniste e pro sex work muovono congiuntamente: la convinzione che la scelta di prostituirsi, assolutamente slegata dalla ricerca del piacere sessuale, maturi invece in una condizione di necessità o di bisogno, più o meno urgente a seconda del mercato e dell’ambiente che si assume come riferimento.
Tanto nei racconti delle ex prostitute quanto in quelli di chi si definisce sex worker, il lavoro sessuale viene infatti indicato come «una delle poche strade percorribili»26 per accedere a un reddito da chi – come donna migrante, trans, omosessuale – già vive una situazione di estrema marginalità.
In tal senso è confortante che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 141/2019, abbia riconosciuto che «fattori di ordine economico», ma anche «situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali», incidano sulla scelta di “vendere sesso”, limitando di fatto «la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali». Questo tipo di argomentazione, erroneamente ritenuta un’ingerenza indebita nel foro interno di colei che si prostituisce, rifiuta invece l’idea, tipica dell’individualismo liberale, che «la “persona” coincida sotto il profilo giuridico con il “soggetto di volontà” che crea rapporti giuridici per mezzo delle sue proprie volizioni in quanto signore assoluto della sfera d’azione a lui riconosciuta dall’ordinamento oggettivo»27, e riafferma la dimensione dialettica nella quale, nel panorama costituzionale, vivono autodeterminazione ed eguaglianza formale e sostanziale.
Da tale angolo visuale, gli interventi del legislatore repubblicano non sono meramente ordinatori del reale ma attivi e trasformativi, rivolti a garantire a tutti e tutte uguali condizioni di partenza e chances di autorealizzazione equivalenti.
A tale potenziale innovatore della legge pensava evidentemente Lina Merlin, quando, senza illudersi sull’estinzione del fenomeno prostitutivo, sceglieva contestualmente di non sanzionare né la prostituta né il “cliente”, ma solo coloro che dal mercato del sesso traggono un profitto; offrendo così ai cittadini, ma soprattutto alle cittadine, la stessa libertà dalla prostituzione, in forza di un risignificato principio di pari dignità sociale28.
Le richieste odierne di normalizzazione del “mercato del sesso” da parte del femminismo pro sex work e da una certa giurisprudenza e dottrina denotano, forse, un affievolimento del primo entusiasmo repubblicano, che emerge tanto nella difficoltà di declinare la dignità umana in termini diversi dalla semplice autodeterminazione, quanto nella crescente sfiducia nella capacità del legislatore di valorizzare il singolo nei luoghi in cui esprime la sua personalità, come la famiglia, la scuola, l’ambiente di vita, ma soprattutto, come ricorda Luciana Tavernini, il lavoro.
Che sia il “paradigma”29 del lavoro a vivere, infatti, una crisi profonda lo testimonia emblematicamente il dibattito intono al sex work, in cui il “libero e consapevole” esercizio della prostituzione – ancor più laddove si svolga in contesti di lusso, con clienti facoltosi e presumibilmente con un compenso più alto – neutralizza sia la realtà nella quale è maturata la scelta prostitutiva sia la brutalità della prestazione e i rischi per la salute che l’esercizio della prostituzione comporta per tutte le sex workers in qualsiasi contesto sociale30. Eppure, come scrive Catharine MacKinnon, «stabilire limiti al grado di intimità e di intrusione delle richieste che si possono fare legalmente a una persona è una delle finalità dei diritti umani e del diritto del lavoro»31.A questa visione sembra aderire la Corte costituzionale, riconoscendo che sanzionare lo sfruttamento della prostituzione, così come contemplato dalla legge Merlin, non lede ex art. 41 Cost., come sostenuto dal giudice a quo, «la libertà della donna di svolgere la propria attività in modo organizzato, ed eventualmente anche nella forma di una vera e propria impresa», ma traduce in termini di scelte legislative la dignità umana in senso oggettivo. Il che, più in generale, si spera rappresenti l’inizio da parte della Corte – e non solo – di una rilettura costituzionale del lavoro e della libertà di impresa. D’altronde, l’eventuale liberalizzazione della prostituzione (o l’occasionalità, la frammentarietà e i rischi che caratterizzano oggi intrinsecamente nuove esperienze lavorative32; o l’instabilità lavorativa aggravata dalla disciplina in materie di contratto a tutele crescenti33; e si potrebbe continuare) conduce a chiedersi se la Costituzione abbia, almeno in termini di limiti, ancora qualcosa da dire.
La prospettiva della Corte aiuterebbe invece a preservare non solo la dignità oggettiva, il cui contenuto appare spesso sfuggente e difficile da declinare, ma soprattutto la dignità sociale, quella più cara a Lina Merlin: l’unica «connotata in senso profondamente relazionale»34, messa a dura prova in primis – come il volume Né Sesso Né Lavoro certamente ci aiuta a ricordare – non da coloro che il loro corpo, per le ragioni più svariate, lo vendono, ma da chi, con un certo piacere sinistro, lo acquista.
(Osservatorio AIC Associazione Italiana dei Costituzionalisti, VI, 2019, pp. 256-267, https://www.osservatorioaic.it/it/osservatorio/ultimi-contributi-pubblicati/cristina-luzzi/recensione-del-libro-di-daniela-danna-silvia-niccolai-grazia-villa-luciana-tavernini-ne-sesso-ne-lavoro-politiche-sulla-prostituzione-vanda-epublishing-2019.)
1L’autodeterminazione femminile nella sfera sessuale è tornata recentemente all’attenzione della dottrina costituzionalistica a seguito della decisione della Corte cost., 6 marzo 2019, n. 141, in Foro it., 2019, I, 2262, con commento in questa rivista di C.P. GUARINI, La prostituzione «volontaria e consapevole»: né libertà sessuale né attività economica privata “protetta” dall’art. 41 Cost. A prima lettura di Corte costituzionale n. 141/2019.Ancora sulla medesima decisione A. DE LIA, Le figure di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione al banco di prova della Consulta. Un primo commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 141/2019, in forumcostituzionale.it; M. PICCHI, La legge Merlin dinanzi alla Corte costituzionale. Alcune riflessioni sulla sentenza n. 141/2019 della Corte costituzionale, id.
2Determinanti per il femminismo abolizionista la testimonianza di una ex prostituta, ora giornalista e attivista, per cui cfr. R. MORAN, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, Roma, 2017; l’indagine giornalistica intorno al fenomeno prostitutivo condotta su scala mondiale da J. BINDEL, Il mito Pretty Woman. Come la lobby globale dell’industria del sesso ci vende la prostituzione, Milano, 2018.
3 Sul punto D. DANNA, Libertà sessuale e politichesulla prostituzione, in D. DANNA, S. NICCOLAI, L. TAVERNINI, G. VILLA, Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, Milano, 2019,20ss., distingue il “neoregolamentarismo” dai regolamenti ottocenteschi sulla prostituzione: «In ogni forma di regolamentarismo gli sfruttatori o tenutari di bordello diventano coloro che “organizzano la prostituzione”, cioè “manager”. Ma nessuno oggi propugna il ritorno al modello ottocentesco di segregazione e di creazione di uno status giuridico inferiore per chi si prostituisce, è il neoregolamentarismo la politica in discussione in molti stati, giustificata e promossa dal concetto di “sex work”».
4Si tratta di un profilo ampiamente approfondito da J. BINDEL, Il mito Pretty Woman. Come la lobby globale dell’industria del sesso ci vende la prostituzione, cit., a giudizio della quale: «Il modo più efficace di ripulire qualunque abuso dei diritti umani per mascherarlo è dargli un altro nome. Come fa notare Janice Raymond nel suo libro Not a choice, Not a job un sostenitore della schiavitù delle Indie Occidentali suggeriva: “Invece di chiamarli SCHIAVI, utilizziamo per i negri il termine ASSISTENTI DI PIANTAGIONE, smetteremo di sentire le violente proteste contro il commercio degli schiavi da parte di profeti moralisti, poetesse dal cuore tenero e politici dalla vista corta”.», III, 7 ss., versione Ebook.
5D. DANNA, Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione, cit., 33 ss.
6Cfr. D. DANNA, Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione, cit., 56 ss. in generale a proposito dei rischi per la vita e la salute delle prostitute l’Autrice ricorda che il rischio per queste ultime di morire uccise è 18 volte superiore a quello delle altre donne; inoltre il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali statunitense, riconosce le prostitute più esposte al “disturbo da stress post-traumatico”, analogo a quello di cui soffrono veterani di guerra e vittime di tortura e di stupro.
7 Nel Pasha di Colonia, ad esempio, il prezzo che una prostituta sostiene al giorno per l’affitto di una stanza è di 175 euro. Questo significa che i suoi guadagni iniziano dopo il quarto “cliente”. Sul punto D. DANNA, Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione, cit., 50 ss.
8Così D. DANNA, Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione, cit., 46.
9 In tal senso, a titolo esemplificativo, G. SERUGHETTI, Prostituzione e gestazione per altri: problemi teorici e pratici del neo-proibizionismo, in Studi sulla questione criminale, 2016, II, 42 ss. La stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 141/2019 preferisce optare per tale espressione, ciò a giudizio di A. DI MARTINO, E’ sfruttamento economico e non autodeterminazione sessuale: la Consulta salva la legge Merlin, in www.diritticomparati.it, 20 giugno 2019, fa sorgere dubbi intorno alla neutralità assunta dalla Corte costituzionale nell’elencare i diversi modelli esistenti dato che «parlare di proibizionismo o di neo-proibizionismo (anziché di neo-abolizionismo) implica che si è già assunta una certa posizione valutativa».
10 Sul punto cfr. D. DANNA, Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione, cit., 51 ss. L’Autrice pur guardando con favore al modello “neoabolizionista” o nordico, non ne nasconde i limiti. In Norvegia, ad esempio, pur essendo il numero delle prostitute che agiscono nel Paese ai minimi storici, la criminalizzazione del cliente sembra aver favorito una maggiore stigmatizzazione di chi si prostituisce, favorendo ingerenze da parte delle autorità di pubblica sicurezza e dei servizi sociali nella vita delle prostitute soprattutto quando madri.
11 L’emblematica espressione si deve a T. PADOVANI, Disciplina penale della prostituzione, Pisa, 2015, 128.
12Sul punto S. NICCOLAI, La legge Merlin e i suoi interpreti, in Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, cit., 108, prende le distanze da chi in dottrina non ha riconosciuto tale intento della legge Merlin, in particolare afferma l’Autrice: «Mi pare perciò ben lontano dal vero che “in Italial’aspetto economicamente rilevante della prostituzione èrimasto costantemente in secondo piano, ben subordinatoall’aspetto morale” (Luciani, 2002, p. 400), argomento cheha il rischio di raffigurare il nostro come un sistema arretrato,ancora non sufficientemente aperto al “progresso” veicolatodal libero dispiegarsi delle libertà economiche».
13 Il riferimento dell’Autrice è a T. PADOVANI, Disciplina penale della prostituzione, cit., 369.
14 Corte cost. 16 giugno 1964, n. 44 in Giur. cost.,1964, 532 ss.
15S. NICCOLAI, La legge Merlin e i suoi interpreti, cit., 83 ss.
16 S. NICCOLAI, La legge Merlin e i suoi interpreti, cit., 91.
17 Fanno eccezione i soli progetti Bini, Pugliesi, Giovanardi richiamati da G. VILLA, Progetti di legge e proposte politiche sulla prostituzione in Italia, in Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, cit., 164.
18Sulle differenti definizioni del fenomeno fornite dai disegni di legge cfr. G. VILLA, Progetti di legge e proposte politiche sulla prostituzione in Italia, cit., 143 ss.
19 Cfr. sul punto M. MAZZARELLA, E. STRADELLA, Le ordinanze sindacali per la sicurezza urbana in materia di prostituzione, in Le Regioni, 2010, I/II, 237 ss.; T. PITCH, Contro il decoro, Bari, 2013, 54 ss.; A. SIMONE, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nella società del rischio, Milano, 2010, 70 ss.
20A titolo esemplificativo, Ordinanza n. 88 del 17 dicembre 2008 del Sindaco di Pisa.
21 Nel panorama nazionalecfr. T. PITCH, Editoriale; R. DAMENO, Il diritto penale e il corpo delle donne; G. SERUGHETTI, Prostituzione e gestazione per altri: problemi teorici e pratici del neo-proibizionismo, in Studi sulla questione criminale, cit., 7 ss.
22 Cfr. A. DI MARTINO, È sfruttamento economico e non autodeterminazione sessuale: la Consulta salva la legge Merlin, cit., a giudizio della quale nella sentenza n. 141/2019 «si intravedono – oltre che sensibilità diverse all’interno del collegio – anche gli appigli per un eventuale cambiamento di rotta» laddove il legislatore decida di optare in un futuro per un regime neoregolamentarista.
23 Corte d’Appello di Bari, sez. pen. III, ord. del 6 febbraio 2018.
24 Si ripresenta la necessità di distinguere la liberazione sessuale delle donne dalla libertà sessuale, su cui cfr. L. TAVERNINI, Quanto ci toccala prostituzione?, in Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, cit., 185 ss.
25 Le parole di Alessandra Bocchetti sono riprese da D. DANNA, Libertà sessuale e politichesulla prostituzione cit., 25 ss.
26 Così si legge nel Vademecum per sex worker e solidali in https://ombrerosse.noblogs.org/.
27 Così A. BALDASSARRE, Diritti sociali, in Enciclopedia giuridicaTreccani, Roma, 1989, 1 ss.
28 Sul differente ruolo assunto dal principio di pari dignità sociale nel passaggio dallo stato liberale a quello sociale cfr. nuovamente A. BALDASSARRE, Diritti sociali, cit., 6 ss.
29Sul punto cfr. P. COSTA, Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, materiale dell’incontro di studio “Diritti e lavoro nell’Italia repubblicana”, Ferrara, 24 ottobre 2008.
30A titolo esemplificativo, a proposito della capacità del contesto di neutralizzare i rischi insiti in sé nell’attività prostitutiva cfr. A.DE LIA, Le figure di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione al banco di prova della Consulta. Un primo commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 141/2019, cit., a giudizio del quale «non esiste in effetti una figura prototipica di prostituta, ed il sex worker non è soltanto la Pretty Woman che si aggira in pelliccia negli eleganti salotti dei grandi hotel, ma neppure esclusivamente la lucciola sfruttata che si scalda dinnanzi ad un falò di notte, al margine della strada statale, come per certi versi ha affermato la Corte costituzionale». In senso contrario per una demistificazione della prostituzione “di lusso” cfr. J. BINDEL, Il mito Pretty Woman. Come la lobby globale dell’industria del sesso ci vende la prostituzione, cit., III, 11 ss., versione Ebook.
31 C. A., MACKINNON, Trafficking, prostitution, and inequality, in Harvard civilrights-civilliberties law review, 2011, 294 ss.
32Cfr. I. MASSA PINTO, La libertà dei fattorini di non lavorare e il silenzio sulla Costituzione: note in margine alla sentenza Foodora (Tribunale di Torino, sent. n. 778 del 2018), in Osservatorio Aic, 2018, II; C. SALAZAR, Diritti e algoritmi: la gig economy e il “caso Foodora”, tra giudici e legislatore, in Consulta online, Liber amicorum per Pasquale Costanzo, 26 giugno 2019.
33Su cui da ultimo Corte cost. 8 novembre 2018, n. 194, con commento di C. PANZERA, Indennità di licenziamento e garanzie (costituzionali ed europee) del lavoratore, in Diritticomparati.it,2018.
34 Così G. BRUNELLI, Imparare dal passato: l’ord. N. 207/2018 (nel caso cappato) e la sent. N. 27/1975 (in tema di aborto) a confronto, in forumcostituzionale.it, giugno 2019.
di Daria Bignardi
Come scrive la scrittrice francese Annie Ernaux a proposito di una figura del suo passato, per me lei è una di quelle donne «morte o vive, reali o immaginarie, con le quali, malgrado tutte le differenze, sento di avere qualcosa in comune. Formano in me una catena invisibile in cui stanno fianco a fianco artiste, scrittrici, eroine dei romanzi, donne della mia infanzia. Ho l’impressione che la mia storia sia in loro». Anzi no: Annie Ernaux è così estrema, spudorata e spoglia nella sua missione di scrittrice che la immagino come un’isola irraggiungibile dove è accaduto qualcosa di drammatico che avrebbe potuto succedere anche a me.
Una volta l’ho incontrata e ho presentato un suo libro, ed era così: troppo. Troppo brava, troppo estrema, troppo distante.
Ogni sua opera è una guerra con morti e feriti nel campo di battaglia che è la condizione femminile, o forse dovrei dire è stata perché io voglio pensare che oggi, come ho sentito dire dalla filosofa ottantenne Luisa Muraro, stia accadendo «uno sconvolgimento che è avvenuto in profondità, senza violenza, ma enorme, e ci sta capitando: è finito il dominio maschile sulle donne». Ma per secoli, anzi millenni, non è stato così. E non è ancora così in metà del mondo.
L’ultimo
libro di Annie Ernaux tradotto in Italia da L’Orma Editore è appena uscito e
s’intitola L’evento. L’evento è stato il suo aborto
avvenuto nel 1963 nel bagno del suo studentato dopo che per la seconda volta
una mammana le aveva introdotto una sonda nell’utero.
A quel tempo l’aborto in Francia (e in Italia) era illegale ed Ernaux racconta
in modo totalmente spietato e scabro tutto quello che le accadde quando si
ritrovò a ventitré anni, incinta e sola, a doversi occupare di una gravidanza
non voluta. Leggendola ho come sempre la certezza che quel che racconta sia
precisamente quel che è successo a migliaia di donne, e che sia terribile.
Scrive Ernaux tra parentesi, dopo la raccapricciante scena nel bagno: «Può darsi che un racconto come questo provochi irritazione, o repulsione, che sia tacciato di cattivo gusto. Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverne. Non ci sono verità inferiori. E se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo».
Il libro di Ernaux è sconvolgente e crudele ed esatto in ogni sua parola, proprio come lei: una donna che pensa che il vero scopo della sua vita sia che il suo corpo, le sue sensazioni e i suoi pensieri diventino scrittura. […]
(Vanity Fair, 13 novembre 2019: https://www.vanityfair.it/vanity-stars/daria-bignardi/2019/11/13/annie-ernaux-condizione-femminile
di Franca Fortunato
Alba A., Maria Stefanelli, Simona Napoli, Giuseppina Pesce, Giusy Multari, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, Annina Lo Bianco sono donne cresciute in famiglie di ’ndrangheta, che per amore della loro libertà e quella delle loro figlie e figli sono divenute testimoni o collaboratrici di giustizia, denunciando e mandando in galera madri, padri, sorelle, fratelli, mariti, parenti, i cui legami di sangue hanno da sempre assicurato alla ’ndrangheta omertà, forza e mancanza di pentiti. Un’assicurazione che, da quindici anni a questa parte, le donne hanno incominciato a minare, scegliendo la difficile strada della riappropriazione della propria vita, lontano da quel mondo. Su di loro sono stati scritti libri, articoli, saggi, realizzate fiction e film, io stessa ne ho scritto più volte per dire dell’irrompere nel mondo mafioso dell’imprevisto della libertà femminile che, come una “slavina” – a detta anche dei magistrati di Reggio Calabria –, minaccia l’intero equilibrio delle ’ndrine che hanno costruito la loro forza sull’identificazione della famiglia di sangue con la struttura dell’organizzazione mafiosa. Donne che hanno posto fine alla complicità e omertà delle loro madri, custodi, per generazioni di donne, di un ordine patriarcale violento e criminale, di cui loro stesse sono sempre state le prime vittime, trasformate in carnefici delle loro figlie.
Le collaboratrici, quelle che ce l’hanno fatta a sopravvivere alla condanna a morte che continua a pesare su di loro, perché la ’ndrangheta non dimentica, vivono sotto falso nome con le figlie e i figli in località protette, lontane dalla Calabria. Annina Lo Bianco che, insieme a Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce, ha denunciato la boss di San Ferdinando; l’infermiera Aurora Spanò, affiliata alla cosca Bellocco a cui appartiene anche il marito finito in galera, vive insieme al figlio dodicenne, divenuto il “collaboratore di giustizia” più giovane; Giuseppina Pesce, dopo aver portato alle sbarre l’intera famiglia, il padre, la madre, le sorelle, i fratelli e i nonni, vive con la figlia e i figli; Maria Stefanelli, la prima testimone di giustizia in un processo per mafia celebrato al Nord, vive con la figlia e la sua compagna; Giusy Mutari, cugina acquisita di Maria Concetta Cacciola, che ha portato in galera familiari e cugini del marito che l’avevano tenuta segregata in casa per un anno dopo la morte suicida del marito di cui la incolpavano, vive con le tre figlie; Simona Napoli che ha fatto condannare il padre, la madre e il fratello per l’uccisione del suo amante, vive con il figlio.
Di queste donne torna a parlare la giornalista palermitana Dina Lauricella nel suo libro Il codice del disonore. Donne che fanno tremare la ’ndrangheta, edito da Einaudi, con lo scopo di «esplorare soprattutto la cultura domestica della mafia calabrese», sollecitata da una collaboratrice, Alba A. (nome di fantasia), che le telefona per una intervista, in attesa della quale l’autrice scende in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, per capire il perché Alba ha deciso di collaborare. Un perché che accomuna tutte le collaboratrici e la cui risposta sta nel desiderio di rendersi libere e liberare le figlie e i figli da quell’ambiente dove loro sono cresciute e che destina i figli maschi a diventare mafiosi e le femmine a sposare mafiosi. Un destino a cui un gran numero di donne, di madri, non collaboratrici né testimoni di giustizia, hanno incominciato a ribellarsi e si rivolgono autonomamente al Tribunale dei minori di Reggio Calabria per chiedere un futuro diverso per le proprie figlie e figli. Sessanta sono le figlie e i figli di ’ndrangheta trasferiti, dietro richiesta delle madri, in strutture o famiglie al nord, mentre i padri dal carcere minacciano i magistrati, rivendicano il diritto di averli a casa e imprecano per la «distruzione del nucleo familiare». Succede anche che i servizi sociali, davanti alla necessità di intervenire su questi ragazzi e ragazze, si tirino indietro, con ferie o certificati medici di massa, per paura di ritorsioni.
Che donne sono le collaboratrici? Sono giovani, non hanno studiato, passeggiato liberamente per le strade, vissuto emozioni ed esperienze e orizzonti delle loro vite sono i muri delle loro case. Sono donne che conoscono la violenza sul loro corpo da parte di padri, mariti e fratelli, perpetrata davanti a madri complici e anaffettive. È questo il mondo quotidiano che emerge dalle pagine del libro della Lauricella, un mondo sostenuto da una cultura patriarcale violenta e criminale, dentro cui ognuna di loro matura la decisione di riappropriarsi della propria vita, a rischio di perderla. Una decisione che per Alba A, Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce, Maria Stefanelli, Simona Napoli viene rafforzata da una relazione extraconiugale, vera o virtuale che sia, iniziata sui social network, dove si registrano con nomi di fantasia per non farsi scoprire dalla famiglia. I social per loro sono l’unica finestra su un mondo altro, dove si mostra la possibilità di una vita diversa. Si innamorano, pur sapendo di rischiare di diventare vittime di un “delitto d’onore” – eliminato nell’ordinamento penale italiano nel 1981 – perché il tradimento «è un’onta drammatica, all’interno di queste famiglie […], un’offesa da essere punita con la morte».
A scoperchiare il “delitto d’onore” dentro le famiglie di ’ndrangheta è stata Giuseppina Pesce che ha raccontato dell’omicidio di una zia, della fidanzata di un suo cugino, di quella del fratello e di qualche sua amica. «Negli ultimi trent’anni – scrive Lauricella – almeno 20 donne sono rimaste vittime nella sola Piana di Gioia Tauro, ma stime ufficiali non esistono sia perché le famiglie non denunciano la scomparsa, sia perché i corpi non vengono spesso ritrovati».
Giuseppina Pesce, Alba A, Simona Napoli, Maria Stefanelli sono riuscite a sfuggire alla legge del delitto d’onore. Le collaboratrici di giustizia sono donne che amano, prima di tutto, le loro figlie e figli, che diventano arma di ricatto e di pressione a ritrattare, se lasciati in affidamento a genitori e parenti durante la collaborazione. Maria Concetta Cacciola l’ha pagato con la vita, dopo essere entrata e uscita dal programma di protezione per poter stare accanto ai figli, lasciati ai suoi genitori, da lei denunciati, che la spingevano a ritrattare e alla fine l’hanno uccisa. A un anno di distanza dalla sua morte, la Corte d’Assise di Palmi ha condannato i familiari per maltrattamenti ma non per omicidio e ad oggi la Dda di Reggio Calabria ha chiesto ulteriori indagini in tal senso.
Alba A., la collaboratrice da cui prende il via il libro della Lauricella, dopo sei mesi di reclusione, ha accettato di collaborare per la mancanza dei figli, lasciati ai suoceri. Il processo è ancora in corso e adesso vive lontano dalla Calabria agli arresti domiciliari, insieme ai due suoi figli. Un mondo della quotidianità, quello della famiglia mafiosa, dove forti restano ancora i legami familiari che non sempre si ha la forza di recidere completamente. Simona Napoli, dopo aver svelato i retroscena dell’omicidio del suo amante, al processo si è avvalsa della facoltà di non rispondere in merito alla vicinanza e al ruolo del padre nelle ’ndrine locali dei Bellocco. Nonostante il padre le abbia rovinato la vita, ucciso l’uomo che amava, l’abbia picchiata e umiliata, Simona non l’è sentita di infliggergli un colpo così duro. La figlia di Maria Concetta Cacciola, Tania, al processo, una volta raggiunta la maggiore età, ha deciso di ritirare la sua costituzione di parte civile, a differenza della figlia di Lea Garofalo, Denise, che è andata fino in fondo, facendo condannare il padre e gli zii per l’uccisione della madre.
Le pressioni dentro quel mondo sono ancora forti, i legami pure, ma c’è qualcosa – come dimostrano le collaboratrici – molto più forte che è l’amore per la libertà femminile, che non si può incatenare, chiudere in gabbia, e che a lungo andare sarà la rovina della ’ndrangheta per mano di donna.
(Casablanca, settembre-ottobre 2019)
di Titti Marrone
La vita bugiarda degli adulti racconta il difficile doloroso cammino di un’adolescente verso la maturità: sarà una nuova saga?
Come il filo dorato con cui si riprende una tessitura dalla trama preziosa e già sperimentata, la linea d’ombra tra infanzia e adolescenza evocata in tante parti de L’amica geniale torna nell’ultimo romanzo di Elena Ferrante, «La vita bugiarda degli adulti», da domani in libreria. Vi si racconta del guado da tutti attraversato, da moltissimi narrato ma che solo di rado raggiunge la potenza lancinante propria della scrittura di chi si firma Elena Ferrante. A balenare è soprattutto l’impercettibilità del passaggio, con la metamorfosi del corpo dove per le femmine s’insedia il sanguinamento mensile del mestruo, il gonfiore sgomentante dei seni, l’insorgere di nuovi odori. Ma la lacerazione più forte è il disvelamento dei genitori, scarnificati dalle sembianze eroiche dell’ingenua glorificazione infantile e scoperti disarmati portatori di identità fragili, impastate di debolezze umane, di pulsioni mediocri, di borghesissimi segreti e bugie.
Anche qui, lo sguardo sul mondo è femminile; anche qui, ma più sottile, c’è rivalità tra amiche per un uomo, Roberto, e l’orgoglio per le buone letture è sventolato come uno stendardo molto femminile, perché poi femminile è la voce narrante: è quella di Giovanna, tredicenne figlia di Andrea e Nella. «Mio padre leggeva moltissimo, mia madre pure e io amavo essere come loro», annota la ragazzina, chiudendo il cerchio apparentemente perfetto di una famiglia della buona borghesia riflessiva, con un appartamento luminoso in via San Giacomo dei Capri. Lui insegna storia e filosofia «nel liceo più prestigioso di Napoli», lei latino e greco a piazza Carlo III. Sono intellettuali progressisti, sono stati e forse ancora sono marxisti e ingaggiano animate discussioni con gli amici, tra cui spicca la coppia del professore universitario Mariano e della bella Costanza, genitori delle due migliori amiche di Giovanna. «Tutt’e tre […] non eravamo state battezzate, tutt’e tre non conoscevamo preghiere, tutt’e tre eravamo state precocemente informate sul funzionamento del nostro organismo… tutt’e tre sapevamo che bisognava sentirsi orgogliose di essere femmine», racconta Giovanna. Suo padre si chiude nello studio dove, «se si dedicava a grandi pensieri irrobustiti da libri diligentemente annotati, era felicissimo». Sua madre corregge bozze di “romanzetti rosa”, è appena uscita da una depressione, primo tarlo nascosto nel legno dell’impalcatura familiare. Ma a farla scricchiolare sarà una frase buttata lì dal padre, destinata a non essere udita da Giovanna però da lei dolorosamente carpita, che attribuisce alla figlia la bruttezza dell’anima nera di famiglia, sua sorella Vittoria.
Quella frase, sapientemente posta ad apertura della storia, lavora in Giovanna e risucchia il lettore nel romanzo come il ragno che cattura l’insetto. Come con gli incipit de I giorni dell’abbandono e de L’amica geniale si entra nella ragnatela ferrantiana per non uscirne fino alla fine. Così, pur avendo ricevuto le bozze del libro all’alba di ieri, nemmeno io ne sono uscita se non a libro chiuso. A far sentire chi legge in un contesto espressivo ben conosciuto, è l’andamento narrativo che mescola con maestria registri alti e bassi e soprattutto nelle pagine su sentimenti amorosi e pulsioni sessuali, non lesina, anzi intensifica innesti da feuilleton. E tra gli escamotage del racconto torna l’oggetto-marcatore della storia: ne L’amica geniale, ma anche ne La figlia oscura, era la bambola, qui è un braccialetto d’oro.
La zia Vittoria, con cui Giovanna s’incaponisce a incontrarsi, sosterrà di averglielo donato alla nascita, i genitori negano e l’oggetto risulta sulle prime sparito, per poi riapparire, passare di mano in mano e, come un amuleto negativo che porta disgrazia, far affiorare ipocrisie e cattiverie. Ma sarà l’incontro con la zia Vittoria a produrre eventi, e incontri, destinati a rompere l’equilibrio infantile di Giovanna, proprio come il suo linguaggio scurrile, le frasi sboccate che, come ne L’amica geniale, si trasmettono come un contagio a sua nipote, veicolano un dialetto osceno urlato con ferocia dalle classi sociali inferiori. Anche questo è parte del timbro di scrittura tipicamente ferrantiano, ed è destinato ad attrarre per la capacità di ricreare un ambito narrativo già noto. Così come il ritorno di caratterizzazioni di un femminile molto napoletano – “alice salata”, “mazza di scopa” – e temperamentale, come nel caso di Vittoria, figura aspra dall’affettività enigmatica.
Quest’asprezza si trasmette a Giovanna nel suo momento più buio quando scopre l’inganno del padre nascosto alla madre per quindici anni: «Mi stava crescendo dentro, ormai, un violentissimo bisogno di degradazione… una smania di sentirmi eroicamente turpe». Così, le nuove frequentazioni di Giovanna, che dal Vomero “scende” al Pascone, «zona di cimiteri, di fiumane, di cani feroci» dove abita Margherita con i tre figli, portano a preliminari di sesso squallido ben diverso da quello asettico delle lezioncine impartite dai genitori. E anche qui l’attraversamento dei quartieri porterà a mescolanze di classi sociali, con un’esplosione di violenza sul viso di una ragazza e di una rissa tra uomini.
La “faticosa approssimazione al mondo adulto” di Giovanna fino ai 16 anni è un rito d’iniziazione che passa per un viaggio a Milano e una rinuncia, ma deve soggiacere alla pratica di liberarsi di una verginità percepita come ingombro. E con il fondale di una Napoli percorsa in lungo e in largo, Ferrante lacera il velo dell’ipocrisia morale, intellettuale ed esistenziale della borghesia napoletana dei primi anni ’90, impastoiata in relazioni che svelano ai figli l’inganno di «un mondo vischioso, ripugnante, del tutto diverso da quello che loro stessi ci avevano propagandato», fin qui mai raccontato con tanta spietata forza evocativa. E magari potrebbe nascerne una nuova saga.
(Il Mattino, 5 novembre 2019)
Pubblichiamo integralmente, per gentile concessione, questo articolo apparso sulla rivista La Civiltà Cattolica (2019 I 587-595) (https://www.laciviltacattolica.it/articolo/svetlana-aleksievic-alla-ricerca-dellumanita/).
di Marc Rastoin S.I.
La Civiltà Cattolica n. 4050, 16 marzo-6 aprile 2019
Svetlana Aleksievič è una professoressa di storia bielorussa diventata giornalista. Ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 2015. Quale la motivazione? I suoi libri più importanti in effetti non sono opere di finzione, ma l’elaborazione di centinaia di testimonianze di persone comuni, pazientemente raccolte: la testimonianza delle donne che avevano partecipato alla grande guerra patriottica, la Seconda guerra mondiale1; quella di persone che avevano conosciuto la guerra in Afghanistan2; quella di tutti coloro che erano stati toccati in un modo o nell’altro dalla catastrofe nucleare di Černobyl, nel 19863; quella di cittadini sovietici, in seguito russi, che erano passati attraverso lo stalinismo, la destalinizzazione, la glaciazione brezneviana e, infine, l’avvento della democrazia4.
Munita di un registratore, Svetlana intervista a lungo i testimoni che incontra: ne diventa l’amica, la confidente, un orecchio benevolo. A lei si racconta quello che a volte non si è ancora mai detto a nessuno.
Poi lei compone il suo libro, alternando testimonianze lunghe e brevi, facendole precedere da brevi note introduttive, dove spesso illustra le circostanze in cui ha incontrato i suoi interlocutori. Vi è una genialità nella sua maniera di organizzare le testimonianze così che non appaiano sconnesse, ma formino, a poco a poco, un itinerario coerente. Incarnandosi nel cuore del destino russo in un secolo terribile, la scrittrice arriva a comprendere l’intero universo, e i lettori di tutto il mondo ne hanno ben colto il linguaggio universale.
Una storica originale
Non è del tutto a caso che Svetlana pone le sue domande: cerca invece non una verità fattuale, documentaria, fredda, bensì l’eco interiore degli avvenimenti, i fremiti dell’animo, un fondo di umanità che si trova nascosto nel cuore degli eventi peggiori. «Io cammino – lei dice – sulle tracce della vita interiore, procedo alla registrazione delle anime. Il cammino delle anime è per me più importante dell’evento stesso»5. Per questa ragione è giusto riconoscere il lavoro di ricomposizione che la scrittrice compie.
Ogni storia, ogni racconto è costretto a fare una cernita dei dati. Un altro storico o un altro essere umano farebbero altre scelte. Svetlana stessa riconosce che è innanzitutto come scrittrice umanista che lei compie il suo lavoro: «Non finisco mai di meravigliarmi nel constatare fino a che punto le vite delle persone comuni siano in realtà interessanti. Con la loro infinita varietà di cose vissute… La storia è interessata soltanto ai fatti, e le emozioni ne restano escluse. Non hanno accesso alla grande storia. Io invece guardo il mondo non con gli occhi dello storico, ma con quelli di chi cerca anzitutto l’uomo e non finisce mai di stupirsene»6.
Senza cambiare affatto il contenuto delle testimonianze raccolte, Svetlana le intesse insieme, ed è in tale tessuto – così come ovviamente nella selezione delle voci – che si compie il suo lavoro. All’inizio, e poi in maniera frammentaria, lei segnala la sua presenza, come talora le reazioni fisiche dei suoi interlocutori, i loro pianti o i loro silenzi. Non pretende di essere neutrale, anzi. Una giovane che aveva perso l’intera famiglia nel pogrom anti-armeno di Baku nel 1990 le esprime la sua gratitudine: «Grazie. Grazie di non avere paura di me. Grazie per non distogliere lo sguardo come fanno gli altri. Grazie di incontrarmi. Non ho amici qui, e nessun ragazzo mi fa la corte… Io parlo, non smetto di parlare… di raccontare… se ne stavano là sdraiati, così giovani, così belli…». E alla fine del racconto la scrittrice aggiunge un’annotazione che mostra come spesso lei abbia creato un rapporto personale con i suoi testimoni: «Sei mesi dopo ho ricevuto una lettera da quella giovane: “Entro in monastero. Ho voglia di vivere. Pregherò per lei”»7.
Svetlana condivide le emozioni che la travolgono quando ascolta storie a volte strazianti per il loro orrore: «L’anima diviene silenziosa e attenta: non si tratta più di eventi lontani e passati, ma di una scienza e di una comprensione dell’essere umano di cui c’è sempre bisogno. Anche nel giardino dell’Eden. Poiché lo spirito umano non è così forte e così protetto come si crede, ma ha continuamente bisogno di venire sostenuto. Ha bisogno che da qualche parte gli venga data un po’ di forza»8. Ma ciò che la tocca di più è l’umanità dell’umano: «È proprio nella calda voce della persona, nel vivo riflesso del passato che in essa si riverbera che arde la gioia primeva della vita e insieme la sua ineluttabile tragicità»9.
Nella scrittrice si trova la volontà di dare uguale spazio alla grazia e al peccato, alla bontà semplice e alla crudeltà gratuita. Nell’evocare l’esperienza delle migliaia di donne al servizio dello sforzo bellico sovietico, scrive: «Esse possiedono l’esperienza che hanno acquisito nell’orrore: un’esperienza non solo della guerra, ma dell’uomo in generale, del sublime di cui l’uomo è capace in quanto essere umano, e dell’abiezione di cui è capace in quanto creatura disumana. Lì tutto si accosta: il nobile e il vile, il semplice e l’atroce. Ma non è l’orrore quello di cui ci si ricorda, o almeno non è tanto l’orrore, bensì la resistenza dell’essere umano nell’orrore. La sua dignità e la sua fermezza. La maniera con cui l’umano resiste al disumano, proprio perché è umano»10.
È tale umanità, talvolta sfigurata ma tanto bella, che Svetlana vuole onorare: «Devo dunque allargare l’orizzonte: scrivere la verità sulla vita e la morte in generale e non solo la verità sulla guerra […]. Indubbiamente il male sa essere attraente, più elaborato nelle sue trame che non il bene: ci ipnotizza con il fondo di disumanità che è profondamente nascosto nell’uomo. Sono stata sempre curiosa di sapere quanto vi sia di umano nell’uomo, e come l’uomo possa difendere l’umanità che c’è in lui»1111. La scrittrice ha messo la sua penna al servizio dell’umano e della vita, i suoi doni di empatia al servizio della parola.
Il mondo della donna
Il suo sguardo sulla storia vuol essere quello di una donna, e Svetlana è profondamente convinta che lo sguardo delle donne sul mondo, sulla realtà e sulla vita sia di una qualità, di un colore particolare. Tale convinzione attraversa il suo lavoro, e all’inizio della sua raccolta sulle donne soldato dell’Armata rossa lei confessa all’improvviso: «Gli uomini si trincerano dietro i fatti, la guerra li cattura, come l’azione e l’opposizione delle idee; le donne invece percepiscono attraverso i sentimenti. Lo ripeto malgrado tutto: si tratta di un altro mondo, diverso da quello degli uomini. Con i suoi odori, i suoi colori propri. Ma soprattutto esse sentono intensamente tutta l’intollerabilità dell’uccidere, perché la donna dà la vita, offre la vita»12.
Ciò non impedirà alla donna di poter uccidere, ma lei lo farà per amore della sua famiglia, di suo marito e dei figli, più che per un’idea. E Svetlana scrive: «È vero anche che le donne, non importa in quale circostanza, sia essa la più grandiosa o la più terribile, sono capaci di vivere la propria storia intima: la propria vita di donna si apre un cammino attraverso qualsiasi ostacolo. La propria vita di donna conta più di ogni cosa. Forse è questa la ragione per cui queste donne sono sopravvissute alla guerra senza perdere la loro anima. Preservando il loro io nel più profondo di se stesse. Le donne infatti vivono in un modo più sensuale [ossia sensibile] e sottile degli uomini: sono fatte così. Nel loro mondo, l’esistenza e l’essere coincidono»13.
E sono talora degli uomini a riconoscerlo, come quel russo che afferma: «Mi sono reso conto che le donne sono qualcosa di diverso quando avevo 17 anni, e non nei libri, ma nella mia carne. Avevo sentito lì, accanto a me, qualcosa di totalmente altro, di totalmente diverso, e questo mi aveva sconvolto. Lì, all’interno, in quel contenitore che era la donna, c’era qualcosa di nascosto, qualcosa che mi era inaccessibile»14.
Lo sguardo delle donne sulla guerra è diverso da quello degli uomini, perché esse sono radicate nel sensibile e aperte alla vita che nasce. «Ho la sensazione che loro e io non parliamo della guerra, ma dell’esistenza umana. Che insomma meditiamo sull’uomo»15. Svetlana osserva che più le donne sono vicine al popolo, più avvertono questa cosa. «Le persone più sincere sono le donne semplici […]. Le parole per raccontare le trovano in se stesse e non in giornali o nel libro che hanno letto […]. I sentimenti e la lingua delle persone istruite, per quanto possa apparire strano, sono spesso più soggetti al lavorio del tempo nel senso di una loro omologazione. Sono contagiati da conoscenze di seconda mano che non sono le loro»16.
E nel mezzo della violenza sulla prima linea del fronte, gli uomini si ricordano vagamente di ciò: «Se gli uomini vedevano una donna in prima linea, gli si trasfigurava il volto, anche il solo suono di una voce femminile sortiva lo stesso effetto»17.
Non vi è un’ideologia nell’attenzione per le donne da parte di Svetlana Aleksievič, ma un’acuta consapevolezza della loro grande complicità con la vita.
Il carattere russo
Che cosa non si è scritto sull’«animo russo»18? Esiste un animo russo? Ogni popolo ha la sua storia, la sua cultura, il suo modo di vedere la vita. In una intervista ha affermato: «Penso che non ci sia alcun particolare animo russo. […] Si tratta di un certo mito, diffuso soprattutto in Europa, circa l’animo russo. Anche se non si può negare che c’è qualche spiegazione per l’esistenza di tale mito, e non unicamente a causa della letteratura di Dostojevskiy: quando viaggio attraverso questo grande Paese [la Russia], si potrebbe pensare che noi bielorussi siamo vicini, ma fin da subito si capisce che [in Russia] si tratta di un altro ambiente, un altro popolo, un’altra storia»19. In Svetlana non c’è la volontà di glorificare la propria nazione, ma il desiderio, come di sfuggita, di cogliere atteggiamenti interiori, riflessi culturali così come lei li scopre e comprende.
Il popolo russo si caratterizza per un’incredibile capacità di sopportare la sofferenza, che ha un parallelo solo nella sua resilienza nel combattere il gelo invernale. Quando nel 1944-45 i soldati sovietici scoprirono le prime case tedesche, rimasero stupiti per la loro comodità e ricchezza, e si chiesero: «Ma che sono venuti a cercare da noi?». Uno di quei testimoni ricorda la capacità di sopportazione del popolo russo: «Da noi, tutte le sofferenze sono curate con una sola medicina: la pazienza. Così è trascorsa tutta la nostra vita»20.
Ma questo comporta una certa difficoltà ad accogliere la gioia. Intorno al 2000, una donna esprime la cosa così: «Mia figlia ha sposato un italiano. […] Quando vengono a trovarmi, facciamo grandi discussioni in cucina. Alla russa… fino all’alba. Sergio pensa che ai russi piaccia soffrire, che sia quello il segreto della mentalità russa. Per noi, la sofferenza è “una battaglia personale”, “la via della salvezza”. Gli italiani, invece, non sono così: non vogliono soffrire, ma amano la vita che ci è stata data per trarne gioie e non sofferenze. Ma noi siamo diversi. Raramente parliamo della gioia… del fatto che la felicità è tutta un’altra cosa»21.
Un’altra donna osserva: «L’uomo non è preparato per la felicità, ma per la guerra, il freddo e la grandine. Non ho mai incontrato persone felici, mai, eccetto mia figlia di tre mesi… I russi non si preparano alla felicità. (Pausa) Tutte le persone normali si portano dietro i figli all’estero. Ho molti amici che sono partiti […]. Prima non pensavo di emigrare, di partire… Ho iniziato a pensarci quando è nata mia figlia. Voglio proteggere quelli che amo»22.
Non si può neanche negare che la cultura popolare russa sia molto segnata dal cristianesimo. Che ne dice Svetlana? Lei racconta la storia di una profuga russa che fuggiva dal Caucaso e aveva vissuto la miseria a Mosca. Un uomo semplice la sposa: «Sono uscita dall’ospedale e ci siamo sposati. Lui mi ha portato da sua madre. È una contadina semplice. Ha passato tutta la vita nei campi. Non c’è un solo libro a casa loro. Stavo bene. Tranquilla. Anche lei; le ho raccontato tutto. “Non è grave, piccola mia”. Mi ha abbracciato. “Dove c’è amore, lì c’è Dio”. Ora ho voglia di vivere, con tutte le mie forze»23.
Un’incredibile capacità di soffrire e di sopportare che ha un parallelo solo in un’impressionante capacità di empatia e di generosità.
L’amore malgrado l’odio
In alcuni la guerra ha fatto crescere l’odio come unico mezzo per impegnarsi e vivere quell’inferno: il desiderio di vendicare i propri morti. Afferma una donna: «L’odio ci ha travolti, era più forte della paura che provavamo per i nostri parenti, per ciò che amavamo, più forte della paura di morire»24.
Anche altri concordano con lei su questo punto. Tuttavia, ciò che colpisce è il modo in cui la guerra può anche far crescere l’amore. È noto il celebre aneddoto nel grande romanzo di Vasilij Grossman, Vita e destino, riguardo alle donne sovietiche che davano delle patate a dei prigionieri tedeschi. Le sue parole ci ricordano quelle di Svetlana: «Ma c’è […] una bontà quotidiana. È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito, della gioventù che ha pietà della vecchiaia; è la bontà del contadino che nasconde nella stalla un vecchio ebreo […]. Questa bontà privata di un singolo individuo nei confronti di un suo simile è senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori del bene religioso o sociale. Ma se ci soffermiamo a riflettere, ci accorgiamo che la bontà fine a se stessa, privata, casuale, è eterna»25.
Alcune donne soldato testimoniano un atteggiamento analogo: «Ho preso un pane, l’ho spezzato in due, dandone una metà. Lui l’ha presa. Con prudenza… Lentamente… Non ci credeva… Ero felice… Ero felice di vedere che non ero capace di odiare. Ero stupita di me stessa»26. Un’altra donna riferisce che alcuni soldati non impediscono loro di aiutare i prigionieri, pur avendole inizialmente rimproverate: «Ecco l’animo del soldato russo. Ci disapprovavano, ma essi stessi hanno dato del pane al loro nemico. È un sentimento tanto vivo. Un amore puro. Per tutti»27.
Svetlana è sensibile a questa importanza decisiva di essere stati amati per poter amare. Lo illustra bene un dialogo con una donna: «“Ma come hai fatto a rimanere in vita laggiù?”. “Sono stata molto amata quando ero piccola”. Quello che ci salva è la quantità di amore che abbiamo ricevuto, è la nostra riserva di forza. Solo l’amore salva… L’amore è una vitamina senza la quale l’uomo non può vivere, il suo sangue si coagula e il suo cuore si ferma»28.
Un’altra donna le parla della zia: «Zia Nadia… Senza di lei… È il mio angelo custode… Non mi era zia di sangue, ma ora è molto più vicina della mia vera famiglia; mi ha lasciato in eredità la sua parte in un appartamento della comunità. Ora. Sì… Aveva vissuto con mio zio, che è morto da tempo. Non erano sposati, convivevano soltanto. Ma so che si amavano. È a persone così che ci si può rivolgere… È a persone che hanno conosciuto l’amore che ci si può rivolgere…»29. Non c’è nessun facile sentimentalismo in questo termine «amore»: «L’amore è un lavoro difficile. Per me è innanzitutto un lavoro»30.
La religiosità popolare
Queste donne soldato e questi vecchi sovietici sono cresciuti in un Paese dove l’ateismo era dottrina di Stato, e qualsiasi tipo di catechesi è stato proibito per tre o quattro generazioni. Tuttavia la fede non è assente, ed è sorta in modo inatteso. La scrittrice usa spesso la parola «fede» per indicare il credo comunista: «Per me, in fin dei conti, quella generazione non è tanto quella della guerra, ma della fede. Quando questi uomini e queste donne parlano della loro fede, i loro volti diventano ispirati. Oggi non vedo intorno a me volti del genere»31. Qui si può scorgere il transfert che è avvenuto tra l’ideale comunista e la fede cristiana, in particolare nella sua prospettiva escatologica. Ma altrove questo termine designa propriamente la fede in Dio.
Talvolta vediamo anche pagine della Bibbia prendere vita sotto i nostri occhi, come quando una donna descrive una madre che ha perso il figlio e che piange per altri giovani soldati: «Mi sono sentita sconvolgere, lo vede – ci penso ancora oggi –, da questa grandezza del cuore materno. Nel suo immenso dolore, anche quando si stava seppellendo suo figlio, aveva tanto cuore da piangere anche gli altri figli, come se fossero i suoi…»32. Ci viene in mente la concubina di Saul, Rispa, che per mesi vegliò su sette impiccati, due soli dei quali erano suoi figli: «Allora Rispa, figlia di Aià, prese il sacco e lo stese sulla roccia, dal principio della mietitura fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia. Essa non permise agli uccelli del cielo di posarsi su di loro di giorno e alle bestie selvatiche di accostarsi di notte. Fu riferito a Davide quello che Rispa, figlia di Aià, concubina di Saul, aveva fatto» (2 Sam 21,10-11). Il gesto di compassione di una donna disperata ha emozionato e scosso il re Davide.
Altre donne si aggiungono alla schiera di queste donne forti nel dolore e ricche di misericordia, di cui alle volte la Bibbia ci consegna i nomi. Quando una colonna di soldati parte per andare al fronte e incontro alla morte all’inizio della guerra, un testimone narra che un’anziana «donna se ne sta al bordo della strada […] con le braccia incrociate sul petto, si inchina mentre i soldati passano; lei si inchina davanti a loro e dice: “Dio voglia che torniate a casa”. E, sa, lei si inchina così davanti a ognuno, per ripetergli ogni volta quelle parole. Tutti avevano le lacrime agli occhi»33.
Conclusione
È una straordinaria opera di memoria quella compiuta da Svetlana Aleksievič. Così lei rende omaggio agli umili, ai piccoli, ai dimenticati: «È vero: non amo le grandi idee, ma i piccoli, gli umili. Ma ancora di più: amo la vita»34. E lo fa partendo dal suo dono di empatia, ascoltando per ore persone che le confidano ciò che è quasi impossibile dire. Le ore buie del XX secolo non possono essere raccontate unicamente con storie di battaglie e discorsi, con analisi ideologiche e lotte all’interno dei partiti. In bianco e nero. Quelle ore assumono un colore nuovo e indimenticabile quando sono esseri umani ad aprire la propria anima a un altro. Essi ci ispirano, ci spingono a vivere meglio.
C’è una dimensione indissociabilmente etica e spirituale nella ricerca letteraria e umana di Svetlana Aleksievič: «Ho bisogno anche di coraggio per sfuggire all’influenza della mia epoca, del suo linguaggio e dei suoi sentimenti. Esiste una sola via: amare l’essere umano. Il forte e il debole, l’insicuro e lo spietato. Il mortale e l’immortale. L’altro. Sto solo facendo l’apprendistato di questo amore»35. Bisogna esserle grati per questo.
(La Civiltà Cattolica, 2019, pagg. 587-595)
1 Cfr S. Aleksievič, La guerre n’a pas un visage de femme, Paris, Presses de la Renaissance, 2004 (tr. it., La guerra non ha un volto di donna. L’ epopea delle donne sovietiche nella Seconda guerra mondiale, Firenze, Giunti, 2017).
2 Cfr Id., Les cercueils de zinc, Paris, Christian Bourgois, 1990 (tr. it., Ragazzi di zinco, Roma, E/O, 2015).
3 Cfr Id., La Supplication: Tchernobyl, chronique du monde après l’apocalypse, Paris, Lattès, 1999 (tr. it., Preghiera per Černobyl. Cronaca del futuro, Roma, E/O, 2018).
4 Cfr Id., La Fin de l’homme rouge ou le Temps du désenchantement, Arles, Actes Sud, 2013 (tr. it., Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, Firenze, Giunti, 2018).
5 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 52.
6 Id., La Fin de l’homme rouge…, cit., 22 (tr. it., 13).
7 Ivi, 351.
8 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 8.
9 Ivi, 16 (tr. it., 17).
10 Ivi, 212.
11 Ivi, 14 (cfr tr. it., 14 s).
12 Id., La Fin de l’homme rouge…, cit., 529.
13 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 242.
14 Ivi, 17.
15 Ivi, 10.
16 Ivi (tr. it., 11 s).
17 Ivi, 204 (tr. it., 218).
18 Anche se Svetlana Aleksievič è figlia di padre bielorusso e di madre ucraina, scrive in russo e nei suoi libri raccoglie le sue testimonianze per lo più tra le popolazioni dell’ex Unione Sovietica.
19 Testo tratto da un’intervista rilasciata da Svetlana Aleksievič a Polskie Radio nel 2015 (www.radiopolsha.pl/6/249/Artykul/211785).
20 Ivi, 119.
21 Ivi, 308.
22 Ivi, 529.
23 Id., La Fin de l’homme rouge…, cit., 469
24 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 329.
25 V. Grossman, Vie et Destin, Paris, LGF, 2015, 541 s (tr. it., Vita e destino, Milano, Jaca Book, 1984, 405 s).
26 S. Aleksievič, La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 103.
27 Ivi, 294.
28 Ivi, 315.
29 Id., La Fin de l’homme rouge…, cit., 467.
30 Ivi, 312.
31 Id., La guerre n’a pas un visage de femme, cit., 126.
32 Ivi, 367.
33 Ivi, 292.
34 Ivi, 27
35 Ivi, 188.
di Luisa Muraro
Noi non “abbiamo” un corpo, noi siamo corpo: corpo vivente (che nasce, cresce, invecchia e muore), sessuato (che si riproduce incrociandosi con un altro umano di sesso differente), senziente, desiderante e parlante (parlante almeno una di una miriade di lingue diverse). Noi non ci definiamo con l’avere, ma con l’essere. E in tal senso siamo profondamente uguali, perché le differenze che siamo non rompono l’essere, non lo fanno in tanti pezzi di diverso valore. Questo è il pensiero della differenza, un pensare le differenze senza fare a pezzi l’essere. Lo ha inaugurato il femminismo degli anni Settanta del secolo scorso, che poi verrà chiamato femminismo della differenza.
In precedenza il traguardo femminista era (anzi, doveva essere) quello dell’emancipazione e della parità, basato su un ideale di progresso di cui l’uomo di sesso maschile si credeva la misura. Era una presunzione che sarà smascherata nei fatti dalla prima guerra mondiale e messa in questione, nella nostra cultura, dalla scoperta dell’inconscio: una differenza, quest’ultima, che fino allora aveva parlato con la sofferenza e i sintomi dovuti alla repressione.
La scoperta dell’inconscio è stata genialmente ripresa da alcune femministe (ne cito due, collegate fra loro, Luce Irigaray, l’autrice di Speculum, e Antoinette Fouque, fondatrice di Psychanalise et Politique). E ci ha aiutato a concepire il senso libero della differenza sessuale, da innestare nella lotta per la libertà femminile.
Una parte del femminismo ha respinto Freud a causa della sua mancata presa di coscienza del dominio sessista, con quello che ne seguiva per la sua teoria della sessualità femminile. Una parte, invece, lo ha autonomamente ripreso in due punti d’incrocio: la possibilità di dare parola a ciò che era muto e la necessità dell’essere in relazione perché ciò avvenga.
Questo, molto in breve, lo sfondo su cui spiccano i contributi raccolti da Chiara Zamboni con il titolo La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe (Moretti e Vitali, Bergamo 2019). Se si volesse collocare il libro in una biblioteca secondo i criteri classici, bisognerebbe averne almeno tre copie da mettere, rispettivamente, in tre diverse sezioni: politica, psicanalisi, filosofia. Non è che manchi di richiami interni e di rispondenze profonde; i singoli testi sono parecchio differenti ma tra loro c’è l’affinità di un sapere in movimento. Si muove come fa la lava che cambia i paesaggi.
Il titolo è un’ironia, perché io ho parlato di “scoperta” e questo invece parla di “coperta”. Chi ha ragione?
La parola “scoperta” appartiene a una retorica piuttosto possessiva e semplificatrice, lo confermano le scoperte che vanno ufficialmente sotto questo nome, in primis quella dell’America nel 1492. Le vere scoperte sono quelle che, quando volti la carta che era coperta, scopri di giocare un gioco che non è quello che credevi (forse, Colombo è stato sul punto di arrivarci).
Le vere scoperte ti fanno sentire che c’è altro ma non soltanto fuori da te, c’è anche in te, senza soluzione di continuità tra dentro e fuori. La famosa oggettività scientifica, tanto pregiata, ne è scossa, ma la conoscenza del vero no, anzi. Indubbiamente, la cosiddetta scoperta dell’inconscio ha questo tipo di eccellenza, ma Freud, che in ciò era un uomo del suo tempo, aspirava all’oggettività.
Che nome usare, se non vogliamo parlare di scoperta dell’inconscio? Il sottotitolo del libro parla chiaro, si tratta dell’inconscio nelle pratiche femministe. La cosiddetta pratica dell’inconscio è durata poco, ma ha contato molto in un movimento politico che scommette non sulla rivendicazione della parità ma sulla presa di coscienza e di parola. Penso specialmente alla pratica del partire da sé, cui Diotima ha dedicato un grande seminario riversato in uno dei suoi libri, La sapienza del partire da sé (Liguori, 1996). Anche La carta coperta, va detto, è il frutto di un’iniziativa della comunità filosofica dell’università di Verona.
La pratica del partire da sé è la strada di una radicalità non ideologica, da una parte, né distruttiva, dall’altra. È il crinale della politica di cambiamento. Alla mia immagine della lava che cambia il paesaggio bisogna aggiungere quella della verzura. Sono immagini contrastanti, per forza di cose. Infatti, si tratta di agire nelle opposte direzioni del dentro e del fuori, non più separate. E come? Per rispondere alla domanda, in un testo destinato a lettrici anglofone, ho coniato questa formula: the inner passage, il passaggio interno, trovata per intuizione, senza riuscire a spiegarla. Ma questo libro ci riesce.
(www.libreriadelledonne.it, 11 ottobre 2019)
Cent’anni fa veniva assassinata a Berlino Rosa Luxemburg durante la repressione della rivolta spartachista del gennaio 1919.
Maria Concetta Sala, nel centenario della morte, le dedica un testo appassionato che attraversa il vasto epistolario che lei ci ha lasciato. A qualcuno la sua grandezza ha evocato l’immagine dell’aquila, a noi, ancora più preziosa, Maria Concetta Sala regala la scoperta che Rosa Luxemburg è donna per il nostro tempo, guida per il pensiero, l’azione, il linguaggio, una guida che vola altissima e che possiamo provare a seguire.
Segnaliamo due testi di recente pubblicazione:
– Rosa Luxemburg, Lettere di lotta e disperato amore, a cura di F. Tych e L. Basso, trad. it. di Br. Norton, UE Feltrinelli, 2019
– Rosa Luxemburg, Dappertutto è la felicità, trad. it. di E. Trabucchi, L’orma editore, 2019.
Riportiamo un estratto dell’articolo di M.C. Sala. In fondo, il link al sito in cui potrete leggere per intero il testo di Sala, completo di note e ricco di ulteriori racconti, citazioni e riferimenti ai due testi recenti sopra segnalati e ai molti volumi dell’epistolario di Rosa Luxemburg già pubblicati.
Paola Mammani (della redazione del sito della Libreria delle donne)
La militante protesa verso «tutto il mondo ridente dei fenomeni»
di Maria Concetta Sala
«Al contrario di tanti capi del movimento operaio, e soprattutto dei bolscevichi, in particolare Lenin, Rosa non ha ristretto la propria vita entro i limiti dell’attività politica. Fu un essere completo, aperto a ogni cosa, e al quale non era estraneo alcunché di umano. La sua azione politica era solo una delle espressioni della sua natura generosa. Da questa differenza tra lei e i bolscevichi riguardo all’atteggiamento interiore del militante nei confronti dell’azione rivoluzionaria derivarono anche i grandi disaccordi politici che nacquero tra loro, e forse, se Rosa fosse vissuta, il tempo non avrebbe fatto altro che acuirli. È grazie al carattere profondamente umano di Rosa che la sua corrispondenza conserverà sempre un interesse attuale, qualunque cosa apporti il corso della storia». Così leggiamo in una stringata recensione che la filosofa Simone Weil scrisse subito dopo aver letto la traduzione francese di una raccolta di lettere dalla prigione della rivoluzionaria polacca. Ed è proprio in virtù dell’umanità intrinseca al temperamento di una delle grandi personalità della tradizione marxista che sarebbe quanto mai necessario, a cento anni di distanza dal suo assassinio durante la repressione del moto spartachista (gennaio del 1919), leggerne e rileggerne le raccolte epistolari, giacché lo esigono questi nostri tempi, in cui siamo legni vieppiù storti. Una lettura che non può condursi se non riconoscendo la soggettività sessuata di chi scrive e di chi legge, soggettività sessuata che è una faccenda inerente non all’ontologia ma alla materia di cui siamo fatti, al nostro essere corpi sessuati dotati di cuore e di mente. […]
Dalle lettere emerge non solo il suo legame «da ogni parte, con sottili fili diretti, a mille creature grandi e piccole», con le quali vibra intimamente, ma anche la sua risolutezza a vivere la propria vita secondo una visione che evoca nel suo aspetto più profondo quella di una Simone Weil o di una Etty Hillesum. Lo si può costatare nelle parole con cui Rosa Luxemburg risponde alla questione «Perché è tutto così?» postale da Sophie Liebknecht: «Bambina mia, “così” la vita lo è da sempre, vi rientra tutto: dolore e distacco e ansia. Bisogna sempre prenderla con tutto ciò che comporta, e bisogna trovare tutto bello e buono. Io almeno faccio così per mia natura. Io sento istintivamente che questa è l’unica maniera giusta di prendere la vita, e perciò mi sento veramente felice in ogni situazione. Neppure vorrei essere privata di niente della mia vita, né vorrei avere nient’altro da quello che questa è stata ed è». […] Si respira in molti luoghi della vasta corrispondenza l’incrollabile fiducia che Rosa Luxemburg ha nel valore dell’umano, ovvero nel saper «rimanere saldi e sereni» e, quando è necessario, nel «gettare con gioia la propria vita “sulla grande bilancia del destino”», anche se dichiara di non poter trasmettere alcuna «ricetta per essere umani» e di sapere «soltanto come si è umani». […] Dalla lettura delle sue lettere e nel contempo dei suoi scritti teorici emerge con evidenza che non c’è, da una parte, la donna singolare più o meno fragile e stoica e, dall’altra, la militante rivoluzionaria più o meno rigorosa e inflessibile che riversa nella politica, nella palestra della pluralità, il proprio desiderio di vita. Il suo modo di occuparsi delle questioni dell’epoca e di schierarsi contro le ingiustizie a favore della costruzione di un ordine sociale totalmente nuovo attraverso una rivoluzione di lunga lena è il riflesso di un’attitudine interiore pervasa da un’intima gioia che si effonde nell’amore per la vita e gli esseri umani e che ineluttabilmente la porta a gettarsi nella mischia. […] La ricerca di uno stile espressivo consonante con il proprio sentire e con quello altrui balza evidente allorché Rosa, dopo aver spedito le bozze dell’opuscolo Sozialreform oder Revolution?, scrive a Leo che è posseduta dal bisogno di una forma dello scrivere incurante delle regole e degli stereotipi «in virtù della forza del pensiero e della convinzione», e che avverte l’esigenza di uno stile che incida «sulla gente come un fulmine», non con i mezzi della retorica «ma con l’ampiezza delle idee, con la forza della convinzione e con la forza dell’espressione». […]
Vissuta in un contesto di delitti e idiozie enormi, in tempi da lei tuttavia giudicati «meravigliosi» perché ponevano «problemi giganteschi» che stimolavano i pensieri, risvegliavano «la critica, l’ironia e la ricerca di un significato più profondo», Rosa Luxemburg ebbe coscienza del «crollo gigantesco del vecchio mondo» a cui stava assistendo, al contrario della maggior parte dei suoi contemporanei convinti «di continuare a camminare sulla terraferma». […] Eppure sappiamo che non dalle speranze dimostratesi fallaci nel gennaio del 1919 Rosa Luxemburg «attingeva la sua gioia e il suo amore compassionevole nei confronti della vita e del mondo». Lei li attinse dal suo esserci tutt’intera nelle condizioni di esistenza che le toccarono in sorte, dal suo fare assegnamento sull’autonoma capacità di giudizio di ciascuno/a, dal suo aderire a una concezione della libertà come sorgente vitale necessaria al risanamento di tutte le istituzioni sociali. La sua «inesauribile letizia interiore» si è tradotta in amore per il mondo che è di per sé politica, una politica rivoluzionaria che si radica nelle condizioni materiali e simboliche delle e dei singoli e dei contesti. È questa l’eredità che raccogliamo dalla sua vita e dalla sua opera e che la colloca nel novero delle donne a cui dobbiamo una re-visione delle categorie della conoscenza non disgiunta dalla percezione e dall’azione; i suoi scritti teorici appartengono alla storia della critica dell’economia politica e alla storia del pensiero politico europeo, è indubbio, ma il dato più rilevante concerne quel suo come continuare a essere umani, dispensato in modo semplice e grandioso ai destinatari e alle destinatarie delle sue lettere e a noi lettrici e lettori di oggi.
(https://noteblockrivista.blogspot.com/, luglio 2019)