di Gianfranco Capitta
Autrice, interprete e creatrice di memorabili personaggi fra teatro, grande e piccolo schermo, Valeri è morta pochi giorni dopo aver compiuto cent’anni. In questo articolo, pubblicato poco prima del suo ultimo compleanno, la ricostruzione delle tappe più importanti di una carriera professionale e un’esperienza umana memorabili
Tra pochi giorni, venerdì 31 luglio, Franca Valeri festeggerà il suo centesimo compleanno. Chissà se gradirà gli auguri che l’Italia intera, e non solo, le farà. Schiva e sobria come è sempre stata fuori del palcoscenico, giusto una ventina d’anni fa, intervistata dal manifesto perché prossima al debutto all’Argentina (ultimo atto della direzione Martone) in un testo di Abraham Yehoshua, Possesso, si era stupita per l’usanza smodata da noi di festeggiare compleanni e ricorrenze (allora era il caso proprio di un suo storico amico, Giuseppe Patroni Griffi).
Ora il suo compleanno straordinario cade in una stagione tutta dedicata, sui giornali e in tv, a mostre e iniziative su «avrebbe compiuto cent’anni», è «scomparso da venti» o cose del genere, da Fellini a Sordi a Gassman. Lei, «la grande signorina» (proprio come Arbasino chiamava Ivy Compton Burnett) resta riservata, sempre. Anche ora che approda al secolo, che è quasi l’eternità.
Due soli grandi amori e compagni di vita confessa lei stessa nella sua autobiografia (Bugiarda no, reticente, Einaudi 2010) entrambi impari nei sentimenti rispetto a lei, ma da lei quasi rivendicati, i soli grandi amori della sua vita. Vissuti, goduti e sofferti lungo la sua inesauribile creatività.
Ovvero quella capacità di «creare», letteralmente, le nuove «maschere» del ’900, tragiche e insieme irresistibilmente comiche. Dall’illusione della rinascita dopo gli orrori del fascismo e della guerra, con lo stereotipo dello snobismo che ambiva a bypassare la durezza di un presente da vivere e reinventare, a tutte quelle altre donne che ha disseminato lungo gli anni ’50 nella rincorsa del boom, «intimo» prima ancora che economico e nazionale. Dalla «Signorina Snob» del dopoguerra (negli stessi anni di un curioso tentativo di Valeri attrice con Strehler) alla «manicure Cesira». Fino alla trionfale apparizione tv della fija della sora Augusta, quella maritata Cecioni, che riusciva a capovolgere e stravolgere lo sfondo meraviglioso e luccicante di Kessler e Bluebell, nella quotidianità (patetica ma irresistibile anch’essa), di una modernizzazione fatta di strafalcioni e paradossi. Un personaggio, la Cecioni, che con egregia disinvoltura maneggiava insieme telefono e tv, scoprendone in grande anticipo il lato «salvifico», penoso quanto esilarante, in una quotidianità ricalcata su fotoromanzi, tg orecchiati, e confusi ricordi di un’infanzia collettiva. È impressionante oggi poter rileggere quegli sketches che parevano improvvisati al momento, nei loro testi precisi e minuziosamente costruiti, pubblicati per fortuna in appendice a Tutte le commedie (La tartaruga/La nave di Teseo, 2020, pp.668, 22 euro), un libro che è il vero grande regalo di compleanno per «la Franca», e per tutti i suoi ammiratori.
Del cinema divenne subito una presenza unica e indimenticabile: è del 1955 la sua «cattivissima» boss che tiranneggia e quasi distrugge Alberto Sordi, Un eroe dei nostri tempi firmato dal genio di Mario Monicelli. E nello stesso tempo Il segno di Venere diretto da Risi. La televisione le ha certo dato la popolarità più straordinaria, la sua cartella curriculare nelle Teche Rai deve essere pressoché sterminata, così come il pubblico che l’ha applaudita per decenni, citando e rifacendo quelle sue maschere, dalla Cesira alla Cecioni, che sono divenute celebri almeno quanto quelle goldoniane. Ha avuto la fortuna, e la diabolica capacità, di appassionare i pubblici più disparati, da quelli intellettuali a quelli più popolari. Insomma, a suo modo, una maga. O meglio una sensibilità straordinaria, che agiva poi con abilità «scultorea» a dare corpo e parola a debolezze, orrori, ridicolaggini che attraversano la vita di tutti. Dovunque apparisse, e su qualsiasi medium e linguaggio si esprimesse.
DavveroFranca Valeri ha rappresentato un caso praticamente unico di attrice di successo in teatro, al cinema e in tv, e nello stesso tempo (o per lo stesso motivo) regista sagace e fulminante autrice. Anzi, di lei si può proprio dire grandissima scrittrice, originale e innovativa quanto colta e preparata sulla cultura di ogni epoca. E non solo quella «scritta»: la musica da sempre ha costituito una passione e un universo di tale importanza e fascinazione da investire e «condizionare» il suo privato e la sua scrittura: uno dei suoi compagni di vita era direttore d’orchestra, lei ha promosso e finanziato per molti anni un concorso nazionale per voci liriche, e ha tratto dalle opere personaggi e intrecci per il suo teatro.
Ragazza per bene, di buona famiglia (ebrea), di buona cultura, milanese di nascita e giunta con l’arte a Roma. Una naturale figlia di quella tradizione di «gran lombardi», che dalla storia migliore della letteratura italiana, aveva portato e «naturalizzato» nella capitale Gadda e Arbasino. E lei si è divertita per la sua sagace, folgorante capacità d’occhio e d’orecchio. Il linguaggio come il vestiario (non solo esteriore) sono sempre stati, fin dall’inizio suoi terreni prediletti di osservazione, misura, analisi, e interpretazione. Poi son venuti i dialetti, gli accenti, le ellissi, le occhiate, i sorrisi capaci di disegnare un atlante di umanità e di comportamenti, di amarezza e di tenerezza. Una capacità, unica e straordinaria, di mixare tutto questo negli sketches, nei paradossi con i suoi Gobbi (Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, a lungo suo compagno d’arte e di vita) che sfondarono anche nei teatri parigini, tanto da farla conoscere e apprezzare dai grandi di allora, come il maudit Jean Genet (e il ricordo di lei con Sergio Tofano affacciati qualche anno dopo dallo scostumato Balcon dello scrittore francese al Valle di Roma, resta una immagine mitica per chi ha avuto la fortuna di vederli).
Ma giànei primi anni ’60, in contemporanea con il suo successo televisivo come Cecioni, le donne della Valeri hanno sentito il bisogno di crescere e moltiplicarsi, in una dialettica a quasi esclusiva preponderanza femminile, in commedie che riuscivano a risultare divertenti quanto pensose e profonde. Le Catacombe nel ’62 fu il primo titolo, seguito da una produzione sempre più vasta quanto puntuta; le donne sempre a scoprire il volto oscuro dell’universo, ma con una energia e una autoironia che ne rendevano il giudizio inappellabile. La vedova Socrate in testa, magari a fianco alla Ferrarina (ciarliera ostessa padana in cerca d’affari nel demi-monde romano, appena ripubblicata da Einaudi nella collezione Teatro) fino a quelle di un pugno di anni fa, come Il cambio di cavalli.
Commedie che rilette oggi di seguito possono costituire un vero trattato, storico e sociologico: le sue donne sono una guida indiscutibile e preziosa nell’animo profondo, e nei discutibili sogni e nelle illusioni pretenziose, di un secolo italiano. Sempre facendoci ridere amaro, naturalmente. Molti di questi aspetti li sottolinea bene, nella postfazione a Tutte le commedie, Patrizia Zappa Mulas, non a caso attrice anche lei (e anche lei di origine lombarda). Perché il nodo vero della curiosità di quel personaggio grandioso che è Franca Valeri, oggi lanciata a superare il secolo (in simpatica sintonia con un altro nume tutelare e pensante della nostra scena, Gianrico Tedeschi) è quale sia in lei l’aspetto dominante e propulsore di questa arte che vola a livelli alti tra scrittura, interpretazione, messa in scena dei suoi formidabili personaggi. Dove l’attrice per altro compete con se stessa e la propria carica tra palcoscenico, schermo, televisione. Forse una mistura chimica, sempre pronta a riaccendersi, tra l’intuito profondo di tutto quanto esiste attorno e oltre a sé, e insieme la voglia di ricostruirlo e penetrarvi e in quel modo corroderlo. Insomma il mestiere di attore (all’antica, e quindi anche autore e regista di se stesso) intriso della capacità strepitosa della scrittura, formatasi e coltivata fin dall’infanzia, nelle stagioni più sensibili della vita. Attrice e scrittrice quindi, ma senza mai arrendersi al potere e all’ingiustizia.
Sono statericordate in questi giorni certe sue puntate in luoghi «inconsueti» per la cultura dominante, anche di sinistra, dall’ex cinema Palazzo al Valle occupato. Ma lei, divina davvero, è stata capace anche di peggio. Premiata «alla carriera» qualche anno fa a quella manifestazione promozionale che sono le Maschere d’oro per il teatro, ritirò con un sorriso di circostanza il premio dalle mani del promoter Gianni Letta. Poi afferrò il microfono, andò in proscenio, e pronunciò una invettiva memorabile contro l’abbandono e lo scarso amore per la cultura (e il teatro in particolare) da parte delle autorità che dovrebbero essere competenti. Indimenticabile, e insuperata.
(il manifesto, 25 luglio 2020)
di Franca Fortunato
Maria Celeste Crostarosa: il Magistero divino della Madre è il titolo di un libro prezioso curato da Mariagrazia Napolitano, che raccoglie gli interventi di un seminario tenuto all’università di Foggia dalle “Amiche di Maria Celeste Crostarosa” e dal Centro Ricerca e Documentazione, insieme al mondo accademico e religioso, e rivolto alla città. Un libro prezioso perché restituisce alla chiesa e a tutte /i noi una grande madre spirituale e simbolica, una grande donna, che per tre secoli è stata assente dalla storia ufficiale di origine maschile della chiesa e dalla storia delle donne. Assenza che non vuol dire non esistenza. Lei è sempre stata lì e aspettava di essere vista e riconosciuta, come tante altre donne del passato illuminate e rese visibili dall’amore di donne nel presente. Le figlie e i figli dell’Ordine religioso che Crostarosa fondò a Foggia (1738), le Redentoriste e i Redentoristi, hanno sempre creduto di essere nate/i da un padre, S. Alfonso e, dopo tre secoli, i primi a riconoscerne l’origine materna sono stati i figli, sanando così una “ferita” interna alla chiesa.
A restituirla a noi donne ci hanno pensato le “Amiche di Maria Celeste Crostarosa” in una relazione di scambio, chi da 40 e chi da 20 anni, con le sue figlie e figli. Una volta conosciuta ne sono rimaste affascinate e hanno desiderato ascoltarne la voce attraverso i suoi scritti, cercati e studiati con amore, per restituire al mondo, “all’Umanità”, una donna di “primaria grandezza”. La chiesa ha fatto ordine solo nel 2016, riconoscendo la Crostarosa, napoletana di origine, madre fondatrice dell’intero Ordine – fino ad allora veniva nominata come madre delle sole Redentoriste – e ne ha avviato la beatificazione dopo vari tentativi di insabbiamento della causa di santità, risolta solo grazie all’intervento della Madre Superiora e della sua vicaria.
Maria Celeste (nome da religiosa, Giulia di battesimo), come altre donne, fa luce su un passato di libertà ed autorità femminile, altro da quello, accreditato dalla storiografia tradizionale, di donne tutte vittime della cultura patriarcale. Lei, donna del secolo dei lumi (1696-1755), appartiene alla genealogia della mistica femminile, un’esperienza spirituale arrivata fino a noi, che ci parla di una relazione libera con Dio che si pone al di sopra della mediazione della chiesa. È “il Dio delle donne” di cui scrive la filosofa Luisa Muraro. Entra in conflitto con padre Tommaso Falcoia, suo confessore, che aveva stracciato le regole del suo nuovo Ordine, giudicate in contrasto con la dottrina dei padri; rifiuta di sottomettersi al suo potere come le chiede l’amico padre Alfonso, resta fedele al suo Dio e a sé stessa. Per questo viene imprigionata e poi cacciata dal monastero dove aveva concepito il suo progetto. Un conflitto simbolico e spirituale che la Crostarosa affrontò affidandosi alle Sacre Scritture e alla parola viva di quel Dio che aveva accolto e custodito, sin dall’età di cinque anni, nella parte più profonda di sé e che quotidianamente le parlava nel silenzio della meditazione. Una Madre, resa tale da Dio che, con il suo assenso, la ingravida del Suo disegno di “creazione” di un nuovo Ordine religioso di cui le detta le regole – nove quanti i mesi di gravidanza – e vuole partorisca a Foggia, dove si trasferisce, in una piccola casa, povera e umile ma “ricca d’amore”. “Dio così volea”, quel Dio che lei chiama “madre, figlio, sposo, amante, padre”.
I tanti interventi sapienti contenuti nel libro sono “un canto d’amore” per una donna che, come altre/i, “ha saputo lottare per liberare” la sua “fede da pratiche e idee non fedelmente cristiane”. Una Madre, umana e divina, che voleva “vivere di Cristo, diventare una sola persona in lui” e insegnare alle sue figlie come essere “memoria viva” del Salvatore e dei Vangeli “attraverso la propria vita”. A Foggia le figlie conservano con cura “il (suo) corpo sacro, ma anche tutte le produzioni dei suoi scritti”, messe a disposizione delle “Amiche di Maria Celeste Crostarosa”. Un libro di politica delle relazioni tra donne nell’amore femminile per la madre, che va letto, riletto e meditato per sentirne il fascino che emana da ogni parola.
Maria Celeste Crostarosa: il Magistero divino della Madre, a cura di Mariagrazia Napolitano, Ed. Aracne, pp. 194, € 14,00
(Il Quotidiano del Sud, 31 luglio 2020)
di Franca Fortunato
In questi giorni d’estate per chi, come me, vive e si nutre dell’amore per la lettura, i libri sono compagni di viaggio inseparabili. È così che mi sono trovata a leggerne uno di straordinaria bellezza. La Biblioteca di Parigi di Jane Skeslien Charles (Garzanti 2020), un romanzo ispirato a persone e fatti reali accaduti tra il 1939 e il 1944, sotto l’occupazione nazista e durante il secondo conflitto mondiale, nella biblioteca americana di Parigi, American Library, che conserva una delle più grandi collezioni di libri al mondo e di cui quest’anno ricorre il centenario della fondazione. Le bibliotecarie, i bibliotecari e la loro direttrice in quegli anni hanno sfidato i nazisti, mettendo a repentaglio la propria vita pur di assicurare la circolazione dei libri, anche quelli proibiti, e salvare l’amore per la lettura, che aiuta a vivere. Una pagina di storia della Resistenza parigina, sconosciuta e imprevedibile, scritta da donne e uomini, più donne che uomini, che passano la vita tra scaffali di libri e si inebriano dell’“odore più buono del mondo, un mélange del profumo di muscoso di libri vecchi e pagine fruscianti di quotidiani”, e sanno dare senso all’amore per la lettura, facendo della biblioteca una “comunità” dove chi lavora e chi la frequenta si sente “a casa”. Un’umanità straordinaria vive tra quei mattoni e scaffali pieni di libri, fatta di coraggio, solidarietà, resistenza, lotta, speranza, fiducia, amicizia, amore, che non conosce frontiere, barriere, odio, razzismo e salvaguarda la biblioteca quale “ponte di libri tra le culture”, “una finestra sul mondo” presente e futuro perché “le cose belle passano ma anche quelle brutte” e l’essenziale non è salvarsi e salvare ma il come. Loro lo hanno fatto scrivendo una pagina straordinaria sul potere dei libri che “come le persone, senza contatti cessano di esistere”. Rifiutano di espellere dal loro tessuto relazionale ebree ed ebrei a cui, vietato loro dai nazisti l’ingresso nella biblioteca, non fanno mancare i libri consegnandoli a casa, perché “i libri e le idee sono come il sangue, hanno bisogno di circolare e ci tengono in vita”. Portano e leggono libri negli ospedali ai soldati malati o feriti “per tenere alto il morale”, aiutati da diecine di volontarie e volontari, spediscono migliaia di libri con dentro foglietti di incoraggiamento ai reggimenti e ai prigionieri nei campi d’internamento nella campagna francese, “per continuare a fare battere il cuore, a far immaginare il cervello, a tenere viva la speranza”. L’amore per i libri unisce anche chi la guerra divide, dando speranza al futuro. È così che il nazista “tutore dei libri”, un bibliotecario che lavorava nella biblioteca più prestigiosa di Berlino, alla direttrice, conosciuta prima della guerra, che teme la chiusura della biblioteca, dice: “Mia cara signorina (…) le persone come noi non distruggono i libri, naturalmente certe persone non possono più entrare e certi libri circolare”. Le uniche a cui la biblioteca negò l’ingresso furono la miseria e la vergogna umana delle “lettere dei corvi”, piene di rabbia e di odio, spedite anonime alla polizia per denunciare ebrei, vicini, amici, familiari, colleghi. A noi resta la bellezza di una storia che insegna come l’amore per i libri salva la nostra umanità là dove, oggi come ieri, dilagano odio, rabbia, razzismo e misoginia. Ecco perché il grande patrimonio librario della biblioteca regionale siciliana, danneggiato dal nubifragio che ha colpito di recente Palermo, va recuperato e salvato dal macero.
(Il Quotidiano del Sud, 30 luglio 2020)
di Francesca Maffioli
L’intervista. Parla la filosofa e artista brasiliana, che a causa di persecuzioni e minacce, ha dovuto lasciare il Paese governato da Bolsonaro per vivere a Parigi, in occasione del suo volume Il contrario della solitudine (effequ). «Penso al femminismo nel senso del suo potere trasformativo e non solo come una critica al patriarcato. È una promessa di felicità e di un mondo migliore a venire».
«La storia delle donne potrebbe essere raccontata come storia delle vittime, anche se non possiamo strategicamente metterci in questa posizione quando si tratta di pensare alla forma e alla potenza della lotta». Sono parole di Márcia Tiburi, filosofa e artista brasiliana. Da domani sarà disponibile la prima traduzione italiana del suo Feminismo em comum: para todas, todes e todos, a opera di Eloisa del Giudiceper la casa editrice effequ. Il contrario della solitudine (pp. 120, euro 15), tiene insieme l’idea che il femminismo sia istanza dialogica e plurale, portatrice di alleanze tra donne che, secondo l’autrice, nascono sotto il sillage del «dolore politico» causato dalla violenza del potere.
Alleanze di «dolorità» in ordine alla definizione di Vilma Pietade, per cui la «sororità» si articola insieme al dolore inserendosi in uno spazio politico che è anche uno spazio di parola personale e condivisa.
I dolori fondativi di cui parla Márcia Tiburi, pur nella coscienza politica di quanto radicata sia nel patriarcato la volontà di ferire e sottomettere, non restano tuttavia allo stadio di constatazione del destino storico delle donne in quanto vittime. «Per questo – dice Tiburi – il movimento femminista è anche una lotta contro la violenza esercitata nell’intento di distruggere le donne quando si trovano nella posizione di indesiderabili al sistema, vale a dire quando non servono sessualmente, maternamente o sensualmente, quando non producono, non consumano e anche quando criticano questo stato ingiusto».
All’importanza della radicalità della lotta, intesa come la serie di pratiche esercitate da quei corpi che non sono considerati dominanti, fanno allusione sia Igiaba Scego nella prefazione sia Antonia Caruso nella postfazione. La radicalità si esplicita secondo Tiburi nella scelta non scontata di condurre la lotta vegliando agli abbagli seduttivi insiti al contesto capitalistico, dove dimorano con agio dominazioni, sfruttamenti, oppressioni e violenze.
Nel suo libro ripete a più riprese che il femminismo è una teoria critica non solo plurale, ma «eminentemente potenziale». Cosa intende?
Penso sempre al femminismo nel senso del potere trasformativo e non solo come una critica al patriarcato, cosa che è senza dubbio. A mio parere, questo potere si costruisce a partire dalle interazioni, dai processi tra le persone e anche dalle istituzioni. Questi processi si riferiscono a potenziali dialoghi che possono essere concretizzati. Il femminismo è un grande e profondo dialogo tra le donne, un dialogo che è stato storicamente impedito dal patriarcato.
In generale, la mia intera concezione della filosofia si basa sulla nozione di dialogo, che non è una semplice conversazione. I dialoghi coinvolgono processi di pensiero e fluiscono oltre i discorsi. Con questo intendo dire che il femminismo non fa sempre rumore, ma che si è costruito socialmente in un modo molto più profondo. In questo senso, il femminismo è la filosofia del presente e del futuro, la promessa della felicità e di un mondo migliore a venire. Fino a ora, il potere è stato nelle mani degli uomini che lo hanno usato in modo narcisistico e violento. Il femminismo è invece un processo che dipende da chi agisce in suo nome; mira a essere la trascendenza teorica e pratica del patriarcato in quanto meccanismo distruttivo, per il mondo e la vita sul pianeta.
Nello scorrere dei capitoli parla spesso di sua madre e di sé, facendo trapelare la storia della sua vita e dichiarando l’esigenza di uno spazio di parola: «È per questo che tutte le femministe, in un modo o in un altro, quando scrivono, parlano di sé».
Come pratica discorsiva, il femminismo è un ritorno delle biografie che sono state rubate alle donne dal sistema patriarcale. Alle donne non era permesso raccontare le loro storie perché la parola è sempre stata nelle mani degli uomini. Simone de Beauvoir si chiedeva come fosse possibile per una persona realizzare se stessa come essere umano essendo una donna. E lo diceva perché consapevole che le donne occupano una posizione secondaria nella società e, peggio ancora, una condizione inessenziale. È difficile pensare che le donne siano sempre state degli esseri al servizio degli uomini.
Il femminismo è un’espressione del fatto che le donne non desiderano più questo ruolo, hanno imparato cosa significa essere protagoniste, che non vuol dire avere un posto nella società dello spettacolo o nei circuiti del potere. Al contrario, esso implica la consapevolezza di se stesse, la capacità di vivere una vita non secondaria ai soggetti privilegiati del patriarcato. Perché ciò sia possibile, è ovviamente necessario decostruire il patriarcato.
Spesso parlando del Brasile, ma non solo, allude alla «cultura della molestia». Racconta di aver provato a ignorare certe forme di violenza patriarcale per non sentirsi «nella posizione della vittima della storia e delle circostanze», senza però riuscirci.
Appartengo a una generazione e a una classe sociale in cui le donne non hanno alcuna possibilità. Dovevo scappare dai miei cacciatori e dovevo farlo da sola. Non c’era stato femminismo per mia madre, come non ce n’era per me. L’ho capito durante l’adolescenza. Mia madre mi ha dato la forza di studiare, anche se lei non ha potuto farlo. Ho studiato molto, sono diventata professoressa all’università molto presto. Come insegnante, ho sperimentato l’estraneità del mondo delle università brasiliane, perché lì il femminismo era estraneo. Sebbene abbia studiato il femminismo nel campo della filosofia, ho iniziato a dirmi femminista solo quando per un certo periodo ho lavorato in una emittente televisiva, circa quindici anni fa.
A quel tempo, in Brasile, il femminismo non conosceva il successo di oggi. Non c’era nemmeno la consapevolezza della tanta violenza e quando c’era, c’era insieme la paura che tutto sarebbe stato anche peggio di quanto non fosse già. Io stessa ho avuto difficoltà ad accettare la presenza di una certa violenza nei miei confronti. La consapevolezza della violenza fa troppo male. Inoltre, sapevo che le forze del patriarcato sono ancora più dure e violente nei confronti delle vittime isolate. Mi sono detta quindi che il femminismo è l’opposto della solitudine. Perché supereremo la violenza contro le donne solo se ci uniremo. È l’unione delle donne che può proteggerci dalla paura e dalle minacce che affrontiamo ogni giorno.
Non esita a parlare di «governo del Golpe». Cita Michel Temer alludendo al suo successore Bolsonaro, scrivendo: «Penso ora al nostro paese sotto un colpo di Stato che è cominciato nel 2016 e che, durante la scrittura di questo libro, non si è ancora concluso. Un colpo di stato che è stato una violenza contro una donna e ha instaurato una dittatura maschilista, insidiosa e cinica, come ogni maschilismo». Vuole aggiungere qualcosa?
La gente non può dimenticare che il Brasile ha subito un colpo di stato. Oggi è stato dimostrato che Dilma Rousseff era innocente, che non ha commesso alcun crimine. Lo stesso atto di governo per il quale è stata destituita è già stato eseguito da Bolsonaro, perché si tratta di una procedura burocratica che tutti i leader seguono. Ma quando è Bolsonaro a farlo si parla di «dribbling» e non di crimine. Perché è il burattino fascista dei neoliberali brasiliani e stranieri che hanno interesse a sfruttare e colonizzare il Brasile. Il colpo di stato contro Rousseff coinvolse media, potere giudiziario e legislativo. Oltre alla sua posizione di leader grottesco, Bolsonaro ha commesso veri crimini contro l’umanità e dovrebbe essere processato per questo. Il governo brasiliano usa la violenza «decorativa» oltre a quella reale. La misoginia che faceva parte della campagna contro Rousseff colpì anche Marielle Franco. I legami di uno dei figli di Bolsonaro con gli assassini di Marielle sono stati oggetto d’inchiesta.
Lei si definisce innanzitutto femminista; donna, “solo in nome della lotta femminista”. Può spiegarci come la volontà di risignificazione del termine donna sia legata alla sua genealogia e quanto di collettivo deve esserci in questo atto?
Ri-significare vuol dire appropriarsi delle costruzioni e dei segni dell’oppressione trasformandoli a favore di coloro che l’hanno subita. I movimenti neri lo fanno con il termine «nero», che è stato creato dal razzismo. Il termine donna, così come il termine femminile, sono stati costruiti dal patriarcato. Ci sono voluti secoli di discorsi e pratiche oppressive per dare un carattere «naturale» alla «donna» e al «femminile». Le femministe hanno trascorso la vita cercando di dimostrare che le donne dovrebbero essere rispettate, che già di per sé è un nuovo significato. Oggi, di fronte all’azione positiva delle donne transgender, è ancora più chiaro che essere una donna va ben oltre ciò che viene definito in termini di biologia. Credo che la pratica concreta del femminismo dipenda dall’atto linguistico individuale, ma che migliori la comprensione del tutto. Ciò non impedisce alle donne che si vedono come donne di continuare ad affermarsi come desiderano. Certamente nel femminismo c’è spazio per tutte le forme d’essere una donna.
(il manifesto, 29 luglio 2020)
di Franca Fortunato
Negli ultimi dieci anni molte/i hanno scritto, io stessa l’ho fatto, delle testimoni e collaboratrici di giustizia di famiglie di ’ndrangheta, che hanno denunciato e mandato in galera i loro uomini per rendere libere se stesse e le figlie e i figli, alcune hanno pagato con la vita. Si è scritto anche delle madri che sempre più affidano i figli e le figlie al Tribunale di Reggio Calabria per sottrarle/i a un destino certo, mafiosi i primi, mogli di mafiosi le seconde. Qualcosa di imprevisto e imprevedibile per gli uomini di ’ndrangheta, che hanno visto distrutti i legami di sangue su cui hanno sempre contato per garantirsi omertà e complicità.
Si è scritto anche di testimoni di giustizia non appartenenti a famiglie mafiose ma, che io sappia, non di donne e in particolare di Marianna F., probabilmente la prima testimone di giustizia, la cui storia è diventata un libro, da poco in libreria, Testimone di ingiustizia, edito presso San Paolo, scritto insieme al giornalista Eugenio Arcidiacono. Marianna è nata e cresciuta in un paesino del crotonese dove negli anni della sua infanzia felice “nessuno parlava di mafia o di ’ndrangheta (…) era un’oasi felice”, come lo erano altri paesi e città della Calabria, compresa la Vibo Valentia della mia infanzia. Poi tutto cambia, con l’emergere di due boss locali che in guerra con un suo zio mafioso lo ammazzano. Ignara del cambiamento che questo porterà anche nella sua vita, si diploma e si trasferisce a Pisa per frequentare l’università dove si laurea in lingue. Trova lavoro a Parigi, è felice, quando le ammazzano i fratelli, Francesco che “frequentava brutte compagnie” e Luigi, per paura che un giorno potessero vendicare la morte dello zio. È a questo punto che la sua vita prende una strada irreversibile, almeno fino ad oggi. Erano i primi anni Novanta. Assieme ai genitori e alla sorella diventa testimone di giustizia ed entra nel programma di protezione. Da allora vive/vivono lontano dalla Calabria, sotto falsa identità, senza amici e amiche e senza un lavoro. Marianna è orgogliosa di sé e dei suoi per aver fatto condannare l’assassino e i mandanti anche se del solo fratello Luigi. Scrive e racconta la sua storia di “fantasma per aver denunciato la ’ndrangheta” perché si sente tradita e disillusa da uno Stato che non ha mantenuto le sue promesse. Lei sa che la ’ndrangheta, invece, le sue di promesse le mantiene, anche a distanza di anni, ed è per questo che, ancora oggi, uscita con la madre e la sorella dal programma di protezione – il padre è morto, il fratello piccolo è chiuso in una clinica –, vive nel terrore di essere scoperta/e e ammazzata/e, come le ha gridato dalle sbarre uno dei boss condannati. Dopo 25 anni non è libera di tornare nella sua casa per “ritrovare le vecchie foto, la mia tesi conservata in un cassetto e soprattutto toccare e ammirare il corredo che con tanto amore la mamma aveva preparato per me (…) e poi correre in spiaggia e farmi una lunghissima nuotata, finalmente libera”.
Se le donne di famiglie di ’ndrangheta hanno trovato nel programma di protezione la strada della loro liberazione e l’inizio di una nuova vita, Marianna, invece, ha perso la sua libertà e la sua felice “vita vissuta”. “Era finito tutto, le passeggiate per i vicoli del mio paese, le vacanze al mare, i raduni nel pomeriggio attorno alla piccola villa nel centro storico, le corse al bar a mangiare un gelato”. Se oggi le condizioni di vita delle/i testimoni di giustizia sono migliorate è grazie anche alle battaglie sue e della sorella, ed oggi non chiede che una vita da vivere, per sé e i suoi familiari.
(Il Quotidiano del Sud, 23 luglio 2020)
di Marco Missiroli
Mariangela Gualtieri abita in un casale tra i colli di Cesena, protetto da una spalla di promontorio e da un giardino senza steccati. Si arriva da una stradina di ghiaia che sfocia nell’aia della poetessa. Il navigatore satellitare non identica il luogo e per raggiungerlo bisogna seguire indicazioni che Gualtieri trasmette con cura: una chiesa, le buchette rosse della posta, tenere la destra lasciando una via bella che si vorrebbe proseguire. Il giardino è costellato dalle scenografie create dal marito Cesare Ronconi per il loro prossimo spettacolo, in sottofondo un brano di Akira Rabelais si integra al canto delle cicale. L’intervista è avvenuta via posta elettronica («Voglio essere precisa»), con l’incontro di persona che completa la conversazione durata quasi tre settimane. A un certo punto, mentre ci accomodiamo nel grande tavolo arancione sotto il portico, Gualtieri racconta di quando lavorava in uno studio di architettura, «Ero giovanissima, avevamo questa sede un po’ fuori da Cesena, gli orari canonici e una vita stretta. Un giorno sono uscita dall’uscio, ero stanchissima, e nel portone principale ho notato che c’era la chiave. Li ho chiusi tutti dentro. Poi sono corsa via, liberata, saltellavo».
Un saltello come rottura. Roberto Bolaño lo chiamava punto di nascita, da cui scaturiscono liberazioni e una possibile poetica. Quando gli chiesero quale fosse il suo, lui disse di una gallina che si ritrovò vicino al letto, una mattina della sua infanzia. Lei ha un punto di nascita per eccellenza?
«Forse è in una notte d’infanzia che non ho dimenticato. Sono nel mio letto e prima di addormentarmi penso la parola sempre. La penso così intensamente che comincio a sudare freddo, terrorizzata. La mia immagine-madre credo sia un buio immenso, come lo si avverte da piccoli, denso e popolato, e dal buio quell’unica parola che germina, da sola, senza niente altro: sempre, sempre. Io la penetravo e lei si inabissava, portandomi via. Non svegliai mia sorella che dormiva nel letto accanto. Di certo sentii la gravità di quel momento, anche se ero una bambina molto semplice». «Poi sono passati molti anni prima che cominciassi a scrivere. Ricordo benissimo come e quando è arrivato il primo verso. Ero appena uscita da una malattia che non mi aveva fatto dormire per quaranta giorni. Non avevo mai provato una simile prostrazione. In quello stato arrivò l’impellenza di scrivere, con la strana certezza di non avere niente di mio da dire».
Impellenza di scrivere e l’impressione di non avere nulla da dire: è un’abrasione che poteva portare al silenzio. E invece come andò? Come si mosse l’atto creativo?
«Ero già in un silenzio espressivo che durava da tutta la vita e che dovevo rompere per nascere, per non soffocare dentro il mio guscio. Cominciai inconsapevolmente con un’invocazione, proprio come i miei maestri, con quei primi versi di Antenata: “Parlami che/ io ascolto, parlami che/ mi metto seduta e ascolto, / metto una mano sull’altra/ parlami e ascolto”. Non sapevo a chi fossero rivolti quei versi, ma c’era una forte consonanza con i morti. Gli stessi morti che nella mia infanzia sentivo presenti dietro ogni porta chiusa, dentro ogni stanza vuota, adesso erano lì, non più spaventosi come allora, ma soccorrevoli e miti. Quello strano paesaggio era connotato al femminile. Da lì quel titolo: Antenata. Dopo quell’invocazione, dopo quell’atto di fede nel niente, è arrivata una fiumana di parole che ho accolto e messo sul foglio».
Connotazione al femminile: mi sembra sia uno dei suoi nervi poetici.
«Quando qualcuno dice che sono tempi brutti, non posso fare a meno di pensare che come donna non avrei voluto vivere in nessun’altra epoca. Apparteniamo a una specie che ha tenuto inespressa la propria parte femminile per millenni, l’ha zittita, rinchiusa, bastonata, ignorando l’enorme massa di dolore e disarmonia che questa compressione violenta ha generato. Ignorando ancora oggi l’entità di ciò che, come specie, abbiamo perduto. Ora l’energia femminile, sia pure in una piccola parte di mondo, può avere espressione e io voglio credere che questo farà la differenza. Il mio babbo, da buon romagnolo e anticlericale, diceva che la donna è la prova che Dio esiste».
A proposito di Dio: a un certo punto chiesero a Wisława Szymborska se pregasse. Lei fece un appunto all’intervistatore: «Pregare, oltre a comporre versi, intende?». La poesia come atto religioso, non solo spirituale.
«Ho scritto che “forse la gioia è la preghiera più alta”, e ne sono convinta. Ma c’è un pensiero che ho trovato nel famoso discorso di Paul Celan e che da anni mi accompagna, un pensiero che Celan riprende da Benjamin, che a sua volta lo riprende da Malebranche (anche Adorno entra in questa catena di consegne): “L’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima”. La poesia, quasi precipitando da un atto di attenzione plenaria, è questo tipo di preghiera: l’io è accucciato e lascia finalmente spazio a qualcosa che parla e che ha tutta l’aria di venire da fuori, spontaneo, benché lo si sia atteso fino quasi allo svenimento, alla nevrosi; inspiegabile e gratuito, benché ci si prepari per tutta la vita».
La parola «gioia», il suono «gioia»: rispetto alla sua storia personale e artistica assume un significato capitale.
«Un tema immenso, quello della gioia, certo legato all’infanzia, al gioco, alla pienezza del corpo che si arrampica o nuota, ma anche a Eros e alla scrittura, alla potenza di non pensare, al fare inteso come poiein, strappare al non essere, e dunque alla parola poetica. Sul piano personale la gioia è un accadimento che scoppia improvviso, non annunciato, e riguarda la consonanza fra me e tutto il resto. Ha una durata minima ma quando accade è una potenza vivificante, un’iniezione di leggerezza e dunque necessariamente legata a una sospensione del pensiero. Sul piano artistico è in una apertura, uno spalancamento a una forza pneumatica che pare soffiarci addosso, dettare, rispetto alla quale ci si spalanca, abitando la propria attenzione plenaria e insieme la propria nullità».
Walt Whitman raccontava quanto la sua poesia nascesse dal paradosso: una chiusura verso il creato e l’essere spalancato improvvisamente verso lo stesso creato. Disse che questa morsa da cui era invaso trovava risoluzione nella terra. Nella materia, nella natura. Nel «corpo naturale». Mi sembra sia uno stato vivificante — e produttivo — che forse le possa appartenere.
«Sì, certo, anche se, restando in area anglosassone di quel periodo, prediligo Gerard Hopkins ed Emily Dickinson. Credo che questo paradosso sia costitutivo dell’umano che sempre si contrappone, o pensa di contrapporsi, alla natura, e il cosiddetto creato vorremmo dominarlo, sottometterlo. In quanto donna, penso di essere più natura — mi si conceda questa semplificazione — con questa cavità al centro del mio corpo, predisposta per accogliere un nato della terra. Intendo più connessa alla terra, alla luna e al cielo, e anche a forze ctonie, forze che stanno prima e dopo la regola della ragione, così necessaria e magnifica, quest’ultima, ma anche così ingabbiante e separativa. Forse tutta la poesia nasce da questo paradosso, e lo risolve, come parola energetica nata in uno strappo della ragione, eppure ragionante, come punto in cui la parola è più vicina alla natura, perché il silenzio che la poesia tiene in sé è natura».
È per il corpo, che scaturisce il suo sentimento per il teatro?
«È difficile parlare di un grande amore, di due grandi amori, perché tutta la mia esperienza teatrale nasce e cresce con Cesare Ronconi, regista, mio maestro e mio sposo. Mi fa piacere che questa sua domanda inizi dal corpo. Fin da principio i miei versi sono nati per essere detti da precisi corpi di attrici e di attori che erano lì ad aspettarli, corpi sempre molto vivi, molto espressivi. La particolare scrittura scenica di Cesare non parte dal testo. Il suo lavoro prende forma dentro un unico giro di forze che vede crescere tutto insieme, come unico organismo multiforme. Così mi viene chiesto di cominciare a scrivere più o meno quando cominciamo a provare, e questo fa un’enorme differenza. In teatro, ogni mio verso, appena scritto, viene provato nella sua potenza orale, viene misurata la sua gittata, se casca ai piedi dell’attore o invece può percorrere un lungo tragitto e depositarsi nel cuore degli astanti. In questa lunga scuola di oralità, di collaudo dell’incanto fonico del verso, sono chiamata da anni dal mio regista a tenere bassa la lingua, pur tenendo alto l’argomento, e in questo la lezione di Dante è una miniera inesauribile e rigenerante».
Cesare Ronconi. E Milo De Angelis. Quali altre fondamenta?
«Due maieuti formidabili. Milo apparve, portato da un amico comune, durante le prove del nostro terzo spettacolo. Stavamo cercando poche parole da scrivere su lunghi cartigli che venivano srotolati in scena. Erano le prime parole che entravano nel nostro teatro, fino ad allora pressoché silenzioso. Milo ci consegnò pochi versi di Paul Celan e suoi. Fu un capogiro. L’irrompere nelle nostre vite di una lingua stellare, una lingua che arrivava da un altro mondo, ci abbagliava e si rivelava. Da lì in poi ci sarebbero stati solo versi nel nostro teatro. Quello con Milo De Angelis fu per me l’incontro con un maestro che avrei a dir poco amato per tutta la vita. Con lui ideammo una Scuola di Poesia, insolita per quei tempi, e lì incontrai i maggiori poeti italiani — Luzi, Bigongiari, Conte, Fortini, Loi, Cucchi, Sicari e altri. Ricordo la giornata passata con Fortini che mi parlò ininterrottamente per ore, con un’energia verbale che, verso le due di notte quando ci salutammo, era ancora vispissima. Ma soprattutto l’incontro con Franco Loi che tuttora mi è amico e guida. È a Milo che dopo qualche anno consegnai i miei primi versi alla sua severità millimetrica, al suo tribunale potrei dire. E così nacque Antenata, in una collana da lui diretta presso Nicola Crocetti e con prefazione dello stesso Franco Loi».
E prima di questi incontri, prima di tutti.
«La lingua delle mie nonne, due vecchie con le quali ho trascorso la mia infanzia. I miei genitori lavoravano bestialmente ogni giorno dell’anno, quasi ogni ora del giorno e io sono cresciuta in strada e con queste due nonne di tipologia opposta, una orchessa e una fatina sdentata. Il loro era un italiano — lingua imposta da mia madre — autogenerato dal dialetto, e dunque una lingua sgangherata, piena di invenzioni linguistiche, a volte con qualche terzina dantesca a memoria. Una lingua solenne e buia che poi nei momenti ad alta intensità tornava dialetto, il nostro magnifico, spalancato e tenero dialetto romagnolo. Non ho mai più sentito una lingua così vicina alle potenze arcaiche della parola, così viva, sorprendente e a suo modo esatta, anche se allora me ne vergognavo. Ne ho nostalgia, come di una patria perduta».
Mi dica allora della nostra Romagna.
«La Romagna, con il suo dialetto, arriva nella mia scrittura ogni volta che voglio rompere la lingua. Nelle imprecazioni oppure nel racconto di eccessi del corpo, o anche con i suoi diminutivi e vezzeggiativi tenerissimi e buffi quando c’è un discorso all’infanzia o sull’infanzia. In questi casi mi carico addosso le mie nonne e scrivo con loro in questa lingua spalancata e ruvida nella quale uscire si dice sempre scapè, vino si dice è bé, il bere. E poi c’è Pascoli su di me, il Pascoli del ritratto a Maria, delle voci di tenebra azzurra o di Giugurta che a volte mi chiedo se l’ho letto o se l’ho visto tanto si incendia nella mia memoria».
E in prosa, che cosa legge?
«Domanda intima e inesauribile, come se lei mi chiedesse da chi sono stata baciata, sedotta e addirittura ingravidata. Preferisco dirle cosa ho letto in quarantena, in quello strano tempo sospeso che sembrava fatto apposta per leggere e rileggere. Il mio sconclusionato elenco comincia con l’amato Jonathan Safran Foer, con Molto forte, incredibilmente vicino che mi era a suo tempo scappato. Poi Francesco Guglieri, Leggere la terra e il cielo e qui mi sono avventurata in alcuni libri di cui l’autore parla con un fervore contagioso, tanto da indurti appunto a varie altre letture, per finire poi con Quammen che dopo un inizio entusiasmante, circa a metà libro è entrato in stallo e per ora è rimasto lì, fra i libri non portati a termine. Da tempo ormai frequento la letteratura scientifica con passione, ma ultimamente mi sono accorta che forse mi affliggono cosmogonie così deserte e gelide. Non posso stare in un universo senza miti e simboli di energie che pur essendo impastate con la mia vita la trascendono. Mi sono poi risollevata con tre autori cari — Carlo Ossola, Eugenio Borgna ed Emanuele Trevi — tre intelligenze raffinate e miti».
È vero del dizionario di italiano?
«Una delle mie letture preferite. Ne posseggo vari e a volte passo serate saltando da una parola all’altra. Ma non per cercare termini astrusi, piuttosto per precisare parole che conosco, vederle risplendere nella sintetica definizione del dizionario, o illuminate dal loro etimo, venire più vicine. Oppure annoto termini che tanto mi ricordano la lingua delle nonne, termini non comuni ma semplici e sorprendenti, al limite del gergale».
Liturgia di lettura. E liturgia di scrittura: come lavora, Mariangela Gualtieri?
«In genere studio e scrivo stando seduta a terra, su un grande tappeto, in una stanza di casa mia quasi vuota. L’inverno scorso, con il mio nipotino abbiamo scoperto non lontano da casa una quercia con un grosso ramo comodo e ben raggiungibile e alcune poesie le ho scritte sulla quercia. Poi, passato il freddo, sono arrivate le formiche e non è più stato possibile. A volte mi alzo la notte e scrivo, ma può accadere in ogni momento. La condizione che prediligo è essere sola, con la certezza che nessuno verrà a interrompermi. Scrivo a mano su grandi fogli, ma ho sempre con me un quaderno dello stesso tipo di carta, un quaderno che cucio io stessa con ago, filo e copertina rigida, e che ha una precisa misura, come un luogo in cui sono a mio agio. Sul quaderno annoto di tutto e quando sono in viaggio è su quello che scrivo i versi. Faccio quello che forse fa chiunque abbia un rapporto intenso con la parola: si è sempre all’erta con l’orecchio e si ha questo taccuino preziosissimo. Perderlo sarebbe la perdita di un tesoro».
Parole e questo nostro tempo presente: come cambia la sua poetica, a partire dalla lingua, se racconta l’oggi?
«Questo presente è il più assillante che io abbia vissuto. Vuole entrare in ogni verso che scrivo e mi inchioda alla contingenza, mi inchioda a Kronos. Ma la poesia, che pure deve appartenere al proprio tempo, è sempre anche anacronistica, inattuale, non si fa logorare dal dente di Kronos, vive al di là di quello, e deve attraversarlo incolume. Ho trovato difficoltà a contenere l’urgenza che sento di portare soccorso con i miei versi. Mi pare di stare in un mondo di affamati e assetati di parole e avverto l’impotenza di avere così poco da dare. Avverto una mancanza di parole guida, e ne sono affamata anch’io. Ora ho deposto ogni volontà di dire e mi sto riprendendo. Sono in un certo senso tornata a casa, cioè tornata alla mia poetica, ma sono stata fino a pochi giorni fa in una inquietudine che non provavo da tempo, in una stanchezza e deserto di me che mi ha spaventata e che per di più ritrovavo e ritrovo in tutte le persone che ho intorno. Mi è tornato in mente La società della stanchezza di Byung-Chul Han, quando in modo lapidario dice che un eccesso di prestazioni porta all’infarto dell’anima. Ma ora la mia animella è tornata. E con lei il grande risplendere e il grande tenebrare del mondo».
(Corriere della sera – La lettura, 19 luglio 2020)
di Silvia Veroli
[…] Hildegard von Bingen, […] santa e [adesso anche] dottora della Chiesa [nacque nel] 1098, […] decima figlia di famiglia agiata, nel Medioevo della prima crociata, un momento non buio come perlopiù ritenuto, ma al contrario luminoso, per chi poteva permetterselo, di ricerca culturale, vivido dei colori delle miniature e delle pietre, degli erbari e dei bestiari. E risuonante di musica. Tutte componenti che nella fervida mente di Hildegard […] hanno fatto sintesi e fatto di lei un diamante sfaccettato capace di gettare arcobaleni tra persone e saperi.
Un personaggio appunto poliedrico, ed eccezionalmente capace in tutti i suoi cimenti, ma in fondo, ci ricorda Diego Poli, docente di glottologia ed esperto di linguistica germanica per l’Università di Macerata, non così anomalo per l’epoca in quanto ad esperienza multidisciplinare e a dimestichezza col tema della visione. Perché Hildegard, prima compositrice d’Occidente e curatrice (i suoi rimedi a base di erbe e gemme affollano anche scaffali di deriva new age), è nota soprattutto come mistica. Immagini del cosmo, dell’anima, della trinità l’hanno visitata sin dalla prima infanzia trovandola sempre coi sensi all’erta. Non ha vissuto estasi ma disvelamenti della realtà esperiti da sveglia, come sogni fatti alla presenza della ragione ma ignorati fino all’età di quarantadue anni. Era malata a quel tempo, racconta, proprio per l’ostinazione di rintuzzare le elargizioni del suo dono, inferma a letto quando una voce le ha imposto «Scrivi, scrivi ciò che vedi e senti»; seguire quell’ordine l’ha salvata.
Se il comando venisse da Dio, dal quel daimon di cui parla James Hillman nel Codice dell’Anima o dal sacro fuoco che arde in chi trova nella realizzazione artistica la sua ragione d’essere, ognuno può valutarlo come vuole. Quello che è certo è che la Sibilla del Reno non si è limitata a scrivere ciò che visto ma lo ha rappresentato per mezzo di illustrazioni, lo ha raccontato, condiviso, cantato, usando in modo personalissimo il linguaggio e creando una propria lingua (oltre che una nuova musica). È la Lingua Ignota, fatta di 23 lettere, che dà il titolo allo spettacolo di danza e luci della coreografa Simona Lisi, direttrice artistica di Cinematica festival, che ha portato in scena una somma dell’opera di Hildegard von Bingen in una notte di luna piena dentro lo spettacolare spazio d’arte e perfomance che è la Mole Vanvitelliana di Ancona. Già Lazzaretto, luogo di quarantena, ha ospitato il primo festival ad essere eliminato per Covid dalla programmazione marchigiana di marzo e il primo a tornare in piedi dopo lo schiudersi dei divieti che hanno afflitto il mondo degli spettacoli dal vivo.
Il racconto di scrittura col corpo tracciato da Simona Lisi, padrona della danza e del canto, si è sviluppato insieme a quello delle musiche fondamentali di Paolo Bragaglia e delle luci di Pietro Cardarelli che ha proiettato sul corpo della danzatrice e sulle mura dietro di lei animazioni delle figure viste da Hildegard e le 23 lettere dell’alfabeto di sua invenzione. Una rielaborazione di quello latino, un glossario di 1011 lemmi ha spiegato il prof. Poli «fatto di sostantivi, pochi aggettivi, nessun verbo e accompagnati dal corrispettivo traducente in latino e talvolta in tedesco».
Alcuni dei nuovi vocaboli che «non sono resi corrotti dall’uso» si rapportano alle gerarchie celesti, anche se per la maggior parte si riferiscono alla natura e al corpo umano, seguendo un’organizzazione tassonomica ripresa dalle Etymologiae di Isidoro nel disporre le voci sui tre livelli di appartenenza: spirituale, umano e naturale. Alla creazione di parole nuove, Hildegard ha affiancato anche un uso effervescente del latino medievale, arricchito di contrazioni, giochi di parole, messaggi cifrati e rimandi alla numerologia: l’opera più famosa della mistica ha per titolo la parola di sua invenzione Scivias, conosci le strade, unione di due lemmi realizzata per ottenerne uno di sette significanti lettere. Nulla è casuale nei suoi messaggi, scritti o visivi che siano, e la chiave per decrittarli è quella luce di cui Hildegard parla continuamente: raggio divino all’origine di tutto. Non può che essere così avendo a che fare coi testi profetici di una religiosa medioevale. […]
La casa editrice Skira ha pubblicato lo scorso anno un prezioso lavoro di Sara Salvadori, musicista e educatrice, che ha realizzato una ricognizione perfetta dell’apparato iconografico a corredo del racconto mistico di Hildegard: Hildegard Von Bingen. Viaggio nelle immagini contiene 35 miniature con glossario sapienziale e con la spiegazione della loro simbologia. Vi sono riprodotti a grandezza naturale una Trinità dove Cristo è color zaffiro come un umanoide di Avatar, il firmamento, che Hildegard avrebbe voluto rappresentare con un globo, è un uovo, un Cammino dell’anima comprende la raffigurazione di un utero abitato e traslucido come un’ecografia, il processo della procreazione è accompagnato dalla rappresentazione simbolica dei genitali e del seme.
Sguardo al cielo ma coi piedi per terra, Hildegard ha parlato di piacere femminile senza giri di parole, si è messa in cammino a sessant’anni, seguendo il corso del Reno, a predicare e redarguire clero corrotto e imperatori protervi. Ha corrisposto con gente del calibro di Bernando da Chiaravalle e litigato con il Barbarossa, il nonno di Federico II, al cui matrimonio con la francese Beatrice di Borgogna si deve l’arrivo della cultura trobadorica in Germania dove non erano rare le trovatore e dove si colloca anche il canto d’amore di Hildegard; la religiosa tedesca ha riscattato Eva, parlato di viriditas come verdezza vitale che ha dentro vir ma anche virgo. Ha inteso la verginità non come integrità anatomica ma come interezza del dono e della specificità che ognuno riceve dalla nascita: il peccato non è la trasgressione del divieto ma lo spreco, il non osare seguire la propria strada. «O figlia corri» scrive «perché ti sono state date ali per volare… dunque vola velocemente per tutte queste avversità».
Hildegard si è ritrovata nella sua lunghissima vita (è morta a 83 anni) anche a vivere una situazione di reclusione e privazione artistica non lontana da quella che abbiamo conosciuto in lockdown.
Un anno prima di morire le venne imposto dai preti di Magonza il divieto di ricevere l’eucarestia e quello di cantare durante le celebrazioni liturgiche: questo per essersi rifiutata di disseppellire, come ordinatole, il corpo di un nobile colpevole di delitto, assolto e inumato nel cimitero del monastero di cui Hildegard era badessa. Salda nella sua pietas […], rivolge ai preti una lettera che è di fatto il suo manifesto a difesa alla musica. «L’anima è una sinfonia e lo spirito profetico ordina che Dio debba essere lodato dalla gioia dei cimbali e degli altri strumenti musicali che saggi e sapienti hanno inventato. Voi tutti o prelati dovete stare bene attenti prima di chiudere con un decreto la bocca ai cori che cantano lodi a Dio».
(il manifesto – ALIAS, 11 luglio 2020)
di Alice Pinotti
Filosofemme è un progetto in rete e sui social, nato da un gruppo di giovani filosofe che nutrono la loro passione col pensiero e la voce delle donne. Nei due articoli ripresi qui, Alice Pinotti dialoga idealmente con Ida Dominijanni su filosofia, inconscio, pratiche politiche femministe. Non anticipiamo altro, solo ricordiamo che il recente libro «La carta coperta» (Moretti e Vitali, Bergamo 2019) sta proprio sul crinale di filosofia, psicanalisi e femminismo.
La redazione
Parte I – 22 giugno 2020
Eccoci di nuovo qui a parlare del nuovo incontro di CONTRA/DIZIONI che ha avuto come protagonista la giornalista e filosofa Ida Dominijanni. Nello specifico, la discussione si è svolta attorno a due suoi testi: Soggetto dell’inconscio, inconscio della politica e Pratica dell’inconscio, inconscio della pratica (1).
Il primo testo nasce da una domanda molto antica: che cosa la politica apprende e cosa invece non riesce ad apprendere dalla psicoanalisi?
In che rapporto stanno questi due saperi che, pur condividendo per certi versi una storia di interessante parallelismo nella modernità, non si parlano?
C’è infatti una sordità della politica, sia come prassi che come filosofia politica (ma anche della filosofia in generale) alla questione molto perturbante della costituzione anche inconscia del soggetto. La politica, infatti, lavora da sempre sul presupposto di un soggetto interamente razionale che si associa razionalmente agli altri soggetti attraverso la costituzione di un patto sociale: in questo modo prende vita la Politica stessa, considerata però come il prodotto razionale e artificiale di un soggetto a sua volta razionale e dotato di volontà. Questa concezione del soggetto è però incompatibile con quella freudiana, che a quello razionale aggiunge l’elemento essenziale dell’inconscio, del desiderio, delle pulsioni: non sempre positive e non del tutto dominabili razionalmente.
Se negli anni ’70 c’era un’apertura del pensiero politico verso l’inconscio e la psicoanalisi, essa si è poi paradossalmente chiusa con l’avvento del capitalismo neoliberale.
È questo un paradosso, perché è proprio questo tipo di capitalismo ad essersi accorto della pluridimensionalità del soggetto, cominciando a sfruttarla a suo vantaggio e investendo non più solamente sul soggetto razionale, ma soprattutto su quello dell’inconscio: il sistema capitalistico, infatti, funzionafacendo leva sui desideri individuali e traducendoli in desideri consumistici – ovvero di un oggetto o dell’altro, ma sempre inteso come oggetto e mai come persona – per proporre infine una soddisfazione mercificata del desiderio. Lo si vede bene guardando al funzionamento dei social network: essi lavorano infatti facendo leva sull’elemento emozionale, istintuale e irriflessivo dei loro utenti, che si esprime attraverso la modalità del like o delle reazioni, ovvero emozioni molto primarie che spesso rispondono a istanze non consapevoli (inconsce o preconsce, ma quasi mai razionali).
Un primo interrogativo che lega dunque i due testi di Dominijanni è come il rapporto con la dimensione inconscia del soggetto sia stato spesso mancato dalla politica della trasformazione (quella che in teoria dovrebbe essere rappresentata dalla sinistra), e come esso sia stato invece utilizzato dalla parte opposta, che ben si adatta alle ideologie capitaliste contemporanee, e come allora questa dimensione inconscia della soggettività operi nella politica.
Per spiegare meglio che cosa ciò implichi nel concreto, Dominijanni propone una riflessione sull’attualità: a fronte della situazione inedita creatasi a causa di questa pandemia, sarebbe infatti interessante interrogarsi sul futuro (e sarebbe bene che lo facessero soprattutto le pratiche politiche) tenendo in considerazione le conseguenze che questa situazione ha causato sull’inconscio.
Questo significa, per esempio, indagare le paure e le fobie profonde che sono emerse da questa condizione di pericolo, che molto probabilmente avranno a che fare con l’impatto con la morte ridotta a un problema di smaltimento dei cadaveri, che ci ha privato della possibilità di avere un compianto pubblico e un’elaborazione adeguata del lutto. In che modo tutto ciò ha cambiato in profondità noi stessi? Secondo Dominijianni, questa è una dimensione che andrebbe indagata per capire come si potrebbe renderla produttiva politicamente; altrimenti essa diventerà sì produttiva, ma in modo “selvaggio”, causando atti sociali di rancore, rabbia e colpevolizzazione nei confronti dell’ordine costituito a cui in parte abbiamo già assistito in questi mesi.In altri termini, una ribellione nei confronti del potere.
A questo proposito è utile chiederci: qual è la vita psichica del potere e quali sono i dispositivi psicologici e inconsci attraverso i quali noi accettiamo il potere? Perché e in base a cosa accettiamo di essere governati oppure ci ribelliamo al potere?
Per rispondere bisogna prima di tutto uscire dal dualismoche contrappone un potere delle dinamiche sociali positivo, estroverso e riconoscibile, a una dimensione oscura e criptata dell’inconscio. Si tratta di capire attraverso quali dispositivi psichici e inconsci noi accettiamo o contestiamo la normatività sociale: questa è la forza dell’inconscio. Basti pensare al ruolo fondamentale che esso ha avuto nell’adesione ai totalitarismi, come ha fatto notare la psicoanalisi ma anche altre studiose, tra cui Hannah Arendt e Simone Weil: perché, in determinate circostanze storiche, gli esseri umani accettano di sottostare a un dominio che li mortifica, li reprime e li violenta? Attraverso quali dispositivi? E, parallelamente, perché a un certo punto ci si ribella?
Se vogliamo iniziare a ragionare e a lavorare sulla soggettività politica come soggettività fatta sia di ragione che di processi inconsci, possiamo cercare di capire in che modo l’inconscio è coinvolto nelle dinamiche sociali e politiche. Questo vuol dire, per esempio, cercare di capire come mai la normatività eterosessualeè stata ed è ancora dominante: cosa ce la fa accettare e cosa invece ci fa ribellare? Qual è la capacità di ribellione creativa che ha il nostro inconscio per far sì che noi ci ribelliamo alla norma? Anche di questo si occupano le pratiche femministe: di questo, però, parleremo meglio nel prossimo articolo.
Parte II – 23 giugno 2020
Nell’articolo di ieri abbiamo avuto modo di riflettere su come la dimensione inconscia della soggettività operi nella politica; ora, invece, ci interrogheremo sul rapporto tra l’inconscio e il pensiero femminista. Per farlo partiremo dunque dal secondo testo di Ida Dominijanni su cui si è concentrato l’incontro di CONTRA/DIZIONI, ovvero Pratica dell’inconscio, inconscio della pratica. Come quello precedente, anche questo testo parte dalla ricostruzione del nesso tra pratica politica e pratica psicoanalitica, nesso che il Femminismo (soprattutto quello italiano, ma non solo) ha sempre tenuto molto in considerazione.
Tuttavia, qualcosa è cambiato: anche nella trattazione femminista, infatti, risulta la tendenza a fare a meno degli interrogativi sull’inconscio. E invece è importante sottolineare che il Femminismo nasce proprio da una pratica di rapporto con esso.
Ci si domanda allora: considerando che oggi l’inconscio è messo al servizio del sistema capitalistico per la sua implementazione (per esempio attraverso la pubblicità) anziché per la creazione di strategie che lo rivoluzionino, il femminismo di ultima generazione è ancora interessato ad approfondire il percorso di scoperta e valorizzazione del desiderio e dell’inconscio?
Quello che si può fare (e che dovrebbero fare a maggior ragione le pratiche femministe) è provare a tenere sempre più conto dell’esistenza di una dimensione inconscia della soggettività che è sempre presente in maniera inconsapevole e che dunque può essere fonte di “sorprese”. Non si tratta per forza di sorprese negative e traumatiche, come si tende a pensare: l’inconscio infatti è anche il luogo della creatività, dell’insorgenza, del desiderio che spiazza rispetto alla volontà.
Dunque, dal momento che questa dimensione – invisibile ma costante – entra necessariamente a far parte dell’agire politico, bisognerebbe lasciarla libera di esprimersi e di agire per la trasformazione.
Una particolare tipologia di desiderio su cui il Femminismo ha posto l’accento è il desiderio erotico: tutto il movimento, infatti, è partito dal riconoscimento di un elemento erotico che c’era nello stare tra donne, nel senso di un desiderio lesbico, ma anche nel senso più lato del termine, ovvero il piacere di stare insieme tra donne, di dare valore all’altra, di non essere misurate dal desiderio maschile.
Tutti questi desideri sono stati la spinta iniziale della nascita del Femminismo e sono tutt’ora vie di contestazione dell’ordine dominante nonché segnali precisi che i nostri corpi ci mandano e che, in quanto tali, hanno un’enorme valenza politica.
Come aveva fatto per spiegare come l’inconscio influisca sull’agire politico, Dominijanni lega questi argomenti col nostro presente: che cosa succede all’erotismo in una situazione dominata dalla paura del contagio? Il distanziamento sociale, infatti, è distanziamento fisico, e questo può avere delle conseguenze enormi dal punto di vista della perdita del contatto con l’altro. Per questo motivo c’è un grande bisogno di parlarne in questo momento, soprattutto per i soggetti più giovani.
Ed è importante farlo partendo dal linguaggio, perché esso non è mai soltanto razionale: il linguaggio è ciò attraverso cui l’inconscio trapela, sempre, al di là della volontà del soggetto.
Questo lavoro comprende anche l’invenzione di nuovi significanti. Un esempio di significante inedito creato dal femminismo è, primo tra tutti, differenza sessuale: significante non biologico ma discorsivo che voleva significare il desiderio della libertà femminile. La politica, infatti, è sempre anche produzione di significanti inediti (la lotta di classe di Marx ne è un esempio): la politica è politica del linguaggio. La difficoltà, di nuovo, è che formare un significante nuovo, efficace, performativo e mobilitante, non è mai un processo solamente razionale, ma deve emergere da più elementi, alcuni dei quali inconsci.
Anche il desiderio femminile che il Femminismo della seconda ondata ha con la sua ribellione riportato a galla era desideriorepresso dal Patriarcato e dunque inespresso.
Proprio per questo motivo, Dominijanni suggerisce che anche il Femminismo Intersezionale, oltre ad occuparsi della pluralizzazionedei soggetti e della riflessione sull’intersezionalità del soggetto politico, dovrebbe andare più in profondità nel processo di decostruzione della struttura ontologica del soggetto.
E dovrebbe farlo proprio tenendo presente anche la dimensione inconscia del soggetto politico: struttura che ha spesso a che fare con la differenza sessuale intesa come struttura dell’immaginario e che non si può eliminare con la sola liberazione del genere, poiché essa rimane come struttura di pensabilità.
Bisogna infatti tenere in conto che, nei processi di soggettivazione politica (ovvero i processi di adesione o ribellione al potere), il punto non è solo il pluralismo dei soggetti e la loro intersezionalità, ma anche la dimensione dell’inconscio. Altrimenti si rischia di dar vita a un Femminismo solamente sociale che però ignora completamente tutta quella parte della soggettivazione che ha a che fare con i processi psichici non razionali. E anch’io, come Ida Dominijanni, mi sento di dire che sarebbe una grave perdita oltre che un’occasione sprecata per comprendere sempre più a fondo ciò che riguarda la soggettività e la sua relazione col potere.
(1) Per chi fosse interessato, entrambi i testi sono disponibili in modalità lettura sul cloud di CONTRA/DIZIONI (potete trovare il link sulla loro pagina Facebook).
(filosofemme.it, 22 e 23 giugno 2020)
di Laura Minguzzi
Un libro sulla gratitudine, un racconto sulla riconoscenza alla madre e al padre, una restituzione simbolica di un debito: la nascita in primis, la crescita e gli insegnamenti. Belli e brutti, il negativo dopo il positivo. Uno spostamento interiore dell’autrice: non colpevolizzare la madre, non idealizzarla, non è un’icona, non va mitizzata la figura materna ma riscattata, nel bene e nel male. Questo è l’essenziale del racconto. Un passo obbligato per accedere all’ordine simbolico della madre e all’accettazione dell’autorità femminile nel mondo reale e farla finita con le recriminazioni e la richiesta illimitata di riconoscimenti, smisurata, un pozzo senza fondo… Trovo in quest’approccio un taglio che me lo avvicina alla pratica della storia vivente. Scegliendo la forma del memoir l’autrice riattraversa i suoi ricordi, le sue emozioni e con tocco leggero e accattivante anche il nodo della relazione con la madre reale. Riscattandola ricomincia a vederne i lati positivi, la sua concretezza materica, la pone nel giusto luogo, quello della riconoscenza, della gratitudine malgré tout.
Il tempo è l’adolescenza negli anni sessanta del secolo scorso. Due sorelle, una famiglia borghese ma con radici contadine. «Tra le cose buone, mia madre mi ha insegnato a cucinare. La preparazione del tortino di finocchi – avrò avuto dodici anni – era interamente a mio carico. […] Cucinando imparavo la misura che serve per tutto il resto. […] È tutta questione di togliere e mettere come quando si scrive e si dipinge.» Fin dalla prima pagina ho sentito delle forti assonanze con una scrittrice che io ho amato tantissimo e fatto conoscere alle mie allieve quando insegnavo francese e parlo di Colette. In particolare un romanzo, Le Blé en herbe (Il grano in erba). Al centro un’adolescente, la natura di una femminilità in erba, un’età acerba ma colma di energia e di promesse. Lo stile di scrittura me la fa ricordare: lunghi elenchi di nomi di fiori e di alberi, frutto degli insegnamenti materni, amore per la natura, per i dettagli della preparazione del cibo. L’incipit è una ricetta della madre e un abbozzo del desiderio di autonomia della figlia. Il padre le ha «insegnato a condire l’insalata prima il sale, poi l’aceto che lo scioglie e infine con l’olio, non viceversa»…
Francesca Avanzini, Quel che di buono, ed. Consulta Librieprogetti, 2020
(www.libreriadelledonne.it, 19 giugno 2020)
di Laura Piccinini
Jia Tolentino è bionda e filippina, cioè asian-american figlia di immigrati a Houston, ha trentun anni, è la più giovane reporter voluta e assunta nello staff dell’autorevole New Yorker, già segnalata dalle liste under 30 dei magazine preposti alla Forbes. Ha scritto un libro subito best-seller, definito “fondamentale guida al presente”. Seguitissima sui social in qualità di “influencer culturale”. Un nuovo tipo di star, la versione intellettuale dei dispensatori di marchi e stili di vita con relativi prodotti e cose da consumare. A differenza di loro, lei non vuole venderti niente, anzi, semmai invita a “riflettere” bene prima di credere a tutto quello che vedi, e il termine non è casuale. […]
Una generazione allo specchio, recita il titolo del suo volume, Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo (in uscita qui il 29 giugno per NR Edizioni). E il posto in cui si vede meglio come funziona lo scherzo dello specchio, l’abbaglio, spiega lei, «sono i social media, dove spesso gli individui pensano di star guardando il mondo, ma vedono solo se stessi riflessi, le proiezioni che hanno e quelle che gli rimanda la rete, che con i loro “data” li insegue e sa cosa vogliono vedere». Il trucco dello specchio è diventata una specie di formula, come un algoritmo che sta dietro a tutto quello che succede oggi. «Così ci ritroviamo una giovane popolazione fondata sulla truffa come etica generazionale. In un capitolo elenca le maggiori 7 scams, truffe, e loro derivate, legate alle promesse della new economy, dagli organizzatori di festival fantasma ai fondatori seriali di compagnie che falliscono (loro le chiudono e reinvestono, e gli ex dipendenti imparino come si diventa leader) […]».
Quando l’ha capito? La prima volta che ha sperimentato lo scherzo dello specchio è stato su se stessa, piccolissima.
«Me l’ha insegnato l’essere filippina. La stessa diversità può punirti o premiarti. Tu ti vedi uguale, un altro ti vede diversa. Da asian-american vieni “graziata” rispetto agli afroamericani perché assimilata ai bianchi, ritorni diversa quando nei giochi da ragazzini sei costretta a fare il Power Ranger giallo come il tuo “muso”, e non puoi identificarti nella bianca Baby Spice o nelle eroine dei romanzi, per fare gli esempi più innocui. Ma se cambi “narrazione” e contesto puoi essere, come me, estremamente fortunata. Perché improvvisamente tutte le cose che potevano essere viste come ostacoli – non avere avuto i soldi per uno stage a New York, niente college esclusivi tipo Ivy League – sono stati punti di forza. Credo che la gente si sia rotta di vedere in tv o leggere cose fatte e scritte da bianchi liberal della classe medio-alta. Ma quel piccolo choc, o grande choc da piccola, ha profondamente influenzato il mio modo di giudicare altri sistemi, il capitalismo truccato da mito della condivisione, il femminismo inglobato dal marketing o usato come marchio e alibi, come le girlboss, che se volete vi svelano la formula a colpi di conferenze a pagamento. Comincia in un modo e finisce in un altro. Illusione, disillusione».
Cominciamo dalle tre I, Illusioni, Internet, Identità. […] Identità. Cos’è che ce la dà oggi, da spiegare un giorno a sua figlia/suo figlio?
«[…] Quello che direi a un figlio è che la rete rischia di farti dimenticare che gran parte delle esperienze che ci fanno sentire individui completi – il sesso, l’amore, ballare a un concerto o perfino pregare – sono quelle in cui le identità sembrano dissolversi e confondersi. L’identità non serve a sentirsi vivi, contano le relazioni, i corpi».
Corpi, parliamone. Pensavamo di essere quasi immortali.
«E adesso abbiamo scoperto di no, che non siamo per niente virtuali. In quarantena e maternità ho letto il finale della trilogia di Hilary Mantel che impazza negli Usa, The mirror and the light [“Lo specchio e la luce”, ndr]. […] E c’è qualcosa di confortante nello scoprire che le epidemie sono parte della storia umana e se siamo qui è perché le abbiamo superate. […]»
Metterci il corpo, impegnarsi attivamente, un po’ come si dice da noi “metterci la faccia”, lei si è arruolata nei Peace Corps (l’organizzazione di volontariato internazionale).
«Già, il lusso di entrare in un negozio dopo il lockdown mi ha ricordato quell’anno in Kirghizistan dove negozi non ce n’erano, né acqua corrente, tornavi nella tua stanza sapendo che fuori continuava il genocidio. Fui arrestata. Avevo vent’anni e il virus che colpiva in patria molte di noi erano i disturbi alimentari, anoressia e bulimia. Arrivata là, non c’era tempo di pensare al corpo, se non a mantenerlo forte per non ammalarsi di cose tipo la tubercolosi, e darsi da fare per i corpi degli altri».
[…]
E adesso, i social network come li stiamo usando?
«Uno degli ostacoli psicologici della rete e che non c’è contesto, ci vedi scorrere roba idiota e ironia quotidiana e, come nei giorni appena vissuti, conteggi mortuari e tombe collettive nei parchi. Senza avere il tempo di cambiare stato d’animo. È quello che ci fa sentire sopraffatti. Ma sui social in quei giorni è circolata anche una dolcezza inaspettata, e i valori che Internet aveva esasperato sembravano offensivi e fuori luogo, facendo capire che mandare foto di vite pazzesche è un po’ da sociopatici. Abbiamo imparato a tenere più conto del fondale di fatalità che abbiamo dietro. Questa del coronavirus è una crisi completamente nuova, per la prima volta la nostra salute dipende da quella di cittadini più fragili e chissà che non faccia ripensare ad altre minacce, come il cambiamento climatico, non più come a qualcosa di lontano e separabile da noi, siamo interconnessi. […] Per questo seguo le vostre concittadine della Libreria delle donne di Milano, avevo letto il loro Sexual Difference [originale it. Non credere di avere dei diritti, ed. Rosenberg & Sellier 1987, ndr], quando è uscito il mio libro mi hanno mandato una calorosissima e-mail dicendomi che erano contente di sentire un legame tra generazioni».
[…]
(D – la Repubblica, 13 giugno 2020)
di Franca Fortunato
Lupini violetti dietro il filo spinato – Artiste e poete a Ravensbrück è l’ultimo libro della critica d’arte Katia Ricci, la cui pubblicazione ha coinciso con questo tempo di pandemia. Il titolo riprende una frase di una delle lettere che Etty Hillesum, morta ad Auschwitz, scrisse per esprimere la bellezza che lei riusciva a cogliere anche in un luogo di grandi sofferenze come il campo di smistamento di Westerbork. Capacità di cogliere la bellezza in situazioni estreme è quello che mostra di avere anche l’autrice nell’avvicinarsi e nel narrare le storie delle donne rinchiuse nel campo di concentramento per sole donne di Ravensbrück. Come hanno fatto a sopravvivere agli orrori del campo? Quali strategie si sono inventate? Quali rapporti, quali relazioni le hanno sostenute? Che cosa spinge l’autrice ad interessarsi di loro? Sono domande di fondo che accompagnano chi scrive e chi legge e che fanno del libro, come i precedenti dell’autrice, un testo di ricerca e di interrogazione di sé, della propria esperienza di donna in relazione all’altra, alle altre, pur riconoscendone l’incommensurabilità esperienziale. «Scrivere sulle donne del campo di concentramento di Ravensbrück ha significato per me non solo e non tanto fare un viaggio nell’orrore e provare sentimenti di pietà, di dolore e di sdegno – condivisi da chi legge – ma soprattutto è stato un viaggio dentro di me. Infatti la domanda più corrente che mi ponevo era perché mi interessasse tanto. Mi sono riaffiorate immagini della mia infanzia e giovinezza, che avevo rimosso, ma che mi sembrava non avessero la minima attinenza con la storia di cui mi occupavo. Poi ho capito che in qualche modo io e le donne di Ravensbrück avevamo qualcosa in comune: l’essere nate e essere state sottoposte, in una misura incomparabilmente diversa, alla stessa cultura patriarcale, che per loro si è tramutata in un’estrema violenza», violenza che riconduce l’autrice a sua madre, alla violenza del padre a cui lei bambina ha assistito. Da qui il desiderio intimo e profondo che la spinge verso le donne del campo per riscattare sé stessa, la madre, loro e tutte le donne che subiscono la violenza maschile, da un sistema patriarcale che le vuole vittime. Nell’orrore del campo, come nella vita della madre, pur nell’incomparabile diversità, lei cerca e trova un’immagine altra di donna/e, trova grandezza, forza, coraggio, creatività, umanità, senso di sé, guadagnate attraverso il primato delle relazioni, la solidarietà, l’amicizia tra donne, che nel campo “davano dignità”.
Un racconto diverso da quello che comunemente accompagna la narrazione della deportazione e dello sterminio che, se pur accomuna nella sofferenza donne e uomini, cancella la differenza femminile che l’autrice, invece, indaga e narra attraverso le testimonianze delle sopravvissute, delle poesie e dei disegni che hanno prodotto. Tra il 1939 e il ’45 scrissero ben 1200 poesie di cui alcune riportate nel libro. Scrivevano inventandosi vari stratagemmi e aiutandosi l’una con l’altra. Scrivevano per piacere, per lasciare un ricordo di sé, per testimoniare un avvenimento; scrivevano “perché scrivere era salvarsi” come il raccontarsi. Si raccontavano e si scambiavano le ricette di cucina e quasi le recitavano ad alta voce a turno, traendone un grande conforto. La sera, distese nei loro giacigli, o durante il lavoro nelle cucine a pelare patate, si raccontavano reciprocamente storie, trame di libri o opere teatrali, come appare nei disegni realizzati dalle artiste del campo. Frammenti di vita quotidiana, veri documenti e testimonianze di quanto succedeva nel campo, sono quei disegni realizzati con carte e mozziconi di matite sottratte dalle deportate che lavoravano negli uffici. Il libro ne contiene 42 che l’autrice legge e interpreta. La maggior parte dei disegni furono distrutti dalle SS che non volevano testimoni. Ma per fortuna una parte è rimasta e alcune sopravvissute, dopo la liberazione, sono riuscite a rifare molti di quelli andati perduti.
Un libro originale, reso unico dallo sguardo che l’attraversa, che vede e fa vedere, nonostante l’orrore che non viene taciuto, la bellezza che teneva insieme la vita di quelle donne, la vitalità, la speranza, l’amore, l’umanità che fecero di loro delle sopravvissute non solo e non tanto nei corpi quanto nelle anime. Un libro da leggere e fare conoscere, in particolare alle nuove generazioni di donne e uomini.
Katia Ricci, Lupini violetti dietro il filo spinato – Artiste e poete a Ravensbrück, Luciana Tufani editrice, pagg. 105, €14,00.
(Il Quotidiano del Sud, 6 giugno 2020)
di Luisa Muraro
Con Francesco Pacifico intendo l’autore di Io e Clarissa Dalloway, sottotitolo: Nuova educazione sentimentale per ragazzi, edito da Marsilio di Padova, nell’anno (o: nel primo anno) della pandemia da covid 19, cioè nel 2020. Altra precisazione: i “tutti” del titolo sono un maschile plurale che vuol dire tutti al maschile, non comprende donne. Ho ancora in mente la protesta di quello studente che mi disse: perché noi ci chiami “i maschi” e loro invece sono le ragazze, non le chiami “le femmine”? Colpa della grammatica che si è fatta impressionare dal maschile totalizzante, gli ho risposto, e me lo impone sempre al plurale, anche quando il maschio è uno in uno sterminio di femmine. Siamo già in argomento.
C’è una minoranza di uomini che scrivono usando il maschile al maschile, cioè tenendo presente il fatto della (loro) differenza sessuale. Di alcuni sono diventata amica. E nulla di quello che dico deve risuonare come una critica nei loro confronti. Ma, allora, perché tra questi Francesco Pacifico è quello che mi è piaciuto di più? Perché lo fa meglio di tutti. Lo sa fare, semplicemente. Detto nel gergo femminista: è uno che sa fare autocoscienza. Non: lo sa fare come una femminista! Ma come non avevo mai sentito un uomo farlo con altrettanta bravura. Sa mettere in parole la consapevolezza di essere quello che è, un uomo di sesso maschile, e lo fa senza caricature, senza trascenderla, senza dogmatizzare, senza aggirare la cosa con teorie negazioniste, senza denigrare né denigrarsi.
Come ci riesce, mi sono chiesta.
La risposta è relativamente semplice, non dico facile. Ci riesce perché è uno scrittore e ha applicato il suo saper-fare alla questione di dire “io sono un uomo” senza ingarbugliarsi. L’ha risolta? No, ma ci ha dato un ottimo esempio su un tema importante, quello della formazione sentimentale. Io penso, anzi, che una soluzione una volta per tutte non ci sia, penso che le difficoltà (per non dire le contraddizioni) di essere un essere umano in due versioni, maschile e femminile, si ripropongono fatalmente. Mi spiego. La vita, per riprodursi, a un certo punto ha inventato la sessuazione e non ha cambiato idea, per cui noi siamo una sola specie in due versioni, entrambe indispensabili alla sua conservazione e riproduzione, ma non ugualmente indispensabili, due versioni irrimediabilmente asimmetriche.
Come si affronta, senza ingarbugliarsi, questo nodo che non si scioglie? Come fa in pratica l’autore di Io e Clarissa Dalloway?
Lo ha fatto così come ogni scrittrice e scrittore sa che si fa, anzi così come la lingua materna prima e poi quelle che impariamo, se e quando ci diventano amiche, ci insegnano che si può fare, e cioè inventando delle mediazioni. In ciò consiste il saper scrivere. E, in generale, il saper-fare proprio della cultura. La cultura è un insieme di mediazioni, che gli umani inventano, trasmettono, cambiano, rifiutano, accettano, impongono… Anche il presunto primato del maschile sul femminile si è imposto come una mediazione che, bene o male, più male che bene, ha funzionato per secoli. E che, si tende a pensare oggi, è stato il modello di ogni ingiusto ordine gerarchico tra esseri umani, divenuto non più accettabile e questo anche per merito del femminismo. Esemplare per la sua estrema semplicità trovo, nelle rivolte provocate negli Usa dall’uccisione di George Floyd, il gesto di una manifestante afroamericana che abbraccia un poliziotto che si è inginocchiato… mediazione effimera? Forse, ma chi lo sa?
La mediazione escogitata da Francesco Pacifico è riassunta nel titolo del suo saggio sull’educazione sentimentale dei maschi giovani. Consiste nel confronto tra due personaggi creati da due grandi della scrittura letteraria, Virginia Woolf e Stendhal… Mi sono interrotta perché ho sentito affiorare l’idiozia di voler riassumere quello che si può cogliere solo con la lettura, alla quale il mio commento vi invita.
Scoprirete così il segreto dell’eccellenza che attribuisco a questo autore e cioè che, prima di vedere nella differenza sessuale un fatto oggettivo, si tratta di vederci e farne una verità soggettiva, che illumina la scrittura. O, detto meno misticamente, trovare il passaggio dal dato anatomico, quello che ci accomuna con il mondo animale, all’ordine simbolico, quello del nostro essere animali parlanti, cioè capaci di dire il vero o di ignorarlo o di falsificarlo…
Se mi chiedete: che ne è della transessualità? Forse che le trans non parlano? Forse che non sanno fare il passaggio? Certamente che lo sanno fare, lo fanno senza piegarsi alla deduzione del loro essere uomini dal dato anatomico. Neanch’io mi sono piegata a una simile deduzione (ma ho accettato il dato) e, quando sono interrogata sul cosiddetto pensiero della differenza, preciso che è il pensiero del senso libero della differenza sessuale. “Io sono una donna” lo dico liberamente. La sessuazione non è libera ma il suo significato umano lo è o può diventarlo. Forse serve tener presente che la differenza sessuale non è una legge di natura come la legge di gravità, è un’invenzione della vita nella sua evoluzione, alla quale i viventi umani collaborano per il meglio o per il peggio. Cioè liberamente.
(www.libreriadelledonne.it, 5 giugno 2020)
Jolanda Guardi, che insegna Letteratura araba all’Università di Torino, e la giovane regista teatrale Silvia Rigon introducono a una serie di conversazioni su Le 1001 notte,mostrandone l’autorialità femminile, ipotesi più volte sostenuta anche in campo accademico, non solo perché protagonista e narratrice è Sherazade in relazione con la sorella Dunyazad, ma anche per i modi di agire delle donne in questo capolavoro della letteratura mondiale. Ci parlano anche del progetto teatrale di Lidelab che ha già all’attivo tre spettacoli ispirati al libro e capaci di aprirci prospettive sul presente. Vedi il video di introduzione n. 0
La prima conversazione è dedicata all’eros. Attraverso un intenso dialogo, Jolanda Guardi e Silvia Rigon ci fanno scoprire la forza dell’eros femminile ne Le 1001 notte. E raccontano di uno spettacolo e di un libro ad esso connesso, dove Sherazade diventa maestra di libertà anche per noi oggi, mostrando le sue fonti sulla scienza dell’erotismo, come il passaggio di sapere tra donne anziane e giovani, di cui con incontri intergenerazionali lo scorso anno si è realizzata una possibilità. Un distillato del sottile profumo del piacere che coinvolge tutti i sensi. Vedi il video n. 1.
(www.libreriadelledonne.it, 23 maggio 2020)
segnalazione di Luciana Tavernini
L’importante convegno Mater Iuris, tenutosi alla Facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali di Milano il 29 novembre 2018, ha visto confrontarsi studiose di diverse università (oltre a Milano, Cagliari, Roma, Pisa, Trieste, Trento, Parigi) e di varie discipline, dal diritto alla sociologia, dalla linguistica all’economia e alla filosofia, per ragionare su come “fingere la simmetria dei sessi per applicare la parità al diritto di famiglia è un’ingiustizia che consolida la prevaricazione del sesso e del genere maschili sul sesso e genere femminili”. La procreazione non è simmetrica e dunque anche le norme che la riguardano non possono essere simmetriche. “Sotto la rivisitazione paritaria e neutra, che ha interessato nel corso degli anni il diritto di famiglia, sembra essere all’opera ancora, o nuovamente, un diritto prevalente del padre.” Si tratta di osservare che “anche le relazioni familiari di cura nella maggior parte delle famiglie sono squilibrate a sfavore delle donne, che in famiglia svolgono la maggior parte del lavoro – domestico e di cura. Ma la simmetria è pretesa e applicata nel diritto vigente e in molte proposte di riforma”.
Il convegno ha offerto la possibilità di ripensare, alla luce del patrimonio del pensiero femminista nel diritto, questa pretesa e questo assetto.
Ora è possibile leggere online o scaricare, dal sito di Daniela Danna, il volume con gli interventi di diverse partecipanti, Federica Bastiani, Francesca Coppola, Daniela Danna, Sofie della Vanth, Mariachiara Feresin, Barbara Katz Rothman, Cristina Luzzi, Patrizia Romito, M. Dolores Santos Fernandez, che con lo sguardo della differenza sessuale si sono confrontate su temi attuali come: asimmetria giuridica tra i sessi; procreazione; affido condiviso; bigenitorialità; maternità surrogata; conciliazione lavoro e famiglia; violenza contro le donne; amore; matriarcato; aborto; separazioni; etica delle relazioni.
Mater Iuris. Uscire dalla simmetria giuridica dei sessi nella procreazione (Milano: Editrice XXD 2020). In libera distribuzione a questo link
http://www.danieladanna.it/wordpress/wp-content/uploads/2020/05/Mater-Iuris.pdf
(www.libreriadelledonne.it, 14 maggio 2020)
Recensione di Doranna Lupi
Marcel Gauchet, importante filosofo francese, nel suo libro La fine del dominio maschile riesce a mettere a fuoco, con chiarezza e lucidità, alcuni nodi cruciali di una realtà che sta cambiando velocemente, di un passaggio di civiltà a cui tutte e tutti stiamo assistendo più o meno consapevolmente. Come già anticipava nel 1996 il Sottosopra Rosso della Libreria delle donne di Milano, il patriarcato è finito ed è una cosa talmente grande che, per essere vista, domanda l’impegno di una presa di coscienza. Più di vent’anni dopo Gauchet, osservando questo processo in atto, sostiene che ciò a cui stiamo assistendo è talmente enorme da suscitare incredulità, ma l’apparente indifferenza che provoca nasconde un sollievo generale, perché il dominio maschile rappresentava una costrizione per tutti: donne e uomini. Si trattava di un assetto sociale plurimillenario profondamente radicato e ora, con il suo crollo, abbiamo la straordinaria opportunità di esplorare, penetrare e comprendere le ragioni di fondo che lo hanno determinato.
Dove, nella notte dei tempi, è prevalso il dominio maschile gli uomini si sono dotati di dispositivi le cui chiavi di volta erano il potere dello spirito e il potere della forza, ossia la religione e la guerra. Alle donne, quindi, il dono della vita, la cui appropriazione sociale da parte maschile era all’origine della subordinazione femminile; agli uomini la vittoria sulla morte attraverso la guida religiosa e politica della società, dettando leggi, ispirando codici e guidando le condotte. Un sistema di ruoli in cui era l’anatomia a segnare i destini e a regolare la convivenza. La cellula base era la famiglia, depositaria delle virtù di autorità e obbedienza, che consentivano di mantenere o ricostruire un ordine sociale fondato sulla tradizione.
La modernità occidentale ha rielaborato le figure tradizionali del maschile soprattutto a partire dal XVIII secolo attraverso la dimensione del “pubblico”. Si diffonde così lo spirito della cosa pubblica e dell’interesse generale dei cittadini, liberi individui di diritto. Tutto l’insieme dei rapporti sociali viene rimodellato su di una tacita dissociazione tra ciò che riguarda tutti e ciò che riguarda soltanto se stessi, tra il pubblico e il privato, separando la sfera sociale politica ed economica dalla sfera domestica. L’autorità del padre, che comandava un gruppo, una stirpe, un clan, si restringe così al nucleo familiare. In questa prima fase, pur assumendo teoricamente l’uguaglianza degli esseri umani e attribuendo alle donne una individualità giuridica, nella pratica è stato negato loro l’accesso all’universo sociale pubblico, monopolizzato dagli uomini, confinandole nel privato domestico.
Negli anni Settanta del Novecento una svolta globale ha dissolto ciò che ancora era rimasto del vecchio ordine. Un vero e proprio terremoto antropologico, che ha cambiato completamente le condizioni della riproduzione biologica e della riproduzione culturale, imponendo, molto velocemente, un cambiamento di norme e valori. L’ordine delle priorità si è rovesciato: la famiglia è stata affidata alla libera disponibilità dei suoi membri, perdendo la sua portata collettiva. Nel nuovo ordine esistono solo più individui di diritto che dispongono liberamente della propria sessualità e della facoltà di riprodursi. Diventare genitori non è più un atto che coinvolge l’intera società, bensì una scelta che riguarda solo i genitori, comportando anche problemi di natalità, poiché il figlio del desiderio è più raro di quello del caso. Uno degli indizi più chiari di questa rottura è stato proprio il rapido liquefarsi della figura del padre La deistituzionalizzazione della famiglia ha svuotato di senso la figura paterna. Non è più necessario che il padre sia un capo e che il capo sia un padre. L’autorità si è depatriarcalizzata e il dominio maschile ha perso il suo più solido punto di appoggio.
Secondo l’autore, però, il colpo di grazia non è arrivato dall’importantissima e necessaria lotta per l’uguaglianza delle donne, bensì dalla presa in carico, da parte del politico, del lavoro simbolico istituente della società stessa. Nell’ordine precedente la religione e la politica ponevano la differenza dei sessi nel cuore dell’essere-in-società e della sua perpetuazione. Ora, nel nuovo simbolico, esistono solo individui di diritto, imparzialmente e oggettivamente uguali e neutri. La società degli individui vive tuttavia una profonda dissociazione tra ciò che i suoi membri devono condividere in quanto uguali, con identici diritti, e ciò che riguarda solo loro, in virtù della loro libertà di singoli, del loro sentire soggettivo secondo l’emozione, l’empatia per la specificità di ognuno, la promozione dell’individualità privata. La differenza non è più tra i sessi, ma negli individui stessi. Non si sceglie il proprio sesso, ma si ha la libertà di scegliere in che rapporto stare con questa dimensione del proprio essere. Per questo, sostiene Gauchet, non ha senso pretendere un superamento statutario della parzialità sessuata tanto quanto non ne ha cristallizzarsi in essa. Con ogni evidenza, comunque, l’emancipazione femminile è stata il cuore dell’avvento di una società degli individui, la sua massima espressione, e la detronizzazione pacifica del maschio ha portato anche a un’emancipazione maschile, poiché il dominio e i privilegi avevano un prezzo molto alto. I vincoli della virilità e gli obblighi che accompagnavano il monopolio dell’esistenza pubblica erano pesanti.
Tanto che la gran parte degli interessati ha accolto la fine del proprio regno senza troppo dispiacere: mai dei dominanti si sono accomodati con tanta facilità all’abbandono delle loro prerogative. La verità è che questa fine ha rappresentato la liberazione da un fardello anche per loro, e infatti rarissime sono le nostalgie per l’antico regime. Questa rivoluzione ha di bello che anche i presunti perdenti ci hanno guadagnato (p. 49).
Senza dubbio la fine del dominio maschile ha sconvolto le relazioni tra i sessi e siamo ancora lontani dal raggiungimento di un nuovo equilibrio. Ora che procreare e creare una famiglia non rispondono più a imperativi sociali e a precisi codici di comportamento, gli appartenenti ai due sessi possono manifestare attitudini e prospettive esistenziali potenzialmente divergenti. Infatti è sempre più evidente una discordanza dei desideri tra uomini e donne. Nell’universo maschile l’autore mette in evidenza la disaffezione scolastica riscontrata nei giovani uomini e una controcultura dell’immaturità, conseguenze naturali della perdita nella società di responsabilità paterna. Un altro dei segni distintivi è la pornografia, che evidenzia un rapporto con la sessualità per nulla interessato alle reali aspettative femminili, nel segno della dissociazione e del rifiuto di qualsiasi legame con la procreazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, le donne non si riconoscono in questa strumentalizzazione erotica. Uno dei principali motivi di separazione delle coppie resta però la discordanza dei desideri rispetto alla procreazione. Mentre un numero significativo di uomini vivono la paternità con un senso di rifiuto o di rassegnazione, la gran parte delle donne aspira a conciliare maternità desiderata e vita professionale. Inoltre, a fronte del rifiuto maschile, molte donne decidono di fare famiglia a prescindere dal padre.
Oggi, con ogni evidenza, esiste e coesiste di tutto, e le situazioni descritte da Gauchet sono accompagnate da controtendenze molto significative. Accanto al rifiuto di una funzione paterna senza più un contenuto preciso emerge, infatti, lo sforzo di reinventare la paternità elaborando nuovi significati, dotandola di un’identità adatta alle circostanze. All’opposto della discordanza e dell’incomprensione tra i sessi è all’opera la ricerca di una rinnovata alleanza tra uomini e donne: Il disamore reiterato si accompagna a eroiche esplorazioni amorose che spingono gli esseri ad affrontare insieme una verità su se stessi che le convenzioni avevano sempre imposto di tenere nascosta (p. 58).
In questa diversità di linee di condotta però giocano molti fattori: il diverso livello di educazione, gli strumenti e l’inventiva che abbiamo a disposizione per giocarci come individui, per affrontare la complessità delle scelte e la vastità delle loro conseguenze. Purtroppo la libertà che abbiamo guadagnato si accompagna ad una disuguaglianza nascosta ma vertiginosa di mezzi e questo è un fattore che pesa e peserà molto per quanto riguarda gli esiti di questa trasformazione.
Per concludere, il filosofo francese entra nel merito delle ripercussioni simboliche provocate dalla rivoluzione tranquilla dell’uguaglianza,che ha sconvolto la figura dell’autorità paterna. Il principio di uguaglianza comporta un resto irriducibile: se le donne possono fare tutto quello che fanno gli uomini, non è la stessa cosa per gli uomini, che non possono procreare. Le donne hanno acquisito con l’uguaglianza lo status di individue di diritto e attrici sociali, in più mantengono la differenza costitutiva del potere di partorire. Il ruolo materno diventa così la figura della responsabilità per eccellenza, di esemplarità e quindi di autorità che guida senza imporsi. Non un dominio femminile né un regime matriarcale, bensì, una volta garantita l’uguaglianza tra i sessi, la nuova autorità materna ispira il modo in cui l’uguaglianza verrà applicata, lo stile dell’azione pubblica, la trama di relazioni che si stabiliranno. Alla freddezza astratta e all’impersonalità istituzionale predisposte dalla società degli individui di diritto, i valori materni aggiungono l’attenzione alla singolarità, l’empatia e la fermezza benevola per accompagnare gli individui verso il loro bene. Definiscono così il modello della buona autorità aperto a tutti, poiché anche gli uomini possono farvi riferimento, contrariamente al modello di autorità paterna che restava esclusiva maschile. Tutta la catena educativa, inoltre, è interessata a questa metamorfosi del modello di autorità, toccando l’insieme dei rapporti sociali. Ma, mette in guardia Gauchet, la promozione del modello materno di autorità non ha ancora riempito il vuoto creato dal superamento del vecchio ordine. Siamo a cavallo di un cambio di civiltà e il lavoro di simbolizzazione è in pieno svolgimento, viviamo un vuoto e un’assenza che ci inquietano.
A questo punto io credo sia fondamentale lavorare il più possibile per ridurre la disuguaglianza nascosta e vertiginosa e consentire a ogni uomo e a ogni donna di avere i mezzi necessari per affrontare, nel qui e ora della propria esistenza, il passaggio epocale e collettivo nel quale siamo lanciati. Se possibile contribuendo, in prima persona, con una propria competenza simbolica.
Marcel Gauchet, La fine del dominio maschile, ed. VP Vita e Pensiero, Milano 2019.
(Uomini in cammino, n. 1, 2020)
Sei ragazze appassionate di storie che hanno creato un sito dove consigliare a ragazze e ragazzi tra i 9 e i 12 anni libri, film e serie tv: abbiamo fatto quattro chiacchiere con le fondatrici del Dafne Club
Com’è
nata l’idea del Dafne
Club
online e come vi siete divise i compiti per realizzare il sito?
Due
anni fa io, Sara, avevo un blog di libri. Ma, poi, solo poche
settimane fa, mi è venuta un’idea: avrei potuto riprendere
l’attività e ricominciare a scrivere recensioni! Dopo però mia
mamma mi ha dato l’illuminazione: invece di un semplice blog, avrei
potuto fare un vero e proprio sito, in cui comprendere altre amiche!
E così ho fatto: ogni weekend di quarantena, io e papà,
programmavamo insieme il sito, mentre durante la settimana io e le
mie amiche scrivevamo recensioni su recensioni da mettere nel nostro
sito appena fosse stato pronto.
Principalmente, la
programmazione, è stata svolta da me e mio padre, perché lui se ne
intende di queste cose, mentre le altre ragazze e io scrivevamo
recensioni. Viola scrive recensioni di graphic novel, Tita di
mistero, amore e avventura, Alma gialli e avventura, Marta (mia
sorella) fantasy, favole e film, Anna serie tv e avventura e io un
po’ di tutto. Ma non abbiamo mai stabilito dei veri e propri ruoli,
ognuno recensiva ciò che voleva, confrontandosi con le altre.
Siete
“ragazze appassionate di storie” e si nota perfettamente in ogni
recensione, ma come scegliete le storie da consigliare ai vostri
coetanei?
Noi
scegliamo le storie da recensire in base a quelle che riteniamo che
siano belle da condividere con altri ragazz* come noi e quelle che
hanno lasciato l’impronta nel nostro cuore.
Quanti
spunti state raccogliendo durante queste settimane di quarantena e
come vi dividete tra voi sei il calendario editoriale del sito?
Questa quarantena ci sta lasciando molto tempo per leggere e
scrivere racconti, immaginando mondi nuovi che prima non avevamo
neanche considerato. Adesso, inoltre, riusciamo a stare molto di più
insieme alla famiglia, guardando la sera film e serie tv. Per
esempio, nella nostra famiglia, ogni sera uno di noi sceglie il film
da vedere, così variamo genere e scopriamo dei lungometraggi che non
avremmo mai avuto intenzioni di vedere. Per il programma editoriale
abbiamo realizzato una tabella su Excel, dove ognuno si prenota il
giorno dove pubblicar la propria recensione/racconto. Abbiamo
aggiunto anche dei giorni dove pubblicheremo delle interviste a
delle/degli scrittrici/scrittori con cui riusciamo a metterci in
contatto.
Il
consiglio che vi sentireste di dare anche a vostri non coetanei che
hanno perso un po’ di vista il potere (e la magia) delle storie che
ci circondano?
Vogliamo
assicurarvi che, anche iniziando da libri corti, scoprirete mondi
magici e incantati, anche se non avete mai creduto che esistessero.
L’importante non è subito ricominciare a leggere con romanzi
classici e lunghi (che noi, lettrici esperte, adoriamo), ma
divertirsi anche con libri di poche pagine, basta che ti appassioni.
Durante
le puntate di Zai.Time, il nostro programma di network, ogni giorno
consigliamo un libro, un film e un disco per affrontare la quarantena
(qui
trovate i podcast): quali sarebbero i vostri consigli, se doveste
fare una scelta?
Allora,
io (Sara) propongo Il
diritto di contare,
un film; Volevo
essere Maradona,
come libro; South
of the Border,
una canzone di Ed Sheeran. Marta consiglia Peter
Pan,
un cartone; La
grande dinastia dei paperi,
una raccolta di fumetti di Paperino fatta dall’autore originale e
Mamma
Maria,
una canzone dei Ricchi e Poveri. Alma propone La
storia infinita,
un film; Il
rinomato catalogo Walker&Dawn,
un libro; Hey
Jude,
dei Beatles come canzone. Anna consiglia Mary
Poppins 2,
un film; Stargirl,
un libro e IDGAF
di Dua Lipa. Margherita propone I
sospiri del mio cuore come
film;
L’albero delle bugie,
un libro, La
Otra Mitad,
di Pilu Velver, una canzone in spagnolo.
Inoltre, vorremmo
consigliare a tutti un luogo dove noi ci troviamo perfettamente a
nostro agio, pieno di libri divertenti e appassionanti, dove lavorano
donne storiche che hanno fatto la rivoluzione: La
Libreria delle Donne di Milano,
dove si svolgono anche incontri di filosofia, a cui consigliamo di
partecipare (quando la quarantena sarà finita).
(https://www.zai.net, 9 aprile 2020)
di Roberto Finelli
L’ultimo libro di Enzo Modugno, Il Cybercapitale («Dalla macchina per filare senza dita alla macchina per pensare senza cervello», manifestolibri, pp. 125, euro 12) propone tre tesi essenziali. Primo, la categoria di «general intellect» è un concetto mitologico che non serve a comprendere la realtà del presente, anzi la imbelletta e la mistifica; secondo, i cyberutopisti, come i teorici della moltitudine – che cadono nell’errore di ritenere che il nuovo mezzo di produzione con le tecnologie informatiche «non sia una macchina capitalistica ma la facoltà di pensare e di parlare» – sono lontanissimi dal frequentare e dall’intendere la lezione più rigorosa di Marx su Machinerie e Technologie; terzo, va allargata la categoria di postfordismo dalla struttura economica al «postfordismo sovrastrutturale», perché la dequalificazione radicale della scuola pubblica e delle università è segmento fondamentale e ormai interno al ciclo produttivo per la formazione di una mente superficiale e dequalificata, pronta a interagire e ad ubbidire ai codici delle macchine informatiche.
Con questo libro Modugno conferma che per tutta la sua vita di studioso e di militante ha continuato, con radicale coerenza etico-politica e con singolare fermezza di mente, a riflettere su quegli stessi temi che aveva cominciato a introdurre sulla rivista Marxiana già durante gli anni del ’68: come lo snaturamento e la mercificazione del sapere nel capitalismo moderno e la produzione diretta delle forme della coscienza sociale e del conoscere da parte della stessa produzione di capitale.
Così oggi con il suo Cybercapitale torna a parlarci di una pretesa società della conoscenza in cui, a ben vedere, la conoscenza è tutta nelle mani del sistema di accumulazione del capitale, dato che, con le nuove tecnologie, è codificata e depositata in macchine dell’informazione, che lavorano ed operano secondo modalità ed automatismi che sono al di fuori del cervello umano.
Coloro che ritengono che il capitalismo metta al lavoro la mente umana, oggi certamente in modo subalterno, ma con tutte le sue potenzialità riflessive, creative e immaginative, che potrebbero proprio per la loro potenza essere domani condizioni di trasformazione e rivoluzione – coloro che vedono nella forza lavoro solo una potenza di essere e per nulla una impotenza e povertà di essere – hanno, secondo Modugno, scarsamente ragionato, sulla eterogeneità profonda che esiste tra i codici dei linguaggi storico-naturali e i codici matematico-formali delle macchine informatiche.
Il computer infatti elabora, calcola e trasmette informazioni attraverso regole e procedimenti che devono la loro enorme velocità proprio al fatto che sono solo formali, ovvero calcoli di segni, indipendenti da ogni significato. I codici informatici cioè sono pensati e programmati ad un livello altissimo di astrazione il quale, sottraendo quei segni ad ogni contenuto interpretativo concreto, ne consente la matematizzazione. In questo senso il computer tratta informazioni ma certamente non conoscenza, se per conoscenza s’intende l’interpretazione, il senso, che un organismo vivente, o un individuo, o una classe sociale dà come possibile risposta ad una situazione aperta e problematica del suo ambiente storico-vitale.
La moderna invenzione di macchine che calcolano e trasmettono informazioni, come stringhe di punti e linee prima nell’alfabeto Morse, oggi con l’alternanza di 0 e 1 nel linguaggio dei computer, ha completamente separato l’informazione – come spiega Giuseppe Longo dell’Ens di Parigi – da ogni significato empirico, da ogni interpretazione concreta. L’enorme potenza nell’accumulare, elaborare e trasmettere informazioni oggi è fondata sulla possibilità di tradurre il codice alfabetico del linguaggio naturale in un codice numerico-matematico, che a sua volta viene tradotto in un codice elettronico basato su differenziali di energia.
In questo modo la trasmissione ed elaborazione di informazioni – si badi non di conoscenza – è divenuta una scienza matematica e l’informazione può essere formalmente elaborata, indipendentemente da ogni interpretazione, secondo norme di spostamento/calcolo di segni che prescrivono come scriverli e ri-scriverli. Tale opera di codificazione, di matematizzazione e meccanizzazione delle informazioni, è tenuta assai ben salda, sottolinea Modugno, nelle mani del capitale, che appunto oggi è divenuto Cybercapitale, e che per tale monopolio del sapere ridotto a informazione, e depositato nelle macchine, ha bisogno di un lavoratore mentale con un livello di qualificazione assai basso: purché capace di quelle generiche (nel senso di superficiali) attitudini linguistico-calcolanti che lo rendono abile a interloquire e a seguire passivamente la crescente capacità di calcolo e di decisione dell’apparato cibernetico.
Il mito del general intellect, di un conoscere sociale generalizzato, in cui ciascuno sarebbe in comunicazione con tutti, in rete con tutte le altre menti, mistifica e dissimula per Modugno una ben diversa realtà fatta da un lato di programmatori esperti di codificazione, che lavorano sugli algoritmi che automatizzano l’acquisizione e l’elaborazione dei Big Data, e dall’altro dalla moltitudine dei lavoratori dequalificati della mente, preparati a tal fine, e «cucinati a puntino», da una scuola/università evolutasi nell’ultimo ventennio, con l’ilare e sciagurato consenso di una buona parte della docenza, in una fabbrica di «vuoti a perdere».
Ma «Cybercapitale», va aggiunto, è un libro prezioso anche per la memoria storica, non solo teorica, ma politica e sociale, che, appunto a partire dal ’68, l’autore, da protagonista appassionato, ha accumulato nel corso della sua vita e che restituisce ora al nostro ricordo e alla nostra riflessione.
(il manifesto, 3 aprile 2020)
di Ina Praetorius
Nel tempo sospeso che stiamo vivendo, bloccate in casa dal coronavirus, si apre lo spazio di un ripensamento che abbraccia tutti gli aspetti della vita. A noi due – Vita e Marina – sono tornate in mente le parole orientanti di una pensatrice postpatriarcale che da tempo lavora a un nuovo inizio del pensiero sul mondo. Vi proponiamo stralci della sua comunicazione al Simposio delle filosofe 2006. Il testo completo si trova nel libro Il pensiero dell’esperienza, a cura di Annarosa Buttarelli e Federica Giardini (Baldini Castoldi Dalai editore 2008). (Vita Cosentino e Marina Santini)
Con una parola qualsiasi può prendere inizio un nuovo modo di parlare. Per esempio la parola “quotidiano”. Ma cosa vuol dire quotidiano? Esiste davvero il “quotidiano”?
[…]
Cosa intende davvero la gente quando pronuncia questa parola?
Un ragioniere, per esempio, si lamenta della monotonia della sua vita professionale quotidiana. Ragazze e ragazzi che frequentano la scuola sospirano quando dopo le vacanze estive devono ricominciare ad andare a scuola. La rigidità dell’organizzazione scolastica, la necessità di alzarsi presto, il curriculum prestabilito e i traguardi di apprendimento da raggiungere sembrano riempire di senso ciò che si chiama quotidiano. Il contrario di ciò che avviene durante le vacanze quando si può disporre abbastanza liberamente del proprio tempo, oppure quando si può fare un viaggio verso mete ignote. Comunque anche durante le vacanze vivo un senso di quotidiano perché, per quanto io sia libera, devo però mangiare, dormire, andare in bagno. La parola “quotidiano” sembra un concetto relazionale. Il significato concreto di questa parola si può definire solamente in relazione a un suo contrario, quello di non-quotidiano. Sembra che resti comunque invariato il fatto che “quotidiano” significhi sempre il lato ripetitivo e funzionale di un’esperienza. Una vincita al Lotto, una festa, un incidente, una malattia improvvisa, degli ospiti che mi possono «far uscire dalla mia routine quotidiana». Forse mi torna poi la voglia di ritornare al tranquillo trascorrere sempre uguale del tempo. L’avvenimento particolare, che sia atteso o inatteso, o proveniente da un contesto più ampio – una istituzione per esempio – può accadere senza che ci si chieda ogni momento che senso possa avere ciò che si sta facendo e quale libertà ci possa dare.
[…]
Se il quotidiano fosse la noiosa routine data dalla ciclicità del corpo umano e dalla necessità di amministrare la convivenza umana, allora oggi, rispetto ai tempi passati, per molte persone le cose sarebbero cambiate in meglio. Perché oggi si parte generalmente dal presupposto che tutti e tutte, donne, uomini e bambini, persone di ogni età e di ogni professione, possono fare esperienza di entrambe le cose: quotidianità e festa, funzionamento sempre uguale e libertà da scopi ben precisi. Una gran parte di ciò che una volta riempiva le giornate di molta gente – come far il fieno, il fuoco, il pane, camminare molto a lungo, fare il bucato, abbattere alberi… – è oggi svolta da macchine. Sembra che ci si avvicini a uno stato delle cose nel quale il lavoro rivolto immediatamente alla riproduzione può scomparire lentamente, se si vuole farlo scomparire. Ora et labora, la regola dei Benedettini, che si rifà alla vita vissuta da Gesù Cristo di Nazareth, aveva trasformato il parallelismo tra vita ripetitiva e contemplativa in virtù. Tutti dovevano vivere in un alternarsi di fare ripetitivo e stare contemplativo.
Nel frattempo però l’esistenza finalizzata a uno scopo sembra debba scomparire dalla vita di tutti noi, ma a favore di che cosa? A favore della libertà, dell’avvenimento particolare? Abbiamo a disposizione ancora altri termini per contrario del quotidiano: tempo libero, dinamicità, avventura, festa, creatività, progresso… Tutte queste parole promettono di coltivare in forma pura l’avvenimento che esce dal quotidiano. Tutta la vita tende a trasformarsi in qualcosa di speciale.
Il progetto di modernità che sembra essere valido e imposto a tutti, e che intende rendere possibile una vita umana che possa delegare la gestione della routine alle macchine, è però continuamente eluso e contaminato da un’antica visione occidentale del mondo che prevede l’esistenza di certe persone addette ai servizi di routine e altre dedite a una vita libera dai bisogni. In La politica, Aristotele scrive a proposito della «scienza dei rapporti fra padrone e schiavo», e dice: «È ovvio che la natura ha creato esseri liberi e schiavi e che per quest’ultimi è bene e giusto servire. In ugual modo si regola il rapporto fra maschi e femmine: uno è migliore, l’altro inferiore, uno governa e l’altro è governato».
[…]
Non sbaglia allora chi a volte ha la sensazione che la vita quotidiana (da eliminare) sia una cosa in qualche modo femminile, che questa vita quotidiana si svolga soprattutto a casa mentre le donne in carriera, le top manager, le docenti universitarie e i politici parlano ogni tanto della “vita passata in riunione”, dei problemi durante il semestre o dei tanti spostamenti che devono compiere. Proprio lì nella libertà del mondo maschile, fuori di casa avvengono le cose più importanti, le cose non quotidiane.
[…]
Oggi l’essere umano giusto è l’homo oeconomicus, talvolta anche sotto forma di essere femminile emancipata il/la quale aziona solo bottoni quando vuole mangiare, espellere escrementi o riprodursi. La noia del cucinare, pulire, fare il bucato è scomparsa per coloro che hanno fatto carriera. Scomparirà per tutti. Nessuno dovrà più doverla subire. Rispetto a questa meta, se capisco bene, capitalismo e comunismo tirano dalla stessa parte. Entrambi partono dal presupposto che la sfera del funzionamento quotidiano è femminile e che questa sfera femminile deve scomparire dalla definizione di una vita umana-modello alla quale tutte e tutti aspiriamo. Ma fino a quando questa sparizione non sarà realizzata, si tace semplicemente la vita quotidiana delegandola tuttora alle persone non ancora appartenenti alla nostra società dei diritti, domestiche straniere, badanti slave… delle quali comunque non si parla mai.
E di che cosa ci occuperemo in futuro quando non dovremo più cucinare, pulire e fare il bucato; forse non dovremo più neanche fare la pipì, dormire, partorire o morire? Ci occuperemo di cose diverse dalla quotidianità: di cose speciali.
Ma potranno dare un senso alla nostra vita le cose speciali? La maggior parte di noi vivrà per qualche decennio. Si esordirà come neonati bisognosi di cura e si finirà la vita come vecchi, sempre più vecchi, bisognosi di cura. Cosa può succedere se tutta la vita dovesse diventare un avvenimento speciale? In altre parole, non sarà ritenuto assurdo quello che succederà?
[…]
Hannah Arendt ha coniato, nel suo libro Vita activa, un concetto dal quale voglio partire per proseguire il mio pensiero: «il tessuto relazionale delle faccende umane».
Diversamente dalla Arendt, non intendo vedere questo tessuto relazionale, nel quale iscrivo la mia vita, come un «cerchio di eterno ritorno» ma come un bambino appena nato per il quale non esiste differenza di significato fra fare la pipì oppure contemplare qualcosa, per il quale lavoro e gioco non hanno ancora acquisito un diverso valore. In questo modo considero la mia esistenza come un tutt’uno.
Anche durante i giorni di grande creatività spirituale e intellettuale dipendiamo dal nostro corpo che deve andare in bagno più volte, e quando sto cucinando non sono separata dalla lingua. Quando vado in cucina e mi metto davanti ai fornelli non scendo in un cerchio di eterno ritorno ma proprio qui, ai fornelli, come alla scrivania, nutro ciò che mi nutre: il tessuto relazionale del mondo. Ogni pietanza che cucino e ogni pensiero che penso è nutrimento per me e per gli altri. Ogni pietanza è come ogni pensiero, vecchio e nuovo nello stesso momento: è già esistito e si presenta qui per la prima volta. Entrambi provengono dalla tradizione: già mia madre ha cucinato in modo simile. Ma il gulasch di oggi nasce ora perché le cipolle che ora taglio a pezzetti non sono mai esistite. Esse sono un primum come anche lo spazio temporale, la giornata unica, nella quale mescolo olio e cipolle. È vero che ho cucinato già centinaia di volte il gulasch e talvolta questa cosa è noiosa come lo è scrivere libri, se faccio riferimento al mondo del riconoscimento pubblico, se penso a là fuori. Comunque quel gulasch è scientificamente diverso dall’ultimo perché oggi è oggi, e non ieri. Oggi ho pensato qualcosa che ieri non pensavo ancora. Forse prendo in mano la cipolla, che ieri si trovava ancora nel supermercato, in modo diverso rispetto a ieri, quando sbucciare la cipolla mi sembrava noiosissimo. Mentre oggi mescolo olio e cipolle, parlo con mia figlia in modo diverso da ieri. Lei è diventata un’altra e anch’io perché la notte ci separa da ieri. Stamattina ci siamo svegliate in un modo diverso e i sogni mai sognati prima ci hanno cambiato. Nessuna goccia d’acqua, nessun filo d’erba, nessun lavaggio di denti è identico a quello precedente: il tessuto relazionale umano è iscritto nella pienezza mobile dell’origine, nella tradizione e nel tessuto relazionale delle faccende della natura: il cosmo. È aperto verso il futuro: la pienezza delle cose a venire.
[…]
Pensare tutto in modo nuovo, come un unico tessuto relazionale, non fa scomparire la noia perché la vita umana mediamente impegna parecchio tempo. Anche gli avvenimenti particolari e la differenza fra monotonia e novità non cambiano, ma liberano la differenza fra funzionalità e libertà dalle catene con le quali era legata alla struttura mentale della coppia concettuale: funzionalità e libertà non stanno più sotto o sopra ma dovunque, oppure assenti, che sia nell’ufficio del manager o ai fornelli. Libertà non è più il contrario di funzionalità. Fintanto che gli esseri umani restano dotati di corpo e di spirito la libertà potrà significare «dare inizio a qualcosa di nuovo», tenendo presente la dipendenza da altre e altri. La quotidianità non potrà e non dovrà scomparire perché non è il contrario di libertà. Ora si può dire: allacciandosi a certe tradizioni si può pensare un mondo che si rinnova.
[…]
Più di un pensatore ha sospirato: «Magari potessimo stupirci come i bambini!» ma non l’ha voluto veramente perché, se lo si volesse, sarebbe già possibile provare stupore. Posso percepire l’esistenza come un tutt’uno. Posso anche protestare come fanno i bambini quando si annoiano, e posso cominciare un altro gioco. Anche quello annoierà ma per fortuna ho altre cose da fare: mangiare, pensare, dormire e andare in bagno, scrivere libri, sognare, apprendere e fare molte cose.
(www.libreriadelledonne.it, 19 marzo 2020)
È disponibile in formato pdf la versione aggiornata al 2019 della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file (184 pagine – 3,2 MB) sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it
di Vita Cosentino
Sono contenta di presentare L’Economia è cura di Ina Praetorius in un luogo storico di Milano, come è la Casa della cultura, perché penso che le riflessioni teoriche e politiche di lei ci possono veramente aiutare in questo momento di forte disorientamento, con il pianeta vicino al collasso e una transizione inevitabile verso qualcosa che ancora non conosciamo. La crisi ambientale, infatti, è sempre presente al suo pensiero, anche quando parla di economia o di teologia o di altro ancora.
Il rapporto con la libreria delle donne di Milano è di vecchia data ed è un rapporto speciale – anche se a distanza – di scambio politico e teorico. La rivista Via Dogana è stata la prima ad introdurla in Italia nel 2002, e in seguito le ha dedicato un quaderno, Penelope a Davos (2011). Per parte sua Praetorius nel saggio Ripensare tutto fin dall’inizio, a cominciare dal quotidiano dice di essere stata “ispirata” da quelle che nel suo ambiente vengono chiamate “le italiane”. «Ho appreso da loro – dice – che è possibile e necessario passare quella soglia, che sembrava invalicabile, dell’ordine patriarcale per approdare a un nuovo inizio del pensiero» (in Il pensiero dell’esperienza, 2008, p. 72).
Oggi possiamo constatare, discutendo questa sua opera, che quel “nuovo inizio del pensiero” è andato molto avanti e siamo noi qui in Italia a imparare da lei.
Con Adriana Maestro ci siamo divise i temi: lei, che ha tradotto, curato e introdotto ottimamente il volume, vi ha illustrato la tesi principale del libro; io mi sono riproposta di trattare due elementi che definirei di sfondo.
Il senso e la generatività di una postura post-patriarcale.
Praetorius in ogni occasione si definisce una pensatrice post-patriarcale e il tema di un nuovo inizio è ricorrente nei suoi scritti, perché – come dice – ha varcato una soglia e si trova dall’altra parte. Ha acquisito distanza e punto di vista e non è invischiata in una posizione contro che, come si sa, in qualche modo partecipa sempre di ciò a cui si oppone. La sua personale posizione offre invece la possibilità di una diversa dislocazione mentale, pone in un’altra prospettiva.
Ora come questa postura post-patriarcale può riorientarci per affrontare il presente?
Luca Mercalli, in un recente articolo, fa notare che siamo in grado di pensare alla fine della vita sul pianeta, ma non siamo in grado di pensare alla fine del capitalismo (AREL La rivista 3/2019). Quando l’ho letto, l’ho sentito subito vero e da approfondire perché si sta rendendo sempre più evidente – ne abbiamo parlato nel numero di Via Dogana 3 online, Crisi ambientale: i nodi al pettine (dic. 2019) – che non ci sarà un’effettiva transizione ecologica se nello stesso tempo non si andrà oltre il capitalismo.
Ho trovato una credibile spiegazione di quella difficoltà nelle riflessioni di Guido Viale. Sia in un articolo del Manifesto (La radice del patriarcato e il concetto di proprietà privata, 20/11/2018) che nel suo libro Slessico familiare (2017), mette in evidenza il nesso indissolubile tra il patriarcato e tutte le realtà pervasive come proprietà, dominio, sfruttamento, e mostra come il patriarcato sia il fondamento «di tutte le forme che quelle realtà hanno assunto nelle diverse fasi della storia, compreso il capitalismo finanziario, estrattivo e predatorio attuale». La radice del patriarcato è la proprietà dell’uomo sulla donna. Questo è il modello di tutte le altre forme di proprietà, nel succedersi delle civiltà, come la proprietà degli schiavi, dei campi, dei mezzi di produzione, della conoscenza. Secondo Viale queste radici sono molto profonde e impediscono di prospettare e praticare «una vera alternativa a una società il cui fine ultimo è l’acquisizione di reddito, ricchezza o potere, come condizioni irrinunciabili per conservare in qualche forma una proprietà degli uomini sulle donne.»
Le parole di Viale rappresentano un’importante presa di coscienza maschile perché dicono esplicitamente che, soprattutto nelle menti maschili, questo è il segreto impedimento a pensare la fine del capitalismo. Ne consegue che sradicare quelle radici è anche il possibile punto di leva per il cambiamento. Da qui l’importanza di tenere in conto le idee di pensatrici post-patriarcali come Ina Praetorius e di assumere la sua postura che è generativa di pensiero e di pratiche. Secondo lei il pensiero post-patriarcale comincia «nel momento in cui il lavoro costruttivo di dare forma a un nuovo ordine simbolico diventa più importante della critica», e si smette «di sentirsi in primo luogo vittime del sistema contro il quale scagliarsi con furia ma, tutto sommato, senza alcuna speranza di cambiarlo» (in Penelope a Davos, p. 41).
Quando si tratta di una pensatrice dichiaratamente femminista ci sono almeno due ostacoli interiori: che sia una cosa solo per donne; che siano idee e proposte che escludono in qualche modo gli uomini.
Su questo Praetorius è molto chiara e nel saggio Penelope a Davos si prende la briga di rivisitare con occhi nuovi la figura di Penelope togliendola da quell’immagine di moglie esemplare, che aspetta il marito in obbedienza a una norma patriarcale. La rappresenta come una donna intelligente e scaltra che aspetta Ulisse «perché ha buoni motivi di nutrire fiducia in quell’uomo». Penelope ha sì la stanza della tessitura in cui tesse e disfa e parla con le altre donne, ma è in attesa di qualcosa che succeda fuori dalla stanza.
La pensatrice post-patriarcale sa che un nuovo inizio è possibile solo se riguarda entrambi i sessi. Per questo dice: «Sappiamo infatti, che non è possibile dare forma al nuovo ordine senza che anche l’altro sesso desideri un futuro diverso e si trasformi per amore del mondo, da guerriero assetato di potere in qualcosa di nuovo. In che cosa? È ciò che vogliamo sapere, noi tessitrici di oggi, come voleva saperlo Penelope» (p. 68).
L’immaginario e le modalità del cambiamento
Il cambiamento radicale immaginato da Ina Praetorius è profondamente diverso da come è stato pensato finora secondo lo schema dell’evento eccezionale – che sia rivoluzione o crollo – che mette fine a un certo ordine a cui segue l’instautazione di un nuovo ordine.
Ne parla esplicitamente nel saggio Dalla parità al dare forma al mondo quando dice: «Il concetto di trasformazione esprime a mio parere nel modo migliore che cosa sta a cuore alla maggior parte delle femministe. Soltanto poche desiderano una rivoluzione secondo l’accezione comune del termine. Noi non vogliamo violenza né spargimento di sangue, perché amiamo troppo la vita reale nel mondo» (in Penelope a Davos, p.34).
Io condivido in pieno la sua posizione, essendo io stessa arrivata a un’intuizione simile quando ho proposto sulle pagine di Via Dogana di pensare il cambiamento come metamorfosi (Che cosa tenere che cosa buttare, in Via Dogana n. 103, dic. 2012).
Praetorius ha in mente una modalità differente di cambiamento e per articolare il suo ragionamento riprende la teoria del cambio di paradigma introdotta da Thomas Kuhn nel suo libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1969). Nel volume che presentiamo, Praetorius vi fa riferimento sia nell’introduzione che nella sezione intitolata Dal post-dicotomico Durcheinander a un paradigma differente.
Ho ripreso in mano la teoria di Kuhn e secondo lui le rivoluzioni scientifiche «si considerano come quegli episodi di sviluppo non cumulativi sui quali un vecchio paradigma viene rimpiazzato completamente o in parte da uno nuovo e incompatibile»(p119). Sono precedute da una sensazione crescente di cattivo funzionamento che porta a una crisi. Si arriva a un punto in cui “le anomalie” (cioè i problemi non risolti) si presentano all’interno del paradigma funzionante fino a quel momento, rendendo necessaria la formulazione di nuovi assunti che superino le possibilità contenute nel paradigma corrente.
Questa è in estrema sintesi la teoria del cambio di paradigma in Kuhn e la grande novità di questa strada per il cambiamento è rappresentata dal fatto che un paradigma cambia dall’interno e non è un’idea decisa a tavolino da qualcuno. Per l’autore le rivoluzioni scientifiche modificano il concetto che si ha del mondo e l’accoglienza di un nuovo paradigma «spesso richiede una nuova definizione di tutta la scienza corrispondente». (p. 132)
È a partire da questa idea del cambiamento che Praetorius affronta la scienza economica, che è oramai il fondamento delle nostre società. Parte dall’anomalia crescente che è sotto gli occhi di tutti. Mostra infatti come l’economia – che si è proposta come scopo di «soddisfare il bisogno umano di preservare la vita e la qualità della vita» – perde sistematicamente di vista la metà di quello che essa stessa ha definito il proprio oggetto di ricerca, quando ruota ossessivamente intorno al denaro e non considera tutte quelle attività gratuite legate alla vita che avvengono nella sfera domestica. In questione non è la monetizzazione di quelle attività, riducendole in tal modo al mercato, quanto piuttosto di allargare l’oggetto di studio dell’economia «perché combaci con la definizione che si è data». «Includere le attività non pagate in una scienza che non si risolve più solo intorno al denaro può avere ripercussioni utili e pioneristiche nella risposta alla questione se effettivamente non esista una alternativa a questo meccanismo della retribuzione, come correntemente si afferma» (p.77).
Il ri-centramento dell’economia cambia le priorità e crea ordine nel pensiero. In La vita alla radice dell’economia Praetorius afferma di: «porre al centro ciò a cui spetta il centro, spostare al margine ciò a cui spetta una posizione marginale». (p. 17). Nella sua analisi il mercato smette di essere al primo posto e assume di nuovo il suo ruolo di sistema secondario di scambio e di distribuzione delle eccedenze.
Su questi temi, Praetorius sa di essere all’interno di una ricerca corale e dedica l’ultimo capitoletto – dal titolo Care Revolution: la rivoluzione della cura – ai movimenti e alle situazioni che già si pongono in questo orizzonte. È tuttavia consapevole che «oggi ci sono molti movimenti ma ancora non si può parlare di un’irruzione di un nuovo paradigma scientifico che ponga (di nuovo) al centro gli esseri umani» (p. 44). Quindi la strada è aperta ma c’è ancora tanto lavoro da fare. Siamo a metà del cammino – così dice.
Mi interessa sottolineare che nella sua impostazione cambiare le priorità in economia, cioè mettere al primo posto i bisogni primari e al secondo posto il mercato, costituisce un orientamento politico che si può applicare in ogni situazione, trasformandola. Un esempio convincente di cui parla in più occasioni riguarda negli anni ’90 del secolo scorso la lotta delle insegnanti svizzere di applicazioni tecniche ed economia domestica perché il loro lavoro era minacciato da una riforma scolastica che voleva abolire queste materie, per sostituirle con ore di inglese e di informatica. In quella lotta, Praetorius ha spostato il piano dalla difesa sindacale a quello del senso e delle priorità nel vivere, con approfonditi ragionamenti che hanno portato le insegnanti alla vittoria e i responsabili cantonali dell’educazione ad impegnarsi a valorizzare le «competenze di esserci»da lei proposte. In un importante discorso rivolto a quelle insegnanti – primo articolo pubblicato su Via Dogana n. 60, La filosofia del saper esserci (2002) – l’autrice oppone all’attuale primato dell’economico per cui sono importanti solo l’inglese e il computer, l’importanza fondamentale delle arti del vivere, che sono ancora considerate come affari di donne, quindi private e non pubbliche. Nella scena pubblica, secondo la visione (maschile) del mondo che è invalsa fino ad ora, agire significa un fare sistematico, razionale, verso determinati obiettivi. Ina Praetorius obbietta che in realtà gli esseri umani funzionano in questo modo solo quando effettivamente producono oggetti, ma che questa è solo una minima parte dell’agire umano. Propone la competenza di esserci e di farne una filosofia. Esserci significa l’insieme della nostra esistenza, dalla nascita alla morte con tutto quello che ne fa parte, giovinezza, malattia, libertà, bisogno, debolezza, forza.
(www.libreriadelledonne.it, 21 febbraio 2020)