Da il manifesto
Le carte dell’autrice di «Sputiamo su Hegel», saggista e critica d’arte verso una nuova sede
L’Archivio Carla Lonzi arriva alla Fondazione Basso. Si apprende da una nota del centro di ricerca romano di via della Dogana Vecchia, con cui è stata annunciata la nuova sede delle carte della femminista, saggista e critica d’arte italiana, dopo che pochi giorni fa Battista Lena, figlio di Lonzi e proprietario del Fondo, ha firmato il contratto di comodato.
Cinque mesi fa, la direzione della Galleria nazionale (ovvero Renata Cristina Mazzantini) aveva infatti sospeso anzitempo il comodato tra lo stesso Lena e la Gnam che nel 2017, per volontà dell’allora direttrice Cristiana Collu, avviava il primo riordino delle carte. La ritirata aveva suscitato, legittimamente, non poche perplessità e richieste di chiarimento tra cui una interrogazione parlamentare di Luana Zanella (Avs) al Mic per domandare, insieme alle ragioni per cui non fosse stato chiesto a Battista Lena di donare il fondo preferendo l’interruzione dei rapporti con tre anni di anticipo, che lo stesso archivio potesse diventare «Bene Culturale, rappresentando esso rilevante interesse artistico, storico, archivistico e bibliografico» (ne avevamo scritto su queste pagine il 30 maggio, ndr).
Ora, insieme alla buona notizia della nuova dimora che ospiterà le carte di Carla Lonzi, il cui prezioso inventario, a cura di Marta Cardillo, con la collaborazione di Lucia R. Petese, il coordinamento di Claudia Palma e la consulenza scientifica di Annarosa Buttarelli è consultabile nel sito della Gnam, sappiamo che il destino dell’autrice di Sputiamo su Hegel non sarà la dispersione. Potrà invece essere consultato da studiose e studiosi nella sede storica della Fondazione Lelio e Lisli Basso, che oltre a conservare quasi 90 fondi archivistici e un indiscutibile prestigio, nel 2015 aveva organizzato con il Centro Riforma dello Stato un ciclo di tre seminari proprio intorno alla figura di Carla Lonzi declinando tre parole cruciali: politica (con gli interventi di Maria Luisa Boccia e Ida Dominijanni), arte (con Laura Iamurri e Maria Antonietta Trasforini) e profezia (con Gaia Leiss e l’indimenticata Rosetta Stella).
«Sono felice che l’archivio di mia madre trovi la sua collocazione alla Fondazione Basso, che l’ha accolto con entusiasmo», dichiara Battista Lena, che accenna a «nuovi e interessanti materiali» del fondo per cui, nel luglio di quest’anno, la Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio ha avviato la procedura per la dichiarazione di interesse storico.
Tra i lasciti più grandi di Carla Lonzi vi è il lavorio mai esausto nel solco della libertà femminile, capace di generare simbolico ancora oggi. Ecco spiegate le numerose – e fortunate – iniziative intorno al suo nome, alla produzione – sua e di Rivolta femminile – e alla sua esperienza, multiforme se consideriamo quanto ancora riesca a interrogare generazioni di donne assai diverse, non solo anagraficamente. In questa direzione si legga, per esempio, la recente ripubblicazione da parte de La Tartaruga della sua opera completa, come anche i convegni, le mostre, le discussioni pubbliche riguardanti i suoi testi, che hanno il pregio di saper parlare al presente. Del resto si tratta di un’eredità d’amore senza testamento.
Da il manifesto – In queste settimane, sono usciti due libri che dietro un tono lieve, divulgativo, nascondono strutture robuste e uno scomodo interrogarsi: sono libri diversi, ma entrambi si rivolgono alle nuove generazioni per un confronto su cosa significhi essere oggi ragazza, donna, femminista. Uno è Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) pubblicato da Mondadori e firmato dalle filosofe Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo (pp. 216, euro 18,50); l’altro Contrattacco! Ribellarsi e difendersi dalla violenza maschile scritto per Sperling&Kupfer (pp. 256, euro 14,90) dalla giornalista Paola Tavella e illustrato dalla fumettista Teresa Cherubini (che ragazza lo è ancora). Escono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, interpretando un desiderio femminile collettivo, non troppo sotterraneo, di parlarsi fra donne rompendo il puro dato anagrafico. Entrambi si rivolgono alle ragazze contemporanee con uno spessore che li rende godibili a ogni età, ed entrambi hanno cura di tenere la porta aperta perché circoli aria fresca nella doppia direzione dell’ascolto reciproco: possiamo ammirare la libertà che nuovi corpi e voci stanno portando in strada e in rete, e insieme riconoscere altre esperienze e non cancellare segmenti fondamentali della nostra storia.
Tutti e due i libri scelgono una seconda persona che chiama sulla pagina le giovani lettrici, e tutti e due scansano la forma funerea e saccente del lascito, preferendo piuttosto configurarsi come intersezioni vive, accese e scomode. Tutti e due affrontano temi divisivi come la maternità surrogata (Donna si nasce) e la gestione femminile del denaro e del potere (Contrattacco!) cercando una necessaria distanza dalle soluzioni più ammiccanti della divulgazione massificata. Pur presentandosi come manuali, divergono nella forma: piacevolmente eccentrica, la prosa di Tavella che esorta alla consapevolezza del proprio e della propria forza materiale e magica viene completata dalle incursioni fumettistiche di Cherubini, mentre Cavarero e Guaraldo, con sapienza e arte di sintesi, decostruiscono gli slogan confusi che funzionano come sirene vuote per un femminismo di superficie. Se l’Adrienne Rich di Nato di donna e la Simone de Beauvoir del Secondo sesso insieme a Carla Lonzi fanno da comune sostrato, l’analisi di Donna si nasce saccheggia la poetica di scrittrici come Clarice Lispector ed Elena Ferrante e si confronta criticamente con il pensiero di Judith Butler, mentre Contrattacco! ricorda alle ragazze il lavoro di Elena Giannini Belotti e i passi in avanti di bell hooks. Pur presentandosi in vesti editoriali snelle, questi due libri ci ricordano che essere femministe implica una, a tratti sgradevole, postura di libertà, un continuo sforzo di luce e chiarezza.
Nascere donne è un fatto, la cui coscienza è una strada accidentata tutta da percorrere, una strada in cui cultura e biologia non sono avversarie l’una dell’altra, come oggi va di moda sostenere. «La differenza sessuale innanzitutto è un fatto», scrivono Cavarero e Guaraldo, «nella specie umana, così come in molte altre specie viventi, le femmine e i maschi hanno caratteristiche anatomiche e quadri ormonali differenti. Avremmo potuto dire un fatto biologico, se non fosse che il fatto della differenza sessuale viene registrato, interpretato e valutato da tutte le culture di cui abbiamo una documentazione storica fin dall’antichità, ovvero in tempi in cui la biologia non era ancora nata e ben poco si sapeva dei codici invisibili che fanno funzionare i corpi». Anche la cultura ha le sue trappole, ricorda Tavella: «Veniamo educate a farci benvolere, a non disattendere le aspettative degli altri, a sorridere anche quando vorremmo piangere, a non essere mai scostanti, a non fare capricci, a essere carine», e ancora: «Il manuale della femmina adorabile è infarcito di istruzioni sull’arrendevolezza, remissività, pazienza, dolcezza, paura, oltre che di consigli subdoli, tipo: se sorridi sei più bella». Essere arrabbiate è vietato, sottolinea Contrattacco!, che indica chiaramente in questa zona rossa la neutralizzazione maschile della possibilità per le donne di difendersi e di conoscere e gestire le proprie emozioni. L’industria del fitness che oggi spopola insegna un controllo sul corpo dedicato alla bellezza e alla perfezione piuttosto che alla consapevolezza, al mito dell’invincibilità piuttosto che alla conoscenza e all’utilizzo strategico dei propri limiti.
Uno dei nodi più interessanti di Contrattacco! riguarda proprio questo tipo di esplorazione personale, che ha che fare con la forza anche se viene spacciato per debolezza: conoscere i propri confini non significa difettare, ma sapere quali zone di noi sono inviolabili, e imparare a difenderle. In queste pagine, i disegni di Teresa Cherubini mostrano due esercizi a metà tra corpo e spirito, derivati dal percorso yogico di Tavella, che insegnano non solo alla nostra parte cosciente a dire no, che si tratti di una molestia o una proposta più melliflua, o semplicemente qualcosa che non desideriamo ricevere. Se fissiamo confini troppo stretti rischiamo l’asfissia, se troppo ampi non avvisteremo chi vuole travalicarli a forza: per trovare la nostra dimensione dobbiamo, innanzitutto, prendere contatto con noi stesse, tutte intere. Altro che disprezzo della biologia: è attraverso il corpo che sappiamo chi siamo, come ricordano Cavarero e Guaraldo: «La corporeità e i suoi dati elementari, il nostro esser corpo non solo eretto ma sessuato nella differenza, svolgono un ruolo decisivo in quella piena capacità di significazione, altrimenti chiamata linguaggio, che caratterizza la specie umana rispetto alle altre specie animali».
Siamo corpi, dunque, e attraverso la nostra postura, il nostro passo, i nostri movimenti ci definiamo. Lo sanno le ragazze che attraversano le strade al buio e che chiedono oggi, a gran voce, di riprendersi la notte: è una richiesta del corpo, dello spazio che ci è concesso occupare. Lo sanno attraverso la maternità, come figlie o come madri, le donne che fanno l’esperienza di «espellere un frammento vivo del proprio corpo, e di sentirsi figlia come frammento di un corpo intero e ineguagliabile» (la citazione di Elena Ferrante viene riportata dalle filosofe in Donna si nasce, libro che ha, fra gli altri, il non comune merito di parlare di uteri gravidi non come se fossero un difetto o un dettaglio da rimuovere). Sappiamo di essere corpo e allo stesso tempo sappiamo di non essere soltanto corpo: se come femministe decidiamo di abitare questa contraddizione senza forzarla da una parte o dall’altra, senza cedere alla facile tentazione di scioglierla, ci costringeremo a sguardi diversi, a volte sorprendenti, moltiplicando le possibilità di approccio alla vita e aumentando in noi la difesa dalle trappole meno esplicite del maschilismo e del patriarcato. Scrive Tavella: «I corpi femminili sono mortificati, educati e addestrati per perpetuare la disuguaglianza. Ma i nuovi corpi, i corpi ‘cattivi’, quelli da ragazzacce scalmanate che scopriamo e ridisegniamo imparando a difenderci e a contrattaccare, possono essere vissuti e rappresentati per garantirci indipendenza e autonomia, finora esclusiva degli uomini». Quei corpi sono rappresentati da Teresa Cherubini nelle sue efficaci e belle illustrazioni, mentre lo stesso corpo che si spacca e genera un frammento di sé non mostra meno potenza nelle pagine di Cavarero e Guaraldo: la Grande Madre, la Madre Terra, Rea, Gea, Gaia, Cibele, Inanna, Ishtar, Astarte e le altre divinità delle società più arcaiche non vengono tirate in ballo con la fumosa nostalgia di un tempo perduto, ma come simbolo di una forza che non si può cancellare e che mostra come è stato costruito il ruolo della debole e della vittima sul corpo delle persone di sesso femminile. Una decostruzione presente anche nelle pagine di Tavella, che individua precise strade di libertà: «Un corso di autodifesa femminista, la frequentazione di una palestra di arti marziali per donne, iscrivere le nostre bambine a ju jitsu o karate fin da piccole sono tutte esperienze del corpo ma anche della psiche».
Nei collettivi di autodifesa si impara a dare e ricevere sostegno, si impara a fidarsi ed essere oggetto di una riposta fiducia, ma si impara anche che l’aggressività non è per forza sbagliata o evitabile, soprattutto se reattiva. La consegna alle ragazze, in questi due libri, è densa di libertà e indipendenza dagli uomini ma anche da fazioni sclerotizzate. «Come femministe abbiamo imparato a elaborare un pensiero concreto ma libero, non subordinato né ai partiti né alla visibilità mediatica degli schieramenti dati. Non ci interessa essere inquadrate in fazioni politiche progressiste o oscurantiste», scrivono Cavarero e Guaraldo, invitando le ragazze a leggere senza paraocchi. Perché di tutte le strade femministe che si possono percorrere, capire resta la più autenticamente sovversiva.
Segnaliamo una nuova voce apparsa quest’anno sull’Enciclopedia delle donne, a cura di Elena Petrassi: quella dedicata alla scrittrice, filosofa e femminista francese Simone de Beauvoir. Curata, documentata e ricca di informazioni, ne raccomandiamo la consultazione. Qui due brevi estratti dell’incipit.
(La redazione del sito)
«Sono una scrittrice, una persona la cui esistenza è interamente determinata dalla scrittura.»
(Simone de Beauvoir)
Icona dell’intellettuale “engagée”, scrittrice, filosofa, saggista, femminista, amante, Simone è stata una donna poliedrica che ha incarnato lo spirito esistenzialista della Francia del Novecento e consegnato al mondo alcuni dei libri che più hanno contribuito alla lotta dei movimenti femministi del secondo dopoguerra a partire dal celebre motto «Donne non si nasce, lo si diventa». La sua opera e la sua vita hanno influenzato generazioni di studiose in tutto il mondo come nessun’altra scrittrice del Novecento, forse più ancora nel mondo anglosassone che in quello francese.
Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir è nata il 9 gennaio 1908 in una famiglia borghese di inizio secolo. Cresciuta in boulevard Montparnasse al numero 103, nel piccolo edificio d’angolo con boulevard Raspail […].
La futura scrittrice mostrò sin da bambina un temperamento appassionato e vivace e l’acutezza di uno spirito critico che la sosterrà sempre e la condurrà a far diventare sé stessa e le persone che facevano parte della sua vita materiale primario sia della nota autobiografia in più volumi, a partire dalle Memorie di una ragazza perbene, che dei romanzi che la consacrarono regina delle lettere francesi con I Mandarini.
Accovacciata sul balconcino di casa la bambina amava osservare il viavai dei passanti e dei lavoratori, ascoltare le loro voci, immaginare le loro vite. Prediletta della madre che si occupava personalmente della sua educazione, Simone dimostrò sin da piccola di essere destinata a una vita eccezionale. Anche il padre, seppure in maniera meno diretta della madre, appoggiava le passioni intellettuali della bambina e aveva composto per lei, in un quadernetto in similpelle nera, un’antologia che conteneva anche brani di Racine, Corneille, Molière e Hugo; fu proprio Georges a trasmetterle l’idea che al mondo non esisteva niente di più bello del mestiere di scrittore. […]
(enciclopediadelledonne.it, voce pubblicata nel 2024)
Da L’Indice dei libri
Clarice Lispector, La città assediata, Adelphi 2024
In un’intervista concessa a Julio Lerner nel 1977, Clarice Lispector definiva la propria scrittura «caotica, intensa, completamente fuori dalla realtà della vita», sottolineando di avere iniziato a scrivere poco dopo aver imparato a leggere, già da bambina. Forse per questo, la scrittrice mal sopportava certe analogie che la critica soleva instaurare, quale quella con l’esistenzialismo sartriano. Dicendosi timida e coraggiosa al contempo, puntualizzava: «Non sono una professionista: scrivo quando voglio. Sono una dilettante e ci tengo a continuare a esserlo», spiegando che questo le permetteva di mantenere la propria libertà. Sentiva i periodi fra la stesura di un romanzo e un altro come momenti di vuoto insopportabile: «Quando non scrivo sono morta», dichiarava con la sua congenita erre moscia che si adattava alla perfezione all’accento carioca, il bellissimo volto slavo, serio, le palpebre sottolineate dall’eyeliner come appaiono in tutte le immagini – fotografie in bianco e nero irresistibili per le copertine dei suoi libri –, palpebre che continuamente chiudeva quasi per raccogliere frammenti dal proprio mondo interiore e restituirli, uscendone esausta, all’intervistatore. Si ha la sensazione, guardandola, che la necessità di scrivere sia per lei stessa un mistero, che non sente il bisogno di sciogliere. Sempre nel corso di quell’intervista, parlando dei bambini per i quali aveva scritto storie, Lispector definiva gli adulti tristi e solitari, ma alla domanda di quando e perché ciò accadesse nella vita, si mostrava perentoria ed evasiva: «È un segreto, se non le spiace preferisco non rispondere. Sono triste perché sono stanca». La fine dell’intervista è impressionante: «In questo momento sono morta, ma rinascerò», dice riferendosi a quando avrebbe ripreso a scrivere. Quello stesso anno, però, Clarice Lispector muore davvero, di cancro, all’età di cinquantasette anni.
Nata in Ucraina nel 1920 da una famiglia ebrea costretta a emigrare per via delle persecuzioni razziali e stabilitasi in Brasile, Lispector ha sempre considerato il paese latinoamericano la sua vera patria dal momento che della Russia non aveva mai, letteralmente, calpestato il suolo, essendone venuta via in braccio, quando aveva due mesi. La scrittrice è, di fatto, una delle più grandi, se non la più grande scrittrice brasiliana del XX secolo. Malgrado l’ermetismo poetico della sua prosa abitata da epifanie e folgorazioni con venature di “misticismo laico” come nell’indimenticabile La passione secondo G.H. (1964), questa autrice «schiva e insieme popolare, anti-letteraria e insieme raffinatissima» come l’ha definita Rita Desti, ha conquistato un vasto pubblico proprio grazie a una voce talmente originale da renderla unica. Scoperta, per così dire, in Italia negli anni ottanta dalla piccola raffinata casa editrice torinese La Rosa, l’opera di Lispector ha suscitato l’interesse di editori quali Feltrinelli e Sellerio, approdando ad Adelphi che ne ha ripreso tre romanzi (Vicino al cuore selvaggio, 1987; Acqua viva, 2017; Il lampadario, 2022) e pubblicato per la prima volta nel 2019 Un soffio di vita (cfr. “L’Indice” 2019, n. 6) e ora La città assediata, scritto a Berna nel 1949 e terzo romanzo dell’autrice. Ancora una volta, la traduzione di questa lingua affascinante e difficile che si misura di continuo con l’indicibile è stata affidata all’impeccabile penna di Roberto Francavilla qui in collaborazione con Elena Manzato.
La città assediata è ambientato durante gli anni venti nel sobborgo di São Geraldo dov’è nata e vive la protagonista Lucrécia Neves, giovane donna che pur non essendo bella è dotata di un «eccesso di bellezza che non si trova nelle persone belle», la quale – come tutte le eroine di Lispector – è animata da una ricerca, quella di dare una forma al mondo che la circonda, divisa fra il desiderio romantico della metropoli, con i suoi teatri e giardini, e l’identificazione con il proprio borgo natale ai margini della modernità, che in qualche modo rimane indelebilmente associato a lei, diventando esso stesso un personaggio che prende forma specchiato nel suo sguardo inaugurale: «La ragazza non possedeva immaginazione bensì un’attenta realtà delle cose che la rendeva quasi sonnambula; aveva bisogno di cose perché queste esistessero». In preda a inquietudini senza nome che non è in grado di esprimere nella sua incantata ottusità, Lucrécia non è solo assediata dal proprio contesto, ma da sé stessa, è lei La città assediata. Clarice Lispector sosteneva che fosse stato il suo libro più difficile da scrivere. Narrato in terza persona e sviluppato in dodici capitoli secondo una cronologia lineare, segue l’itinerario di andata e ritorno della protagonista, fra città e campagna, che la vede transitare per diverse figure maschili: il tenente Felipe, il cui fascino risiede nella divisa ma disprezza São Geraldo e quindi la stessa Lucrécia; Perceu Maria tanto bello quanto vuoto; e il prospero commerciante Mateus Correia, che sposa realizzando il sogno della grande città subito frustrato dalle mansioni di casalinga e moglie. Tornata in paese dopo la vedovanza, troverà che anche São Geraldo ha subito un’inesorabile e deludente metamorfosi in nome della modernità. Focosa come un cavallo e irraggiungibile come una statua, sempre in bilico fra equilibrio e squilibrio, Lucrécia Neves si aggiunge alle tante memorabili figure femminili della narrativa di Lispector, anche qui in virtù della scrittura che ce la restituisce facendosi ancora una volta essa stessa protagonista indiscussa del romanzo. È forse semplicistico e livellante, come ricordava Luciana Stegagno Picchio, dire che un autore scrive sempre lo stesso libro, ma per Lispector la sentenza anziché riduttiva diventa illuminante: anche qui l’autrice sembra infatti scrivere con il corpo anziché con il cervello, e con il corpo e non solo col cervello va ricevuta La città assediata.
(*) Vittoria Martinetto insegna lingua e letterature ispanoamericane all’Università di Torino.
di Elena Petrassi
Segnaliamo una nuova voce apparsa quest’anno sull’Enciclopedia delle donne, a cura di Elena Petrassi: quella dedicata alla scrittrice, filosofa e femminista francese Simone de Beauvoir. Curata, documentata e ricca di informazioni, ne raccomandiamo la consultazione. Qui due brevi estratti dell’incipit.
(La redazione del sito)
«Sono una scrittrice, una persona la cui esistenza è interamente determinata dalla scrittura.»
(Simone de Beauvoir)
Icona dell’intellettuale “engagée”, scrittrice, filosofa, saggista, femminista, amante, Simone è stata una donna poliedrica che ha incarnato lo spirito esistenzialista della Francia del Novecento e consegnato al mondo alcuni dei libri che più hanno contribuito alla lotta dei movimenti femministi del secondo dopoguerra a partire dal celebre motto «Donne non si nasce, lo si diventa». La sua opera e la sua vita hanno influenzato generazioni di studiose in tutto il mondo come nessun’altra scrittrice del Novecento, forse più ancora nel mondo anglosassone che in quello francese.
Simone Lucie Ernestine Marie Bertrand de Beauvoir è nata il 9 gennaio 1908 in una famiglia borghese di inizio secolo. Cresciuta in boulevard Montparnasse al numero 103, nel piccolo edificio d’angolo con boulevard Raspail […].
La futura scrittrice mostrò sin da bambina un temperamento appassionato e vivace e l’acutezza di uno spirito critico che la sosterrà sempre e la condurrà a far diventare sé stessa e le persone che facevano parte della sua vita materiale primario sia della nota autobiografia in più volumi, a partire dalle Memorie di una ragazza perbene, che dei romanzi che la consacrarono regina delle lettere francesi con I Mandarini.
Accovacciata sul balconcino di casa la bambina amava osservare il viavai dei passanti e dei lavoratori, ascoltare le loro voci, immaginare le loro vite. Prediletta della madre che si occupava personalmente della sua educazione, Simone dimostrò sin da piccola di essere destinata a una vita eccezionale. Anche il padre, seppure in maniera meno diretta della madre, appoggiava le passioni intellettuali della bambina e aveva composto per lei, in un quadernetto in similpelle nera, un’antologia che conteneva anche brani di Racine, Corneille, Molière e Hugo; fu proprio Georges a trasmetterle l’idea che al mondo non esisteva niente di più bello del mestiere di scrittore. […]
(enciclopediadelledonne.it, voce pubblicata nel 2024)
di Marina Montesano
Itinerari critici intorno al libro «Arsenico e altri veleni» di Beatrice Del Bo, per Il Mulino.
L’accusa di avvelenamento, in particolare se rivolta a donne, è stata spesso intrecciata con quella di maleficio e pratiche magiche, creando una sovrapposizione che ha radici profonde. In tale contesto, il concetto di maleficio, inteso come l’uso di magia o poteri soprannaturali per fare del male, si confonde con quello di veneficio. Il legame tra genere femminile e uso di sostanze tossiche affonda le sue radici nel mondo antico, trovando espressioni emblematiche già nel mondo romano. Uno degli episodi più noti di questo fenomeno è il processo del 331 a.C., in cui, secondo Tito Livio, ben centosettanta matrone romane furono accusate di aver avvelenato i propri mariti.
Da qui possiamo tracciare una linea che attraversa i secoli fino al famigerato «Affare dei Veleni» che scosse la corte di Luigi XIV in Francia nel XVII secolo. La figura dell’avvelenatrice divenne sempre più comune, soprattutto a partire dal XII secolo, quando si verificò un forte revival della cultura classica.
Fu in questo periodo che la letteratura medievale iniziò a rappresentare le donne come figure potenti e pericolose, in grado di manipolare la magia e creare veleni letali. Il Roman d’Enéas, scritto attorno al 1160 e ispirato all’Eneide di Virgilio, introduce una maga ispirata a figure classiche come Medea, la famosa maga della mitologia greca che aveva ucciso i propri figli e utilizzato veleni nelle sue vendette.
In altre opere medievali, come il Cligès di Chrétien de Troyes o Amadas et Ydoine, appaiono donne dotate di straordinarie capacità magiche, esperte nell’arte di creare pozioni, spesso per curare o danneggiare a seconda del contesto. In questi testi, le maghe possiedono abilità che spaziano dalla guarigione di malattie come l’idropisia e la gotta, fino al controllo degli elementi e al potere di manipolare i sogni degli uomini. La figura di Isotta, nell’epopea di Tristano e Isotta, è particolarmente rilevante per capire come lo stereotipo dell’avvelenatrice venisse legato alla donna non solo per il suo potere magico, ma anche per la sua “alterità” culturale e geografica. Isotta, figlia della selvaggia Irlanda, viene vista come una nuova Medea, una “barbara venefica” le cui conoscenze sui veleni alimentano lo stereotipo della donna pericolosa, in grado di controllare la vita e la morte attraverso le sue pozioni.
Fuori dall’ambito letterario, la realtà storica mostra un quadro più complesso, come spiega il bel libro di Beatrice Del Bo, Arsenico e altri veleni. Una storia letale nel Medioevo (il Mulino, pp. 302, ill.17, euro17). Organizzato in una serie di brevi paragrafi tematici, scritto con uno stile narrativo vivace, il volume si legge con estremo piacere, ma è evidentemente frutto di accurate ricerche che consentono di presentare un quadro molto ampio. Come scrive Del Bo nell’introduzione: «Da un lato, sarà come visitare un museo del veleno, allestito con libri, immagini, erbe, fiori, funghi, animali medicine e minerali, e, dall’altro, sarà come leggere una silloge di racconti a sfondo noir, con la differenza che i protagonisti sono persone realmente vissute, e morte, secoli e secoli fa».
Le accuse di avvelenamento rivolte alle donne, soprattutto quelle di potere, erano spesso legate a contesti di crisi politica o dinamiche di lotte interne alle corti: come nel caso dei Visconti, sui quali l’autrice si sofferma. Ma se il genere colonizza l’immaginario in rapporto ai veleni, essi non sono certo uno strumento soltanto femminile e tantomeno sono soltanto appannaggio delle corti.
Gli ambienti mercantili non sono da meno, e anzi Arsenico e altri veleni parte proprio da lì, dalle spezierie, come quella gestita dalla famiglia Turconi a Verona durante la prima metà del XV secolo, i cui beni sono attestati da un inventario redatto nel 1438. Del Bo ne traccia una vera e propria storia culturale: partendo dalle botteghe dove si producono, ci parla di erbe e piante altamente tossiche, e poi degli animali, come i rospi e le tarantole, ma con una varietà inattesa. Ci sono poi i controveleni, ossia i rimedi per gli avvelenamenti, nonché una serie di casi divertenti (per chi non è coinvolto…) attestati dalle fonti: dai tortellini ai fichi, la minaccia può celarsi dove meno te l’aspetti.
(il manifesto, 24 ottobre 2024)
Da Avvenire – L’industria della maternità surrogata «è per sua natura criminale»; riduce la donna a merce e il bambino a oggetto di compravendita: per questo Kajsa Ekis Ekman, femminista svedese, giornalista e scrittrice, da anni impegnata in una battaglia contro la gestazione per altri (Gpa) e contro la prostituzione, gioisce per la legge approvata la settimana scorsa dal Parlamento che definisce il ricorso alla maternità surrogata “reato universale”, cioè perseguibile anche se i cittadini italiani vi fanno ricorso all’estero. «Sono stata molto felice quando ho saputo che la legge è stata approvata. È ora che la maternità surrogata venga riconosciuta per quello che è: un reato. Spero che la legge italiana costituisca un precedente e venga seguita da altri Paesi. Contrariamente a quanto mi aspettavo, non è stato il Nord, ma il Sud del mondo (India, Thailandia…) a vietare per primo la maternità surrogata. Finalmente un Paese del Nord lo segue. È importante che anche i Paesi in cui vivono gli acquirenti si assumano la responsabilità del comportamento dei loro cittadini».
Nel suo libro “Essere ed essere comprate” (Meltemi, pag. 250, euro18) lei sottolinea la somiglianza della maternità surrogata alla prostituzione. Un paragone che sorprende. Può spiegarne i motivi?
Entrambe sono industrie che mercificano le donne e trasformano in prodotti ciò che è al fondamento della vita umana. Nella prostituzione ciò che viene venduto è il sesso senza riproduzione. Nella maternità surrogata, si tratta di riproduzione senza sesso. In entrambi i casi, però, è la donna a essere venduta e le viene negato il punto fondamentale dell’attività stessa: non prova piacere dal sesso e non ottiene alcun figlio dalla riproduzione. In entrambi i casi è totalmente disumanizzata.
Lei è una femminista e come tale combatte la sua battaglia culturale contro la maternità surrogata. Ma è difficile, perché l’immagine prevalente è quella della coppia con problemi di sterilità che desidera realizzare il sogno di un figlio, e dall’altra parte la madre surrogata è presentata come una donna generosa, una sorta di fata madrina… In realtà sappiamo che si tratta di un business mondiale, e per questo difficile da ridurre o sradicare. Insomma, dottoressa Ekman, qual è la strada per abolire la maternità surrogata?
La maternità surrogata è, come disse la prima madre surrogata americana, Elizabeth Kane, un trasferimento di dolore. Una donna è infelice perché non può avere figli, ma quando compra la maternità surrogata, prende il figlio di un’altra donna. Le madri surrogate non sono robot. Hanno sentimenti e spesso sono traumatizzate dalla perdita del figlio. Inoltre, al bambino viene negato il diritto di conoscere la propria madre, il che rappresenta una violazione dei diritti dei bambini. Per rispondere alla domanda, la maternità surrogata non è difficile da sradicare: gli Stati devono solo smettere di essere complici. Se gli Stati non riconoscessero più la validità dei contratti di maternità surrogata, questa industria scomparirebbe da un giorno all’altro.
In Italia la legge sulla maternità surrogata “reato universale” è stata presentata dal centrodestra e ha spaccato la sinistra. Da un lato le femministe storiche plaudono a un tentativo di contrastare la gestazione per altri, pur con alcuni distinguo, dall’altro i partiti di opposizione al governo la considerano liberticida, punitiva per le coppie omosessuali maschili e discriminatoria per i bambini. Cosa ne pensa?
Qualsiasi movimento di sinistra che voglia essere credibile deve opporsi alla vendita dei bambini. Altrimenti è un movimento per i diritti dei capitalisti.
Qual è la situazione globale oggi? Ci sono casi gravi di sfruttamento delle donne che potete documentare?
L’industria della maternità surrogata è per sua natura criminale. Viola una serie di leggi nazionali e internazionali. Quando un Paese dopo l’altro la vieta, si sposta e si installa in un altro luogo. Quando l’India e la Thailandia hanno chiuso i battenti, si è spostata in Nepal e poi in Messico. Finge di essere un’attività rispettabile e crea siti web patinati, ma in realtà è una mafia. Ci sono casi in cui le donne vengono rapite e vendute per la maternità surrogata. Ci sono casi in cui lo sperma utilizzato non è nemmeno quello degli acquirenti, ma quello dei gestori, che semplicemente violentano le donne per metterle incinte. Ci sono estorsioni di ogni tipo. Alcune donne sono morte a causa della maternità surrogata, come Natasha Caltabiano e Brooke Brown.
Qualcuno dice anche che dovrebbe essere autorizzata la gestazione surrogata solidale, escludendo solo quella commerciale. Questo potrebbe eliminare il sospetto che ci sia uno sfruttamento dei più ricchi sui più poveri. È d’accordo?
Se non pagare un lavoratore elimina lo sfruttamento, allora dovremmo abolire del tutto gli stipendi! Nessuno dovrebbe essere pagato e tutti i lavoratori dovrebbero lavorare per solidarietà con i loro padroni. No? Be’, se non potete chiederlo a un lavoratore che produce il vostro telefono cellulare, perché dovreste chiederlo a una donna – che deve rimanere incinta per nove mesi, rischiare l’infertilità e la morte, sottoporsi a tutti i tipi di interventi medici dolorosi, astenersi dai viaggi e dalle attività sessuali, partorire e rimanere con cicatrici sul corpo a causa del cesareo – gratuitamente? A me non sembra solidarietà, sembra schiavitù.
Lei è svedese. Com’è la situazione nei Paesi scandinavi?
È molto negativa. Le leggi non sono al passo con la situazione. Nel frattempo, l’industria della maternità surrogata si è affermata qui e vende bambini a prezzi scontati dall’Ucraina. Nel 2011 c’è stata un’indagine statale che ha proposto di vietare la maternità surrogata, ma non è mai stata votata in Parlamento. Non esiste alcuna legge e le autorità sono complici di questi crimini gestendo i casi di adozione presso le nostre ambasciate nel mondo.
Un’ultima domanda: la maternità surrogata riduce la maternità a un lavoro, disumanizza la madre e in definitiva il bambino. Perché è così difficile da capire?
Perché quando i ricchi vogliono qualcosa dai poveri, fanno credere che sia un diritto umano ottenerlo.
Da il manifesto
«Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista», edito da DeriveApprodi. Il volume scritto da Silvia Lippi e Patrice Maniglier è il primo della nuova collana editoriale «Sabir». Un testo a metà tra l’invettiva, la ricostruzione storica e la critica radicale al maschilismo insito nella teoria freudiana e lacaniana. L’autrice e l’autore si affidano idealmente alla guida di Valerie Solanas che immagina un mondo costituito a partire dalle sole relazioni tra donne
Se la pratica politica dell’autocoscienza, il «partire da sé», l’idea di un posizionamento che parte dal corpo, anziché dal ruolo e dallo status giuridico, hanno segnato profondamente la storia dei femminismi negli anni Settanta, è altrettanto vero che negli stessi anni si andava dipanando una matassa molto più complessa: il rapporto tra psicoanalisi e femminismi inglesi, francesi e italiani, con approdi diversi eppure accomunati dall’idea secondo cui scavare a fondo significa decolonizzare l’inconscio dallo sguardo maschile e patriarcale per aprirlo ad una sessualità libera e indipendente, in poche parole al desiderio di ciascuna.
Coscienza e inconscio hanno a che fare sempre con il linguaggio, ma la prima risponde alla possibilità di prendere parola sulla propria condizione a partire dalla riflessività, il secondo richiede sicuramente un processo di emersione più lento e articolato perché assai lontano dalla razionalità.
Sinteticamente, infatti, si potrebbe dire che «prendere coscienza» di una condizione risponde più alle logiche sociali e culturali, mentre maneggiare l’inconscio significa riportare alla luce gli abissi che si manifestano sotto forma di sintomi, fantasmi, linguaggi scomposti e notturni. Pertanto, potremmo dire che se l’inconscio si manifesta sempre a partire dal proprio vissuto singolare, la coscienza può anche manifestarsi collettivamente.
In tal senso gli anni più floridi del rapporto tra femminismi e psicoanalisi sono senz’altro stati i primi Settanta della seconda metà del Novecento. L’approccio freudo-marxista di Juliet Mitchell, ad esempio, è stato importantissimo nel contesto anglosassone e poi ovunque per sostenere la tesi secondo cui nei femminismi socialisti riferirsi solo a Marx, senza tener conto di Freud, significa ridurre la portata di quest’ultimo nel momento in cui ha indicato nel profondo l’origine della scena edipica, a partire dalle figure paterne e materne, nonché della sessualità.
Secondo Mitchell, infatti, al di là della condizione di subalternità femminile prescritta dalla biologia, l’inconscio incamera anche la condizione sociale e culturale dell’asimmetria disegnata dal patriarcato divenendo un fatto psichico di matrice storica, non solo biologica.
Parallelamente, in quegli anni, in Francia si andava costituendo il gruppo fondato da Antoinette Fouque «Psy-et-Po» (psicoanalisi e politica), da cui poi emergeranno figure fondamentali per il femminismo radicale della differenza, quali Luce Irigaray, Julia Kristeva e altre.
Su quest’ultimo approccio diveniva centrale l’influenza di Jacques Lacan, dello strutturalismo e della centralità del linguaggio. Loro, a differenza di Mitchell, non faranno sconti né a Freud, né a Lacan, né all’intero plesso costitutivo della filosofia occidentale, al punto che la stessa Irigaray, come noto, con le sue idee centrate sulla valorizzazione della sessualità e del sesso femminile inteso come «speculum» e non come «specchio» del e dal maschile, sarà letteralmente cacciata dalla scuola lacaniana.
In quegli anni, in altre parole, il gesto dell’inconscio o, se vogliamo, il taglio dal logos maschile e dal fallocentrismo, in sintesi dall’ordine simbolico del padre, si sarebbe poi andato a sedere sull’ordine simbolico della madre e della sessualità femminile, non senza generare problemi, equivoci, conflitti intergenerazionali.
Da allora, a parte Judith Butler che ha criticato con veemenza alcune categorie lacaniane, collocandosi all’interno di ciò che potremmo definire «post-strutturalismo», a parte altre psicoanaliste interessanti come Manuela Fraire da una parte e Clotilde Leguil dall’altra, con la sua interessantissima critica al concetto di «genere» inteso come linguaggio incline all’ideologismo, nonché al nascondimento del valore singolare di ogni essere umano, donna o uomo che sia, e poco altro, non abbiamo assistito a vere e proprie scene di rottura rispetto alla tradizione teorica e clinica della psicoanalisi. Quantomeno non dal suo interno.
A rompere tutti questi schemi, invece, è arrivata da poco nelle nostre librerie, l’edizione italiana di “Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista” (pp. 256, euro 20) di Silvia Lippi e Patrice Maniglier, primo testo di una promettente collana di Derive Approdi dal titolo “Sabir”, diretta da Federico Chicchi, Luca Negrogno e Marco Rovelli.
Il volume, già uscito in Francia nel 2023, si presenta sin dalle prime pagine come un testo a metà tra l’invettiva, la ricostruzione storica del rapporto tra femminismi e psicoanalisi, la critica radicale al maschilismo insito nella teoria freudiana e lacaniana, provando con ogni mezzo a ritessere un rapporto critico e articolato tra femminismi contemporanei, psicoanalisi e politica.
Scritto da una psicoanalista e da un filosofo, un «noi» sempre declinato utilizzando un linguaggio al femminile, il volume mira a compiere una serie di mosse ardite e sorprendenti.
Proviamo a sintetizzarne alcune.
L’inconscio è sempre rivoluzionario, è senz’altro singolare, ma può anche diventare collettivo, connotandosi attraverso il filtro della «sorellanza» al fine di decostruire la triade eterosessuale «madre, padre, bambino/bambina»; per mettere in luce «l’impensato eteropatriarcale, coloniale, borghese, eventualmente anche omofobo e razzista», bisognerebbe decostruire i discorsi della psicoanalisi al fine di renderla più attuale e rispondente alle realtà sociali della contemporaneità; la «psicoanalisi sororale» è indispensabile per destrutturare il nesso tra essa e i contesti storici patriarcali in cui è nata; sul fronte femminista è bene, invece, recuperare il nesso che secondo Lippi e Maniglier esiste tra il Manifesto “SCUM” di Valerie Solanas e il #metoo contemporaneo per permeare di nuova psicoanalisi il femminismo odierno di quarta ondata.
Per fare cosa? Semplice, rispondono Lippi e Maniglier: «Per ricominciare con la psicoanalisi su un’altra strada. Non più quella del fallo, ma della sorellanza». Come noto, Solanas ha avuto una biografia alquanto complessa: spara a Andy Warhol che cerca di appropriarsi illegittimamente di un suo scritto lasciandolo inabile per il resto della sua vita, vive ai margini della società, trasforma la sua labile psiche in qualcosa che, secondo Lippi e Maniglier, «colpisce nel segno».
Ma cosa può voler dire davvero in questo testo «eliminare tutti gli uomini», nonché fare della vita «delirante» di Valerie Solanas qualcosa di rivoluzionario anche per la psicoanalisi, oltre che per il femminismo?
Innanzitutto, vuol dire definire le donne e tutto il femminismo odierno senza fare più riferimento al maschile se non attraverso il filtro delle relazioni reciproche, ma significa anche rimettere al centro il concetto di sorellanza intendendo con ciò il principio secondo cui una donna può diventare una sorella, mentre un uomo è sempre ciò che ostacola la sorellanza, proprio come accaduto quando molti uomini attaccavano il movimento #metoo considerandolo bigotto, vittoriano e criminalizzante.
Messa così, con questa sintesi, potrebbe persino apparire un libro a sua volta provocatorio, oltre che molto semplificato. In realtà, invece, i processi di decostruzione e ricostruzione presenti in ogni pagina di questo testo mirano fondamentalmente a sostenere la tesi secondo cui sia il desiderio che la politica non sono saggi, né mai si sono dati in questa forma e dunque perché continuare ad imbastire parole ipocrite basate ancora sull’egemonia del patriarcato e di una sua presunta normalità?
Certamente osare, spingere in avanti, generare tagli epistemologici e posizionati è sempre stato importantissimo per i femminismi. Tuttavia, relazionandosi con questo libro qualche piccola perplessità arriva.
Il concetto di sorellanza, ad esempio, proveniente dall’ideologia socialista ed emancipazionista non si è mai dato nella realtà della relazione tra donne e ciò perché sia la pratica dell’autocoscienza che la psicoanalisi hanno sempre dimostrato quanto di fatto ognuna sia singolare, per esperienza e per vissuto.
Inoltre, il patriarcato old school oggi si manifesta a sua volta come un “sintomo” votato spesso al rovescio violento e aggressivo, risentito, nonché affetto da gravi patologie del desiderio: siamo certe che “castrare” definitivamente il maschile sia davvero fecondo per i femminismi?
La discussione potrebbe continuare all’infinito, intanto non v’è dubbio che questo libro costituisce un nuovo taglio, qualcosa di radicalmente nuovo che senz’altro può contribuire al lavoro di decolonizzazione dal maschile dell’inconscio transfemminile e a cambiare la psicoanalisi.
Da Eredibibliotecadonne.it
Il libro L’Iliade cantata dalle dee (Solferino 2024) di Marilù Oliva si può leggere come un reportage della caduta di Troia, raccolto da quelle che c’erano, a dominare e intercedere o a farsi massacrare dal furore di Ares. Nessuna ebbe una sua versione. Ora è il momento di dargliela.
Gli dèi amano i sacrifici, e rispondono a coloro che li invocano solo se vengono saziati nel loro inesausto bisogno di bere sangue umano. Così nell’ultima notte di Troia Creusa, moglie di Enea, sorella di Ettore, lasciata indietro nella fuga dal marito intento a trascinarsi sulle spalle lo stanco padre Anchise e a tirarsi dietro per mano il figlioletto Ascanio terrorizzato, fissa allucinata l’altare di Apollo in preda alle fiamme al centro della città, e vede cosa deve fare.
Coglie l’attimo in cui un destino si manifesta. Ora. Adesso.
Adesso, se lo farà, se si consegnerà a loro, le dee si ricorderanno di cantare i destini maledetti di chi soccombette quella notte a Troia e soprattutto di loro, le donne, le regine, le amanti, le figlie, le schiave e le serve dei belligeranti: i grandi e tronfi guerrieri Achei, ributtanti macchine di distruzione e stupro, violatori di patti, altari, giuramenti, trattati, templi, in nome del possesso violento e del puro istinto di saziare l’infinita ingordigia di beni; e dei loro avversari, i perdenti di una guerra dichiarata, come tutte le guerre, per uno scopo ridicolo – qui, in questa, per la riconquista di una donna rapita, ma ci sono stati e ci saranno motivi ancor più futili.
Una guerra già persa già molti anni prima, quando Troia cominciò a luccicare di ricchezze e suscitare cupidigie, perdendo la semplicità dei modi di vita passati, quando la comunità viveva povera e unita sulle rive dello Scamandro. Ma questa storia l’ha già raccontata Christa Wolf in Cassandra, capitolo secondo di tutte le guerre perse: gli errori degli sconfitti.
Creusa sacrifica la sua vita tagliandosi il delicato collo con la spada dimenticata a terra. Si lancia tra le fiamme che avvolgono l’altare, provando la breve sofferenza che ha visto negli occhi di tanti agnelli e giovenche sgozzati ritualmente, la sua vita davvero ridotta a poca cosa confronto alla perdita del regno, del rango regale, forse anche del marito che proprio se la scorda nell’impeto visionario della fuga, già presentendo l’approdo sulle coste italiche.
Così, strappa alle dee l’impegno di ricordare. Di ricordarle, le donne di Troia, quelle Troiane che Euripide farà lamentare lugubremente in scena come spettri e che prima di essere un informe bottino bellico senza volontà erano spose fiorenti, giovani madri, figlie luminose, vecchie sagge. Le dee narreranno, allora, in prima persona, la loro versione dei fatti, ma lasceranno anche posto alla versione delle donne di Troia, le cancellate, le zittite, le stuprate, le profetesse inutili, le trascinate per i capelli, le impazzite dal dolore.
Qualcuno vuole usarti, qualcuno vuole essere usato da te. Qualcuno vuole abusarti, qualcuno vuole essere abusato da te cantava Annie Lennox in Sweet dreams, e tutti capivamo che l’enigmatico testo parlava della caduta dei sogni, delle dolci illusioni, nell’agire e nel patire reciproco, nel fare male e nel farsene, o farsene fare.
Perché Troia fu un campo di battaglia dove uomini e donne, dee e dei, giocarono una partita infame con carte truccate e barando a tutto spiano, in cielo e in terra, ma poi il destino assegnò a ciascuno la sua parte di dolore e lutto. Vero, Odisseo, Agamennone, Achille? Sì, i ritorni difficili. O il nessun ritorno. Un mare di lacrime che non servono a lavare il fiume di sangue che rigurgitò dallo Scamandro gonfio di cadaveri sulla pianura arsa dalla battaglia.
Le dee non sono super partes, appoggiano chi gli Achei chi i Troiani. Per motivi personali, ovviamente.
Afrodite sta con i Troiani di suo figlio Enea, come Ares che è il suo amante e fa quello che gli dice lei.
Atena glaucopide parteggia per i Greci, come potrebbe dimenticare i fumi dei sacrifici che si innalzano dalla città che le hanno dedicato, dalla vasta Attica, da Delfi, da Epidauro. Il sovrano di quell’isoletta isolata e boscosa, Itaca, è il suo protetto speciale, il suo campione, la mente più sottile di tutte, anche se ha l’aspetto trasandato di un pastore di pecore.
Teti cerca di difendere suo figlio Achille da se stesso, impresa impossibile da portare a casa. L’eroe perderà in battaglia l’amante Paride, e l’ira funesta per gli sgarbi subiti da Agamennone gli ricadrà sul capo come una granata deviata di fuoco amico. Così si scende nell’Ade da stolti, oppure ci si racconta che era destino. E già. Chi si può opporre al destino.
Era non può sopportare il principe Paride da quando le ha negato il pomo della più bella assegnandola a Afrodite, come era da aspettarsi da un ragazzino senza giudizio incapace di apprezzare il fascino superiore di una donna di potere. Quindi, morte ai Troiani.
Per Eris, dea della discordia, la guerra di Troia è un puro godimento, un banchetto succulento, una torre di babà alla crema in cui tuffarsi, occasione quasi didattica di verificare quanto danno riescano a farsi gli uomini lasciati a loro stessi e alle loro grandiosamente puerili mire. Basta impegnarsi pochissimo, stuzzicandoli appena un minimo in battaglia, e poi lasciarli giocare alla guerra fino all’inconcepibile, all’irreparabile, alla catastrofe. Sempre un vero divertimento, anche conoscendo a memoria il finale.
Elena. Come si può parlare del sogno erotico di ognuno che l’abbia o non l’abbia vista, del più bel corpo che abbia mai posato il piede al suolo, del sembiante più citato raccontato descritto immaginato della storia. A lei questo privilegio ha causato solo danno, iniziando con il rapimento a dodici anni da parte di Teseo, che da vero rispettoso gentleman ateniese quale è non la stupra veramente, ma si limita a sodomizzarla, così la giovane può vantaggiosamente arrivare vergine al matrimonio con Menelao, tra eroi certi dispetti non si fanno, si sa che c’è un certo codice cavalleresco di mezzo. Passata di mano al biondo Menelao, deve essere talmente appagata dello status maritale che persino l’effeminato, hollywoodiano, profumato e inconsistente principe troiano Paride in visita a Sparta le deve sembrare un diversivo passabile, imbarcandosi con lui senza troppe domande verso la Troade per nuove avventure. Ma davvero Elena pensava che lì non l’avrebbero odiata per la spedizione punitiva nel frattempo decisa dai principi greci, che le principesse asiatiche le avrebbero aperto le braccia, le figlie e le nuore di Priamo l’avrebbero considerata una di loro? Che sia un po’ debole di mente, come spesso capita alle bionde? Elena a Troia è un simulacro, ma non come pensava e metteva in scena Euripide, prendendo la situazione alla lettera e immaginandola parcheggiata in Egitto presso il re Proteo, e concupita – of course – dal di lui figlio Teoclìmeno, mentre a Troia gli uomini si squartano per un fantasma. Elena a Troia è un ectoplasma ambulante, un corpo fisicamente vivo ma psichicamente morto, una donna senza legami con alcuno, a parte qualche incursione sempre più rara di Paride nel talamo principesco. Il pensiero di farla finita buttandosi dalle mura le gira intorno, la alletta. Forse la fine dell’esistenza corporea le può dare quel sollievo dal destino di diventare preda di qualcuno che non trova in nessuna terra e nessun porto. Morire. Dormire. Sognare forse. Elena a Troia teneva Shakespeare sul comodino?
Ma un’altra salute mentale vacilla in quegli ultimi spossanti cinquantuno giorni di una guerra durata dieci anni. Appartiene a Cassandra, la figlia di Priamo ed Ecuba, con un fardello più pesante della bellezza rapinosa da portare: il destino di profetizzare senza essere creduta. Viene tenuta a distanza dalla città e dalla sua stessa famiglia come una paria, una deficiente assoluta; non è infatti concepibile, se non nella follia più totale, che non si sia concessa al suo signore e dio Apollo, infrangendo l’obbligo sacerdotale di unirsi fisicamente e misticamente al dio veggente. Bisogna andare a letto col produttore per fare il film, da quando esiste il mondo, ma lei no, la campionessa di queerness, schifa il dono della vista e il dio che glielo porge. I futuri stupri subiti dal sacrilego Aiace di Oileo per oltraggiare il tempio di Apollo tramite la sua persona, e quello di Agamennone, fattala preda di lusso nella sua tenda, non saranno peggiori del possesso non realizzato dal dio: una mera conseguenza della caduta dalla sua condizione regale, un atto praticamente dovuto sulle donne nemiche. Niente di strettamente personale, semplice lurido ministeriale protocollo di guerra. Rifiutare un dio fu il peggio, l’irrimediabile, il resto brucia la pelle e l’orgoglio, ma non incenerisce una vita. Apollo sì, lei l’ha bruciata. Il dono della vista glielo ha dato ugualmente, se si è la prescelta è inevitabile, ma con una tara permanente in pegno. Sei una bugiarda, principessa. Tutta la vita deve sentirselo dire. Quindi adesso Cassandra si aggira come una disoccupata demente nei sordidi miasmi della Troia degli ultimi giorni, dove tutti aspettano la fine come una espiazione dovuta e troppo a lungo rimandata, il sollievo di un colpo di grazia liberatore sul collo appoggiato al ceppo. È possibile che le due reiette si siano viste? A palazzo, sicuramente, ma non in quel passarsi accanto occasionale, da vicine di condominio. Viste con quel posarsi dello sguardo della meraviglia, della prima volta che si vede una cosa, un essere.
Se è stato, è Cassandra che ha visto Elena, perché è il destino della spartana essere guardata, e di chi la vede sciogliersi nel cuore come un fiocco di neve. Per una volta si posa su Elena uno sguardo che non possiede, non consuma, non depreda; fisso, bloccato nel riverbero di quella bellezza sovrumana, lontana anni luce dalla insignificanza fisica di chi guarda, eppure intrecciando un dialogo senza parole, come un riconoscimento a distanza di un’essenziale identità, pur dalla siderale lontananza che separa la divina bellezza da tutto il resto. Sorelle di un errore nel dna della felicità, sorelle del senso di colpa, una di avere provocato – ma come poteva? – la guerra e l’altra del non averla saputa evitare anche avendola mostrata di continuo a tutti. Avranno corso come ragazzine nei boschetti sacri ad Afrodite, intrecciato l’un l’altra ghirlande di viole sui capelli odorosi di terebinto, ricordato la sera davanti al fuoco i giochi della loro infanzia dorata nei giardini dei palazzi reali, diviso la coperta ricamata ad arabeschi nelle notti umide della Troade? Mentre tutto intorno crollava, le loro disastrose vite hanno conosciuto un lampo di calore umano a scaldarle. È possibile. Ma non è scritto, non è tramandato. La caduta di Troia non contempla possibili resurrezioni a margine. Incontri come questo non fanno parte dell’Iliade già scritta. Possono trovare posto in quella ancora da scrivere, ucronica, fantascientifica o fantapolitica, che le generazioni di aede del qui e ora sentono l’impellenza di cantare, fermandosi ad ascoltare quella parte di canzone espulsa come un vangelo apocrifo dai libri canonici. Cantami o diva, sì, ma cantami tutto, di loro, di me che le ascolto oggi, dello Scamandro tornato azzurro. Sweet dreams are made of this.
Da il manifesto
«Il ricordo di un sogno», l’ultimo libro di Rosi Braidotti edito da Rizzoli. Un memoir che omaggia le sue antenate, a partire dalla madre Bruna. E che attraversa il secolo scorso. I luoghi narrati partono da Latisana, nella bassa friulana, e arrivano fino all’Argentina, passando per l’Australia e il ritorno in Europa. Tra il dolore di guerre e distruzioni.
«Scrivi, Rosi, che la scrittura è amore, compassione e perdono». Brillano queste tre parole nell’ultimo libro di Rosi Braidotti, Il ricordo di un sogno (Rizzoli, pp. 407, euro 19), memoir in cui la filosofa femminista rende grazie alle sue antenate fin dall’eco del sottotitolo: una storia di radici e confini. Quella anzitutto di essere situata in una nascita, nel 1954 a Latisana, nella bassa friulana, e ritrovarsi presto migrante, in Australia e poi nuovamente in Europa, a Parigi e Utrecht in particolare.
A esortarla fin da ragazzina alla parola scritta è la madre Bruna, pietra angolare del libro e della sua esperienza di figlia che dal sé passa al «noi». Descritta come inventrice di mondi, Bruna è una moderna Sherazade. Se nelle radici riecheggia la foto che una bambina trova dentro un baule e che consente la ricerca che la porterà a trovare l’origine della sua famiglia sparsa nel mondo, nei confini abita il Novecento carico di guerre, dolori e liberazioni. Il ricordo di un sogno è il frutto maturo di un patto d’amore e al contempo, nel metodo, la possibilità di conoscere lo scandaglio appassionato che ha distinto le diverse traiettorie teoriche che in questi anni hanno segnato il percorso critico di Rosi Braidotti.
Filosofa femminista, è a lei che dobbiamo volumi importanti che rimangono delle letture decisive di generazioni di studiose, accademiche e attiviste. Da Soggetto nomade (1995, la cui prima edizione italiana è per Donzelli) alla trilogia dedicata al Postumano (di cui DeriveApprodi ha cominciato la pubblicazione nel 2020 ma che indica un’acribia trasformativa e rara dell’idea stessa), notevoli sono gli innesti che costellano saggi come Dissonanze (La Tartaruga, 1994) o il piccolo e splendente Madri, mostri, macchine (manifestolibri, 1996) e altri come In metamorfosi (Feltrinelli, 2003) o Trasposizioni (Luca Sossella, 2008). A raccontare insomma il lavoro di Braidotti in questi anni, nelle sue traduzioni in svariate lingue (oltre 20) e anche qui in Italia – di cui si ricordano almeno i nomi di Anna Maria Crispino e, in tempi più recenti, di Angela Balzano – viene a illuminarsi una direzione il cui filo è da riannodare dal 2003, ovvero dal suo contributo al volume Baby Boomers, edito da Giunti e scritto insieme a Serena Sapegno, Roberta Mazzanti e Annamaria Tagliavini e che ora si può leggere, con una selezione di altri testi di orientamento simile e più strettamente autobiografico, in un libro edito da Castelvecchi del 2021 e dal titolo Fuori sede.
Il ricordo di un sogno è la memoria, storica e inconscia, di una parabola esistenziale di cui Braidotti è sismografo scrivente e che specialmente omaggia le donne della sua famiglia, talvolta altrettante bambine – come Maria quando spunta dal buio di una sofferenza materna o cammina in solitudine – da Udine verso Modigliana, vicino a Firenze – per raggiungere uno dei campi profughi in allestimento «per gente in fuga come lei». Siamo nel 1917 ma gli eventi raccontati, moltissimi, scandiscono la devastazione anche della seconda guerra mondiale, per esempio nella fisionomia di frontiera che assume il Friuli-Venezia Giulia durante la guerra fredda con una conseguente e profonda dispersione.
L’albero genealogico è il genogramma tracciato dall’autrice, i cui luoghi del mondo sono numerosi, ed è tuttavia un’operazione intimamente politica, là dove l’intreccio di Gilles Deleuze e Luce Irigaray (per nominare solo due dei riferimenti cruciali di Braidotti) si esprime in questo ultimo libro come il romanzo di una vita da sempre in divenire. Archivio desiderante e bussola per trovare il proprio posto, a partire da un incontro autentico capace di una promessa amorosa da enunciare al futuro.
Fin dalla «finestra cosmica» da cui la piccola Rosi si sporge, inclinazione e racconto di una differenza sessuale mai punto di arrivo bensì di immaginari possibili, si arriva allora alla spazialità del soggetto nomadico. La pastoia delle lingue frequentate, delle parole che scivolano e slittano «fuori dal senso comune», sono ulteriori modi di comporre il «rizoma» che si inchioda nella intelligenza di Braidotti a partire da immagini generative: come quella del rododendro nominato per indicare l’oleandro e di cui, fino all’età di sei anni, non riesce a pronunciare la lettera «r». In questo salto di «ododendi» e «oleandi» il corpo, più avanti, assume l’anatomia intraspecie del Tagliamento che finisce in laguna e che le fa esclamare «My heartland», cuore ed entroterra. Si configura in un «sistema cardiaco-geografico indivisibile» ed è una delle tante visioni oniriche e immaginifiche delle mappe di Rosi Braidotti, che la complessità la prende molto sul serio da sempre. Come l’amore, la compassione e il perdono che ognuna deve a sé stessa, nel passaggio delle ere geologiche e delle età.
Da Doppiozero – Umanità, identità e dignità sono motivi ridondanti nell’opera di Han Kang, scrittrice nata nel 1970, prima sudcoreana – e diciottesima donna nella storia – a vincere il premio Nobel per la letteratura, assegnatole il 10 ottobre 2024. La sua opera è composta da otto romanzi, una raccolta di poesie, e alcuni racconti, più un’installazione di videoarte. Kang ha come caratteristica peculiare uno sguardo penetrante sul suo tempo e la sua cultura di appartenenza, capace di scendere in profondità per poi risalire all’origine dei danneggiamenti che innescano cause e effetti delle sue storie. Il suo stile narrativo riesce a suscitare impressioni forti in chi legge, tali da radicarsi nell’animo per un tempo superiore a quello di lettura. La natura di questo radicamento si rinviene nei luoghi che caratterizzano la vita di Kang sin dalla nascita, cioè Gwangju e il villaggio di Suyu-ri, che riflettono gli eventi principali della Corea del Sud a partire dalla seconda metà del Novecento. La città di Gwangju, luogo di nascita di Kang, è lo scenario di una sanguinosissima rivolta studentesca che ha mietuto più di 2000 vittime, anche se le cronache governative dell’epoca ne riportano solo 150. La comunità studentesca insorge il 18 maggio 1980, coinvolgendo tutta la città per ben dieci giorni, ribellandosi al direttore dei servizi segreti Chun Doo-hwan che solo il giorno prima aveva dichiarato lo stato d’assedio in Corea del Sud, sciogliendo il Parlamento e chiudendo le Università. Chun, insieme ad altri due generali dell’esercito, si era impadronito del potere conquistato da pochi giorni dal neopresidente Choe Kyu-hah, successore del generale Park Chung-hee, attuatore dello Yusin, dittatore della Corea del Sud dal 1963 al 1979 e padre della presidente Park Geun-hye, a lungo incarcerata per corruzione e abuso di potere, poi libera dopo il perdono del presidente Moon Jae-in ottenuto a fine 2021. Chun avrebbe ricoperto lo stesso ruolo di Park dal 1980 al 1988. Per maggiori approfondimenti rimando all’ottimo Storia della Corea: Dalle origini ai giorni nostri di Maurizio Riotto (Bompiani 2005). Proprio nel 1980 Kang si trasferisce a Suyu-ri, a nord di Seoul, luogo al confine tra campagna e città, che da ri – villaggio – passa a dong – quartiere – inglobato di diritto dall’urbanizzazione velocissima e dilagante della capitale sudcoreana. Così veloce che le fogne di Seoul ancora oggi non reggono lo smaltimento della carta igienica nei WC.
Mentre scrivo, la bio sul sito ufficiale di Han Kang non è stata ancora aggiornata: non ha ancora vinto il premio Nobel, sono citati svariati riconoscimenti internazionali. In Italia i romanzi di Kang sono stati tradotti dall’inglese, questione che, così come per i sottotitoli o il doppiaggio delle serie televisive coreane, molto spesso priva l’esperienza di fruizione di alcuni importanti significati e modi di dire pertinenti alla coreanità della scrittrice. Non abbiamo accesso a tutti i titoli pubblicati, ma a una selezione – edita da Adelphi – di quelli che sono considerati i più grandi successi della scrittrice, a partire da La vegetariana (2017), inserito dal New York Times tra i 100 migliori libri degli ultimi venticinque anni, seguito poi da L’ora di greco (2011), Atti umani (2014), e dalla raccolta di due racconti Convalescenza distribuita dal 2019 (le date riportate per i romanzi riguardano l’uscita in Corea del Sud).
Nei racconti Convalescenza e Il frutto della mia donna sono condensate le linee narrative delle sue maggiori opere, dove lutto e perdita si intersecano con salute mentale e fisica, agenti corrosivi del corpo umano che in realtà assorbe, impotente, lo stato generale della società. Kang fa pronunciare alla protagonista femminile di Il frutto della mia donna delle parole molto significative: «Questo paese è marcio dentro!», «Qui non può crescere niente, non lo vedi? Non intrappolato in questo… in questo posto soffocante e assordante!». La donna è nel bel mezzo della sua metamorfosi in vegetale, annunciata dalla comparsa di lividi azzurrini sulla sua pelle, che in La vegetariana si convertono nella macchia mongolica sulle natiche della protagonista Yeong-hye, un “ornamento” naturale che triggera le fantasie artistico-erotiche del cognato, poi soddisfatte dalla realizzazione di un body painting incentrato su fiori dipinti attorno a quel “petalo” azzurro. Yeong-hye prima rifiuta la carne e poi i vestiti, in un atto di ribellione contro le aspettative sociali e la sua disconnessione dalla realtà circostante. Attraverso i cambiamenti nell’abbigliamento di Yeong-hye, il romanzo riflette la sua evoluzione interiore e il suo distacco dalla società. I vestiti diventano un simbolo potente della tensione tra il desiderio di libertà individuale e le pressioni conformiste della cultura di appartenenza.
Gli abiti ordinari e conformisti da carnivora, semplici e funzionali, riflettono il malessere della corruzione del corpo in particolar modo per quanto concerne le sue semplici scarpe nere, tra le più banali mai viste. Il vestirsi come termometro della salute fisica e mentale ritorna anche in Convalescenza, in cui la protagonista prima della morte della sorella indossava «vestiti anticonformisti dai colori vivaci» e «scarpe bianche e gialle», mentre al tempo della narrazione, afflitta da una caviglia in cancrena e uno stato di evidente depressione indossa solo il nero. Questo colore ritorna anche in L’ora di greco come carattere distintivo della «tenuta da veglia funebre» della protagonista ripiombata in uno stato di completa afonia per la seconda volta, dopo la prima esperienza di silenzio forzato avvenuta al compimento dei sedici anni «quando, di colpo, il linguaggio che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito». L’elemento di fastidio esplicitato con il ricorso a una metafora vestimentaria non è la voce, ma la facoltà di comunicare in una società che sostanzialmente silenzia qualsiasi parere divergente dalla massa. Il far coincidere in tutte le narrazioni i cambiamenti di visione del mondo, di salute e abbigliamento sottolinea come la moda e i vestiti siano, nella visione di Kang, strumenti di controllo sociale e di giudizio. Convalescenza viene pubblicato in Corea nel 2013, l’anno in cui Park Geun-hye diventa presidente. In un’intervista di Mark Reynolds in lingua inglese dal titolo “Han Kang: To be Human”, pubblicata sul sito Bookanista, Kang commenta la presidenza di Park come un momento di sofferenza per parecchie persone, che l’ha portata a rivalutare l’incidente di Gwangju per trovare una risposta al quesito “cosa ci rende umani?”. Questa è la genesi di Atti umani, il romanzo in cui Kang ripercorre la rivolta studentesca attraverso gli occhi di Dong-ho, un ragazzo che classifica oggetti banali del quotidiano come accessori e indumenti per riconoscere le vittime e dar loro giusta sepoltura, nella speranza di trovare i corpi della sorella e di un amico. Capi e oggetti sono elementi reali, concreti, che possono consumarsi, ma non essere trasformati dalla mala-informazione dei poteri dominanti.
In Atti umani Kang fa una metariflessione sul ruolo di chi riporta il suo punto di vista e sullo statuto intersoggettivo, facendo capire che il suo mestiere di scrivere è un modo di connettere chi legge all’evento, così come accade nella relazione di connessione madre-figlia durante la gestazione: si è avvolti da un mondo dove si assorbono e poi si rielaborano i pensieri dell’istanza autoriale. E qui si arriva al romanzo non ancora pubblicato in Italia, il penultimo che precede I Do Not Bid Farewell (2021), The White Book (2016), commentato dall’autrice nel 2017 in un’intervista a The Guardian.
Qui spiega che la litania “non morire” presente in Atti umani risale alla sua gestazione, confermando la visione epigenetica sposata dalla comunità scientifica relativa alla formazione del carattere e alla comparsa di eventuali scompensi. La madre di Kang, prima di partorire lei e suo fratello, ha perso ben due figli, di cui sua sorella morta due ore dopo la nascita, la cui storia è raccontata in The White Book. Durante la gravidanza che avrebbe poi dato alla luce Han Kang, la madre era in pessime condizioni di salute e ha pensato più volte all’aborto, poi ha cambiato idea dopo che ha sentito il feto calciare forte. Kang però è convinta che quel malessere generale abbia condizionato la sua visione del mondo, così come emicranie debilitanti, il cui dolore lancinante ha profondamente plasmato la sua comprensione del male di vivere. Kang è maestra di “passioni tristi” – qualsiasi sia oggi la loro accezione – per cui crea delle immagini che si abbarbicano nell’animo come piante rampicanti, radicate in rabbia e mestizia, come si legge in Il frutto della mia donna.
Questo passaggio mi ha ricordato il componimento del poeta nordcoreano Cho Sŏnggwan, dal titolo Chŏju (‘Maledizione’), riportato da Riotto:
Fiori, non sbocciate!
Uccelli, non cantate!
Prima che sulla Terra svanisca per sempre l’ombra dello Yusin,
Che come prezzo riceve il sangue del popolo, a fiumi.
Prima di dare la morte a te, farabutto, cento e mille volte!
Oh, inestinguibile rabbia!
Oh, eterna maledizione!
Il Nobel di Kang dimostra la capacità dei sudcoreani di provare passioni collettive, comunitarie, che oggi affascinano il mondo intero in tutte le loro manifestazioni, auliche e pop.
Da La Stampa – Tuttolibri – Scrivono forsennatamente, ad amici, amanti, famigliari. Quella degli epistolari è una scrittura più intima e meno controllata rispetto ai libri. Diventano quindi meravigliosi squarci di quotidianità, dove si parla di tutto, anche di cuoche che non si trovano, di gestione domestica, di cose apparentemente minime, ma che ci rendono più vivi i personaggi famosi. Vanessa Bell e Virginia Woolf si scrivono spessissimo, quasi tutti i giorni. Sono lettere spontanee e disinibite, che rispecchiano gli alti e bassi, gli umori dello scorrere della vita, dei rapporti con amici, famiglia e amanti, piene di giudizi e anche pettegolezzi che rompono il rigido schema puritano e bigotto dell’epoca vittoriana. A noi sono arrivate quasi quattromila lettere a testa: di queste Vanessa ne ha scritte a Virginia 373, quella di Virginia a Vanessa sono 495. In Se vedi una luce danzare sull’acqua Liliana Rampello, una delle più importanti studiose italiane della Woolf e socia fondatrice dell’Italian Virginia Woolf Society, ne ha selezionate 72 di Vanessa e 99 di Virginia, quasi tutte inedite in Italia. Una scelta “arbitraria”, come avverte la curatrice, dettata dalla volontà di rappresentare al meglio la natura della complessa relazione tra le due sorelle. Le seguiamo dalla giovinezza del primo cognome, quando ancora si chiamano entrambe Stephen (figlie di Sir Leslie) e la famiglia abita ancora al famoso indirizzo di 22 Hyde Park Gate, passando per i numerosi lutti, le prime manifestazioni dell’infermità mentale di Virginia fino al passaggio a Bloomsbury e all’altro famoso indirizzo di Gordon Square, frequentato anche da Clive Bell e Leonard Woolf, che diventeranno i rispettivi coniugi e le sorelle sbocciano nelle proprie arti: Virginia nella scrittura e Vanessa nella pittura.
Tanto è stato scritto sulle due sorelle e sulla natura del loro rapporto, ma in questa scelta si percepisce il profondo affetto che le lega e si confuta una volta per tutte l’idea di una rivalità tra artiste (l’antagonismo è un automatismo di un certo tipo di narrazione, quando si ha a che fare con due donne estrose, affascinanti e intelligenti). Piuttosto c’è una sotterranea vena di gelosia, gelosia buona come spesso accade tra sorelle. E una certa invidia di Virginia per la maternità di Vanessa, che lei rifugge ma da cui allo stesso tempo è attratta. Lei non sarà mai madre, ma sarà sempre una zia affettuosa e affezionatissima per i figli di Vanessa e la sprona a non farsi fagocitare dalla famiglia, dalle incombenze e a perseguire nella sua arte. Si scrivono molto di arte, di pittura, di scrittura, sicure entrambe della propria strada, Virginia anche del proprio successo, perché più di una volta parla di una sua biografia, che non vorrebbe mai scrivere. Intorno a loro gira il vorticoso circolo di Bloomsbury e i vari personaggi che lo hanno animato entrano ed escono nella corrispondenza con la stessa facilità di cameriere, figli, banalità, spese.
Virginia si firma Billy la Capra e soprannominerà la sorella Delfino. La prima è più estroversa, ironica, tagliente, volatile e sembra quasi innamorata della sorella, più solida, seppure donna sensuale e seduttiva, che diventa il punto di riferimento di Virginia alla morte della madre e poi del padre. Più tardi le cose si capovolgeranno quando Vanessa perde il figlio volontario nella guerra di Spagna ed è Virginia il faro a cui puntare per trovare un porto sicuro in cui rifugiarsi.
Le lettere coprono il periodo dal 1904 al 1941. Sono divise in tre sezioni: “Ragazze” (1904-1912); “Penna e pennello” (1913-1936); “Amore e morte” (1937-1941).
Già dai titoli dei capitoli si può intuire la scansione della vita. La giovinezza di ragazze privilegiate in una casa dove si respira arte e letteratura, dove l’educazione è parte della quotidianità, dove si viaggia e si studiano le lingue. Una vita felice e più o meno spensierata, almeno finché non arriveranno i lutti a creare la rottura. Poi il periodo della maturità, della fecondità artistica e di donne, ognuna con la propria personalità ma sempre legatissime, che si cercano e si raccontano tutto, Nessa (l’altro soprannome) più riservata e meno espansiva, Virginia un turbine di sensazioni, umori e sensazioni. E infine l’arrivo della guerra, altri lutti, altro grigiore che si addensa intorno alle sorelle. La vita di Vanessa è devastata dalla morte del figlio Julian, partito per combattere contro Franco in Spagna. La depressione di Virginia torna più potente che mai. Si scrivono comunque tutti i giorni, una si aggrappa alla penna l’altra ai pennelli per trovare un minimo di serenità ma nelle lettere nessuna delle due indulge nel lutto o nel dolore. Siamo comunque in quel tipo di Inghilterra e con quel tipo di educazione. Il 1941 è già cupo di distruzione, le bombe cadono su Londra, macerie ovunque, case distrutte (compresa la sua). Il finale è noto e Vanessa sopravvive altri vent’anni alla sorella, «fragile ma non sopraffatta», anche se ormai gli anni d’oro sono affondati nell’acqua insieme ai sassi con cui Virginia si è riempita le tasche.
Alla Libreria delle donne di Milano si possono trovare tutte le edizioni originali (i “libretti verdi”) delle opere di Carla Lonzi e degli scritti di Rivolta Femminile.
La redazione
Da Doppiozero – «Non esiste la meta, esiste il presente. Noi siamo il passato oscuro del mondo, noi realizziamo il presente». Con queste perentorie parole si chiude Sputiamo su Hegel, forse il più noto scritto di Carla Lonzi (1931-1982), storica e critica d’arte assai acuta, poi filosofa femminista radicale, il cui pensiero non convenzionale è all’origine del femminismo della differenza sessuale. Annarosa Buttarelli, nel suo recente Carla Lonzi. Una filosofia della trasformazione. Milano, Feltrinelli 2024, un breve ma denso profilo intellettuale e politico, pubblicato nella collana Eredi a cura di Massimo Recalcati, scrive che il rivoluzionario testo, stampato nell’estate del 1970, rappresenta per la sua autrice «il primo pericoloso passaggio – in pubblico – verso la liberazione». Proprio quell’estate, Lonzi aveva fondato, con la pittrice Carla Accardi e la giornalista e attivista Elvira Banotti, il movimento Rivolta femminile, il cui manifesto in sessanta punti aveva tappezzato i muri di Roma e poi di Milano. Liberarsi dall’hegeliano rapporto servo-padrone, riportato alla millenaria oppressione della donna da parte del patriarcato, è uno dei nodi della filosofia della trasformazione di Lonzi che, attraverso autocoscienza, deculturazione e rivolta femminile, voleva letteralmente «sputare Hegel fuori da sé», e fuori dalle altre donne trasformate. «La donna così com’è è un individuo completo», scriveva Lonzi, «la trasformazione non deve avvenire su di lei, ma su come lei si vede dentro l’universo e su come la vedono gli altri».
Parole chiare, e forse scomode, soprattutto allora, che hanno distinto un pensiero filosofico d’avanguardia, molto amato e negli anni costantemente approfondito.
Non pochi sono stati infatti i contributi di studiose femministe, storiche dell’arte, critiche o filosofe, prevalentemente donne, che hanno affrontato l’opera mirabile (e ineludibile) di Lonzi, avvicinandola dal lato filosofico o da quello della critica d’arte. Dalle prime ricerche sul femminismo di Maria Luisa Boccia negli anni ’90 (L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, Milano 1990), fino ad arrivare, appunto, a quelle attuali di Buttarelli, secondo la quale Lonzi è la pensatrice femminista più amata al mondo. Certamente è impossibile immaginare la storia del femminismo in Italia senza di lei.
Su questo non si può non concordare, al di là delle specifiche passioni, o appropriazioni, scatenate da un pensiero filosofico tanto originale e al contempo rigoroso e concreto, che accende l’interesse anche delle nuove generazioni di giovani irriducibili, che oggi rifiutano ogni forma di patriarcato e pretendono confidenza con le parole e le forme più feconde del femminismo del passato. Anche per questo, forse, si stanno ripubblicando le preziose opere, ciclicamente irreperibili, della prima e della seconda Lonzi, la critica d’arte e la filosofa femminista, grazie all’iniziativa della casa editrice La Tartaruga (con la supervisione e cura proprio di Buttarelli), che segue il precedente sforzo di Sandro D’Alessandro e della sua Et al./edizioni, che aveva già riproposto, tra 2010 e 2011, diversi titoli dell’autrice, di nuovo esauriti in tutte le edizioni (o con prezzi alle stelle su e-bay).
Io sono stata fortunata, ho ritrovato in casa la prima edizione di Sputiamo su Hegel, quel piccolo libretto con la copertina verde degli Scritti di Rivolta femminile, la casa editrice fondata da Lonzi, testimonianza aurorale del femminismo di mia madre, Grazia Centola, che poi la intervistò nel 1981 per “Quotidiano donna”, il suo giornale. Proprio quel «sottile libretto verde» che, scriveva mia madre, «ha aperto a molte di noi, sugli inizi degli anni ’70, una strada che ci avrebbe portate lontano». Molto lontano. Attraverso una profonda irrinunciabile trasformazione del modo di pensare e di essere delle donne, della cultura borghese dalla quale spesso provenivano, del marxismo e del loro stesso fare politica, anche attivamente, nei partiti o gruppi della sinistra, della psicanalisi, della famiglia e semmai dei figli, dei rapporti uomo-donna, ma anche tra donne, del proprio corpo, dei desideri, della sessualità.
La conversazione, intitolata “Con il problema dell’uomo alle spalle”, verteva sull’ultimo libro di Lonzi, intitolato Vai pure, allora da poco pubblicato sempre da Scritti di Rivolta femminile, spregiudicata analisi a due voci del rapporto di coppia che, nei diciassette anni precedenti, aveva legato Lonzi allo scultore Pietro Consagra, al quale, alla fine del lungo dialogo registrato con il magnetofono (che è anche, di nuovo, un discorso sull’arte e nell’arte e soprattutto sul potere, oltre che il “verbale di un fallimento spaventoso”), Carla appunto dice “vai pure”. «E dopo, dopo cosa succede?», chiedeva mia madre, «Non voglio sapere come finirà, perché non so cos’è la vita matura. Se è il finire in una coppia che si sostiene e sclerotizza o se, arrivati a un certo punto, non sarà più congeniale per me riprendere il cammino da sola per una esplorazione finale della mia vita».
Era un discorso lungimirante, benché animato, ora capisco, da un profondo rovello. Ma purtroppo, fatta ancora una volta tabula rasa, non ci fu più tempo, Lonzi, che era stata male negli anni Sessanta, si ammalò di nuovo e morì, a Milano, l’anno successivo, con Consagra al suo fianco.
La nuova collana promossa dalla casa editrice fondata nel 1975 da Laura Lepetit, che fu molto vicina a Lonzi e alle sue compagne nei primi anni Settanta, oggi della Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi e diretta da Claudia Durastanti, è stata aperta, l’estate scorsa, proprio dal volume Sputiamo su Hegel e altri scritti, che raccoglie i primi scritti femministi di Lonzi, pubblicati nei “libretti verdi” e poi stampati in unico volume nella medesima collana nel 1974. Quello del 1970 che dà il fulminante titolo all’intero libro, il successivo e forse ancor più radicale La donna clitoridea e la donna vaginale del 1971, anch’esso dotato di un titolo “scomodo” che subito infranse un tabù e un modo di essere, distinguendo due categorie femminili e privilegiando la donna clitoridea, svincolata e liberata anche dagli schemi sessuali imposti dal patriarcato (e non dalla fisiologia, spiega l’autrice con tanto di illustrazioni). Raccolti insieme ad altri scritti di Rivolta femminile, tra cui naturalmente il Manifesto del gruppo, che apre il volume ed è una chiarissima e “lapidaria” dichiarazione di intenti, che si conclude con il famoso «Comunichiamo solo con donne».
La nuova edizione ha una copertina assai bella, che chissà se le ribelli separatiste di Rivolta femminile avrebbero approvato. Si tratta di Violarosso, un quadro del 1963 proprio di Accardi, con i classici segni dell’artista, ormai sottili e quasi grafici, che compongono una specie di calligrafia-pattern. Tra i segni di Accardi, che si ripetono su un fondo di colore uniforme (che nella stampa risulta fucsia ma in verità è viola), alla ricerca di un potente effetto luminoso che Gillo Dorfles chiamò “brillanza”, ve ne è anche uno che, un poco dilatato, diventerà poi il logo di Rivolta femminile. Anche per questo, efficace il progetto grafico, accattivanti i colori, significativa l’opera scelta, esposta tra l’altro nella grande retrospettiva dedicata nel 2024 ad Accardi al Palazzo delle Esposizioni di Roma, forte il messaggio che passa, anche nella specialissima relazione tra le due Carle, molto legate negli anni precedenti il 1970 e destinate ad allontanarsi un po’ bruscamente nel 1973. «Ho patito molto di essere rigettata da lei. Il perché? Perché io volevo fare l’artista, non la femminista», confida Accardi ad Anne-Marie Sauzeau, anche lei critica, femminista e compagna di vita di artista (Alighiero Boetti), in uno scritto su Lonzi di qualche anno fa. Anche perché Accardi funge, in un certo senso, da trait d’union tra i due periodi, la critica e il femminismo, e tra i due primi libri editi da La Tartaruga.
Il secondo è infatti Autoritratto, il capolavoro di Lonzi critica d’arte, che dialoga con 14 importanti artisti del suo tempo, registrando le conversazioni (raccolte tra 1965 e 1969) e ricomponendole poi, «in modo da riprodurre una specie di convivio, reale per me che l’ho vissuto, anche se non si è svolto nell’unità di tempo e di luogo», con un montaggio coraggioso e poetico, quasi una ricerca sulla lingua oltre che sui linguaggi dell’arte. Lonzi è insofferente, cerca una critica orizzontale, paritetica, rifugge il rapporto di potere che si cela nell’atto critico, ma partecipa al dialogo come una di loro.
Il volume, rieditato nei mesi scorsi sempre per la cura di Buttarelli, che anche in questo caso sceglie di non premettere un saggio introduttivo è un «libro fondamentale per come si scrive d’arte ma è anche il preambolo della pratica dell’ascolto che rivoluzionerà il femminismo di Carla Lonzi».
Naturalmente Accardi è compresa, unica donna, tra gli artisti protagonisti del famoso convivio (gli altri sono Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato e, in assenza, Twombly), apice di un sodalizio «largamente comunicativo e umanamente soddisfacente», come lei stessa scrisse. Pubblicato nel 1969 da De Donato, con in copertina un Concetto spaziale di Fontana, il più anziano e famoso tra gli artisti coinvolti, forse non approvato dall’autrice, che aveva scelto con cura il resto dell’apparato iconografico del volume, composto prevalentemente da piccole fotografie molto private e intime, sue e degli artisti che colloquiano con lei, Autoritratto è un’opera fondamentale nella storia della critica d’arte italiana per metodo e contenuti. Un’opera preziosa per comprendere le vicende della cultura non solo artistica di quegli anni, con la quale di colpo si chiude la vicenda critica di Lonzi, e si apre quella filosofica e femminista.
A ben vedere, impossibile immaginare non solo la storia del femminismo ma anche quella della critica d’arte senza di lei che, dopo aver rotto ogni schema in quel campo, fu capace all’improvviso di lasciare tutto, scegliendo la strada filosofico-politica, la strada dell’autocoscienza, del separatismo, e della concreta trasformazione, come ricorda Buttarelli nel suo libro.
Lei, che era stata l’allieva più promettente di Roberto Longhi, padre-patriarca della critica d’arte italiana, lei che era stata una delle «menti più lucide della generazione critica che aveva attraversato gli anni sessanta», come scrive Laura Iamurri nel suo volume su Lonzi e l’arte in Italia, descrivendone anche, sulla base delle fonti, i precedenti anni di formazione.
Ma nulla, forse, fu davvero improvviso, bensì inesorabilmente consequenziale e connesso al problema del potere (lo approfondiscono sia Iamurri che Giovanna Zapperi). L’arte, per Lonzi, non poteva farsi vettore di quelle forme liberatorie di costruzione del sé e di formazione dei legami, sulle quali stava lavorando dai primi anni sessanta, anche con Accardi, l’arte alla fine è maschile, e lei si allontana anche dagli artisti.
Non era facile, non era scontato, c’era stato anche il Sessantotto. Si apriva un decennio nuovo: di lotte, conflitti, tensioni, violenza, e anche di nuovi linguaggi creativi, nuove parole chiave, nuovo femminismo, nuove priorità, tra cui liberarsi da ogni forma di oppressione. Ma Lonzi quella vita vissuta a fianco degli artisti in difesa dell’autonomia della creazione, e della creatività, libera infine anche dal potere della critica, l’aveva lasciata: aveva scelto il femminismo, l’“uscita allo scoperto”, come lei stessa dice, lo sdegno per quella cultura maschile millenaria e misogina che aveva imposto l’inferiorità della donna.
Con Rivolta femminile aveva dimostrato di «saper andare via da dove una donna non può stare», come scrive Buttarelli, in un libro che non è esattamente una biografia e nemmeno un’esegesi, bensì si pone in risonanza con Lonzi, in un attraversamento dell’inesausta vitalità del suo pensiero, lungo un percorso scandito da capitoli che toccano in maniera non cronologica i principali scritti del periodo femminista, rileggendoli per similitudini e confronti e fornendo chiavi e spunti di riflessione, più che di interpretazione, sempre interni al corpo a corpo con il pensiero e l’opera dell’autrice.
Lonzi oggi si studia in tutto il mondo, non so dire se più come filosofa femminista che come critica.
Ma, a conti fatti, forse non furono veramente due vite e due Carle, anche se così parve, e in questi termini, quasi contrapposti, Lonzi era stata letta negli anni.
Un prima e un dopo, con il giro di boa del decennio più lungo del secolo breve a fare da discrimine.
Due ambiti di ricerca e pratica separati, quasi che questo iato tra un prima e un dopo, questo farsi lei stessa, come scrive, tabula rasa, in un pensiero/azione assolutamente identificato con la vita, fosse irriducibile. Difficile, seppur utile, interpretare però. Buttarelli, che vuol far «far brillare i testi nella loro capacità autonoma di accompagnare chi legge a una augurabile trasformazione di sé» invece un poco lo considera un tradimento. Del resto, Lonzi scrive nel suo Taci anzi parla. Diario di una femminista, pubblicato nel 1978 da Rivolta femminile, «Quando un altro mi spiega una cosa mia, mi interpreta sia in bene che in male, ci vuole proprio molta delicatezza e intelligenza perché io lo accetti». Dunque Lonzi rifugge dall’interpretazione e non vuole lasciare alcuna eredità? O forse, come scrive Buttarelli, che molto si rivolge al monumentale diario, la sua è una eredità senza testamento «di cui non ci si può appropriare ma si può abbracciare»? Scritti trasformativi che cambiano la vita, li definisce la filosofa che ha avuto, dal 2017, la responsabilità scientifica del Fondo Carla Lonzi, per qualche anno depositato presso la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma per volontà del figlio Battista Lena e sensibilità dell’allora direttrice Cristiana Collu. Partì allora una meritoria attività di catalogazione e digitalizzazione dei documenti, preziosa per le studiose e gli studiosi di ambo i fronti, il femminismo e la critica d’arte. In questi ultimi mesi, tra grandi polemiche, il comodato è stato sospeso, per la visione diversa della nuova direttrice, e il Fondo sta cercando un’altra casa. Di sua iniziativa, mia nipote ventenne ha rintracciato online, digitalizzate, le minute delle lettere di Carla a mia madre, sua nonna, in occasione di quella intervista. Conferma del fatto che Lonzi interessa ancora alle più giovani.
Grazie alla sua visione e al suo pensiero, che tocca temi e nodi nuovamente attualissimi, Lonzi ha potuto cambiare «il linguaggio con cui le donne parlano di loro stesse, della loro sessualità e dei loro desideri». Rimbombano nelle orecchie le parole di Elena Cecchettin, «Non fate un minuto di silenzio per Giulia, ma bruciate tutto […] ora serve una sorta di rivoluzione culturale».
In particolare la lotta al patriarcato e la liberazione dai ruoli, anche sessuali, imposti da una cultura misogina pervasiva, che si annida anche nelle rivendicazioni egalitarie contro le quali Lonzi e le altre allora insorgevano «L’uguaglianza tra i sessi è la veste con cui si maschera oggi l’inferiorità della donna». Affermazioni che colpiscono con chiarezza e senza mediazioni, «Non vogliamo tra noi e il mondo nessuno schermo». Anche per questo, forse, il Manifesto e gli scritti di Lonzi possono avere ancora oggi un effetto dirompente sulle ragazze che vivono un femminismo diverso, intersezionale e connesso alle rivendicazioni di genere.
Ma non era questo il suo obiettivo. Lonzi non è mai diventata una maestra. Non era nella sua rivolta. Lei aveva decostruito, decolonizzato, deculturalizzato, utilizzando autocoscienza e separatismo per smontare, con autenticità, in primo luogo la sua vita e la sua cultura, tabù e pregiudizi, stereotipi e ruoli, ma non per essere una maestra del pensiero.
Del resto non voleva lasciare un’eredità, come suggerisce Buttarelli, ma piuttosto scrollarsi di dosso ogni incrostazione, ogni retaggio e vincolo di una cultura di sopraffazione millenaria, rifiutata con un taglio netto.
Ci vuole un grande coraggio per fare questo vuoto. Buttarelli è sincera, rivela di essere diventata “lonziana” da giovane, di aver avuto una vera e propria conversione nel 1974: «da quel momento ho iniziato a essere una donna».
E in questa decostruzione, in questo svuotamento quasi artaudiano, Buttarelli parla anche del vuoto dello zen e delle mistiche contemporanee, come Teresa di Lisieux, che Lonzi avrebbe scelto come riferimento morale, per comprendere l’abbandono di parti di sé e di posizioni, fuori da qualunque compromesso, verso un’autenticità inesorabile, come prima di lei per esempio Cristina Campo, Lonzi si consuma, pur non essendo una mistica.
La nuova edizione di Autoritratto porta in copertina una fotografia di Teresa di Lisieux nei panni di Giovanna d’Arco in prigione, durante una mise en scène al convento del Carmelo. Durastanti scrive che era desiderio dell’autrice “accompagnare” il suo libro proprio con questa fotografia, o forse con un particolare, come il primissimo piano del volto della santa mistica, diventato un’opera di Giulio Paolini proprio nel 1969. Teresa nella parte di Giovanna d’Arco in prigione, omaggio all’amica Carla, che all’epoca «nutriva un particolare interesse per la figura di Teresa di Lisieux».
Da Eredi Biblioteca Donne – Con la pubblicazione della recensione di Betti Briano Eredibibliotecadonne non vuole offrire soltanto un consiglio di lettura ma si propone di anticipare spunti di riflessione in vista di un’occasione di dibattito sui controversi temi trattati nel libro che potrebbe avvenire con un pubblico incontro con alcune delle autrici da tenersi a Savona in autunno/inverno (ndr).
A giugno è uscito un volumetto snello, ma assai ‘corposo’ nei contenuti, il cui titolo Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi (a cura di Daniela Dioguardi, Ed. Castelvecchi) dichiara l’intenzione di rompere la cappa del politicamente corretto che grava a sinistra su una serie di temi che hanno pesanti ricadute sulla condizione delle donne, sulla loro esistenza materiale e simbolica. Un libro di cui c’era bisogno per aprire un dibattito necessario; un pamphlet coraggioso, che le autrici hanno dato alle stampe pur sapendo che non avrebbe avuto vita facile e che la sua promozione sarebbe stata un percorso a ostacoli; una raccolta di saggi che scoperchia la malsana minestra che sobbolle nella pentola progressista, dove ogni saggio prende in esame un ingrediente per svelarne la tossicità e ad ogni ingrediente corrisponde una delle questioni che risultano più urticanti, divisive, se non addirittura dei veri e propri tabù, nell’ambiente politico e culturale al quale il testo è principalmente rivolto.
Il primo saggio, La misura della parità di Silvia Baratella, introduce i paradossi che si vengono a creare per effetto di leggi, nate nella seconda metà del secolo scorso per rispondere alle nuove domande di agio e possibilità da parte delle donne, che finiscono per risolversi in limiti e danni alla libertà femminile; perseguire l’uguaglianza con gli uomini non ha significato ‘liberare’ le donne, ma in molti casi aggiungere iniquità e svantaggio nella loro vita. L’autrice mette in guardia da politiche (assai in voga nella sinistra e in certo femminismo) scaturenti dall’equivoco che moltiplicare le leggi volte a ‘parificare’ diritti e opportunità sia la strada maestra per realizzare la giustizia tra i sessi, e auspica un cambiamento di paradigma in cui “le donne in relazione siano fonte e legittimazione della propria libertà e negozino con gli uomini un nuovo e più civile spazio pubblico”.
L’intervento di Marcella De Carli Ferrari La cancellazione della madre attraverso la legge sull’affido condiviso disvela la minaccia che rappresenta per le madri e i bambini la Legge 54/2006, voluta dalle associazioni dei padri separati (appoggiati dalle destre), votata da tutti i partiti e accolta persino da qualche frangia del femminismo paritario. L’idea contrabbandata di coinvolgere maggiormente i padri nella gestione dei figli si risolve concretamente in un sistema atto “a mantenere il controllo paterno sui figli e sulla ex moglie”. La legge non solo non tiene conto del differente legame del figlio e della figlia con la madre rispetto a quello col padre, ma costringe le madri a ripartire la convivenza con i figli persino col coniuge violento e maltrattante per non incorrere nell’accusa di alienazione parentale con le vicissitudini sociali e legali che ne conseguono.
Lorenza De Micco e Anna Merlino in C’era un’assemblea civica sulla genitorialità sociale a Milano raccontano attraverso una personale emblematica esperienza come può avvenire che attraverso il condizionamento, se non addirittura la manipolazione, di ‘assemblee’ di democrazia diretta mirate a fornire ‘pareri’ in merito a questioni d’interesse trasversale, si vengano a formare orientamenti che danno origine specie in sede europea a deliberazioni e proposte legislative su materie sensibili (quali genitorialità e Gpa) che di fatto non sono rappresentative del sentiment popolare ma riflettono gli interessi di determinate categorie e lobby influenti e abili nel farsi ‘ascoltare’ da chi detiene il potere.
Anche Daniela Dioguardi parte dalla propria esperienza per denunciare in Mercato, libertà e censura del pensiero i pesanti attacchi con cui si cerca di intimidire e silenziare chi oggi esprime posizioni critiche nei confronti di alcune idee e politiche che caratterizzano il mondo Lgbtq+, Non Una di Meno e il transfemminismo. Chi si oppone alla teoria dell’identità di genere, alla Gpa come al riconoscimento delsex work‘da sinistra’, in contrasto ad un’idea liberista e mercantile dell’uso dei corpi e dell’esercizio della libertà personale, non solo deve scontare le accuse classiche di bigottismo, conservatorismo e fascismo o a quelle più trendy di omo-transfobia e avversione ai/alle sex worker, ma va spesso incontro anche a ‘scandalosi’ episodi di negazione di agibilità politica e di spazi di dibattito proprio da parte degli ambienti che dovrebbero vantare i maggiori tassi di democrazia nel DNA.
Nel testo Prostituzione, pornografia e libertà Caterina Gatti mette in luce una delle conseguenze più aberranti cui sta portando la degenerazione del principio di libertà che ha preso piede nel campo progressista e in parte del movimento delle donne; si tratta dell’idea che il sex work sia un lavoro come un altro e che la conquista dell’autodeterminazione includa anche la possibilità di scegliere di vendere il proprio corpo attraverso l’attività prostitutoria o quella pornografica. Ci sono note scrittrici che, avendo raccontato, partendo proprio dalla conoscenza diretta, la condizione di degrado fisico e psichico cui vanno incontro le donne nel mondo della prostituzione, hanno incontrato ostacoli alla promozione dei loro libri e subito veri e propri boicottaggi, come successo a Rachel Moran per la presentazione di Stupro a pagamento addirittura presso la Casa Internazionale delle donne. D’altronde le posizioni abolizioniste vengono non solo marginalizzate ma osteggiate con veri e propri attacchi intimidatori e ‘squadristici’ nei confronti di chi le porta avanti.
Cristina Gramolini parla con amarezza di una “Rivoluzione gentile” che non è più gentile. Si riferisce alla trasformazione della originaria gentilezza, con la quale molte istanze del mondo Lgbtq+ erano state portate avanti con successo, in intolleranza e violenza nei confronti delle donne contrarie ai nuovi cosiddetti diritti sostenuti da quel movimento: maternità surrogata, blocco della pubertà, sex work. Descrive alcuni sconcertanti episodi esemplificativi: la cacciata di ArciLesbica dalla sede che condivideva con Arcigay nel 2018, la contestazione di una conferenza di Sheila Jeffreys da parte di un’assemblea transfemminista a Milano nel 2020, l’interruzione della presentazione di Sex work is not work (Ilaria Baldini et al., Ortica 2023) alla Fiera dell’editoria femminista di Roma nel 2023. Nel precisare che dall’ambiente progressista non è levato alcun cenno di indignazione per così gravi attacchi alla libertà di pensero e al dibattito democratico, conclude che il consenso delle nuove lobby e del popolo dei pride viene considerato con tutta evidenza irrinunciabile.
Persino esperienze significative di dialogo tra associazioni femministe con gruppi di uomini impegnati nella lotta alla violenza nei confronti delle donne subiscono i contraccolpi dell’assalto che il transfemminismo intersezionale sta portando alla differenza sessuale in nome dell’inclusione dei soggetti non binari. Anche Doranna Lupi in I sessi sono due come oltraggio all’inclusività porta come esempio paradigmatico una vicenda avvenuta a Pinerolo, la sua città, di cui è stata diretta testimone: la trasformazione dell’ottima prassi di celebrare la Giornata del 25 Novembre con un simbolico incontro tra le donne e gli uomini, che avevano intrapreso un percorso di presa di coscienza e di fuoriuscita dalla violenza sulle donne, in una anonima e neutra occasione di lotta contro la ‘violenza di genere’, dove la ‘donna’ sparisce per lasciare il posto a tutte le altre ‘identità’ e la Giornata finisce per celebrare la lotta contro la violenza nei confronti di chi non si sa, da parte di chi nemmeno.
Laura Minguzzi in Vietato dire donna si chiede se del vecchio ordine patriarcale tramontato non sia rimasta la pesante eredità della misoginia, che si manifesta con la cancellazione delle “donne di sesso femminile” in nome dell’inclusività, della nuova morale dettata dal politicamente corretto. Tutto è iniziato, secondo l’autrice, quando si è preso a banalizzare l’esperienza della nascita e a negare la “disparità/asimmetria” tra donne e uomini nella procreazione dissolvendo così il fatto fondativo della differenza sessuale in una generica e neutra attività generativo-produttiva. Il risultato è che pur essendoci liberate dal patriarcato ci vediamo ricacciate, ad opera di fratrie violente quanto pervasive, nel “cono d’ombra dell’insignificanza… e rappresentate da un neutro indifferenziato che si propone di cancellare la madre”.
In Il femminismo al tempo del RUNTS Laura Piretti riporta un esempio eclatante di quale assurda conseguenza arrivi a comportare l’ossessione paritaria nell’applicazione di norme che regolano aspetti qualificanti della vita politica come l’agibilità di spazi pubblici da parte dell’associazionismo femminile. Si riferisce all’avviso, rivolto dal RUNTS (Registro unico nazionale del terzo settore) dell’Emilia- Romagna ad alcune sedi UDI della regione, di non conformità dei loro statuti alle regole di “democraticità e apertura che devono caratterizzare le APS” in quanto queste, prevedendo l’iscrizione di sole socie, discriminerebbero gli uomini; vale a dire che una gloriosa istituzione nata dai Comitati di difesa della donna che porta il nome Unione Donne Italiane dovrebbe aprirsi agli uomini per avere riconoscimento pubblico…
Tocca in ultimo a Stella Zaltieri Pirola denunciare in “Per me le cose sono due” lo svuotamento che sta subendo la parola ‘femminismo’ qualora venga “utilizzata per finalità contrarie agli interessi delle donne” e la risignificazione cui va incontro quando si presenta accompagnata dai prefissi trans e post o quando alla desinenza si sostituisce l’asterisco o la schwa. La neo-lingua che viene avanti si accompagna non a caso con un uso sempre più degenerato del principio dell’autodeterminazione, che viene ormai esteso fino alla vendita del corpo per pornografia, prostituzione o Gpa; ne consegue così che mentre ci si adopera per esecrare la violenza domestica, si finisce per acclamare la violenza sessuale a pagamento.
Le vicende paradossali e persino grottesche raccontate nei dieci interventi richiamano tutte in qualche modo la storia del disegno di legge Zan, ricordata da Francesca Izzo nell’introduzione alla raccolta; una proposta di legge che, pur riscuotendo un ampio consenso intorno alla lotta all’omotransfobia, ha finito per cadere a causa delle rigidità sul principio dell’identità di genere, proprio quello su cui molte femministe avevano sollevato obiezioni e proposto modifiche che erano state respinte dai sostenitori e bollate come “assist alle pulsioni omofobe e reazionarie”. Tutto ciò- sostiene Francesca Izzo- rivela la “crisi dissolutiva delle culture politiche” che stanno alla base della nostra democrazia, la loro inadeguatezza a confrontarsi col nuovo protagonista della storia che è la libertà femminile.
Non si può non convenire sull’evidenza che le politiche democratiche ad oggi non solo non sono state in grado di andare oltre l’orizzonte della parità ma rivelano sempre più dimestichezza con l’idea, prevalente nel mondo Lgbtq+ (di grande successo anche nel mainstream mediatico e accademico), che per affrontare alla radice la discriminazione nei confronti delle donne si debba annullare la differenza sessuale. Siamo al punto in cui sostenere l’indifferenziato e il neutro è di sinistra e progressista, parlare invece di ‘donne’ e ‘uomini’ anziché genericamente di ‘persone’ è retrogrado e reazionario. C’è da chiedersi dove si vuole arrivare, a quale deriva di civiltà si stia andando incontro. Il libro lancia un allarme che non deve restare inascoltato, ma va accolto e rilanciato, per le generazioni future e per il rispetto delle donne che negli ultimi due secoli hanno lottato per farci uscire dal “cono d’ombra”.
Da il manifesto – C’è sempre un albero. Nei ricordi e nei racconti di chi giunge nel Levante c’è sempre un albero. Spesso più di uno. A volte non è un albero, è un arbusto o un campo coltivato. Un essere vivente inanimato – i nonumani li chiama Paola Caridi – fa sempre da sfondo a una narrazione, un viaggio, un’avventura, una scoperta. Da sfondo o, ancora più spesso, da protagonista: che sia dove ha le sue radici, o dentro una cucina dove i suoi frutti si preparano a far danzare il palato, nell’esplosione di un sapore insolito, ma familiare.
C’è sempre un albero, e stupisce non averci pensato prima. C’è quando in un angolo di Palestina ci si sente a casa – «sembra la Puglia», «sembra l’Umbria» – o quando la prima volta si resta a bocca aperta perché il Levante è lì, a due passi, appena al di là del Mediterraneo, eppure l’immaginario europeo è irragionevolmente piatto e banale: deserto, sabbia, rocce, venti caldi.
E invece no, in un fazzoletto di terra convivono e si danno il cambio tanti habitat diversi, tante biodiversità, dal mare alla collina, dal deserto alle foreste del nord.
L’AMBIENTE non è uno sfondo, o una coreografia. È parte integrante delle storie e della storia. E allora leggereIl gelso di Gerusalemme. L’altra storia raccontata dagli alberi significa davvero addentrarsi in un manifesto di botanica politica. Scritto dalla giornalista e autrice Paola Caridi, edito da Feltrinelli (pp. 160, euro 17), ricorre ai ricordi personali e alla leggenda, agli archivi e all’attualità per provare a raccontare la storia del Medio Oriente dal punto di vista di chi c’è e c’è sempre stato, silenzioso ma inevitabile, sfruttato, servito, amato o perduto.
Nei complessi equilibri regionali la flora ha un ruolo, anzi ne ha tanti: strumento di propaganda sionista agli inizi del Novecento (il deserto da far fiorire), ancora a cui aggrapparsi per mantenere un legame con la propria terra (le arance di Giaffa nell’immaginario dei rifugiati palestinesi e l’appropriazione successiva dello Stato di Israele, a dire «noi possediamo questa terra»), bacino di sfruttamento del colonialismo europeo (i gelsi libanesi e la catastrofe annunciata), alleato inconsapevole della rimozione (i pini importati dall’Europa dal Jewish National Fund per assecondare il gusto del nuovo arrivato e occultare il peccato originale, la distruzione dei villaggi palestinesi).
Nel caso palestinese è la memoria di una presenza, lo è la flora in sé ma lo è anche il modo in cui si è intrecciata alle vite delle persone, fin dall’antichità assecondata perché fornisse l’opulenza dei suoi frutti. La rete idrica di Battir, meritevole del riconoscimento dell’Unesco, sta là a testimoniare l’equilibrio con la terra, come i giardini in miniatura che spuntano sui terrazzi nelle viscere dei campi profughi stanno a testimoniare il sollievo antico di uno spazio verde, ampio e senza confini.
CARIDI, profonda conoscitrice della regione, dove ha vissuto per anni, ci regala una piccola perla, inusuale e inattesa, un viaggio storico e politico dalle tinte fosche ma che non tace la dolcezza: la bellezza che emerge dalle pagine, il colore e il sapore del nonumano che è sempre lì, presente. Testimone silenzioso o quieto alleato, quando segnala la vita che fu. Come i fichi d’india: vecchie linee di confine, continuano a crescere nei villaggi palestinesi svuotati con la Nakba e guidano alla scoperta dei resti di case e piazze. O come i sicomori alla cui ombra dolce tante storie sono state narrate e trasmesse; o lo za’atar, il timo della tradizione culinaria, la cui raccolta è una sfida ai divieti posti dalle autorità israeliane, perché a volte basta un sapore o un odore per sentirsi a casa propria.
Il libro di Paola Caridi è un atto politico in un periodo di buio della ragione, una sfida al colonialismo che fu e che è, che come Israele modifica i luoghi per piegarli alla propria immagine o che come quello europeo dei secoli scorsi impone monocolture feroci o si impossessa della terra battezzando a proprio gusto i nonumani. Come se un nome non ce l’avessero già. Sono parte della famiglia.
Da il manifesto – Non cessa lo spettacolo inquietante e misero di un mondo in cui sentiamo le nostre vite appese ai cattivi sentimenti di uomini che stanno lì a misurarsi il missile dalla gittata più lunga. Tra Ucraina, con i suoi alleati, e Russia, o tra Israele e gli Houthi dello Yemen. In mezzo la tragedia degli uomini, delle donne e dei bambini che muoiono, anche in altre parti del mondo, a migliaia, decine e centinaia di migliaia. Soldati e civili.
Oggi me la cavo citando due testi che osano parlare della politica come amore. A prima vista non sembra che ci siano relazioni possibili tra il “dialogo notturno” che intrattiene un uomo con la persona che ama, addormentata (ma il suo corpo forse è in ascolto), e la pluralità di voci diurne femminili e femministe (ma c’è anche qualche voce maschile) che si susseguono in incontri alla Libreria delle donne di Milano. Femminismo mon amour, è il titolo del volumetto che raccoglie questi ultimi. Riunioni domenicali sotto il segno della storica rivista Via Dogana, che da un po’ di anni è un luogo virtuale sul web, ma che ora sente il bisogno di riprodurre anche una testimonianza cartacea.
Eppure è proprio Lia Cigarini, tra le fondatrici della Libreria (spazio che l’anno prossimo celebrerà mezzo secolo di vita) a citare l’autore in questione: «…molti uomini l’hanno già capito, dopo il disastro della politica maschile, che quella del partire da sé e della relazione è una forma politica viva ed efficace…». E in nota si legge: Niccolò Nisivoccia, Il silenzio del noi, Milano 2023. Un altro piccolo libro di cui mi è capitato qui di parlare. Del testo più recente, Un dialogo notturno, ha scritto su queste pagine Alberto Fraccacreta. Io mi limito a due citazioni: «L’amore è un discorso, innanzitutto, è una conversazione…». «…secondo me non esiste differenza fra la politica e l’amore, fra l’amore e la politica. Anche la poesia: è politica anche quando nasce come poesia d’amore. L’amore come gesto anche politico, quindi; e la politica come forma d’amore, come forma di cura, come gesto concreto».
Anzi tre. Citazione di una citazione. Il padre del bambino morto su quella spiaggia turca, che ci aveva tanto commosso, quasi 10 anni fa. «Vi prego, chiamatelo Ãlãn e non Aylan, come hanno scritto tutti i media del mondo…». Un’imprecisione da poco? Ma sbagliare un nome, da parte della politica e dell’informazione, parla di una commozione finta. «Teniamo la vita a debita distanza, non vogliamo che ci tocchi…».
Amore e linguaggio diventano politica, cambiano le cose, solo se si incarnano nelle vite, nei nostri corpi, nelle relazioni con altre e altri. Forse questa è la chiave per leggere anche Femminismo mon amour. C’è una traccia forte nei 4 capitoli del libro, che corrispondono a altrettanti dialoghi. “Autocoscienza ancora”, “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche”, “Orientarsi con l’amore”, “È ora di cambiare”. Dalle domande su quanto resta vivo di invenzioni e esperienze del passato, al che pensare e che fare oggi, come interpretare le emergenze che viviamo. Delle tante opinioni e analisi espresse, mi resta l’ansia e la passione per la ricerca delle parole giuste e attuali. E anche la convinzione che l’amore e l’amicizia «è politica in quanto ha a cuore il mondo»: c’è un terzo tra noi due. E questo può avvenire anche se non c’è «accordo con l’altra».
Qualcosa di fondamentale quando anche il femminismo è attraversato da conflitti acuti. E che mette in guardia tutti dalla trappola delle identità chiuse e contrapposte.
Da Il Quotidiano del Sud – Il libro “Femminismo Mon Amour – Pratiche femministe per donne e uomini” a cura della Redazione della rivista online Via Dogana 3 della Libreria delle donne di Milano, luogo storico del femminismo italiano e non solo, raccoglie la maggior parte degli articoli usciti online nel 2023, frutto delle discussioni nelle redazioni aperte. Discussioni su: “Autocoscienza ancora”, “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche”, “Orientarsi con l’amore”, “È ora di cambiare” rivolto soprattutto agli uomini, il cui filo conduttore è la politica delle donne e l’efficacia delle sue pratiche, inventate tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso. «Avere voce, parlare e parlarsi esponendosi agli scambi per una modificazione di sé e del proprio rapporto col mondo. È questa la politica delle donne» scrivono le curatrici nell’introduzione. Un parlare e un parlarsi che crea nuovo pensiero e aiuta a comprendere questo nostro presente, la cui parola giusta per dirlo è “post- patriarcato”. Tante le riflessioni e le domande che emergono dai vari interventi che, con la pubblicazione, aprono ad ulteriori scambi, «a creare incontri di discussione, gruppi di lettura […] e nuovo pensiero». Si parte dalla pratica che sta all’origine del femminismo, l’autocoscienza con cui ogni donna è autorizzata a parlare a “partire da sé”, dal proprio vissuto. Ci si chiede se, finita quella fase storica, è ancora viva. «L’autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia» e talvolta si presenta in forme diverse da quelle del passato come con il #MeToo. «Un evento che non ha preso il nome di autocoscienza ma ne aveva molti ingredienti: una donna comincia a raccontare una molestia che prima della presa di coscienza poteva sembrare […] una cosa da tacere per vergogna, e un’altra dice: è successo anche a me, un’altra ancora e così comincia a rivelarsi la politicità della cosa, cioè che si tratta di un fenomeno strutturale di ricatti sessuali e abuso di potere. La novità è stata il canale di comunicazione: la rete». La rete è il luogo privilegiato anche dei giovani per fare politica, impegnarsi in movimenti di protesta.
«La politica sta cambiando», in crisi è la politica eredita dal patriarcato. C’è la politica delle donne e le sue pratiche – autocoscienza, partire da sé, affidamento, pratica delle relazioni – e ci si interroga sulla loro efficacia e sul perché sono ancora sconosciute e circolano poco fuori dagli ambiti femministi. Una politica orientata dall’amore: l’amore della figlia per la madre, l’amore delle donne per le loro simili, l’amore di sé e per il mondo che rende politica l’amicizia tra donne e tra donne e uomini. Politico è il movimento delle donne con i suoi luoghi: librerie, case delle donne, libere università, centri antiviolenza, volontariato, associazionismo. Politica sono le giovani femministe che scendono in piazza «unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando l’eredità delle storiche e ridando vita, da un punto di vista diverso, alle lotte condotte negli anni ’70». E gli uomini? «È ora di cambiare» dopo la svolta di consapevolezza suscitata dal femminicidio di Giulia Cecchettin, dalla presa di parola della sorella Elena e di suo padre Gino. Uomini interrogano e si interrogano su ciò che ostacola il dissociarsi dalla violenza e il saper stare davanti alla libertà e alla grandezza femminile. Che gli uomini parlino tra loro, a partire da sé, nella disponibilità delle donne «all’ascolto e al dialogo per capire come ricostruire maschi e padri liberi dall’obbligo del dominio». “Femminismo mon amour” è un libro per donne e uomini che pone domande, fa riflettere e dà consapevolezza del contesto storico in cui viviamo.Il libro “Femminismo Mon Amour – Pratiche femministe per donne e uomini” a cura della Redazione della rivista online Via Dogana 3 della Libreria delle donne di Milano, luogo storico del femminismo italiano e non solo, raccoglie la maggior parte degli articoli usciti online nel 2023, frutto delle discussioni nelle redazioni aperte. Discussioni su: “Autocoscienza ancora”, “Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche”, “Orientarsi con l’amore”, “È ora di cambiare” rivolto soprattutto agli uomini, il cui filo conduttore è la politica delle donne e l’efficacia delle sue pratiche, inventate tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso. «Avere voce, parlare e parlarsi esponendosi agli scambi per una modificazione di sé e del proprio rapporto col mondo. È questa la politica delle donne» scrivono le curatrici nell’introduzione. Un parlare e un parlarsi che crea nuovo pensiero e aiuta a comprendere questo nostro presente, la cui parola giusta per dirlo è “post- patriarcato”. Tante le riflessioni e le domande che emergono dai vari interventi che, con la pubblicazione, aprono ad ulteriori scambi, «a creare incontri di discussione, gruppi di lettura […] e nuovo pensiero». Si parte dalla pratica che sta all’origine del femminismo, l’autocoscienza con cui ogni donna è autorizzata a parlare a “partire da sé”, dal proprio vissuto. Ci si chiede se, finita quella fase storica, è ancora viva. «L’autocoscienza non può morire, basta che qualcuna la faccia» e talvolta si presenta in forme diverse da quelle del passato come con il #MeToo. «Un evento che non ha preso il nome di autocoscienza ma ne aveva molti ingredienti: una donna comincia a raccontare una molestia che prima della presa di coscienza poteva sembrare […] una cosa da tacere per vergogna, e un’altra dice: è successo anche a me, un’altra ancora e così comincia a rivelarsi la politicità della cosa, cioè che si tratta di un fenomeno strutturale di ricatti sessuali e abuso di potere. La novità è stata il canale di comunicazione: la rete». La rete è il luogo privilegiato anche dei giovani per fare politica, impegnarsi in movimenti di protesta.
«La politica sta cambiando», in crisi è la politica eredita dal patriarcato. C’è la politica delle donne e le sue pratiche – autocoscienza, partire da sé, affidamento, pratica delle relazioni – e ci si interroga sulla loro efficacia e sul perché sono ancora sconosciute e circolano poco fuori dagli ambiti femministi. Una politica orientata dall’amore: l’amore della figlia per la madre, l’amore delle donne per le loro simili, l’amore di sé e per il mondo che rende politica l’amicizia tra donne e tra donne e uomini. Politico è il movimento delle donne con i suoi luoghi: librerie, case delle donne, libere università, centri antiviolenza, volontariato, associazionismo. Politica sono le giovani femministe che scendono in piazza «unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando l’eredità delle storiche e ridando vita, da un punto di vista diverso, alle lotte condotte negli anni ’70». E gli uomini? «È ora di cambiare» dopo la svolta di consapevolezza suscitata dal femminicidio di Giulia Cecchettin, dalla presa di parola della sorella Elena e di suo padre Gino. Uomini interrogano e si interrogano su ciò che ostacola il dissociarsi dalla violenza e il saper stare davanti alla libertà e alla grandezza femminile. Che gli uomini parlino tra loro, a partire da sé, nella disponibilità delle donne «all’ascolto e al dialogo per capire come ricostruire maschi e padri liberi dall’obbligo del dominio». “Femminismo mon amour” è un libro per donne e uomini che pone domande, fa riflettere e dà consapevolezza del contesto storico in cui viviamo.
In Tecnologia della rivoluzione Diletta Huyskes apre una riflessione sulle responsabilità sociali di chi innova. Dal forno a microonde all’AI
L’idea che la tecnologia sia una forza neutrale e inarrestabile, che opera indipendentemente dai contesti sociali, economici e culturali, è un mito radicato nel nostro immaginario collettivo. Tuttavia, come dimostra Diletta Huyskes nel suo libro Tecnologia della rivoluzione. Progresso e battaglie sociali dal microonde all’intelligenza artificiale (Il Saggiatore, 2024), questo mito è ben lontano dalla verità. La tecnologia non è mai stata neutrale e spesso amplifica le ingiustizie esistenti.
Un esempio significativo che viene raccontato nel libro è il caso di ProKid+, l’algoritmo di polizia predittiva impiegato nei Paesi Bassi nel 2015, che ha condannato preventivamente un adolescente, Omar (nome fittizio), a un futuro da criminale. Reddito basso, background migratorio e un’età inferiore ai diciotto anni, sono solo alcune delle caratteristiche utilizzate dai sistemi di intelligenza artificiale per valutare il rischio di migliaia di persone ogni giorno. Il progetto, noto come Top400, inizialmente pensato come una lista di adolescenti precedentemente condannati per almeno un reato, è stato successivamente ampliato includendo anche bambini e ragazzi che, pur non avendo ancora avuto problemi legali, erano considerati dall’algoritmo a rischio di esserlo presto.
Una tecnologia a sfavore delle minoranze
Questo algoritmo, che avrebbe dovuto rappresentare un approccio innovativo alla prevenzione del crimine, non ha fatto altro che reiterare stereotipi e pregiudizi preesistenti, privando i soggetti come Omar di qualsiasi possibilità, riscatto ed emancipazione e lasciandoli intrappolati in un circolo di sospetti e discriminazioni: «Questa sentenza è il risultato di una raccomandazione proveniente da un modello matematico che prometteva il rilevamento della criminalità utilizzando principalmente metodologie di apprendimento automatico, un sottoinsieme dell’intelligenza artificiale che utilizza modelli statistici e algoritmi per analizzare e fare previsioni basate sui dati».
La pretesa di prevedere il crimine attraverso l’analisi dei dati ignora il fatto che tali modelli sono costruiti su basi che riflettono le disuguaglianze sociali, contribuendo a perpetuarle piuttosto che risolverle. Non a caso Huyskes cita Andrew Feenberg che nel suo testo, Transforming Technology, asserisce che la progettazione della tecnologia è una decisione ontologica ricca di conseguenze politiche. Huyskes ci guida attraverso una riflessione critica, evidenziando come ogni nuova tecnologia sia il risultato di un preciso percorso storico e sociale. Contrariamente all’immagine romantica del genio inventore che cambia il mondo con un’illuminazione improvvisa, la realtà ci mostra come le innovazioni tecnologiche siano frutto di compromessi, conflitti e distribuzioni ineguali di potere.
L’idea di un progresso lineare e inevitabile si sgretola di fronte all’analisi che Huyskes offre, svelando una verità fattuale: la tecnologia è costruita, modificata e implementata per servire interessi specifici, spesso a scapito delle fasce più vulnerabili della società. Un altro esempio significativo è rappresentato dall’introduzione delle tecnologie domestiche nel ventesimo secolo. Queste invenzioni, come il forno a microonde, venivano presentate come soluzioni liberatorie per le donne, promettendo di alleviare il carico del lavoro domestico.
Tuttavia, come dimostra Huyskes, la realtà è stata ben diversa: piuttosto che emancipare, queste tecnologie hanno rafforzato gli stereotipi di genere, relegando ulteriormente le donne al loro ruolo tradizionale di casalinghe. Invece di liberarle, le hanno intrappolate in un ciclo di lavori domestici sempre più standardizzati e invisibili: «La speranza era che la tecnologia domestica avrebbe sollevato le donne dal loro lavoro non pagato nelle case, un tema politico su cui il movimento femminista stava concentrando quasi interamente le sue lotte in quegli anni».
Il controllo dei corpi
Infatti, nel 1974, Joann Vanek dimostrò come la condizione femminile nel lavoro casalingo non avesse subito nessun cambiamento con l’introduzione delle tecnologie domestiche; l’industrializzazione del lavoro domestico e la meccanicizzazione del focolare aveva creato nuove aspettative, un aumento della produttività e nuovi compiti: «Lungi dal sentirsi liberate, le donne che lavoravano nelle case, che quotidianamente e instancabilmente portavano avanti tutto il lavoro di cura necessario al sostentamento della vita economica e politica di intere nazioni, si sentivano sempre più meccanizzate, ma anche sempre più affaticate».
Nell’analisi di Diletta Huyskes emerge con forza il tema del controllo dei corpi come uno dei nodi cruciali nell’intersezione tra tecnologia e genere: «Come può una società che per decenni si è basata esclusivamente sul corpo maschile come metro di misura garantire un trattamento equo in base al genere?». L’esclusione delle donne dalla tecnologia non ha significato solo tenerle lontane dai luoghi di potere, formazione e creazione, ma anche privarle della possibilità di utilizzare e beneficiare di tali innovazioni. Questo schema di esclusione, che continua a persistere anche dopo molti decenni, rappresenta ancora il modello dominante nella gestione del rapporto tra genere e tecnologia.
Nel libro si racconta anche come a partire dal 1980, il gruppo di ricerca su donne e tecnologia della Fondazione per la ricerca scientifica e industriale dell’Istituto norvegese di tecnologia (Sintef), con le studiose Anne-Jorunn Berg e Merete Lie, ha iniziato a riflettere sulle conseguenze pratiche dell’esclusiva presenza maschile nelle fasi di progettazione e sviluppo tecnologico. Inizialmente, le domande riguardavano l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita delle donne. Tuttavia, con il progredire delle loro ricerche, la questione si è evoluta in: «Gli artefatti hanno un genere?».
Questo ha portato a un ampliamento della ricerca, dall’analisi delle donne all’indagine sul genere e sul design in generale, invece di concentrarsi solo sulle conseguenze delle tecnologie. Berg e Lie hanno scoperto che gli artefatti tecnologici riflettono un genere, poiché vengono progettati con specifiche configurazioni di genere in mente. In altre parole, nascono con un’idea chiara di chi dovrà utilizzarli.
AI e stereotipi sociali
Automobili, computer, smartphone sono alcuni esempi di tecnologie usate da uomini e donne, ma progettate principalmente tenendo conto delle caratteristiche e delle abitudini di un uomo medio: «La testimonianza più forte degli ultimi anni sulle persistenti disuguaglianze di genere nel design di ciò che diamo più per scontato l’ha scritta l’attivista e scrittrice Caroline Criado-Perez. Un catalogo di fatti e cifre che raccontano di un mondo a misura d’uomo, forse tra i più scioccanti quello sulle case automobilistiche statunitensi che solo nel 2011 hanno iniziato a effettuare crash test anche con manichini femminili. Prima di quel momento, tutti i dati a disposizione e gli interventi necessari riguardo agli incidenti automobilistici avevano a che fare esclusivamente con i corpi maschili, per cui l’accuratezza nei casi di corpi femminili era sconosciuta».
Nel panorama contemporaneo, l’intelligenza artificiale rappresenta la nuova frontiera di questa riflessione critica. Lungi dall’essere una tabula rasa, l’AI porta con sé i bias e le ingiustizie del passato, riflettendo le stesse logiche di potere che hanno caratterizzato le tecnologie precedenti: «Non solo incorporano cultura, valori, pregiudizi durante le fasi di design iniziale, ma continuano ad alimentarsi di questi input sempre nuovi durante la loro intera esistenza». Oggi, le nuove tecnologie sono progettate per mantenere lo status quo e perpetuare le disuguaglianze sociali esistenti, contribuendo a rafforzare ciò che la studiosa femminista Patricia Hill Collins chiama «la matrice del dominio», un sistema sociologico che comprende diverse forme di oppressione come il capitalismo, l’eteropatriarcato, la supremazia bianca e il colonialismo.
Uno degli esempi più emblematici dell’automazione di sistemi istituzionali già particolarmente discriminatori ed escludenti è quello della giustizia penale. Con l’obiettivo di trovare una formula matematica che potesse prevedere con precisione la probabilità di recidiva, sempre più dipartimenti di giustizia hanno sperimentato l’uso dell’intelligenza artificiale: quasi tutti gli stati nordamericani hanno adottato o testato software basati su AI per questo scopo. Questi sistemi calcolano le probabilità attraverso la valutazione del rischio: un punteggio di rischio elevato indica una maggiore probabilità che l’individuo commetta nuovamente un crimine in futuro: «Il calcolo che porta a questi punteggi è basato solitamente su delle domande rivolte direttamente alle persone imputate e i dati estratti dal casellario giudiziario. Si tratta di previsioni sul futuro in base a comportamenti passati, frequenze, statistiche, e i dati per addestrare modelli come questi spesso includono variabili proxy come “arresto” per misurare il “crimine” o qualche nozione di “rischiosità” sottostante».
Ripensare la tecnologia: giustizia e inclusione
Negli Stati Uniti, dove i dati relativi al crimine sono stati influenzati da decenni di pratiche di polizia basate su pregiudizi razziali, e dove alcuni gruppi sociali ed etnici sono stati storicamente più esposti a controlli di polizia, la mappatura del crimine non può essere considerata neutrale. A partire da questi presupposti, l’etnia viene tracciata indirettamente attraverso altre variabili correlate, come il codice postale o la condizione socio-economica.
Il risultato è un modello che presenta un tasso significativamente più alto di falsi positivi, cioè attribuisce un rischio elevato di recidiva a individui neri rispetto a quelli bianchi. Alcuni di questi strumenti mirano a prevedere i rischi di criminalità associati a singoli individui, basandosi sulla loro storia personale e su altre caratteristiche. È proprio ciò che è accaduto a Omar: giudicato da un software di polizia predittiva come un adolescente ad alto rischio di diventare un criminale, è stato trattato come tale fin da subito.
Come asserisce l’autrice, «L’intelligenza artificiale è molto più di una tecnologia. È un discorso utilizzato attivamente per plasmare le realtà politiche, economiche e sociali del nostro tempo». La tecnologia può essere un potente strumento di liberazione, ma solo se siamo disposti e disposte a interrogarci su chi ne controlla lo sviluppo e su chi ne beneficia davvero. È essenziale che il dibattito sulla tecnologia non rimanga confinato a un’élite specifica, ma diventi un discorso collettivo, aperto e inclusivo, in grado di affrontare le domande fondamentali su giustizia, equità e democrazia. In questo senso, Tecnologia della rivoluzione è un invito a ripensare il nostro rapporto con il progresso e con le forze che plasmano il nostro presente e il nostro futuro. Huyskes ci ricorda che ogni innovazione porta con sé una responsabilità, e che è nostro compito vigilare affinché il futuro tecnologico sia costruito su basi più giuste e consapevoli.
(Wired, 6 settembre 2024, apparso con il titolo No, la tecnologia non è neutrale ed ecco come ha condizionato la vita delle donne)
Da il manifesto – La nuova raccolta di Cettina Caliò, L’estremo forte degli occhi, pubblicata dalla Nave di Teseo (pp. 80 euro 18), prende il titolo da due versi di una poesia che vi troviamo collocata più o meno al centro: «nell’estremo forte degli occhi/ mai si stanca la sorte di accadere». E forse non è casuale, la collocazione centrale di questi due versi, perché è nella constatazione che esprimono che va cercato il significato più essenziale della raccolta. Va detto che non si tratta di un poema e che l’idea stessa di individuare per forza un nucleo tematico centrale, che tenga insieme le singole poesie, potrebbe essere considerata arbitraria. Non solo: il fatto in sé che i versi appaiano spesso imprendibili, nei loro singoli contenuti semantici, potrebbe perfino sconsigliare di coltivarla, un’idea simile.
Ma il punto è che sembra aver ragione Elisabetta Sgarbi, quando osserva, in epigrafe, che sono poesie in cui «Si entra accompagnati da un’immagine lieve e si impara per negazione nel poco a poco in rovina». Perché è questo senso di «negazione» e di «rovina» ciò che tutte le poesie della raccolta sembrano avere in comune l’una con l’altra, seppur nelle differenze di ciascuna: è il senso di un vuoto, di un’assenza. D’altronde qualcuno sostiene che scrivere è sempre raccontare un’assenza: e qui in effetti è come se, poesia dopo poesia, l’io poetante non facesse altro che questo: raccontare un’assenza – continuamente evocandola e convocandola, un’immagine dopo l’altra, quasi narrativamente. Esisteva, quell’assenza, è stata presenza in carne e ossa nella vita di chi ora le sta parlando: corpo, sensi, odori, sapori, gesti. È più di una semplice assenza: è una scomparsa, dunque ancor più dolorosa. Al tempo stesso, è come se le parole servissero anche a ricomporre i pezzi dello sgretolamento e della rovina che quella scomparsa ha procurato nell’esistenza di chi le è sopravvissuto.
Come se, in realtà, scrivere fosse uno strumento, oltre che di lacerazione, anche di purificazione: un modo, oltre che per raccontare un’assenza, anche per recuperare una presenza, assumendola e tenendola dentro di sé (come quando, rivolgendosi a quell’assenza, l’io poetante le dice: «Tu che mi diventi biografia»). O quantomeno come un modo per «reggere la frattura del vuoto», e cioè quantomeno per ritrovare un proprio posto, una propria collocazione nella vita che intanto continua a scorrere, anche se «in mezzo/ siamo stati già sconfitti».
L’unica possibile salvezza è in quell’accettazione delle cose a cui allude la constatazione dei versi che danno origine al titolo: nel prendere atto, da parte dell’io poetante, che si può vivere solo come si può («Come posso/ dove posso/ fino a qui/ dopo di me non so»). È tutto già accaduto, e tutto quel che è stato non può essere né omesso né dimenticato: ne «paghiamo le notti in sudore» e «facciamo l’alba sui vetri/ con le dita», ma dobbiamo fare «come se/ non lo sapessimo ancora».
E da qualche parte non è detto tuttavia che non possano ancora essere vissuti dei momenti di grazia, quasi pacificati: «voglio rimanere fra le tue cose», leggiamo infatti in uno dei versi finali. E poco dopo, addirittura: «dovendomi vivere/ mi sorrido fra le fughe/ del tuo esistermi/ in azzurre risonanze di grigio/ e ringrazio ogni cielo». Ecco: come una forma di definitiva inscrizione dell’altro dentro di sé, non più solo biografia ma parte acquisita della propria autobiografia.
Da Viottoli – Dialogo in occasione di un incontro del ciclo “Eretiche”, organizzato dall’Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne (OIVD) a Pinerolo il 5 maggio 2024.
Doranna – Il femminismo è stato un modo in cui io e altre donne ci siamo date reciprocamente voce fuori dall’ideologia patriarcale. Nel vostro libro intitolato Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, oltre alle numerose immagini e illustrazioni inedite, avete raccolto più di sessanta testimonianze di donne protagoniste di questa storia. Molte di queste nella Libreria delle donne di Milano inventarono pratiche che contribuirono all’elaborazione di pensieri. A partire dagli anni ’70, la Libreria è infatti uno dei luoghi più vivi del femminismo italiano, un laboratorio sulle pratiche politiche del presente, basato sulla condivisione di esperienze e verità soggettive che illuminano la vita di tutte e di tutti, anche la mia. Vorrei sentire da voi, femministe e anche storiche, quali sono state le pratiche e le scoperte che hanno contribuito a far nascere la Libreria.
Luciana e Marina – L’idea di aprire una libreria, simile alla Librairie des femmes di Parigi, dove vendere libri scritti da donne e documenti prodotti dal movimento, è nata dal desiderio di alcune che da una decina d’anni avevano fatto autocoscienza: una pratica in cui sole donne, riunite in piccoli gruppi periodicamente, parlavano a partire da sé della propria esperienza di disagio fino a quel momento sentito come personale, senza ordini del giorno, con un ascolto non giudicante. Il personale diventava politico. Vi erano incontri più allargati in collettivi e in confronti internazionali dove le parole scambiate diventavano scritti che mostravano la parzialità e i danni del dis-ordine patriarcale e le modalità valorizzanti di stare tra donne. Su come realizzare la Libreria, dodici donne per un anno discussero tra loro, proponendo un progetto aperto alla collaborazione di altre per reperire scritti, opere artistiche e per contribuirvi economicamente. Dal 15 ottobre 1975 divenne un luogo aperto sulla strada dove si discuteva di tutto, illuminando la scrittura dei testi politici con la lettura delle scrittrici, alla ricerca di parole che dicessero l’esperienza femminile.Ad esempio, dadiversi incontri su autrici significative nacque il Catalogo giallo. Le madri di tutte noi e la scoperta dell’importanza di avere una genealogia femminile per non essere schiacciate in un presente in cui il senso della propria vita dipenda dall’annullarsi nell’altro.
Da allora la gestione è rimasta non gerarchica, le scelte avvengono attraverso il consenso non a maggioranza e le proposte nascono dal desiderio di una che prende vita dalla relazione con un’altra e cresce di due in due, fino ad arrivare, tra l’altro, alla pubblicazione nel 1987 di Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, un libro tradotto in spagnolo, tedesco, inglese, francese, che ne racconta scoperte e storia.
D. – Ho conosciuto la Libreria delle donne di Milano negli anni ’90 grazie a Pinuccia Corrias. Con lei ho imparato che il femminismo della differenza non è il presupposto per una rivoluzione sociale bensì per una rivoluzione simbolica, iniziando a misurarmi con la complessità della pratica del partire da sé. Con lei ho condiviso percorsi importanti di pratica delle relazioni tra donne, primo fra tutti il lungo percorso del gruppo pinerolese di ricerca teologica al femminile e il gruppo intergenerazionale sulla differenza sessuale, costituitosi in occasione del festival della filosofia di Pinerolo Pensieri in Piazza. In questi ambiti siamo entrate in relazione con alcune della Libreria delle donne di Milano, soprattutto con Luisa Muraro, di cui ho frequentato in Libreria nel 2015 il corso di scrittura pensante, che ha profondamente segnato il mio approccio alla scrittura. Per me è diventato un luogo politico fondamentale. Come lo è diventato per voi?
L. e M. – Entrambe abbiamo fatto autocoscienza con donne con cui ancor oggi ci incontriamo. Compravamo testi in Libreria per discuterli in altre associazioni, mentre abbiamo cominciato a considerarla il luogo principale di confronto politico dalla metà degli anni Ottanta, dopo che il Sottosopra verde (1983) propose di superare il separatismo per investire i luoghi di lavoro con il sapere e le pratiche femministe. Essendo insegnanti, contribuimmo alla Pedagogia della differenza, conosciuta attraverso Marirì Martinengo: utilizzavamo sempre il linguaggio sessuato; ricercavamo il contributo delle donne alla costruzione di civiltà e lo facevamo conoscere, anche modificando i libri di testo; sperimentavamo alcuni momenti in cui nelle classi separate per sesso permettevamo alle ragazze di trovare parole per dire la loro esperienza rispecchiandosi tra loro e in opere di donne, e ai ragazzi di cogliere la loro parzialità; valorizzavamo pratiche di relazione tra le ragazze e tra noi donne insegnanti.
Per noi è stata ed è fondamentale la riflessione sul rapporto con la madre che fonda, come dice il titolo del libro di Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, che rompe con l’idea patriarcale dell’individualismo prometeico illuminista e mostra invece l’origine duale della vita, la dipendenza e la necessità del riconoscimento delle relazioni.
D. – Recentemente, all’interno di una mostra pittorica di un liceo artistico, campeggiava al centro della sala un quadro intitolato Tessitrici di relazioni: un girotondo di donne danzanti. Mi ha colpito veder raffigurato da una artista il segno tangibile di un cambiamento in atto, ciò che per me è stato il filo conduttore del mio agire politico nel femminismo:la pratica politica delle relazioni tra donne. Nel patriarcato le relazioni tra donne, fuori dalla sfera privata, non avevano esistenza sociale, tant’è che le donne spesso venivano rappresentate come nemiche, rivali, futili, invidiose l’una dell’altra. A me sembra invece, per esperienza diretta nel mio percorso, che alcune pratiche politiche femministe abbiano portato buoni frutti. Sempre più donne, in relazione tra loro, si danno autorità, sanno vedere nel presente e nella realtà ciò che ancora non è evidente, dicono ciò che è buono e ciò che non lo è e agiscono perché il positivo possa realizzarsi. Questo genera forza femminile.
Marina, nel suo saggio sulla storia vivente in La spirale del tempo, sostiene che una pratica si comprende facendola, parlarne può solo permettere di intuirla, di far nascere la voglia di provare. Condivido questa osservazione e vi chiedo di raccontarci quali pratiche sono importanti per voi oggi.
L. e M. – Il racconto di pratiche create per un particolare contesto può solo “autorizzare” all’invenzione, non si tratta di “ricette” o tecniche da imparare e applicare. È necessario continuare a riflettere sul presente, su come agiamo e sulle conseguenze di ciò che facciamo, cioè su quali pratiche mettiamo in atto, come fa il libro Femminismo mon amour che raccoglie articoli significativi nati dalle redazioni aperte dello scorso anno della rivista on line Via Dogana 3.
Come dici tu, è importante riconoscere autorità femminile. Si ha paura di questa parola per il fantasma patriarcale del potere che crea gerarchie per mantenersi, mentre autorità deriva da augere, far crescere. La si riconosce a una in un momento preciso, quando ti aiuta nella comprensione e realizzazione di un tuo desiderio, quando ti fa capire qualcosa del mondo. Abbiamo bisogno, come dice Vita Cosentino, del massimo di autorità con il minimo di potere.
Rimane importante partire da sé e dare credito alla parola dell’altra, come fa il movimento MeToo; riconoscere anche nei gruppi la forza creativa del rapporto duale di disparità, non esclusivo, dove si gioca il di più dell’altra; mantenere momenti di separazione dagli uomini, avere dunque, quella che Ina Praetorius chiama una “stanza della tessitura”, come fanno anche oggi Le Compromesse, alcune giovani attive in Libreria, per trovare parole con cui dire la propria esperienza e modi per renderle pubbliche.
Fin dall’inizio per il femminismo la scrittura è stata importante per sviluppare e far circolare il pensiero, dai Sottosopra, sorta di manifesti che escono senza periodicità, alla rivista Via Doganaprima cartacea e ora on line, daiQuaderni di VDal sito la cui redazione carnale si riunisce ogni giovedì, fino al coinvolgimento di case editrici su singoli progetti. Inoltre la libreria è un luogo di incontro pubblico in cui vengono proposti testi politici, letterari, artistici, soprattutto di donne, a partire dal desiderio di una e dopo una riunione di programmazione per individuare con quale taglio discuterne, lasciando molto tempo al dibattito e alla convivialità.
Fra le pratiche di scrittura quella relazionale generativa, che noi pratichiamo, nasce dal bisogno di non lasciarsi imbrigliare nelle letture già date per dire il nuovo che la singolarità di ciascuna può apportare: si tratta di chiedere il giudizio di un’interlocutrice a cui si riconosce autorità, non sentirsi sminuite per questo, non aver paura di essere defraudate dell’autorialità ma trovare modi per segnalare la pratica relazionale da cui il testo nasce.
D. – Entrambe fate parte di Comunità di Storia Vivente dal 2006. Condivido con voi e con la Comunità di Storia Vivente in faccia al Monviso questa pratica di ricerca e di scrittura femminile della storia che ci permette una lettura differente della realtà. Per me è stato importante, insieme alle donne della mia comunità, risignificare la mia storia personale alla luce di questa pratica. Voi che insieme Marirì Martinengo e Laura Minguzzi siete le fondatrici della Comunità di Milano potete ricordare qual è stata l’intuizione originaria e come si è sviluppato e continua questo percorso.
L. e M. – Ci piace cominciare con la citazione dal libro di Marirì Martinengo La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”, in cui nel 2005 per la prima volta emerge l’intuizione originaria della storia vivente: «C’è una storia vivente annidata in ciascuna e ciascuno di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; […] una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo cognitivo» (p. 21). Da qui siamo partite per una pratica di comunità diversa da quella di ricerca storica che ci aveva portato a scoprire tracce di libertà femminile nella vita di donne del passato. Fu un lavoro di quasi vent’anni con incontri, ricerche, convegni, pubblicazioni, come il libro Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo. Con la pratica della storia vivente, invece, ciascuna ricerca in sé nodi irrisolti che sono tali perché non c’è ancora un simbolico che li rappresenti in modo aderente alla verità soggettiva. La scommessa è trovare parole per dirli e così scioglierli, individuando concetti che diano una chiave di lettura per rileggere il passato. Si liberano così energie bloccate dalla menzognera lettura patriarcale, sia di uomini sia di donne, e si apre la possibilità di una trasformazione del presente.
La pratica consiste in incontri periodici di poche donne in relazione di fiducia tra loro, in cui ciascuna fa emergere un proprio nodo mentre le altre ascoltano con attenzione ed empatia, rilanciando ciò che risuona in sé, e la scrittura e riscrittura chiariscono e rendono pubblico ciò che può cambiare il simbolico. Il lavoro è molto lungo perché sui nodi si sono creati degli equilibri, anche se a volte difficili. Attualmente noi due stiamo continuando la ricerca con Giovanna Palmeto e Laura Modini nella Comunità Sami e siamo nella fase della scrittura finale di nuovi racconti.
Sono già state pubblicate su riviste e libri diverse scoperte che è riduttivo riassumere per evitare di banalizzare e creare fraintendimenti, proprio perché hanno una dirompenza trasformativa rispetto alle interpretazioni correnti. Accenniamo che queste letture della realtà riguardano tra l’altro l’economia, la guerra, la violenza maschile, le forme di resistenza e la parola pubblica delle donne, la trasmissione genealogica femminile, la devianza dai modelli. Oggi possiamo riferire che trovano molti riscontri anche in giovani donne provenienti da varie parti del mondo, in quanto dal 2019 teniamo il corso di Historia viviente nel Master on line La política de las mujeres dell’Università di Barcellona. Le allieve, che seguono con noi un percorso di lettura di ciò che finora è stato prodotto e di scrittura in dialogo con i testi e la propria esperienza, sottolineano gli spostamenti nel loro modo di rapportarsi a momenti imbriglianti della loro esistenza e della realtà che le circonda. Scoprono la violenza e parzialità della storia finora appresa e riconoscono come pratiche politiche positive i comportamenti propri e di altre donne, anche della loro genealogia, spesso invisibili o svalorizzati, accrescendo la loro forza.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Santini Marina, Tavernini Luciana, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua,Il Poligrafo, Padova 2015.
Libreria delle donne di Milano, Le madri di tutte noi (Catalogo giallo), Milano 1982.
Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.
Sottosopra, i numeri della rivista sono in vendita o consultabili in https://www.libreriadelledonne.it/categorie_pubblicazioni/sottosopra/
Muraro Luisa, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma (1991) 2022.
Comunità di storia vivente di Milano (a cura di), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti & Vitali, Bergamo 2018.
Redazione di Via Dogana 3, Femminismo mon amour, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano, 2024.
Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005.
Marirì Martinengo, Claudia Poggi, Marina Santini, Luciana Tavernini, Laura Minguzzi, Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo, SEI, Torino 1996; ipertesto nel sito curato da Donatella Massara “Donne e conoscenza storica” http://www.donneconoscenzastorica.it/vecchio/testi/libere/apertura.htm
(Viottoli, n. 1/2024)