di Laura Minguzzi


Teresa Lucente, Il Luogo Accanto. Identità e Differenza, una storia di relazioni (Effigi 2020, €14.00)

Compralo online su Bookdealer: https://www.bookdealer.it/goto/9788855241359/607


Imprendere la propria vita, questo è l’incipit del racconto di Adriana Sbrogiò che dà avvio a questa lunga narrazione storico-politica. Il titolo di un testo del 1988 in cui Adriana racconta la scelta di fare della propria vita un’impresa. Una parola dalle origini antiche. Già Margherita Porete usava questa parola, entreprendre, nello Specchio delle anime semplici. Impresa femminile in quanto può essere considerato il manifesto programmatico di una nascente associazione, Identità e differenza, che vede la luce nello stesso anno. Due donne, Adriana e Marisa Trevisan, uniscono i loro desideri e ne fanno, miracolo della pratica, una relazione politica. Nasce una Comunità di donne e uomini che ha una storia di lunga durata. E questo libro ce la fa conoscere, in profondità, con le stesse parole dei e delle protagoniste che l’hanno pazientemente e con tenacia e passione tessuta. Trent’anni di impegno per dare valore alle parole scambiate. La curatrice, Teresa Lucente, lo è nel senso letterale della parola, ha fatto un lavoro immenso seguendo passo passo le riflessioni e l’emergere di pensieri e parole nuove nei gruppi che si riunivano nei laboratori preparatori, che sarebbero confluite nei Convegni annuali, dove venivano proposte alla riflessione e alla discussione a tutti, tutte le partecipanti. Una speciale cura delle parole tanto cara ai membri dell’associazione, che si realizza attraverso la trascrizione fedele delle registrazioni degli interventi, attraverso il lasciare spazio alle parole maturate durante gli incontri, interni e pubblici, anche se non comunicati in presenza. Sono scandagliate con una precisione amorosa da entomologhe le relazioni di affidamento sperimentate nelle istituzioni che scompaginavano leggi, costumi, consuetudini. Penso all’esperienza di Graziella Borsatti che ha amministrato la città di Ostiglia per quattordici anni, cui la curatrice è debitrice del titolo. Non intestarsi le cose fatte ma avere cura delle relazioni e del come si fanno, dice Graziella, per disfare le logiche di potere e far luce sull’autorità. Una pratica relazionale per nominare la tendenza radicata a prendere possesso delle cose da fare e per tentare di trasformare la Giunta comunale in Comunità Governante «con il gusto della politica, che è ricerca incessante delle mediazioni e cura delle relazioni». Un orizzonte politico verso cui Identità e Differenza si indirizza immediatamente lavorando negli anni per svolgere il ruolo di Comunità Comunicante e Accogliente anche per donne e uomini impegnati nel governo delle città. Graziella B. dice: «E sempre mi veniva in mente questo luogo, questo Luogo accanto di Spinea […] perché mi permetteva di fare pensiero». I temi proposti per i Convegni annuali sono legati a relazioni ed esperienze reali, vissute, che ponevano interrogativi. Scorrendo le pagine degli Atti dell’Incontro-Scambio fra due Giunte del 1998, voluto da alcune dell’associazione, di cui fanno parte anche uomini, incontriamo sindaci, sindache, assessore e assessori, semplici cittadine, cittadini che si mettono a nudo, si interrogano sul proprio modo di operare. Per aprire l’incontro fu scelto Marco Cazzaniga, che confessa che quest’idea è nata dalle donne, agli uomini non sarebbe mai venuta in mente di intraprendere un’iniziativa come questa.

Scrive Gianni Ferronato che la paura più grande è quella della solitudine, una volta che scegli di fare una politica altra. Desiderio di amore e di politica: da qui nasce Identità e Differenza. Amore senza gelosie per allargare l’ambito del possibile. L’amore che fa anima. La cornice è quella della relazione, dello scambio nella differenza di essere donne e uomini. È ciò che rende creativa la politica: «C’è una forma dellamore femminile per la realtà che fa amare la differenza dice Annarosa ButtarelliUna forma che richiede ascolto e che necessita di parole ma anche di silenzio, di sosta e di ristoro […]».

Rendere creativa la politica è il tema del Convegno del 2003, undicesima Esperienza Formativa-Residenziale che ha luogo nella casa delle Suore Maestre di Santa Dorotea. Gelindo Tonon nell’invito al Convegno scrive «si tratta di andare oltre, di scostarsi da sé, spostare lo sguardo, lasciare che avvenga».

Il libro rende conto delle molteplici attività dell’associazione. Nel Convegno del 2004 ad Asolo Donne e uomini in Relazione di Differenza si interrogano su Pratiche creative di mediazione politica accade un imprevisto.

Lia Cigarini chiede agli uomini: «Sulla questione della relazione di differenza che gesto politico intendono fare gli uomini?» Chiede un’assunzione di responsabilità da parte degli uomini che riconoscono l’autorità femminile. «Cosa intendono fare gli uomini per significare agli occhi dei loro simili che c’è stato uno spostamento?». Il tema è la violenza sessista e Lia sostiene che gli uomini sono chiamati a fare un lavoro politico sul simbolico, come hanno fatto le donne, perché non basta prendere le distanze da quelle che lei chiama le figure sintomatiche, quali possono essere gli uomini violenti. Secondo Marco la via d’uscita è una relazione fra due libertà che sono asimmetriche. E per Lia è questa la difficoltà. Per lui la relazione è spesso una limitazione della libertà. Con Adriana e con l’incontro del pensiero della differenza si è aperto un mondo inaspettato. La libertà è nella relazione e non dalla relazione. Strade che si aprono. Lia C.: «penso che gli uomini devono compiere un gesto imprevisto che metta la differenza maschile, quindi la relazione di differenza sulla scena pubblica». Siamo all’ultimo Convegno nel 2019 ma i luoghi accanto continuano. Sono i luoghi dove le donne pensano e intessono relazioni con uomini che sanno stare in presenza di donne libere.


(www.libreriadelledonne.it, 21 dicembre 2020)

di Adriano Prosperi


«Come christiana benché peccatrice», Lucrezia Borgia si rivolse per lettera a papa Leone X il 22 giugno 1519 per chiedergli la benedizione dell’anima sua. Era stata l’ultima gravidanza a lasciarla in gravi condizioni e lei sentiva che ormai «era forza concedere alla natura». Con questo messaggio si chiude anche il gran volume delle lettere di Lucrezia che si deve all’investimento intellettuale e umano di una studiosa di grande qualità, da più di vent’anni attiva nel laboratorio di Lucrezia: Lucrezia Borgia Lettere 1494-1519, a cura di Diane Ghirardo, con la collaborazione di Enrico Angiolini, Direzione generale Archivi, Tre Lune Edizioni, pp. XLI-755, e 38,00). Da ricordare il suo lavoro su Lucrezia Borgia imprenditrice e l’accurata edizione critica dell’inventario degli enormi tesori che Lucrezia portò seco come dote quando fece il suo ingresso trionfale a Ferrara. Adesso è la volta delle 727 lettere che di Lucrezia ci sono rimaste. Sono state raccolte da più sedi e ora, decrittate quelle in cifra e tutte fittamente arredate di note filologiche ed erudite, si offrono alla lettura di chi vuole conoscere meglio una delle donne più celebri del passato. Occuparsene non è cosa da chi vuol passeggiare piacevolmente nei giardini della storia: vuol dire misurarsi con la realtà e l’immagine di una donna che fu oggetto di dicerie infamanti dei suoi contemporanei, coinvolta nella leggenda nera del papato di Alessandro Borgia e delle imprese del figlio Cesare. È quello che ha voluto fare Diane Ghirardo. La sua ampia introduzione rilegge la biografia della protagonista offrendone un ritratto che sostituisce alla incestuosa esperta di veleni una figura di madre e moglie virtuosa, cristianamente devota, ma anche donna di grandi capacità politiche e amministrative. E va detto che l’aiuta in questo la sorte che ha selezionato dell’epistolario di Lucrezia praticamente solo la parte ferrarese. È come se attraverso queste lettere sfumassero in prospettiva la Roma dei Borgia e i toni crudi della vita in quell’appartamento affrescato con divinità egizie e il taurino totem di famiglia che scandalizzò Edgar Wind. Lasciamoci dunque alle spalle le voci di cronisti del tempo romano e il secco giudizio di Francesco Guicciardini e cogliamo l’occasione per conoscere la Lucrezia ferrarese attraverso questa documentazione epistolare e lo sguardo rasserenante che Diane Ghirardo ha gettato sulla sua vita. Un’altra fonte per così dire a difesa – quella delle lettere del confessore – l’aveva pubblicata tempo fa Gabriella Zarri mettendo in risalto la quotidianità devota della duchessa. La domanda però resta aperta: qual è la vera Lucrezia? E qual è stato il Rinascimento delle donne che Joan Kelly nella sua provocatoria domanda rivolse anni fa agli storici? Perché non c’è dubbio che Lucrezia è stata la figura femminile più celebre di un certo Rinascimento, quello caro alle fantasie romantiche dell’Ottocento. Sul mare del vissuto femminile del tempo è il suo nome che spicca fra le poche abituali protagoniste, celebri per bellezza o per intelletto, sante o prostitute, nelle corti o nei conventi. Nel Rinascimento italiano il dominante potere di una casta sacerdotale e fratesca votata in teoria al celibato favorì la prostituzione e beatificò la santità. Ora, del sovrano di quella casta sacerdotale Lucrezia fu figlia e strumento nelle mutevoli alleanze politiche che passarono più volte attraverso la cessione del suo corpo di donna. Così, alla domanda rivolta agli storici se ci sia stato un Rinascimento per le donne, la risposta potrebbe essere: sì, perché c’è una donna il cui nome si lega da un lato al Rinascimento dei veleni e degli incesti romani e dall’altro alla molto diversa corte padana di Ferrara. La prima fase alimentò voci infamanti di cronisti e storici dell’epoca e trovò un’eco nei teatri e nella letteratura dell’Ottocento, quando lord Byron si innamorò della celebre ciocca dei suoi biondissimi capelli. Poi fu la storiografia a rimandarsi pigramente lo stereotipo dell’avvelenatrice dai molti mariti, oggetto di amori incestuosi, figlia di un papa simoniaco e sorella del Valentino – un fratello possessivo, geloso al punto da farle assassinare il marito Alfonso d’Aragona dal suo scherano Miguel de Corella, il fosco personaggio che doveva incantare Machiavelli. Anche quando nel 1939 fu la carriera letteraria di Maria Bellonci a esordire col romanzo della vita di Lucrezia, fondato più su voci altrui che su fonti dirette, ci si trovò immersi nell’ambiguità di un’epoca lontana e affascinante per una sua morale fuori misura. Ma già allora la distinzione tra la Roma borgiana e la corte ferrarese rese possibili riconoscimenti alla serietà e all’intelligenza della duchessa estense. Gli storici cattolici del dopoguerra, come Giovanni Soranzo e Gian Battista Picotti, ebbero troppo da fare col personaggio di papa Borgia per occuparsi di lei. Così la ricerca della verità documentaria su Lucrezia è rimasta a lungo silente per svegliarsi solo quando sono state le storiche a dedicarsi allo studio delle fonti disponibili. E oggi la sua figura riappare, filtrata dalle lettere e dalla netta presa di posizione di Diane Ghirardo, come quella di una donna esemplare, madre e moglie affettuosa, cristiana devota, duchessa di gran polso, conversatrice amabile coi suoi corrispondenti: una vera santarellina, ha scritto un perplesso Giulio Busi, conoscitore come nessun altro di quel mondo. Va detto tuttavia che Lucrezia può contare tra i testimoni a suo favore nientemeno che su Ludovico Ariosto che ne elogiò ripetutamente «la beltà, la virtù, la fama onesta». Quel passato romano l’accompagnò in terra emiliana dove era giunta a cavallo col grandioso dispiegamento di seicento illustri accompagnatori e di una dote strepitosa di arredi e gioielli recata a dorso da più di ottanta muli. Fu da subito mediatrice autorevole col padre pontefice sia per il duca sia per il cognato cardinale, Ippolito d’Este. Anche quando la stella dei Borgia era giunta al tramonto non esitò a chiedere aiuto al nuovo papa per la liberazione del fratello Cesare prigioniero in Spagna. Tuttavia, chi cercasse in questo epistolario tracce di ricordi e testimonianze della vita precedente si troverebbe deluso. Certo, non era questo che una duchessa poteva affidare allo scritto. La tradizione delle lettere di famiglie signorili nelle corti italiane risaliva molto addietro nel tempo e la loro ricchezza nei nostri archivi ha sempre stupito e attirato gli storici. Ma non si trattava di un genere epistolare come luogo di confidenze intime in un rapporto privato. Quelle lettere nascevano dalla necessità di curare le relazioni tra famiglie dominanti dei piccoli stati italiani, per garantirsi alleanze o almeno per intercettare per tempo nascenti ostilità, come richiedeva la natura di poteri fragili, nati da avventure personali e sempre minacciati dal mutare della fortuna. Le lettere di Lucrezia appartengono a questa tradizione politica recandovi in più, di femminile, il carico dei doveri di ogni donna. Bisognava farsi accogliere nella famiglia del marito: da qui le letterine di obbedienza e rispetto al suocero Ercole e gli omaggi e i ringraziamenti alla cognata Isabella, la coltissima e molto supponente marchesa di Mantova. Il flusso più continuo e numeroso è offerto dalla corrispondenza col marito, spesso assente per guerre, mentre la moglie esercitava poteri ducali verso i sudditi e le municipalità delle città soggette. In questa veste Lucrezia mostra di saper usare lo stile di comando appreso a Roma: benevolo, suadente e autorevole ma all’occasione fermo e ultimativo. Del privato suo mondo di affetti e di pensieri appare ben poco, al di là di quelli seri e intensi riservati a marito e figli. In altri casi la lettera si limitava a rinviare il destinatario a ciò che il latore gli avrebbe riferito a voce, come accadde nel rapporto epistolare con Pietro Bembo conservato all’Ambrosiana, residuo di una corrispondenza amorosa ricca di cautele e di silenzi. Cristiana e peccatrice, si sentiva: ma cos’era la sua religiosità? Poco più che convenzionali le frasi sulla misericordia divina per gli esseri umani e «per gli peccati di questa nostra etade» di una lettera al marchese di Mantova. Ma è il polso di una persona di potere concreta e realistica che si avverte quando, tenendo a bada le pulsioni mistiche di suocero e cognato, impose nel 1505 alla visionaria «santa viva» Lucia Brocadelli di rientrare nell’ordine di una regola monastica. Aveva anche lei bisogno di uno spazio appartato dove respirare: e la sua scelta cadde sul convento del Corpus Domini, sacro alla lieta religiosità di Caterina Vigri. Qui volle vivere accanto alla figlia Eleonora che vi sviluppò l’amore per la musica. E qui, vicina a morire dopo l’ottavo parto, scelse di venire sepolta. La sua figura restò affidata ai versi dei poeti e alle pitture degli artisti. Poter leggere oggi le sue lettere e rendere giustizia alla sua figura è un’occasione da non perdere. Il merito va riconosciuto alla dedizione appassionata e competente di Diane Ghirardo.


(Alias, il manifesto, 20 dicembre 2020)

di Stefania Tarantino


A proposito di «Soggettività e potere. Ontologia della vulnerabilità in Simone Weil», un volume di Rita Fulco per Quodlibet


L’ultimo libro di Rita Fulco indaga da un punto di vista ontologico il rapporto tra soggettività e potere nel pensiero di Simone Weil. Il pre-originario, relativo all’analisi di ciò che, in forma universale e sostanziale, sta all’essere in quanto tale, alle sue dimensioni imprescindibili colte al di là delle determinazioni contingenti. Soggettività e potere. Ontologia della vulnerabilità in Simone Weil (Quodlibet, pp. 165, euro 20), il volume è diviso in tre capitoli e segue un itinerario di pensiero che parte dalla decostruzione weiliana della soggettività, attraverso il movimento del distacco e della decreazione, individuando l’umanità dell’umano al di là del soggetto, della metafisica del potere e nel sentimento di giustizia.

Nel confronto con l’analisi di Simone Weil, Rita Fulco indica, come un primo elemento che specifica il «proprio» dell’essere umano, l’esposizione senza difese alla necessità e alla forza. Venire al mondo coincide con questa esposizione che sarebbe errato considerare pertinente solo al momento della nascita. È qualcosa che attraversa e accompagna tutta l’esistenza umana e non solo. L’esposizione svela dimensioni essenziali per la riflessione di Simone Weil sulla soggettività. Il suo carattere aperto e proiettato verso un fuori di cui non siamo padroni e che non può mai essere inteso e vissuto come autocentrato. Non tutto dipende da noi. Siamo sempre esposti alla necessità e dunque soggetti al caso. 

La nostra «natura» è intrinsecamente vulnerabile e sottoposta a un limite. Non accettare questo dato essenziale della condizione umana, produce una distorsione nel modo in cui abitiamo e intendiamo la realtà, noi stessi/e e gli altri. È dalla percezione della vulnerabilità e dal contatto con il limite che si hanno giustizia e saggezza. Nell’approccio critico alla soggettività, Simone Weil vede le continue illusioni che l’io si fabbrica per fuggire tale consapevolezza attaccandosi al possesso delle cose nella brama di essere qualcosa. Una difesa naturale, una disposizione psichica, sostenuta e amplificata dalla dimensione sociale, che protegge da ciò che è imponderabile e che ci espropria da questo dato di fatto. Per sopportare il dominio incontrastato della forza nella physis è necessaria un’educazione spirituale che ci insegni a gestire tutte quelle situazioni in cui sperimentiamo sulla nostra pelle l’illusorietà del nostro potere comprendendo la nostra vulnerabilità. 

Nell’interpretazione che Simone Weil offre della civiltà greca, si fa riferimento alla profonda consapevolezza che questa civiltà aveva della miseria umana e, conseguentemente, del fatto che nessuno può sfuggire all’ineluttabilità del destino, parte integrante dell’ordine dell’universo. 
La meccanica spirituale è iscritta nella logica della creazione al pari di ogni meccanica fisica. Ma, a differenza delle leggi implacabili e ferree che regolano il corso degli eventi naturali, quelle che riguardano la soggettività umana sono soggette a infinite variabili e richiedono un «addestramento» costante. Simone Weil accorda così grande importanza alla formazione spirituale e culturale perché performa i processi di soggettivazione. Fulco sottolinea a più riprese l’importanza per Simone Weil di dare vita a una «psicagogia», a un processo di formazione costante dell’anima umana nella solitudine indispensabile al pensiero e all’azione, mettendo altresì in luce il carattere problematico e ambiguo che tale «formazione», pensata secondo un immaginario di classe, potrebbe avere nei processi di soggettivazione, dal momento che potrebbe tradursi in un’imposizione di determinate forme di vita. Resta che solo attraverso un «addestramento» costante dell’animale che è in noi, è possibile costruire l’architettura dell’anima, far nascere la facoltà di attenzione che genera il desiderio di giustizia. 

Conquistare una disciplina interiore ci consente di apprendere l’arte soggettiva del distacco e della decreazione. Assume qui un ruolo centrale l’abitudine che testimonia dell’antico legame tra corpo e spirito e della natura plasmatrice dell’anima attraverso cui si ha un trasferimento di sensibilità della coscienza in un oggetto diverso dal corpo proprio. Simone Weil lo chiama corpo artificiale per indicare quella meravigliosa capacità che il corpo ha di incorporare, come proprio corpo, tutti quegli strumenti che estendono la sua sfera d’azione. È la scena su cui si apre la riflessione sull’impersonale come via di corrispondenza (e non di conquista) dell’universo. Dalla concretezza di quest’attività plasmatrice dell’anima sul corpo si assume un modo d’essere, un habitus che appare come qualcosa di naturale, qualcosa che sembra andar da sé mentre è frutto di lavoro. 

L’estensione della percezione su strumenti che hanno la stessa immediatezza del proprio corpo è al centro di molte sue analisi poiché mette in luce la vera natura del lavoro. Gli esempi che ci offre sono molteplici: quello del bastone da cieco che diventa, al posto della mano, il luogo sensibile su cui il cieco può fare affidamento; quello del marinaio che diventa tutt’uno con la propria barca tanto da percepirne le posizioni e i movimenti come propri; quello del musicista che diventa il suo strumento. Ciò che qui accade è un trasferimento della sensibilità dal proprio corpo al corpo artificiale (strumento). Tutto ciò mostra come l’anima sia capace di dislocarsi fuori dal proprio corpo in cosa altra. L’estensione della propria percezione attraverso gli oggetti non corrisponde per Simone Weil a un’estensione di sé, del proprio io, al contrario, a una riduzione, a uno svuotamento di sé. Più che dominio c’è consegna alla struttura dell’ordine del mondo, alla modificazione necessaria che lo strumento richiede per confermarci alla realtà dei rapporti. L’abitudine ci offre l’apprendimento di un metodo attraverso il quale ci impossessiamo – dislocandoci da noi stessi – del mondo oggettivandoci in qualcosa di altro da noi. Tale trasferimento della sensibilità, possibilità di estensione e di prolungamento, è essenziale per aprire nuovi tracciati d’intensità che ci fanno riconoscere come nostro il volto di chiunque subisca i colpi della sventura. 

Solo sapendo che ciò che accade agli altri può accadere a noi, è possibile disegnare le basi di una teoria degli obblighi verso l’essere umano. E qui si apre il versante giuridico-politico dell’analisi, che apre una finestra anche sul lavoro operaio e sul ruolo dei partiti politici. Obbligo è responsabilità nei confronti degli altri. È corrispondenza. È dare una risposta di prossimità a chi si trova schiacciato dagli eventi, dalle calamità, dalle ingiustizie. Ecco perché il darsi dell’obbligo è considerato come simultaneo all’esserci dell’umano. L’invito weiliano che l’autrice coglie come compito da avviare in questo nostro presente è «pensare le nozioni fondamentali come se fossero delle realtà nuove». È un compito complesso e necessario che Rita Fulco estrae da questa lettura attenta di Simone Weil e che riconsegna noi lettori e lettrici «all’intima estraneità» delle vite e della vita. Fondamento dell’essenza conoscitiva nella dimensione materiale della vulnerabilità in cui ricaviamo il senso preciso dell’orribile conflitto che questo «nostro» mondo vive. 


(ilmanifesto.it, 17 dicembre 2020)  

di Giovanna Ferrara


«Vive, libere e senza debiti. Una lettura femminista del debito», di Luci Cavallero e Verónica Gago edito da Ombre Corte


Il femminismo come sguardo trasversale, capace di connettere interi universi, fa esplodere la sua potenza ermeneutica quando si confronta con i temi generali di crisi che affliggono il reale. Ne è un esempio l’ultimo lavoro delle studiose argentine Luci Cavallero e Verónica Gago, Vive, libere e senza debiti. Una lettura femminista del debito, edito da Ombre Corte con la prefazione di Federica Giardini e la traduzione di Nicolas Martino (pp. 149, euro 14).

La prima arma che questa ricognizione attenta e intelligente della questione debito mette a disposizione riguarda la capacità della lettura femminista di smontare l’astrazione che slega la finanza dalla sua responsabilità sociale. Il modo di procedere di cui si dà notizia, lungo i tanti esempi estrapolati da anni di lotte in America latina e le tante ricerche di cui si fa menzione, aspira a diventare metodo di lettura del mondo: quando si parla di finanza, di inflazione, di agenzie di credito, di tassi bancari, riusciamo a rappresentarci le proiezioni che questi istituti innestano sulla materialità della vita? Se lo facciamo, come lo hanno fatto i vari collettivi di Non una di meno in tutto il mondo, le varie esperienze di potenza praticata dallo sciopero femminista, le tante organizzazioni di lavoratrici e migranti, le associazioni contro le speculazioni immobiliari o contro l’invisibilità del lavoro riproduttivo, riusciremo a identificare gli effetti del processo di finanziarizzazione in termini di violenza nelle case e nei territori, in termini di sfruttamento del lavoro, in termini di iniquità sociale. «L’economia femminista – ci avvertono le autrici – implica una ridefinizione, da parte dei corpi differenti e dissidenti di ciò che è lavoro e di ciò che è espropriazione, dei modelli di agire comunitari e femminilizzati, in cui oggi sono impegnate le economie popolari, migranti, domestiche e precarie. Essa apre una linea di ricerca in relazione alla finanza come guerra alle nostre autonomie».

Cavallero e Gago utilizzano tutto il materiale esperienziale accumulato negli studi e nelle lotte per definire non solo i possibili assi di intervento nelle forme di ribellione al meccanismo perverso dell’indebitamento, bensì per spingersi in avvertimento ai tranelli che si possono incontrare, diventando una sorta di mappa del tesoro, dove per tesoro si intende una esistenza degna per tutti. Molti gli esempi della portata «ulteriore» di questa pubblicazione: quando mettono in guardia dal pericolo che il riconoscimento del lavoro di cura possa avvenire al prezzo della sua servilizzazione, quando chiedono di comprendere a fondo «le forme del lavoro migrante e le nuove gerarchie tra i lavoratori free lance». 
Quando tratteggiano le insidie culturali che sono dietro ai modelli di imprenditoria femminile, quando scavano dietro ai piani di riscatto delle proprietà occupate la volontà di estorcere un consenso volontario agli sfratti.

Quando ricordano le analisi di Melinda Cooper, che studia i motivi per i quali sia i neoliberali che i conservatori si siano opposti a programmi a basso budget a favore delle madri afroamericane single, che con i loro corpi danneggiavano l’immagine di famiglia eterosessuale bianca che rappresenta «l’orizzonte morale» delle politiche di finanziarizzazione. 
Danno una forza impressionante al testo le interviste che ne costituiscono l’appendice. Testimonianze di carne dei dispositivi illustrati, ma anche delle insorgenze sperimentate nelle diverse comunità, come il pasanaku, una «cassa di risparmio autorganizzata tra compagne» senza interessi, spesso usata per tirare fuori una delle partecipanti dal meccanismo perverso dei tassi di indebitamento.

Nelle otto tesi sulla rivoluzione femminista riportate alle fine, si ripercorre, con precisione sistematica, la grande portata dell’opportunità femminista nella possibilità di «mappare il nesso concreto tra violenza patriarcale, coloniale e capitalista. Ciò dimostra, ancora una volta, che il movimento femminista non è al di fuori della questione di classe, né può essere separato dalla questione di razza». Che nel coglierci come soggetti non isolati il femminismo dispiega la sua forza di essere lo sguardo più opportuno sul mondo.


(il manifesto, 11 dicembre 2020)

di Sara De Simone 


Poesia. «Esercizi di potere», una silloge dell’autrice canadese, tradotta da Silvia Bre, per le edizioni Nottetempo. Al centro, le relazioni d’amore che abitiamo, con desiderio, conflitto, differenza. E la coppia come territorio di guerra


Quasi sessant’anni fa una ragazza canadese decise di autopubblicare la sua prima silloge poetica stampandone a mano 220 copie. Sulla copertina disegnò due steli e due foglie, entrambe munite di occhi, a predire il ruolo vivo e centrale che la natura avrebbe avuto in tutta la sua produzione. Double Persephone (1961), questo il titolo, era un libriccino di 16 pagine in tutto, fu venduto a 50 centesimi a copia, e le valse l’E.J. Pratt Medal, prestigioso premio che ancora oggi l’Università di Toronto assegna ai suoi studenti poeti. Quella ragazza si chiamava Margaret Atwood, e cominciava così, con semplicità e vero talento, il suo lungo viaggio nel mondo della letteratura.

Autrice prolificissima di decine di libri di poesia, romanzi, saggi, storie per bambini, icona del femminismo e dell’ambientalismo, Atwood ci ha abituati, nel tempo, al suo sguardo preciso e insieme surreale, alla sua penna affilata, ironica, potente. Eppure non smette di sorprenderci. La raccolta di poesie Esercizi di potere, appena uscita per Nottetempo (pp. 153, euro 12) con la splendida traduzione di Silvia Bre, è un’occasione preziosa per approfondire la sua scrittura in versi, meno nota al pubblico italiano. 
Esercizi di potere, pubblicato nel 1971, è senz’altro un libro simbolo di un’epoca, quella del femminismo, della messa in discussione dei rapporti di potere tra uomini e donne, ma come ogni grande scrittura non si limita a interpretare il proprio tempo: ne restituisce il passato e ne prefigura il futuro. Dal futuro leggiamo i versi di Atwood, dal futuro li sentiamo testimoni di una storia che ci riguarda, e che interroga il nostro presente: quello delle relazioni d’amore che abitiamo, con desiderio, conflitto, differenza. Il fulcro di Esercizi di potere è, infatti, la coppia come territorio di guerra: un corpo a corpo, una sfida, un agone fra due. 
Accade che questi due siano un uomo e una donna, accade che su quest’uomo e questa donna agiscano fantasmi antichi, che prendono o perdono forza a seconda del momento. Accade che si amino, e si odino, e si accarezzino e vogliano distruggersi, e che l’uno si configuri come il soggetto dominante e l’altro come il soggetto dominato. Accade – e questo fa la differenza – che a raccontare di tutto ciò sia una donna. 
«Al ristorante discutiamo/ su chi di noi pagherà il tuo funerale// sebbene la reale questione sia/ se io ti renderò sì o no immortale», scrive Atwood in una delle prime poesie della raccolta, chiarendo fin da subito che il compito spettato per secoli ai poeti – quello di eternare la donna amata – sia ora nelle mani di lei, di quell’altra.

Più avantirincara la dose: «Ti prego muori ho detto/ così posso scriverne». La citazione è chiara, l’ironia feroce, chi scrive – la donna, soggetto imprevisto della storia, come pure della poesia – conosce perfettamente la Tradizione e il Canone, per questo può rovesciarli. 
Se, dunque, Dante dichiarava esplicitamente l’ineluttabilità della morte della donna amata, configurando la lirica d’amore come lirica dell’assenza – «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia» (Vita Nuova, XXIII) – che cosa farà dell’uomo amato la donna poeta? 
Nel caso di Atwood, come di molte altre, la risposta è stata ed è: ne scriverà, decostruendo la tradizione precedente e inventandone una nuova, con competenza e sublime ironia. Operazione che non equivale affatto a una «liquidazione», piuttosto ad una riscrittura creativa e critica, che mentre confuta e rovescia il Canone, pure ne recupera e trasforma gli aspetti vitali.

«Mi accosto a questo amore/ come una biologa/ infilandomi guanti/ di gomma & camice bianco» annuncia Atwood: eccolo il plurisecolare oggetto del desiderio, la donna da guardare e, eventualmente, lodare, che cambia di posto, e si mette i guanti, s’infila il camice, inforca gli occhiali. Adesso è lei che guarda, lei che percorre centimetro per centimetro il corpo dell’altro, lei che palpa, descrive, classifica, tassonomizza: «Come uova e lumache hai un guscio/ Sei esteso/ e nocivo al giardino/ arduo da estirpare», enuncia nella poesia intitolata Lui è uno strano fenomeno biologico. E continua: «prosperi nel fumo; sei senza/ clorofilla; ti sposti/ da un luogo a un altro come un malanno/ Come i funghi tu vivi negli armadi/ e spunti fuori solo nottetempo».

Altro che donna angelo, eternata perché morta, qui «Lui», l’amato, è vivo e infestante: un coacervo di virus e batteri, un parassita, un fungo, uno «strano fenomeno» da contrastare e mettere in versi, a futura memoria. Gli uomini deuteragonisti di Esercizi di potere sono di rado semplici “umani”: uno ha tre teste e sei occhi, l’altro «la faccia d’argento», «squamata come un pesce», uno è senza spina dorsale, e appena toccato si scioglie, l’altro è un «comandante di legno», troppo rigido per farsi carne. Benché l’incontro sia arduo, quando non impossibile, la fascinazione della poeta per queste strane creature differenti persiste. Il teatro di guerra è destinato a ripetersi. Del resto, a questo servono gli «esercizi di potere»: a misurarsi, a inseguirsi, a inchiodarsi, a vincere, a perdere. E a ricominciare ogni volta da capo.

Insomma, «no wonder» – «nessuna sorpresa» – scrive Atwood, se non fosse che qualcosa per spezzare questa bellicosa coazione a ripetere c’è. Per esempio, se «lui» si lasciasse toccare più a fondo, se acconsentisse a sentirsi esposto, se abdicasse a un po’ di potere… qualcosa di diverso accadrebbe. «Ti accarezzo lievemente e tu hai i brividi/ ti contrai, ritiri/ persino il contorno della pelle/ il piacere è ciò che prendi ma non accetti». E continua: «ti faccio scorrere la mano lungo/ il collo, sento il polso/ ti ritrai/ hai qualcosa nella gola che vuole/ uscire fuori e tu non lasci». A impedire all’altro di abbandonarsi c’è un punto inscalfibile di resistenza, una maglia serrata che non si lascia allentare. Come se davvero fosse (lo è ancora?) troppo difficile accettare il fatto che chi penetra è, sempre, anche penetrato. Come se si potesse ignorare che l’incontro col corpo di una donna, o di un uomo, ci rende – tutti – similmente friabili. Come se la posizione di chi entra – di chi deve «farsi largo» – possa (e debba) essere una posizione libera dall’angoscia della vulnerabilità, dell’apertura, dell’incontro profondo: «non si muove come amore, non/ vuole conoscere, non/ vuole accarezzare, dispiegarsi/ non vuole nemmeno/ toccare ti muovi/ dentro me come se io/ fossi (facendoti/ largo a strattoni, è cosa/ urgente, è la tua vita)/ l’ultima/ libertà possibile».

Atwood non dà istruzioni su come uscire dal filo spinato degli «esercizi di potere». Dai loro meccanismi usurati, dalle logiche oppositive che li governano. Ma indica direzioni verso cui allargare lo sguardo, oltre le teste, oltre la piccola guerra fra due: «Considerando gli animali in sparizione/ il proliferare di fogne e di paure/ l’addensarsi del mare, l’aria/ prossima a estinguersi/ dovremmo essere gentili, dovremmo/ sentire l’allarme, dovremmo perdonarci/ Invece siamo contro, ci/ tocchiamo come chi aggredisce,/ i doni che portiamo/ persino in buona fede forse/ nelle nostre mani si deformano in/ dispositivi, in stratagemmi». Sono versi di cinquant’anni fa, che descrivono l’attuale – della coppia, e di tutte le relazioni – con precisa vividezza. 
Non si tratta di fare appello ai buoni sentimenti, piuttosto di stare nella vita per quella è: fragile, breve, sempre più minacciata. Sapere questo, saperlo davvero, non ci renderà campioni di pace e di perdono. Ma forse ci aiuterà a guardare con più attenzione cosa abbiamo tra le mani, cosa offriamo all’altro, all’altra, e perché. 
Soprattutto, ogni volta che amiamo, ci metterà davanti a una domanda scomoda e centrale: «Una verità dovrebbe esistere,/ non andrebbe usata/ così. Se ti amo/ questo è un fatto o un’arma?».


(ilmanifesto.it, 5 dicembre 2020)

di Luisa Muraro


Sull’inserto del manifesto Alias del 14 novembre ho letto una interessante recensione di Anna Wiener, La valle oscura (Adelphi 2020), firmata da Massimo De Carolis. La valle del titolo è la Silicon Valley, il dipartimento industriale della California famoso per ospitare centinaia di imprese di tecnologia informatica; il tech, lo chiama l’autrice nel racconto autobiografico dei quattro-cinque anni di lavoro in questo tipo di aziende. Anzi, così lo chiama la traduttrice, Milena Zemira Ciccimarra; io avrei tradotto con la tech, al femminile. Ma poco importa, la lettura del libro è appassionante, oltre che istruttiva, merito anche di Zemira. Alla quale vorrei ricordare soltanto che il femminile di presidente è presidente.

Il titolo, che traduce esattamente quello originale: Uncanny Valley, fa pensare agli inizi del viaggio di Dante che si è perso in una valle oscura… Quella di Dante è una selva, ma lui stesso, pochi versi dopo, la chiama valle: «là dove terminava questa valle che m’avea di paura il cor compunto». Paura, guarda caso, è una parola che troviamo anche nella recensione di Alias. Per caso? C’è chi dice che il caso non esiste.

Il racconto dei quattro-cinque anni passati a lavorare nel tech scorre come una lunga rassegna di fatti e pensieri occasionali, incontri e dialoghi, descrizioni e riflessioni. Procede per accumulazione veicolando segretamente una crescente insofferenza. Alla fine l’insoddisfazione si espliciterà in una presa di coscienza dell’autrice-protagonista, che riguarda tanto il mondo del tech quanto lei stessa in quel mondo e il suo modo di lavorare. Ma non è più una generica diffidenza o avversione come quella descritta all’inizio che era snobismo newyorchese più che consapevolezza.

Torno alla recensione la quale ha come titolo (titolo d’autore, presumo) Miraggi di benessere pilotati verso l’obbedienza: per quanto? Per capire il titolo bisogna sapere che a un certo punto Massimo De Carolis fa un accostamento sorprendente: accosta a La valle oscura un libro intitolato Operaie e dedicato alle operaie di un’immensa fabbrica cinese. Ebbene, mi pare che il titolo della recensione sia sbilanciato verso quest’ultimo libro e che, applicato a quello di Anna Wiener, ne trascuri qualcosa di essenziale, qualcosa che ha a che fare con la presa di coscienza di cui abbiamo parlato.

La presa di coscienza porta la protagonista ad abbandonare un mal riposto sentimento di empatia con l’altro sesso, a rendersi invece consapevole di una differenza maschile e a intuire che quest’ultima riguarda il rapporto di agio/disagio nel mondo avanzante del tech.

L’accostamento tra i due libri resta nondimeno sensato, anzi qui si potrebbe vedere la sua ragione più profonda: donna è colei che fa e racconta il viaggio nella valle oscura, donne sono le ragazze che lasciano le campagne cinesi per lavorare nell’immensa fabbrica e donna è la studiosa che raccoglie le loro confidenze, Leslie T. Chang. È un caso? No, appunto. Si tratta in entrambi i casi di lavoro postmoderno, spiega l’autore della recensione. Sì, ma secondo me quello che risalta di più è la presenza femminile che cambia il modo d’intendere il lavoro e il suo rapporto con la vita. Costatazione, timore o previsione che sia, questo pensiero, dopo che ha preso forma, viene scartato: «Beninteso non si tratta…». Non si tratta cioè di quello che ha in mente lui in vista di cambiare il mondo.

Io credo di sapere il perché di questo scarto: perché approfondire quel pensiero di un soggetto che non vede le cose come le vede lui, gli chiederebbe di decentrarsi per prendere coscienza della sua differenza, la differenza maschile.

Qui, infatti, nella presa di coscienza della vuota eccitazione di lavorare in una startup di successo, quello che alla lunga risalta agli occhi di una donna come la protagonista di La valle oscura sembra essere il rapporto degli uomini con il potere e il primato. Rapporto che in effetti li tiene straordinariamente occupati, ma che non è e non può diventare il rapporto di lei: «non riuscivo a immaginare di tornare a essere così compiacente, così totalmente assorbita». Con queste parole lei si congeda dalla carriera. Lui, neanche si accorge di seguire, compiacente e assorbito, la logica del potere e vagheggia di cambiare il mondo (o di conservarlo, dipende) restando in ogni caso centrato su di sé. Per quanto ancora?


(www.libreriadelledonne.it, 2 dicembre 2020)

di Giuliana Sgrena


Il vento tra i capelli non è una suggestione, è la percezione fisica della libertà. Avvertita da molte donne costrette a coprirsi i capelli e il corpo. Lo è sicuramente per Masih Alinejad promotrice della campagna Stealthy Freedom (Libertà clandestina), lanciata nel 2014 su Facebook per pubblicare le immagini delle iraniane che osano fotografarsi senza velo, una trasgressione che molte hanno pagato con il carcere.

Masih allora si trovava già a New York, aveva lasciato l’Iran nel 2009, ma il velo è sempre rimasta la sua ossessione, non solo e tanto per quel pezzo di stoffa ma perché simbolo dell’oppressione delle donne. «Era da quando avevo sette anni che dovevo mettere l’hijab», scrive Masih Alinejad nel suo libro autobiografico Il vento tra i capelli, la mia lotta per la libertà nel moderno Iran pubblicato da Nessun dogma (pp.440, euro 22). E già da bambina si ribella alle imposizioni della Repubblica islamica, un atteggiamento che si immagina più consono a chi cresce in una famiglia borghese di Teheran mentre lei è nata in un villaggio del Mazandaran, una provincia dell’Iran settentrionale, da una famiglia di contadini molto religiosa e sostenitrice, soprattutto il padre, degli ayatollah al potere.

«Prima copriti i capelli, è un appunto che conoscono tutte le donne iraniane. È un modo per mortificare le donne… per chi come me ha tanti capelli è sempre problematico coprirli», racconta Masih. Le sue origini l’hanno abituata a parlare a voce alta, un altro ostacolo in un mondo oscurantista che considera la voce delle donne una vergogna. Masih fin da giovanissima cerca il riscatto nella cultura partecipando all’organizzazione di un club clandestino di lettura, ma le letture scelte fin da subito erano politiche – dai libri si passò ai volantini – e avrebbero segnato il suo futuro, anche portandola in carcere e a conoscere la violenza bruta della repressione. Anche il matrimonio con un aspirante poeta, che aveva accettato per sottrarsi alle costrizioni familiari, non porterà alla realizzazione di quella libertà tanto agognata. Rimasta incinta prima del matrimonio – un altro sfregio alla morale islamica – non è rimasta a lungo a lavare pannolini: fotografa prima e giornalista parlamentare poi ha sempre sfidato gli ayatollah.

Il divorzio chiesto dal marito oltre a rappresentare uno stigma la metteva di fronte alle discriminazioni del diritto di famiglia. «In tribunale mi scontrai con la triste realtà dell’essere donna nella Repubblica islamica, dove le leggi sono promulgate da misogini che si rifanno a direttive e precetti del settimo secolo», scrive. Quelle leggi che avrebbero affidato la custodia del figlio di quattro anni al marito. Del divorzio è sempre accusata la moglie anche se a chiederlo è il coniuge. «In seguito scoprii che una donna divorziata è ancora più desiderabile agli occhi di certi uomini» che cercano favori sessuali al di fuori del matrimonio. La soluzione: risposarsi.

Masih non ci sta. La fuga all’Iran non taglierà i legami con le donne che lottano per la libertà, diventerà la loro voce sulla scena internazionale.


(il manifesto, 20 novembre 2020)

di Stefania Giannotti


La scintilla era già scoccata col n. 48 di “Via Dogana”.

Lontanovicino. Il Dio delle donne era il titolo della rivista della Libreria delle donne nel febbraio 2000.

Apriva un discorso che in me e penso in molte altre, per lontananza o all’opposto per vicinanza a Dio, creò un’aspettativa. Era un Dio diverso dal solito, eppure rispondeva a uno stesso bisogno, quello che si leggeva tra le righe: non un contenuto ma una dimensione, «dimensione sommersa dell’esperienza femminile» diceva l’editoriale. Ebbi la sensazione che il femminismo fosse pronto. O comunque io.

L’aspettativa non fu tradita. Fui una delle prime a sapere quello che bolliva in pentola: nel 2000 Luisa Muraro mi chiese di fare da prima lettrice di un libro che aveva quello stesso titolo, Il Dio delle donne, e che uscirà in prima edizione nel 2003 con Mondadori.

Meraviglia e smarrimento (e qui ci vorrebbe una di quelle faccine emoticon che si usano nei social per indicare emozioni e sentimenti). Io? non di formazione religiosa, non filosofa…? Mi domandavo il perché e non ne trovavo la ragione. Lo capii molto più tardi, quando a me, titubante perché forse non avevo capito un passo o forse non dicevo bene le mie osservazioni, lei un giorno rispose: «Di’ quello che vuoi, poi ci penso io, mi serve». Luisa voleva col Dio delle donne, e penso con tutta la sua produzione filosofica, parlare al mondo, alle donne, alle femministe, a tutti, fuori da ogni specialismo e dall’accademia.

Incominciai la lettura a piccole dosi. Alcuni ricordi sono indelebili ancora oggi, dopo diciassette anni. Quel testo mostrava ad ogni capitolo la possibilità di riappropriarsi della parola Dio, non per rimetterlo al posto della fede o dell’“io credo”, dove era stato collocato prepotentemente come Dio Padre Onnipotente dalla storia degli uomini, ma per cogliere la possibilità di un “oltre”, vedere e spingersi verso un “altro mondo”, imprevisto ma possibile. E lì intravidi e cominciai a conoscere quell’altro mondo e quell’altro pensiero che è delle mistiche. Per me significava rinsaldare la politica con qualche cosa che la eccedeva, e che, penso come tutte, avevo incontrato senza conoscerla nei momenti di grande felicità o di dolore. Assoluto? Amore? Dio?

Quelle brecce, che ogni capitolo apriva nella corazza della politica degli ultimi decenni del ’900, dal ’68 alla lotta al patriarcato, disegnavano una strada da percorrere, che mi indicava di stare al presente, al fattuale, coi piedi per terra, ma senza accontentarmi. Andare oltre, che non significa oltrepassare un limite ma mirare in alto. Non è che una tensione, una corda tirata. Ma ridisegnare la storia delle donne e tendere alla libertà femminile non è questo? Forse senza mai concludere, come resta inconclusa la sua stessa tensione. E inconcluso il pensare Dio liberamente.

Un libro che indica una strada è un libro politico ed è importante per chi lo legge. E questo lo è. Accompagna la vita.

Pubblicato da Mondadori nel 2003, fu ristampato da Il margine nel 2012 con la prefazione di Grazia Villa. Ed eccolo di nuovo oggi nella edizione dell’editore Marietti 1820. Accompagna una vita intera.


(www.libreriadelledonne.it, 19 novembre 2020)

di Luciana Tavernini


Recensione al n. 58/2020 della rivista DUODA Estudios de la diferencia sexual


Accade che un testo che contiene scoperte importanti per la politica delle donne si e ci illumini in modo potente quando viene ripubblicato e posto insieme ad altri che propongono sfaccettature diverse dello stesso tema.

È quello che è accaduto a me rispetto al tema monografico della rivista DUODA dell’Università di Barcellona «L’invidia delle donne» che ci offre in traduzione spagnola il saggio di Chiara Zamboni «Invidia e amore nell’esperienza dell’eccedenza femminile»i e quello più recente di Wanda Tommasi «L’invidia, male sacro: María Zambrano e Melanie Klein»ii proprio perché accostati tra loro e proposti insieme a quello della psicologa Candela Valle Blanco «La envidia de las mujeres: cómo entenderla y cómo sanarla» (Linvidia delle donne: come capirla e come guarirla). Essi rispondono «alla necessità di fare ordine e offrire luce politica all’invidia delle donne», come scrive Laura Mercader Amigó nella presentazione del tema. I testi di Tommasi e Zamboni seguono tre linee della ricerca filosofica che dal 2005 sta portando avanti la comunità di Diotima dell’Università di Verona, cioè quale spazio hanno l’inconscio, il lavoro del negativo e l’ombra della madre nella politica delle donne oggi.

I quattro testi del tema monografico costituiscono un contributo all’elaborazione simbolica dell’invidia delle donne, un contributo importante per tutte e soprattutto per le femministe che sanno come la politica delle relazioni sia il fondamento della libertà femminile.

Le autrici concordano con riflessioni diverse sul fatto che l’invidia è una passione che tocca sia uomini sia donne, ma nelle donne, in epoca post-patriarcale, l’invidia tra donne non è più per la conquista di un uomo ma ha qualcosa di illimitato che ha a che vedere col fatto che siamo dello stesso sesso della madre e ci riporta alla relazione con lei.

I saggi sono ricchissimi per cui accennerò solo a qualche altro elemento, invitando a una lettura diretta.

Wanda Tommasi sottolinea che, non essendoci differenza sessuale con l’altra donna, è più facile che vi sia confusione senza limiti. Espone il contributo filosofico di Zambrano e quello psicanalitico di Klein e alla loro luce alcune dinamiche dell’invidia femminile, proponendo un percorso di crescita di una donna che, pur conservando il legame con la figura materna, sa allontanarsi da lei, contrattando le condizioni della sua libertà e correndo il rischio della sua singolarità. In questo percorso può affiorare linvidia negativa, il cui danno maggiore è farci deviare dal nostro desiderio più vero per competere o danneggiare l’altra, invece è possibile recuperare l’ammirazione e giocare al rialzo.

Chiara Zamboni ci ricorda come con l’indebolimento dell’autorità maschile noi donne spesso cerchiamo la misura in una donna e che l’invidia di ciò che più amiamo nell’altra diviene una passione più profonda e anche più distruttiva perché è importante dal punto di vista sociale ma prima di tutto da quello simbolico. Prende spunti da Hannah Arendt, Donatella Borghesi, Luisella Brusa e sviluppa il concetto di gratitudine, che Melanie Klein vede come sentimento che ripara l’invidia, proponendo una gratitudine creativa che rilancia «l’elemento di valore che si ama nell’altra» impedendo che diventi oggetto di aggressioni invidiose. Non si tratta di saldare i conti di un senso di colpa e neppure di fare riconoscimenti formali. Segnala inoltre come spesso per controllare l’invidia si idealizzino le donne invidiate e quindi non si perdoni la loro «naturale fragilità», quando si presenta. Nell’invidia c’è anche il timore verso qualcosa di eccessivo che ci affascina nell’altra, che ci pone fuori di noi perché risuona in noi ma indica una mancanza, ci trascende e allo stesso tempo ci tocca.

Candela Valle Blanco, psicologa di Madrid, si pone due domande: chi ha invidia delle donne? Che cosa invidiano le donne? Per rispondere ripercorre la teoria freudiana dell’invidia del pene, mostrandone i danni e le falsità. Presenta la figura dell’invidiosa come una donna potente e intelligente capace di coinvolgere l’invidiata in una relazione di dominio e manipolazione che appaiono come interesse e accompagnamento nel suo sviluppo, in modo che l’invidiata non possa «dispiegare la sua libertà di essere che è quello che l’invidiosa non può tollerare. La donna invidiosa proietta nell’invidiata il suo mondo interiore non risolto, pone fuori il male che porta dentro, posto che lei non sente la libertà di essere se stessa, si sente piena di valore però non riconosciuta e, nel suo male oscuro interiore, crede che ogni volta che si manifesta questo valore non sarà riconosciuto». A me ha ricordato la regina di Biancaneve. Inoltre l’autrice accenna alla figura di una terza che vede le dinamiche e che molto difficilmente potrà farle riconoscere all’invidiosa ma potrà accompagnare l’invidiata a capire perché rimane invischiata in questa relazione. Descrive il disordine in se stesse e nelle proprie relazioni generato dall’invidia e ci avverte che non si può cambiare con la volontà e neppure parlandone solo dal punto di vista teorico. Ci suggerisce di connettersi con proprio sentire per addentrarsi in un percorso che porti all’origine della ferita, quando è sorta la desolazione del sentire di non aver ricevuto l’amore di cui si necessitava, a partire dal momento della nascita.

La rivista, oltre al tema monografico ci offre un saggio di María-Milagros Rivera Garretas in cui con grande erudizione l’autrice prova che il quadro nel monastero dell’Escorial di Madrid è l’autoritratto di Sor Juana Inés de la Cruz (1651-1695) dipinto per María Luisa Manrique de Lara y Gonzaga, viceregina della Nueva España (Messico) e da lei portato in Spagna nel 1688. Dell’autoritratto vi è una copia nel Philadelphia Museum of Art (USA). In questo modo ci mostra come fossero intrecciate e valorizzanti le relazioni femminili.

Un esempio di relazioni transoceaniche è la conversazione tra Luisa Muraro e Carolina Narváez, Clara Ramírez, Claudia Llanos del Grupo de Investigación Escritos de Mujeres de la Universidad Nacional Autónoma de México e due amiche della Libreria delle donne di Milano, dove si è svolta il 26 aprile 2017. Il testo «Vuelos de una feminista» ha la freschezza di un’opera teatrale in cui Muraro, a cui tutte riconoscono autorità, sa creare le condizioni per la valorizzazione e la circolarità dell’autorità delle altre. Così veniamo a conoscere, tra l’altro, come i libri e le scoperte di Muraro si diffondano nelle Americhe, quali e con quali modalità molte femministe portino avanti le loro lotte in Messico, quali ricerche stiano facendo, oltre a riflessioni sul femminismo italiano a partire proprio dalle richieste di queste giovani donne.

Inoltre, come sempre, la rivista è attenta a diversi linguaggi. Apre con un’arguta vignetta di Pat Carra. Ci presenta nella sezione Creació literària 13 poesie di Susanna Pruna Francesc di cui segnalo in particolare il Manifiesto de la perra del 2017, un percorso allegorico che dalla fedeltà rassegnata a un padrone porta alla conquista della libertà. Nella sezione Projecte dartista vediamo «Diversas obras» di Toni Crabb, un’artista che, dalla scrittura dei suoi sogni ha lasciato emergere figure le quali, ripresentandosi, chiedevano di essere rese visibili. Trasformandosi continuano ad aprirsi a nuove interpretazioni.

Infine vi sono sei recensioni che segnalo perché testimoniano e sviluppano sia l’interesse fra diversi linguaggi sia il continuo lavoro di scambio tra femminismo spagnolo e italiano. La poeta Juana Castro recensisce la raccolta di poesie di donne scelte da Ana Mañeru e Carmen Oliart e pubblicate in Palabra de Diosa. 44 siglos de poesía; Gloria Luis Peralvo ci parla Diarios de la alegría di María García Zambrano, poesie-diario che convocano l’allegria. Due recensioni ci mostrano quanto sia importante rileggere figure storiche per dar forza alla nostra genealogia e raffinare il simbolico: quella di Nieves Muriel García al libro di María-Milagros Rivera Garretas Sor Juana Inés de la Cruz. Mujeres que no son de este mundo e quella di María-Milagros Rivera Garretas a Del delirio al Amor. Teresa de Jesús (1515-1582) di Alejandra Atala. Inoltre segnalo l’attenzione alle riflessioni italiane sulla prostituzione e sul diritto, messe in luce da Ana Mañeru Méndez nel presentare sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione di Daniela Danna, Silvia Niccolai, Grazia Villa, Luciana Tavernini e da Lola Santos Fernández nel discutere di Femminismo giuridico. Teorie e problemi, libri che, pur presentando peculiarità nazionali, sanno offrire uno sguardo più ampio sui problemi affrontati.


La rivista on line si può leggere in spagnolo e si possono scaricare i testi in pdf con questo link https://www.raco.cat/index.php/duoda

Ripubblichiamo in italiano il saggio di Chiara Zamboni, quello di Wanda Tommasi è disponibile nel libro già citato Linconscio può pensare?


(www.libreriadelledonne.it, 12 novembre 2020)


[i] Pubblicato in Marisa Forcina, ed., Tra invidia e gratitudine: la cura del conflitto, Milella / Università degli Studi di Lecce, Lecce 2006, pp. 201-208.

[ii] Pubblicato in Chiara Zamboni (ed.), Linconoscio può pensare?, Moretti&Vitali Editori, Bergamo 2013, pp. 21-37.

di Chiara Zamboni


L’eccedenza femminile – quell’impossibilità di stare e acquietarsi dentro i limiti – ha un legame con il rapporto senza confini che una donna ha con la propria madre. Un rapporto che si altalena tra amore e odio, quando rimane senza forma, e che può trovare a volte forme, che però poi vengono perse e riguadagnate.

Inizio a parlarne a partire da Invidia e gratitudine di Melanie Klein. La concezione dell’esistenza di Klein è drammatica, tragica: quanto più si ama, tanto più si è portati ad attaccare e distruggere ciò che si ama, soprattutto attraverso l’invidia, ma anche attraverso l’avidità e la maldicenza. E questo crea un paradosso che sembra non avere soluzione se lo si vive nella sua immediatezza1.

Ora per la Klein questo ha a che fare con la prima esperienza avuta con la madre con la quale c’era l’amore per il bene ricevuto e contemporaneamente il desiderio di distruggere questa fonte di bene a causa di pulsioni mortifere.

Nella Klein, ancor di più che nei testi di altri psicoanalisti, risulta chiaro come i sentimenti siano qualcosa che non si rinchiude nel cerchio circoscritto della soggettività e perciò secondari rispetto all’andamento oggettivo del mondo, ma rappresentino il segnale delle relazioni ontologiche che noi viviamo. Il conflitto innato tra amore e odio, tra istinti cli vita e istinti di morte, che proviamo, segnano il nostro rapporto con gli altri e dunque il modo di darsi a noi dell’essere relazionale.

Si possono leggere i suoi testi e la sua esistenza alla luce della differenza sessuale: il primo e più importante segno è che Melanie Klein era una madre e una donna e perciò non a caso ha accentuato, rispetto a Freud, la centralità del rapporto dei piccoli con la madre2. Del resto nei suoi primi casi clinici lei ha preso in esame proprio il figlio e la figlia. Ed è da leggersi alla luce della eccedenza femminile anche il conflitto tra lei e la figlia Melitta, a sua volta diventata psicoanalista da adulta.

A me pare abbia a che fare anche con la differenza femminile il fatto che la Klein abbia riflettuto soprattutto sull’invidia nei confronti della madre e abbia allargato poi questa invidia a coloro che amiamo nel corso della vita.

Il fatto è che l’invidia è certo una passione sia di donne che di uomini, tuttavia nelle donne ha un che di illimitato e senza fondo più evidente.

Donatella Borghesi in Specchio specchio delle mie brame ne fa una questione di fine di patriarcato. Sostiene che, se nel patriarcato la misura femminile è stata soprattutto l’uomo e quindi la gelosia il tono del rapporto tra donne in lotta tra loro per lo sguardo maschile, tutt’altra cosa è nel post-patriarcato. Nell’indebolimento dell’autorità maschile la misura risulta di frequente essere un’altra donna, e dunque l’invidia, per ciò che più si ama in un’altra, è diventata la passione più profonda3. Prima l’uomo risultava dunque un punto di riferimento terzo nello specchiarsi reciproco, ma ora non lo è più e nell’invidia le donne si confrontano direttamente.

A me sembra che, ancor prima che sociale, sia simbolica la posizione delle donne tra loro, e che la passione più profonda dell’invidia nelle donne dipenda dal loro essere dello stesso genere della madre. Se la madre è oggetto d’amore e di odio sia per le donne che per gli uomini, negli uomini c’è poi la differenza sessuale che pone una distanza. Ed è una distanza preclusa in questi termini alle donne perché sono simili alla madre. Di qui la maggiore distruttività di questo sentimento per le donne.

Chi è gelosa compete per appropriarsi dell’amore che l’altra possiede. Chi invidia distrugge il tesoro che nell’altra ama.

Una delle possibili mosse di chi invidia è riportare l’altra all’essere come tutte, togliendole l’aura di ciò che di speciale l’attrae in lei. Significativa in questo senso una vignetta di Claire Brétécher: Santa Teresa, catturata dall’amore di Dio, levita, si innalza e le piccole suore amorevolmente la riportano a terra. La riportano alla loro altezza. Perché così non si fa. La tirano giù preoccupate, prendendola per i piedi. È come dire: l’invidiosa è tutta impegnata a riportare l’altra alla normalità. Una normalità in cui siamo tutte uguali, terra terra, senza grandi pretese, sapendoci accontentare. Nel calore della somiglianza, nel tran tran grigio, con la piega della bocca un po’ all’in giù4.

Nel riportare l’altra alla normalità c’è anche la paura per qualche cosa di inconcepibile che cogliamo in lei, di un’eccedenza, appunto. C’è una enormità che meraviglia, che nel profondo stupisce e ci cattura. Ci porta fuori di noi per una risonanza che avvertiamo in noi. In fin dei conti l’invidia è un ammirare andato a finire male, che non ha saputo seguire ad aprirsi.

E in questo si può osservare tutta l’ambivalenza dell’invidia. Invidiamo l’altra perché c’è in lei qualcosa che porta noi a farcene sedurre. Ad uscire da noi stesse per qualcosa che ci trascende e che allo stesso tempo ci appartiene perché se ci attrae vuol dire che qualcosa di noi annuisce ad essa.

È interessante che Hannah Arendt scriva in una lettera a Mary McCarthy: «Il vizio principale di ogni società egualitaria è l’Invidia […] e la grande virtù di tutte le aristocrazie mi pare risieda nel fatto che la gente sa sempre chi è e quindi non fa paragoni con gli altri»5. Vorrei si facesse attenzione all’aspetto per cui per Arendt colui che sa chi è non prova invidia. Sapere chi si è implica non aver bisogno di confrontarsi in modo ossessivo con gli altri. Tuttavia vien da aggiungere che in una società di massa il paragonarsi agli altri e l’invidiare sono elementi costitutivi. Invidiando, ci si appoggia sostanzialmente sull’altro, sull’altra per conoscere se stessi. Al medesimo tempo si rivendica l’eguaglianza proprio per cancellare l’in più che l’altra ha. Ci si impedisce in questo modo di attraversare il sentimento dell’invidia, che ci può dare una luce su noi stessi.

L’ambivalenza dell’invidia porta a distruggere l’alterità, in cui è custodito il tesoro amato da chi invidia, eliminandola nell’eguaglianza. Eppure ha bisogno, per orientarsi, proprio di tale alterità6.

Sembrerebbe a prima vista una figura simile a quella del servo padrone della Fenomenologia dello spirito di Hegel. La somiglianza sta nel fatto che anche nella figura di Hegel si tende a distruggere una dipendenza di cui si ha bisogno per esistere.

Nella dialettica servo padrone, tuttavia, è in gioco il riconoscimento dell’io: si tende a distruggere proprio quell’io che può riconoscerci. Nella figura paradossale dell’invidia più che l’io è in gioco il tesoro amato: distruggo esattamente la fonte di ciò che amo, l’origine di ciò che mi potrebbe far conoscere l’orientamento trascendente della mia vita, se l’attraversassi con sapienza.

In questo senso l’invidia è un sentimento del tutto inscritto nella dualità immaginaria, ma che può diventare percorso simbolico, farsi pensiero se, invece di rimuoverla come un cattivo sentimento, se ne coglie i raggi di apertura.

Questo ragionamento simbolico è possibile perché la Klein insegna che dietro l’invidia c’è la fonte di un amore che ho ricevuto e che ho sentito seducente. Un amore che ha avuto una potenza che non poteva essere regolata. E il paradigma di tale amore intenso è quello della madre, che abbiamo sperimentato nell’infanzia come potenza infinita per la grande dipendenza da esso.

Il guadagno teorico che si può ricavare da Klein è che la distruttività dell’invidia ha alle spalle l’amore troppo forte per la madre. Una l’ombra dell’altro. In più abbiamo aggiunto che le donne vivono l’invidia con più intensità per la prossimità maggiore nei confronti della madre e per una loro inclinazione relazionale che dà minore importanza all’io e alla sua separatezza.

Proprio perciò è soprattutto tra donne che l’invidia è distruttiva. Essa si inscrive all’origine tra la madre e la figlia e poi per estensione al rapporto con altre. Allora essa può bloccare in una condizione indefinita, amorfa, cieca a se stessa e angosciante. Può però anche inquietare positivamente, mostrare percorsi di modificazione. Non solo: far affiorare quanto carnali e profondi siano i legami con la madre e con l’altra donna e come l’identità dell’io non sia per le donne una delle passioni più sentite.

In questo senso, seguendo le sfaccettature dell’invidia e dell’amore di cui essa è ombra, si mostra l’altra faccia di una realtà che l’ideologia dominane neoliberista vorrebbe fondata sull’identità e l’autonomia dell’io, sulla libertà individuale che si otterrebbe tagliando i legami con l’origine.

Se si segue la strada di attraversare l’invidia invece di superarla, risulta troppo frettolosa e non ben meditata la contrapposizione ad essa della gratitudine per riparare i danni che le aggressioni dell’invidia hanno provocato. Si tratta della soluzione che la stessa Klein propone. Scrive: «Quando si è in grado di provare gratitudine – e questo significa che in quel momento si è meno invidiosi – ci si viene a trovare in una situazione più favorevole. […] Il bisogno impellente di riparare e di aiutare l’oggetto invidiato sono anche degli strumenti molto importanti per controbilanciare l’invidia. In definitiva questo vuoi dire controbilanciare gli impulsi distruttivi mobilitando sentimenti di amore»7. In questo brano è evidente la contrapposizione tra impulsi di amore e pulsioni distruttive, che sfiora il manicheismo ontologico. È questo il limite di Klein.

Al contrario sostare presso il negativo, accompagnarlo, non combatterlo o risolverlo, permette di guardarlo, di osservarne le movenze, di farne pensiero e di arrivare ad una diversa posizione rispetto a quella della pura contrapposizione con il positivo8. È appunto accogliendo l’invidia in tutte le sue sfaccettature ambivalenti – che sono di distruzione, certo, ma anche di tensione verso l’altro da sé, verso ciò che ci seduce per amore – che si può coglierne un aspetto pericoloso e al medesimo tempo interessante dei legami tra donne. E vederne la presenza in una politica fondata sulle relazioni, che è al centro della politica delle donne.

In questo senso accettare l’invidia è fare spazio simbolico ad un elemento ambiguo che è parte integrante del reale. In noi e fuori di noi allo stesso tempo. E si tratta non solo dell’invidia che noi proviamo verso altre, ma anche di quella che altre provano nei nostri confronti. L’invidia è potentemente relazionale: una donna non può veramente e del tutto distruggere ciò che ama nell’altra perché distruggerebbe in qualche modo se stessa, tanto è potente la relazione d’invidia-amore. In questo senso l’essere, che è relazionale, trova nell’invidia un surplus di relazione, se pure andata a male.

Mi vorrei fermare brevemente su una delle modalità che prende l’invidia, che così potentemente si è presentata nelle relazioni tra donne anche perché molto mascherata, cioè poco riconoscibile come passione distruttiva. Mi riferisco alla idealizzazione che una donna fa di un’altra: il portarla su di un piedistallo, il vederne soltanto l’eccezionalità, l’isolarla nella sua perfezione.

Melanie Klein ne parla in termini psicoanalitici, ma mi sembra chiari: «I bambini che hanno una grande capacità di amare non sentono il bisogno di idealizzazione quanto quelli che hanno un’enorme quantità di impulsi distruttivi e di angosce persecutorie. L’idealizzazione eccessiva sta ad indicare che la spinta prevalente proviene dalla persecuzione. […] L’oggetto idealizzato è molto meno integrato nell’Io dell’oggetto buono perché è originato più dall’angoscia persecutoria che dalla capacità di amare. […] Le persone che sono riuscite a costituire il loro oggetto buono primario con relativa sicurezza sono in grado di conservare l’amore per l’oggetto pur riconoscendone i difetti; quando questo non avviene, invece, i rapporti di amore e di amicizia sono caratterizzati dalla idealizzazione. Questa però tende a crollare, e allora l’oggetto amato deve essere sostituito spesso, perché nessun oggetto può soddisfare pienamente l’aspettativa»9.

Così non c’è idealizzazione e invidia aggressiva quando si ha stima dell’altra e al medesimo tempo si è tolleranti nei confronti delle sue fragilità, incertezze. Allora il legame è vivo e reale.

Forse in più rispetto a questo è il fatto che nell’attacco aggressivo a un’altra donna c’è la ricerca in lei di una perfezione, che si vorrebbe incarnata nell’altra desiderandola anche per sé.

Nella politica delle donne molto ha giocato l’idealizzazione di alcune donne. Sono state considerate grandi, e giustamente, però ne ho poi visto la denigrazione al minimo accenno di inadeguatezza, fragilità, imperfezione. Ho in mente in particolare Luce Irigaray, che è una delle più importanti filosofe europee legate al pensiero della differenza. Negli anni passati non è stata solo apprezzata ma anche idealizzata, isolandola come “la filosofa” la cui produzione di pensiero veniva comunque idolatrata. Questo atteggiamento è sintomatico. Come è sintomatico che, nel giro di conferenze tenute ultimamente in Italia, quelle donne, che l’avevano innalzata esageratamente negli anni precedenti, non le perdonassero la naturale fragilità che viene dall’invecchiare e restassero perciò sorde alle proposte di riflessione che nelle conferenze lei offriva.

La Klein parla di gratitudine come un sentimento che ripara l’invidia. Che permette cioè di sopportare la colpa che si prova10. Questo è senz’altro vero. Tuttavia insisterei sul fatto che la gratitudine è un sentimento che ha la stessa radice dell’invidia: l’amore per qualcosa di valore che aggrediamo quando invidiamo e di cui rendiamo grazie nella gratitudine.

A me sembra che la gratitudine non sia un semplice dire grazie, né un opporsi agli elementi distruttivi11. Piuttosto, nel suo aspetto creativo, rilancia l’elemento di valore che si ama. Quel di più che è fatto oggetto delle aggressioni invidiose. Non penso in altri termini alla gratitudine come ad un atteggiamento che salda i conti di un senso di colpa, bensì come all’aprire creativo di percorsi nuovi a partire da ciò che si ama nell’altra donna e che ha risonanza in noi stesse.

Penso ad esempio alla mia possibile invidia verso una grande filosofa. La gratitudine verso il suo pensiero non è nel riconoscimento formale nei suoi confronti ma nel rilanciare la scommessa del pensiero, che può seguire altre strade dal suo, ma che nell’intenzione le è fondamentalmente fedele.

Con Diotima – la comunità di filosofica femminile con la quale collaboro – stiamo riflettendo sul lato oscuro del rapporto tra donne e come questo lato oscuro abbia a che fare con il legame senza limiti con la madre, di cui l’invidia è uno degli aspetti.12

Molto agire politico nello spazio pubblico si basa sulla contrattazione continua tra donne, e tra donne e uomini. Una negoziazione che ha come primo esempio il linguaggio stesso: luogo pubblico, che circola senza che lo possiamo controllare, che ci parla, e che noi parliamo, mettendoci d’accordo, entrando in contrasto, rivelandoci agli altri13. Tuttavia non tutto è contrattabile: c’è un residuo consistente, che prende una importanza simbolica particolare nel rapporto tra donne a causa del legame senza limiti con la madre.

Che avviene nello spazio pubblico delle passioni non addomesticate? Che succede a quegli strati di esperienza che si sottraggono alla negoziazione perché rimangono senza limiti? Una contrattazione infatti ha per sua caratteristica quella di riconoscere implicitamente quanto di sé e delle proprie passioni mette in campo l’una e quanto l’altra. Viene delimitato un “proprio” da scambiare con altro. Ma là dove questo non è possibile? Dove c’è qualcosa di non scambiabile? Che farne? Che fare?

Paradossalmente è proprio questo indefinito tra donne che rende la presenza femminile nello spazio pubblico sempre eccedente il modello dell’emancipazione. Mai adattabile a regole pensate da uomini per uno scambio pubblico tra uomini.

Certo è faticoso ragionare sul lato negativo dell’esperienza – quel lato che non si risolve completamente nelle pratiche a disposizione. Eppure è questo lato in ombra, proprio in quanto impedisce l’omologazione, ad essere anche il terreno per aprire contraddizioni nello spazio pubblico dove donne e uomini sono.

La negatività che passa attraverso il materno nel suo lato oscuro: accoglierla, darle parola fa balzare allo sguardo livelli di vissuto grezzi, non mediati né mediabili. Elementi di differenza femminile non addomesticata in contesti che non la prevedono. Così è per certa invidia tra donne, sulla quale l’ombra della madre getta un che di inquietante.

In questo modo si riesce a dire la verità di spazi pubblici che rimuovono l’aspetto oscuro del femminile e per questo divengono finti. È una pratica che scompiglia una scena falsamente neutra. E inquieta nel senso originario di mettere in movimento, aprire contraddizioni in luoghi che vorrebbero colmarle. Starà poi a ciascuna in situazione scegliere la via più adatta per farne una leva di trasformazione e di guadagno politico.

Il fatto è che, come scrive Luisella Brusa in Mi vedo riflessa nel suo specchio, il legame reale e non immaginario della figlia con la madre è niente allo sguardo del simbolico maschile e al medesimo tempo è attraversato da pulsioni che sono dell’ordine dell’essere14. Possiamo attraversare questo essere senza limiti sapendo del pericolo che corriamo, ma anche della necessità di questo passaggio, affinché la differenza femminile trovi forma. E il desiderio di stare con verità e dirompenza nello spazio pubblico ci porta a tenerne conto nella pratica.


(Tratto da Marisa Forcina, a cura di, Tra invidia e gratitudine: la cura del conflitto, Milella, Lecce 2006, pp.201-208)


1 Cfr. Melaine Klein, Invidia e gratitudine, trad. it. di Laura Zeller Tolentino, Martinelli, Firenze 1985, pp. 13-34.

2 Su questo aspetto si ferma Julia Kristeva. Le génie féminin. Melanie Klein, Gallimard, Paris 2000, p. 47 e pp. 73-77.

3 Cfr. Donatella Borghesi, Specchio, specchio delle mie brame. Luci ed ombre dellinvidia tra donne, LaTartaruga, MiIano 2000, pp. 16-17.

4 La vignetta è riportata alle pp. 80-81 del libro citato.

5 Hannah Arendt e Mary McCarty. Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarty 1949-1975. trad. it. di Amineh Pakravan Papi, Sellerio, Palermo 1999, p. 310.

6 Pagine molo belle sull’invidia come sentimento fondamentalmente duale e legato ail’alterità e al senso di sé sono state scritte da María Zambrano. Cfr. María Zambrano. Luomo e il divino, trad. it. di Giovanni Ferraro, Edizioni Lavoro, Roma 2001, cap. “L’inferno terrestre: l’invidia”.

7 Melanie Klein. Invidia e gratitudine, cit. p. 90.

8 In questo senso va la tesi di fondo del testo Aa.Vv., Diotima. La magnifica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005.

9 Melanie Klein. Invidia e gratitudine, cit. pp. 39-40.

10 Melanie Klein. Invidia e gratitudine, cit. p. 90.

11 Della riconoscenza nei confronti della madre parla in termini simili a quelli della gratitudine anche Luisa Muraro, Lordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 66.

12 Si veda a questo proposito il grande seminario dell’autunno 2005, intitolato Lombra della madre, le cui linee generali di proposta si possono leggere nel sito www.diotimafilosofe.it.

13 Sulla negoziazione tra donne e uomini si è fermata la relazione di Françoise Collin, sostenendo che essa non è estensibile a tutto, che porta con sé un residuo. In questo stesso libro è pubblicato il suo intervento.

14 Cfr. Luisella Brusa, Mi vedo riflessa nel suo specchio. Psicoanalisi del rapporto tra madre e figlia, Franco Angeli, Milano 2004, pag. 83.

di Luciana Castellina


Conversazione dal volume «La reggitora»*, di Peter Marcias. Dal 12 novembre in libreria per Solferino, con le voci di Livia Turco, Marisa Rodano e altri che la conobbero.


La figura di Nilde Iotti è importante nella storia del Partito comunista italiano e quindi dell’Italia, visto che quel partito ha rappresentato tanta parte della società italiana. Dico importante perché Nilde Iotti è stata forse la prima donna, o meglio la prima dirigente del partito, che ha avuto quello che definisco il coraggio della normalità. Ai tempi, c’era ancora un po’ la mitologia della lotta della Resistenza, della clandestinità e quindi persisteva un’immagine stereotipata delle donne comuniste: arrabbiate, brutte e malvestite. Nilde invece aveva sempre avuto il coraggio di presentarsi come una donna normale, di vestirsi con accuratezza, di andare dal parrucchiere, con un portamento da signora di mezza età e non da suffragetta.

Sembra un elemento secondario, ma ha invece una rilevanza politica. Il punto ideologico era affermare che il Partito comunista era un normale fenomeno della società italiana e non una setta violenta che operava in clandestinità. Ben prima di conoscerla personalmente e di lavorare con lei, Nilde Iotti era per me un’icona di donna di sinistra. Per tanti anni ero stata direttora del settimanale della Federazione giovanile comunista, che era un po’ un mondo a parte, aveva pochi rapporti con il partito, in particolare con la sezione femminile di cui Nilde era responsabile.

Fui sorpresa, quindi, quando proprio lei mi chiamò per chiedermi se volevo entrare nel suo staff. Ebbi modo così di conoscerla molto meglio, scoprendo qualità che all’inizio, forse proprio perché era così diversa dallo stereotipo, non sospettavo: era una donna molto intelligente e molto curiosa delle novità, per niente sdraiata sull’evidenza delle cose, del tutto lontana dall’idea di una rigida vestale del partito. Mi lasciò fare cose che erano, per il Pci di allora, non solo discutibili, ma anche discusse.

La prima fu un convegno, in accordo con l’Istituto Gramsci, su famiglia e società nell’analisi marxista, in cui si riprese a partire da Engels tutta la discussione sul concetto di proprietà nella famiglia, un tema allora bollente e di stringente attualità. Nilde non solo mi lasciò organizzare l’evento come volevo, ma partecipò attivamente, sempre con la sua aria un po’ all’antica. Ho un altro bel ricordo di un momento difficile in cui mi fu vicina. Era il 1966 e, all’undicesimo congresso del Partito comunista, Pietro Ingrao fece un celebre intervento, esprimendo pubblicamente il dissenso verso la linea tenuta dalla segreteria. Era un evento enorme: per la prima volta, Ingrao interpretava quel vento di cambiamento che sarebbe divenuto inarrestabile di lì a due anni. Noi giovani diventammo tutti «ingraiani» e fummo tutti allontanati da Botteghe Oscure.

Nilde non solo non ci abbandonò, ma condusse per noi una furiosa battaglia in direzione (nonostante si fosse arrabbiata moltissimo anche con noi che non l’avevamo avvisata della nostra scelta). Alla fine, uscì dalla riunione e mi disse: «Ho trovato un compromesso: vai a lavorare nella presidenza dell’Udi». Come dire: una posizione onorevole, ma fuori dal Pci. La soluzione di una donna politicamente coraggiosa e aperta. Credo che questo l’avesse appreso anche da Togliatti, era pure una sua caratteristica.

Il rapporto con Togliatti fu per Nilde un vero e proprio banco di prova. Non fu tanto la nuova relazione di lui, all’inizio, a non essere accettata, ma la fine di quella vecchia. Rita Montagnana era una compagna, una partigiana, un membro della Costituente e molti trovarono disdicevole che Togliatti l’avesse lasciata. Tutto questo avrebbe potuto essere accettato con naturalezza: anche se in Italia non esisteva ancora il divorzio, le rotture matrimoniali erano numerose e ormai accettate nella vita quotidiana. Non fu così per Nilde.

Il partito comunista era molto attento, in quel periodo, a non dare l’impressione di ripercorrere le dinamiche del 1917 e della Rivoluzione d’ottobre, quando si predicava l’amore libero e la fine dei legami tradizionali. Si poneva il problema del rapporto con le masse cattoliche, per cui i comunisti non dovevano essere quelli «contro la famiglia», «che mangiavano i bambini» e così via: accuse che oggi ci fanno sorridere, ma che allora venivano realmente espresse. Ci fu quindi una reazione di protesta, specie nelle sezioni piemontesi: Rita Montagnana era di Torino e per anni Nilde non poté mettere piede in quella città, perché la federazione locale del Pci non la voleva ricevere.

La protesta partiva soprattutto dai vecchi compagni, per cui si trattava quasi di un tradimento della militanza passata. La spaccatura che si creò nel partito in qualche modo riguardava anche i costumi, il modo di pensare e di sentire la nostra epoca. Ma fu un passo importante perché, proprio grazie a questo scandalo, poté avviarsi nel partito la grande apertura alle donne che Togliatti desiderava molto.

Quando nel 1946 le donne conquistarono il diritto di voto, una parte del Pci era preoccupata, temendo un trionfo elettorale della Democrazia cristiana per via della maggiore frequentazione femminile della chiesa. Togliatti si oppose a questa visione, sostenendo che la partecipazione attiva delle donne contava infinitamente di più rispetto all’avere un voto in più o in meno. Nel partito iniziò a crearsi una sorta di suddivisione fra le compagne: c’erano quelle che possiamo chiamare le «cellule femminili», cioè donne che lavoravano con le donne, e le compagne che invece lavoravano in posizioni e su temi diversi, com’era il mio caso. Non era per niente facile lavorare come gli uomini e insieme a loro, venivamo considerate come qualcosa di «un po’ meno», un po’ inferiori.

Ricordo che il mio problema essenziale era fare di tutto per assomigliare a un maschio: mi sembrava che quello fosse il punto e ci sarebbe voluto il femminismo, con tanti anni di lotte, per far capire a me e alle altre che non era proprio così. Le donne sono diverse, e il femminismo – che in Italia nacque negli anni Settanta e che fu per me una scoperta tardiva – ci ha insegnato che bisogna riconoscere questa diversità. Nilde, che era di una generazione precedente alla mia e non fu mai femminista, condusse battaglie fondamentali. In questo senso era ancora più sul fronte, sia per i tempi che ha vissuto sia per la sua situazione personale: una donna che nel partito contava, ma che aveva addosso l’ombra del proprio compagno.

È triste dirlo, ma la vera normalizzazione del rapporto con Togliatti di fronte alla società e al partito avvenne con la morte di lui, quando Nilde fu in qualche modo riconosciuta come la sua compagna. La loro era, del resto, ormai una relazione ventennale. Lei poté sfilare vicino alla salma nel corteo che partì da Botteghe Oscure. Nilde era troppo riservata per parlare di questa storia ad altri, anche a qualcuno che conosceva bene come me. Ma quando, pochi anni fa, sono state pubblicate le lettere d’amore che lui le scriveva – molto belle, molto appassionate, in qualche modo sorprendenti – ho capito quanto amore ci fosse fra i due e mi sono resa conto che era una cosa che incontrandoli traspariva.

Nilde aveva la capacità di capire il cambiamento dei tempi. Nella battaglia sulla legge per il divorzio, che per lei aveva anche un aspetto personale, all’inizio il Pci aveva una posizione molto titubante: fu lei a spingere verso una decisione in favore del divorzio, combattendo perché questo fosse accompagnato da una legge di riforma del codice civile. Era un passaggio fondamentale perché le donne non avevano alcun diritto e con il divorzio rischiavano di non poter nemmeno conservare la casa in cui abitavano.

Quando Nilde è diventata presidente della Camera, io ero deputata, eletta nel Partito di unità proletaria (Pdup), dopo che ero stata radiata dal Partito comunista per la questione del «Manifesto» (e lei fu, insieme a Emanuele Macaluso, l’unica a restarmi vicina). Fu bravissima nel suo ruolo, anche perché era molto ferma, dura ma educata, tutte virtù che adesso sono completamente scomparse: oggi la Camera è un luogo dove la gente si insulta.

La generazione a cui appartengo è stata molto fortunata: ha vissuto la giovinezza nel Dopoguerra, quando c’era un’enorme fiducia nel poter cambiare il mondo e una gran voglia di farlo. Quando parlo con qualcuno che ha fatto il Sessantotto, in genere ricorda quel periodo come un momento molto felice della propria vita, e a ben vedere il motivo è che allora c’era un rapporto reale con gli altri. Insieme agli altri siamo diventati protagonisti: la politica è questo.

Il declino della politica è rinchiudersi nell’individualismo. L’assenza della politica significa più infelicità: l’infelicità dell’isolamento. Isolamento personale e del Paese. In questo senso, l’Europa fu una grande speranza di Nilde, per esempio. Ebbene, anche qui, oggi penso che purtroppo ne sarebbe delusa poiché questa Europa non ha nulla a che fare con quella del Manifesto di Ventotene, che si continua a citare senza aver letto e che lei amava tanto. Il Manifesto di Ventotene pensava a un’Europa in cui fosse forte, prioritaria la questione dell’uguaglianza sociale. Uguaglianza, pace, diritti. Quel manifesto ha avuto più influenza nella stesura della nostra Costituzione nazionale che nel formarsi della struttura dell’Europa. E Nilde, che aveva preso parte a entrambe, penso sarebbe della stessa opinione.


(*) «La reggitora. Nilde Iotti nelle parole e nelle passioni», di Peter Marcias (edito da Solferino e con prefazione di Paola Cortellesi), si compone di diverse conversazioni con personalità che la conobbero e con cui lavorò: Giorgio Frasca Polara, Livia Turco, Ione Bartoli, Marisa Rodano, Rosa Russo Iervolino, Eletta Bertani, Silvio Traversa, Cecilia Mangini, Luisa Lama, Massimo Storchi.


(il manifesto, 11 novembre 2020)

di Maria Nadotti


Questo testo è un estratto da Sensibilità condivise. Leggere bell hooks pensando a noi, l’introduzione al libro Elogio del margine / Scrivere al buio di bell hooks e Maria Nadotti, in uscita per Tamu Edizioni il 16 novembre, proposto in anteprima dal sito della casa editrice. 
 
[…] Come si guarda e cosa si vede quando si guarda? Che effetti ha lo sguardo egemone sulla percezione che ha di sé colui/colei che viene osservato ma non visto, alla lettera “allucinato”? 
Sono domande più che mai attuali, che si ripropongono con forza alla vigilia delle prossime elezioni presidenziali statunitensi. Marcata da un’inquietudine sociale esplosiva, da un’irrespirabilità di cui la pandemia in corso è una lugubre letteralizzazione, la campagna che vede Donald Trump/Mike Pence contrapposti a Joe Biden/Kamala Harris, è improntata a una vis propagandistica bilaterale dalle conseguenze potenzialmente nefaste. Se i repubblicani hanno scelto di confermare i propri candidati e la loro chiassosa volubile linea, i democratici hanno optato per un abbinamento che ha i tratti dell’audacia e la sostanza della convenienza: un bianco anziano e moderato, l’uomo in seconda del quasi-nero Obama, e una donna di colore, anche se non proprio africana-americana, attualmente senatrice per lo stato della California, un passato da ex-procuratrice distrettuale di San Francisco che ha indotto alcune aree dei movimenti neri nordamericani a ribattezzarla Copmala.  
Ma, come scrive Keeanga-Yamahtta Taylor, ricercatrice presso l’Università di Princeton nel dipartimento di African American Studies: «dopo otto anni di Obama, una faccia nera in una posizione elevata non basta più». 
Ed è qui che l’analisi di bell hooks si rivela oggi più preziosa che mai: la sua passione di verità, che non è mai un fatto astratto e/o ideologico, una teoria dai piedi freddi, si traduce in un invito pressante ad andare al di là di quel che sembra, a mettere in discussione proprio la rappresentanza e i suoi seducenti inganni figurali, a ragionare su quella nuova tecnica di sterminio razziale e di classe che consiste nel contrapporre i neri “rispettabili” ai neri “cattivi”, gli African-American ai nigger. I primi/le prime, ormai armoniosamente parte del sistema, ne garantiscono il funzionamento, intonacandolo quanto basta per evitarne il collasso. La loro ammissione alle cariche più alte dello Stato, inimmaginabile anche solo vent’anni fa, non si è tradotta in politiche interne e estere più eque, in minore disparità sociale, in più diffusa giustizia. Il teorema delle quote – rosa, nere, verdi o blu che siano – ha dimostrato anche in questo caso di non essere ciò che afferma, ma ciò che produce: ridistribuire le carte invitando al tavolo da gioco alcuni “identici” dissimili (per sesso o razza, mai per classe) non migliora necessariamente la vita di tutte e di tutti né modifica l’immagine e la coscienza che essi hanno di sé. 
La sottomissione dei neri americani al dominio dello sguardo dei bianchi permane e lo stordimento indotto dalle immagini del consumo coniugate con un potere d’acquisto per i più pari a zero si traduce in invidia sociale, rabbia e depressione, raramente in rivolta. E la rivolta, come hanno dimostrato i moti degli ultimi mesi, scatenati dall’ennesima uccisione intenzionale di un nero per mano della polizia, può assumere la forma ibrida e vassalla del saccheggio e della devastazione e consumarsi in un fuoco di paglia.  
Slogan magnifici come «Black Lives Matter» – il movimento fondato da tre donne nere, Alicia Garza, Patrice Cullors e Opal Tometi nel 2013 (sì, sette anni prima dell’assassinio di George Floyd) – sono pure petizioni di principio in un’economia di scambio in cui non tutte le vite contano, perché alcune non hanno valore alcuno, anzi rappresentano un ingombro, una voce di spesa in più, un disagio sociale.  
Ecco perché bell hooks non riduce il suo discorso ai diritti, all’eguaglianza, e tantomeno alla “discriminazione positiva” e alla “correttezza politica”. Con tutta evidenza la condizione catastrofica dei neri non è un errore del sistema bensì una sua struttura portante. In America, come in molti paesi d’Europa che si pensano democratici, i nigger non sono necessariamente di pelle nera: corpi a perdere ridondanti e precariamente indispensabili, vanno, vengono, scompaiono in mare o nelle periferie urbane, si impigliano nelle false burocrazie assistenziali, non lasciano traccia di sé e sembrano non averne del proprio passato.  
Li vogliamo così, ci servono così.  
C’è nelle politiche in materia (negli USA la si chiama “questione razziale”, da noi “migratoria”, in Francia o Portogallo “postcoloniale”) una surreale continuità tra visioni che si dicono diverse, tra posizioni teoriche che si presumono opposte. Nigger e migranti sembrano aver messo d’accordo democratici e conservatori, destre e sinistre. O forse ne hanno semplicemente smascherato l’identica adesione al monocromo copione neoliberista, rivelando una società dove gli argini sono saltati, dove i più (e non solo gli esseri umani) sono obiettivamente a rischio, dove si fa un’enorme fatica anche solo a coltivare la speranza.  
È essenziale, ci ricorda bell, non abboccare alle esche di quella che negli anni sessanta e settanta fu definita senza giri di parole Blaxploitation e che oggi si manifesta nella bizzarra rivendicazione di una nerezza/africanità/alterità ricalcata sui cliché razziali e sessuali più classici. A guardare le pubblicità imbandite negli ultimi tempi da marchi quali Nike, Reebok, Adidas, blockbuster come Black Panther (sì, avete letto bene) diretto nel 2018 da Ryan Coogler, o il trailer di Black Is King, il nuovo “album visivo” della pop star Beyoncé, si nota con crescente disagio che la superiorità razziale nera esibita in maniera più o meno rozza in ognuno di questi testi visivi sembra frutto di neuroni specchio pigri o malandrini. Tra quelle rappresentazioni e la realtà durissima degli ultimi vent’anni – grossomodo dai primordi della crisi dei mutui subprime a oggi – non c’è neppure ombra di simbolico. Si tratta di immaginario allo stato puro.  
«Nel mondo attuale», come scrive Alain Badiou ne Il nostro male viene da più lontano, «ci sono poco più di due miliardi di persone delle quali si può dire che contano zero. Cosa vuol dire che contano zero? Vuol dire che non sono né consumatori, né forza lavoro». 
A loro è destinato lo “spettacolo del benessere”, di cui il narcotico corpo nero-gadget (merce di lusso/fulgida guerriera/mitico antenato) non è altro che il nuovo veicolo e la rivisitata forma.  
The business must go on e le vite nere continuano a contare zero.  
Eppure il tema della violenza agita, non subita, seguita a essere un tabù. Per trovare testi attuali che lo affrontino nella sua complessità, senza ipocrisie e con spregiudicata radicalità, non bisogna certo rivolgersi a uno dei nuovi “neri di servizio” amati da chi ha ancora troppo da perdere, ma all’abrasivo Childish Gambino di This Is America o al primo Jordan Peele, autore di Get Out, un film manifesto uscito nel febbraio del 2017, a un mese dalla conclusione del secondo mandato presidenziale di Barack Obama.  
«Vattene», un’intimazione a doppio senso, non è solo l’esortazione a scappare finché si è in tempo o un verdetto di esclusione: è il suggello di un’asimmetria e di un’incompatibilità. Nella casa bianca c’è posto per chi ha la pelle nera solo se è disposto a “prestare” il suo corpo, il suo cervello, il suo appeal ai bianchi, senza porre condizioni che divergano dalle loro. È una storia che va avanti da quattro secoli e che Peele porta con ironica brutalità alla ribalta: niente mediazioni e niente patti. Tu o io. Il pacificato noi collettivo invocato da chi ha scambiato il razzismo per conflitto tra pari e creduto in una possibile riconciliazione non può esistere. Unica, pragmatica risposta da parte dei neri: difendersi. 


(www.tamuedizioni.com, 4 novembre 2020)

di Mariella Pasinati


“Le domande che dobbiamo porci e a cui dobbiamo trovare una risposta in questo momento di transizione sono così importanti da cambiare, forse, la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne … È nostro dovere, ora, continuare a pensare…” Sembra formulata per questo nostro tempo la riflessione di Virginia Woolf che oggi risuona nelle nostre esperienze, dovunque siamo situate/i.

A questa sollecitazione prova a rispondere il numero speciale della rivista Ap – autogestione e politica prima della MAG di Verona Le Città Vicine alla luce di questo presente, pubblicato quest’estate e dedicato ai 20 anni delle Città vicine. La rivista raccoglie infatti, attraverso testi e immagini, riflessioni di donne e uomini sulle trasformazioni di sé, dei propri spazi e della propria città in tempo di lockdown.

Non è stato facile in questi mesi districarsi fra la profusione di parole, non sempre adeguate, spese su quanto stava capitando: commenti, annotazioni, racconti in prima persona hanno affollato ogni spazio fisico o virtuale. La peculiarità di questa proposta, però, sta nella sua intenzionalità politica: “individuare nuove visioni e nuove prospettive per le città del presente e del futuro” (p. 47). Gli scritti sono infatti riflessioni di donne e uomini che da anni fanno politica di vicinanza nelle Città Vicine, una rete che connette diverse realtà del femminismo italiano (e qualche gruppo di uomini) accomunate dall’amore per la città e per la politica agita attraverso la pratica del partire da sé e il senso della relazione e della differenza sessuale.

Così, molti dei singoli contributi, concepiti a partire da sé da oltre 40 donne e un paio di uomini, da sé si allontanano per cominciare a restituire un’elaborazione dell’esperienza del confinamento capace di connettere corpo e parola e di aprire ad un suo possibile percorso di trasformazione in agire politico.

Gli interventi gettano luce su come, con la modificazione del vivere, sono mutati durante il lockdown anche il sentire e il pensare, le domande, le questioni, le prospettive su cui riflettere e da considerare.

Dal racconto a più voci emerge la consapevolezza di come il virus e l’esperienza della quarantena, della malattia e della perdita abbiano svelato la condizione comune di vulnerabilità, di dipendenza e la necessità delle relazioni affettive, sociali, politiche, questioni che da decenni fanno parte del bagaglio della politica delle donne e sulle quali, nel presente, occorre far leva per trasformare il senso comune, cambiare il modello di civiltà e i paradigmi socio-economici, dare un nuovo indirizzo alla politica. Stefania Tarantino e Antonietta Ponente si interrogano, infatti, sulla nostra capacità di aprire oggi “una nuova fase del pensiero e della pratica politica”, di dare vita ad un nuovo protagonismo femminile per un “presente da realizzare su una nuova frequenza … sentendo come qualcosa di prezioso l’intimità del tempo, dello spazio, delle città, della natura, delle relazioni umane e delle relazioni viventi”.

Alcuni scritti chiamano in causa atteggiamenti e sentimenti come la riconoscenza (Sbrogiò, Lagrotta), la fiducia (Montalbano, Sbrogiò), la nostalgia (Bottero), il desiderio: di una città/di un territorio diversi (Cima, Borrello, Ferrari), di un diverso patto sociale/sessuale (Minguzzi), di una società “eco femminista” e rispettosa della qualità dell’ambiente e della vita, capace di ristabilire l’ordine delle priorità, di riconoscere la centralità della cura del vivere (Cima, Fortunato, Zanella).

Altri mettono in evidenza le pratiche già inventate per rispondere ai problemi del lockdown: le cassette sospese o i gruppi di acquisto condominiali, una risposta sì all’emergenza, ma anche “una pratica di trasformazione del tessuto economico e produttivo della città”, capace di mettere in rapporto diretto, a km zero, chi consuma e chi produce nel territorio (Patanè).

In molti interventi si è toccato anche il tema delle tecnologie digitali e della loro dilagante diffusione: l’utilizzo di piattaforme di condivisione a distanza, come luogo di incontro e di discussione politica, ha comportato a volte disinteresse e demotivazione (Di Salvo), altre esperienze e vissuti hanno registrato invece come il ritrovarsi, sebbene attraverso il filtro di uno schermo, sia stato utile e non abbia impedito ai corpi di comunicare (Albanese), mentre altri testi ancora ne hanno mostrato l’ambigua necessità (Jourdan); alcuni scritti, infine, hanno riportato l’attenzione sui rischi del 5G per la salute, per l’ambiente, per la nostra stessa umanità (Danna, Guerini).

La prima e la seconda fase della gestione della pandemia sono passate ma siamo nuovamente nel bel mezzo della crisi che durerà ancora.

Occorrerà continuare a pensare, un pensiero che, come il “pensare pensare dobbiamo” di Woolf, non sia conforme e inoffensivo, che contrasti lo status quo (“We won’t return to normality, because normality was the problem” si legge in una foto che riproduce una scritta su un muro), che sia guidato da un desiderio di altri mondi possibili.

Occorrerà ulteriore politica di vicinanza.


(magverona.it, 29 ottobre 2020)

di Stefano Verdino


«Meno penosa dell’agonia terribile di Emily, questa fu tanto discreta da passare inosservata agli altri ospiti della casa. Nel momento stesso in cui Charlotte si chinava a chiudere gli occhi della sorella, alla porta semiaperta dell’alloggio fu annunciato che il pranzo era servito». Può bastare questo breve passaggio sulla morte di Anne Brontë (1820-49), sorella minore delle più note autrici di Cime tempestose (Emily) e Jane Eyre (Charlotte), per darci il tono di questo bel ritratto della scrittrice vittoriana, fatto da una notevole scrittrice italiana, Beatrice Solinas Donghi (1923-2015): il tragico (una morte così giovane) si mescola con l’ordinaria routine in un sottotono, che pare adeguato alla protagonista, ma non sfuggirà il dettaglio della «porta semiaperta» a proiettarci in un’esattezza quotidiana. Anne Brontë la gemella minore è appena edito, postumo, per le cure di Massimo Bacigalupo (il canneto editore, pp. 131, € 15,00) e corredato di una bella scelta di poesie sempre da Donghi tradotte. Donghi, genovese di ascendenze britanniche, aveva più che un occhio in quel lontano Ottocento, scenario di tanti suoi testi per ragazze e affine a un suo invincibile temperamento di inattualità. Le Brontë poi più volte hanno intrigato sia la scrittrice in proprio (Vite alternative, sempre il canneto, 2010) sia la saggista, con il più ampio ritratto di Emily (Campanotto, 2001). E probabilmente anche questo racconto critico dovette configurarsi in quel tempo, intrigata dal nesso e dalla diversità di Emily e Anne. Donghi forse si trova più a suo agio con Anne, che rispetto al turbine romantico della sorella, sceglie per i suoi romanzi una tonalità morale, a volte anche moralistica, ma dove «Il suo punto di forza era il realismo: quieto e discreto quanto si voglia, ma lucido e talvolta spietato». Donghi usa per Anne una sigla «quietness, la modesta reticenza», che si potrebbe usare per lei stessa (per i suoi racconti essenziali, mirabili congegni tra un gusto fiammingo del dettaglio e un sottile e suggestivo alluso). Dei due romanzi di Anne (Agnes Grey, 1847; The Tenant of Wildfell Hall, ’48, tradotto come Il segreto della signora in nero) Donghi privilegia il secondo, che ha un complesso montaggio narrativo, con vari passaggi di punti di vista, e una istanza femminista, stupefacente per l’epoca, non esitando a prendere posizione anche contro la legislazione vigente pronta a «equiparare a un crimine l’abbandono del tetto coniugale». Del resto la mite e defilata Anne ha sensibilità per più aspetti precorritrici, anche un tratto animalista, quando su un carrozzino «insistette per impossessarsi delle redini, non volendo che il ragazzo alla guida costringesse l’animale a un tratto troppo sostenuto». Come scrive Bacigalupo nella prefazione, qualità di Donghi è «trovare un filo tra tante storie, informazioni» e «opere memorabili» e svolgerlo in una «lingua insieme personale e di trasparenza quasi classica». Sulla scorta di carteggi, testimonianze e biografie inglesi Donghi è assai fine nel ridelineare, con il suo gusto del dettaglio, alcune scene come l’incontro di Charlotte e Anne con l’editore londinese George Smith che «non trovò particolari attrattive in quelle due sbiadite signorine di provincia, modestamente vestite e stanche del loro strapazzoso viaggio notturno» e «La sera stessa se le trascinò dietro all’opera: ad ascoltare II Barbiere di Siviglia, che le frastornò più di quanto non le divertisse. Era imbarazzante, oltre tutto, non possedere il vestiario adatto all’occasione».


(Alias – il manifesto, 18 ottobre 2020)

di Francesca Maffioli


La guerra la guerra la guerra è il titolo del primo tomo de Il paese degli altri, trilogia ad opera dell’autrice franco-marocchina Leïla Slimani pubblicata da La nave di Teseo nella traduzione di Anna d’Elia. Nel romanzo il titolo del volume fa capolino nelle parole di Selma, bellissima sorella minore del protagonista, la quale fa il verso a Rossella-Scarlett O’Hara di Via col vento. Entrambe, con strafottenza schernita, si lamentano del bellicismo esasperato che caratterizzerebbe il genere maschile. Come nel romanzo di Margaret Mitchell la guerra di secessione americana troneggiava indiscussa nella storia, così gli scontri in seno al Protettorato francese in Marocco scandiscono la dimensione del tempo emotivo della vicenda raccontata da Slimani.

La saga familiare della famiglia Belhaj andrà ben oltre gli anni Sessanta, dichiara la scrittrice e questa prima parte rappresenta l’esordio di un trittico in cui il risveglio nazionalista marocchino e le lotte contro il potere coloniale francese si accompagnano al lento ma decisivo cambiamento del ruolo delle donne nella società. Le tensioni tra modernità e tradizione si altalenano nel testo in un andirivieni di spinte apparentemente irreversibili al cambiamento e rigurgiti reazionari, che si stringono come lacci alle caviglie di chi corre appresso al progresso dei modi all’europea. Le ingiunzioni della dominazione coloniale sono affrontate attraverso la dimensione sessuata dei rapporti di genere, che sono descritti apertamente come rapporti di potere che vanno anche oltre il giogo coloniale. In linea al pensiero della storica e antropologa femminista Ann Laura Stoler si direbbe che la difficoltà consista proprio nel determinare cosa sia specificamente coloniale nella dominazione coloniale.

L’europea della storia è una francese, Mathilde, un’alsaziana che si innamora di Amin, volontario marocchino nell’esercito coloniale di passaggio in Europa al seguito delle truppe alleate. I due si incontrano nel 1944 vicino a Mulhouse e alla Liberazione, gonfi d’amore e d’entusiasmo, si sposano e decidono di trasferirsi in Marocco nella tenuta che Amin aveva ereditato dal padre, a 25 chilometri da Meknes. «Aveva letto che il Marocco sarebbe diventato una specie di California, quello Stato americano pieno di sole e di alberi di arancio dove gli agricoltori erano tutti milionari».

I sogni milionari di Amin sono il corrispettivo di quelli di Mathilde, cullata nelle sue scelte da scenari africani alla Karen Blixen. I sogni esotisti della donna si sciolgono presto nella pozza di disillusione in cui il sentimento di straniamento, di lei straniera, sembra essere l’unica realtà galleggiante.

La rudezza della terra con cui la famiglia si scontra è dello stesso tenore ruvido della biancheria di lana grezza che indossa la piccola Aisha. La solitudine subita e cercata di questa famiglia mista si installa definitiva, mettendo in luce sia la portata escludente degli atteggiamenti sprezzanti da parte dei coloni sia quella degli sguardi interrogativi e impietosi degli autoctoni.

Il suo libro, per come tesse la trama della storia coloniale e il disincanto dei suoi personaggi, ricorda «Una diga sul Pacifico» (1950) di Marguerite Duras. La disillusione indocinese, che è anche quella della madre protagonista del romanzo di Duras, ricorda i momenti di sconforto esistenziale di Mathilde, la sua protagonista. Cosa accomuna queste due personagge?

Ha ragione a tracciare un parallelo tra questi due romanzi perché il lavoro di Duras è stato davvero una grande fonte di ispirazione per me. Come la madre di Duras, Mathilde affronta delle delusioni; come lei, non è completamente integrata in questo mondo coloniale che disprezza. Sono entrambe donne che si confrontano con la terra, gli elementi naturali e le frustrazioni che ciò può generare. Ma Mathilde, a differenza della madre, non è sola. Vive una relazione d’amore appassionata con il marito, è una madre amorevole, si integra gradualmente nel nuovo paese di cui parla la lingua. Credo insomma che si radichi.

I suoi personaggi, prime fra tutti Mathilde e Selma, ma anche Amin, vestono i panni di condannati perché considerati traditori nei confronti dei paesi da cui provengono e degli usi e abitudini. È daccordo nel dire che senso dappartenenza e tradimento costituiscano i motori del respiro, i polmoni de «Il paese degli altri»?

Sì, in effetti, tutti questi personaggi hanno l’impressione di essere in disaccordo con se stessi, di aver rinunciato alla propria identità o alla propria cultura, di esserne stati strappati. Tutti provano una sensazione di solitudine molto profonda perché non è più possibile per loro godere della comodità semplice di appartenere a un campo o all’altro. Tutto ciò è evidentemente esasperato dal contesto coloniale: Amin si sente espropriato del proprio paese, disprezzato, e Mathilde è vista alla stregua di una paria perché ha sposato un uomo arabo.

Lamore sembra essere la prerogativa necessaria per riuscire a resistere ne «Il paese degli altri». Quando esso si degrada, come resistono i suoi personaggi allo straniamento che caratterizza le vite di coloro che restano straniere e stranieri in un altrove quotidiano e in cambiamento?

Se resistono credo sia perché hanno profonde ambizioni che li animano (coltivare la sua fattoria per Amin, essere una madre amorevole e curare la gente per Mathilde) ma anche perché sono spiriti liberi. Si rifiutano di cedere, di fare concessioni o di lasciarsi abbattere dal peso delle umiliazioni che subiscono. Tutti i miei personaggi sono, credo, combattenti che ritengono che non ci sia davvero altra scelta che combattere. È in effetti per questo motivo che questa prima parte della mia trilogia è intitolata La guerra, la guerra, la guerra.

La famiglia protagonista vive in una fattoria sulle colline attorno a Meknes. La vita contadina viene descritta con grande realismo. Come è riuscita a coniugare le facce di un mondo in cui la dimensione del ripiegamento protettivo dalle sommosse cittadine fa da controparte allidea che la vita in campagna sia in realtà un obbligo inderogabile una sorta di schiavitù dalla terra?

Ho voluto fare di questa fattoria una sorta di isolotto, un luogo lontano dal resto del mondo. Questa distanza dà sia la sensazione di essere protetti dalla violenza esterna, ma procura anche ai personaggi una sensazione di paura e solitudine. Sono stata ispirata sia dai miei ricordi personali, nella fattoria dei miei nonni, sia dalle storie che mi hanno raccontato a proposito della loro giovinezza in questo posto. Era una vita molto dura, dove il clima era torrido oppure gelido, dove le condizioni materiali erano estremamente modeste. A questo si sono aggiunte immagini mentali, in particolare di autori americani che mi piacciono come Faulkner o Flannery O’Connor. Volevo fare di questa fattoria la mia piccola Alabama.

«Non ho altra scelta che la solitudine. Nella mia situazione, che vita sociale vuole che abbiamo. Lei non immagina cosa significhi essere sposata con un indigeno, in una città come questa». Nelle parole che Mathilde pronuncia parlando di sé a Corinne, la scelta del termine indigeno rivela la gravità dei pregiudizi legati ai matrimoni misti tra donne europee e uomini africani. Quanto lappropriazione coloniale e la dominazione sui corpi viziano i rapporti tra i suoi personaggi?

A quel tempo, l’idea che una donna bianca potesse sposare un indigeno era del tutto disapprovata. Si riteneva infatti che non solo avesse tradito la propria comunità, ma che fosse anche un po’ perversa sul piano sessuale. Come poteva mai una donna bianca correre selvaggiamente tra le braccia di un uomo dalla pelle scura e accettare che il suo sangue fosse contaminato da quello di un indigeno? Certamente, la questione sessuale è al centro del libro perché la colonizzazione è stata una grande impresa di scompenso sessuale. Si diceva agli uomini bianchi: «Andate alla conquista di questi territori, comportatevi da uomini, da avventurieri. Potrete disporre della terra e dei corpi delle donne». Volevo che questa violenza dei corpi fosse presente nel corso di tutto il romanzo.


(il manifesto.it, 5 ottobre 2020)

di Simonetta Sciandivasci


Il suo primo romanzo, “Lo spazio bianco”, stava per essere pubblicato, e sulla Repubblica Carla D’Alessio scrisse che Valeria Parrella, se fosse stata un colore, sarebbe stata l’arancione. Era il 2007, aveva trentatré anni e alle spalle molto teatro, il Premio Campiello Opera Prima, due raccolte di racconti, gli studi classici, la finale dello Strega (dove è arrivata anche quest’anno, unica donna in sestina). La incontro in piazza Bellini, a Napoli, in un bar che sta tra il conservatorio e un affaccio su un ipogeo sul quale hanno legato uno striscione che dice: essere napoletani è meraviglioso. Penso a Matilde Serao, che a un certo punto da Napoli era andata via perché non riusciva a lavorarci: la distraeva – aveva scritto: “Troppa poesia, troppa bellezza, troppo Vesuvio”. Ma Parrella non è distraibile. Mi dice che avrebbe voluto darmi appuntamento a piazza Dante ma fa troppo caldo, sedersi è impossibile, ed è tutta colpa di Gae Aulenti, no, scherza, non è colpa di Gae Aulenti, ma della giunta che l’aveva chiamata e le aveva affidato la riqualificazione della piazza e lei aveva studiato le carte del 1600 e aveva visto che all’epoca lì non c’erano alberi e quindi aveva deciso di levarli. E però che ne sapeva lei, era arrivata da Milano e aveva stravolto la piazza, e poi se n’era tornata a Milano, e da allora per i napoletani è diventato impossibile sedersi a Piazza Dante: non c’è ombra, le panchine si surriscaldano, se ti ci siedi sopra ti vengono le emorroidi, vedi perché sono NoTav anche se non ne so niente di Val Di Susa? Solo chi vive in un territorio sa di cosa ha bisogno quel territorio e ha diritto di scegliere cosa deve starci e cosa no.

Me lo dice concitatamente, come mi dirà tutto il resto.

Secondo Kandinskij, l’arancione è “come un uomo sicuro della sua forza”. L’arancione la descrive perfettamente, la collega di Repubblica aveva ragione.

Nel suo ultimo libro, “Quel tipo di donna”, appena uscito per HarperCollins, la nota in esergo è una frase che le ha detto una volta Luisa Muraro, filosofa femminista tra le fondatrici della Libreria delle donne di Milano. Questa frase: “Stringiti alla comunità delle donne, perché quando sarai vecchia saranno loro che ti salveranno, non i maschi”.

Mi dice qualcosa di più sulla conversazione privata tra lei e Muraro?

Ero ospite a Tempo di Libri per parlare di “Enciclopedia della donna”, che avevo pubblicato da poco. Chiara Valerio aveva invitato anche Muraro, che aveva accettato di venire nonostante non fosse d’accordo con niente di quello che avevo scritto: lo trovava maschile. La mia protagonista, Amanda, scopava dal mattino alla sera, pensava che gli uomini le sarebbero piaciuti fino alla fine, immaginava che, da vecchissima, in un molto confortevole ospizio che avrebbe potuto permettersi essendo molto ricca, avrebbe fatto pensieri zozzi pure sull’infermiere che le avrebbe tolto la bava.

Mica male come vecchiaia.

Infatti.

E allora?

E allora con Muraro avevamo discusso parecchio, e poi sciolto le ostilità, superato le diffidenze. Lei mi aveva detto: pensavo che ti fossi corrotta, e invece mi sbagliavo, ma ricordati che a salvarti, da vecchia, non saranno i maschi, ma le donne.

A salvarla da cosa?

Dalla solitudine. L’unica vera paura che abbiamo o che dovremmo avere tutti, in fondo, è di rimanere soli. In compagnia si può affrontare qualsiasi cosa, mentre da soli no, gli ostacoli raddoppiano, i fantasmi prendono forma, diventano concreti. E’ soltanto negli altri che sta la spinta a sfidare ciò che ci depotenzia, perché gli altri sono la ragione per essere competitivi nonostante le nostre fragilità. La disabilità genera handicap soltanto se chi la porta non chiede aiuto, si chiude, rinuncia alle sfide. Basaglia intuì che per i malati psichiatrici a contare non era tanto l’ospedalizzazione quanto l’inserimento nella società: aprire tutto a tutti, tutti a tutti. Non funzionò non perché la sua intuizione fosse sbagliata, ma perché mancò una comunità accogliente. Lo so per esperienza: tutto quello che puoi fare con gli altri è migliore di quello che puoi fare da solo. Tutto, tranne scrivere.

I libri non sono lavori di squadra, in fondo?

Certo. Ma c’è sempre il momento in cui per fare un mondo dentro devi scartare quello fuori.

È spaventoso?

Affatto, è libertà. Io mi sento libera solamente quando scrivo. Per il resto no, le condizioni sociali non mi permettono molto di più che un anelito alla libertà. E in fondo è giusto così, è in quella incompletezza che c’è la ragione per la quale facciamo tutto.

Lei però mi sembra molto disinvolta. E la disinvoltura è un affluente della libertà, no?

Sono del tutto disinteressata al giudizio altrui. E da qui certamente ricavo la capacità che ho di dire sempre quello che penso: mi viene facile, mi è sempre venuto facile.

È più difficile dire quello che si pensa o dire quello che non si pensa?

Dire quello che si pensa richiede una solidità particolare. Nel mio caso credo si tratti di una forma di autostima che deriva dai miei genitori: non mi hanno mai fatto mancare il loro sostegno e so per certo che è importante sostenere un bambino durante il suo sviluppo psicofisico. Conosco persone che hanno fatto scelte molto difficili in situazioni di grande ignoranza e le hanno fatte con leggerezza perché sentivano l’amore della propria famiglia. E conosco altri che vengono da ambienti assai più illuminati che tremano all’ombra di loro stessi perché hanno avuto genitori giudicanti.

Il corpo è un limite alla libertà?

È il contrario: nel corpo dispieghiamo la libertà.

Ma è anche l’oggetto privilegiato dei giudizi. Soprattutto dei primi, quelli che riceviamo da piccoli e che ci condizionano di più.

Se lo intendiamo in senso politico, sì: il corpo è il luogo dove si scatena il potere. Ma succede proprio perché è lo spazio della possibilità individuale. Mi riesce difficile, comunque, parlare di corpo come unità a sé: sono una materialista, corpo e anima per me sono indissolubili. Io sono qui davanti a lei, con lei perché ho questo corpo. Che mi sta liberando mentre le parlo.

Le parole che potere hanno?

Di diventare quelle giuste nel momento in cui tu che le usi decidi che lo siano. In “Quel tipo di donna” c’è una parola che ho inventato: ho chiesto alla mia editor se potevo inserirla, abbiamo cercato su tutti i vocabolari per capire se esistesse o meno, e quando ci siamo rese conto che non era così, lei mi ha detto di sì, perché comunque si capiva. Esiste anche questo, che non so se sia un potere, di certo è un prodigio: uno inventa un nome e tutti capiscono cosa indichi, perché suona bene, richiama, evoca. Fa nascere qualcosa.

Hanno scritto che questo suo nuovo libro è femminista.

Io sono femminista.

Che significa?

Significa una cosa che non possiamo non essere, in un paese dove in più di settant’anni di storia repubblicana non abbiamo avuto nessun presidente del Consiglio donna, nessun presidente della Repubblica donna, e soltanto tre presidenti di Camera e Senato donne.

Siamo un paese maschilista?

L’Italia è un paese patriarcale e una sfumatura di questo patriarcato è il maschilismo. Voglio dire che pure chi non è maschilista tende a mantenere posizioni di potere: non riconosce che a fare la differenza per includere le donne potrebbe essere un suo passo indietro. Una volta una mia editor diventò direttrice di collana per la narrativa italiana della mia casa editrice di allora: quando la chiamai per congratularmi, mi disse che tutte le volte che una donna arriva in un posto di potere è perché stanno abbassando gli stipendi. Nell’editoria gli uffici stampa sono tutti femmine perché tutte e tutti riconosciamo la capacità di relazione come un tratto forte e tipico delle donne, però non riusciamo a emanciparci dall’idea che vada fatta diventare la parte strategica del paese, e così lasciamo che esistano figure non di potere che la fanno fruttare al meglio, e che naturalmente sono sottopagate. Non ci mettiamo in testa che devono comandare le donne, punto e basta. Una settantina d’anni, e poi ne riparliamo.

Non ha paura del potere?

Il potere va inteso in maniera etimologica: la possibilità di fare qualche cosa. Non comandare, ma poter incidere sulle realtà. Non mi aspetto che tutti siano martiri o eroi, ma chi decide di fare di più, di tentare di far fare uno scatto alla realtà che lo circonda, e di farlo in virtù di qualcosa che lo travalica, deve poterci provare. Chi ci riesce, ha il potere. Chi non ci riesce, è un martire. Se ci pensa, le Giovanna D’Arco sono tutte femmine di sedici anni o giù di lì: Antigone, Greta.

Morirebbe per un ideale?

No. Morirei soltanto per mio figlio. 

Prima di diventare madre, cosa c’era di diverso nella sua vita?

Questo: sarei morta per un ideale.

Lei molti anni fa si candidò alle elezioni europee con la lista “L’Altra Europa con Tsipras” e fu molto votata. Perché ha smesso con la politica?

Non ho smesso. Ho lasciato la politica attiva, che feci in quella occasione perché me lo chiese Ermanno Rea, che mi aveva messo in lista con persone fantastiche, Loredana Lipperini, Franco Arminio, Curzio Maltese, Moni Ovadia. E come facevo a dire di no? Scrivemmo un libretto di autofinanziamento bellissimo: “Avviso ai naviganti”, in cui tutti inserimmo un racconto. Funzionava come la sottoscrizione che si faceva una volta nel Partito Comunista e i militanti lo compravano alla cifra che volevano. Quel partito aveva in mente una idea bellissima e forte di Europa dei popoli, e parlava di come la Troika avrebbe potuto neutralizzare la Grecia. Per me era un dovere provare a evitarlo, e partecipare a quell’esperienza mi sembrò un modo di farlo. Ma mi imbarazzava scrivere il mio nome, chiedere il voto per Valeria Parrella: odio i personalismi e dei leader non mi frega niente: leggo i programmi e vedo i manifesti, da sempre. Mi piacciono i pensatori, mi piace Gramsci, mi piacciono alcuni discorsi di Ingrao, ma dei leader non mi è mai importato. Facemmo il comizio di chiusura a Piazza Dante e preparai il discorso seduta qua dietro su una panchina di pietra, presi un applauso dagli anarchici che erano invece venuti a fischiarci: parlai dei detenuti, che non votano, e infatti sono quasi del tutto assenti dai discorsi delle campagne elettorali, e così anche il pubblico più ostile capì che la mia e la nostra era una sfida altissima. Ricordo che tremavo e tutti mi sfottevano. Per me era una cosa importantissima. Posso fare la cialtrona se parlo di letteratura, non se vado a impegnare un cittadino in una scelta esiziale, come è ogni scelta di voto.

Ermanno Rea perché è stato così importante per lei?

Era uno scrittore di cui mi fidavo. Ha visto le stesse cose che ho visto io, ma prima. Era sempre accogliente. Gli uomini anziani comunisti non sono paternalisti: ecco, uno dei lasciti del comunismo in Italia è che te ne accorgi se un uomo è paternalista o no. E lui mi leggeva con curiosità, non mi accoglieva con un tono di benvenuto.

In Italia la rivoluzione non si può fare perché ci conosciamo tutti?

Se mai, quella è la ragione per cui la dovremmo fare: ci verrebbe più facile unirci, lottare. La ragione è un’altra: la rivoluzione si fa con le armi, e noi non le abbiamo. Negli anni Settanta c’erano, stavano nelle fabbriche, adesso non più.

Quando ha deciso di fare la scrittrice?

Non c’è stato un momento particolare. È stato naturale. Ricordo che amavo leggere i romanzi rosa, specie quelli di Liala, che avevano delle copertine bellissime, pastellate con sopra un aviatore che sarebbe poi morto dopo il primo bacio – e io mi domandavo sempre come fosse baciare, facevo le prove con lo specchio, sulle mani, lei lo faceva?

Eccome no. Ma mi dica di Liala.

Ah sì. Una mia compagna di scuola mi regalò la sua trilogia: rimasi folgorata perché il titolo dell’ultimo volume era “Liala che torna”. Finalmente c’era un che! Mi sembrò una rivoluzione in quel profluvio di sintagmi nominali che erano i titoli dei romanzi che leggevo allora (Piccole donne, Piccole donne crescono, L’isola del tesoro). E invece Liala stavolta tornava da chissà dove, vedevo il suo movimento, i suoi viaggi, i suoi misteri: tutti in quel “che torna”. E allora presi a girare per casa dicendo: il giorno che scriverò un libro lo intitolerò così e cosà. Inventavo un sacco di titoli e per ciascuno avevo un libro in testa. Finché non scrissi il primo, lo chiamai in un modo altisonante che però funzionò, e adesso eccomi qui.

Ha rinunciato a qualcosa per scrivere?

Sì. A correre. Ero una centometrista e dovetti abbandonare per dedicarmi alla scrittura e allo studio. Ed è l’unico rimpianto che ho. Lo sport mi piace. Lo pratico. Faccio nuoto una volta a settimana e palestra un’altra volta. Sto attenta alla cellulite.

Sa che ai maschi non frega niente della cellulite?

Certo che lo so. Non lo faccio mica per loro.

Non mi dica che crede al mito del farsi bella per sé.

Non è un mito. Io passo molto tempo a guardarmi allo specchio. E lo faccio perché mi piace.

Lei si piace?

Moltissimo. Altrimenti non mi guarderei. E mi sono sempre piaciuta.

Non si è mai sentita in imbarazzo?

Mai.

In soggezione?

Uno dei miti idoli è Noam Chomsky. Molti anni fa andai a vederlo all’Auditorium. Mi nascosi nel sottopalco con una mia amica e quando arrivò gli diedi un libro nel quale avevo nascosto un biglietto con sopra scritto: Noam, you’re here. Come una groupie scema.

Lei è ancora di sinistra?

Eccome. Ma non credo nella sinistra parlamentare. Non mi rappresenta.

Sinistra extraparlamentare e istituzionale possono dialogare?

Certo, a Napoli è successo. De Magistris ha assegnato molti posti occupati ai centri sociali, riconoscendone la funzione civica e culturale. Le bollette le paga il comune e nessuno fiata. In molti quartieri, gli spazi autogestiti sono un punto di riferimento per tantissime famiglie, fine della storia.

Le piace De Magistris?

Mi piace la sua carica vitale. E apprezzo il fatto che non sia colluso, corrotto: in una città come Napoli non è semplice. Ha fatto cose importanti: ha tenuto aperti gli asili nido che rischiavano la chiusura quando il patto di stabilità aveva bloccato molti fondi, ha creato mense, servizi per i diritti dei disabili, ha dato la cittadinanza onoraria a tutti i bambini che nascevano da migranti a Napoli. Diceva: non posso darvi la cittadinanza italiana ma vi do le chiavi della città.

Perché la sinistra non è capace di unirsi?

Ha questo di bello: è composita e friccicarella. Si bisticcia perché su cento persone di sinistra, ci sono cento idee diverse. Per questo voglio il proporzionale.

Non eviti la mia domanda.

E che vuole, che mo’ il problema della sinistra che litiga lo risolviamo io a lei a questo tavolino? Secondo me, poi, il punto è un altro: è che la sinistra da troppo tempo cerca solo consensi. La prendo da un altro lato. Da piccola avevo i genitori comunisti ma i miei nonni paterni erano fascisti monarchici e avevano votato monarchia al referendum e tutto il resto della vita votarono MSI: quando rischiava di vincere il PCI, votavano DC perché avevano paura. Ora, molti elettori di sinistra è come se stessero votando DC: votano il PD per arginare Salvini. Ma questo che c’entra con la sinistra? Soltanto Landini fa discorsi di sinistra. E fa un ragionamento politico che viene dai libri e cerca di incarnarsi negli operai. Ma quanto è difficile parlare alle egide e ai gruppi quando questi gruppi sono stati artatamente divisi e depauperati di forze e riconoscibilità? Pensi alla lotta degli insegnanti, alle modalità schizofreniche di assunzione e reclutamento che li hanno messi gli uni contro gli altri. Come si fa a fare il sindacato degli insegnanti, se sono stati spezzettati in categorie e non si riconoscono più in una figura unica? E a questo processo infame sono stati sottoposti tutti i lavoratori, dopo l’abolizione dell’articolo 18. Quindi io e lei stiamo facendo un discorso antico, parliamo della sinistra come se fossimo in Francia, ma noi non abbiamo le 35 ore: noi abbiamo i co.co.co., la gente che lavora otto ore al giorno e guadagna 300 euro al mese.

Dove fa politica, se la fa ancora?

Su Twitter!

Non è vero.

La faccio anche nel quartiere. Cerco di essere una figura di raccordo tra i cittadini e le istituzioni. Per esempio abbiamo creato un comitato per far aprire l’ex Italsider ai cittadini.

Com’è vivere a Napoli?

Non si resta mai soli. Napoli è un’altra persona con la quale avere a che fare. Tu hai un marito, un figlio e poi hai Napoli.

Serao la abbandonò perché la distraeva troppo.

A me non distrae niente. Ho scritto “Lo spazio bianco” con mio figlio in terapia intensiva. L’ho scritto sulle ringhiere delle scale dell’ospedale. “Antigone” l’ho scritto con gli operai in casa che mi chiedevano stracci, martelli, bicchieri d’acqua in continuazione. E che problema c’è.

Le nuove femministe giovani le piacciono?

Le trovo bravissime. Ci salveranno.

Cosa manca alla scuola?

L’educazione sentimentale. Io avrei già pronto il programma per realizzarla: educazione di genere e alla diversità, sistemi di inclusione, passaggio generazionale.

Mi piacciono i suoi vestiti.

Scrivo da anni per un giornale di moda, sarà servito a qualcosa. Ho avuto un papà borghese che però spendeva solo per viaggi e libri: non che mi pesasse, ma appena ho potuto usare i miei soldi, non ho lesinato sulla vanità.

È sempre così allegra?

Sì. Però sono una rompicazzo. L’altra faccia di questa vitalità è la rabbia. Perdo il controllo, spacco tutto, urlo, piango.

Cosa la fa arrabbiare?

Potenzialmente qualsiasi cosa. Soprattutto non tollero chi finge di non capire quello che dico.

È ottimista?

Certo che sì.

Perché è progressista?

No. Perché sono viva.


IL FOGLIO, 27 settembre 2020

di Raffaella De Santis


Mantova città delle donne. Mentre montava la polemica sulla mancanza di donne al Festival della Bellezza di Verona, a una cinquantina di chilometri di distanza gli organizzatori del Festivaletteratura di Mantova dormivano sonni tranquilli visto che la loro manifestazione, seppur falciata dal Covid, è piena di donne. Una delle più amate è una signora elegante che parla sottovoce e ha il portamento di una danzatrice. Mariangela Gualtieri è una poetessa romagnola (anzi poeta, come preferisce essere chiamata) che riempie i teatri recitando poesie. Lei dice semplicemente: «Con i miei versi cucio i vestiti agli attori». Nata a Cesena nel 1951, laureata in architettura, dal 1983 è corpo e voce del Teatro Valdoca, fondato insieme al regista Cesare Ronconi.

Gualtieri sa parlare chiaro, i suoi versi arrivano dritti e non si nascondono dietro allusioni criptiche. Sono limpidi come i suoi occhi azzurri. La incontriamo prima del “rito sonoro” che ha tenuto ieri sera nel cortile di Palazzo Te. Qui era molto attesa, anche dai giovanissimi. La sua poesia “Nove marzo duemilaventi” scritta durante il lockdown e pubblicata inizialmente su Doppiozero è diventata un caso, rimbalzata sui social come fosse una canzone pop e nel giro di pochi giorni tradotta in tutto il mondo. Lunedì prossimo Gualtieri aprirà invece la Biennale Teatro, invitata dal direttore Antonio Latella.

Ora a parlare di donne con Mariangela Gualtieri è un’avventura niente affatto scontata perché si finisce per oltrepassare le gabbie dei generi e per approdare a un’idea di femminile che “riguarda tutti”, anche i maschi che non è detto debbano incarnare la fetta di popolazione votata al muscolo e all’arroganza.

Crede che le quote rosa siano un falso problema?

«Il fatto stesso che bisogna ricorrere a leggi e regolamenti rivela che alle donne si pensa troppo poco».

Nella poesia non accade. Lei, Alda Merini, Patrizia Cavalli siete voci amatissime anche dal pubblico popolare. Cosa ha di speciale la poesia femminile?

«Se mi avesse fatto questa domanda qualche anno fa mi sarei arrabbiata. Le avrei risposto che la poesia pesca in un io profondo, che non è né maschile né femminile».

E oggi?

«Oggi penso che nelle voci femminili ci sia una maggiore umiltà, un senso speciale di dismissione, di cura. Dante diceva di scrivere nella lingua delle mulierculae. Anche io voglio scrivere nella lingua delle donnicciole. Voglio esprimermi in una lingua bassa che sia viva e forte, in cui ci sia posto per l’ascolto e si faccia più attenzione alle piccolezze del quotidiano, e con quella lingua dire anche le cose più alte».

Non si rischia di relegare le donne ai soliti ruoli? Perché non desiderare il potere?

«Non dobbiamo nasconderci dietro attributi maschili ma tenere vive le nostre qualità. La pazienza, la lentezza, la cura per il dettaglio, la contemplatività sono virtù che appartengono a un’idea di energia femminile più estesa, che riguarda anche gli uomini».

Lei cosa faceva negli anni Settanta, apparteneva a gruppi femministi?

(Sorride) «In quegli anni insieme a Cesare Ronconi siamo finiti grazie a una borsa di studio in Polonia. Lì abbiamo scoperto il teatro di Kantor e di Grotowski. Eravamo inconsapevoli, è stata la vita a portarci lì. Ricordo che una volta abbiamo assistito di nascosto alle prove de La classe morta. Sinceramente non mi sono mai riconosciuta pienamente nel femminismo o nei gruppi extraparlamentari che frequentavo in quegli anni. Mi hanno sempre messa un po’ a disagio».

Come mai?

«Mi sembrava avessero una lingua troppo specialistica, esclusiva. Faticavo a capire quello che dicevano. Stavamo ore e ore seduti in stanze fumose. Un sacrificio del corpo che non concepivo. Oggi però mi incuriosiscono le nuove femministe. Il loro mondo mi sembra un mondo più accogliente, più inclusivo».

I suoi versi invece parlano a tutti. Sa spiegarsi il successo enorme di “Nove marzo duemilaventi”?

«Ha sorpreso anche me. Mi chiamavano da tutto il mondo, dalla Cina alla Norvegia. Credo che questo testimoni un grande vuoto di parole. In quei giorni vivevamo sotto l’assedio delle parole dell’informazione e avevamo una fame inesauribile di altro».

L’attacco è forte, quasi un monito: “Ci dovevamo fermare”.

«È uno degli aspetti positivi della tragedia che stiamo vivendo. Il virus ci ha aperto gli occhi. Ci siamo accorti di essere incastrati in una corsa. Una corsa che ci condanna a vivere sulla superficie, ad andare sempre di fretta».

Il compito della poesia è anche farci guardare oltre?

«La poesia parla alla ragione ma anche a qualcosa che è al di là della nostra ragione. Sentivo che eravamo affamati di una parola che non comunica ma piuttosto rivela. La poesia sa risvegliare la nostalgia di un senso profondo».

Nella sua nuova raccolta “Quando non morivo”, pubblicata da Einaudi, parla spesso al plurale. Dice “siamo” e include la natura e gli animali.

«I miei momenti di maggiore felicità hanno a che fare con un senso di consonanza con tutto quello che mi circonda. Sono tenuta in vita dall’acqua, dalla luce, dalle piante, dagli animali. Ho bisogno di sentirmi parte di tutto questo».

In Nove marzo dice: “Tutta la specie la portiamo in noi”.

«È così, diminuire il proprio “io” avvicina alla felicità».


(La Repubblica, 11 settembre 2020)



Nove marzo duemilaventi


di Mariangela Gualtieri


Questo ti voglio dire

ci dovevamo fermare.

Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti

ch’era troppo furioso

il nostro fare. Stare dentro le cose.

Tutti fuori di noi.

Agitare ogni ora – farla fruttare.

Ci dovevamo fermare

e non ci riuscivamo.

Andava fatto insieme.

Rallentare la corsa.

Ma non ci riuscivamo.

Non c’era sforzo umano

che ci potesse bloccare.

E poiché questo

era desiderio tacito comune

come un inconscio volere –

forse la specie nostra ha ubbidito

slacciato le catene che tengono blindato

il nostro seme. Aperto

le fessure più segrete

e fatto entrare.

Forse per questo dopo c’è stato un salto

di specie – dal pipistrello a noi.

Qualcosa in noi ha voluto spalancare.

Forse, non so.

Adesso siamo a casa.

È portentoso quello che succede.

E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.

Forse ci sono doni.

Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.

C’è un molto forte richiamo

della specie ora e come specie adesso

deve pensarsi ognuno. Un comune destino

ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.

O tutti quanti o nessuno.

È potente la terra. Viva per davvero.

Io la sento pensante d’un pensiero

che noi non conosciamo.

E quello che succede? Consideriamo

se non sia lei che muove.

Se la legge che tiene ben guidato

l’universo intero, se quanto accade mi chiedo

non sia piena espressione di quella legge

che governa anche noi – proprio come

ogni stella – ogni particella di cosmo.

Se la materia oscura fosse questo

tenersi insieme di tutto in un ardore

di vita, con la spazzina morte che viene

a equilibrare ogni specie.

Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,

guidata. Non siamo noi

che abbiamo fatto il cielo.

Una voce imponente, senza parola

ci dice ora di stare a casa, come bambini

che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,

e non avranno baci, non saranno abbracciati.

Ognuno dentro una frenata

che ci riporta indietro, forse nelle lentezze

delle antiche antenate, delle madri.

Guardare di più il cielo,

tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta

il pane. Guardare bene una faccia. Cantare

piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta

stringere con la mano un’altra mano

sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.

Un organismo solo. Tutta la specie

la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.

A quella stretta

di un palmo col palmo di qualcuno

a quel semplice atto che ci è interdetto ora –

noi torneremo con una comprensione dilatata.

Saremo qui, più attenti credo. Più delicata

la nostra mano starà dentro il fare della vita.

Adesso lo sappiamo quanto è triste

stare lontani un metro.

di Giacomo Giossi


Vita familiare, rivoluzioni e dittature si intrecciano nel Novecento come forse mai prima nella storia, come già ha indicato nel suo brillante e approfondito saggio, Famiglia Novecento (Einaudi), Paul Ginsborg.

E di famiglia e rivoluzioni (collettive e individuali) racconta con grandi qualità narrative e affabulatorie la drammaturga Nino Haratischwili che con il romanzo fiume L’ottava vita (Marsilio, pp. 1129, euro 24, traduzione di Giovanna Agabio) rende omaggio a una storia familiare che è anche il racconto delle intime diversità di generazioni e popoli che sotto l’etichetta dittatoriale dell’Unione Sovietica hanno patito la cancellazione oltre che della libertà anche delle proprie origini.

Haratischwili sviluppa nell’arco di un secolo che si distende tra due voci narranti femminili il racconto di una famiglia che è anche quello di un territorio e di un’epoca attraversati da cambiamenti politici e sociali rapidissimi e straordinari. La qualità principale del romanzo sta nell’offrire uno spaccato storico senza che mai i due piani, quello privato e quello pubblico, si contrastino o entrino narrativamente in conflitto appesantendo la narrazione: tutto è in perfetto equilibrio anche grazie a un non banale tono ironico, leggero che fa di questa famiglia il veicolo ideale per raccontare le contraddizioni spesso ridicole di un tempo così tremendamente segnato dall’ideologia.

Sette le donne che segnano il racconto di una vicenda che va dagli Zar fino alla caduta del muro di Berlino e che utilizza tutti gli strumenti tipici dell’avventura che fanno di questo romanzo un testo ricco e storicamente puntuale, che per certi versi può essere equiparato al lavoro di Stefano Massini, Lehman Trilogy, non a caso anche da questo romanzo Haratischwili ha tratto un lavoro teatrale.

La ricostruzione agisce meno per elementi simbolici e affonda di più in quella che può essere definita l’emotività dell’epoca. Si potrebbe quasi azzardare un confronto tra quello che sembra un racconto femminile che si oppone a uno maschile, il crollo di due ideologie, ma anche la vivacità generativa di una famiglia, quella raccontata da Haratischwili che supera ed evita i legami con il potere e mantiene generazione dopo generazione un’energia sentimentale che ai Lehman non è permessa.

A est, nel vecchio impero comunista, là dove ogni cosa sembra cancellata da un crollo che ha chiuso un secolo, ritroviamo la forza di legami non retorici che intrecciandosi alla Storia la superano mantenendo sotto la cenere dei movimenti e delle ideologie una brace viva pronta a espandersi nuovamente riaccendendo passioni ed entusiasmi. Un romanzo popolare, potente e avventuroso nella migliore accezione del termine, capace di attrarre il lettore e renderlo partecipe appassionandolo senza nulla concedere a un’eccessiva o ricolorata ricostruzione storica.

I due piani convivono felicemente aggiungendo qualità e curiosità alla lettura e non appesantendola. L’ottava vita fa i conti con la storia collettiva di un territorio e di un tempo attraverso il racconto libero e a tratti leggero di una storia privata. L’autrice si pone così come parte integrante di una vicenda, ma anche quale elemento successivo a ciò che convoca e quindi libero di reinterpretare senza trascolorare il tempo trascorso.


(il manifesto, 9 settembre 2020)

di Roberta Scorranese


«Non provo più amore».

Ma da quanto tempo?

«Da anni».

E come si sta senza amore?

«Male, tristi. Con una specie di sapienza a posteriori che non consola. Però sono troppo narcisa per azzardare un sentimento che potrebbe non essere ricambiato».

Ma la felicità non è un rischio? Non sta forse nel «fecondo coraggio», come diceva Natalia Ginzburg, il segreto dell’andare avanti?

«Boh».

Roma, Campo de’ Fiori, l’afa di un agosto deserto di persone, la casa all’ultimo piano — senza ascensore —, Patrizia Cavalli affondata sul divano che cerca da dieci minuti una posizione comoda appoggiando i piedi sul tavolino di fronte. Fogli, quadretti, piccole sculture sottili appese alle pareti, oggetti inutili e medicine sono il paesaggio di questo incontro, che sarà pieno di pause, sospiri, immaginari salti temporali per riacchiappare ora questo ora quel ricordo. Patrizia Cavalli è la nostra maggior poeta vivente.

Perché si fa chiamare «poeta» e non «poetessa»?

«Perché poetessa fa ridere, dai. Non mi è mai passato per la testa l’idea di farmi chiamare poetessa. Sembra quasi una presa in giro».

La stessa Elsa Morante, quando decise di sostenerla, le disse: «Patrizia, sei poeta, sono felice».

«A lei devo tutto, avevamo un rapporto complesso, umorale, esattamente come la sua natura. Ma ricordo un episodio. Una volta eravamo a tavola io, lei e Sandro Penna. Penna c’aveva quella vocetta gne gne e diceva: “Elsa, Elsa, sei contenta di stare a pranzo con due poeti?”. Morante lo gelò: “Io sono più poeta di voi”».

«Con passi giapponesi» è un libro di prose. La voce di Cavalli è naturalmente la stessa. Com’è nato il libro?

«Non c’è stata una vera intenzione. La prosa fa parte di me, io ho sempre scritto molto, ho uno stanzino pieno di note e appunti. I testi qui raccolti sono brevi, almeno per la maggior parte, indago il linguaggio».

Nata a Todi nel ‘47. In Umbria l’adolescenza. Poi Roma, alla fine degli anni ‘60 per studiare filosofia. Come sono stati i primi anni romani?

«Disperati».

Perché?

«Difficili anche sul piano topografico: mi perdevo nelle strade e siccome mi vergognavo a chiedere informazioni capitava che vagassi da sola per ore o che rimanessi fissa in un posto come un baccalà».

Poi questa casa, dove lei abita dal 1972.

«Prima occupavo un piano della casa di un tizio sposato ma gay. La moglie piangeva sempre e la capivo: aveva scoperto di stare con uno che amava i maschi. Gli innamorati si somigliano tutti».

Lei non è mai stata attratta dai maschi?

«Solo da ragazzina, sui dodici o tredici anni. Mi piaceva il mio vicino di casa a Todi, ma non era un’attrazione erotica. Era un’altra cosa. Più conformista, direi. Era come se stessi sperimentando qualcosa che non capivo bene».

A Kim Novak lei ha dedicato la sua prima poesia.

«Avrò avuto sì e no dieci anni. Quella donna mi faceva impazzire, mi sembrava un angelo. La poesia — la ricordo benissimo — faceva così:

Chi sei tu dunque

Kim, Kim, Kim Novak?

Sei forse l’angelo che appar di tratto?

Sei forse luce, calore e sogno?

Sì vedo, in te vedo il bene, la luce e la speranza.

Credo, in te credo con l’anima mi’ intera»

«Con l’anima mi’ intera», addirittura un’elisione.

«Evidentemente quello mi sembrava vera poesia, quell’attenzione alla lingua».

Sta scrivendo in questo periodo?

«No, non scrivo da almeno quattro mesi. La malattia, dicono, al momento s’è ritirata ma queste maledette cure che ho fatto mi hanno portato via l’energia e la memoria. Come si fa a fare poesia senza memoria? La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere. Le parole devono avere una potenza intrinseca, il lavoro del poeta è sceglierle tra tante altre. Ma io non ci riesco sempre ora».

Che cosa prova in quei momenti?

«Una sensazione di impotenza. Il corpo che cede, la stanchezza, la sensazione di non esserci. Perché il corpo è tutto. Il corpo è il teatro delle nostre cose, senza il corpo non ci siamo. La memoria è poi anche conforto, con la memoria ci sentiamo interi. Io invece adesso non sempre mi sento la vita davanti. Qualche volta risorge, a tratti e all’improvviso e allora corro a catturarla, a fissarla. Con immagini o con parole».

Il «corpo è tutto»?

«E certo, e di che vuoi parlare, dell’anima? Ma dai. Il corpo è dove sperimentiamo la conquista e la perdita».

In «Con passi giapponesi» uno dei brani più belli è quello in cui si racconta lo sguardo delle donne sulle altre donne: chirurgico, spietato.

«Vero. Uno sguardo che ho sentito più volte su di me e che ho visto spesso da donna a donna. Come uno sguardo unico, che mai sarà rivolto agli uomini».

Una delle poche cose che nessun uomo riuscirà a mai a prenderci?

«Forse».

Lei ha trascorso molto tempo senza pubblicare.

«Non sono una che apre la bocca per dargli fiato. Ho scritto cinque libri di poesie, è tanto. Non mi pesa stare senza scrivere».

Ma a settembre uscirà una nuova raccolta, «Vita meravigliosa».

«È fuori dal tempo, un libro dove ho messo tante cose. Compreso un poemetto dal titolo “Con Elsa in paradiso”».

Quando Elsa (Morante) decideva chi portare in paradiso si creava la coda: «anche io, anche io!» dicevano tutti. Morante però ci portava sempre Patrizia, perché Patrizia lo meritava.

«Ecco, a un certo punto scrivo “ah come mi piaceva questo andare facile, sicuro, senza dover competere”. Non sono stati anni felici, ma ricordo che succedevano cose, che preparavo cene, che sapevo cucinare benissimo e che c’era sempre tanta gente. Adesso, alla sera, il trovare gente da avere intorno è una preoccupazione».

Non riesce a stare da sola?

«Non mi piace, alla sera non ci riesco».

Quali sono stati i suoi anni felici?

«Non credo che ci siano anni felici. Ci possono essere stagioni felici. O giorni».

Lei racconta di una gita in un paesaggio svizzero e parla di felicità.

«Sì, quella volta sì. C’erano tutte le cose che mi rendono felice. C’era un luogo pianeggiante, d’acqua o di terra, poco importa. Poi c’erano dei sentieri, poi un qualcosa da salire o da scalare. Il bosco. Sì, quella volta sono stata felice».

Bella la parte in cui descrive il cicaleccio delle persone che erano con lei, persone che non stanno bene da nessuna parte e che si riconoscono perché non sanno stare zitti.

«Davvero ho scritto questo? Non me lo ricordo».

Ha scritto tanto di sé.

«Ma nella poesia il lato biografico conta poco. Certo, io ho parlato e parlo tanto di me, le poesie in cui parlo d’altro saranno sì e no un terzo».

Perché?

«Perché ogni tanto la vita mi si ripresenta accanto e allora cerco di catturarla e di scriverla».

Patrizia Cavalli ha una pelle bellissima. Questo è un fatto concreto, qualcosa che può toccare con mano.

«L’ho sempre avuta. Mi dicono anche che ero bella da ragazza ma io non me ne sono mai accorta. Ecco, forse sono stata felice ma non me ne sono accorta. Forse è stato un godimento oggettivo, quello della mia bella giovinezza, ma non soggettivo. Non c’ero e dunque non ho vissuto. A volte si vivono intere vite senza esserci».

(Una delle poesie della nuova raccolta finisce così: «senza sapere che in realtà ero bella»)

Lei è gelosa?

«Moltissimo. Lo sono sempre stata. Gli amori sanno essere diversi l’uno dall’altro e modulare ogni risposta è fatica, ad un certo punto tutto diventa lotta e rivalsa».

E che adolescente è stata?

«Ricordo un anno tremendo, ad Ancona, dove ci eravamo spostati per motivi di lavoro di mio padre. Volevo comandare i giovani ufficiali della Marina che alloggiavano vicino a casa nostra. Avevo promesso loro di rifornirli di divise di nordisti e sudisti, ci avevano creduto. Li comandavo, mi ubbidivano. Ero forte».

Patrizia, ma è vero?

«Nella poesia conta il vero?»

No. Crede in Dio?

«Ma che domanda è?»

Una domanda legittima. Risponda.

«No, piuttosto allora preferisco Apollo».


(Corriere della sera, 28 agosto 2020)

di Alessandra Pigliaru


SCAFFALE. «Come la sabbia», il secondo romanzo della scrittrice svizzera, è stato pubblicato di recente da Paginauno


Prosegue l’ottimo lavoro di traduzione dell’opera di Alice Rivaz da parte della casa editrice Paginauno. Dopo La pace degli alveari (1947, recensito su queste pagine il 5 luglio del 2019), insieme agli altri pubblicati alla fine degli anni Novanta (Nuvole tra le mani, Il cavo dell’onda, L’alfabeto del mattino, Racconti di memoria e di oblio, Getta il tuo pane), ora è arrivato Come la sabbia (pp. 204, euro 18, traduzione di Grazia Regoli, postfazione di Valèrie Cossì), secondo romanzo della scrittrice svizzera, dato alle stampe nel 1946.

LA QUALITÀ LETTERARIA è quella cui ci si abitua fin dalle prime righe di qualsiasi suo libro, elegante, asciutta e mai banale. Scoperta preziosa, Alice Rivaz illumina centrale la cultura romanda ed europea. Nell’arco lungo quasi un secolo (nata nel 1901 scompare a 97 anni), per intuirne il carattere ironico e sferzante basterebbe vedere in rete qualche sua intervista. Un sorriso alleggerito da una longevità e autonomia fuori dalle convenzioni. Un clima simile si respira nei suoi romanzi: disincanto privo di tormento, dono raro delle fuoriclasse che scelgono la schiettezza senza mai rinunciare alla misura della dirompenza.

Lo avevamo imparato leggendo il diario di Jeanne Bornand protagonista di La pace degli alveari e ora lo comprendiamo meglio grazie a Hélène Blum, Claire-Lise Rivier, André Chateney, Nelly Demierre e tutti i protagonisti di Come la sabbia. Ambientato nell’inverno ginevrino del 1928, tra le fila di funzionari e impiegati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (dove anche Rivaz aveva trovato posto fino al 1959), possiedono l’inquietudine livida di larga parte della letteratura novecentesca, raccontano quanto deperibile e ilare sia il destino della condizione umana.

TUTTO HA UN TERMINE, l’amore, per primo, è uno scacco irrisolvibile. La grande Storia, come in ogni scrittura di Alice Rivaz, interferisce continuamente nel quotidiano, la crisi economica, il tema del lavoro e delle diseguaglianze sociali in particolare riguardanti le donne, sono consegnate nelle mani di Hélène che è personaggia cavillosa, analitica e fin troppo deduttiva.

Vive di ambivalenze e disappropriazioni, Hélène, a partire dalla propria identità ebraica e non si capacita di quanto imprendibile al ricordo sia la relazione avuta con il suo collega André. Non sa bene, dopo sette anni, cosa sia accaduto in quella massima dispercezione che è l’amore offerto a chi non ha idea neppure dell’esistenza dell’altro da sé; incurante degli sguardi di Hélène, André desidera oggetti indisponibili.

É una faccenda che attraversa i secoli questa dell’evitamento dell’intimità, si sceglie più spesso il proprio ombelico, in molti casi abitacolo di feste centripete e di edonismo da quattro soldi. Tutto ciò riguarda anche i protagonisti di Rivaz; a partire dalla postfazione di Cossì, si ribadiscono i temi cari al femminismo radicale che alla fine degli anni Sessanta farà capolino anche in Svizzera: la libertà femminile, la disparità giocata non solo nello scardinamento dei ruoli sociali né su un terreno puramente paritario.

LA RELAZIONE TRA I SESSI è per Alice Rivaz questione da condividere con le altre donne, di cui parlare nelle contraddizioni eppure senza la miseria di sentirsi autosufficienti, inutile ripetere gli errori maschili. Gli uomini sono certo disattenti, secondo la scrittrice, talvolta invocano semplicità quando invece vorrebbero maggiore compiacenza, eppure restano interlocutori preziosi di una tassonomia affettiva più vasta.

Siamo state donne innamorate, dice Rivaz, e ci hanno fatte diventare cuoche e casalinghe. Nonostante tutto, questi uomini sono stati amati con ostinazione, rivelandosi altrettanto orbi. Non resta che congedarsi dall’illusione romantica e avviarsi per strade più ariose. Notevole a tal proposito è la costellazione musicale e danzante di tutto il libro. Se la sabbia è il tempo che scorre nell’oblio, l’elemento inconscio del fluire nel corpo a corpo con altri esseri umani è la lente ulteriore di relazioni più oblique.

IL BALLO TRASFORMA il grigiore impiegatizio diurno nel sentire la propria differenza sessuale tra esultanza e inadeguatezza. Quella della ventenne Claire-Lise, tra i più interessanti profili dell’intero romanzo, riveste in tal senso un posto speciale: la sua timidezza intrinseca, il suo sentirsi vista quando vorrebbe invece solamente infilarsi in qualche porta sul retro, determina il rischio di stare nella tenuta di sé, di non andare via. In una «rivolta piccolissima» e definitiva, sono dunque i gesti quotidiani scelti per l’osservazione del mondo, insieme alla pratica del partire da sé, che hanno spinto Alice Rivaz, fino agli ultimi anni della propria vita, nella prosecuzione della scrittura. Un passo dopo l’altro, regale e tenace protagonista del proprio spazio nel mondo.


(il manifesto, 18 agosto 2020)