di Daniela Monti


Rebecca Solnit scherza e dice di vivere in lockdown dal 1988, «da quando ho lasciato la redazione per cui scrivevo, per poi perdere un altro posto e diventare un’autrice indipendente. Pensavo che mi sarei trovata un nuovo lavoro, ma non ne ho ancora avuto il tempo. Per scrivere non-fiction bisogna uscire e fare ricerca, ma per la maggior parte del tempo si sta da soli a casa propria. Lavorando in un bell’appartamento, con un reddito abbastanza fisso e senza bambini in giro, per me è stato tutto molto semplice durante la pandemia, e sono consapevole che la mia situazione è ben diversa da quella di tante altre persone che hanno dovuto affrontare ogni genere di problema».

La stampa americana, in questo ultimo difficile anno, l’ha ribattezzata “la voce della resistenza”: sessant’anni a giugno, scrittrice e attivista, i suoi lavori sulla politica, il femminismo, l’ambiente sono una ricerca (o un auspicio) di visioni del mondo più complesse, varie, audaci, forse pazienti. Un tentativo di dare un valore a ciò che sembra non averne, di riconoscere le rotte indirette degli uomini e della storia, e le loro conseguenze a lungo termine. Di contrastare la disperazione con la speranza. Una ricerca sull’importanza di non chiudere la porta all’incertezza e alla sorpresa. Di rivalutare il lavoro lento che getta le basi di ciò che sembra accadere improvvisamente, con una svolta o una rivoluzione sociale. Di superare l’idea dell’eroe solitario e imparare ad apprezzare i direttori di coro che permettono a gruppi interi di esprimere il proprio potenziale eroico. Ha dato spessore a neologismi come mansplaining, spiegazione non richiesta e paternalistica fatta da uomini a donne che non ne hanno bisogno (Gli uomini mi spiegano le cose, raccolta di saggi pubblicata nel 2014, è fra i suoi libri più noti e divertenti). Un neologismo fortunato, padre di molti figli: l’ultimo è whitesplaining, i bianchi mi spiegano le cose.

«Sì — dice dalla sua casa di San Francisco, intrecciando la Storia e le storie, l’attualità e il desiderio di fare una lunga passeggiata fin sulle colline dietro Berkeley — ho l’impressione che la pandemia rappresenti un evento epocale, come un muro che ci separa da chi eravamo e da come vivevamo». Racconta di essere stata molto colpita dal modo in cui le persone si sono adattate a una vita improvvisamente molto più “locale”. «Ma uno degli aspetti interessanti di questa pandemia e che non ritroviamo, per esempio, in un terremoto o in altri disastri, è il fatto che le persone hanno fatto esperienze diverse: gli infermieri hanno lavorato perfino di più, mentre musicisti e camerieri sono rimasti del tutto fermi; chi vive da solo potrebbe essersi sentito terribilmente abbandonato, mentre nelle famiglie numerose ci sarà stato chi sognava un po’ di tempo con sé stesso. La pandemia ha rovinato finanziariamente tante persone, che negli Stati Uniti sono divenute pressoché invisibili: sarà soltanto tra qualche anno che capiremo meglio questi effetti». Da attivista per il clima, dice che il coronavirus ha spazzato via le due scuse normalmente addotte per non agire contro la catastrofe climatica: l’impossibilità di cambiare dall’oggi al domani il nostro modo di vivere e, per i governi, di destinare in breve tempo enormi somme di denaro per affrontare specifici problemi. «Lo vedete? Abbiamo appena fatto entrambe queste cose. Tuttavia, molto di ciò che accadrà dopo la pandemia dipenderà da quale narrativa noi ne faremo. Chi eravamo? Cosa abbiamo imparato? Cosa vogliamo portarci dietro della vita radicalmente diversa che abbiamo condotto? Chi è stato trattato in modo ingiusto e cosa possiamo fare per cambiare tutto ciò?».

I piedi piantati nella speranza

Ora che in Italia esce la biografia Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie), Solnit fa il punto del suo lavoro. Che ha una particolarità: l’effetto straniante di preveggenza. La riflessione sulla speranza, per esempio: Hope in the Dark, il libro uscito nel 2004 dopo che i movimenti contro la guerra non erano riusciti a fermare il conflitto in Iraq — suffragando apparentemente l’idea che darsi tanto da fare non serve a nulla, le armi e il potere vincono sempre — è fra i suoi testi più riletti proprio oggi che la speranza, il bisogno di motivazione oltre la paura, è elevata a «strumento di salute pubblica», come ha scritto il New York Times commentando i discorsi di Biden, strumento ben più potente del pessimismo e dell’ottimismo, che hanno prodotto entrambi parecchi danni nella gestione della pandemia. Quello che dobbiamo fare, dice Solnit, è piantare i piedi nella speranza, che non è buon senso e neppure “andrà tutto bene”. È resistenza e sfida, vedere il mondo com’è e come potrebbe essere, mettendoci in moto in prima persona perché il cambiamento avvenga. Luogo della lotta e della gioia della lotta. «Se assumete una prospettiva di lungo periodo», dice, «vedrete come sorprendentemente, inaspettatamente ma regolarmente le cose cambiano. La disperazione spesso viene fuori da questa amnesia, dal dimenticarsi che tutto è in movimento».

«Fin da quando avevo 15 anni, sono stata affascinata da come la gente risorge dai disastri», scriveva in Hope in the Dark, anticipando il tema di un altro suo lavoro importante, A Paradise Built in Hell,

Un Paradiso all’inferno. Il disastro come momento, drammatico e magico insieme, in cui avviene qualcosa. La speranza è la chiave per superare questa pandemia?

«I disastri di cui ho scritto in Un paradiso allinferno erano perlopiù di carattere fisico (un terremoto, l’uragano Katrina che ha devastato New Orleans)» risponde, «e si abbattevano all’improvviso, mentre la pandemia non ha dato segni diretti, solo un lento progredire da una persona all’altra che non si è ancora fermato e continua a mutare. La sospensione della quotidianità e la necessità di improvvisare una risposta hanno messo alla prova le istituzioni e la società civile producendo, a mio avviso, sia le migliori sia le peggiori reazioni alla crisi e alla catastrofe. Tra i migliori esempi, le tante persone che hanno semplicemente continuato a fare il proprio mestiere, anche se questo era divenuto all’improvviso più difficile e pericoloso. Alcuni hanno messo in atto nuovi modi di raggiungere e aiutare chi aveva bisogno. La mia amica Wendy McNaughton ha iniziato a dare lezioni di disegno online ai bambini e anche io ora faccio parte dell’Auntie Sewing Squad, un gruppo che conta diverse centinaia di membri, formato perlopiù da donne di colore e di origini asiatiche, che da casa cuciono mascherine in tessuto per le persone più vulnerabili e meno assistite. Abbiamo distribuito oltre 250 mila mascherine e collaboriamo con le comunità di immigrati, nativi americani e altri gruppi sociali. Questa può essere definita una “disaster community” in quanto ha dato vita a relazioni tra singole persone e nuove strutture sociali, facendo emergere nuove capacità».

Solnit ha definito un’«emozione più seria della felicità» la sensazione di speranza che pervade le comunità nel momento in cui l’ordine crolla e bisogna rimboccarsi le maniche per tirarsi fuori dai guai. Ma perché non riusciamo a stare, come gocce granitiche, dentro quell’emozione, trattenendo viva nel tempo la speranza? Perché, passata l’ondata, passati i primi tempi in cui in Italia si cantava dai balconi, queste “disaster communities” perdono la loro forza, collassando? «Quando la città crolla, la terra trema o la tempesta imperversa, ti risvegli dalle distrazioni dorate di ogni giorno e dall’egocentrismo, e vedi con occhi nuovi la gente attorno a te, capisci quanto le cose dipendano le une dalle altre, come possono cambiare e cosa è davvero importante o, ancora, ti diventa chiaro che persona puoi essere e trovi un senso di immediatezza e, spesso, di intrepidezza e connessione. Nella maggior parte delle società, questi cittadini “risvegliati” minacciano lo status quo perché si sentono forti, mettono passione nel prendersi a cuore le situazioni, cambiano le cose e mettono in discussione quelle autorità che nella crisi hanno fallito, per indifferenza o incompetenza». E poi? «Succede qualcosa per cui queste persone vogliono rimettersi a dormire: i loro risultati e il loro potere non vengono riconosciuti, viene detto loro di fidarsi delle autorità e delle decisioni che vengono prese, o si sentono raccontare storie più elaborate sul capitalismo e il consumismo in base a cui niente è collegato e ognuno è al mondo per occuparsi unicamente della propria felicità come singolo, e non della collettività, dell’umanità o del pianeta».

Costruire il futuro

Sperare dunque è restare svegli? «A volte penso che il mio concetto di speranza sia un misto di impegno e consapevolezza della profonda incertezza del futuro», riprende la saggista. «Qui negli Stati Uniti sento molti parlare del futuro come di un oggetto lontano, già completamente formato, che diventa più grande man mano che ci si avvicina. Quello che io, invece, voglio far capire è che il futuro lo costruiamo oggi, con le nostre azioni, indolenze, scelte e priorità. E poi che abbiamo un grande potere, non sempre come singoli ma spesso come collettività». La clinica aperta a New Orleans poco dopo Katrina, racconta Solnit, è ancora attiva. Dal disastro economico che ha innescato la contestazione Occupy Wall Street è nato un movimento contro gli abusi del sistema del debito statunitense che ha raggiunto molti traguardi in termini di delegittimazione del sistema e conquiste concrete. E prosegue con un altro esempio per dare corpo alla sua idea di speranza e dimostrare che «la storia non smette mai di stupirci» anche se a volte le cose cambiano a passi talmente piccoli che è difficile riconoscere in quei passi la causa di cambiamenti immensi. All’interno del movimento per l’abolizione della schiavitù nell’impero britannico e negli Stati Uniti, racconta, è nato nel 1840 il primo movimento abolizionista femminile, quando le donne si resero conto che non sarebbero state ammesse alla grande conferenza antischiavista di Londra. Sessant’anni più tardi, le suffragette della Gran Bretagna ispirarono il Mahatma Gandhi a tornare in Sudafrica e avviare la sua prima campagna non violenta: proprio da queste tattiche e ideali scaturirono non solo la liberazione dell’India dal colonialismo, ma anche una marcata influenza su Martin Luther King e sul movimento americano per i diritti civili, che tuttora rappresenta nel mondo un modello per altri movimenti di liberazione e per i diritti. Ecco dunque che quanto avvenuto nel 1840 a un congresso a Londra riecheggia ancora…

La speranza, allora, ha bisogno di pazienza: quella del contadino che pianta un albero e sa che servirà tempo per assaggiarne i frutti. Ma sappiamo ancora aspettare? Cosa rispondere a chi dice: voglio vedere i risultati! «Qualche anno fa Maria Popova, scrittrice bulgara trapiantata negli Stati Uniti, ha detto che “il pensiero critico senza la speranza è cinismo, ma la speranza senza il pensiero critico è ingenuità”. Adoro il fatto che abbiate scelto una metafora agricola: gli alberi piantati, i mesi dell’attesa… Siamo spinti, credo, a vedere tutto come una fabbrica in cui “non sta accadendo nulla” se, in qualsiasi momento, non vediamo cumuli di prodotti uscire dalla linea di assemblaggio. Come possiamo fare per metterci in testa che chi oggi sviluppa un vaccino, quarant’anni fa era l’allievo di un maestro paziente? O che i milioni di maestri che insegnano a leggere a decine di milioni di bambini stanno tutti svolgendo un compito dal valore immenso? Siamo affetti come da un’amnesia che ci impedisce di vedere quali sono le cause e le conseguenze di “ciò che è successo oggi”».

Chi insegna a non sperare

La speranza che sconfigge la paura Solnit ha cercato di insegnarla attraverso i suoi racconti. Storie di come funziona il cambiamento, dei suoi effetti indiretti e a lungo termine e di come gente comune abbia migliorato il mondo. «Credo che la mancanza di speranza venga insegnata attivamente da numerosi e potenti protagonisti della vita pubblica: lo spettacolo, la pubblicità diretta al consumatore e il governo. Ci insegnano che siamo al mondo per perseguire i nostri interessi egoistici, che non si deve per forza dare valore a ciò che non si può possedere o utilizzare, che noi stessi (in particolare le donne) siamo merce a cui dare un prezzo di mercato e che la politica compete a qualcun altro, incoraggiandoci a pensare a cose frivole e senza spessore. Credo che l’egoismo porti all’isolamento e l’isolamento alla disperazione. È una visione tristemente riduttiva di ciò che significa essere umani». Solnit invita a «lasciare aperta la porta all’ignoto, la porta all’oscurità» perché è quando ci si perde che si trovano le cose importanti (e quindi rivendica come «davvero politico» anche la sua Storia del camminare, saggio che indaga tutte le possibilità racchiuse nel semplice gesto di muoversi a piedi). Ma questa pandemia ci ha tolto la possibilità dell’imprevisto, di un incontro fortuito. Si può vivere rinunciando all’imprevisto? «Quando le nostre vite e le società hanno cambiato forma da un momento all’altro, credo che tutti ci siamo trovati di fronte all’inatteso, e nell’improvvisazione abbiamo trovato la possibilità di fare le cose diversamente. Credo anche che l’imprevisto abbia già rischiato di uscire dalle nostre vite e i giovani che vedo qui all’ombra della Silicon Valley sono stati particolarmente colpiti. Non andare mai da nessuna parte senza lo smartphone, seguire pedissequamente le sue indicazioni senza improvvisare o esplorare quasi fino a perdersi. Essere sempre in contatto con le persone che già si conoscono e strutturare in anticipo e con attenzione tutta la propria vita sociale con sms e WhatsApp: i giovani hanno già in gran parte abolito spontaneità e casualità».

Tutto ciò che facciamo è un atto politico

Gli intellettuali restano svegli? Essere “impegnati” è oggi la sola opzione possibile? «Non soltanto scrittori e intellettuali, ma ciascuno di noi è tenuto a essere parte di qualcosa di più grande, a comportarsi da cittadino, ad accettare che tutto ciò che facciamo (e non facciamo) è un atto politico in quanto porta a delle conseguenze. Pensando a chi ha modo di far sentire la propria voce: se non portate avanti un impegno, cosa vi rimane da dire? Ci sono — o, meglio, c’erano — tanti scrittori americani (eterosessuali bianchi) che paiono credere all’esistenza di una realtà apolitica in cui possono sollazzarsi. Questo però significa non voler vedere che la politica ridisegna le nostre vite in modi diversi a seconda che siamo ricchi o poveri, che apparteniamo a un gruppo oppresso o privilegiato e abbiamo o meno accesso all’istruzione». E racconta di aver portato a termine da poco un libro su George Orwell, che nel romanzo distopico 1984 scriveva: «Il Partito vi diceva che non dovevate credere né ai vostri occhi né alle vostre orecchie. Era, questa, l’ingiunzione essenziale e definitiva». «Se ribaltiamo questa affermazione» dice «vediamo che basta fare affidamento sui nostri occhi e le nostre orecchie per compiere un atto di resistenza, che è importante tenere ogni giorno alta la guardia e vivi l’impegno e l’indipendenza di pensiero, e che tutto questo può essere portato avanti in modo apparentemente non politico, per prepararsi a quando si presenterà una situazione politica».

Giocando con il titolo della sua biografia intellettuale, Ricordi della mia inesistenza, la sua personale “inesistenza” è solo un ricordo del passato oppure quella sensazione vivida di inadeguatezza, di inconsistenza, di non essere ascoltata in quanto donna in un mondo dominato da uomini, che lei racconta così bene nel libro, si riaffaccia anche oggi? «Sì, l’inesistenza riguarda il passato, ma subirò sempre l’influenza di quegli anni. La mia esperienza, estremamente comune, è stata trovarmi da ragazza a fare i conti con il fatto che tanti uomini avrebbero voluto farmi del male e il fatto che la società ignorasse la questione o pensasse fosse normale. Quindi non solo ho vissuto una costante minaccia, ma anche quando confidavo a qualcuno di essere seguita per strada o di subire maltrattamenti sul lavoro, venivo considerata delirante, iperemotiva. Alla fine sono riuscita a farmi sentire, sono diventata una scrittrice. Quello che mi è rimasto però è la poca fiducia nel fatto che gli altri mi credano, quel lottare, sempre, per essere ascoltata».


(7 – Corriere della Sera, 26 marzo 2021)

a cura di Davide Frattini


L’irlandese Colum McCann scrive un romanzo in 1.001 pezzi, come le storie di Sherazade, in cui due genitori raccontano le figlie uccise a Gerusalemme e in Cisgiordania per farle vivere. Ne parla con Manuela Dviri, che nelle guerre del Medio Oriente ha perso un figlio.

(Colum McCann, Apeirogon, trad. Marinella Magri, Feltrinelli, p.519, € 22)


Due padri, quattro madri. Genitori che provano a sopravvivere alla perdita di un figlio. Donne e uomini. Un solo dolore, modi diversi di affrontarlo. Israeliani e palestinesi. Distinti eppure indivisibili.

Dopo la morte di Yoni durante un’operazione militare in Libano, Manuela Dviri Vitali Norsa si unisce al movimento delle Quattro Madri. Colum McCann racconta il lutto di due padri: per Smadar ammazzata in un attentato suicida a Gerusalemme, per Abir uccisa da un proiettile di gomma durante un raid dell’esercito israeliano a Beit Jalla, in Cisgiordania. Distinti eppure indivisibili. Manuela si collega da Tel Aviv, dove abita da oltre mezzo secolo. Colum, nato e cresciuto in Irlanda, vive e lavora negli Stati Uniti. Scrittori migranti come gli stormi di uccelli descritti in Apeirogon, testimoni che si muovono insieme nel cielo sopra al conflitto.

Qual è stato il primo incontro con queste terre?

Colum McCann – Sono venuto con un gruppo di artisti e attivisti dell’organizzazione Narrative4, che ho fondato: l’obiettivo è spingere i giovani a mettersi nei panni gli uni degli altri. Abbiamo visitato la Cisgiordania, Israele, incontrato molte persone interessanti. Il penultimo giorno siamo andati a Beit Jalla ed è lì che tutto – stavo per dire – «è crollato per me», ma forse è più corretto: il mio cuore si è spalancato alle storie di Rami e Bassam. Era il novembre del 2015.

Manuela Dviri – Sono arrivata in Israele 52 anni fa. Sono nata in Italia, mio padre aveva sempre sognato di immigrare, non c’è mai riuscito, così l’ho fatto io. Durante il viaggio in nave ho incontrato l’uomo che sarebbe diventato mio marito, un giovane israeliano, stiamo insieme da allora. Il Paese che trovai era molto diverso da oggi, non c’era quasi nulla in confronto all’Italia del boom economico. Venire qui era la scelta più naturale dopo quello che i miei genitori avevano subito con le persecuzioni razziali, volevo essere parte di questa nazione, di quello che stava diventando e di quello che è adesso. Ho pagato un prezzo molto alto, ma sono contenta di quella decisione.

Madri e padri: esiste un modo diverso di reagire alla morte di un figlio?

Colum McCann – Rami e Bassam continuano a ripetere le storie delle figlie per tentare di mantenerle in vita, lo considero un gesto alla Sherazade, così ho costruito il libro attorno a mille e uno capitoli come nel classico arabo. Il dolore delle mogli, almeno in questa situazione, è molto più privato, trattengono a sé le bambine in una sorta di abbraccio nell’utero. Non intendo dire che il lutto degli uomini sia più potente, di sicuro è più pubblico.

Manuela Dviri – Non nel mio caso. Il tuo libro mi ha aiutata a capire mio marito: era un soldato come Rami, ha combattuto nella guerra dei Sei Giorni, in quella di Yom Kippur e in quelle in Libano. Pensava che il suo dovere fosse proteggere la famiglia, proteggere i suoi figli. Non avrebbe mai immaginato che un figlio sarebbe morto per proteggere lui. Ci sono stati momenti in cui credevo non sarebbe sopravvissuto, molti padri colpiti da queste perdite si suicidano. Mio figlio Yoni era un soldato, questo rende la mia storia completamente diversa da quella di Rami e Bassam. Quando sono venuti a suonare alla porta per annunciarmi che era stato ucciso in Libano, ho saputo da subito che dovevo reagire, organizzare qualcosa. Ho deciso di fare quello che avrebbe fatto lui, avesse continuato a vivere: aiutare gli altri. Mai e poi mai avrei detto ai miei figli di non prestare il servizio militare, ho due nipoti sotto le armi in questi mesi. Ma ero contraria alla nostra presenza in Libano, così abbiamo creato le Quattro Madri per dimostrare che per proteggere il Paese non c’era bisogno di invaderne un altro. Quando le truppe israeliane si sono ritirate dal Libano è stato un momento dolceamaro: che cosa perseguirò da adesso in avanti? Così è partito il progetto Saving Children che negli anni ha curato 13 mila bambini palestinesi in ospedali israeliani. Ho incontrato una donna di Betlemme, più o meno della mia età: eravamo travolti dalla seconda intifada e per la prima volta nella mia vita ho guardato alla realtà da punti di vista diversi. Un po’ come Bassam e Rami, ma noi siamo donne. Una donna è consapevole, in qualche modo lo percepisce nel Dna, che non tutti i figli sopravviveranno, la mia bisnonna ne ha avuti 11, allora era normale che qualcuno non ce la facesse. Ho scelto di vivere, di essere felice, di avere dei figli e dei nipoti felici. Sono una madre terribile? Come Sherazade non voglio raccontare il finale della storia. A nessuno. In questo modo posso continuare.

Colum McCann – Sono profondamente commosso da quello che dici, dalla capacità di accedere all’immaginazione maschile. Mi sembra che questo sia il lavoro che dobbiamo portare avanti: provare a capire che cosa significhi andare oltre noi stessi. Per te è anche una missione pratica, organizzare programmi medici e aiutare i bambini palestinesi. Per me è raccontare una storia e lasciare che altri ne facciano la loro storia. Ho sempre saputo di non voler insegnare che cosa pensare, sono stanco di chi mi impone le sue opinioni. La situazione tra israeliani e palestinesi è così complicata: uno Stato, due Stati, otto… Federazione, cooperazione… Non so niente. Conosco il paesaggio umano ed emotivo: ascoltandoti vedo la storia estendersi in direzioni differenti, diventa anche la tua storia e la storia di tuo figlio, di tuo marito. Questo è il lavoro della letteratura: negoziare uno spazio comune, non in maniera didattica.

L’Apeirogon del titolo è un poligono con un numero infinitamente numerabile di lati. I lettori possono aprirsi con Colum a illimitati punti vista. Allo stesso tempo Jorge Luis Borges è più volte citato, nei suoi labirinti ci si può perdere come nelle opzioni inesauribili.

Colum McCann – L’Apeirogon è infinito ma possiamo scegliere un punto finito in cui collocarci. Ammettere la mia confusione era fondamentale: sono cresciuto in Irlanda, mia madre era di Derry (nell’Ulster, parte del Regno Unito, ndr), mio padre di Dublino, c’era una guerra, ho visto persone morire, ho studiato il processo di pace, ho ascoltato donne e uomini, ho assorbito punti di vista molteplici. Sapete una cosa? Sono ancora confuso. Riguardo a Israele e Palestina per me era necessario scombussolare il lettore. Così l’inizio del libro è bum, bum, bum, bum. Tutte quelle informazioni e descrizioni tecniche degli uccelli migratori, al punto che uno si chiede: ma cos’è questo? L’obiettivo era portare il lettore ad arrendersi alla confusione e dire: va bene essere confusi, non è un problema, è una risorsa. Perché oggi uno dei temi più importanti politicamente è riconoscere lo scompiglio in cui siamo immersi e provare a ricostruire da lì. Troppo spesso – come Manuela sa bene – la gente sbatte la porta, si chiude dentro, tira le tende, dichiara: le mie idee sono le uniche idee, voglio solo parlare con chi assomiglia a me, vive come me. Ed è un disastro. Quello che dobbiamo tentare come scrittori, giornalisti, studenti, insegnanti è ammettere quanto disorientanti queste vicende possano essere, qualche volta meravigliosamente disorientanti. Dal punto di vista della confusione possiamo capire che cosa sia essenziale: per me era il dolore di Rami e Bassam, ma anche la speranza. Manuela ha appena detto di voler essere felice, ha preso la decisione di proclamare «è tutto così complicato, non mi lascio ridurre alle semplificazioni. Per continuare a vivere devo abbracciare gli aspetti molteplici di questa situazione».

Nella prima pagina la parola «confusa» ricorre tre volte. Quanto si sente confusa Manuela dopo 52 anni da queste parti?

Manuela Dviri – Non lo sono. Sono arrabbiata, molto arrabbiata. Vedo solo uomini dappertutto: in politica in Israele, in politica in Palestina. Qualche volta donne che vogliono comportarsi come gli uomini. Sono d’accordo, la confusione è grande per chi viene da fuori e capisco la scelta di Colum. Sono stanca di quel che succede qui, è diventato come le stagioni che non puoi evitare, prima l’inverno poi l’estate. Abbiamo vissuto così da sempre, la destra promette qualcosa, la sinistra qualcos’altro. Nessuno discute di come risolvere la questione palestinese: non a Gerusalemme e neppure a Gaza o a Ramallah. Sempre gli stessi politici. Quando mio figlio è stato ucciso nel 1998, Benjamin Netanyahu era primo ministro. Ventitré anni dopo, Netanyahu è primo ministro, martedì 23 marzo si vota di nuovo e Netanyahu è ancora candidato. Uguale per i palestinesi. Sono infuriata perché è il mio futuro, dei miei figli e dei miei nipoti. Questo virus ci sta mostrando quanto siamo piccoli, ci vuole insegnare che dovremmo essere un po’ più intelligenti e lavorare insieme perché siamo condannati a vivere insieme.

Colum McCann – Stiamo parlando di persone abbastanza coraggiose da tentare di conoscere le altre, da rischiare le umiliazioni, da esporre se stessi, per provare a comprendere qualcuno con il quale – come hai detto – si è condannati a convivere. Rami e Bassam lo sanno, tu Manuela lo sai. Noi? Noi dobbiamo ascoltare e riascoltare queste storie. Antonio Gramsci scriveva di essere «un pessimista dell’intelligenza, ma un ottimista della volontà». Così quando dici «sono arrabbiata», lo capisco, perché vedi la realtà attorno a te e diventi una pessimista dell’intelligenza. Un ottimista della volontà è qualcuno che riconosce «è un disastro, è buio», ma dobbiamo trovare un modo di uscirne. I politici sono uomini piccini e – hai ragione – per il 99 per cento sono uomini. Servono se stessi, i loro ego, i loro portafogli, impediscono alle persone di incontrarsi l’un l’altra. Non dobbiamo amarci l’un l’altro…

Manuela Dviri – Assolutamente no.

Colum McCann – …Ma dobbiamo compiere un balzo di empatia per capire che cosa significhi vivere a Betlemme, a Beit Jalla, a Tel Aviv. A questo punto serve il coraggio, e gli scrittori devono continuare a ripeterlo, perché un giorno qualcosa succederà o qualcuno succederà.

Manuela Dviri – Ho lavorato con Shimon Peres fino a quando è morto nel 2016 e ripeteva sempre: l’ottimista e il pessimista moriranno allo stesso modo, ma almeno l’ottimista avrà vissuto bene. Credo valga la pena di essere ottimisti ed è l’unico modo di affrontare questa realtà, in tutto il pianeta, non solo qui.

Colum McCann – Lasciami dire: per essere un buon ottimista devi prima essere un buon cinico. I cinici vedono che il mondo è spacciato, ma sono loro i sentimentali, non reagiscono. L’ottimista interviene: e allora? Facciamo qualcosa.

Negli anni in carcere Bassam decide di imparare l’ebraico perché si ripete «conosci il nemico, conosci te stesso». Sarà poi il dolore a spingerlo ad abbracciare il nemico. Conoscere, anche per tattica, è comunque un primo passo. È ancora possibile? Non solo tra israeliani e palestinesi. Superare le differenze, la distanza, la sordità alle opinioni degli altri, le contrapposizioni politiche senza compromesso.

Colum McCann – Credo di sì e la mia non è una visione ingenua. Succederà dal basso, non per volontà dei politici, dei poteri economici e neppure degli artisti. Arriverà a sorpresa e sarà sostenuto dalla gente, un processo che si autocorregge come uno stormo: un uccello migratore è intelligente, l’insieme degli uccelli migratori è super-intelligente. Da dove partirà questo movimento? Dalla scuola. I custodi della nostra democrazia, delle nostre anime, sono gli insegnanti e sono malpagati, trascurati. È necessaria una riforma profonda del sistema educativo, perché è nelle classi che la democrazia opera, è nelle classi che i ragazzi e le ragazze sono in qualche modo forzati a stare insieme, a parlarsi, a frantumare gli stereotipi. Il movimento emergerà dagli studenti. Non so se sapete che negli Stati Uniti una norma permette ai militari in servizio attivo di salire sugli aerei di linea per primi. Non ho niente in contrario, mi sta bene. Un giorno davvero fantastico sarà quello in cui concederemo questo privilegio agli insegnanti.

Manuela Dviri – Sei davvero un ottimista. Sono stata un’insegnante, sono sottopagati e credo ci vorrà molto tempo per arrivare a realizzare le tue speranze. Anche la tecnologia potrà aiutare perché già adesso sta costruendo ponti e favorisce la cooperazione economica: se una startup israeliana ha bisogno di un bravo ingegnere che vive a Ramallah e costa un po’ meno, perché non assumerlo? Questi strumenti ci possono permettere di non rimanere impantanati nel passato. Dobbiamo riuscire a venirne fuori, altrimenti ho paura che qualcosa di terribile possa succedere.

Colum McCann – L’impossibile qualche volta può accadere. Bassam mi ha parlato dell’idea che in Irlanda non abbiamo avuto la pace per 800 anni e all’improvviso proprio nel 1998 abbiamo siglato un accordo. Vedi Manuela, il nostro processo di pace è vecchio quanto il giorno in cui hai perso tuo figlio e nessuno pensava che sarebbe potuto compiersi.

Manuela Dviri – Nessuno avrebbe pensato di poter volare da Tel Aviv agli Emirati Arabi e invece sono stata a Dubai qualche mese fa. Ho vissuto qui gli anni degli accordi con l’Egitto e la Giordania: non sono perfetti, ma ci sono e funzionano. I palestinesi potrebbero diventare i nostri migliori alleati, perché siamo così vicini, legati come gemelli siamesi. Il problema più grande da risolvere è Gaza.

Pochi mesi fa la deejay Sama Abdulhadi è stata arrestata dalla polizia palestinese per aver organizzato uno spettacolo vicino a una moschea. La comunità Lgbt è perseguitata nei territori, spesso anche dalle famiglie. A volte la sinistra israeliana e quella europea, per non incrinare la lotta contro l’occupazione, sorvolano sulla questione dei diritti civili tra i palestinesi.

Colum McCann – È molto preoccupante che la sinistra stessa – e qui torniamo all’inizio della nostra conversazione –  non abbia il coraggio di dire: tutto questo è complicato, contraddittorio, incasinato. La sinistra pretende di avere una sola prospettiva. Questo mi rattrista, la mia propensione è di essere dalla sua parte e di pensare che sia nel giusto. Ma questa correttezza si trasforma in manette. Non possiamo essere un po’ più traboccanti, generosi, indulgenti? La gente dirà «non possiamo parlare di queste vicende perché il vero problema è l’occupazione» ma in questo modo ci autoparalizziamo, ci tagliamo la lingua da soli.

Manuela Dviri – Non sono parte della sinistra internazionale, partecipo solo a quello che succede qui e sto per tornare a votare. Non so quale partito scegliere perché la sinistra in Israele quasi non esiste più e molto probabilmente indicherò l’unica donna accettabile. Come per i palestinesi anche per noi l’occupazione definisce tutto: da un lato nessun politico durante la campagna elettorale ha presentato un piano per arrivare a un accordo di pace, dall’altro finché dura l’occupazione non si affrontano gli altri problemi, quelli interni a Israele. Su questo punto non so se sono un’ottimista o una pessimista, ma di sicuro cinica: ho la sensazione terribile che solo una tragedia porterà un cambiamento, altrimenti i leader continueranno a rinviare.

Nel libro ritorna più volte l’immagine del dirigibile bianco in volo sopra Gerusalemme, attrezzato con le telecamere di controllo israeliane. È uno strumento di sorveglianza, il vocabolario indica tra i sinonimi «vigilanza». Eppure sembrano avere significati diversi: la sorveglianza è un controllo sugli altri, la vigilanza è quella di Rami o Bassam, necessaria per proteggere le loro famiglie circondate dalla violenza. Un’attitudine che ti può mangiare da dentro, chiudere rispetto al mondo: tutto si trasforma in preoccupazione e dubbi sulla sicurezza.

Colum McCann – La sorveglianza è insidiosa, lavora a tutti i livelli e dobbiamo rimanerne vigili, appunto. Allo stesso tempo la vigilanza nella vita di tutti i giorni va indirizzata via dalla paura, dobbiamo imparare un modo diverso di stare all’erta: non solo riguardo a noi stessi ma anche a quello che succede agli altri. Perché vigilanza suggerisce che siamo individui singoli, c’è molto di più però, siamo una molteplicità. Con il libro volevo esprimere l’idea che questa è una storia italiana, sudafricana, irlandese… Per questa ragione ho inserito gli uccelli che passano sopra Israele e la Palestina seguendo i loro percorsi migratori: quello che succede là in parte tocca tutto il mondo, è il punto di congiunzione delle tre religioni monoteiste e di tre continenti. Se potesse nascere in questa regione un nuovo modo di pensare a noi stessi, si diffonderebbe ovunque.

Manuela Dviri – Sono d’accordo. Soprattutto a Gerusalemme si percepisce qualcosa di magnetico e in questa parte del mondo c’è un’energia incredibile. Sono andata per la prima volta al ristorante dopo sei mesi, sembrava la fine della Seconda guerra mondiale: di sicuro in questo posto le cose succedono e se riusciamo a trovare una soluzione qui, questa onda raggiungerà anche altre nazioni. I numeri e le coincidenze mi danno speranza: mio figlio è stato ammazzato il 26 febbraio e quattro dei miei nipoti sono nati in quella stessa data. L’ultima ha 10 anni, è arrivata alla mezzanotte e diciotto minuti del 26 febbraio. Diciotto nella numerologia ebraica significa vita.


(Corriere della Sera – La Lettura, 21 marzo 2021)

di Paolo Di Paolo


Confesso che è stata una scoperta. Il suo romanzo Una lepre con la faccia di bambina, appena ripubblicato da Fandango, racconta – come una distopia dal vero – il disastro di Seveso. Era il 10 luglio 1976, e la nube di diossina sprigionata dal reattore di un’industria chimica segnò la vita (la salute) di centinaia di persone. Per raccontare la vicenda, un paio di anni dopo l’evento, Laura Conti, che di lì a poco sarebbe stata fra i fondatori di Legambiente, si mette nei panni di un ragazzino brianzolo. Marco, «in cerca delle verità del mondo e in cerca delle verità del proprio corpo», prova a vedere chiaro in quella nube tossica, e a distinguere i fatti dalle bugie. In fondo, dice Conti, è la vecchia storia del giovane che si perde nel bosco e deve trovare la strada. Una fiaba più che vera, in cui i polli e i conigli muoiono, i gatti barcollano e respirano a fatica, e forse è colpa della «nuvola velenosa», ma c’è chi non ci crede.

È una assolata, interminabile estate italiana degli anni Settanta. I calzoncini corti, i fumetti, le scarpe da calcio, l’afa, le mosche. Però quelle bestie morte e i pomodori avvelenati ne infiltrano la spensieratezza, un mistero tutt’altro che buffo, ma cupo e inquietante. I genitori si sono decisi a spedire Marco a Rapallo dalla zia Irma; meglio essere prudenti. Ma zia Irma fa finta di niente: «Come se il veleno era una cosa indecente, che non si poteva parlarne davanti ai ragazzi». Ma Marco insiste, fa domande, vuole sapere, vuole capire. Tende le orecchie quando la televisione parla delle famiglie con i bambini all’ospedale, della diossina che va dappertutto, delle assistenti sanitarie con le borse piene di carte che domandano alla gente se ha prurito, macchie sulla pelle. È stufo di sentirsi trattare da bambino, sente che le verità pubbliche e le verità private non coincidono. D’altra parte, nella sua introduzione, Laura Conti insiste su come la comunità colpita abbia reagito in modo irrazionale: «Negò tutto. Negò che ci fosse diossina. Negò che la diossina fosse uscita dal reattore dell’Icmesa. Negò che la diossina fosse tossica».

Una lepre con la faccia di bambina è il romanzo – lucido e appassionato – di una grande attivista. Che conosceva il potere della narrativa: in Cecilia e le streghe, con cui debuttò nel ’63 e vinse un riconoscimento nella cui giuria c’erano Vittorini e Soldati, il Premio Pozzale, sviluppa una sorta di noir sentimentale ispirato a un episodio della sua vita di medico. Udinese di nascita – oggi avrebbe cento anni – ma milanese fin da bambina, partigiana (fu deportata nel lager di Bolzano), comunista impegnata nell’amministrazione pubblica, parlamentare attenta ai diritti e all’ambiente, Conti ha vissuto un’esistenza coraggiosa e appassionata. Ne ricostruisce, in modo eccentrico, la parabola un piccolo libro dal titolo Laura non c’è (Fandango). Le autrici, Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi, proseguono il dialogo con Laura, in sua assenza. Le raccontano dell’oggi, e lei, dal suo altrove, sembra consapevole di essere «caduta nel dimenticatoio». Ma le sue parole arrivano nette e vitali, audaci anche nelle contraddizioni. E così la sua testimonianza: gli anni dei collettivi, dei dibattiti, il sodalizio intellettuale con compagne e compagni. Ma anche la solitudine quando prese posizione sulla caccia, in chiave non abolizionista; o quando insisteva sulla necessità di politiche ambientali ed ecologiste in un’Italia poco sensibile alla questione. La scelta ecologica, dice, è una scelta d’amore, amore per il sistema vivente: «Ho iniziato a studiare e trattare le scienze biologiche e l’ecologia quando le questioni ambientali non erano presenti nelle agende politiche istituzionali. Quando non si era ancora abituati a parlare di sostenibilità ambientale e sociale delle scelte economiche e industriali. Quando parlavo della relazione primaria fra politica e ricerca tecnologica e scientifica, strabuzzavano gli occhi, perché in pochi allora avevamo questo approccio. A me, che ero donna e comunista, mi trattavano come una bizzarra affabulatrice e una eccentrica visionaria».

Affabulatrice e visionaria. In fondo, un modo diverso per dire cos’è l’essere politici. Alla sua morte, il 25 maggio del 1993, su queste colonne fu messo l’accento sulla battaglia anti-nucleare. Nella dichiarazione di voto che fece alla Camera nell’agosto del 1987 a favore del referendum contro le centrali nucleari parlò a nome degli ambientalisti. Che – disse, con toni da vera narratrice – «si sono sempre sentiti dire che, se non si costruissero altre centrali nucleari, dovremmo passare le serate d’inverno nel calore animale delle stalle, a lume di candela, raccontandoci a voce le storie dei reali di Francia». La lezione di Chernobyl, il rifiuto del cinismo, la lungimiranza, la coscienza del limite. In un articolo scritto per l’Unità in quello stesso anno, dal titolo eloquente «Sempre più radioattivi», spiegava con il nitore della divulgatrice d’eccezione i rischi della contaminazione nella catena alimentare. E qualche anno dopo, allargando la prospettiva, metteva in guardia dal rischio che comporta «continuarsi a muovere nell’ideologia della crescita continua, e del continuo aumento della produttività del lavoro, ottenuta sempre a prezzo dell’accelerazione del degrado entropico, e di una crescente patologia dei rapporti interumani». Titolo? «Anche la ricchezza della natura ha un limite». Come quel ragazzino brianzolo a cui dava voce nel romanzo del ’78, Laura Conti non smetteva di farsi domande, di cercare la strada giusta nel bosco delle verità di comodo, delle verità parziali e contraddittorie. E soprattutto – come il suo personaggio – non fingeva mai di non sapere.


(Robinson – La Repubblica, 20 marzo 2021)


Nota della redazione: ricordiamo anche la recente biografia di Laura Conti scritta da Valeria Fieramonte, La via di Laura Conti. Ecologia, politica e cultura a servizio della democrazia, Enciclopedia delle Donne 2021, p. 336, € 19.


È disponibile in formato pdf la versione aggiornata al 2020 della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file (187 pagine – 3,2 MB) sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it


(www.libreriadelledonne.it, 18 marzo 2021)

di Vita Cosentino


Ho avuto la fortuna di partecipare al convegno da cui trae origine questo volume collettivo, in quanto la rivista online Via Dogana 3, di cui sono una delle redattrici, aveva appena chiuso un numero dal titolo L’inconscio, ingrediente segreto. Eravamo all’università di Verona, alla fine di un settembre ancora estivo, e ricordo che uscii da quelle due giornate densissime con il sentimento che fosse capitato qualcosa di importante, che andava tenuto come un punto fermo a cui tornare e ritornare.

Ora che ho letto il libro, si è ripresentato ancora quel sentire. È un testo da leggere e rileggere, perché si può rivelare uno strumento straordinario in un tempo in cui una pandemia che non passa ha reso troppo di superficie quegli approcci che tengono in conto solo la razionalità, che isolano un aspetto, vivisezionando gli esseri umani.

La pandemia con irruenza ha portato “il ritorno dei corpi” come ha scritto il collettivo Malgré Tout nel Piccolo Manifesto in tempi di pandemia, reperibile in rete: “Eccoli diventati da un giorno all’altro i principali soggetti della situazione e delle politiche messe in campo. I corpi ‘si ricordano di noi’, dopo che negli ultimi quarant’anni, nel dominio incontrastato del sistema neoliberista, l’obiettivo è stato quello di “deterritorializzarli, virtualizzarli, facendone una materia prima manipolabile, un ‘capitale umano’ da utilizzare a proprio piacimento nei circuiti del mercato.”

I corpi sono tornati con tutto il loro spessore umano, chiedono di essere ascoltati anche nelle loro parti invisibili, pongono innumerevoli domande. Sono quindi benvenute analisi politiche e pratiche più fini, quali quelle che emergono da questo volume che tratta dell’intensa prossimità del femminismo della differenza con il metodo psicanalitico e la dimensione dell’inconscio. (Dominijanni)

Sebbene svariati testi, con accenti diversi, ricostruiscano il rapporto tra femminismo e psicanalisi negli ultimi cinquanta anni – e questo è uno dei pregi del libro – l’intento non è storico e neppure teorico, bensì politico: l’attualizzazione di questo rapporto al presente, per capire “in quali forme nuove questa questione spariglia le carte della politica e del pensiero in un contesto profondamente mutato anche grazie al femminismo stesso”. (Zamboni)

Il titolo, La carta coperta, a me richiama l’azzardo e la capacità di scompigliare il gioco, l’apertura all’imprevisto e a un in più rispetto all’ordinario. Un grande riconoscimento va alla curatrice, Chiara Zamboni, e alla sua infaticabile passione nel tenere vivo il dibattito sull’inconscio e sulla sua politicità. Oltre a questo libro ne ricordo almeno un altro, che lo precede, con la stessa casa editrice, cronologicamente e logicamente, L’inconscio può pensare?

Al cuore del volume c’è il dare parola al cambiamento intercorso tra gli anni ’70 del secolo scorso e oggi e, di conseguenza, dare conto dell’inconscio nel presente. Sono soprattutto i testi di Ida Dominijanni e di Cristina Faccincani a mettere a fuoco il passaggio dall’economia “nevrotica”, di epoca patriarcale, a quella postpatriarcale “perversa”, laddove questo termine indica solamente un tipo di posizione psichica.

Negli anni ’70, tutte le scoperte politiche fatte dal femminismo mettendosi all’ascolto dell’inconscio, si sono poste all’interno di un’economia psichica “nevrotica” – centrale la figura dell’isterica – “basata sul rapporto tra desiderio e legge (del padre), sulla rimozione, sull’elaborazione linguistica del sintomo”. (Dominijanni)

E a tanti anni di distanza, in un tempo in cui c’è presenza pubblica femminile con crescente autorità, è più facile vedere come il femminile e la genealogia materna fossero il rimosso della cultura occidentale: da ogni ambito del sapere, che fosse psicanalitico, filosofico oppure scientifico o altro, agli assetti politici e sociali. Allora ci hanno accompagnato letture di riferimento come Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi, I sessi sono due di Antoinette Fouque, Speculum e Etica della differenza sessuale di Luce Irigaray.

Nella attuale struttura psichica “perversa” non c’è, come in quella precedente, netta separazione tra inconscio e coscienza, per cui le irruzioni dell’inconscio nella vita quotidiana muovono il desiderio e la differenza. C’è invece la compenetrazione tra fantasma e realtà: «L’io espanso narcisisticamente come Io Ideale con la sua compattezza ovoidale, sostituisce il rapporto tra l’Io e i suoi Ideali, centrato sulla differenza e sulla distanza». (Faccincani)

È un tutto pieno e la totale saturazione priva il soggetto dello spazio necessario perché ci sia il movimento del desiderio e la differenza. Il rischio è «la cancellazione della differenza sessuale per un ritorno del tutto nuovo e imprevisto – postpatriarcale – al neutro». (Zamboni)

Il saggio di Dominijanni ha almeno altri due meriti (in realtà sono molti di più): colloca la questione della sostituzione della posizione “nevrotica” con quella “perversa” all’interno dell’attuale dibattito nell’ambito della psicanalisi soprattutto di matrice lacaniana; amplia l’orizzonte sviluppando i passaggi per cui «non si tratta di dinamiche circoscritte al teatro intimo della psiche individuale, bensì di processi che innervano il legame sociale.» Passando, infatti, all’analisi politica del neoliberalismo, si ritrova al centro di nuovo un individuo narcisista e autoreferenziale, assoggettato all’autoimprenditorialità e all’imperativo del godimento immediato.

Uno degli intenti del libro è richiamare “gli inizi”, perché la memoria dell’inizio aiuta a trovare una strada per l’oggi. Due autrici in particolare li ricordano e li analizzano nel loro portato politico a partire dalla loro esperienza viva: Lia Cigarini che richiama “la pratica dell’inconscio” e Manuela Fraire che riflette sulla “pratica dell’autocoscienza”. Ai tempi queste due pratiche sono state nettamente distinte, se non in parziale contraddizione, come ricorda la stessa Fraire nel suo contributo, ma a riguardarle oggi ciò che più emerge è la loro carica sovversiva e il fatto che entrambe restino in rapporto con l’inconscio. Come si sa, l’autocoscienza è stata la pratica più diffusa. È una pratica di parola nel piccolo gruppo, introdotta in Italia da Carla Lonzi e di cui Fraire mette in evidenza il fatto che non coincide, come spesso si intende, con il racconto del vissuto: «È stata piuttosto una testimonianza della disposizione psichica di chi la praticava nei confronti degli affetti che attraversavano la vita del corpo e quella della mente». Fraire utilizza l’après coup come invenzione creativa del presente che risignifica il passato. Secondo l’autrice, anche se oggi le donne sono dappertutto, l’autocoscienza è ancora attuale e necessaria perché è un’inesauribile ricerca di senso: «quando si fa strada un vuoto di senso relativo al rapporto tra lavoro e vita, cosa che avviene anche nella politica, sorge spontaneamente il bisogno di dare voce e parola alla propria insoddisfazione e offrirla all’ascolto delle altre».

Lia Cigarini si concentra invece sulla “pratica dell’inconscio”. Racconta con ricchezza di particolari e affondi teorici l’incontro con Antoinette Fouque, fondatrice di Psychanalyse et Politique, e della conseguente formazione di gruppi Analisi in Italia. La pratica dell’inconscio ai tempi ebbe un seguito limitato e durò poco. Tuttavia «è il nocciolo originario che sta all’origine del femminismo della differenza» (Cigarini). In effetti è stata “la matrice generativa” di tutte le invenzioni politiche di quegli anni: dal partire da sé, alla relazione, alla madre simbolica, all’autorità femminile. La pratica più dirompente allora, e che può esserlo ancora oggi, è la relazione duale di affidamento «che le donne hanno sperimentato per rafforzare il proprio desiderio e trovare dei riferimenti simbolici offerti da altre donne». (Cigarini)

L’idea stessa della relazione come forma politica è mutuata dal setting analitico. Nell’introduzione agli scritti di Simone Weil su Oppressione e Libertà, Luisa Muraro e Lia Cigarini definiscono la politica scoperta in quegli anni «un processo di sottrazione di sé all’ordine del discorso dominante e di conquista dell’indipendenza simbolica». Nasce così un femminismo che «concepisce e pratica una politica di trasformazione del mondo a partire dalla soggettività che si sottrae allo schiacciamento dell’organizzazione sociale» (Orthotes, 2016). In questa scoperta il fulcro sta nella soggettività e la politica coincide con le pratiche. Non c’è una teoria che precede. La teoria viene pensata man mano interrogando le pratiche che si stanno facendo e che vengono messe in circolazione tramite il loro racconto ragionato.

In questa storia che mi coinvolge di persona, devo dire che l’autocoscienza e il movimento delle donne degli anni ’70 sono stati importanti nella mia vita, ma ancora di più lo è stata la politica del partire da sé e delle relazioni, che mi ha permesso di esserci nel mondo come soggettività femminile libera e pensante. Dagli anni ’80 in poi, ho vissuto le esperienze più feconde e politicamente creative e ancora oggi amo questa politica perché libera da tutte le pastoie dell’organizzazione, come partiti, comitati e organismi di ogni genere.

Oggi poi è diventata rispondente al nostro tormentato presente e attraente anche per gli uomini, come testimonia nel volume Riccardo Fanciullacci. Con il suo saggio, appoggiandosi a tutto ciò che sulla politica ha elaborato il femminismo della differenza, apre un dialogo sulla politica possibile con la maggiore scuola psicanalitica lacaniana. La questione inizia nel 2017 quando la scuola fondata da Miller, erede di Lacan, nelle elezioni ha preso apertamente posizione contro Marine Le Pen e il “partito dell’odio”, e ha compiuto successivamente una svolta legata al tentativo di «far esistere la psicanalisi nel campo politico».

Le autrici che appartengono a generazioni successive a quella degli anni ’70, come Chiara Zamboni, Annarosa Buttarelli, Wanda Tommasi, nei loro scritti sono consapevoli di non avere sperimentato, per ragioni di età, né l’autocoscienza né la pratica dell’inconscio, quanto piuttosto la pratica di relazione: «pratiche di libero scambio tra donne a partire da sé, ma anche interrogando filosoficamente temi socio-simbolici, politici e culturali» (Tommasi). Nella loro esperienza la relazione è stata la via maestra per stare in rapporto con l’inconscio.

Questo è molto evidente nel saggio di Tommasi, che racconta di come sia riuscita con la scrittura a dare voce a suoi vissuti molto difficili, tramite relazioni duali profonde che hanno viaggiato in parallelo: quella con la sua psicoterapeuta e quella con alcune amiche di Diotima, che l’hanno sostenuta in questa sua scommessa. Celebra «la grazia di avere delle interlocutrici» ed è consapevole dell’opera di civiltà che fanno queste scritture che mescolano vissuti dolorosi e pezzi di esperienza a riflessioni filosofiche, letterarie e psicanalitiche: creano «uno spazio transizionale in cui anche altre e altri si possono riconoscere, ritrovando così un pezzetto di sé, forse uno scarto altrimenti inassimilabile».

Anche Annarosa Buttarelli approfondisce la via della relazione a partire dall’esperienza di cinque anni del Master “Filosofia come via di trasformazione”, tenuta all’università di Verona. È interessante seguirla nel come fa interagire il femminismo con la filosofia e la psicanalisi, aprendo un’area di confronto tra pratiche politiche – soprattutto autorità e disparità – pratiche filosofiche e pratiche psicanalitiche.

Da ultimo, ma non certo per importanza, lo scritto sul sentire di Chiara Zamboni che va letto insieme a quello di Antonella Moscati che lo completa, approfondendo l’analisi delle pulsioni nell’opera di Freud.

Zamboni apre all’ascolto dell’inconscio nel presente con un azzardo politico: se allora, negli anni ’70, il punto focale è stato il rimosso, oggi invece lo è l’imminenza. A sostegno di questa sua importante tesi convoca alcune psicanaliste, come Françoise Dolto per la rivalutazione delle pulsioni passive, derivata dalla sua pratica analitica con le creature piccole, oppure come Lou Salomé per la sua concezione del narcisismo originario come totale apertura al mondo. Questi riferimenti permettono a Zamboni di dire che «il punto essenziale è che nel sentire avvertiamo una verità imminente di cui non conosciamo i contorni, ma che si sporge su qualcosa a venire», perché «il sentire, nel suo essere soglia tra conscio e inconscio, è passivo e contemporaneamente aperto non solo a ciò che avviene, ma anche a ciò che sta per avvenire».

A sviluppo della sua tesi, Zamboni approfondisce il tema dell’esperienza come sede in cui affiora l’inconscio, e di conseguenza confuta le obiezioni, per esempio di Michel Foucault e di Judith Butler, per cui il racconto di esperienza non ha credito. Ribadisce che il punto di leva del femminismo è stato proprio legarsi all’esperienza che «significa scoprire il nucleo di verità che non è solo soggettivo, ma riguarda, con le giuste mediazioni, la verità del mondo in cui viviamo».

Trovo questa ricerca di Chiara Zamboni molto vicina alle posizioni di Luisa Muraro quando afferma che «la verità soggettiva è più vera di quella oggettiva». E per concludere, parlando ancora delle pratiche possibili in tempo di pandemia, richiamo di nuovo Muraro, che di recente ha avanzato una proposta di pratica politica incentrata proprio sulla verità soggettiva da ricercare, tra sé e sé e con il contributo di altre o altri. Interrogandosi su come si fa a dirla, scrive: «il come preciso non lo so, ma cerchiamola praticamente nelle cose che facciamo (o non facciamo), combattendo l’inganno e l’auto-inganno».  (VD3 25 maggio 2020)

Ecco, la lettura di questo libro ci può accompagnare nel nostro attuale cammino. 


La carta coperta, l’inconscio nelle pratiche femministe, a cura di Chiara Zamboni (Moretti & Vitali 2019)


(Per amore del mondo – La rivista, n. 17, 19 marzo 2021)


di Francesca Maffioli


L’esperienza della Comune di Parigi, pur nell’intervallo di tempo limitato in cui ha espresso la sua carica trasformativa, ha saputo anticipare alcune – non poche, in realtà – misure rivoluzionarie che saranno riprese negli anni a venire. Secondo lo storico francese Jacques Rougerie, una delle misure a cui il controgoverno della Comune avrebbe potuto aprirsi – e se non lo fece non fu solo a causa di questioni legate alle circostanze di un tempo troppo breve – sarebbe potuta essere quella che consentiva il voto alle donne. 
Non può tuttavia il solo accesso al voto (la cui rivendicazione fu presente anche se non prioritaria) a determinare il valore radicalmente trasformativo delle battaglie delle communardes. Lo furono la lotta per il diritto all’istruzione, al lavoro, all’uguaglianza salariale, al riconoscimento dei figli e delle compagne «non legittime». Ma anche la lotta per la cessazione dell’«incapacità civile» delle donne sposate – lo smarcamento dal dovere d’obbedienza della moglie nei confronti del marito (che si ottenne più di sessant’anni dopo, nel 1938). 
Vinzia Fiorino, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa, membra della Società italiana delle storiche e del centro interuniversitario di storia culturale, ha recentemente pubblicato presso Viella un volume intitolato Il genere della cittadinanza (recensito su queste pagine il 14 gennaio scorso) in cui analizza la realtà transalpina dal 1789 al 1915. Nel suo testo l’esperienza della Commune si rivela grazie alla bella ragnatela costituita dai vissuti di militanza delle donne che hanno partecipato alla Comune di Parigi, ma anche di quelle che l’hanno anticipata o seguita.

Durante la Comune di Parigi non ci fu modo di instaurare il suffragio femminile. Quali furono le priorità? 
No e non solo per la breve durata di tutta l’esperienza, compresa, come è noto, tra il marzo e il maggio del 1871. Ci sono dei momenti nella storia francese in cui alcune strutture culturali profonde si traducono autenticamente e immediatamente in atti politici. Con la rivoluzione del 1848 si approva subito il suffragio universale maschile perché esso dava corpo allo spirito repubblicano; con la Comune si attivano immediatamente almeno due figure profonde dell’immaginario politico ottocentesco: il cittadino (maschio) che in armi difende il proprio territorio e infatti è la Guardia Nazionale – da cui le donne erano escluse fin dall’89 – a assumere il controllo dell’amministrazione pubblica e a detenere il potere governativo. In secondo luogo, tutti i rappresentanti sono controllabili, revocabili e riconoscibili: in questo gioco di identificazione/rispecchiamento tra elettori ed eletti, il genere non può che essere un elemento costitutivo. Insomma, ancora una volta un patto tra soli veri uomini. Si farà in tempo, però, ad approvare alcune misure rivoluzionarie: vengono rese pubbliche le fabbriche abbandonate e viene introdotta una sostanziale eguaglianza salariale.

Louise Michel è una delle figure emblematiche della Comune, ma anche antesignana del femminismo europeo. Scriveva: «Il nostro posto nellumanità non deve essere mendicato, ma preso»… 
Intanto, ricordo che il movimento delle donne si organizza in varie direzioni: nella difesa armata della Parigi insorta, nei club, nelle associazioni per le lavoratrici, nei giornali o ancora, nell’impegno come infermiere e in altre attività di supporto; in ogni caso, è sempre dominante il significato politico di queste attività, non già l’ancoraggio ai ruoli oblativi tradizionali. La disuguaglianza economica sulla base del genere diviene centrale come dimostra l’esperienza dell’Union des femmes – diretta dalla rivoluzionaria russa Élisabeth Dmitrieff. In questo quadro spicca la figura poliedrica e versatile di Louise Michel, tra le protagoniste più originali dell’intera stagione comunarda: armata per difendere il quartiere nevralgico di Montmartre, organizza i gruppi di lotta contro le truppe «regolari» di Thiers ma è soprattutto una scrittrice prolifica di ispirazione libertaria. La citazione, pregnante, è in continuità con una certa tradizione del femminismo francese che va alle origini del problema delle asimmetrie di genere e per il quale la presa di parola – il processo di soggettivazione – è fondamentale per rivendicare i diritti e offrire un proprio sguardo sul mondo.

Nel suo libro torna spesso Paule Minck. In seguito allesperienza della Comune, Minck cercò di coniugare istanze femministe a quelle del socialismo rivoluzionario. Perché fu una pioniera? 
Paule Minck, attiva già durante il Secondo Impero, è un personaggio interessante in quanto, come altre teoriche, ha cercato un punto di congiunzione tra femminismo e socialismo. In questo caso però, ecco la nota originale, la sua critica è rivolta alle infinite forme di autoritarismo e di coercizione sociale insite sia nelle relazioni private, sia in quelle politiche. Si candiderà provocatoriamente alle elezioni, ma non riceverà alcun sostegno dal partito socialista. Lei continuerà a rivendicare la specificità del suo essere e della sua libera visione politica fuori dai partiti.

La figura della «troleuse» risente tuttoggi di un immaginario caricaturale per cui gli accenti di rivolta delle donne rimano con esaltazione e follia. Può darcene conto? 
Le donne sulla scena politica, anche durante la Comune, suscitano un sentimento di ostracismo; restano un «fuori luogo». Nel conflitto, acerrimo, che pone fine all’esperienza comunarda prende corpo una figura immaginaria, la troleuse: una donna non più giovane che appicca incendi in ogni dove, in preda a una pulsione di violenza politica incontrollabile. L’iconografica al riguardo è notevole, i passaggi semantici altrettanto: una nuova scienza positivista si esercita nella codificazione di soggetti parossistici e depravati, come le donne che osano far politica e rilegge le protagoniste del passato, Olympe de Gouges ad esempio, come in preda a isteria rivoluzionaria; una nuova patologia!

Tra le «communardes» si ricordano Victorine Gorget, Eulalie Papavoine, Hortense David e altre. In quanto storica, come ricostruire e dare voce alla storia delle loro esistenze? 
Penso che sia sempre interessante soffermarsi sul pensiero e sulle elaborazioni di coloro che nel passato hanno preso la parola per i molteplici punti di vista che ci offrono. È anche politicamente importante che lo/a storico/a possa restituire gli sguardi, anche i più personali, dei soggetti che non hanno ricoperto ruoli e posizioni di primo piano ma che hanno offerto riflessioni originali sul loro tempo vissuto. Tutto questo affinché la storia non torni a essere il racconto dei grandi eventi e dei «grandi uomini». Le loro riflessioni ci interrogano sulla Comune come esperienza di democrazia che ha tentato di «inventare l’ignoto», per citare la bella espressione di Daniel Bensaïd, ma che ha mostrato anche robuste resistenze.


(il manifesto, 18 marzo 2021)

di Viola Papetti


Tra Londra e Costantinopoli. Il Settecento offrì alle donne possibilità nuove: viaggiare, lèggere, scrivere… La storia di Lady Mary, «influencer» anti-vaiolo, nel racconto di Maria Teresa Giaveri, Lady Montagu e il dragomanno. Viaggio avventuroso alle origini dei vaccini (Neri Pozza, pp. 157, € 17,00).


«Quando apriamo qualche vecchio libro di ricordi o di lettere siamo fin troppo pronti a abbandonarlo con lo stesso sorpreso disgusto che ci prende quando contempliamo fotografie ingiallite di trent’anni fa» – scrive quell’impareggiabile saggista che fu Lytton Strachey. Prima di iniziare il suo ritratto di Lady Mary Wortley Montagu nel 1907 fa una ulteriore drammatica premessa. Il suo secolo, il Novecento appena iniziato, ha messo di moda l’umanità, ed è difficile riconoscere quelle che chiama le fredde nobiltà del tempo antico. I doveri di una generazione diventano le tentazioni di quella successiva. Tuttavia, se vogliamo esplorare «il famoso Regno dei Morti» occorre lasciarci alle spalle la nostra insularità. «Dovremmo scendere nudi nelle loro dimore, per un incontro di boxe con la Morte». (Biographical Essays).

Strachey si calò nel Settecento, il secolo più civile, inventivo, moderno della storia inglese, e incontrò Lady Mary con la sua prorompente vitalità: i tormentosi amori italiani, l’intraprendenza, l’impulsività, la naturalezza di una scrittura suggerita dalla conversazione e che alla conversazione ritorna, come cronaca, chiacchiera, confessione. Le sue famose Turkish Letters (1716-1718), lette ad alta voce nei salotti londinesi, misero fine all’Oriente moralisé dei contemporanei e diedero inizio alla grande voga pittorica dell’Orientalismo. Accolta in un hammam femminile, Lady Mary ammira stupita le donne completamente nude che la invitano graziosamente a bere un caffè, che non bisbigliano maliziose alle sue spalle, che non maltrattano le belle schiave. «Qui mi sono convinta della verità di una riflessione che avevo fatto spesso; che se la moda imponesse di andare nudi, non si guarderebbero più i visi. Le signore con la pelle più bella e le forme più delicate riscuotevano la mia grande ammirazione, anche se avevano un viso meno bello delle compagne». A ragione Ingres teneva quella lettera sotto gli occhi mentre dipingeva tonde odalische. Ma Strachey, ancora immerso nel perbenismo vittoriano, si sottrae al fascino di un egotismo tanto spinto, a una spavalderia così femminile. «Lei era, come il suo tempo, fredda e dura; infinitamente non romantica; spesso cinica, e qualche volta volgare». Il Settecento, così congeniale a Lady Mary, offriva alle donne (ricche) possibilità impensate: leggere, viaggiare, scrivere tante lettere ad amici e amanti – favorite da un instancabile servizio postale. Erano le eroine di romanzi famosi che anche nel titolo ostentavano il nome di lei: Pamela, Moll Flanders, Roxana, Clarissa.

Un’egloga sulla sua malattia

La produzione epistolare di Lady Mary si può suddividere in quattro gruppi che corrispondono a quattro periodi della sua vita: le lettere al futuro marito Edward Wortley – non due normali fidanzati, ma «due gladiatori intellettuali» che si fronteggiano prima dello scontro (ancora Strachey); poi le straordinarie lettere da Costantinopoli in cui era giunta al seguito del marito nominato ambasciatore presso la Sublime Porta; gli scritti londinesi, quando entra in contatto con gli intellettuali più in vista (Pope, Addison, Francesco Algarotti, Lord Hervey, l’abbé Conti); le ultime lettere dalla Francia e dall’Italia, indirizzate alla figlia Lady Bute. Due sono i punti in cui l’imprevedibile Lady Mary, emergendo dal suo secolo, tocca il tempo a venire: il contatto con una civiltà tanto diversa sperimentata nell’hammam e quella prova dolorosamente personale della malattia che l’aveva deformata: il vaiolo che aveva ucciso il fratello tredicenne, e per sempre butterato il volto di lei, i suoi begli occhi ormai senza ciglia. Il celebre «Wortley eye», come lo chiamarono gli amici.

Nel 1716 sulla sua triste esperienza scrisse una Town Eglogue, ossia un’egloga moderna, «The Small Pox» (Il vaiolo). «La povera Flavia nel suo letto reclina, / così lamentava l’angoscia d’un animo ferito. / Uno specchio rovesciato nella destra reggeva; / ora evita la faccia che prima cercava. / Quanto sono cambiata! Ahimè, sono diventata / uno spettro spaventoso a me stessa ignoto!». Il lamento va avanti per un centinaio di distici eroici e conclude: «Adieu voi Parchi, in qualche oscuro recesso, / dove acque gentili piangeranno la mia disgrazia, / dove un falso amico non parteciperà al mio dolore, e lamenterà il mio disastro con la gioia nel cuore, / ch’io viva in qualche luogo deserto, / là nasconderò questo volto distrutto inglorioso / Voi Opere, Feste, mai più dovrò vedervi! / alla mia Toilette, ai miei nei, a tutto il mondo Adieu!».

Nel 1765 il Parini compose «L’innesto del vaiolo» contro quella che fino alla fine del secolo fu una malefica pandemia: «Tutti i sudor son vani / Quando il morbo nemico è su la porta». Maria Teresa Giaveri ricostruisce la storia di questa drammatica pagina della medicina, puntando sul ruolo che vi ebbe Lady Mary fra quanti tentarono di trovarne un rimedio: Lady Montagu e il dragomanno Viaggio avventuroso alle origini dei vaccini (Neri Pozza «I colibrì», pp. 157, € 17,00). La tecnica della ‘variolizzazione’ o ‘inoculazione’ o ‘innesto’ è descritta in una lettera di Lady Mary da Adrianopoli (Edirne) dell’aprile 1717: «Il vaiolo, così fatale e così frequente da noi, è qui reso completamente inoffensivo dall’invenzione della inoculazione, come viene chiamata». Una vecchia esperta punge con un grosso ago e introduce la materia vaiolosa con una piccola ferita in quattro o cinque vene. «Non si conoscono persone che ne siano morte; e l’esperienza pare abbastanza inoffensiva da farmi decidere di tentarla sul mio caro bambino. Sono abbastanza patriottica da darmi la pena di mettere di moda in Inghilterra questa utile scoperta; e non mancherò di darne tutti i particolari per iscritto a quei nostri medici – se ne conoscessi – che fossero abbastanza virtuosi da far scomparire una parte considerevole dei loro introiti per il bene dell’umanità».

Mode, opinioni, diari

Mantenne la parola. Fece vaccinare il piccolo Edward, e tornata a Londra adoperò la sua influenza a corte – era una brava influencer – presso la noiosa corte degli Hannover. La coppia dei Wortley era assistita da un medico scozzese, il dott. Charles Maitland – la peste il pericolo più temuto – e da un «primo dragomanno», ossia un segretario speciale con vari e importanti compiti, in servizio presso l’ambasciata. Emanuel Timoni, turco di origini genovesi, vantava competenze mediche, letterarie e scientifiche. Nel dicembre 1713 Timoni mandò un lunga lettera in latino sulla pratica dell’inoculazione, tradotta poi e pubblicata nelle «Philosophical Transactions» della Royal Society di Londra. Lady Mary di certo la lesse. Studente della famosa Università di Pavia come Timoni, Jacopo Pilarino, console a Smirne, nel 1715 spedì a Venezia un resoconto sull’inoculazione. Di loro, scomparsi nel 1718, non si faceva menzione, ma in Italia già alla metà del secolo la loro proposta circolava tra medici e scrittori (il dottor Gatti di Pisa, Verri, Parini…). Giaveri disegna un eccentrico quadro storico, pubblico e privato, di mode e opinioni, di viaggiatori e diaristi, di liberi pensatori, quei «cittadini di Europa», come scrisse Voltaire a proposito di Francesco Algarotti, l’uomo che Lady Mary, innamorata, sperava vanamente di rincontrare in Italia. Quasi presaga, scriveva dalla Turchia: «A prestar fede alle donne di questo Paese, esiste una maniera di farsi amare sicura quanto quella di farsi bella (che è il metodo usato da noi)… Non pretendono di aver commercio con il diavolo, ma solo di ispirare l’amore con certi filtri. Se ne potessimo esportarne un carico, faremmo subito fortuna».

Lady Mary, la «splendida cometa» che aveva riempito i cieli della prima metà del secolo, si spegneva a Londra tra l’incomprensione e l’impazienza di parenti e amici. Il suo biografo alla fine le riconosce l’onore delle armi: intelligenza e coraggio.


(il manifesto – Alias domenica, 7 marzo 2021)


Nota redazione: Finalmente in tempi di virus e vaccini, si ricorda Lady Montagu che ha introdotto il concetto di vaccino in Europa e non si è dimenticata di ringraziare le donne turche da cui ha imparato.

C’è una pecca nell’articolo: si cita il Parini, ma non si dice che lo scrittore fa un elogio a Lady Montagu, alla sua tenacia.


Dall’Ode del Parini, L’innesto del vaiuolo, il frammento:

[…]

O Montegù. Qual peregrina nave,

barbare terre misurando e mari,  
e di popoli varj 
diseppellendo antiqui regni e vasti, 
e a noi tornando grave 
di strana gemma e d’auro 
portò sì gran tesauro, 
che a pareggiare non che a vincer basti 
quel, che tu dall’Eussino a noi recasti?

Rise l’Anglia la Francia Italia rise 
al rammentar del favoloso innesto: 
e il giudizio molesto 
de la falsa ragione incontro alzosse. 
In van l’effetto arrise 
a le imprese tentate; 
ché la falsa pietate 
contro al suo bene e contro al ver si mosse, 
e di lamento femminile armosse. 

[…] 
 

In italiano sono pubblicati:

Lady Mary Wortley Montagu, Tra le donne turche. Lettere 1716-1718, Archinto, 1993

Lady Mary Wortley Montagu, Cara bambina. Lettere dall’Italia alla figlia, a cura di Masolino D’Amico, Adelphi, 2014

di Lia Tagliacozzo


Tempi presenti. Esce per La nave di Teseo «Il pane perduto». Un racconto di sé che indaga le ombre del Novecento, dove la scrittura si impone «per necessità, per respirare». Del suo essere testimone della Shoah ha raccontato in molti altri libri. Queste pagine sono diverse: un bilancio del percorso che dall’Ungheria l’ha condotta ad oggi, novantenne a Roma.

Il pane perduto, l’ultimo libro di Edith Bruck (La nave di Teseo, pp. 128, euro 16), offre pagine di intensità struggente, di una lingua piegata alle vite vissute, scritture plurali nel tempo e nello spazio eppure straordinaria espressione di una vita unica, sofferta e vivida. Un regalo doloroso e commovente come la vita di cui racconta: non un libro sui campi di sterminio, un libro sulla vita. Anche se comincia con «tanto tempo fa» non è una favola quella delle pagine d’inizio: «c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nel villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no». Essere ebrei ed essere poveri era il motivo di quei mancati saluti ma il racconto di quel periodo si tinge di una vaga serenità.

Nata in un povero villaggio dell’Ungheria, ultima di sei figli “vivi” Bruck con un solo aggettivo apre uno spiraglio su un mondo di miseria dove i figli si nutrono a storie perché non c’è cibo da mettere in tavola. Storie di «una terra del latte e del miele» raccontata dalla madre, terra che darà pane e dignità in un futuro che è invece travolto dalle croci frecciate, delle leggi antiebraiche, dalle deportazioni e dai campi di sterminio. Gli ungheresi furono gli ultimi ebrei d’Europa ad essere deportati nei campi nazisti.

È solo quando racconta della salita sul treno che la porterà con la famiglia nel ghetto che il racconto si muta alla prima persona. Lasciato Sei Case il libro abbandona infatti l’esordio favolistico e Bruck scrive una lingua precisa di fatti, emozioni, paure. Della vita che l’ha resa testimone della Shoah Edith Bruck ha raccontato in molti altri libri destinati a adulti ed anche ad un pubblico giovane ma queste pagine sono diverse: sono un bilancio, una tessitura di vita che dal villaggio Sei Case l’ha condotta ad oggi, novantenne esile e determinata, nel centro di Roma.

Prima però ci sono stati i campi di sterminio e la «marcia della morte», sempre accanto – salvifica – la sorella Judit: «La marcia infinita continuava e anche la semina dei cadaveri. Dalle finestre, anche se aprivano, non cadeva più la manna. Gli abitanti, appena ci vedevano, fuggivano come fossimo appestate. Non restava che nutrirci di rifiuti, bucce avare di patate, foglie e torsoli di cavoli, scorze degli alberi». Con parole piane, paradossalmente misurate, Bruck ricorda a questo occidente obeso e goloso il significato della parola fame. E, dopo i campi di sterminio, racconta il lungo «dopo» di una vita intera.

L’incerto ritorno, la cauta ripresa di peso, gli incontri sulla via del ritorno in un continente distrutto dalla guerra e attraversato da centinaia di migliaia di persone che cercavano un luogo dove tornare o da cui scappare per non tornarvi mai più. Budapest «città ovunque ferita, ovunque macerie, grigiore, distruzione anche umana: negozi vuoti, tristezza, teste basse, corpi rattrappiti e volti chiusi». L’accoglienza della sorella Miriam: «Niente pianti! Niente parole! Avanti!». Un imperativo violento in cui si sono imbattuti tanti reduci dai campi. «Cosa stava succedendo? – scrive Bruck riportando un dialogo muto con la sorella Judit – Il nostro avanzo di vita non era che un peso, mentre ci aspettavamo un mondo che ci attendesse, che si inginocchiasse». «Ma in che mondo siamo tornate? – riprende poche pagine più avanti – Perché abbiamo lottato tanto per la nostra sopravvivenza? Perché? Perché?».

Eppure vince l’ingiunzione al silenzio che è durata decenni. In Italia, tra i primi a romperlo, è stato Primo Levi: lui ha parlato e scritto per tutti, «fratelli e sorelle di lager» dicevano loro e dice lei. Poi lui se ne è andato e molti di loro si sono fatti carico del dovere e del dolore del racconto.

Gonfia di parole e «scomoda nella propria pelle» Bruck raddoppia il proprio peso, da quaranta a quasi ottanta chili, e racconta il tentativo di tornare nel villaggio trovando la propria casetta vandalizzata dai vicini in segno di spregio, le foto di famiglia raccolte «tra il letame che debordava nella stalla vicina». E allora che la scrittura si impone «per necessità, per respirare». La scrittura la accompagna nel viaggio attraverso l’Europa fino a Marsiglia – «dove ho visto per la prima volta il mare» – lì si imbarca per Israele nelle settimane di poco successive all’indipendenza. Arrivata lì la realtà si impone oltre i racconti materni di una terra del latte e del miele. Torna a scrivere «più di prima, le parole da dire stanno aumentando, se fossero bambini concepiti ne partorirei tanti quanti ne sono stati annientati». La consapevolezza, oltre l’amore e il matrimonio: «Forse è colpa mia, non mi trovo più bene da nessuna parte, non mi piace il mondo e non posso cambiarlo».

Il rifiuto di prendere le armi in un paese in guerra dove doveva nascere «l’ebreo nuovo» che non doveva strisciare sui muri dei ghetti ma che a Edith Bruck non piace – poi la scelta di andarsene in una compagnia di danzatori: Atene, Istambul, Zurigo e poi l’approdo, in Italia, a Napoli: a insegnarle a contare, mentre ballano, è Ugo Tognazzi. L’arrivo a Roma, «la città mi parve maestosa». Il primo lavoro come direttrice di un istituto di bellezza a via dei Condotti, la scrittura relegata ad occupazione domenicale ma presenza comunque costante e compagna. Poi l’incontro con Nelo Risi – poeta e regista – compagno di una vita (il matrimonio è celebrato da Francesco Fausto Nitti, fondatore di Giustizia e Libertà): «Sessanta anni di gioia, di passione, di sofferenza, di tenerezza, di pazienza, dolore, amandoci in salute e malattia fino al suo ultimo fiato tra le mie braccia». A lui, alla loro storia, alla convivenza con l’Alzheimer che lo ha colpito Bruck ha dedicato La rondine sul termosifone, edito anch’esso da La nave di Teseo (2017).

Poi la consulenza con Gillo Pontecorvo per Kapò, le altre collaborazioni con il cinema e i giornali, la scrittura per il teatro e la regia. La scrittura continua ad esserle compagna costante ed è sempre in italiano, lingua di accoglienza e di distanza necessaria per poter raccontare la Shoah. Una famiglia sparsa per il mondo tra Israele, Argentina e Brooklyn, affetti e generazioni che tessono e riempiono la vita. «Da figlia adottiva dell’Italia, che mi ha dato molto di più del pane quotidiano, e non posso che essergliene grata, oggi sono molto turbata per il Paese e per l’Europa, dove soffia un vento inquinato da nuovi fascismi, razzismi, nazionalismi, antisemitismi, che io sento doppiamente: piante velenose che non sono mai state sradicate e buttano nuovi rami, foglie che il popolo imboccato mangia, ascoltando le voci grosse nel suo nome, affamato com’è di identità forte, urlata, e italianità pura, bianca; che tristezza, che pericolo».

Anche per questo racconto dell’oggi Il pane perduto non è un libro sulla Shoah, è un libro che racconta cosa era un angolo di Europa prima della guerra e dello sterminio e cosa sia diventata oggi. È un libro che racconta una vita e che si conclude con una lettera scritta finalmente a Dio dopo averla solo pensata per una vita intera: «Forse mi urge mettere sulle pagine ciò che ho accumulato nella mente perché il destino mi sta privando della vista… il tempo stringe. Sto constatando che ogni parola e ogni riga tende verso l’alto sempre di più e chi può sapere se non arrivi fino a Te, sempre che tu ci sia… a te ho pensato ogni sera della mia vita. Ti interrogavo su tante cose ma non ho mai udito la Tua voce». Al Creatore Edith Bruck, chiede tempo: ha ancora da dire, da scrivere, da testimoniare.


(il manifesto, 3 marzo 2021)

di Marco Missiroli


Rachel Cusk ha rivoluzionato la scrittura contemporanea attraverso l’utilizzo di una prima persona singolare nuova. In Resoconto, Transiti e Onori – i tre libri di una trilogia che l’hanno resa celebre – descrive la realtà senza esporre direttamente la voce narrante, mimetizzandola nel mondo raccontato. Oltre alla trilogia, ha scritto opere che sfuggono all’autobiografia e al memoir ma non del tutto: trattano la ferita del divorzio e della maternità, come ne Il lavoro di una vita, che esce ora in Italia in una nuova edizione.

Cusk è nata in Canada, ha vissuto a Los Angeles e da tempo si è trasferita in Gran Bretagna, tra Norfolk e Londra. C’è un’espressione che la rivela, ed è lei stessa a usarla: «Rovesciare una storia come un guanto», indicando il suo incessante tentativo di rivoltare la vita fino a trovare la voce per rappresentarla. Quasi una scomposizione di ciò che ci circonda, nella sua trama più nitida e quotidiana.

Rispetto a questa devozione verso l’ordinario diventa necessaria un’espressione di Simone Weil: «L’umiltà è soprattutto una qualità dell’attenzione». Dove per attenzione si intende il sacro sguardo verso gli altri. Questa sacralità lo è doppiamente per lei.

«Sì, Simone Weil. È interessante, perché io sento profondamente la questione dell’attenzione, della qualità percettiva che si presta, e di quale forza essa riversi nel mondo. A volte, però, questa visione mi dà l’impressione di essere inconsistente, intangibile. Mentre altre volte è potenza pura. Dare attenzione, in questo tempo di isolamento, è un atto di santità in sé perché in un certo senso allena la propria energia morale su un oggetto, conferendogli sentimento. Ed è davvero la mia questione fondante: per tutta la vita di scrittrice non sono mai riuscita a esimermi dal conferire anima attraverso lo sguardo, portando reazioni di ascolto o di sdegno in chi mi legge. Alla fine mi trovo in una posizione di esilio dove sono costretta ad arroccarmi e tentare di mantenere quest’attenzione incrollabile, come in parte fece Simone Weil».

Esilio o egocentrismo?

«Direi che mi appare sempre più chiaro, via via che invecchio, che il mio lavoro sia stato un perpetuo sacrificare il mio ego. A volte mi è sembrato addirittura di non avere un ego, e altre volte invece che il mio ego volesse certe cose e che io dovessi affamarlo di quelle cose. Quindi direi che l’esilio, o il sentimento di esilio, fa parte integrante dell’uso di sé stessi per amore del mondo: ma questa sembra proprio la definizione di autofiction, mentre invece per me non lo è. È, come dire, una posizione morale a partire dalla quale io navigo, e che essenzialmente consiste nel considerare l’io come neutrale, o come oggettivo, o quasi come un nulla, ed è per questo che si possono vedere le cose che gli succedono. Così, essere fuori dall’egotismo a volte mi fa l’effetto di un posto vuoto, altre volte mi dà molto piacere, quasi un piacere sacro».

Sacralità della prima persona singolare. In «Resoconto», «Transiti», «Onori» avviene una mutazione della letteratura contemporanea rispetto al punto di vista che si racconta. Mi svela quando ha assorbito questa naturalezza nel dire «Io» attraverso gli altri?

«Penso che la questione dell’arrivare a una nuova, sconosciuta tradizione narrativa, abbia a che vedere con il concetto di autorità in letteratura. Che cos’è l’autorità letteraria? Chi ce l’ha? E come si acquisisce? E tutto questo come si insinua nella vita di una donna? L’autorità letteraria è il fulcro che ho cercato di esaminare attraverso posizioni molto diverse — questo mio libro sulla maternità, il mio libro sul divorzio, libri che parlano del tentativo di trovare un rapporto con le modalità istituzionalizzate di essere e di narrare per una donna. Penso che la storia che le mie opere raccontano riguardi proprio l’essere stata privata inizialmente di quei ruoli riconosciuti come autoritari. Così la posizione alla quale sono arrivata l’ho raggiunta attraverso l’espulsione di uno status per raggiungerne un altro totalmente nuovo: un deserto inedito, un posto vuoto e mai esplorato, una condizione dove nessuno era mai stato prima e dove non c’era nulla. La lingua scaturita da questa rottura è stata quella di Resoconto».

Forse quell’autorità infranta e reinventata c’era già prima di «Resoconto». Forse era già presente nel doloroso interrogativo de «Il lavoro di una vita»: sono ancora io, quando metto al mondo un figlio? A differenza di «Resoconto», però, qui le viscere di chi racconta sono esposte.

«Sono sempre stata consapevole di quanto fossero l’io narrativo e il posto che esso occupa a determinare la scrittura. Dicendo “Io”, il lettore rischia di pensare subito a un’autobiografia, quasi a un diario, attribuendo colpa, causalità, dolore allo scrittore e ai suoi personaggi, come avviene spesso nel memoir dove le viscere sono esposte in modo semplicistico. Ecco che allora il mio lavoro è stato quello di usare la lingua nel modo più preciso, affinché siano le parole a raccontare la vita. Non solo il punto di vista, non solo le viscere, dunque, ma le parole. È una piccola rivoluzione che fa la differenza. Perché costringe chi legge ad ascoltare e a prendere posizione rispetto all’esistenza. Così molte persone hanno assorbito Il lavoro di una vita nella comprensione, altre nell’indignazione. Il risultato finale credo sia questo: il racconto della voce di una madre, di un genitore in difficoltà, per ciò che sente e per la difficoltà oggettiva della condizione genitoriale».

Da genitore alle prime armi vorrei far mia una frase del libro: «Per essere una madre devo ignorare le telefonate, lasciare il lavoro a metà, venire meno agli impegni presi. Per essere me stessa devo lasciar piangere mia figlia, anticipare le sue poppate, abbandonarla per uscire la sera, dimenticarla per pensare ad altro. Riuscire a essere l’una significa fallire nell’essere l’altra».

«Durerà un paio di decenni, penso».

Grazie per l’incoraggiamento. Ma il punto è proprio questo: il conflitto che si prova nel mettere al mondo i figli. Conflitto che alla fine significa dichiarazione di umanità.

«Una delle reazioni incredibili suscitate da Il lavoro di una vita, quando uscì nel 2003 nel Regno Unito, è stata che molte delle donne che l’hanno recensito ci hanno visto l’opera di una cattiva madre. Secondo loro, il mio libro era troppo intellettuale: “Se fosse stata una buona madre, sarebbe stata troppo stanca per pensare in questo modo e per scrivere queste frasi così complesse: non ne avrebbe avuto l’energia mentale…”. Insomma, ciò che ho sentito io a quel tempo, direi, è stato proprio l’inverso di un contesto di umanità. Forse non eravamo ancora pronti, forse l’intellettualismo era una scusa ancora buona per nascondere certi sentimenti».

E come si sente ora, rispetto alla maternità e a «Il lavoro di una vita»?

«Come ci si può sentire quando si riesce a scalare l’Everest e una volta in vetta si costruiscono pure dei monumenti. Intendo dire, sono sbalordita di aver trovato la forza di testimoniare, di dare la mia versione dei fatti, perché sono accadimenti molto nascosti nella storia delle donne, nelle vite delle donne. Adesso i maschi avvertono una maggiore aderenza della genitorialità: di colpo sono diventati più disponibili, più aperti. Ma è stato soltanto quando ho avuto una seconda figlia che ho pensato, ritornando in quello stesso posto: “Oh mio Dio! Questo è quel posto lì, io lo conosco, ci sono già stata eme l’ero dimenticato, quindi adesso devo scrivere, devo mettere tutto per iscritto”. Avevo raddoppiato l’altezza dell’Everest aggiungendo un’altra figlia e decidendo di dare la mia rappresentazione, di costruire il mio monumento in quella nuova condizione. Ho sentito ciò che sento adesso: che il lavoro, che lo sforzo che a quel tempo sembrava tanto legato al dover plasmare e aver cura di quella nuova anima umana, in realtà mi sembra sia lo sforzo di restare attaccata alla verità di ciò che è stato e alla verità della sua rappresentazione».

A proposito di verità, e di maschi. C’è una scena nel libro in cui la protagonista legge due articoli scritti da uomini che tentano un’analisi della condizione faticosa di paternità, senza citare mai la condizione femminile. Dedica a questi due signori pagine di sottile indignazione che non diventano mai collera o rivalsa. Diventano un occhio ancora più umano sul mondo.

«Una delle questioni di cui mi sono resa conto quando ho cominciato a entrare in quelle acque materne – dove ero spesso aperta alla possibilità di esser presa dal panico, di arrabbiarmi, di aver voglia di urlare in faccia alla gente, di voler combattere – è stata comprendere che cominciavo a guardare il linguaggio come un mondo molto più simile a uno spartito, dove le cose accadono in tonalità maggiore o minore, con un moto oscillante e interessantissimo. Non c’era solo bianco e nero, c’erano tonalità emotive mutevoli da rappresentare verbalmente. Da qui lo studio di una nuova scrittura. Ma non era solo questo ad aver cambiato la mia visione narrativa. C’era qualcosa che aveva a che fare con la mia libertà, con la possibilità di liberarmi dai miei sentimenti personali di rabbia o altro, di tornare a risolvermi senza posa. Essere senza posa: cercavo proprio questo, approdando a un’armonia dove, essenzialmente, non c’è guerra».

Che genere di guerra?

«Beh, penso che quando cominci – se sei me – a guardare com’è fatto il mondo, e che posto viene fatto nel mondo per una come me, o per un’altra donna, puoi avere l’impressione che ciò che dovrai fare sarà combattere una serie di battaglie. E io ho sempre avuto difficoltà con questa questione del conflitto, ritenendola, direi, necessaria: se si deve difendere la verità, allora devi combattere. Devi batterti contro persone che vogliono che tu non dica la verità, ma che invece finga che tutto vada bene, che con tua figlia tutto vada a meraviglia, che in qualsiasi parte della vita ti trovi, tutto fili liscio come l’olio. E così, scrivere nel modo in cui scrivo io è un percorso di conflitto, e lo è sempre stato».

Nel conflitto spesso si annida il coraggio.

«La faccenda del coraggio e dell’onorabilità della pace, di non fare il proprio dovere, mi ha sempre tormentato. Voglio dire, la persona che non si lagna di quanto sia duro occuparsi di una neonata… quella persona in un certo senso è degna di onore, è molto devota, matura. Ma ogni lavoro ha i suoi doveri di coraggio e la scrittura non ammette menzogne o nascondigli. Quindi l’ho detto: “No no no, per quanto mi riguarda diventare madri non è tutto liscio, è durissimo, e questi sono i sentimenti che provo”. Dunque, direi, essere riuscita a far parte di quel combattimento e allo stesso tempo a non perdere l’autocontrollo nel raccontarlo, a non arrabbiarmi, a non sfogarmi e basta, è stato molto molto difficile. Probabilmente è stato la cosa più difficile da raggiungere in tutta la mia carriera di scrittrice. Questo, e cercare di rappresentare la vita così com’è».

Sulla rappresentazione della vita così com’è, Mario Monicelli ribadì un imperativo: nessuna scena madre, solo scene figlie.

«Ancora una volta vanno sacrificate le madri! Scherzi a parte, la rappresentazione naturale del mondo – l’ordinario – è uno spazio che ho impiegato molto tempo a raggiungere e non so perché ci ho messo tanto ad arrivarci. So solo che è uno spazio che ho raggiunto attraversando molti altri spazi. E se posso aggiungere ancora una cosa, credo di essermi resa conto, facendo queste considerazioni, che forse la maggior parte degli artisti procederebbe nella direzione opposta, cioè cercherebbero di allontanarsi dalla normalità».

Ci si allontana per stupire o per rivelare. E anche per timore di annoiare, credo.

«Io non ho mai timore di annoiare».

Ma so che a un certo punto ha avuto paura di non scrivere più. Come Clarice Lispector, che disse di essere stata salvata dal vuoto creativo grazie a una pianta che amava moltissimo. Si era data l’obiettivo di annaffiarla solo dopo ogni tot di pagine scritte. Lei ha piante da annaffiare o altre liturgie?

«La crudeltà verso me stessa. Direi che faccio affidamento sull’aritmetica, sui calcoli: quante pagine o paragrafi ho portato a termine, quanto tempo ho impiegato, quanti giorni continuativi. Quando scrivo ho un modo di trattarmi molto irreggimentato, feroce e non molto divertente. E poi un tempo fumavo moltissimo: l’unico piccolo piacere che mi consentivo era quel po’ di autodistruzione. Adesso ho smesso con le sigarette tradizionali e uso quelle elettroniche che non perdo occasione di pubblicizzare. E poi c’è questo fatto correlato: da sempre immagino di essere una top manager molto potente, magari l’amministratore delegato di una colossale impresa petrolifera globale, con tanto di valigetta 24ore e uno di quei tailleur con enormi spalline imbottite… insomma, fantastico di avere un potere immediatamente tangibile. Ma questa fantasia si indebolisce davanti al mio lavoro reale: la scrittura è il potere. Sulla realtà, sulla verità e su me stessa. E finché la penserò in questo modo, sarà impossibile mollare».

Cosa legge e rilegge, Rachel Cusk?

«Beh, leggere mi ha accompagnato tutta la vita. La mia ancora di salvezza. Come nel caso del personaggio mitologico che riesce a uscire dalla caverna del Minotauro grazie a un filo. Per me la lettura è stato il modo di trovare la mia strada. Ma non so mai esattamente in che modo una storia mi cambierà, anche se so che una storia può cambiare sempre: ci sono letture che producono cambiamento esattamente quanto la vita. Questa esperienza adesso è diventata abbastanza rara: quando ero giovane era frequente e decisiva. Ma sono come un animale che va in cerca di cibo, io mi aggiro sempre alla ricerca di qualche cosa di potente da leggere. Questa ricerca è una mia occupazione incessante».

Non mi ha fatto un solo nome di autori o titoli.

«La mia politica è non fare nomi».

Mi sembra il motto che le attribuii quando lessi «Resoconto». Leggevo e pensavo: ma dove vuole arrivare, questa voce? Perché si insinua nelle cose, nelle anime, nella vita, senza mai nominarsi? Poi ho capito: sparire per raccontarsi.

«È un po’ come accadde con la maternità, no? Si sparisce come individui per essere genitori. Poi si impara a essere singoli e genitori. A volte si torna a essere solo individui. C’entra con il periodo in cui diventai madre: all’inizio, nei primi anni, le mie figlie appartenevano solo a me perché dipendevano da me e avevano bisogno di me, colludendo con il mio lavoro, con il mio compito morale e artistico. Ero costretta a scrivere per loro, anche. Che è una forma di libertà rispetto a scrivere per altri scopi a pensarci bene. Obbligo e libertà coincidevano, ed è strano. Ora appartengono pienamente a loro stesse e questo cambia anche il mio lavoro: posso prestare attenzione a cose diverse, posso giocare di più. E sa un’altra cosa riguardo alla libertà? Ora mi sento libera di non scrivere. Ora mi sento libera di restarmene a letto tutto il giorno».


(La Lettura – Corriere della Sera, 21 febbraio 2021)

di Massimiliano Virgilio


Dallo scorso 8 febbraio è nelle librerie italiane La donna gelata di Annie Ernaux (L’orma editore), romanzo del 1981 dell’acclamata scrittrice francese che analizza in maniera profonda e impietosa la vita matrimoniale di una giovane coppia. Dopo quarant’anni i lettori italiani possono finalmente leggere questo libro, scoprendone una forza letteraria e politica ancora intatta. Ne abbiamo discusso con l’autrice de Il posto e de Gli anni.

Ne La donna gelata parla delle donne della sua infanzia come “donne da esterni”, non abituate a stare al chiuso e da sempre avvezze “a sgobbare”, donne forti, lavoratrici. Qual è stata la sua esperienza del mondo femminile prima del matrimonio?

È un’esperienza fatta di donne che non si sono mai lasciate dominare, «donne da esterni» come scrivevo, donne attive che si preoccupano delle faccende domestiche soltanto il minimo indispensabile, perché non hanno tempo da dedicare alla casa. In un ambiente contadino, soprattutto a quell’epoca, le abitazioni erano abbastanza spartane, spoglie, come immagino fossero anche in Italia a quei tempi. Fuori dagli appartamenti borghesi non c’erano tappeti da sbattere o soprammobili da spolverare tutti i giorni. Sono queste le donne che ricordo, donne che lavorano quanto gli uomini, e non tra le pareti domestiche, ma spesso nei campi, oppure in fabbrica: di conseguenza sono donne che hanno diritto di parola perché guadagnano del denaro, e questo è già un fattore molto importante. Durante la mia infanzia nella mia famiglia c’era soltanto una donna che aveva molti figli – nel libro parlo anche di lei. Di fatto, era la più sottomessa al volere del marito, perché non poteva lavorare, solo occuparsi dei bambini.

Leggendo il libro ho compreso (o almeno, lo spero) alcuni paradossi che da bambino non riuscivo a spiegarmi del rapporto tra i miei genitori (hanno tutti e due più o meno la sua età). In particolare, rispetto al tema delle libertà. È come se per le donne della sua generazione la libertà fosse qualcosa di faticoso e di scomodo. Mentre per gli uomini di ogni epoca la libertà presenta sempre meno svantaggi. Cosa ne pensa?

È davvero una grande questione, perché la libertà degli uomini della mia generazione – e credo il discorso sia ancora attuale ai giorni nostri – è un dato di fatto che non viene mai messo in discussione, ed è così fin dalla nascita. Pensando a un bambino si immagina abbia la possibilità di fare tutto. E quando dico “tutto” intendo sia la libertà di andare ovunque sia quella di scegliere il proprio percorso professionale. Per le donne invece – vale per le bambine cresciute in un contesto tradizionale ma ritengo sia così ancora oggi – questa libertà non è data una volta per tutte, non è scontata. Sappiamo benissimo che la libertà di andare dove si vuole è spesso condizionata da minacce di ogni tipo che, in effetti, nella maggior parte dei casi sono rappresentate dagli uomini. Ai miei tempi la libertà era qualcosa che dovevamo conquistare, e che in qualche modo non abbiamo mai raggiunto pienamente. Credo che a tutt’oggi debba ancora essere raggiunta. Certo, ci sono forti distinzioni a seconda del luogo in cui si vive. E nemmeno per gli uomini parliamo davvero di una libertà totale. Quello che conta però è che maschi e femmine non hanno ancora davanti a sé un futuro ugualmente libero.

Forse il punto è che la libertà delle donne è ancora percepita come una minaccia. È stato molto evidente, ad esempio, durante il movimento del metoo, del quale si è detto: «Adesso state proprio esagerando!». Che in parole povere significa mettere in discussione, senza dirlo apertamente, la libertà di denunciare che siamo state molestate e non vogliamo che accada di nuovo. La libertà delle donne è sempre stata un problema per la società. A partire dagli anni Settanta abbiamo scardinato alcuni dei meccanismi che opprimevano le donne. Ma quella rivoluzione non è ancora compiuta.

La donna gelata è stata scritta quarantanni fa, quando immagino fosse molto più difficile affermare certe idee con una tale veemenza.

All’epoca (parliamo del 1981) sono stata molto contestata, e il libro criticato. Criticato perché si pensava fosse del tutto normale che una donna lavoratrice si sobbarcasse comunque tutte le faccende domestiche, la cura dei figli, la gestione della cucina. C’era la convinzione diffusa che a livello sociale l’emancipazione femminile fosse ormai completamente raggiunta, perché avevamo ottenuto il diritto alla contraccezione, quello all’aborto, e il partito socialista era alla guida del Paese. Al governo c’era anche un’importantissima esponente del movimento femminista: Gisèle Halimi. Così ci si illudeva che la questione femminile fosse risolta una volta per tutte. Durante una trasmissione televisiva, fui coinvolta in una discussione molto accesa su questo tema. Mi chiesero: «Ma così non si finisce per dimenticarsi dell’amore?». L’amore veniva sempre brandito come un’arma per sviare il discorso e negare che ci fossero disuguaglianze nella ripartizione dei compiti.

A sostenere certe idee, cè il rischio di passare per madri degeneri.

Sì, sono stata subito accusata di essere una cattiva madre perché non vivevo la maternità come se fosse il mio unico obiettivo di realizzazione personale, se così si può dire.

Diversi anni fa in unintervista ha dichiarato: «Non mi abituerò mai a una visione maschile del mondo». Crede che nel frattempo la società si sia abituata ad avere una visione più femminile di se stessa?

Credo che stiamo attraversando un periodo di grandi progressi, di cambiamenti originati dalla volontà e dalle azioni delle donne. È inutile aspettarsi che gli uomini si convertano da soli a una visione del mondo diversa da quella che gli è stata trasmessa. C’è stata un’evoluzione in tal senso, ed è tuttora in atto, ma quella maschile resta una concezione del mondo in cui il privilegio gioca un ruolo fondamentale. Un privilegio garantito sempre da altri uomini. Si tratta di una visione interiorizzata, ovviamente, sulla quale si riflette poco e della quale si parla ancora più di rado. Ma gli uomini occupano quasi tutte le posizioni di potere, in politica, in campo artistico, letterario… Basti pensare che ci sono scrittrici e scrittori in egual numero, ma le donne ricevono molti meno riconoscimenti. Ed è difficile che i loro colleghi maschi lo ammettano o ne parlino. È una situazione pesante, e c’è ancora molta strada da fare. Ciò detto, il grado di consapevolezza delle donne è cresciuto enormemente, dal 2000 in poi, su questo non c’è dubbio. Abbiamo assistito, specie negli ultimi anni, a un aumento della loro influenza nel dibattito pubblico, per sostenere valori di uguaglianza e libertà.

Ho letto che successivamente alla pubblicazione de La donna gelata, negli anni Ottanta, ha chiesto a Gallimard di rimuovere dalla copertina di tutti i suoi libri qualsiasi riferimento a uno specifico genere letterario. Mi può dire cosa lha spinta a farlo?

Sì, è stata una mia decisione. Sulla copertina dei miei primi tre libri, compreso La donna gelata, una scritta recitava «romanzo». In seguito ho abbandonato l’io finzionale e ho fatto eliminare la dicitura «romanzo», perché sono definitivamente passata al mio io reale, autobiografico. Mi sono resa conto che i miei libri precedenti erano già al 95% autobiografici, fatta eccezione per dettagli legati ai nomi dei personaggi, o a eventi di minima importanza.

Si tratta di un modo per sottrarsi a ogni classificazione, o al contrario c’è unetichetta specifica che utilizzerebbe per i suoi libri?

Ho rifiutato l’etichetta romanzo per scrupolo di autenticità, per non dover più indossare una maschera o adeguarmi ai canoni di un genere letterario che non era il mio. Preferisco non indirizzare a monte il lettore in una sola direzione attraverso l’etichetta del genere letterario, voglio che sia chi legge a decidere.

Dunque ha deciso di buttare giù la maschera con il lettore e dire apertamente che si trattava di lei ne Il posto.

Sì, il progetto di quel libro presupponeva che non ci fosse distanza tra personaggio e voce narrante: l’io de Il posto è davvero Annie Ernaux. E l’uomo di cui parlo è davvero mio padre. Non volevo che ci fosse alcun dubbio. Questa decisione ha cambiato radicalmente la mia scrittura, che ha perso quella forma di leggerezza ancora presente ne La donna gelata, dove ci sono dei passaggi ironici, in cui mi prendo in giro.

Se ne Il posto uno dei temi è il tradimento che lascesa sociale comporta, anche ne La donna gelata c’è lidea di un tradimento, rappresentato dal matrimonio e dalla vita familiare. Un tradimento senza infedeli. Come se il peccato fosse presente nella nostra struttura sociale, ancor prima che nei suoi interpreti…

Lei parla di tradimento, e certo, ha ragione. Per quanto mi riguarda, non avrei mai pensato di tradire a quel modo le mie ambizioni, quelle che nutrivo prima del matrimonio: superare gli esami da insegnante, lavorare a scuola e scrivere. Avevo un programma preciso che si è rivelato del tutto irrealizzabile, fin da subito. Credo che molte donne della mia generazione abbiano sperimentato questo tradimento di se stesse, del quale però non sono state le vere artefici: sono le condizioni della vita, della famiglia che le hanno costrette ad abbandonare i propri sogni.

Insomma, o si tradisce se stessi o si tradiscono le proprie origini…

Nel mio caso sono avvenute entrambe le cose, perché si trattava di un matrimonio borghese, che sanciva il mio ingresso in un mondo borghese che non conoscevo e non capivo. Credo che ne La donna gelata si senta questa differenza di origine sociale, di habitus. Ed è in nome di una certa idea di cosa può o non può fare un uomo che mio marito si rifiutava, per esempio, di sbucciare le verdure. O che ironizzava: «No, ma scusa, mi ci vedi con il grembiule?». Nei primi anni di matrimonio, non provavo ancora un senso di colpa al riguardo. Poi, alla morte di mio padre, per me è cambiato tutto. So bene che la convivenza è impossibile senza scendere a compromessi, ma nel mio caso ero sempre e solo io a cedere terreno all’interno della coppia.

Perché lo accettava?

Perché si tende a rassegnarsi quando la discussione diventa troppo faticosa da portare avanti, quando si ha l’impressione di stare sempre lì a cavillare su tutto. Si teme di incarnare il triste stereotipo della donna petulante che non fa che lamentarsi, che accampare pretese. Che non si accontenta mai. Ne sentivo parlare spesso. A un certo punto de La donna gelata faccio questo paragone: si tratta dello stesso meccanismo oppressivo usato dai padroni quando dicono che gli operai non sono mai contenti di quello che gli viene dato. I dominati non sono mai contenti… È uno dei modi in cui si sancisce il rapporto di potere e si spinge l’altro alla rassegnazione. Può sembrare una forzatura, ma la vita delle donne è spesso costellata di situazioni in cui ci si rassegna, perché è estenuante dover sempre rivendicare i propri diritti. Ed è ancora più difficile in un rapporto il cui presupposto è l’amore. Quell’amore in nome del quale si dovrebbe accettare tutto. E invece come si manifesta più spesso il dominio dell’uomo sulla donna, quest’egemonia tanto diffusa e accettata a livello sociale? In maniera diluita, apparentemente innocua, in tutte quelle situazioni che si pensa afferiscano soltanto alla sfera privata, sentimentale, quando in realtà sono un problema sociale.

E spesso la situazione si ritorce contro chi evidenzia il problema, vero?

Esatto. Ma senza mai riconoscere a chi si lamenta, a chi protesta, la sua condizione di donna all’interno di una società iniqua. Come se il problema non fosse la società, ma tu in quanto individuo. O, al massimo, tuo marito, il tuo compagno, che sono sempre casi isolati, del tutto irrelati dal resto degli uomini. Troppo spesso ci si dimentica completamente del fatto che i rapporti tra uomini e donne sono sempre politici, e riguardano tutti noi.

Rilegge i suoi libri? Io non riesco a farlo. In generale gli scrittori con cui discuto affermano di non riuscirci per mancanza di tempo o pigrizia. Eppure io credo che abbia a che fare anche con un pizzico di senso di colpa. Se rileggessi, temo che scoprirei di essere stato ingiusto con qualcuno di molto importante nella mia vita. Che rapporto ha con i suoi libri passati?

No, neanche a me piace farlo. Mi sono sforzata un po’ più del solito proprio con La donna gelata, ma ne ho riletto solo i passaggi salienti. In più, sono sempre proiettata verso il libro che sto scrivendo, o che ho intenzione di scrivere. Jean-Paul Sartre descriveva i libri che aveva già scritto con la parola «pratico-inerte». Una volta che il libro è scritto, diventa un residuo inerte della scrittura. Se sono obbligata a rileggermi – per esempio in occasione di una nuova traduzione, o per rispondere a un’intervista come questa – nella stragrande maggioranza dei casi mi dico che non avrei potuto scrivere quel libro altrimenti, che quella è la verità; solo di rado mi dico che avrei qualcosa da aggiungere, o mi viene voglia di cambiare qualcosa. Però no, non mi capita mai di pensare di aver danneggiato qualcuno. Mi dico che sono eventi del passato, lontani, storia vecchia, anche quando sono passati solo un paio d’anni. Per quanto possa sembrare strano, dato che parlo tanto della memoria e della sua importanza, in realtà io vivo immersa nel presente e nel futuro. In definitiva non mi pento di nulla, né per quanto concerne la scrittura, né per quel che riguarda i contenuti o le persone che li hanno ispirati.

Il presidente Macron ha risposto alla sua lettera di qualche mese fa? Secondo lei è cambiato qualcosa in questi mesi di pandemia, rispetto alla considerazione di cui godono infermieri, insegnanti, postini, o verso coloro che svuotano la spazzatura o lavorano alle casse dei supermercati?

No, e in realtà non mi aspettavo che rispondesse. In un certo senso preferisco questa distanza, tra noi, tra i nostri ruoli. Per quel che riguarda la percezione del personale sanitario purtroppo non mi pare che sia cambiato granché. Ho come la sensazione che capiremo davvero la situazione che stiamo vivendo soltanto quando la pandemia sarà sotto controllo e potremo riprendere una vita normale. Non sarà la vita per come ce la ricordiamo, ovviamente, ma per il momento non ci sono indizi su come sarà. Anche gli insegnanti, che siano alle scuole materne o all’università, stanno affrontando quotidianamente difficoltà enormi. E chi lavora in ospedale, ovviamente. Ma non so fino a che punto il resto della popolazione ne sia consapevole. Eppure sono convinta che avremo bisogno di una resa dei conti, alla fine della pandemia. Bisognerà interrogarsi. E rendere il giusto merito a tutti quelli che hanno tenuto in piedi la nostra società in questi tempi difficili.


(fanpage.it, 14/2/2021)

di Guido Caldiron


Parla lautrice di «Heartland», da oggi in libreria per Black Coffee. Un memoir che racconta tre generazioni di agricoltori del Kansas tra crisi economica e sconfitte domestiche. «Quando privilegio razziale e svantaggio economico vanno insieme, il problema si pone in termini di classe. Qualcosa che nel mio Paese si è sempre cercato di negare o mettere a tacere»


«Il sogno americano sembra più un fantasma che perseguita i nostri pensieri piuttosto che un contratto sacro che vale la pena firmare per mettere in cassaforte il futuro». Non è facile scoprire quanto rapidamente la promessa di felicità sancita fin dalla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti possa tradursi in un bluff, in una vita difficile e priva di qualunque traccia di miglioramento anche solo all’orizzonte. Ed è ancora meno facile se a fare questa scoperta è una ragazzina che cresce in una famiglia di agricoltori nel bel mezzo delle campagne del Kansas.

L’essere bianchi non basta, come la retorica razziale sulla quale si è costruito il Paese ha invece sempre affermato, perché nell’equazione della propria biografia essere poveri ha un ruolo di gran lunga più importante. Oltre il «mito» di una working class che costruisce le proprie fortune grazie all’abnegazione e al duro lavoro, emergono le frontiere di classe, le limitazioni economiche, le tante derive personali che in una società dove la sconfitta e la miseria sono spesso vissute come colpe lasciano ferite profonde e incancellabili: dalle violenze domestiche agli abusi, dall’alcolismo alla dipendenza da medicinali e da ogni sorta di oppiacei.

Con un coraggio e una forza eccezionali, è questo che ha scelto di raccontare Sarah Smarsh in Heartland (Black Coffee pp. 284, euro 18, traduzione di Federica Principi) un memoir dolente e straordinario che ha la forza dell’inchiesta e il timbro del romanzo dove si descrivono le vicende di una famiglia di agricoltori di origine tedesca del Midwest, attraverso diverse generazioni e un sguardo particolarmente affettuoso rivolto a nonne, madri e figlie. Quarantuno anni, giornalista economica affermata, Smarsh descrive il mondo nel quale è cresciuta e dal quale si è almeno in parte allontanata, ma lo fa con il calore che si riserva a ciò che si ama e senza perdere né la speranza né la tenerezza.

La vicenda che racconta è segnata profondamente dalla paura, per sé come per i propri cari, a cominciare dai suoi genitori che ha sempre sentito di dover in qualche modo proteggere. È questo il sentimento che ha dominato la sua infanzia più della difficoltà di immaginare un futuro? 
Gli aspetti pericolosi della vita della mia famiglia – i pericoli fisici insiti nel lavoro nei campi, quelli psicologici frutto dei modelli costanti di abuso che abbiamo ereditato di generazione in generazione, quelli sociali derivanti dal fatto di essere troppo poveri per accedere anche soltanto all’assistenza sanitaria – erano così «normali» per me che non percepivo le altre paure che provano di solito i bambini. Vivevo piuttosto immersa in uno stato costante di vigilanza per proteggere sia me stessa che il resto della mia famiglia.

Le pianure del Kansas in cui è cresciuta sono considerate «il granaio dAmerica», una zona presentata come «il cuore» del Paese e celebrata con grande retorica. Eppure la storia di molte famiglie come la sua racconta di un totale abbandono da parte delle istituzioni e del potere economico che ha condotto a un impoverimento crescente e a decine di milioni di poveri. Come è stato possibile? 
Per metà del XX secolo la politica federale degli Stati Uniti è stata intenzionalmente progettata per spremere le piccole fattorie e favorire l’agricoltura industriale basata sulle grandi aziende. Di conseguenza, già nel corso degli anni Ottanta, quando ero bambina, molte aree rurali come quella in cui vivevo venivano definite «morenti», mentre la gente di campagna fuggiva nelle città per cercare di sopravvivere. E non si tratta di un caso isolato: le leggi adottate via via hanno creato intenzionalmente uno svantaggio per gli afroamericani, le donne e altri gruppi minoritari. Del resto, per un Paese così ricco avere un numero di cittadini in difficoltà talmente elevato non è certo un caso. È tutto tranne che una fatalità.

È comune pensare alla povertà e allemarginazione nelle grandi metropoli, allo sfruttamento dei migranti ispanici o al razzismo nei confronti degli afroamericani, ma cosa significa essere bianchi e poveri negli Stati Uniti? 
La storia del mio Paese è intrisa di riferimenti alla supremazia bianca, il che significa che i neri hanno statisticamente maggiori probabilità di essere poveri rispetto ai bianchi. Tuttavia, in virtù delle percentuali delle diverse comunità che formano la popolazione totale, è anche vero che ci sono più bianchi poveri di qualsiasi altra razza. E in effetti abbiamo difficoltà a discuterne pubblicamente perché si tratta di qualcosa che smentisce il modo in cui il Paese è abituato a pensarsi. Significa infatti che privilegio razziale e svantaggio economico – e, nel caso dei poveri bianchi delle campagne, anche su base geografica – possono convivere. Il che equivale implicitamente porre il problema in termini di classe, qualcosa che nel Paese si è sempre cercato di negare o mettere a tacere.

In un celebre saggio di alcuni anni fa «Whats the Matter with Kansas?» (2004) il giornalista e politologo Thomas Frank parlava proprio dello Stato in cui è nata per dimostrare come i bianchi poveri siano stati spinti a lungo a votare contro i propri interessi dalla propaganda della destra. È un tema tornato dattualità con Trump. Lei come vede le cose? 
Non mi piace l’espressione secondo cui le persone «votano contro i propri interessi», come conclude Frank, perché implica che si tratti di gente un po’ stupida. Ciò nonostante è assolutamente vero che la propaganda della destra ha preso di mira per decenni, e con successo, ambienti e regioni specifiche del Paese, come le chiese evangeliche o le aree rurali, concentrandosi su questioni controverse come l’aborto che hanno orientato il voto più dei temi legati alla vita quotidiana di queste persone. E si tratta di una tendenza che non ha fatto che rafforzarsi negli ultimi anni anche attraverso i social media.

Nel suo libro racconta che da ragazza non aveva neppure mai sentito nominare la Carhartt il famoso brand che si ispira allabbigliamento da lavoro e dei cowboy, ndr -. Quanto è distante la costruzione «pop» e stereotipata dellimmagine del lavoratore bianco dalla realtà concreta di chi vive e lavora nei campi? 
Secondo questa immagine costruita a tavolino, una famiglia di contadini bianchi come la mia si sposta su grandi pickup di marche americane e indossa stivali e cappelli da cowboy. Nella realtà, qualche volta è così, molte altre no. Così a me è successo di seguire gli animali o lavorare nei campi con indosso le scarpe da tennis comprate da WalMart o di guidare per anni una piccola macchina giapponese a gas per risparmiare sui lunghi tragitti che ero costretta a fare per raggiungere la scuola o il supermercato più vicino. Allo stesso modo, anche l’immagine politica di chi vive nelle campagne che viene offerta d’abitudine è troppo semplicistica. Conosco molti bianchi della classe operaia provenienti da ambienti agricoli, inclusa la mia famiglia, che disprezzano Trump e difendono con forza le idee progressiste. In passato a casa mia si è votato per Carter come per Reagan.

Lei viene da una famiglia nella quale ci sono almeno tre generazioni di madri adolescenti, le cui vite sono state decise da queste gravidanze in giovane età. Un contesto che è allorigine della sua scelta di non avere figli da giovane. Nelle zone rurali sono le donne, per quanto coraggio e determinazione possiedano, a pagare il prezzo maggiore? 
Senza dubbio. Per la mia esperienza, in questo ambiente essere donne e essere povere ha sempre rappresentato un doppio svantaggio. E lo è ancor di più per chi è madre già a 15 o 16 anni. Per le risorse di tempo e denaro che i bambini richiedono. Sono sfide che si intrecciano e rendono la vita ancor più precaria di quanto già non lo sia in queste famiglie: essere poveri rende la maternità più difficile e essere madre rende più difficile la povertà.

Un altro suo libro è dedicato a Dolly Parton, cresciuta in una fattoria di agricoltori poveri del Tennessee e che ha cantato le vite difficili di molte donne bianche della classe lavoratrice. Ai suoi occhi Parton sembra incarnare un volto inedito del femminismo. Vale a dire? 
Sono stata allevata da donne che, proprio come Dolly Parton sono intelligenti e forti ma non hanno ricevuto molta educazione formale. Spesso la nostra discussione sul femminismo è accademica ed esclusiva, incentrata sulle donne istruite e attiviste. Ma negli Stati Uniti le strutture economiche sono così soffocanti che le donne della mia famiglia non potrebbero permettersi di partecipare ad una manifestazione anche se lo volessero. Devono lavorare o non hanno assistenza per i loro figli, qualcuno che le possa sostituire. Eppure, quelle donne della working class sono in qualche modo delle femministe esemplari per il modo in cui vivono le loro vite, lottando ogni giorno per la propria indipendenza e rivendicando le proprie scelte. Allo stesso modo, Dolly Parton non fa dichiarazioni politiche esplicite, ma incarna fino in fondo i principi del femminismo imponendo il proprio punto di vista, la propria autonomia e l’autorevolezza del proprio percorso.


(il manifesto, 18 febbraio 2021)

di Valeria Fieramonte


Proponiamo la testimonianza di Valeria Fieramonte su Laura Conti (1921-1993), pubblicata in Marina Santini e Luciana Tavernini (a cura di), Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova, 2015, p. 100). Valeria Fieramonte, giornalista scientifica che ha conosciuto profondamente Laura Conti, ha appena pubblicato La via di Laura Conti. Ecologia, politica e cultura a servizio della democrazia (Società per l’enciclopedia delle donne, Milano, 2021), una biografia amorosa in cui ne narra la vita dall’infanzia al campo di concentramento di Bolzano, dall’impegno politico alle scoperte e al lavoro di medica e divulgatrice. Una biografia che dà ampio spazio ai contributi scientifici di Laura, confrontandoli con i più recenti studi. (Ndr)


Ho conosciuto Laura Conti alla fine degli anni Sessanta in una sezione del Partito Comunista Italiano: era la prima volta che mi capitava di ascoltare, in una sede politica, un approccio ai problemi basato sulla curiosità scientifica e su una grande massa di dati.

Mi lasciò subito un’impressione indelebile, rafforzata dal fatto che era circondata da un’aura di prestigio e stima palpabili: nel PCI di quegli anni non era ancora andata persa la memoria emotiva del periodo di guerra e lei era portata in palmo di mano come tutte le partigiane. Era molto bella coi suoi capelli biondo ramati e gli occhi azzurri e, forse per questo, durante la Resistenza, le avevano assegnato il compito di “adescare” repubblichini per convincerli a disertare dalla Repubblica di Salò.

Era molto umana, caustica, anticonformista, anticipatrice. È stata una scienziata atipica: al ritorno dal campo di concentramento di Bolzano ha fatto dell’impegno politico la sua principale scelta di vita. Era capace di opporsi, da sola, a mozioni di interi consigli regionali perché infarcite di errori scientifici, come avvenne per Seveso, ma ben lontana dal mitizzare gli ambienti scientifici e fortemente critica dei legami tra scienza e potere. Prima di altri ha saputo intuire l’importanza delle tematiche ambientali, tanto da fondare la Lega per l’Ambiente, oggi Legambiente, senza tuttavia indulgere a estremismi. Una volta gli animalisti minacciarono di assaltarle la casa per i suoi “reati di opinione”.

Laura divenne nota al grande pubblico dopo lo scoppio dell’ICMESA, il 10 luglio del 1976. La sua fu una battaglia appassionata e senza tregua, su come esperti, autorità politiche e militari avrebbero dovuto trattare i disastri ambientali. Il suo libro Visto da Seveso è un “discorso sul metodo”, un tentativo, rimasto largamente inascoltato. Come faceva sempre, ai saggi politici o scientifici accompagnava romanzi, dove poteva meglio mostrare le emozioni e la sua grande ricchezza percettiva. Nel caso di Seveso il romanzo è Una lepre con la faccia di bambina. La metafora della lepre è legata al labbro leporino, la più evidente malformazione da diossina. All’epoca il romanzo ebbe molto successo, e lo meritava.

Fondamentale fu la sua polemica con la Commissione Medico Epidemiologica. Il documento sulla valutazione del rischio da diossina in gravidanza non considerava il danno della diossina al fegato e ai reni della madre, come se una donna gravida fosse soltanto un’incubatrice e non una persona con la salute da salvaguardare, una fattrice che impazzisce se il prodotto del concepimento non riesce bene, ma indifferente ai propri rischi. Per Laura Conti ogni regolamentazione legislativa che non riconosca la facoltà delle donne di decidere in merito all’accettazione della maternità, crea situazioni drammatiche e talvolta indecorose.

Laura non era soltanto una divulgatrice, rielaborava costantemente e studiava tematiche biologiche, apportando un suo contributo originale di grandissima lungimiranza. Era a tutti gli effetti anche una biologa teorica e aveva capito già allora l’importanza fondamentale del contrasto all’inquinamento dell’aria.

È morta nel 1993.


(www.libreriadelledonne.it,11 febbraio 2021)

di Vittoria Longoni


Una nuova frontiera del fare storia tra e per le donne, e in fondo un allargamento di prospettiva per tutti, si affaccia con questo libro, col suo bel titolo e una copertina elegante e sobria.

Una modalità di indagine e di relazione che non si pretende esaustiva, ma consapevolmente propone alla ricerca storica (nell’accezione più ampia possibile) e alla comunicazione tra donne una prospettiva nuova; accanto e oltre il paradigma sociale, che non viene però accantonato.

La spirale del tempo evoca fin dal titolo la possibilità di una circolazione viva tra passato e presente: schegge, figure, fatti, momenti e persone del passato si ripresentano, ogni volta rivisitati, resi nuovi, potenzialmente riscattati o ricompresi e riscritti.

Leggiamo storie di donne che partono da un proprio nodo interiore per analizzarlo insieme e per riattraversare, mediante la relazione, la propria storia e contemporaneamente quella del mondo. Sono spesso storie di un dolore che chiede di avere parola e significato, figure di madri e di nonne che aspettano di tornare viventi nella memoria e nel racconto per trasmettere messaggi a figlie e nipoti, per riproporre parti di sé e della propria vicenda che erano state taciute e trascurate, prospettive lasciate fuori dallo sguardo e dall’emozione.

La storia in tutte le sue accezioni torna a essere viva e si gioca nel presente; diventa elemento di trasformazione del passato e del presente perché si modifica lo sguardo, perché la relazione tra le donne la fa cambiare di segno e di senso nl momento stesso in cui viene riproposta.

Vi leggiamo passaggi di tipo “autobiografico”, ma il termine risulta molto inadeguato, perché questo libro propone una pratica di autonarrazione e di autocoscienza che passa attraverso un metodo rigoroso di ascolto reciproco di sé e dell’altra.

Accanto a questi temi, e inscindibilmente connessi con essi, troviamo nel libro momenti di riflessione teorica e metodologica: di Marirì Martinengo, di Laura Minguzzi, di Luciana Tavernini, di Marina Santini, di María Milagros Rivera Garretas.

Un modo nuovo di sentire e fare storia, e insieme un modo nuovo di scoprirsi e di dirsi.

Accogliamo con piacere la nuova esperienza della Comunità di storia vivente di Milano, che si è già diffusa in parecchie città con gruppi analoghi e ha dato vita a incontri e momenti di ascolto reciproco.

Esse allargano in più dimensioni il nostro modo di intendere, sentire e praticare la storia.


Ps. Il libro è in vendita alla Libreria delle donne


(www.casadonnemilano.it, 5 febbraio 2021).

di Crocifisso Dentello


È uscito il carteggio della scrittrice americana, famosa solo per le sorelle March, ma per nulla romantica: “Uso la testa come un ariete da guerra: la libertà è il miglior sposo”


Louisa May Alcott ha scritto diversi libri nei suoi 66 anni di vita (1832-1888) ma resta inchiodata nell’immaginario collettivo a una sola sua opera: Piccole donne. Un classico della letteratura per l’infanzia tanto celebre da rendere via via superfluo il nome della sua stessa autrice.

GENERAZIONI DI LETTRICI e di lettori, conquistati dalle vicissitudini delle quattro sorelle March, sono finiti loro malgrado col prestare fede a ciò che Jean-Paul Sartre scrisse recensendo un romanzo di William Faulkner: “I buoni romanzi finiscono per somigliare moltissimo ai fenomeni naturali; si dimentica il loro autore, li si accetta come pietre o alberi, perché ci sono, perché esistono”.

Dietro la saga di Piccole donne – il primo dei quattro volumi è stato pubblicato nel 1868 e da allora non si contano più i milioni di copie vendute e gli svariati adattamenti cinematografici – si nasconde un’artista americana vissuta nell’Ottocento che vale la pena scoprire. L’orma manda in libreria Le nostre teste audaci, epistolario inedito curato da Elena Vozzi, che offre appunto la preziosa occasione di restituire voce corpo identità a un nome su una copertina.

ALCOTT, NATA nel cuore della Pennsylvania da padre filosofo autodidatta e madre suffragetta, non ha nulla a che spartire con una certa idea romantica della letteratura. Da queste venti lettere ci viene incontro una scrittrice ancorata a una concretezza tale da dire di sé: “L’ispirazione dovuta alla necessità di guadagnare è tutto ciò che ho, ed è un aiutante più fidato di qualsiasi altro”. O ancora, in una missiva datata Natale 1878: “Per me il vero successo è riuscire a dare serenità alla mia cara madre nei suoi ultimi anni di vita e potermi prendere cura della mia famiglia. Tutto il resto viene presto a noia”.

La ribalta inattesa e clamorosa che le procura la storia “natalizia” di Meg, Jo, Beth e Amy – bollata dalla stessa Alcott come “il primo uovo d’oro del brutto anatroccolo” – non serve a solleticare la sua vanagloria ma a rendere giustizia a una storia familiare funestata da avversità finanziarie. Basta soffermarsi sulle righe che indirizza alla sorella Anna nella primavera del 1854: “Sgobbo come al solito, cercando di mettere da parte abbastanza denaro per comprare alla Mamma un bello scialle caldo… Vorrei solo essere capace di guadagnare, fosse pure a costo di infiniti pianti e nostalgia”.

AL PADRE, il 28 novembre 1855, in occasione del compleanno, dedica parole commosse: “Carissimo papà, senza altri regali da offrirti oltre al mio cuore colmo d’affetto”. Sempre rivolta al padre mette nero su bianco propositi di rivalsa: “Sto provando a spremere qualche soldo dalle mie meningi… Userò la mia testa come un ariete da guerra e mi farò strada nella mischia di questo pazzo mondo”.

Emerge il profilo di una donna impegnata a strappare al destino un’emancipazione in grado di affrancarla non solo dal bisogno ma dalla morale del suo tempo. Del resto, bastano le pagine di Piccole donne a certificarlo e in particolare il personaggio di Jo, la sorella più ribelle irrequieta coraggiosa. “Io sono Jo nella maggior parte dei suoi tratti caratteriali”, confessa la stessa Alcott in una missiva del 7 agosto 1875 a una traduttrice olandese.

PRIMA DI DEDICARSI alla scrittura (“Scrivo sempre di mattina. Mi serve una cosa sola, il silenzio”) la sua biografia è scandita dalle mansioni più disparate: domestica, sarta, attrice, insegnante. Fu infermiera volontaria durante la guerra di Secessione nella volontà di essere dentro i fatti del mondo, di catturare dalla vita tutto ciò che la società organizzata sembrava precludere alle donne. La sua letteratura scende per le strade, attinge al suo privato: “I personaggi sono ispirati alla vita reale, alla quale si deve qualunque merito essi abbiano, poiché mi sarebbe del tutto impossibile inventare nulla di autentico ignorando anche solo la metà dei meri eventi che la vita mi mette davanti ogni giorno”.

UNA SUA FRASE è rivelatrice e insieme una temeraria dichiarazione di guerra contro la prigione di una certa condizione femminile: “Per molte di noi la libertà è un marito migliore dell’amore”.


(Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2021)



“L’editore mi chiede di maritare Jo Peccato: stava meglio da zitella”

di Louisa May Alcott


Cara signorina Powell, il fatto che le mie sciocche Piccole donne siano state ammesse nel suo college mi onora profondamente, e spero proprio che si comportino bene in un ambiente così erudito, considerato che le poverine non hanno goduto di molti privilegi e sono piuttosto ritrose, come la loro mamma. La prego di impiegarle come meglio crede per la cura del mal di testa o di qualunque altro malanno possano alleviare, non riuscendo a immaginare impiego più nobile per il mio libretto. Il seguito uscirà ad aprile, e come tutti i seguiti probabilmente deluderà o disgusterà buona parte del suo pubblico, perché gli editori non vogliono saperne di lasciare a chi scrive la libertà di decidere in autonomia il finale di una storia, al contrario insistono perché venga infarcito di matrimoni un tanto al chilo, e io ancora non so bene come darmi pace. Jo sarebbe dovuta rimanere una zitella devota alla letteratura, ma sono stata sommersa da talmente tante lettere di giovani lettrici che mi pregavano entusiaste di farle sposare Laurie, o comunque di farla maritare, che non ho avuto il coraggio di rifiutarmi. Alla fine, non senza una punta di perversione, le ho combinato un matrimonio assai bizzarro. Mi aspetto di essere coperta di insulti, ma devo ammettere che la prospettiva mi diverte abbastanza.


20 marzo 1869


Mentre da altre città giungono le cronache delle prime esperienze delle donne ai seggi, eccovi quella di Concord… Ventotto donne erano intenzionate a votare, ma a causa di alcune pratiche burocratiche diversi nomi non sono potuti entrare. Tre o quattro di loro sono state trattenute a casa dai doveri famigliari e non si sono sottratte alle incombenze domestiche per correre ai seggi. Venti donne, tuttavia, erano lì, alcune da sole, la maggior parte in compagnia di mariti, padri o fratelli; tutte di buonumore e nient’affatto intimidite dalla memorabile impresa che stavano per compiere… Nessun fulmine è caduto sulle nostre teste audaci, nessun terremoto ha scosso la città, ma appena eravamo tornate a sedere una piacevole sorpresa ha creato un diffuso scoppio di risate e applausi quando, dopo che avevano votato le donne e prima che avesse votato un singolo uomo, il giudice Hoar ha proposto di chiudere i seggi… La decisione ci è parsa perfettamente equa, considerato che noi non avevamo voce in capitolo in nessun’altra questione all’ordine del giorno… Ma ormai abbiamo rotto il ghiaccio, e prevedo che l’anno prossimo i nostri ranghi saranno più nutriti, e quando anche le più timide o indifferenti vedranno che siamo sopravvissute all’impresa, potranno azzardarsi a esprimere pubblicamente le loro opinioni.


30 marzo 1880


(Il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2021)

di Alessandra Pigliaru


Tra narrazione, graphic novel e memoir. Un percorso di libri che indagano la violenza maschile contro le donne


Quanto l’attuale pandemia abbia inciso nelle vite delle donne, in particolare quelle che stanno affrontando un percorso di fuoriuscita dalla violenza o intendono cominciarlo, risulta dalle testimonianze e dai dati forniti dai centri antiviolenza. 
Fenomeno che non ha niente a che vedere con l’emergenza, l’esacerbarsi della violenza maschile si configura, nella riflessione più lunga del femminismo e della politica delle donne, di tutto ciò che in questi anni viene portato avanti quotidianamente. Anche per queste ragioni è importante leggere il libro edito da Donzelli a firma di Lella Palladino. Si intitola Non è un destino (pp. 232, euro 14) e chi lo ha composto è figura centrale e autorevole nel vasto panorama dei centri antiviolenza e della pratica politica femminista che li sostanzia.

Sociologa e già presidente della rete Di.Re., Palladino rammenta di quanto tenace e interdisciplinare sia il lavoro che viene portato avanti da decenni anche in Italia; l’osservatorio di storie riportate nel volume restituisce corpo e presenza agli incontri diretti, soprattutto perché alla base vi è l’idea che «se è vero che anche la denuncia spesso non è sufficiente per salvarsi, avere a disposizione l’esperienza specialistica, la forza della sorellanza e una rete di supporto competente e sinergica può fare la differenza tra la vita e la morte».

Basterebbe leggere ciò che riferiscono le cronache delle ultime settimane per comprendere quanto ciò che cerca di veicolare Lella Palladino sia tanto prezioso quanto definitivo da assumere, nella critica serrata che parte dalla lezione di Carla Lonzi alla «uguaglianza» e alla insufficienza delle politiche fondate sul mero riconoscimento della parità, insieme alla presa di coscienza che i centri antiviolenza siano dei luoghi della libertà femminile. Francesca, Vittoria, Lia, molti sono i nomi che compaiono nel quadro tracciato da Palladino, dietro ogni numero che entra nelle statistiche stilate ogni anno ci sono esistenze da ricostruire, connessioni da ricreare.

Ne è convinta anche Rossana Carturan che nel suo romanzo breve Marinella (pubblicato in formato ebook dalle edizioni All Around in collaborazione con la Casa internazionale delle Donne di Roma, euro 4,99) ci consegna la vicenda di una «piccola storia ignobile», come recita il sottotitolo. A costeggiare la biografia della ragazzina protagonista, Marinella, rimasta cieca all’età di dieci anni a causa della reiterata violenza del proprio padre, ci sono due città come Bologna – negli anni della strage – insieme alla storia di una ricerca di riscatto e riparazione lontano da Napoli. Anche qui la vicinanza con le proprie simili, dalle insegnanti alle compagne di classe, darà struttura e sostegno alla parabola di liberazione.

Raccontare una età incandescente, come quella della prima adolescenza, acquista contorni altrettanto urgenti verso un altro aspetto della violenza contro le donne, spesso giovani, che migrano per l’impossibilità di vivere nel proprio paese di origine e incontrano il fenomeno della tratta. Del tema si occupa, con delicatezza e misura, il progetto editoriale Faith (Epoké, pp. 40, euro 15), curato da Rossana Calbi; si tratta di un albo illustrato da Marta Bianchi, psicologa, e scritto da Andreina Bochicchio, avvocata. Ci sono i colori del mare di notte, a dipingere la traversata che da Benin City in Nigeria, la tredicenne Faith, intraprende per arrivare in Italia. I testi sono sincopati e a tratti lirici, carichi dello sfinimento di sapersi definitivamente in mano di uno sfruttamento. 
Tre libri diversi, per struttura e stile, eppure con la medesima intenzione politica: quella di fare della forza femminile qualcosa capace di trasformare la realtà se ci si allea ad altre donne.


(il manifesto, 21 gennaio 2021)

di Maria Rosa Cutrufelli


Come debellare la «cultura barbuta» dei nostri compagni?, si chiedeva Maria Giudice, all’inizio del Novecento. Maria Giudice, una delle prime sindacaliste italiane, al Congresso di Livorno c’era, anche se poi scelse un’altra strada. Ma bisogna dire che le donne del partito comunista, in seguito, hanno ripreso proprio quel suo vecchio interrogativo. A fasi alterne e in modi diversi, però non l’hanno accantonato e talvolta, anzi, l’hanno fatto diventare un nodo politico. Da sciogliere, se necessario, anche tramite un conflitto. Le tracce di questo scontro si possono trovare facilmente negli archivi storici, che raccolgono l’immenso materiale prodotto dalle commissioni e dalle sezioni femminili del Pci. Ma sono soprattutto le testimonianze, le memorie, i racconti di vita, che ci restituiscono il senso profondo di quella battaglia e la passione con cui le donne l’hanno vissuta, dentro il partito e fuori. Vale la pena leggerli, questi racconti, perché trasmettono un entusiasmo contagioso (positivamente contagioso, al contrario del Covid). E di questi tempi l’entusiasmo è sentimento raro, da tenere ben stretto quando capita d’incontrarlo. Non succede spesso, a dire il vero.

Soprattutto quando l’industria editoriale, in occasione di anniversari o ricorrenze, sforna un libro dopo l’altro, senza troppo sottilizzare. Ma per fortuna ci sono le vecchie edizioni, i vecchi cataloghi. Basta avere un po’ di pazienza per scoprire un racconto capace di emozionarti e di farti sentire la voce delle donne che cercano, attraverso la politica, di uscire da un’antica zona d’ombra. «Compagne incarnate», le chiama Concetta La Ferla, protagonista assoluta di un prezioso libro di Maria Attanasio (Di Concetta e le sue donne, Sellerio 2000).

Un libro che è al tempo stesso autobiografia e biografia, dialogo costante con l’altra-da-sé, rievocazione di un’epoca e di una storia. La memoria qui si fa grande scrittura e, partendo da un frammento della realtà, ricostruisce un mondo intero: il mondo della militanza comunista, narrato da un punto di vista femminile. Da donne che confessano di sentirsi «accubare», soffocare, in questo tempo attuale senza politica: «come se ci mancasse l’aria». Per la verità Maria Attanasio non vorrebbe scriverlo, questo libro. È Concetta La Ferla, «tardocapopolo e protofemminista», a convincerla. «I libri e le parole servono come le piccole lumiere che fanno un po’ di luce quand’è scuro», le dice.

I libri, ragiona Concetta, non sono la luce, ma aiutano a ricordare le vittorie (e i dolori) del passato alle nuove generazioni, che «camminano e non sanno» e inoltre mangiano con «il piatto impiattato», ossia già pronto in tavola. Maria Attanasio l’ascolta, ma poi esita, tentenna, riesce perfino a perdere gli appunti. E’ troppo forte il coinvolgimento: c’è anche lei, c’è il suo passato, c’è la sua militanza dentro la biografia di Concetta.

Infine si chiede: ma è proprio necessario «fingere un’ipocrita oggettività»? La memoria non è tanto più forte quanto più condivisa? Emotivamente condivisa. Ed ecco nascere questo libro che, proprio come una piccola lumiera, getta un fascio di luce sopra un episodio che certi storici considererebbero senz’altro minore. Ma minore non è, anche se si svolge nella provincia siciliana, a Caltagirone, e ha al suo centro una battaglia che può sembrare di scarsa rilevanza: l’apertura di una sezione femminile nel Pci locale. Un fatto, si direbbe, organizzativo. Nulla di più. E invece all’epoca, verso la fine degli anni Sessanta, provocò una specie di terremoto nel partito e una reazione maschile scomposta e vendicativa. In un certo senso, fu la dimostrazione che Maria Giudice, in quel lontano 1921, aveva visto giusto: una cultura barbuta non può che produrre una politica barbuta. Eppure Concetta non è certo un’infiltrata. E’ anzi di schietta discendenza comunista: «Quando mio padre mi fece – era nel trenta – di sicuro quella notte pensava alla bandiera rossa. E nacqui io». In più, ha al suo attivo un impegno costante nel partito: ha organizzato la battaglia per l’acqua (e l’ha vinta), quella per la luce elettrica e per la fognatura.

Mobilitando, ogni volta, le donne. Ed è proprio questa sua esperienza a farle venire in mente l’idea di una sezione «delle» donne, dove ritrovarsi senza suscitare troppe chiacchiere nel vicinato. Ma a questo punto scoppia l’inferno. I compagni, racconta Concetta, ci dicevano che «per la nostra superbia di donne volevamo rovinare un partito: la sezione femminile, maimai; doveva essere bloccata sul nascere. E successe un parapiglio di riunioni, di attacchi e contrattacchi». Concetta ormai, per i suoi stessi compagni, è la pazza. O la buttana (come le sue seguaci, che erano molte e altrettanto determinate).

Alla fine, malgrado l’opposizione dei dirigenti locali, la sezione si fa. Anche se dura soltanto due anni e se prende il nome di «Lenin» e non di «Rosa Luxemburg», come volevano le donne. Un punto, quest’ultimo, molto significativo, perché ci dice cosa era davvero in gioco in quella battaglia: un potere simbolico. E Concetta ne è assolutamente consapevole. «Quando mi toccavano l’autonomia delle donne», confessa, «io perdevo il controllo mentale della situazione. Si arrivava alle mani».

Anche Miriam Mafai, nella prefazione a un altro delizioso libretto del 1992 (Vera Pegna, Tempo di lupi e di comunisti, La Luna edizioni), sottolinea la capacità delle donne di cogliere, nei loro racconti, «alcuni particolari che assumono una forza quasi simbolica». In Tempo di lupi e di comunisti, Vera Pegna ripercorre la sua esperienza di giovane militante mandata a costruire il partito a Caccamo: un paese di mafia, «dove non ci vuole andare nessuno». Un’autobiografia che fa riflettere, ma anche sorridere. Indimenticabile il vecchio segretario di sezione che accoglie la giovane indossando una fascia tricolore con la scritta «Il segretario» ricamata in lettere d’oro. Indimenticabili le reazioni perplesse dei compagni, di fronte alla giovane donna (per di più forestiera) che dovrebbe dirigerli. Ma anche se Vera non riesce nel suo intento e dunque la sua, come ricorda Miriam Mafai, «non è una storia a lieto fine», però un risultato l’ottiene. Perché a Caccamo c’era l’abitudine, durante le sedute del consiglio comunale, di far sedere in una grande poltrona accanto al sindaco il capo-mafia locale. E Vera dà battaglia e riesce a togliergli la poltrona.

Un risultato, per l’appunto, di grande forza simbolica. Come il cambiamento innescato da Concetta La Ferla e dalla sua «eresia» politica. «La nostra battaglia», riconosce a un certo punto la proto-femminista di Caltagirone, «non ha portato il socialismo, però ha cambiato il modo di pensare, e senza modo di pensare non c’è vittoria rivoluzionaria». Non per niente, aggiunge poi con orgoglio, il nostro è stato «uno sperimento nazionale»!


il manifesto, 21 gennaio 2021


Maria Attanasio presenterà il suo ultimo libro “Lo splendore del niente e altre storie” sabato 30 gennaio 2021, alle ore 18.00 all’incontro zoom organizzato dalla Libreria delle donne: https://www.libreriadelledonne.it/incontri_circolodellarosa/lo-splendore-del-niente/

di Manuela Perrone


Omero è vecchio, la testa china, le spalle curve. Ha gli occhi chiusi. «Cantami, o musa», dice con voce risoluta. Ma lei, Calliope, la musa che invoca, mica è dell’umore giusto. Con tutti quegli uomini a pretendere la sua attenzione, con tutti quei poeti che pensano solo a se stessi, con tutto quello che di epico è già stato raccontato: guerre, città assediate, villaggi distrutti, viaggi, naufragi. E allora canta, sì, ma la parte nascosta della storia della guerra di Troia: le donne. «Gli sto offrendo la possibilità di vedere la guerra da entrambi i lati». Gli sta aprendo gli occhi.

Arriva in libreria il 21 gennaio per Sonzogno “Il canto di Calliope” di Natalie Haynes, tradotto da Monica Capuani. Leggendolo, non si fa fatica a capire perché sia stato inserito nella shortlist del Women’s Prize for Fiction 2020 né perché sia stato segnalato tra i migliori libri del 2019 da The Guardian e The Times. È una rivisitazione letteralmente rivoluzionaria della guerra di Troia, se per rivoluzione intendiamo il grido dove prima c’era silenzio. Contro il silenzio delle donne e sulle donne, Haynes-Calliope si prende la rivincita. E snocciola a Omero i vissuti che erano rimasti ai

margini, le eroine mai considerate quanto gli eroi, i tormenti delle troiane e delle greche, delle umane e delle dee. Se il poeta si lagna («Devono proprio morire tutti?»), la musa si arrabbia: «Le morti degli uomini sono epiche, le morti delle donne sono tragiche: è questo il problema?».

Sfilano nelle pagine Creusa, la regina Ecuba, Polissena, Andromaca, Teano, l’amazzone Pentesilea, la turbolenta Criseide e la magnifica Briseide, esistenze funestate da lutti e abbandoni. «Quando finisce una guerra, gli uomini perdono la vita. Le donne perdono tutto il resto». Cassandra, sulla spiaggia dove attendono il loro destino di schiave, trema «per la voglia di gridare che lei l’aveva detto cento, mille, diecimila volte. E che nessuno di loro era mai stato a sentirla, neanche per un istante»: vedere il futuro è la sua maledizione, la condanna a una solitudine straziante. Ecuba accusa Elena: la colpa è tutta sua, che da donna sposata non ha respinto suo figlio Paride. Anche «Paride era un uomo sposato», replica Elena.

«Perché tutti se ne dimenticano sempre?». L’intramontabile “due pesi, due misure” e l’altrettanto intramontabile “Eva contro Eva”: le donne non si perdonano neppure un’unghia di quello che perdonano agli uomini.

C’è da capirle. Non esiste chi non si racconta: niente specchi, niente identità, nessuna genealogia. Quale complicità è mai possibile? Scrive Penelope nelle sue lettere senza risposta a Ulisse: «Tutti i poeti cantano il coraggio degli eroi e la grandezza delle vostre imprese: è uno dei pochi elementi della vostra storia su cui sono concordi. Ma nessuno canta il coraggio richiesto a quelle di noi che sono state lasciate a casa». Ed è una realtà distorta quella raccontata a metà. Calliope rimbrotta Omero: o il poeta tiene conto e racconta anche il dolore delle donne «che sono sempre state relegate ai margini della storia, vittime degli uomini, scampate agli uomini, schiave degli uomini» oppure «non racconterà un bel niente». Hanno aspettato il loro turno anche troppo, le donne. E perché? «Perché troppi uomini continuano a raccontarsi tra di loro le storie di altri uomini».

Ribalta la prospettiva unica del maschile ricorrendo alla polifonia del femminile anche Marilù Oliva con «L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre» (Solferino). Ulisse è l’oggetto del racconto, le donne della sua avventura sono il soggetto. Il tema non è il viaggio di un uomo, ma le relazioni che lo costellano e ne scandiscono le tappe. La dea ex machina è Atena, che ammette la sua predilezione per Ulisse e la sua stirpe e la sua preoccupazione per Telemaco: «Crescere tra gente tracotante non ti lascia scampo. Ti spezza le ossa». È Atena a incoraggiare padre e figlio a fare ciò che devono: la grande donna dietro i grandi uomini. Ma è Penelope la vera roccia, il fulcro intorno al quale ruota il mondo: «Quanto a solidità, l’ho costruita in gran parte da sola, come capita sovente a noi donne. Ho cresciuto mio figlio, ho cercato di governare con giudizio, di tenere conto delle voci degli anziani». Non è in questa cura del futuro e del passato la straordinaria differenza del potere femminile?

Se la forza del libro di Oliva è l’estrema perizia filologica e la fedeltà al testo originale dell’Odissea, di cui ha cambiato soltanto l’impianto narrativo iniziale, elementi che rendono ancora più potente la riscrittura dalla parte delle donne, “Il silenzio delle ragazze” di Pat Barker (Einaudi), tradotto da Carla Palmieri, tenta un’operazione diversa: restituire l’orrore delle violenze dell’Iliade dando voce al non detto, rivelando la realtà offuscata dall’epica. L’incipit suona come un manifesto: «Il grande Achille. Il luminoso, splendido Achille; Achille simile a un Dio. Montagne di epiteti che le nostre labbra non hanno mai pronunciato. Per noi era solo un macellaio». Sono stati gli uomini a tessere le lodi degli eroi, le donne nel mito non hanno avuto parola.

Barker fa allora parlare Briseide, in tutta la sua complessità: lucida, chirurgica. I massacri e i saccheggi non sono nobilitati, men che mai gli stupri. La schiavitù è schiavitù, senza infingimenti. La prima notte con Achille è una violenza piatta e frettolosa. «Mi provò», dice Briseide, come avrebbe provato un’armatura se il suo premio fosse stato quello. Le 344 pagine del romanzo spostano sul margine e dal margine il punto di vista sulle gesta degli eroi greci: è così che vediamo «la curiosa mescolanza tra ricchezza e squallore», il sesso smisurato e bestiale «ma privo di tenerezza», il modo in cui ogni donna – oggetto, premio, sfogo – «cercava di resistere a suo modo», l’intimità forzosa che Briseide costruisce con Achille, il responsabile del massacro di suo marito e dei suoi quattro fratelli, la terribile morte di Astianatte e quella di Polissena, con uno squarcio nella gola. Riflette Briseide quando cerca di dare degna sepoltura al cadavere: «Dava l’impressione che avesse due bocche, entrambe silenziose. Alle donne si addice il silenzio…». L’unica via di Briseide per uscire dalla storia di Achille è prendere parola, levare la sua voce. Ma non si può chiudere il cerchio senza tornare a Elena. Ne “Il canto di Calliope” Haynes fa dire a chi la guarda che «c’era qualcosa di non umano nei suoi capelli dorati, nella pelle trasparente, negli occhi scuri, nei vestiti scintillanti. Era difficile descriverla quando non era presente, come se lo sguardo non potesse trattenere il ricordo di una simile perfezione». In “Elena di Sparta” Loreta Minutilli (Baldini+Castoldi) dà la parola proprio a lei, la più odiata, l’origine della guerra. «Il conflitto esiste da quando esisto io», esordisce. E non si riferisce soltanto a Troia, ma all’eterno sconquasso che provoca la bellezza femminile, un potere che spesso le donne non sanno gestire e che le altre non sanno riconoscere.

Con una lingua scarna, senza fronzoli, Minutilli descrive la prigione del corpo, persino quando è perfetto, anzi forse ancora più soffocante. «Ero tutta corpo, esattamente come mi avevano voluta», ricorda Elena della sua giovinezza. «L’unica mia consapevolezza era il mio corpo, non sapevo fare nulla, il mio cervello era quello di una mosca». Accudire le sue forme l’unica competenza, l’aspetto fisico unico metro con cui è capace di giudicare le altre. «D’altra parte, nessuno aveva mai dato mostra di trovare altre qualità in me».

La bellezza è un elisir di salvezza in un mondo di uomini, ma non le risparmia le loro violenze né la solitudine, l’invidia e il disprezzo delle donne. Nella narrazione di Minutilli, Elena accetta di seguire Paride incantata da un sogno di liberazione, mossa dalla curiosità dell’«inimmaginabile libertà che avrei avuto a Troia, la mitica città senza ginecei». «Volevo scegliere, volevo rischiare», dice. Non per passione, ma per «una forza tanto più viva e tanto più fredda: quella della mia mente». Muoversi dalla periferia al centro della storia, autodeterminarsi. Il prezzo sarà enorme: è questa la colpa delle donne che il mito tramanda di generazione in generazione? «Era l’unico modo perché tutti vedessero che ero una persona», confessa Elena a Menelao. L’unica possibilità per viaggiare, «per provare l’altra metà della vita». Forse, alla fine, riusciamo a perdonarla. E a perdonarci.


(ilsole24ore.com, 17 gennaio 2021)

di Doranna Lupi


Maddalena e le altre. La Chiesa, le donne, i ministeri, nel vissuto di una storia (2020) è il titolo del libro in cui la comunità cristiana di base di S. Paolo di Roma ha scelto di raccontare la propria storia, nella convinzione che possa indicare percorsi, anche inediti, alle ipotetiche future protagoniste e protagonisti di una rivoluzione copernicana che sicuramente arriverà nella Chiesa. Con questo sguardo fiducioso e aperto al cambiamento hanno scritto un testo non accademico, nonostante il supporto di un grande patrimonio di letture e scambi, che però dice l’essenziale sul tema annunciato nel sottotitolo. Poche pagine, che mettono bene a fuoco la fecondità di una storia incarnata in una comunità cristiana dove il seme della libertà femminile è germogliato in pratiche di vita ecclesiale trasformative.

Per le sorelle e i fratelli della comunità i contenuti della loro storia sono sempre stati un’esperienza viva, a contatto con gli eventi e le circostanze del momento. Intrecciando la storia delle donne nella Chiesa e il percorso femminista al vissuto della comunità, hanno narrato una storia che parla al presente, perché racconta una rivoluzione ancora in atto, che non riguarda solo le donne, bensì uomini e donne per un profondo cambiamento epocale, «una mutazione antropologica in corso», come scrisse J. Kristeva (p. 43).

La forza di questo racconto sta proprio nel fatto che Maddalena e le altre donne che hanno accompagnato Gesù in Galilea, dando poi inizio all’annuncio evangelico nelle prime comunità cristiane, sono le testimoni di un vissuto autentico delle origini, che è tornato a essere realtà concreta in alcune comunità post conciliari, grazie al desiderio delle donne e all’intrinseca verità e autenticità di questa proposta.

In origine, spiegano le autrici e gli autori del libro, il rapporto di Gesù con le donne apre uno squarcio imprevisto e scandaloso nel sistema patriarcale, costretto in seguito a spendere moltissime energie per ricucire lo strappo e ricondurre le donne al “loro posto”. E così quasi tutte le Chiese, a suon di anatemi, repressioni, dogmi e colti castelli teologici, hanno dimenticato il mandato di Gesù alla Maddalena che per prima lo vide risorto e alla quale egli affidò il compito dell’annuncio: “Va’ dai miei fratelli e di loro: io salgo al padre”. Così com’è stata rimossa la confessione cristologica di Marta per dare tutto lo spazio a quella di Pietro, su cui poggiano le fondamenta del Papato. Leggendo i Vangeli è evidente che molte donne hanno accompagnato Gesù fino alla fine, senza fuggire o rinnegarlo, e che furono le prime testimoni e annunciatrici della resurrezione. Fin dall’inizio, però, questo ha creato imbarazzo e resistenze. Nella prima lettera ai Corinzi Paolo scrive che, quando ha incontrato i capi della Chiesa di Gerusalemme, da loro ha ascoltato un racconto della Resurrezione in cui sono già sparite le donne, anche se egli stesso testimonia quanto fossero ancora presenti nelle prime comunità, partecipando attivamente ai vari ministeri. La reazione antifemminista nella Chiesa, dunque, non si fece attendere, mettendo in atto, con tutti i mezzi a disposizione, l’esclusione delle donne dal sacro.

Nonostante questo, le donne non si sono mai fatte completamente condizionare dalle dottrine e dai dogmi, mantenendo sempre un rapporto intimo e personale con il divino. Anche la devozione mariana si è piegata a questa esigenza, fino ad assumere la funzione di referente divino femminile, per dare una risposta al bisogno di una divinità in cui rispecchiarsi.

Il punto di forza su cui far leva, l’orientamento per ogni tentativo di ristabilire la loro liberà nella Chiesa, nel corso della storia è sempre stato, per le donne, il modello egualitario delle prime comunità cristiane. Nei secoli XI-XIII, in Europa, vedove, mistiche, beghine si raccolsero, come i cristiani delle prime generazioni, in case private e, senza alcuna consacrazione, si dedicarono alla preghiera, alle opere assistenziali, all’apostolato (p. 29). Alcune di loro, testimoniando un rapporto diretto con un divino differente, si spinsero fino a interpretare le Scritture fuori dalle intermediazioni clericali, come Margherita Porete, che fu messa al rogo dopo che furono bruciati i suoi scritti. Anche se hanno pagato tributi altissimi, la voce delle donne, nel corso della storia, non è mai stata tacitata del tutto e molte storiche hanno riportato alla luce una ricca genealogia femminile, che ci ha rafforzato nella nostra ricerca di identità.

Fino ad arrivare al femminismo cristiano di fine ‘800 con Elisa Salerno, che poneva a fondamento il Vangelo come l’unico testo che rispetta la dignità delle donne: per lei negare il riconoscimento della personalità e dell’integrità della donna significava volere il Vangelo soltanto per metà.

La radicalità del binomio Vangelo/Femminismo si è rivelata molto efficace nella storia: Gesù ha saputo ascoltare e riconoscere la profonda dimensione spirituale delle donne, e il femminismo ha rimesso in circolo voce e autorità, in una rete di relazioni femminili che ha dato loro molta forza.

Questo è quanto è successo anche nella comunità di base di S. Paolo, costituitasi nel settembre del 1973 attorno al proprio presbitero Giovanni Franzoni, Abate di S. Paolo fuori le Mura. Egli, in seguito alle sue posizioni contro il conservatorismo religioso e politico italiano, fu costretto dal Vaticano a dare le dimissioni. In seguito fu sospeso a divinis e poi ridotto allo stato laicale. Attorno a Franzoni, uomo di grande carisma, si aggregarono gruppi di laici, giovani uomini e donne provenienti dall’Azione Cattolica e dal mondo scout, per mettere in pratica gli stimoli suscitati dal Vaticano II e dal movimento del ’68.

Si avviò così una ricerca, radicata nella prassi concreta della comunità, sul senso più autentico dei sacramenti, alla luce del Vangelo. L’indagine sul significato profondo di Ordine (sacerdozio) ed Eucarestia guidò le sorelle e i fratelli alla scelta di celebrare comunitariamente l’Eucarestia, anche senza un presbitero di riferimento. Il principale avallo, però, lo dettero ancora una volta i Vangeli, dove si narra l’ultima cena descrivendola come un banchetto pasquale al quale, nello stesso modo in cui avviene ancora oggi nelle famiglie ebraiche, partecipa tutta la famiglia al completo. Questa cena, aperta ai dodici, accolse sicuramente anche le discepole che accompagnavano da tempo Gesù in Galilea. In quell’occasione Gesù non intese creare una casta sacerdotale maschile vietata alle donne, ma volle significare che chiunque avesse accettato il suo discepolato avrebbe dovuto – come lui – spezzare la propria vita per gli altri (p. 54).

In quel periodo di straordinario fermento ecclesiale, sociale e culturale, le donne della CdB di S. Paolo godevano nella comunità di una dimensione totalmente paritaria, ma erano ancora completamente immerse in una cultura maschilista che pretendeva di parlare a nome di tutti, uomini e donne (p. 47). Abitate da questa inquietudine giunsero al seminario nazionale delle CdB italiane “Le scomode figlie di Eva – Le CdB si interrogano sui percorsi di ricerca delle donne”, tenuto a Brescia nel 1988.

In quell’occasione, in cui anche io ero presente con le amiche del gruppo donne CdB di Pinerolo, nato nel 1986, durante la celebrazione eucaristica “per la prima volta mani di donna spezzarono il pane”, come riportò la stampa (p. 58).

L’efficacia simbolica di quel gesto eucaristico al femminile ebbe un forte influsso sui nostri percorsi successivi di donne delle CdB. Il pane spezzato e distribuito da mani di donne riconduceva al banchetto pasquale, alla naturalezza di gesti quotidiani condivisi sulla tavola in famiglia. Non c’era nulla di rivendicativo o provocatorio, bensì s’irradiò un forte desiderio di libertà femminile, che apriva possibilità inedite nell’espressione della propria differente ministerialità all’interno della Chiesa. Questo seminario fu uno spartiacque, non solo per le sorelle della comunità di S. Paolo, ma per tutte noi. Stavamo comprendendo di non voler più essere assimilate al mondo degli uomini. Cambiando il rapporto donna con donna acquisivamo indipendenza simbolica, cogliendo il nostro valore.

Le scomode figlie di Eva hanno poi fatto un grande lavoro di ricerca spirituale, di autocoscienza, di sperimentazione liturgica, di riflessione teologica condivisa con donne cattoliche e protestanti, attraverso il collegamento italiano dei gruppi donne delle comunità cristiane di base. Per questo motivo la mia lettura assume due prospettive diverse.

La prima è quella di chi ha condiviso questa esperienza e constata l’efficacia di un percorso che s’incarna nella vita di una comunità, trasformando anche gli uomini. Nella comunità di S. Paolo gli uomini hanno accettato di confrontarsi autenticamente con donne che hanno assunto questi criteri, comprendendo che era in gioco la libertà di tutti. Lo stesso Giovanni Franzoni ha seguito sempre con attenzione il percorso delle donne senza mai intromettersi nel loro cammino, adeguandosi nel linguaggio e condividendone sovente le intenzioni (p. 64). Altre comunità di base in Italia sono arrivate alla rottura o all’esclusione pur di non toccare il nocciolo della questione, che in un ambiente progressista come quello delle CdB non è certo l’uguaglianza tra i sessi, bensì rompere l’illusione patriarcale del maschile neutro universale come chiave di lettura omnicomprensiva, anche nel rapporto con il divino e con la teologia.

La seconda prospettiva è data dalla meraviglia per la puntualità a un appuntamento della storia con cui esce questa pubblicazione. Il libro mi è arrivato quasi contemporaneamente all’invito di partecipare all’incontro virtuale con la teologa francese Anne Soupa, che a maggio del 2020 ha proposto la sua candidatura alla diocesi di Lione, ponendo, con il suo gesto, all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale lo scandalo di una chiesa cattolica androcentrica. Sul tema del ruolo della donna nella Chiesa sono intervenuti molti papi, da Giovanni XXIII a Francesco, che hanno ribadito il no al sacerdozio femminile, anche se con toni “dolci” e “paterni” rispetto ai padri della Chiesa. Nonostante l’inserimento di donne, laiche e religiose, in posizioni di responsabilità, ancora non si è arrivati al pieno riconoscimento della figura femminile. Soupa ha avuto il sostegno di una campagna internazionale sostenuta dal Catholic Women’s Council (CWC), una rete che unisce a livello globale i diversi gruppi di cattoliche che lavorano per il pieno riconoscimento della dignità e dell’uguaglianza delle donne nella Chiesa cattolica.

Queste relazioni, fiorite anche a distanza in tempo di covid, ci consentiranno di condividere il nostro specifico di donne CdB, mostrando un desiderio concreto, che non si limita a interpretare il sacerdozio femminile come una questione di parità “sulle orme di quello maschile”, ma come espressione della necessità di mediazione femminile con Dio, che va interpretata con il senso libero della differenza sessuale.

Nel frattempo, a Roma, la comunità cristiana di base di S. Paolo ha sperimentato, nel corso di mezzo secolo, una “Chiesa altra”, nella quale uomini e donne, senza distinzione, spezzano il pane eucaristico in memoria di Gesù, onorando il suo mandato alla Maddalena. Non resta, secondo loro, che attendere una nuova Pentecoste, in cui un concilio di “madri” e “padri” cambi radicalmente teologie e prassi secolari della Chiesa cattolica, non più accettabili.


(Viottoli, dicembre 2020)

di Maria Tatsos


Tutti conoscono Mozart, ma pochi sanno che il genio della musica aveva anche una sorella, Maria Anna detta Nannerl. Una bambina prodigio, virtuosa del clavicembalo, insegnante e compositrice. Non sapremo mai se fosse talentuosa tanto quanto il fratello, o magari anche di più, perché a un certo punto della sua vita si sposa – come era prescritto a tutte le donne – ed esce di scena. Un destino femminile comune, che spiega perché la storia di quest’arte sia un lungo elenco di nomi maschili con poche, recenti presenze dell’altro sesso. Dilettarsi a comporre o a suonare uno strumento era concesso, ma guai ad aspirare a una carriera professionale, almeno fino al secolo scorso.

Beatrice Venezi ne sa qualcosa: è una dei pochi direttori d’orchestra donna in Italia, un mestiere da sempre appannaggio maschile. Nel suo ultimo libro, Le sorelle di Mozart (Utet, 2020), ha voluto raccontare una storia della musica inedita, attraverso alcune delle figure femminili più significative. Compositrici, strumentiste, insegnanti, interpreti, artiste poliedriche. Donne che hanno osato e che sono state oggetto di pregiudizi e maldicenze. La maestra Venezi ci consegna un libro di facile lettura, in linea con il suo obiettivo di avvicinare il grande pubblico al mondo della musica classica. Un’impresa che fa già, con successo, sui social. «Cerco modalità di comunicazione più smart» spiega. «Se nei teatri mancano determinate fasce di età della popolazione, significa che abbiamo sbagliato qualcosa. Perché una volta che si accede, la musica classica è in grado di parlare a tutti».

Come è nata lidea di raccontare le donne musiciste?

Negli ultimi tempi ho ricevuto molte critiche per la mia volontà di sottolineare l’aspetto femminile attraverso il vestire, o le tematiche di cui parlo. E più mi viene detto di desistere, più insisto. Per questo motivo ho deciso di scrivere di queste donne straordinarie che, sebbene dimenticate o ricordate solo come “mogli, madri o figlie di”, sono state chiavi di volta importanti nell’evoluzione della musica.

Come ha fatto a identificarle?

Ho puntato su quelle che mi erano più vicine, perché avevo incontrato le loro partiture, o perché le loro storie erano state particolarmente rivelatrici. Ciascuna di loro per una piccola parte è in me, e devo ringraziarle se oggi posso salire su un podio come direttore d’orchestra. Ovviamente non poteva mancare in questa selezione Nadia Boulanger, che è stata la prima donna a dirigere con successo.

Boulanger le è stata dispirazione nelle sue scelte?

Sì, certamente, ma non dal principio. Quando ho intrapreso gli studi di direzione d’orchestra, non mi ero resa conto dei pregiudizi legati all’essere donna e svolgere un lavoro che storicamente è maschile. Ho mosso i primi passi con musicisti che non mi hanno fatto notare la differenza di genere. Dopo l’ingresso in Conservatorio, ho iniziato a capire. Ma sono piuttosto testarda e ho colto la sfida.

Nel Seicento, Barbara Strozzi è un fulgido esempio di donna libera: compositrice virtuosa e madre di quattro figli, compagna di un uomo sposato. Quindi, chiacchieratissima.

Essere donna e musicista era quasi sconveniente. Da secoli gira la calunnia che per essere artista chissà quali talenti nascosti deve avere una donna. Non è che oggi vada molto meglio: forse è bene parlare del passato per renderci conto che tanti passi avanti non li abbiamo fatti. In realtà, quando si parla di donne del passato si ha spesso un atteggiamento quasi pietistico nel narrare gli ostacoli che hanno incontrato. Anch’io racconto le difficoltà, ma ci tengo a sottolineare la potenza del loro messaggio. Sono donne che, nonostante tutto, sono riuscite a imporsi, le loro sono storie di successo. Prendiamo Clara Schumann: benché ricordata come moglie di Robert, come compositrice è un punto di snodo fondamentale fra la musica del marito e quella di Brahms, e in seguito è presa da modello persino da Ciaikovskij.

Eppure Clara Schumann passa la vita allombra degli uomini. Perché?

È il condizionamento ambientale della società che ancora oggi, in alcuni casi, spinge a pensare che una donna debba vivere in funzione di un uomo. Non c’è niente di male ad avere un compagno e una famiglia, ovviamente, ma una donna deve vivere per se stessa. Come ha fatto Louise Farrenc. Siamo nell’Ottocento e con il futuro marito, Aristide, crea un duo e insieme girano l’Europa tenendo concerti. Poi, al rientro a Parigi lei riprende a comporre e a insegnare. Ha lottato per tutta la vita per ottenere la parità salariale e ci è riuscita. Anche Martha Argerich, la celebre pianista, rompe questo schema: tre figlie da tre compagni diversi, e il pianoforte al primo posto. Lei è un punto di riferimento per tanti giovani musicisti, come lo è stata Nadia Boulanger. Ci insegnano che la maternità non è solo biologica, è sapersi prendere cura dell’altro per farlo crescere professionalmente, nutrire il talento.

Nel titolo evidenzia Nannerl Mozart.

«Mia sorella, colei che possiede il vero talento» ha detto di lei il fratello. E se lo dice un genio come Mozart, c’è da fidarsi. Eppure, di questa compositrice eccezionale non ci è rimasta nessuna partitura. La sua vicenda è significativa della censura che si imponeva alle donne.

Dopo tante virtuose della musica classica, cosa centra un personaggio come Björk?

Non volevo porre limiti e barriere fra i generi musicali e ci tenevo ad arrivare fino ai giorni nostri. Björk rappresenta un unicum nella storia della musica moderna. Ha un linguaggio tutto suo, è una grande sperimentatrice. La sua capacità di stare sul palcoscenico e di comunicare anche attraverso la performance la riallaccia alla tradizione operistica. Nonostante tutte le sue contraddizioni, è un’artista che è riuscita ad autodeterminarsi, senza cedere alla paura di non essere vendibile sul mercato.

Quale storia le è rimasta più nel cuore?

Quella di Ildegarda di Bingen perché siamo nel Medioevo, un periodo in cui le donne non avevano alcun ruolo. È una figura innovativa, caratterizzata da indipendenza, libertà di pensiero e libero arbitrio. Una sorta di Leonardo ante litteram. Parla in pubblico ed è consigliera del Barbarossa. E da monaca, dice alle sue consorelle di curare la propria bellezza perché è un dono che fanno a Cristo.


Beatrice Venezi, lucchese, trentanni, dirige lOrchestra della Toscana e lOrchestra Milano Classica. Lo scorso anno è uscito il suo primo album intitolato My Journey – Puccini’s Symphonic Works, dedicato al grande musicista suo conterraneo. La rivista Forbes lha inserita fra i 100 giovani under 30 più influenti. Attualmente è nella giuria di Sanremo Giovani ed è testimonial di Pink Union, movimento a sostegno della salute delle donne. Le sorelle di Mozart è il suo secondo libro. Il primo, sempre edito da Utet, è Allegro con fuoco. Innamorarsi della musica classica.


(Corriere della Sera-Io Donna, 13 gennaio 2021)

di Isabella Consolati


Percorsi. A proposito di Caterina da Racconigi e Mary Astell raccontate in due volumi firmati da Eleonora Cappuccilli. Dal Rinascimento piemontese alla Rivoluzione inglese, due donne interrogano politica e teologia. Le spinte di rinnovamento sono veicolate dalla presa di parola femminile contro le disuguaglianze


«Ho aperto davanti a voi una porta che nessuno può chiudere»: il versetto dell’Apocalisse che introduce il primo volume di Eleonora Cappuccilli La critica imprevista. Politica, teologia e patriarcato in Mary Astell (Macerata, Eum, pp. 263, euro 16) evoca la crepa nell’ordine costituzionale aperta dall’irruzione delle donne nella sfera pubblica durante la Rivoluzione inglese. Nonostante il pensiero politico moderno che lì prende forma si adoperi per farlo, quella crepa non può essere cancellata e l’opera di Mary Astell (1666-1731) ne è testimonianza. Questa filosofa inglese «in corpo di donna» è stata per lo più considerata un’eccezionale anticipatrice di un femminismo successivo.

Cappuccilli invece la restituisce alla sua radicalità che è tale non in quanto prefigurazione, ma perché esprime la tensione prodotta dalla presenza imprevista e impensabile delle donne sull’intero impianto del pensiero politico occidentale, dal costituzionalismo al patriarcalismo antico e moderno, dalla teologia politica alla storia costituzionale. Questo disordine si fa strada sorprendentemente considerato che Astell osteggia la rivoluzione, sostiene l’ordine costituzionale infranto e la legittimazione trascendente del potere dinastico. Astell è questo, ma è anche colei che ripensa i termini dell’ordine costituzionale a partire dall’uguaglianza di donne e uomini di fronte a Dio e dunque dalla critica alla subordinazione di metà del genere umano al dominio maschile. Come convivono queste due facce? Questa domanda attraversa il libro di Cappuccilli che riesce a tenere aperta la contraddizione e, mentre ci dimostra che la prospettiva femminista trasforma la storia costituzionale in storia di conflitti materiali e sul significato dei concetti fondamentali, ci costringe ad abbandonare l’idea che sia possibile trovare un porto sicuro in una presunta essenza femminile al di fuori della storia e dei suoi conflitti.

Astell, dunque, coniuga la difesa dell’ordine che la rivoluzione ha messo a soqquadro e la polemica serrata contro il nuovo ordine costituzionale che si sta configurando anche attraverso la rivoluzione. E lo fa attraverso un riferimento a Dio come unico depositario dell’autorità capace di togliere legittimazione alle autorità sociali che producono la subordinazione delle donne. La filosofa inglese mostra così che la cesura che segna la soglia della modernità è il luogo di una contemporanea saldatura tra il patriarcalismo antico e il contratto socio-sessuale al centro del patriarcalismo moderno.

Cappuccilli mostra come, sotto la sferzante critica di Astell, tanto il patriarca tradizionale quanto l’individuo possessivo di John Locke appaiono come due formulazioni di un dominio maschile che vuole mantenere salda la sua presa. L’intento lockeano, con cui Astell polemizza accesamente, di giustificare razionalmente la subordinazione delle donne nella famiglia non tiene di fronte alla pretesa astelliana che la razionalità sia attributo di ogni creatura di Dio, il caposaldo di quella che Cappuccilli definisce la sua «teologia politica anti-patriarcale». Il rapporto individuale con Dio rompe la catena d’autorità che lega Dio al sovrano e al padre, ma mostra anche che l’uguaglianza naturale degli individui alla base del contrattualismo moderno cela in realtà il predominio maschile.

Facendo leva sulle storie notevoli di altre donne che prima di lei hanno parlato, Astell individua l’intreccio di fattori normativi – il diritto, la religione, il costume – che sanciscono e riproducono la minorità giuridica, intellettuale e materiale delle donne, primo fra tutti il matrimonio. Pur non propugnando la disobbedienza all’autorità maschile, nelle sue opere Astell pensa quali siano le condizioni per praticare l’uguaglianza. Per riuscirci bisogna sospendere la sottomissione facendo leva sul «privilegio cognitivo» che le donne hanno rispetto agli uomini, ovvero la «libertà dalle opinioni ricevute e la capacità di rifiutare il costume». L’autonomia delle donne si costruisce attraverso il perfezionamento dell’intelletto e della morale. Per Astell ciò non significa ritirarsi in una sfera protetta dall’autorità maschile, ma prepararsi, affinarsi e disciplinarsi per la vita in un mondo di uguali.

Sulle tracce delle donne notevoli dalle quali Astell trae ispirazione, Cappuccilli si rivolge nel suo secondo libro La strega di Dio. Profezia politica, storia e riforma in Caterina da Racconigi (Aracne, pp. 160, euro 12) all’esperienza profetica di Caterina da Racconigi (1486-1547), terziaria domenicana, figura di spicco del Rinascimento piemontese, consigliera di corte dei Signori di Savoia e «musa» di Gianfrancesco Pico della Mirandola. L’autrice si confronta così con un altro momento cardine della genesi della modernità e riattiva il dispositivo interpretativo adoperato su Astell, mostrando le spinte di rinnovamento che, già prima della Riforma, sono veicolate dalla presa di parola femminile.

La vicenda alterna di Caterina tra eresia e ortodossia, tra stregoneria e devozione, riflette la tensione interna al fermento rinascimentale in cui la profezia diventa tanto momento di potenziale sovversione quanto strumento di legittimazione del potere politico e della gerarchia ecclesiastica. Entrambi questi momenti sono in ogni caso intensificati dal fatto che Dio parli per bocca di una donna. Caterina inoltre non è isolata, ma è parte di quella che Cappuccilli definisce una «soggettività corale» insieme alle altre carismatiche domenicane che manifestano come lei l’esigenza di praticare la parola di Dio in prima persona, contro il monopolio maschile della vita religiosa.

L’apertura sul futuro che la profezia comporta è prima di tutto invito all’azione, non ultimo perché pronunciata da una donna la cui autorità non è prevista dal mondo del suo tempo. Paradossalmente il carisma profetico di Caterina diventa vettore di un disincantamento del mondo di natura peculiare, perché, denunciando la rovina morale della Chiesa, riesce a porre una domanda sulle forme e le sedi del potere e contestare con ciò la sua configurazione patriarcale. Per farlo Caterina e le altre carismatiche si rendono umilmente veicolo della parola divina, ma rivendicano un margine individuale di interpretazione, che costituisce la fessura attraverso cui si fa inesorabilmente strada la soggettività femminile.

Nello stesso momento in cui la riarticolazione conciliare della pietà cristiana prova a recludere le donne nei conventi e a confinarle nelle case, la pratica profetica viene messa al servizio di quel mutamento delle forme dell’obbligazione politica che si ha con l’emergere della politica moderna, in cui l’apertura sul futuro diventa la base per dare corpo a un esercizio continuativo e costante del potere. Ancora una volta, dentro un’altra frattura e attraverso la voce di un’altra donna, Cappuccilli mostra che la differenza sessuale non si colloca fuori dal tempo, ma emerge materialmente alle prese con l’avventura del reale.


(il manifesto, 7 gennaio 2021)