Maria Teresa Carbone


Vecchia storia: le lettrici leggono libri di scrittrici e scrittori, i lettori intendendo qui solo i lettori pronti a definirsi uomini, cioè maschi, senza troppe esitazioni fanno di tutto per evitare i volumi che portano in copertina il nome di una donna. Lo si è detto tante volte e lo scrive adesso, appoggiandosi su indagini recenti, M.A. Sieghart sul Guardian (per inciso, sembrano ancora mancare dati accurati sulle predilezioni di coloro che non si riconoscono in una identità binaria, ma se la lista di titoli consigliati da Penguin Random House per il Pride Month ha un fondamento, i testi preferiti dalla galassia Lgbtq+ nascono all’interno della galassia Lgbtq+).

Dietro le iniziali puntate di Sieghart c’è in effetti una Mary Ann che fin dall’incipit svela l’inganno: niente nome per esteso, scrive, perché «voglio che anche gli uomini leggano questo articolo». Un espediente al quale prima di lei hanno fatto ricorso in tante, da George Eliot giù giù fino a J.K. Rowling, ma che evidentemente continua ad avere una certa utilità.

Per il suo libro The Authority Gap, appena uscito da Penguin, Sieghart che è una giornalista e commentatrice politica piuttosto nota nel Regno Unito ha commissionato a Nielsen una ricerca sulle letture abituali di donne e di uomini: «Volevo sapere se le autrici non solo erano considerate meno autorevoli degli uomini, ma se venivano lette dagli uomini. E i risultati hanno confermato il mio sospetto: è estremamente improbabile che gli uomini arrivino addirittura ad aprire un libro di una donna».

E infatti: per le prime dieci autrici più vendute (parliamo di bestselleriste seriali come Danielle Steel, ma anche di protagoniste della letteratura mondiale, da Jane Austen a Margaret Atwood) la spaccatura è nettissima: 19% lettori, 81% lettrici. Mentre per i primi dieci autori (uomini) in cima alle classifiche dei libri più venduti (tra loro Dickens, Tolkien e Stephen King), la divisione è molto più uniforme: 55% uomini e 45% donne.

Lo studio commissionato da Sieghart rivela però altri dati interessanti e meno scontati: per esempio, che i pochi maschi coraggiosi capaci di non arretrare quando si trovano di fronte ai testi delle scrittrici, non restano delusi, anzi li preferiscono, sia pure marginalmente. Infatti, secondo i dati di Goodreads, il più popoloso social dedicato alla lettura, in media gli uomini danno una valutazione di 3,9 su 5 ai libri delle autrici e di 3,8 ai libri degli autori.

E ancora, la ricerca Nielsen mostra che il divario di genere fra lettrici e lettori di saggistica è meno netto rispetto alla narrativa (65 % contro 35 %). Forse in questo ambito gli uomini hanno vedute meno chiuse? Purtroppo no: semplicemente nella non-fiction le donne hanno una tendenza più spiccata a leggere testi di autrici.

Appurato che i suoi sospetti erano fondati, Sieghart ci spiega perché le cose vanno cambiate: «Se gli uomini non leggono libri di e sulle donne, non riusciranno a capire la nostra psiche e la nostra

esperienza vissuta. E una visione così ristretta influenzerà le nostre relazioni con loro come colleghi, amici, partner. Ma questa situazione impoverisce anche le scrittrici, il cui lavoro, se è consumato perlopiù da donne, viene considerato di nicchia e non mainstream. Di conseguenza godranno di meno rispetto, meno status e meno soldi».

Ammesso tutto questo sia vero, cosa fare per costringere gli uomini a leggere i libri delle autrici? Seguire l’esempio di Sieghart e limitarsi alle iniziali o ricorrere addirittura a pseudonimi maschili? Imporre agli scrittori (uomini) una moratoria di un paio d’anni? Trovare l’equivalente libresco della «cura Ludovico»*? Ogni suggerimento è benvenuto.


*In Arancia meccanica, romanzo e film, la cura per la “redenzione” di malfattori abituali per “tendenza innata” (Ndr).


(il manifesto, 15 luglio 2021)

recensione di Vittoria Longoni


Chiara ZamboniSentire e scrivere la natura, Mimesis 2020


Una scrittura intensa, filosofica e a tratti poetica, esplora in questo libro il rapporto tra il soggetto (in particolare un soggetto femminile) e il complesso vivente della natura in cui siamo immerse/i, che ci avvolge e che avvolgiamo.

Per questo la relazione con la natura viene prima della dicotomia soggetto/oggetto: ne facciamo parte, ne siamo nutrite/i e ne possiamo parlare, unendo il sentire e il pensare.

Il tema del rapporto con la natura è stato posto con evidenza dalle catastrofi ambientali e dai movimenti ecologisti, che hanno rivolto a tutta l’umanità critiche e domande non più eludibili.

È un terreno che comporta riflessione in vari campi e impegno nel mondo, e invita a rinnovare la filosofia.

Sentire ed esprimere – in parole dette o scritte, o in opere d’arte – la natura: in questo processo metamorfico sono incluse sensazioni ed esperienze, forme di sessualità e lavoro sul linguaggio. In questa direzione aprono e mostrano la strada soprattutto Anna Maria Ortese, con le sue opere in cui si fondono riflessione e invenzione narrativa; poete come Ingeborg Bachmann; pensatrici come Maria Zambrano e pensatori come Maurice Merleau-Ponty.

Il sentire si radica nell’inconscio; ogni sensazione nasce già impregnata di vissuti passati.

Dalla conclusione del libro: “Ciascuno è un individuo, un soggetto, cioè quasi tutto per sé e quasi nulla per l’universo, un frammento infimo e malato dell’antroposfera; ma qualcosa di simile a un istinto inserisce ciò che di più intimo c’è nella mia soggettività all’interno di questa antroposfera, mi lega cioè al destino dell’umanità… Noi partecipiamo a questo insondabile, a questo incompiuto così fortemente intessuto di sogni, di dolore, di gioia e d’incertezza, che è in noi come noi siamo in esso…”.


Chiara Zamboni è docente di Filosofia teoretica all’Università degli Studi di Verona e fa parte da decenni della comunità filosofica Diotima. Ha pubblicato molti testi, tra cui Parole non consumate: donne e uomini nel linguaggio (2001), Pensare in presenza: conversazioni, luoghi, improvvisazioni (2009), Il male in Simone Weil e Hannah Arendt (2017). Frutti di un’intensa e innovativa ricerca filosofica, connotata al femminile.


(https://www.casadonnemilano.it/ 13 luglio 2021)

di Viola Papetti


«Eccola, arriva / – l’insonnia delle 3.15 – / … Mi piacerebbe una vita semplice. / Invece tutta notte ripongo / poesie in una scatolona. / È la mia scatola dell’immortalità, / il mio piano rateale, / la mia bara. / Tutta la notte ali cupe / sbattono nel mio cuore. / Ognuna un uccello ambizione». Con questa poesia, «L’uccello ambizione», apre Il libro della follia che Anne Sexton diede alle stampe due anni prima del suicidio nel 1974, anno del divorzio dal marito. Prima traduzione integrale in italiano, pubblicata da La nave di Teseo per la cura e l’ottima traduzione di Rosaria Lo Russo (collana «i Venti», testo inglese a fronte, pp. 212, € 18,00), Il libro della follia accoglie materiale disuguale, diviso in tre sezioni: «Trenta poesie», «Tre storie (in prosa)», «Carte di Gesù». 
Non ha lo straordinario impatto di Poesie d’amore (Le Lettere 1996, ristampa riveduta e corretta 2021, cura e traduzione di Rosaria Lo Russo, pp. 184, € 17,00), né di Vivi o muori che le fece vincere il Pulitzer nel 1966 e aumentò notevolmente i suoi guadagni di eccezionale performer, di rosso vestita. «Sono uscita, strega invasata, / a infestare le tenebre, più audace di notte; / sognando malefici, ho fatto i miei incantesimi» («Come lei»). Ogni performance seguiva un rituale fisso: «…completamente sbronza saliva sul palco, si toglieva le scarpe scagliandole via, accendeva una sigaretta e con meravigliosa sensuale voce gutturale elegantemente impostata, dava inizio alla fascinazione magica della Strega; la reazione del pubblico oscillava fra i due poli opposti dell’adorazione fanatica e del totale disgusto» (Lo Russo). Era nato il Poeta Pop, il Poeta Rock, il Poeta Femmina che parlava direttamente al cuore, alla testa, all’utero delle donne. «Tutto in me è uccello, / frullio d’ali. / Volevano asportarti / ma non lo faranno. / Hanno detto che eri smisuratamente vuoto / ma non è vero. / Hanno detto che eri affetto da malattia mortale / ma si sbagliavano. / Canti come una ragazzina. / Non sei ferito («In celebrazione del mio utero»). 
In Italia dal 1989 al 2010 si sono succedute ben otto raccolte di sue poesie ancor prima che fosse pubblicata l’edizione completa (Complete Poems, 1999), a cura dell’amica e poetessa Maxine Kumin. Va ricordata anche l’ottima scelta curata da Cristina Gamberi, La zavorra dell’eterno, ordinata cronologicamente (Crocetti 2016). Un ritratto di Anne Sexton tra lampi e fulgori lo ha elegantemente rifinito Caterina Ricciardi nel 2017 su «AliasD» (ora in: Novecento poetico americano, Edizioni di Storia e Letteratura 2021), e conviene tenerlo presente. Ricciardi ricerca la Sexton più segreta, più tragica «…nella coazione del lutto che è ciò che fa convergere parole sotto il segno della mutazione, spingendo all’evoluzione in altra entità, essenza, coscienza … E quale figura più liberatoria per tali rivoluzioni dell’anima se non un uccello?». Da Il libro della follia: l’ultimo volo dell’uccello metafisico nell’ultimo distico «Vuole morire cambiandosi d’abito / e sfrecciare verso il sole come un diamante» (autoironica?). Ma anche una poesia politica: «Noi siamo l’America. / Siamo i riempitori di bare. / Siamo i bottegai della morte. / Noi li imballiamo come casse di cavolfiori» («I bombaroli»). Presaga? «Mamma uccisa da uno sparo / e di me che ne sarà, che ne sarà di me? / Quando mi affiderò a uno sparo / come un pesce suicida all’amo?» («La Danza delle Figlie del Buffone»). Mistica? «Gesù dormiva immobile come un giocattolo / e in sogno desiderò Maria. / Il Suo pene ululava come un cane / ed Egli si rivoltò bruscamente da quella posa, / come una porta che sbatte. / Quella porta Gli spaccò il cuore / perché il Suo era un bisogno dolente. / Del Suo bisogno Egli fece una statua. / Col Suo pene per scalpello / scolpì la Pietà» («Gesù dormiente»). 
Non stupisce che ci fossero delle resistenze da parte di accademici americani e italiani. «La pubblicazione di Life Studies di Robert Lowell nel 1959 si situa come capovolgimento imprevisto nella poesia formalista e impersonale degli anni cinquanta – scrive Bianca Tarozzi in Poesia e regressione: Anne Sexton («Annali di Ca’ Foscari», 1973). Sexton e Plath avevano seguito il suo corso alla Boston University nel 1957. Nel 1959 esce la prima raccolta della Plath, Colossus, Sexton segue nell’anno successivo con Bedlam and Part Way Back, che il maestro aveva già letto, e il 1° dicembre 1961 le scrive: «Diverse poesie replicano grosso modo lo stile del mio Life Studies; il metodo e le emozioni (questo dipende non da imitazione ma da una esperienza simile – penso spesso e sento così, anche se scrivo altrimenti) mi sono familiari, e ora quasi ti invidio […] Quando qualcuno sa chi è, come hai fatto tu, e si denuda con questa profondità, è assurdo sottolineare i piccoli difetti […] Penso che il tuo prossimo libro costituirà un ulteriore passo avanti […] Stai cavalcando la marea e sei sola» (corsivo mio). 
Per conoscere meglio Anne Sexton e certa psicoanalisi degli anni cinquanta e sessanta è consigliabile leggere An Accident of Hope di Dawn M. Storczewski, che ha trascritto parte delle sedute di Sexton e del dottor Martin Horne che le ha rese disponibili. Dopo la nascita della seconda figlia, Sexton in preda a depressione post-partum aveva iniziato quegli incontri che dureranno quasi otto anni: tre volte alla settimana, e telefonate negli intervalli – ventotto anni lei, ventinove lui. A quella ricca casalinga, bella, intelligentissima, con modesta cultura, il dottore consigliò di scrivere poesie per occupare il tempo mentre cercava di farle accettare la normalità del suo destino di moglie e madre. Dopo sei mesi lei gli portò ben sessanta poesie. Il dottore non credeva alla poesia, e non si accorse di aver messo la sua impavida paziente non su una strada verso la normalità – la realtà «così com’è» secondo la sua definizione –, ma una strada ben più allettante e pericolosa. Benché nato a Vienna, da madre anche lei analista, non aveva letto Schopenhauer. «Non appena scendiamo in noi stessi e, drizzando la conoscenza verso il nostro interno, vogliamo renderci di noi consci appieno, ci perdiamo in un vuoto senza fondo, simile a cava sfera di vetro dal cui vuoto parli una voce, della quale non è possibile trovar nella sfera una causa; e mentre facciamo per ghermire noi stessi, rabbrividendo non afferriamo che un vuoto fantasma» (Il mondo come volontà e rappresentazione, citato da Remo Bodei, Sovrapposizioni, 2016). Lowell aveva avvertito il pericolo, e si era arrestato in tempo. 
Se in pieno Romanticismo un poeta assoluto come Keats ancora invocava Mnemosine come dispensatrice della divina Poesia, per cui era disposto a pagare con la vita stessa, non stupisce che nelle frange neo-romantiche un poeta naïf come Sexton ne ripeta la parabola, assegnando all’analista, l’amato dottor Orne, un ruolo che lui sempre rifiutò. Con voce drammaticamente impostata, lei affrontava i ripetuti mugolii di lui, non proprio silenzio, ma forse peggio. «Buffo che a lei non importi di me come poeta. Ma lei mi ha creato poeta. Lei si prendeva cura di me. Allora lei, io, creammo il poeta». Aveva coniato l’orribile termine «concreazione» per convincerlo. Ma fu del tutto inutile, e il dottor Orne partì per Boston, appena sposato. 
Ormai Anne Sexton appartiene alla genealogia eletta che nel Novecento ha ricalcato le orme della prodigiosa Emily Dickinson, insieme a Sylvia Plath, Amelia Rosselli… Aggiungerei Alda Merini, benché non suicida, che componeva poesie come un flusso senza argine di sorta. Ricoverata più volte in manicomio, subì l’elettrochoc, amò molto, e liberata finalmente dal suo utero, a tarda età si inventò affascinante performer accompagnandosi al piano mentre recitava le sue poesie, in un bar dei Navigli.


(Alias – il manifesto, 27 giugno 2021)

inviata da Antonella Doria


Una signora anziana

capelli corti e grigi come i miei,

giacca e pantaloni, niente di trasandato

(sono più malmessa io), un’intellettuale, direi, un volto

da “Libreria delle donne”, entra

nel vagone della Metropolitana

dove sono seduta, estrae dalla tasca

un’armonica a bocca, suona

Oh Susanna!, Jingle Bells e chiede

l’elemosina, lasciandomi basita.

A me piace dare sempre qualcosa

senza giudicare: a questo sì, a questo no.


da Frisbees nel metro


Un abbraccio a Giulia con tutto il nostro amore!

Ciao Ciao

Antonella Doria


(www.libreriadelledonne.it, 26 giugno 2021)

di Laura Marzi


La ricerca Il lavoro che usura. Migrazioni femminili e salute occupazionale condotta da Veronica Redini, Francesca Alice Vianello e Federica Zaccagnini edita da FrancoAngeli (pp. 144, euro 19) verte sulla condizione di salute delle donne che migrano in Italia. In particolare le intervistate sono moldave che in Veneto per la maggior parte lavorano come assistenti familiari (badanti). Questo studio, quindi, analizza il lavoro di cura, a partire da una domanda particolarmente interessante: come stanno le donne che in Italia si occupano degli anziani e delle persone malate?

La cura è un dispositivo critico interdisciplinare che può quindi essere esplorato a partire da diverse prospettive di analisi, per questo nell’introduzione le autrici specificano che: «il libro presenta i risultati di una ricerca pilota multi-metodo e multi-disciplinare», condotta a partire da riflessioni teoriche, analisi qualitative e quantitative.

La tematica intorno alla quale ruota questa indagine estremamente innovativa sulla condizione di salute delle care-givers viene affrontata in primo luogo a partire dalla «femminilizzazione delle migrazioni». La catena migratoria ha subito infatti una trasformazione fondamentale negli ultimi trent’anni: «la letteratura ha in generale fatto emergere come le donne, migrando, siano riuscite a declinare al femminile le responsabilità di bread-winner».

Si concentra poi sulle caratteristiche del lavoro che svolgono le donne moldave emigrate a Padova, target principale di questo studio. Emerge prima di tutto un esubero del monte orario, anche rispetto a ciò che è indicato nel Ccnl, che per le assistenti familiari prevede 54 ore di lavoro settimanali.

Nella realtà, le donne che svolgono il lavoro di assistenti familiari, spesso risiedendo nella casa della persona di cui si occupano, non hanno vere e proprie pause e la loro paga, stando ai grafici molto chiari contenuti nel volume, nella maggior parte dei casi non arriva ai 5 euro all’ora. In questa condizione di disponibilità costante e necessaria, che spazio può avere la fragilità delle care-workers? «Nel caso delle assistenti familiari, queste riportano la necessità di dover lavorare anche in caso di malattia. Più di una lavoratrice ha raccontato che in caso di malattia o durante il periodo di ferie, lei stessa si occupava di trovare e pagare una persona che la sostituisse». Considerata la stringente necessità che le famiglie italiane hanno del lavoro di queste donne, tale bisogno non prevede comprensione quando si tratta della vulnerabilità o delle esigenze delle lavoratrici.

Dal punto di vista medico, quando arrivano in Italia le donne moldave sono tendenzialmente più sane delle italiane: «vi è la conferma di una migliore salute rispetto alla popolazione nativa che però si deteriora tra coloro che risiedono da più tempo nel paese di immigrazione».

I medici intervistati, a proposito delle donne straniere che hanno in cura, sottolineano una differenza significativa tra la salute delle «donne dell’est» e quella delle donne dell’Africa subsahariana, che sarebbe decisamente peggiore, anche perché queste hanno maggiori difficoltà a usufruire dei servizi del sistema sanitario italiano. Nessuno dei medici intervistati fa riferimento alla salute psicologica di queste lavoratrici, anche se: «solo il 2% delle donne intervistate soffriva di depressione, mentre dopo la migrazione il dato sale al 13%». E neanche viene fatta menzione da parte dei medici della «sindrome Italia», che indica «la sofferenza psichica delle donne migranti che viene indissolubilmente associata a quella dei loro figli rimasti a casa». Ovviamente le analisi effettuate non riguardano le derive, ancora sconosciute, generate dalla pandemia di Covid-19.

La ricerca ha il merito non solo di porre una domanda tanto ovvia quanto ignorata: come stanno le donne straniere che si occupano di noi? Quanto riusciamo a prenderci cura di loro? Lo fa a partire dalle voci e dalle esperienze delle lavoratrici, senza sovrapposizioni o travisamenti.


(il manifesto, 19 giugno 2021)

di Daniela Morandi


In estate un capo d’organza ci sta. E anche tenere in borsa Organsa, il libro di Mariangela Mianiti, vincitore della trentasettesima edizione del Premio nazionale di narrativa Bergamo. E se lo merita. È un libro che leggi d’un fiato. La sua storia ti scivola tra le dita come un bel tessuto.

La scrittrice è figlia di una brava sarta, che ha cercato di tramandarle il mestiere: Mianiti sa giusto fare gli orli, ma ha cucita addosso la campagna emiliana fin dalle vestine confezionate su misura dalla madre quando lei era bambina. Al lettore ritorna quell’atmosfera di provincia, che supera ogni regionalismo. È catturato da voli in altalena, pedalate in bicicletta, che per chi è nato nella bassa padana, fatta di nebbia e afa, è una religione.

In Organsa rivedi un pezzo d’Italia rurale, ritratti di un album di famiglia, relazioni che si intrecciano, sfilacciano, svelano. La scrittura è fitta ma distesa, come la pianura. Il paesaggio emiliano, naturale e umano, nel libro è vivo. Tradizione e relazioni tra padre e madre, genitori e figli si annodano per tessere il filo conduttore della storia: il racconto spietato di una famiglia e di un microcosmo, delle resistenze sempre bastonate di Luisa, madre che non riesce a battersi per se stessa ma per i figli. Premio meritato con 43 voti.

Un po’ meno meritato il quarto posto di Antonio Franchini, dalla solida scrittura, figlia di un uomo che sin da ragazzino si è immerso nella lettura e letteratura per immergersi nella vita. Il suo Il vecchio lottatore stava bene a pari merito con Splendi come vita di Mariagrazia Calandrone, posizionata al secondo posto con 30 voti. Le sue parole splendono come vita o fanno capire che la vita splende, ma è una consapevolezza che affiora dopo una sedimentazione.

Al terzo posto Nel nome del diavolo di Lorenzo Alunni, antropologo che rintraccia nella «letteratura una torcia per raggiungere certi abissi dell’umano», come dice, ma la sua scrittura a tratti è ancora acerba. A chiudere la cinquina le ossessioni e la parodia di un’emancipazione de I pellicani di Sergio La Chiusa. La cerimonia di premiazione, tenutasi ieri sotto i portici del palazzo della Ragione in piazza Vecchia, è stata una celebrazione della parola, del suo peso e potere seduttivo. Nei saluti dell’assessora alla Cultura Nadia Ghisalberti, del rettore Remo Morzenti Pellegrini, del presidente di Confesercenti Antonio Terzi, in quelli di Dario Zoppetti della Fondazione della Comunità bergamasca torna la bellezza del ritrovarsi, del leggere, dell’assaporare il gusto delle parole. Torna la promozione della lettura e letteratura. Operazione che passa anche dalla Vanoncini Spa, dove è partita l’esperienza del «Book club dei muratori», per incentivare la lettura come fattore aggregante fra i dipendenti: per ogni libro letto e raccontato agli altri, il lettore riceve un buono libri. L’invito del presidente del premio Massimo Rocchi è quello «come dice Pessoa, di diminuire il contatto con la realtà e aumentare l’analisi di quel contatto…».


(Corriere della sera – Cronaca di Bergamo, 19 giugno 2021)

di Alessandra Pigliaru


Torino Spiritualità. Da oggi a domenica un festival di appuntamenti e incontri sotto il segno di «Desideranti. Slanci, brame, mancanze». Intervista con la poeta sabato al Teatro Carignano per il reading «Nostalgia delle cose impossibili». «La gratitudine è alla base di ecologia o ecosofia, da essa si genera l’energia per ricucire il dissestato mondo. L’altro sta assumendo connotati sempre più larghi. Dobbiamo cominciare a pensare alle altre specie, alle altre forme di vita che ci tengono in vita, come prolungamento di noi stessi»


Il desiderio nomina il nostro stare nel mondo, sostanziandolo. Essendo parola in stretto contatto con la materialità delle vite, oltre che con l’oralità, è prossima anche alla poesia. Messo a tema in particolare dalle scritture delle donne e dal femminismo, il suo significato è sovente riferito al luogo della «mancanza». Meglio sarebbe augurarsi di fare l’esperienza potente e somma del desiderare, non accade di necessità in ogni esistenza e può orientare quanto pieno incarnato ci sia nel convocarlo e covarlo.

«Desideranti» è il tema con cui si apre oggi la nuova edizione di Torino Spiritualità, indovinando ciò che più occorrerebbe al presente, dopo oltre un anno di totale spossessamento, fare ritorno al desiderio diviene quasi una pratica sovversiva. «Siamo noi i desideranti, noi viventi», suggerisce Mariangela Gualtieri: ospite sabato al Teatro Carignano (ore 15. 30) farà una lettura pensata per il Festival torinese. «Il desiderio – prosegue la poeta – è energia che ci sostenta e ci muove in una direzione o in un’altra, senza mai trovare compimento».

Il reading di sabato è intitolato «Nostalgia delle cose impossibili». Quali sono?
È un verso di Beppe Salvia, poeta che amo. Non ho mai pensato a un elenco preciso di cose, quanto piuttosto a una scia di entità grandiose e lontanissime che dobbiamo avere abitato, delle quali resta in noi una nostalgia imprecisata e dalle quali a volte sembra di essere precipitati giù. Del resto la nostalgia, come desiderio del ritorno, resta in poesia un movimento radicato e sempre presente.

Per introdurre il suo incontro scrive che ci sono desideri che sono quasi nati con lei e sempre sono rimasti con una così forte intensità, come «massa di energia ardente». Si tratta di una risorsa antica e inaddomesticata cui attingere?
Sì, non si può addomesticare perché non pare di questo mondo e dunque non ha casa qui. Innato è qualcosa che pare avere origine altrove, appartenente ad un altrove.
Forse questi desideri, questa massa di energia ardente, è ciò che determina il nostro essere fatti così, il nostro cesello, il nostro destino, la legge di ognuno di noi e nel migliore dei casi la nostra vocazione, come punto in cui il desiderio diviene un ordine che non si discute. O, potremmo dire, connota il nostro daimon.

Nei suoi versi aleggiano spesso i segni del desiderio, vuoti, mancanze, commozioni, visioni, pienezze; poi c’è un luogo simbolico raro, soprattutto in questo tempo miseramente autocentrato: il desiderio di gratitudine.
Quando ho cominciato a scrivere la lunga lista di grazie ispirata dalla Poesia dei doni di Borges, ho provato grande leggerezza e anche l’impressione di un compimento, come se tutto fosse in attesa di un nostro grazie, la terra, l’acqua, gli animali, l’erba. Penso che la gratitudine sia alla base di qualunque ecologia o ecosofia e che da essa si generi l’energia per ricucire il dissestato mondo.

«Essere amato./ Quanto l’ho voluto./ Quanto ho fatto per questo./ Ho dato tutto di me. Quanto l’ho desiderato/ essere amato». Nel pensiero espresso da «Caino» (Einaudi, 2011) che poi si manifesta nel suo contrario, nella morte, c’è una universale richiesta d’amore tutta umana?
Senza amore l’essere umano non può sopravvivere, si ammala, o «diventa bruttissimo dentro», come recita la Fatina nel nostro ultimo spettacolo. È un ingrediente indispensabile per ogni mammifero, credo, al pari di aria, acqua e cibo. Ma anche le piante, l’acqua o il sole, tutto sembra vivere di una espansione amorosa. Tutta umana è invece la nostra razionalità che finge a volte di poter fare a meno dell’amore.

Un mese fa, con il Teatro Valdoca e per la regia di Cesare Ronconi, avete debuttato con lo spettacolo «Enigma. Requiem per Pinocchio». Ci avete lavorato due anni e i testi sono suoi. A un certo punto scrive: «Ci sono lumache pazientissime. Si può imparare da loro. Non sei migliore. È antico ingegnere spaziale, ciò che chiami lumaca. Sa il segreto delle galassie. Apriamo il tuo orecchio alla lingua sua siderale». In che modo il suo Pinocchio (interpretato da Silvia Calderoni) impara a osservare e sentire le altre lingue?
Pinocchio è legno che desidera farsi carne, fare un salto di regni, e apre così un lungo interrogativo su cosa ci renda umani. Il tema della comprensione all’altro da noi, a questo punto della nostra storia di specie, mi sembra centrale.
L’altro sta assumendo connotati sempre più larghi, non è solo l’altro umano: dobbiamo cominciare a pensare alle altre specie, alle altre forme di vita che ci tengono in vita, come prolungamento di noi stessi.

Tra i suoi ultimi riti sonori, insieme a «Voce che apre» – e a esso strettamente collegato – c’è «Il quotidiano innamoramento», che riprende la raccolta «Quando non morivo» (Einaudi, 2019). Parte dall’incanto fonico di Amelia Rosselli e l’innamoramento possiede improvvisamente tutti i suoni del mondo. A chi si è voluta rivolgere?
Il canto esce urgente e si intona a tutto ciò che ha incontrato con intensità e attenzione.
Non mi rivolgo a nessuno in particolare. Solo vorrei che la poesia radicasse dentro le nostre vite, a celebrarle, negli innumerevoli istanti che attraversiamo, dalle semplici cose, ai più alti e complessi pensieri.


(il manifesto, 17 giugno 2021)

di Paolo Lambruschi


Torna dal remoto passato coloniale una storia di brutalità e oppressione che l’Italia ha dimenticato, seppellendola nell’oblio da 75 anni, anche edulcorandola con la menzogna. Il re ombra, affresco epico e corale dipinto magistralmente da Maaza Mengiste ed edito da Einaudi (pagine 440, euro 21,00) restituisce nomi e volti ai protagonisti dimenticati della guerra d’Etiopia, le donne guerriere che combatterono contro i “talian” cancellate dalla memoria storica, i ragazzini e le famiglie gasati con l’iprite e un sosia del Negus, da cui viene il titolo, che sprona il popolo a resistere a un nemico molto meglio armato. Un romanzo dalla parte degli oppressi, gli etiopi, a fronte di oppressori e invasori, noi italiani “brava gente”, portati dal fascismo a conquistare l’Etiopia ad ogni costo per costruire l’impero e vendicare l’umiliante sconfitta di 40 anni prima ad Adua, la Caporetto africana. La trama si svolge su due piani temporali paralleli, dall’autunno del 1935 fino alla primavera del 1936 e nel 1974, durante la rivoluzione dei colonnelli filo sovietici che rovesciarono la monarchia feudale del Negus. Il romanzo è risultato, ieri, il vincitore della XV edizione del premio “Gregor Von Rezzori – Città di Firenze” e consacra una grande narratrice, Maaza Mengiste, etiope-americana e docente di letteratura a New York, fuggita all’estero con la famiglia proprio nel 1974, a quattro anni, e molto legata al nostro Paese, nonostante tutto: «Ho vissuto a Roma nel 2010 per quasi un anno con una borsa di studio per la ricerca da cui è nato questo libro. Ho studiato l’italiano per essere autonoma, ero prevenuta perché la guerra ha ucciso un fratello di mio padre e alcuni suoi cugini. Invece lo storico dell’Africa Sandro Triulzi e sua moglie, la traduttrice Paola Splendore, che mi hanno ospitato, sono diventati la mia famiglia. Quando sono arrivata in Italia ero piena di rabbia, volevo scoprire di più sulla brutalità e sulla crudeltà degli italiani. Ma più ho conosciuto il vostro popolo, più vi ho voluto bene e più mi sono aperta a capire la complessità della storia. Ho imparato il significato del perdono, mi sono messa in cammino tra passato e presente per cercare di dare un senso a quel che è successo».

Cosa ha cambiato il suo giudizio? Soprattutto l’incontro con i figli dei caduti in Etiopia. A Firenze, alla fine di una presentazione, un signore anziano mi è venuto incontro con un giornale del 1936 per mostrarmi l’annuncio del funerale di suo padre, sepolto in Etiopia.

Mi ha detto: ecco questo è mio papà, se torni laggiù salutamelo. Quell’incontro ha cambiato me e il mio libro. Non puoi vivere arrabbiato, quella guerra ha distrutto famiglie etiopi e italiane. Il dolore ci ha accomunati.

Perché ha scelto come protagoniste Hirut, la serva ragazzina, e Aster, la moglie del padrone, due combattenti?

In realtà avevo cominciato a scrivere una storia con protagonisti maschili, poi sono venuta a conoscenza dell’esistenza delle donne soldato, ho visto le foto ed è stata una grande sorpresa. Loro le rappresentano. Quando stavo terminando il romanzo ho scoperto che la mia bisnonna aveva combattuto con l’esercito etiope. La scrittura è stata un viaggio anche nella mia storia familiare.

In Italia c’è scarsa conoscenza della storia coloniale e della campagna d’Africa. Quali sofferenze hanno inferto gli italiani all’Etiopia?

Quella guerra è stata molto brutale. Per capire cosa sia successo al mio popolo ho cercato di studiare cos’era successo qualche anno prima in Libia, il terre- no su cui l’esercito italiano e i fascisti si sono allenati. L’uso di gas, i campi di concentramento e l’esecuzione sommaria dei prigionieri o di sospetti nemici sono stati sperimentati prima in Libia e poi portati avanti su vasta scala durante l’invasione e l’occupazione dell’Etiopia. Quando si cancella la storia, si commette un grave errore, anzitutto si manca di rispetto ai caduti che non possono venire più ricordati dai propri cari. Anche i combattenti tornati in Italia sono stati traditi dal loro Paese perché sono stati trattati come nazisti mentre molti hanno combattuto con i partigiani. Perdere questa memoria è un’amputazione della storia italiana.

Cosa rappresentano i due personaggi italiani Ettore Navarra, fotografo ebreo, e l’u!iciale fascista Carlo Fucelli?

Fucelli è ispirato alla figura del fascista Rodolfo Graziani [spietato viceré, ndr]. Questa guerra è stata portata avanti da uomini crudeli come lui e volevo capire la natura di questa crudeltà. Navarra è il suo opposto, è di famiglia ebraica e il padre gli ha insegnato ad essere un uomo libero, ma più va avanti la guerra e più diventa complice delle atrocità. Un essere umano contiene tante creature, qualcosa ci porta a comportarci come

macchine e volevo esplorarne i meccanismi. Carlo Fucelli, brutale e crudele, cerca di proteggere Ettore Navarra e in fondo ha una sua etica, mentre Ettore la perde. Le sue foto sono un’arma di guerra utilizzata dai colonialisti per la narrazione della presunta di!erenza tra le persone che giustifica la violenza, l’invasione e la crudeltà.

Perché a un certo punto appare il “re ombra”?

Per spiegare la natura della leadership e del potere. Volevo riflettere sull’altra faccia di un uomo come Hailé Selassié, una leggenda, un mito che fugge. Mi sono chiesta come mai un contadino vestito come lui possa aver spinto la gente a combattere e a morire mentre il vero imperatore era in esilio.

E poi è tornato nel 1941, nel 1974 è stato ucciso. E l’Etiopia è ancora senza pace.

È vero, oggi c’è la guerra nel Tigrai e altri conflitti, ci sono povertà e divisioni. Però durante l’invasione italiana il mio popolo seppe trovare unità e difendere la propria indipendenza. Senza quella lotta avremmo vissuto da schiavi.


(avvenire.it, 6 giugno 2021)

di Antonietta Lelario


Ho letto questo saggio come un romanzo grazie all’appassionato amore per la libertà di Donatella Di Cesare, che traspare da ogni pagina, ma anche perché lì ho trovato ciò che in fondo si cerca nei romanzi: capire la realtà in cui siamo immessi, orientarci meglio nel nostro tempo. Credo che questo di capire di più sia un bisogno diffuso che non trova risposta nei mass media i quali non lasciano più spazio a domande vere, perché saldati strettamente a una politica chiamata solo a gestire e amministrare il dettato dei mercati. Tutto si consuma in un cerchio chiuso, salvo a cercare personalmente e con fatica i varchi per un altro tipo di comunicazione. Questo saggio su Il tempo della rivolta di Donatella Di Cesare è uno di quei varchi.

Il libro è una miniera di informazioni sulle molte rivolte che hanno costellato il nostro tempo: dalle primavere arabe a Occupy Wall Street, dalle rivolte delle banlieue parigine ai movimenti ecologisti, dai cortei di donne ad Anonimous, dalle manifestazioni dei neri alle performance artistico politiche, agli attraversamenti di confine dei migranti, ai gesti di chi li accompagna. Leggerlo mi ha continuamente richiamato alla memoria il respiro che ho provato ogni volta che ho visto questi sussulti della storia anche se avvengono in Spagna o a New York o nelle strade dei paesi latini, dove le donne gridano allo Stato: “Lo stupratore sei tu!”.

Questo saggio cerca un ordine, senza lasciarsi intimidire dai molti volti che le rivolte assumono. E come si fa a cercare un ordine senza voler classificare, irregimentare, irrigidire? Cercando tracce nascoste di senso, avventurandosi sul piano simbolico!

Il saggio è quindi anche un esercizio di lettura simbolica che cerca collegamenti inediti e osa smascherare la nudità del re.

Donatella Di Cesare dice: “Le migrazioni e l’aiuto che i migranti trovano nelle ONG e in tante associazioni fanno affiorare un’altra visione che non è solo extra-istituzionale, ma mette in discussione tutto l’apparato concettuale della modernità: dal tema della sovranità a quello del contratto, dall’idea di nazione a quella di cittadinanza e di frontiera statuale … Carola Rackete e i nuovi disobbedienti sono fuorilegge o cittadini esemplari? Minacciano l’ordine pubblico o consentono alla legge di ritrovare il senso perduto della giustizia?”. L’autrice intercetta le domande che ci siamo fatti pensando a queste azioni, alle scelte di Mimmo Lucano o alla lettera rivolta all’Europa della ex sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, ai gesti di Lorena Fornasir e Gianandrea Franchi con la loro associazione Linea d’Ombra. È vero! Sono gesti che “fanno appello al bisogno di giustizia mortificato, ma non ucciso all’interno della comunità”. E mostrano delle possibilità. Per cui il nostro tempo appare attraverso lo sguardo dell’autrice un tempo di possibilità.

Queste possibilità irrompono come lampi nel cielo della notte per smentire la vulgata postmoderna che proclama la fine della storia e vorrebbe condannarci a un eterno presente. Ma per vedere il sentiero che questi lampi illuminano solo per breve tempo bisogna allenare lo sguardo.

Noi donne siamo abituate a questa Storia che rompe la linearità del tempo perché i segni della libertà femminile sono sempre stati presenti ma in modo discontinuo, nel passato, in donne che hanno fatto apparire l’impensabile per il loro tempo, penso alle mistiche, ma anche a Olimpia de Gouges, alle scrittrici, alle scienziate che hanno ripensato il rapporto con la natura, o che, anche oggi, introducono elementi nuovi nel metodo scientifico o nell’economia, nella gestione dei Beni Comuni, e, nel pensiero, attraverso l’attenzione alla differenza sessuale. Questo modo di abitare il tempo mi è congeniale.

Quindi accolgo con gioia l’invito dell’autrice che, avvalendosi anche dell’autorità di Benjamin, invita a superare una concezione del tempo secondo cui il prima deve preparare per forza un dopo, a ogni causa deve seguire un effetto come se si trattasse di un ragionamento astratto e non della vita con la sua imprevedibilità, con i suoi inciampi, con le sue improvvise aperture all’imprevisto, con i suoi ritorni. A strade indicate e non ancora percorse?

Forse il modo femminile di rapportarsi alla Storia oggi può essere utile a tutti, ho pensato mentre leggevo.

E così con gioia ho accolto, in un momento storico in cui il termine identità la fa da padrone in ogni salsa, la polemica che l’autrice apre con Schmitt a questo proposito contrapponendo alla politica identitaria la vastità anarchica del mare che si sottrae alla legge del confine e facendo l’occhiolino alle donne che in quei confini non si riconoscono. “E perché poi, dovrebbero?”, lei dice. E a me è venuto in mente la torsione che noi donne abbiamo dato al vecchio slogan Donna non si nasce, si diventa, affermando invece Donne si nasce e si diventa che è stato il nostro modo di uscire dalla trappola identitaria, ricongiungendo natura e cultura, essere e divenire, radicamento e tensione verso l’infinito.

Infine, ma ci sarebbe tanto altro da dire, Donatella Di Cesare ci fa vedere come queste rivolte assecondino dei cambiamenti storici e delle trasformazioni nella forma del potere, infatti il passaggio dalla fabbrica alla piazza ha mostrato che non è più solo il lavoro al centro della contesa, ma l’insieme delle condizioni di esistenza perché il potere oltre a controllare lo spazio pubblico, decidendo ciò che è visibile e ciò che è dicibile, disciplina i corpi e invade le coscienze. Mi viene da pensare che nel passaggio alla piazza l’alleanza fra operai e studenti degli anni ’70 si allarghi alla grande marea femminista, facendo spazio ad anziani e giovani, a vecchi e nuovi esclusi.

Ma oggi è in corso un terzo passaggio di fondamentale importanza, ci dice l’autrice. Le nuove rivolte ruotano intorno alla questione dell’abitare intesa non come possesso dell’abitazione, ma “come rapporto politico esistenziale a sé, agli altri, alla terra” e sfidano la politica ad affrontare questo terreno: “come risiedere? come coabitare?”

Questo saggio si legge come un romanzo e come un romanzo chiede la collaborazione di chi legge e, come in tanti romanzi, il suo finale è aperto. La continuazione è affidata a noi, al nostro anelito ad una politica differente che sappia “liberare le forme di vita”, e qui di nuovo torna l’insegnamento femminile.


(www.bonculture.it, 4 giugno 2021)

di Davide Piacenza


Se sentite l’urgenza cocente di scrivere o dipingere, limitatevi semplicemente a mangiare qualcosa di dolce: vedrete che la sensazione svanirà. La storia della vostra vita non è materiale per un buon libro. Non ci provate nemmeno”. Quando scriveva queste parole a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta forse non immaginava una populistizzazione coatta della produzione culturale ancora di là da venire, ma Fran Lebowitz, elitista impenitente, aveva già fatto della schiettezza il suo tratto distintivo: era una “socialite” disincantata e beffarda, lavorava per la rivista Interview di Andy Warhol (con cui non andava d’accordo, ma “è andata meglio dopo la sua morte”, tiene a precisare) e si occupava di tutto ciò che i suoi colleghi dell’intellighenzia impegnata aborrivano, dal risparmio sulle spese di proprietà sugli immobili all’insondabile legame fra bel tempo e quartieri ricchi. Oggi i suoi scritti umoristici raccolti in Metropolitan Life e Social Studies (titoli datati rispettivamente 1978 e 1981, e gli ultimi veri libri che ha scritto: evidentemente sono stati quarant’anni pieni di dolci) escono per la prima volta in italiano, tradotti nel volume La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire (Bompiani).

Di Fran, settantenne che parla di sé dicendo “of course I’m still a very young woman” (ovviamete sono ancora una giovane donna), ci eravamo innamorati anche a queste latitudini grazie al documentario dedicatole dal suo amico Martin Scorsese, Pretend It’s A City, una piccola gemma di idiosincrasia e ironia affilata che cela appena un rifiuto garbato della contemporaneità. Fran Lebowitz, ebrea newyorkese, lesbica, mai laureatasi e sempre in bolletta, non vuole saperne delle battaglie identitarie che contraddistinguono quest’epoca: a un altro suo amico, l’editorialista Frank Rich ha detto “non sono contraria ai diritti gay, ovviamente: solo credo non siano il problema centrale. Voglio dire, guarda all’energia che abbiamo messo nei matrimoni omosessuali. Se nella vita reale ci fossero tante persone gay quante ce ne sono in televisione, staremmo discutendo di matrimonio eterosessuale”.

La prima indiscussa qualità di Lebowitz, in ogni caso, è la sentenziosità: in una riga o una battuta, Fran riesce a condensare mondi, spesso con più efficacia intellettuale dei colleghi impegnati di cui poco sopra. Parlando dei suoi viaggi nell’Italia di quarant’anni fa, l’umorista spiega che a Milano “ci sono due categorie di persone: quelli che lavorano per i vari Vogue e gli altri”; “le persone che incontro sono quasi tutte comuniste, in particolare i ricchi” e ancora “a Milano lavorano tutti, e se piove danno la colpa a Roma”. Anche la capitale è fotografata con una precisione che ha dello scientifico, nella pagina seguente: “La gente passa la maggior parte del tempo a pranzare. Roma è senza dubbio la capitale mondiale del pranzo”.

In tempi di cancellazioni, lo spirito anticonformista e antimoralistico di Fran Lebowitz è merce rara: quando racconta al suo sodale Scorsese (che ha difeso dalle accuse di sottorappresentazione femminile nei suoi film, spiegando che l’importante è quante donne registe ci sono, non quante donne nei film di un singolo regista) di non credere che “ci siano persone come me nelle generazioni più giovani. Perché non gli sarebbe permesso essere come me. Non che la mia vita sia stata tutta rose e fiori, non che la gente adori come sono fatta, ma o sono assurdamente critiche, in modo abbastanza folle – tipo «detesto come tieni i capelli, devi morire» – o incredibilmente esagerate nelle lodi”, centra un punto importante. Rifiuta orgogliosamente di arrendersi a smartphone e social network (e quando nei salotti che frequenta glieli si mostra come per educarla, si inalbera: “Non è che non ho queste cose perché non le conosco: non ce le ho perché so esattamente cosa sono”), ama i bambini perché sono “i migliori avversari che si possano desiderare a Scarabeo” e non tollera la mania per le piante da appartamento ed eccentricità altoborghesi come il succo di lime sulle patate gratinate.

Da più di cinquant’anni la accusano di connivenza con le élite, un altro penchant che la vede seduta dalla parte con meno posti occupati della storia, ma lei metteva in chiaro le cose già al compagno di pranzi e cene nei ristoranti di Manhattan, Frank Rich: “Quando la gente dice che odia le élite, vorrei che intendessero i ricchi. Ma non è così: odiano le persone intelligenti. Il paese adora la gente ricca. Vorrei vedere un po’ di lotta di classe, l’unico tipo di guerra detestato dai repubblicani”. Anche gli intellettuali meno impegnati, nel loro piccolo, s’incazzano.


(Wired.it, 3 giugno 2021)

di Eleonora Negrisoli


«Ma io ero pietra, / ero gelo o fiamma, / febbre o abbandono, / ma non ero ancora…». A scrivere è Piera Oppezzo: donna algida e silenziosa, decisa e solitaria, poeta sconosciuta ai più, si è mossa nei sentieri della poesia lasciando dietro di sé poche, ma indelebili, tracce. Di lei rimangono soltanto le testimonianze di coloro che l’hanno incontrata e due scatole di cartone con “le sue cose”, affidate all’amico Luciano Martinengo poco prima di morire.

Piera Oppezzo nasce a Torino il 2 agosto 1934, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, che la circonderà di «quei boati fra le valli / che mi toglievano all’infanzia». La sua famiglia proviene da un ambiente umile, e lei è costretta dalla necessità a lavorare; è così che, ancora bambina, prende impiego come aiuto sarta, frequentando soltanto la scuola domenicale.

Cambiando i più disparati impieghi, Piera continua a lavorare, o meglio: a lavorare per sopravvivere, ma a vivere per scrivere. Infatti, Oppezzo comincia a scrivere molto presto (quando non si sa, ma nei famosi scatoloni sono rimaste poesie che risalgono al 1952). In questi versi, inediti fino a quest’anno, c’è la quotidianità di una giovane donna, il cui «dolce amore per la vita è snervante e imperfetto». Piera si lascia incantare, a volte dall’amore, a volte dal jazz, altre dal «Verde e azzurro / intorno», eppure soffre spesso, sopraffatta da uno «scattante dolore / puntuale presente quotidiano».

Altro tema che compare in questi suoi primi versi è quello del lavoro, sempre visto – in perfetta linea con quello che sarà il pensiero dei movimenti rivoluzionari negli anni Settanta – come costrizione e alienazione: «I poveri giorni / in cui si crede veramente / di essere la persona / che compie il lavoro quotidiano». Eppure, è proprio in un contesto lavorativo – in quel momento Oppezzo era dattilografa in Rai – che vengono scoperte le sue poesie. I suoi versi cominciano ad essere pubblicati in diverse riviste, per poi approdare nel 1966, con L’uomo qui presente, nella prestigiosissima Collana Bianca Einaudi (e pensare che l’unico altro poeta italiano pubblicato dalla casa editrice in quello stesso anno fu l’inestimabile Cesare Pavese!).

“L’uomo qui presente” è l’essere umano contemporaneo, costretto in un «Mondo attualmente esaurito figurativamente / su scatole tubetti risvolti / interno d’autobus cantieri», e, per dirla sempre con i suoi versi, «nell’attuale mondo confezionato / con qualità d’apparenza altamente reclamizzate / ovvero un falso autentico rispetto alla natura / e più stipato di fatti e oggetti». Continua dunque l’oggettiva denuncia della realtà, che di rado lascia spazio a sentimenti (e a sentimentalismi tanto meno). Nella poesia, così come nella vita, di Piera non c’è tanto spazio per le relazioni, spesso vissute con evasività e distanza, come ci raccontano le persone che l’hanno conosciuta.

Il Sessantotto è alle porte e la poeta, lasciandosi alle spalle il clima culturale torinese nel quale ormai si era inserita, si trasferisce a Milano. Sono gli anni dell’attivismo femminista e dell’impegno politico nella sinistra extraparlamentare, della grande speranza che nutre la scrittura di “1967 Sì a una reale interruzione” (intensa plaquette pubblicata, dopo la chiusura con Einaudi, nelle Edizioni Geiger solo nel 1976). Qui la poesia di Oppezzo, contro ogni stereotipo sulla scrittura femminile, si fa totalmente concettuale, quasi militante. Attraverso un linguaggio duro e scarnificato la poeta si fa portatrice delle «CONTESTAZIONI TOTALI CONTINUE» che in quel momento guidavano i movimenti rivoluzionari, a Milano e in gran parte del mondo.

Dunque, il primo periodo milanese è rigoglioso per la poeta, che finalmente può riemergere da quel dolore così profondamente annidato in lei: «E adesso, tra le rovine del mio essere, / qualcosa, una ferma utopia, sta per fiorire». Quella sua decisione di mutare il mondo per un momento la spinge oltre sé stessa, le dà la forza di «scavalcarsi, finalmente»; ma svaniti i fumi del Sessantotto, la sofferenza di Piera sembra riaffiorare inesorabilmente. Torna la necessità della solitudine, dell’austero isolamento – «L’astro freddo ci affascina», aveva scritto un po’ di anni prima.

Si trasferisce da sola in un appartamento della nota casa occupata di via Morigi 8, sempre a Milano. Quando non lavora, passa le ore davanti alla sua macchina da scrivere, nella piccola cucina di casa, una stanza luminosa, dove «il soffitto è la palpebra», sempre aperta all’universo altro della creazione poetica. Ogni tanto scende nel cortile comune, sempre in fermento culturale: ascolta con attenzione, parla ogni tanto – e quando parla, “la Piera”, non si può fare a meno di lasciarsi incantare. Ma Casa Morigi viene sgomberata e Oppezzo è costretta a trasferirsi in una casa “protetta” del Comune; poi un incidente domestico la costringe a una sofferta convalescenza presso l’Eremo di Miazzina, dove muore in solitudine il 19 dicembre 2009.

La figura di questa donna rimane avvolta nel mistero e la sua poesia resta indicibile, incollocabile, radicalmente fuori da ogni canone. Eppure, forse, è semplicemente come Piera Oppezzo avrebbe voluto: restare in disparte e affascinare da lontano, disfarsi nell’ombra per rifarsi in quel tanto ricercato assoluto, «perfetto / come il volo / della tua tristezza».


SENTIMENTO AD UN UOMO

Come un ramo di pesco fiorito

la tua testa curva e sospesa;

alte colline, in primavera

pareti d’erba, ti custodiscono.

Nel pulviscolo e il vento

solo la tua armonia sola

mi sta aperta nel cuore

fino a domani e domani.

Ancora – sento il mio dolore

Durare in me come sogno.

(aprile 1955)


DISEQUILIBRIO

(da L’uomo qui presente, 1966)

La nostra vita

nel tempo trema tutta

di scompensi e previsioni,

di atti impersonali e indomabili

nella loro astratta espansione.

Ogni giorno

circoscritto dal tempo.

Un tempo presente, esterno

che noi seguiamo incapaci,

un po’ distrutti nello spirito

per tendenza naturale

e conseguenza logica.


L’AZIONE

(Da 1967 Sì a una reale interruzione, 1976)

reale impotenza

non impassibili tuttavia fermi

finché non inserito nel comportamento privato

sempre sconnesso nel suo insieme

un concetto di intervento

davanti a torture

o altra violenza organizzata

azioni dovrebbero inserirsi molto presto

perché il ritmo giornaliero

perda l’andatura di un genocidio

e la massa di astrazioni

cessi di consentire un tipo di morte

che per inerzia richiami morti successive

contro la coesistenza

troncare partecipazione indiscriminata

a valori fissati da vittorie precedenti

e gerarchie morali ridotti

per restituire a idee e azioni

la PERICOLOSITÀ PERDUTA

creando uno svolgimento

che rifiuti modelli

in tattica o strategia agire

per colpire realtà stabilite dal nemico

che esercita un ricatto sull’umanità

con preliminari molto reali

spogliare la realtà del privilegio dell’inaccessibilità

una nuova formulazione dei problemi creando

come forma di controllo

INVENZIONE CONTINUA

distruzione definitiva suppellettili

confortanti la non-libertà

CONTESTAZIONI TOTALI CONTINUE proponendo

impadroniti di tensione propria verso

realizzazione dell’uomo

è possibile tentare un livello di festa

anche ora dopo ora quotidianamente

situati male ubicati mentalmente

tuttavia quasi rilassati non troppo lontani

da uno splendore di superficie in alcuni casi

fra torture e altre dimenticanze

certo diminuiti emozionalmente

NON PROSEGUIRE introdurre cose

distribuzione parola d’ordine

cioè passare a UNA REALE INTERRUZIONE

impadroniti di tensione propria verso

realizzazione dell’uomo.


COME UNA SCIARPA TROPPO LUNGA

Per me poesia è qualcosa da dire

di molto confuso e parziale

che da tempo circola fuori e dentro.

A un certo punto mi trovo

come con una sciarpa troppo lunga

che stringe il collo

si aggancia al tacco dello stivaletto.

Mi chino e mi do da fare

per tirarla via prima che mi costringa

a camminare con una gamba sola

Quando una poesia è scritta c’è.

Prima ronzava invisibile

formicolava nella testa e nello stomaco,

in ogni caso una poesia

me la porto sul tram

le faccio vedere come tutto si muove

che c’è il sole e arriva il caldo

e le assicuro che anche lei arriverà

– parziale e precisa –

anche se rimando sempre l’ora

e preferisco lavarmi i capelli

fare qualcosa di più vago, disperdermi,

fare qualcosa dove lei ancora non c’è

ma potrebbe benissimo esserci.

(aprile 1977)


VIVENTE AL RISVEGLIO

(Da Andare qui, 2003)

Quali sono. Le cose che ci stanno a cuore.

Vivente solleva il peso di questa domanda.

Avvia la mente verso il cuore e l’opposto.

La domanda subisce scontri. Crolla più volte.

Vivente appoggia la fronte alla finestra.

Vuole traslocare all’esterno l’argomento.

Si provvede di attenzione. Fa questo lavoro.

Cerca di svegliarsi si può dire.

Dopo qualche accorgimento. Aspetta.

Passioni nuove? Solo toni giusti per nominare.

Toni neutri. Per ripetere senza sfarzo.

Al viavai dei corpi in strada ormeggia.

Per le cose a suo nome trova il la poco più in là.

La domanda affolla facce di risposta.

Linee. Lineamenti in montaggio sovrapposto.

A vivente esplodono importanze che non sapeva.

1991-92-98


Fonti: P. Oppezzo, Una lucida disperazione, Interlinea, 2016; P. Oppezzo, Esercizi d’addio, Interno Poesia, 2021; L. Martinengo, Il mondo in una stanza. Piera Oppezzo poeta, 2018.


NOTA – POETA O POETESSA?


In generale, spiega Vera Gheno in Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, i linguisti consigliano di non utilizzare il suffisso -essa, in quanto storicamente usato per designare “la moglie di”, oppure per conferire una connotazione dispregiativa. È anche vero che è rischioso intervenire sui termini che sono già pacificamente nell’uso, come poetessa, appunto. In ultimo, tra poeta o poetessa, Alba Sabatini consiglia di utilizzare poeta (accompagnato dall’articolo femminile), in quanto foneticamente legato al genere femminile sin dalla sua origine latina, e in quanto associabile per analogia ad altri nomi femminili o epiceni (es: atleta). Si veda Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, estratto da Il sessismo nella lingua italiana a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, 1987. La questione non ha una risposta univoca, importante è utilizzare queste parole consapevolmente.


(editorialedomani.it, 28 maggio 2021)

di Serena Tarabini


Nel 2015 tutti i paesi che appartengono alle Nazioni Unite hanno sottoscritto l’Agenda 2030, una linea guida per i governi, le istituzioni, le aziende, le scuole e per tutte le cittadine e i cittadini del mondo. Dall’energia pulita alla lotta alla povertà, dalla parità di genere al contrasto del cambiamento climatico, l’Agenda raggruppa 17 obiettivi da perseguire per non distruggere il mondo.

Queste buone intenzioni istituzionali non servirebbero a nulla se non ci fossero a sollecitarle e sostenerle le azioni concrete di uomini e donne che di quegli obiettivi hanno fatto una missione; un fronte politico e sociale che allo stato attuale, fatto inedito nella storia del pianeta, vede come componente più visibile e interconnessa un fronte di giovani e giovanissimi, dove le donne hanno uno speciale e naturale protagonismo. Green girls. Storie vere di ragazze dalla parte del pianeta (Giunti Editore) è un libro uscito in occasione della giornata mondiale del pianeta, che fa il giro del mondo per raccontarci di una quantità enorme di attiviste per l’ambiente, donne piene di tenerezza, entusiasmo, generosità, invenzione e di quella pietas per il vivente non umano di cui questa società ha un disperato bisogno per cambiare. 
Forse perché molte di loro sono ancora delle bambine, nate nel secolo ventuno e non hanno intenzione di perdere quella capacità di stupirsi e innamorarsi della natura che ci circonda e questo può rappresentare una speranza per il futuro. Il libro è pensato per giovani lettori e lettrici dai dieci anni in su, reso un caleidoscopio colorato dalle bellissime illustrazioni di Susanna Rumiz, ma le storie che l’autrice, la giornalista e scrittrice Christiana Ruggeri ha voluto raccontarci, devono essere conosciute da tutti e tutte. Alcune arrivano da angoli remoti e del mondo, come la Nuova Zelanda dove India Logan-Riley, la «maori bianca», con uno squalo bianco, simbolo di determinazione, tatuato sul braccio, prende parola, crea reti, stringe relazioni per combattere i cambiamenti climatici, tutelare la biodiversità, superare le disparità sociali.

Altre sono storie con eventi drammatici, come il tifone Yolanda che ha colpito le Filippine e spinto l’adolescente figlia di un pescatore Marinel Sumook Ubaldo, che in quella tragedia ha perso parte della sua famiglia, a denunciare l’ingiustizia climatica, che fa sì che siano i luoghi più poveri della terra a pagare per le attività che provengono dai luoghi più ricchi. Molte di queste giovani attiviste appartengono a minoranze, come Autumn Peltier, nativa canadese, che a soli quindici anni diventa il capo della Commissione acqua di un gruppo di popoli indigeni del nord-est dell’Ontario. Molte altre sono straordinariamente giovani: c’è la pasionaria di Denver, Haven Coleman, che a dodici anni trascina in piazza migliaia di giovani per lo sciopero del venerdì, la britannica Nadia Sparkes che nel 2017, prima dell’esplosione del fenomeno Greta Thumberg, comincia una battaglia solitaria e silenziosa pulendo l’ambiente dai rifiuti e a tredici anni diventa un’icona, ma anche vittima di atti di bullismo. La più giovane in assoluto è Lilly Platt, olandese, che a soli nove anni dichiara guerra alla plastica, diffondendo i video delle sue azioni di raccolta che diventano virali e viene scelta come testimonial da molte associazioni ambientaliste. Altre storie provengono da luoghi devastati da guerre, povertà, terrorismo, crisi umanitarie, ciononostante, nonostante i rischi e le limitazioni, delle giovanissime donne si sono attivate trascinando altre persone, come la nigeriana Adenike Titilope che a cominciare dal prosciugamento dell’immenso e vitale lago Chad, denuncia al mondo le conseguenze della crisi climatica.

Quello delle Green girls è un movimento senza frontiere, che attraversa i continenti e sfrutta nel migliore dei mondi l’attrattività e pervasività dei social; molte di loro erano attive da prima che i Fridays For Futures le proiettassero sullo scenario mondiale. E a chi le osserva in maniera paternalistica e scettica si dovrebbero far leggere le parole di Alice Imbastari, fra le più giovani attiviste italiane: «Si deve sempre proteggere la terra, in qualunque condizione, a tutte le età. Ci dicono che siamo troppo piccole, io dico che siete troppo grandi per non aver fatto ancora qualcosa».


(il manifesto – L’Extraterrestre, 27 maggio 2021)

di Paola Caridi


Se invece volete saperne di più delle cosiddette “mere questioni immobiliari” a Gerusalemme, vi consiglio un libro per ragazzi, Gerusalemme. La storia dell’Altro. Sì, un libro per ragazzi. Perché quello che succede a Gerusalemme, in questi giorni, mostra ancora una volta la necessità di conoscere nei dettagli la grammatica di una città. Compresa la grammatica delle mappe catastali. È un libro che non a caso ruota tutto attorno a una casa. Un immobile a Musrara, un quartiere nato negli stessi anni in cui nasceva, proprio accanto, il quartiere di Sheikh Jarrah. Si era a cavallo tra il XIX e il XX secolo, c’era ancora l’Impero ottomano. Di lì a poco ci sarebbe stata una guerra mondiale e il cambio al potere, con il Mandato internazionale e i britannici a governare sulla Palestina storica.

La piccola storia di Musrara ruota tutta attorno a una casa. Costruita dai palestinesi, che fuggono nel 1948 e che a casa loro non possono tornare perché gli israeliani ora occupano quelle case che si trovano a occidente della linea dell’armistizio. La Linea Verde. E poi perché Israele ha varato una legge, la legge dei proprietari assenti del 1950: non possiedi più quella casa se in quella casa non ti trovavi nel periodo della prima guerra arabo-israeliana. Così, da quella casa sei stato costretto a fuggire, in quella casa non puoi rientrare perché te li impediscono, e di quella casa non puoi rientrare in possesso anche se hai tutti i documenti. Questa è Gerusalemme.

Come dice Gad Lerner, «lo sfratto di quattro case abitate da palestinesi nel quartiere Sheikh Jarrah a Gerusalemme, giustificato come restituzione perché 73 anni fa avevano proprietari ebrei, è un caso di pulizia etnica. In base a questo principio, quante case andrebbero restituite ai palestinesi?»

La bella villa di Musrara era della famiglia palestinese dei Dajani. È stata trasformata in un palazzetto di quattro piani, suddivisa tra diversi proprietari israeliani. Ci ho vissuto per dieci anni, da affittuaria. Ne ho scoperto pian pianino la storia, aiutata da chi – alla fine degli anni Trenta del Novecento – era stato il mio “virtuale” vicino di casa. Quando la casa dei Dajani era la casa dei Dajani, che vivevano all’ombra dei cipressi e dei gelsi che sono rimasti gli unici testimoni, guarda caso non-umani, di quello che succede ogni giorno nella piccola strada che sale verso il municipio di Gerusalemme.

Dunque, di chi è la casa? Di chi l’ha costruita con fatica? Oppure di chi ci vive, ci è nato, la abita da oltre settant’anni? I coloni israeliani hanno aperto a Sheikh Jarrah il vaso di Pandora immobiliare. Sanno che la legge (israeliana), costruita come un bel vestito dalla Knesset, li difende e li protegge. Ma sanno che dentro quel vaso di Pandora c’è l’essenza stessa della questione israelo-palestinese?

Di chi è la casa?


(www.invisiblearabs.com, 11 maggio 2021)

di Alessandra Pigliaru 


A proposito di due recenti pubblicazioni, un romanzo della ecologista e un libro su di lei, editi da Fandango. «Una lepre dalla faccia di bambina», opera di narrativa del 1978 sul disastro di Seveso con la voce dei ragazzi. I «dialoghi possibili» di Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi immaginano che la scrittrice entri in conversazione con le giovani donne e femministe odierne. Morta nel 1993, era nata nel 1921. Comunista, medica, ambientalista tra le più convinte, il suo orientamento è prezioso ancora oggi

L’attenzione alla esistenza e alla intelligenza politica di Laura Conti è un segnale da salutare con fiducia verso il futuro. Per tutto quello che ha fatto, rappresentato e tribolato questa medica e scrittrice, partecipando alla Resistenza, partigiana arrestata e deportata nel lager di Bolzano, socialista poi dagli anni Cinquanta militante, spesso non convenzionale, del Pci, tra i fondatori della Lega per l’Ambiente, ecologista e amica della libertà femminile. Nelle foto che circolano è ritratta con un sorriso aperto e uno sguardo che sapeva vedere lontano, il vivente e le conseguenze dei disastri causati dal profitto e dalla violenza dell’umano, ecco alcune delle sue lezioni che potrebbero interrogarci ancora oggi.

Laura Conti è morta nel 1993 a Milano, aveva settantun anni e ci ha lasciato lavori importanti, sia saggistici che narrativi, contributi giornalistici da grande e acuta divulgatrice e osservatrice del presente quale è stata. Situato, il suo impegno politico nasceva da una saldatura tra prassi e teoria, un sapere critico e insieme un rigore della esperienza per cui le cose si fanno «per amore», non solo per sé stesse ma per un comune di tutte e tutti che abbia contezza di una «praticabilità della vita», come l’avrebbe definita Lucia Bertell, altra maestra di pensiero scomparsa troppo presto. 
Individuare allora un’attualità del pensiero e delle pratiche di Laura Conti, fuori da un certo strumentale ecologismo da pentimento del capitale, è un gesto politico con un senso preciso; lo ha pensato anche la casa editrice Fandango, con la sensibilità di Tiziana Triana, che ha raccolto in una operazione meritoria e radicale due libri: uno è la ripubblicazione del romanzo che Conti scrive nel 1978 Una lepre con la faccia di bambina (pp. 142, euro 13, con un’avvertenza di Marco Martorelli). Il secondo volume è a firma invece di Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi e si intitola Laura non c’è. Dialoghi possibili con Laura Conti (pp. 125, euro 12). Sono da leggere entrambi con gratitudine nei confronti di una figura certo conosciuta, centrale e circolante sia pure mai abbastanza. Mai come avrebbe dovuto – e dovrebbe ancora – dettare e governare, cioè capillarmente nelle scuole nelle università nelle piazze nei dibattiti, soprattutto a sinistra poterne riconoscere l’inaggirabile spinta e sapienza.

Una lepre con la faccia di bambina arriva dopo altri due testi narrativi: Cecilia e le streghe (1963) e La condizione sperimentale (1965); nel frattempo pubblica saggi sull’educazione sessuale, sul nesso tra capitale, lavoro e ambiente. È il 10 luglio del 1976 quando una nube tossica carica di diossina si sprigiona dallo stabilimento dell’Icmesa, industria chimica situata tra i comuni di Meda e Seveso, nell’hinterland milanese. Osservatrice di eccezionale lungimiranza, Laura Conti all’epoca è consigliera regionale del Pci e segretaria della Commissione Sanità ed Ecologia del Consiglio regionale della Lombardia (un contributo recente sulla sua parabola biografica è La via di Laura Conti di Valeria Fieramonte, intervistata nell’inserto del manifesto «Extraterrestre» da Serena Tarabini, 1/4/2021).

Conti segue in prima persona ogni passo relativo a quella catastrofe, insisterà per far comprendere la devastazione di una sostanza come la diossina, ne scriverà nel 1977 in un libro dal titolo Visto da Seveso e poi ecco che capisce a chi desidera rivolgersi, a differenza di tanto disprezzo contemporaneo riguardo le giovani generazioni tacciate un po’ di inutilità critica quando non sistematicamente abbandonate: l’interlocuzione di Una lepre con la faccia di bambina è con le ragazze e i ragazzi, quelli che negli anni del disastro industriale vivono nei territori colpiti e hanno diritto di essere informati con chiarezza su quanto sta capitando, che mondo gli adulti si stanno impegnando a lasciare loro. Voleva insomma essere un’opera di divulgazione scientifica ed è invece diventato un romanzo in cui si affrontano nodi storico-sociali di prima grandezza: le menzogne del progresso, la miseria simbolica di chi negava la realtà, il sacrificio di migliaia di animali avvelenati mandati a morire, non ultimo una comunità cattolica come quella di Seveso sconvolta da un veleno che contaminava e provocava malformazioni congenite e che si trovava a fare i conti con l’aborto, con una sessuofobia mista a un’angoscia irrazionale che spingeva alla rimozione. Marco e Sara, personaggi letterari del romanzo sono dodicenni, vivono ai margini di una Brianza culturalmente impoverita, possiedono una lingua italiana che la scrittrice, a lungo medica scolastica, definisce «coloniale», è un linguaggio che sottostima l’umano «nei confronti degli oggetti che lo sopraffanno». Ma allora questa scelta linguistica, si domanda Conti, utilizzata per raccontare e informare di un dramma, è forse linguaggio della decadenza o dell’aurora?

Marco e Sara sono alle prese con le meschinità del proprio tempo, quotidiane, materiali, semplici, mentre la storia grande procede per snobismi e frodi in una lontananza quasi incomprensibile, le loro sono le vere «innocenze folgorate», insieme a quelle della povera gente che – come dice a un certo punto la madre della ragazzina – «roba avvelenata deve mangiare». Da un orto silenzioso, si solleva lo sguardo di Marco e Sara che incontriamo nelle settimane successive al disastro, prima delle bonifiche ma già nella divisione territoriale in zone di gravità. Inconsapevoli cronisti, si accorgono di ogni dettaglio fino all’entità delle conseguenze sanitarie, sociali e ambientali. Sfollati insieme alle loro famiglie e trasferiti in un albergo, nel romanzo emerge la crudeltà giocata sui corpi dei bambini e su quelli delle donne che da un lato erano costrette ad ascoltare i monsignori e dall’altro non potevano ancora accedere liberamente alla interruzione volontaria della gravidanza.

Sta di fatto che Conti continua a parlarci, una centenaria con la mente vivacissima tanto da sentire quasi la sua voce ed è in questo desiderio potente di ridarle parola che Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi nel loro Laura non c’è ne resuscitano il rilievo teorico, costruendo delle conversazioni in cui la sorprendono a interagire con donne e ragazze che hanno scelto la sostenibilità, l’ambientalismo, il veganesimo, il femminismo e l’irriverenza generativa di immaginare un mondo possibile. Incontreremo e riconosceremo Rachel Carson, Alex Langer, Lyubov Sirotà, Marie Curie ma anche Giorgio Nebbia, Barry Commoner e tanti felini. Il Fondo, costituito dalla biblioteca di Laura Conti (circa seimila volumi) e dall’archivio di carte, si trova alla Fondazione Micheletti di Brescia, ed è proprio lì che Bonomi Romagnoli e Turi si sono recate più volte, per mesi immerse in letture e ricerche trovando infine connessioni originali e ironiche, dando all’incedere della scrittura l’ordito di una storia diversa in cui chi è arrivata prima di noi può avere un ruolo attivo nella memoria relazionale della politica delle donne. Fandango promette anche la riedizione degli altri libri scritti da Laura Conti, li aspettiamo come una bussola terrestre e amorosa per le creature del futuro.


(il manifesto, 8 maggio 2021)

di Nicole Janigro


«La pandemia ci ha fermati, un fermarsi che può dimostrarsi produttivo e fecondo. La pandemia è un effetto della crisi ecologica, ci invoca in questo agire dissennato e predatorio, in questa hýbris onnipotente, e ci riconsegna alla necessità del limite». A fine gennaio, in uno degli incontri che radio tre ha dedicato al tema della cura, Elena Pulcini intrecciava parole sorelle e concetti fratelli per descrivere l’esperienza globale di vulnerabilità e offuscamento, per sottolineare, ancora una volta, la sua idea di cura come disposizione affettiva e pratica, capacità quotidiana dell’impegno.

Una tematica che, insieme a quelle delle passioni e del dono, ha nutrito un percorso intellettuale di grande rilievo, anche sulla scena internazionale, condiviso nello scambio con allievi e colleghi, punteggiato da testi seguiti da un ampio pubblico di lettori, mosso da un’idea di spiritualità legata a una visione della comunità e a un sentimento religioso vicino in modo non formale all’insegnamento cristiano. Nella prospettiva di un mondo nuovo che azzarda l’utopico dove pratiche collettive e solidali non si danno senza un’esposizione personale.

Il nove di aprile il Covid si è portato via Elena Pulcini. Era nata a L’Aquila il 10 marzo 1950. Tutti quelli che hanno potuto hanno partecipato alla cerimonia funebre in suo ricordo che si è svolta a Firenze nella chiesa di San Miniato al Monte. E già in tanti torniamo alle riflessioni che la filosofa aveva sviluppato e, nell’ultimo anno, incessantemente puntualizzato.

Per la studiosa la cura è una parola matassa dalla quale sfilare temi che intersecano discipline diverse per perseguire una rifondazione dell’idea di soggetto. In un superamento di gerarchie valoriali, in una prospettiva che si propone di rovesciare il tradizionale dualismo tra ragione e passione, le emozioni diventano il vettore di un orientamento capace di trasformare l’isolamento sovrano dell’homo oeconomicus, la cui logica riduzionista ha messo in pericolo non solo l’ambiente naturale, ma la vita stessa dell’essere umano.

«Perché ci prendiamo cura anche quando non siamo legati da legami personali? Perché lottiamo per la giustizia anche quando non ci riguarda direttamente?» sono gli interrogativi che aprono Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale (Bollati Boringhieri, 2020), il suo testo più recente che sviluppa e approfondisce le considerazioni di La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale (Bollati Boringhieri, 2009). Elena Pulcini sceglie un punto di vista originale, quello di una psicologia morale, per «affrontare il problema delle motivazioni affettive che stanno a fondamento sia della domanda di giustizia sia della disposizione alla cura». Il distinguere le molteplici declinazioni della vita emotiva la conduce a sottolineare la potenzialità etica delle emozioni che qui usa spesso come sinonimo di passioni. È un’etica della cura che, sovvertendo il codice egemonico degli ultimi secoli, mette al centro la vulnerabilità della condizione umana, indissolubile da una ferita che nutre anche le passioni, sia quelle positive che negative. In particolare all’invidia ha dedicato diversi testi, tra cui Invidia. La passione triste (il Mulino, 2011).

L’affettività della cura riparte dal pensiero delle donne, dalla costanza e continuità della pratica femminile: una forma di vita che può diventare scelta di vita (una sintesi molto efficace di questo aspetto decisivo del suo pensiero è Soggette alla cura o soggetti di cura? in Dare corpo prendere corpo: donne che creano, rivista di psicologia analitica, n. 87, 2013).

Questa cura, per non essere svalutata, come storicamente è avvenuto, richiede una teoria capace di integrare i diritti formali, libertà e uguaglianza, con il bisogno di un soggetto, sempre diverso, scosso dalla paura e dall’incertezza. Una condizione segnata inesorabilmente dal peso emotivo della dipendenza e dall’insormontabile del corpo. Nella quale non siamo soli. E che non si ferma, però, per l’autrice, alla metafora materna, all’immagine archetipica di un grande e di un piccolo. L’attenzione alla postura del soggetto proteso verso qualcosa che si trova fuori di sé, l’immagine di un soggetto inclinato, nella prospettiva di Adriana Cavarero nel suo Inclinazioni. Critica della rettitudine (Cortina, 2014). Per Elena Pulcini il “quadro” madre-figlio «rischia di congelare le due parti della relazione nei ruoli fissi del soggetto (inclinato) e dell’altro (vulnerabile)».

In Tra cura e giustizia propone una rappresentazione dove «la cura non è altruismo, ma un’attività cooperativa in cui gli interessi del caregiver e del care receiver sono interdipendenti». Difficile non pensare al modo in cui il virus ha inciso nel rapporto tra medico e paziente – anche chi cura può essere contagiato – l’esigenza della protezione in simultanea di se stessi e dell’altro. Un comportamento imposto, eppure capace di prefigurare la “nuova etica” delineata da Elena Pulcini. Dove diventa costitutiva la relazione tra cura e giustizia – e anche qui difficile non pensare al criterio di scelta della precedenza nelle vaccinazioni. L’autrice cerca di indicare una via per superare l’unilateralità di pubblico e privato, di un criterio astratto (maschile) e di un criterio attento al bisogno (femminile). Il paradigma razionalistico, che immagina i soggetti tutti uguali, liberi e indipendenti, non riconosce la realtà del bisogno. Il soggetto unico oggi non si basta più, rischia di autodistruggersi per gli effetti divenuti disfunzionali del modello liberale e contrattualistico.

È una pratica sociale che può rendere possibile l’integrazione di «un valore rimosso o comunque marginalizzato», come la cura, con una giustizia destituita dalla sua posizione dominante. Il punto di congiunzione tra le due etiche sta tutto e ancora nel concetto di vulnerabilità: condiviso dai filosofi dell’alterità (Lévinas, Ricœur, Jonas) e da voci anche molto diverse del pensiero femminista, «sembra assumere un ruolo fondativo nel proporre percorsi alternativi ai paradigmi mainstream della modernità, opponendo a un’ontologia individualista un’ontologia relazionale».

Interessante la vicinanza con diverse riflessioni della psicoanalisi contemporanea che invitano a un pensiero critico sulla condizione dell’individuo, mettendoci di fronte a una situazione di pericolo per l’Io-mondo, a partire dal concetto freudiano di Hilflosigkeit, l’esperienza originaria di impotenza che richiede l’intervento di un altro “essere prossimo”. Christopher Bollas parla di soggetticidio, arriva a prefigurare il rischio della scomparsa della specie, Anna Ferruta parla di una cura per «la sopravvivenza e lo sviluppo del vivente».

Elena Pulcini non condanna l’individualismo, e non parla di narcisismo, ma mette in guardia dal dilagare della passione dell’egoismo illimitato, dal desiderio “immunitario”, illusorio in un mondo globalizzato. Che può diventare «una società decente» se riuscirà a essere “civile” progredendo attraverso la cooperazione di un «soggetto emozionale che approda alla metamorfosi in quanto si lascia decentrare dalla dinamica relazionale delle passioni». Allora non a caso, pur ripercorrendo la storia novecentesca del concetto di empatia fino ai suoi approdi più attuali come quello dei neuroni specchio, l’autrice fa un passo indietro.

Torna alla simpatia, che presuppone la reciprocità e il benessere dell’altro, a partire dal pensiero illuminista di Hume e Smith e dalle scienze biologiche ed etologiche. Siamo così più vicini all’idea di sentimento morale, indispensabile per la rifondazione di una teoria della soggettività etica, che chiede azione e impegno per essere capaci di «coerenza tra la nostra vita emotiva e la nostra vita activa». Per appartenere a una comunità.

È la responsabilità che tutti abbiamo nei confronti dell’altro inteso, in questa paidéia delle emozioni, come l’Altro distante nello spazio (ovvio i migranti, ma non solo, tutti quelli che verrebbe da definire “loro”), e nel tempo, il non-ancora delle generazioni future. Per Elena Pulcini è una promessa: per affrontare l’incertezza del futuro, per renderlo possibile.


(Doppiozero, 27 aprile 2021)

di Luciana Tavernini


Recensione del libro di María-Milagros Rivera Garretas; a cura di Loredana Magazzeni e Luciana Tavernini, Emily Dickinson. Vita d’Amore e Poesia, VandAePublishing 2021.


Come svelare il non ancora detto che la vera poesia ci può far scoprire? Come comprendere le rivelazioni che le parole nell’uso corrente non riescono a dire?

Due traduttrici in relazione tra loro, Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas, hanno messo a punto una modalità in cui, restando fedeli alla lettera del testo e dandosi tempo per far emergere situazioni concrete, hanno illuminato di senso quello che a una prima lettura appariva indecifrabile.

Invece di utilizzare la così detta “ideologia della traduzione”, che rende invisibile chi traduce e fluido, normalizzato il testo, con equivalenze linguistiche agevoli, per una decina d’anni, tra il 2005 e il 2015, hanno tradotto dall’inglese allo spagnolo le 1786 poesie di Emily Dickinson.[1]

Questa poeta, per poter rendere dicibile ciò che era necessario fosse detto, ha spiazzato le norme linguistiche, superando i limiti di punteggiatura, ortografia, sintassi e composizione del suo tempo, ha utilizzato e contribuito a mantenere viva la lingua materna. Una lingua materna che ha obbligato le due traduttrici a riappropriarsi della propria lingua e della loro esperienza di donne; ha permesso loro di esprimere esperienze femminili che non avevano ancora trovato parole per dirsi. Per poterci riuscire, come scrive Rivera Garretas nel suo approfondito saggio su questo lavoro di traduzione, [2] hanno cercato di sentire fisicamente l’effetto che ciascuna poesia produceva, dopo averla letta e riletta, finché non sentivano un vuoto tra le due lingue da cui nasceva quella tensione per tentare “di fare in modo che tutto quello che lei diceva nella sua poesia fosse traducibile, pur sapendo che non tutto lo è. […] Niente è rimasto volontariamente non tradotto, niente è stato cambiato con la pretesa di migliorarlo, di pacificarlo, di ordinarlo meglio, di farlo suonare più bello o di renderlo più comodo o digeribile per la lettrice o il lettore, niente è stato ritenuto antiquato o da scartare”. E Rivera Garretas continua: “Così, senza volerlo, ci siamo propiziate il momento in cui, nel vuoto di cui parlavo prima, nella tensione tipica del vuoto, una vede, in quella poesia, un’altra poesia: la assale letteralmente lo strato di significato più profondo e velato che lei in quel momento è capace di vedere.” Perché avvenga un salto simbolico è dunque necessaria la massima fedeltà alla lingua materna in particolare al genere grammaticale: tradurre al femminile quando si parla di esperienze femminili, di sé o di altre donne e anche nelle personificazioni, senza usare il preteso neutro universale maschile.

Da questa esperienza empatica, non di immedesimazione, ma di fedeltà alla lingua e di relazione tra le due traduttrici e con Emily Dickinson, sono venuti alla luce aspetti della vita della poeta che erano stati volutamente cancellati.

Proprio per l’intensità di queste scoperte María-Milagros Rivera Garretas è stata spinta a scrivere una breve e profonda biografia, dedicata soprattutto alle giovani, con una scelta di poesie a cui il testo fa riferimento.

In essa, dopo aver descritto la formazione di una bambina nella Nuova Inghilterra del secolo XIX, l’autrice mostra il momento della presa di coscienza delle atrocità della guerra da parte di Emily, nonostante la vittoria dei Nordisti, l’esercito che prima con fervore patriottico sosteneva.

Quindi presenta il dolore dell’incesto, subito da Emily nell’infanzia e nell’età adulta da parte del padre Edward Dickinson e del fratello Austin Dickinson, un delitto e i suoi “Confini di dolore”, rivelati attraverso diverse poesie che li mostrano per il senso di terrore e disagio che fanno sentire, prima ancora di poterli comprendere.

Per permettere di condividere l’importanza di ciò che hanno compreso, oltre a parlarne nella biografia, Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas hanno scelto ventitré poesie e le hanno raccolte in Ese Día sobrecogedor. Poemas del incesto, un’edizione bilingue che in Spagna ha avviato una riflessione politica sull’incesto, dove al centro non vi è più il violatore, ma la bambina e poi la donna che l’ha patito. Ciò ha permesso di ridefinire il tabù dell’incesto come il tabù a parlarne da parte delle donne, non solo da parte di quelle che l’hanno subito.[3]

La biografia parla di come Emily, attraverso la poesia, sia riuscita a salvarsi dall’indifferenza, dalla pietrificazione di fronte alla propria e altrui sofferenza e a trasformare il dolore in creatività, continuando ad avere fiducia nella possibilità delle parole di esprimere la propria esperienza. Un’esperienza che comprese l’innamoramento in corpo e anima per la sua compagna di studi, Susan H. Gilbert, poi divenuta sua cognata Susan H. Dickinson. Questa relazione fece percepire a Emily l’infinito e le permise un confronto costante sulle sue poesie, tra cui molte dedicate a Susan, la sua principale critica e corrispondente – anche dopo il matrimonio con Austin, che avrebbe dovuto permettere alle amiche di vivere vicine e che invece produsse separazione e dolore.

Nella biografia viene sviluppato anche il tema dell’ispirazione e dell’esperienza di esserne visitate, di come nasce il pensiero dell’esperienza che riesce a rivelare cose che interessano chi le dice, o scrive, e chi le ascolta, o legge. Emily creò questa modalità di fare poesia, e rivoluzionò le regole linguistiche e compositive, per poter dire ciò che veniva scoprendo ed era necessario che lei portasse nel mondo.

Nella parte finale del libro troviamo tutte quelle poesie, in inglese e tradotte, che Rivera Garretas ha citato e inserito nella biografia, permettendo a chi legge di far risuonare, in tutta la loro potenza, le parole di Emily e di interagire nel percorso creato dalla narrazione biografica.

Mentre le poesie dell’incesto sono ancora in attesa di una traduzione[4] che ne riveli tutta la dirompenza e che dia la forza per squarciare il silenzio su questo delitto soprattutto contro bambine e donne che gli uomini patriarcali continuano, spesso impunemente, a perpetrare, la biografia permette alle giovani e ai giovani di avvicinarsi a una delle maggiori voci della poesia universale e a trarne energia creativa e capacità di dirsi.


María-Milagros Rivera Garretas, Emily Dickinson, Sabina editorial, Madrid 2016; trad. italiana dallo spagnolo (biografia) di Luciana Tavernini e dall’inglese (poesie) di Loredana Magazzeni, VandAePublishing, Milano 2021.


Note

[1] Emily Dickinson, Poemas 1–600. Fue – culpa – del Paraíso, prefazione, traduzione e lettura delle poesie in spagnolo di Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas, Madrid, Sabina editorial, 2012, 940 pagine. + CD formato mp3.

Emily Dickinson, Poemas 601-1200. Soldar un Abismo con Aire , prefazione, traduzione e lettura delle poesie in spagnolo di Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas, Madrid, Sabina editorial, 2013, 778 pagine. + CD formato mp3.

Emily Dickinson, Poemas 1201-1786. Nuestro Puerto un secreto, traduzione e lettura delle poesie in spagnolo di Ana Mañeru Méndez e María-Milagros Rivera Garretas, con la postfazione di MariaMilagros Rivera Garretas, Madrid, Sabina editorial, 2015, 640 pagine + CD formato mp3.

[2] María-Milagros Rivera Garretas, Né inglese né spagnolo: tradurre la poesia di Emily Dickinson. 1 Farsi mediazione vivente tra due lingue, Per amore del mondo 15 (2017) ISSN 2384-8944 http://www.diotimafilosofe.it

[3] Vedi Candela Valle Blanco, Dire l’indicibile. Ascoltare il vero, relazione presentata al XXX Seminario internacional de Duoda. El cuerpo se confiesa: el incesto, Universitat de Barcelona, 11 maggio 2019.  Il video dell’incontro si trova in https://youtu.be/_Gm_7Mk3LdM

[4] Emily Dickinson, Ese Día sobrecogedor. Poemas del incesto, Prologo de María-Milagros Rivera Garretas y Ana Mañeru Méndez, Sabina editorial, Madrid 2017.


(Per amore del mondo, 17/2020. Il testo in spagnolo è pubblicato in Duoda. Estudis de la Difèrencia Sexual-Estudios de la Diferencia Sexual, Universitat de Barcelona, N.57/2019, pp. 64-81).

di Barbara Notaro Dietrich


Su queste pagine Davide Barilli, subito dopo l’uscita del libro, ha scritto che «Organsa» di Mariangela Mianiti è un romanzo «vero e spietato, un roveto di straziata verità». E lo è perché l’autrice, nel raccontare in prima persona l’infanzia e l’adolescenza di Aurelia, non fa sconti a nessuno, neppure alla protagonista che cambierà la sua vita e non diventerà né come i nonni, né come i genitori, imprigionati chi nella loro cattiveria, chi nella loro incapacità di opporsi, tutti in un casone della Bassa parmigiana che è osteria, emporio, e punto di ritrovo della piccola comunità locale. 

Mianiti, che ha scritto questo libro più di dieci anni fa in cerca di editore poi arrivato, a riprova del fatto che i cosiddetti classici non hanno scadenza, definisce il suo stato di nomade affettiva – il marito in Svizzera, il lavoro a Milano: «Sì, mi divido tra la metropoli che è la mia passione e la città che ho scelto quando son andata via dalla provincia e questo posto fantastico vicino a Locarno in una casa a strapiombo su un fiume». 

La città come via di fuga dunque per lei e Aurelia?

«Dopo il diploma al conservatorio a Lucca, anche se per molti anni ho frequentato quello di Parma, mi proposero di insegnare a Parma ma dissi no: scelsi la grande città in cui non conoscevo nessuno ed era tutto da costruire, in cui ti puoi nascondere. Nel mio profondo c’è sempre stato il desiderio di essere invisibile, impalpabile ed essere ovunque contemporaneamente che per certi versi ho trasfuso nel romanzo quando parlo del rapporto di Aurelia con l’aria, l’altalena e la bicicletta ovvero con tutto quel che ti fa volare via e in alto».

Nel romanzo, chi più chi meno, son tutti maltrattati dalla vita e però incapaci di provare e mostrare tenerezza. La sofferenza non si trasforma in affetto. La madre di Aurelia vive per i suoi figli ma non li coccola.

«Questo aspetto fa parte di quella generazione e di quell’ambiente contadino dove sin da piccoli si era abituati alla durezza della vita e dunque niente carezze o abbracci o parole gentili, anzi

ci si abbaia addosso e i bambini devono essere curati per i loro bisogni primari. Era appunto il mondo contadino che aveva una sua ferocia anche con gli animali».

Il fratello di Aurelia però li cerca e li cura gli animali.

«È la legge del contrappasso. Così come Aurelia osserva questo mondo di cui vuole liberarsi attraverso la scuola, il fratello d’istinto reagisce facendo il contrario di quel che si fa in famiglia con gli animali: la nonna li ammazza, tutti li mangiano e lui invece li vuole salvare.

Aurelia e il fratello mostrano dentro sé il seme della salvezza».

Una salvezza che però nasce dal dolore di non aver salvato gli altri. O di essere stati perfino cattivi come quando Aurelia non accoglie la richiesta del padre di insegnargli a leggere.

«La consapevolezza di Aurelia è di avere davanti due scelte: o tu o gli altri. Se salvi te stesso poi forse potrai anche essere in grado di offrire uno spiraglio di salvezza per gli altri. Non si tratta di egoismo ma di necessità. Rispetto all’episodio del padre quel che pesa ad Aurelia è l’offerta di denaro da parte sua. E sì, sa di esser stata inutilmente cattiva come i nonni che hanno avvelenato la vita della madre».

Il suo romanzo ricorda «Il posto» di Annie Ernaux anche se in quel libro c’è soprattutto il senso di vergogna per la famiglia di origine.

«In Organsa non c’è tanto la vergogna quanto la consapevolezza della distanza: fin dal momento in cui comincia a guardare il mondo e a notare i primi segni del danno che scorre all’interno della sua famiglia, Aurelia si rende conto che per salvarsi dovrà fare altro e andarsene. Forse la vergogna verrà dopo, ma sarà più senso di inadeguatezza».

Il finale del libro è quasi surrealista con la madre che ha messo assieme cinque lavatrici.

«Tutti gli oggetti che madre accumula non sono solo lo specchio della sua vita negata, il poter finalmente decidere lei che cosa fare e come tenere il casone che è stata la sua prigione, ma c’è anche una ragione profonda, legata al figlio perso proprio per la mancanza di una lavatrice».


(Gazzetta di Parma, 21 aprile 2021)

di Alessandra Pigliaru


Un ritratto a partire dal libro della storica Anna Tonelli, «Nome di battaglia Estella» pubblicato da Le Monnier (2020). Nata nel 1900 nella Torino proletaria e operaia, la lotta di classe e il senso di giustizia contro sfruttamento e oppressione saranno con lei fino alla fine. Staffetta, emissaria, giornalista, deportata, dirigente di partito e madre costituente, ha raccontato il Novecento attraverso documenti, libri e romanzi. «Rivoluzionaria professionale», la sua autobiografia edita nel 1974, percorre una vita straordinaria.


Camilla Cederna l’ha definita «una specie di straordinaria moderna Odissea». E chiunque abbia avuto occasione di leggere Rivoluzionaria professionale, l’autobiografia di Teresa Noce – edita per la prima volta nel 1974 e di cui l’ultima riedizione è del 2016 per Red Star Press –, potrà facilmente convenire sulla intensità di una esistenza che ha attraversato il Novecento e che ne ha saputo raccontare le nervature, politiche, storiche ma anche sentimentali e di intrecci. Della intransigenza indocile di una protagonista di tale rilievo, si è scritto molto e la stessa Teresa Noce ci ha consegnato testi, discorsi, romanzi e documenti che testimoniano e descrivono la temperie di un secolo nel suo portato di libertà femminile e convinta militanza, senza reticenze sulle contraddizioni.

L’esperienza del comunismo, quando ventunenne prende la tessera – in seguito alla scissione livornese – del partito comunista d’Italia, vive in lei nel senso primigenio alla lotta di classe i cui bagliori si intravvedono già nei suoi lavori, come sarta apprendista, poi in una fabbrica di biscotti, dunque al tornio della Fiat Brevetti. Eppure la possiamo avvertire ancor prima, nella bambina precocemente ostinata e curiosa di conoscenza che cammina per le strade di Torino diretta a comprare i giornali per la propria madre, mentre si siede in una panchina e comincia a leggere i primi nomi del mondo intuendo di non essere sola. Proletario, operaio e sindacale, è un mondo che domanda, in quei primi anni del secolo scorso, giustizia e libertà. Camere del lavoro, leghe, i primi scioperi e moti del pane con il fascismo alle porte, lotte che contrassegnano la sua vita fin da ragazzina ancora lontana dalla guerra civile spagnola cui prenderà parte o dalla scuola leninista moscovita e ancora il massimo oltraggio della deportazione; la partigiana, madre costituente, deputata, dirigente di partito sempre al fianco delle lavoratrici, delle operaie, in particolare le tessili, è in quella giovanissima età una pretesa di riconoscimento inemendabile, per tutti e tutte.

Ancora non immagina cosa significhino strategie politiche complesse nella lunga strada della clandestinità o dentro la dirigenza di un partito ma in fabbrica protesta già per difendere le proprie compagne – molestate dai padroni. Lei che poi rientra a casa e l’acqua le si ghiaccia dentro il secchio, orfana di madre a 17 anni, un fratello aviatore che muore in guerra un anno dopo e un padre che non c’è mai stato. Legge silenziosa e studia avidamente nel pianerottolo dove la luce resiste più che nelle varie soffitte in cui è vissuta e da cui l’hanno sfrattata, ripetute volte. Emerge la rivolta rabbiosa di chi ha conosciuto l’esatto orlo della miseria e ha inteso sopravvivere con tutte le energie a disposizione, non si è mai rifugiata in altri mondi perché ha sempre saputo che è in questo unico e reale che bisogna giocarsi la scommessa vera.

A meno di dieci anni la scabbia è un ricordo lontano, non può più andare a scuola e comincia a consegnare il pane per contribuire al sostentamento della propria famiglia, si nutre delle croste che avanzano e intanto contratta con un bancarelliere l’affitto di due libri a settimana invece di uno solo. Ha una tale fame di amore e giustizia, quella bambina, da rimanerle attaccata anche da adulta, eppure possiede un profilo talmente complesso di imprese che ha fatto bene la storica Anna Tonelli a indicarne la complementarietà in un interessante e piccolo libro che la presenta, nella ricostruzione bibliografica e delle fonti. Nome di battaglia Estella. Teresa Noce, una donna comunista nel Novecento (Le Monnier, 2020, pp. 155, euro 13) è infatti diviso in due parti; Tonelli – docente di Storia contemporanea e dei partiti e dei movimenti politici all’università di Urbino – compone un testo che percorre i due rilievi di pubblico e privato, stimolando anche il desiderio di procurarsi ogni cosa scritta da Noce, diffonderne la parabola, poterne discutere ancora la voce e le parole per comprendere quanto sia di gran lunga più generativo il comunismo quando risiede nelle mani di una donna.

Nella prima parte si descrivono dunque le fasi principali della sua vita pubblica, mentre avanza l’offensiva fascista e comincia per Teresa Noce e per altri la lunga strada della clandestinità. Staffetta, giornalista, emissaria, organizzatrice, consigliera, agitatrice, dirigente, Tonelli ne sintetizza ruoli e luoghi, dalla prima esperienza con Luigi Longo nella redazione di Avanguardia (poi La voce) a quella carceraria a San Vittore, la prima di altre detenzioni. Sono anni tumultuosi, dalla clandestinità necessaria alla «traduzione di un ideale politico, economico ed esistenziale» che per lei è stata la scuola leninista moscovita. Eppure mai abbandona l’osservazione e l’interlocuzione delle operaie, come accade infatti con le tessili di Ramenskoye.

Francia, Italia poi Spagna accanto alle Brigate internazionali, gli anni Trenta sono andirivieni di impegno vivido per il partito e per la resistenza. Del resto, già quando sostiene lo sciopero delle mondine (del 1931 nel vercellese e novarese), Teresa è Estella, l’anonimato per proseguire spostamenti e il suo antifascismo, e anche «Madonna tempesta», per segnalare il suo carattere poco avvezzo ai compromessi. È un punto, questo della sua inclinazione al «dire di no», da sempre, che Tonelli tiene a precisare come costante puntellando le scelte autonome e il prezzo pagato anche interno al partito, fino alla vicenda personale con Luigi Longo, suo marito – almeno legalmente visto che il matrimonio si era sfaldato anni prima – fino al 1953, quando quest’ultimo ottiene l’annullamento a San Marino senza consultarla; Noce lo apprende mentre è alla Camera del Lavoro di Milano – impegnata nella stesura della legge sulla parità salariale tra uomo e donna – da un trafiletto del Corriere della Sera. Tonelli insiste sul punto perché la Teresa «pubblica» e quella «privata» sono molto più porose di quanto si immagini. E chi ha letto la sua autobiografia lo sa, quanto le contraddizioni sortiscano un disincanto radicale talvolta insanabile, oltre che ammalante.

A Noce, queste contraddizioni, hanno procurato anche l’estromissione dal Pci, indicativo l’aneddoto di lei che si rompe il menisco andando alla conferenza del Comitato centrale cui con tutta evidenza non voleva presenziare. E infatti torna indietro. Su quel ripudio da parte di Longo c’era intorno l’ostilità di molti dirigenti che fino a poco prima l’avevano non solo sostenuta ma lodata; basterebbe leggere ciò che le scrive Togliatti, dandole del voi e richiamandola all’ordine. 
Quando scrive a proposito di questa frattura, ne parla come di un dolore più grave della sua deportazione. La prima detenzione in un campo di internamento come prigioniera politica è a Rieucros. Nel 1943 viene arrestata nuovamente a Parigi dalla polizia francese, e trasferita al carcere femminile Petite Roquette, con disposizione della Gestapo viene deportata al forte di Romainville, arriva a Ravensbrück, viene in seguito internata anche a Holleischen.

Ne dà conto nel romanzo del 1952, Ma domani farà giorno (riedito per Harpo nel 2019 a cura di Graziella Falconi) in cui tramite l’alter-ego di Giovanna Pinelli – amava la letteratura e la sua capacità di costruzione del sé e presa di parola – racconta la disumanizzazione subita, insieme ad altre, nei campi di morte fino alla liberazione. Dice però anche altro, cioè una vicinanza e un lavoro comune, per sabotare le armi dei nazisti, sì, e anche per non restare oppresse sia pure nello sprofondo della Storia, bisogna restarsi accanto.

Anna Tonelli ne riconsegna la vicenda fino alla fine, ovvero il 22 gennaio 1980, splendono le parole attraverso i suoi incontri nelle scuole, dalle lettere ricevute da lettori compagni e compagne che non l’hanno mai abbandonata. Rivoluzionaria, è in quanto donna consapevole di se stessa e per le donne che ha lottato con più passione. Comunista e libera, che mai si è pensata sola o separata dagli ultimi della terra.


(il manifesto, 20 aprile 2021)

di Fulvia Bandoli


Duemilaventuno, anno di centenari illustri: quello del PCI, quello di Gianni Agnelli. Per me e per altre donne ambientaliste e femministe, quello di Laura Conti, medica, partigiana, comunista, deportata, ecologista, scrittrice e divulgatrice formidabile di conoscenza e scienza. Eppure per trovare notizia di questa ricorrenza bisogna spulciare con cura siti Internet, e si trovano soltanto alcuni articoli e qualche convegno. Nessun grande giornale, salvo uno, ha fatto inserti o pagine dedicate, nessuna trasmissione tv ha approfondito la figura di questa donna straordinaria. E pur essendo tornata molto di moda quella che lei, sempre diretta e trasgressiva, forse chiamerebbe «l’ecologia fatta di buone maniere», nessuno si interroga su quali siano le origini del pensiero ambientalista in Italia, dell’ambientalismo scientifico o dell’ecologismo razionale, come lo chiamava lei, con un’insistenza quasi maniacale. Si facesse questa ricerca, la prima persona che si incontrerebbe sarebbe proprio Laura Conti. Ma in questo buio, alcuni giorni fa, si è accesa una luce: grazie alla casa editrice Fandango è uscito un delizioso libro scritto da due femministe, Barbara Bonomi Romagnoli e Marina Turi, dal titolo Laura non c’è. Ed è stato ristampato anche “La lepre con la faccia da bambina” che Laura Conti scrisse dopo la tragedia di Seveso. Mia madre me lo fece leggere, ma di persona la conobbi solo nel 1991 quando venne a Botteghe Oscure (lei parlamentare Pci, io responsabile nazionale Ambiente da un mese) e la prima cosa che mi disse brusca e diretta fu: «Io e te abbiamo subito una brutta grana da risolvere, fare una legge per regolare la caccia e avremo contro tutti, i cacciatori perché togliamo loro i privilegi e diamo regole stringenti, e i Verdi che invece vogliono abolirla». Ma io volevo parlare di Seveso, perché lei era stata la persona che aveva affrontato il primo grande disastro ambientale italiano in tutti i suoi aspetti. È il 10 luglio 1976. Brianza. Zona di mobilifici famosi ma nell’area c’è anche un’industria chimica svizzera, l’Icmesa. Il reattore A101 rileva un guasto, gli operai non riescono ad arginare il danno e uno dei più potenti e tossici componenti chimici, la diossina, fuoriesce nell’aria. L’impatto è micidiale. Muoiono 80.000 capi di bestiame, le abitazioni in zona A vengono abbattute e altre abbandonate. Sono gravi anche i danni alla salute dei cittadini. Vengono evacuate 700 persone. Alle donne in attesa di un figlio viene concesso, se temono malformazioni ai nascituri, di ricorrere alla interruzione di gravidanza; da quella vicenda parte una discussione difficile sull’aborto terapeutico e in generale sulla possibilità che sia una libera scelta della donna. Dopo due anni, nel 1978, l’Italia si doterà di una legge in materia. Una delle persone che starà accanto alle donne e alla popolazione di Seveso è Laura Conti, in quel momento consigliera regionale Pci in Lombardia, esperta anche di medicina del lavoro. Nel suo libro “Visto da Seveso” e negli articoli scritti in quei mesi elabora una metodologia di analisi e valutazione ambientale che sarà alla base della Direttiva Europea Seveso sulla prevenzione dei grandi rischi industriali. Direttiva ancora in vigore e tra le più avanzate mai scritte. E quando il mondo, nel 1986, dovette affrontare la catastrofe nucleare di Chernobyl, lei fu tra le più pronte, accanto al movimento femminista, a scendere in campo. Di scienza, potere e coscienza del limite scriveva già da parecchi anni. Per gli ambientalisti comunisti, da Seveso in poi, Laura Conti sarà una maestra per sempre. I Verdi arrivano dieci anni dopo. E anche Legambiente, che lei contribuirà a fondare con altre e altri, nascerà solo nel 1980. Peccato che la sua cultura ambientalista non sia mai stata veramente e convintamente assunta dai comunisti italiani, fosse accaduto avrebbero potuto affrontare la loro crisi con carte migliori. Nel libro di Marina Turi e Barbara Bonomi Romagnoli ci sono tutte le battaglie di Laura Conti e molto altro. La fantastica trovata delle autrici, di ricollocarla nel presente, centenaria, nella casa milanese, piena di gatte e di amiche com’era davvero, e di presentarla a chi non la conosce attraverso otto dialoghi possibili su temi attuali come il Covid, i pericoli degli allevamenti intensivi, il ruolo dell’agricoltura, fa rivivere Laura Conti nei nostri difficili giorni. E le parole che animano i dialoghi (tutte prese da suoi scritti o interviste) sono ancora di enorme attualità.


(Domani, 28 marzo 2021)

di Andrea Cortellessa


Sinora conoscevamo Mariangela Mianiti come una delle più brave giornaliste italiane. Con una doppia vocazione: da un lato le sue inchieste, come Quindici giorni da cameriera o Una notte da entraîneuse, sono state fra le prime ad applicare tra noi il “metodo Wallraff” (dagli anni Settanta Günter Wallraff conduce inchieste “sotto copertura”: celebre il suo Faccia da turco, in cui fingendosi appunto turco lavorò a lungo da McDonald e alla Thyssen per poi denunciare le condizioni dei Gastarbeiter nella Germania di allora). Dall’altro, il titolo della rubrica di Mianiti sul “manifesto” è Habemus corpus: col filo della percezione e dell’identità fisica, corporale, delle questioni d’ogni giorno (eloquente quanto ironico il titolo di un altro suo libro-inchiesta, La vita Viagra).

Rispetto a questa doppia attitudine, la sorprendente opera narrativa cui ha dato il titolo Organsa – pubblicata da una sigla, quella storica del “Verri”, per vocazione attenta alla sperimentazione linguistica e formale – pare per un verso una conferma, per l’altro un contrappasso. Un contrappasso perché, al di là di tutti i travestimenti, a colpire è qui l’intensità dell’investimento bio-grafico: non so quanto sia una storia d’invenzione, ma certo Organsa disattende ogni convenzione e tran-tran del package romanzesco. Le si obietterà, per esempio, che non ha un finale: non sono concluse le vite che il libro racconta, non è definito il loro esempio. Ma non necessariamente avrà un seguito; a Mianiti non interessa la vita di chi dice «io», «l’Aurelia», quanto quella del personaggio che le racconta la sua storia: sua madre Luisa, anzi «la Luisa».

Già questo modo di chiamare i personaggi richiama l’altro e principale aspetto che conquista, di questo libro: la fragranza dell’oralità che lo intesse da cima a fondo. E che conferma a pieno, stavolta, la vocazione “corporale” di Mianiti. I personaggi sono definiti dal loro modo di parlare; memorabile, per esempio, il lessico famigliare e “transgenico” del padre: «Sercavo la Aurelia. Grasie e la mi scusi abòta se l’ho disturbéda. Grasie anmò e che la mi staga bene, veh». Questo veh «è un vezzo che la gente mette a ogni fine di frase per dire guarda un po’, stai attento, ricordati, veh».

È l’energia dell’errore ad animare il racconto. Che prende il titolo da una cliente della Luisa, la cui vocazione all’alta sartoria è stata conculcata, ma testarda propone i suoi estri anche a quella gente priva di vezzi: «Luisa g’ho da andare a un matrimonio. Ci ho portato questa organsa qui che mi piace abòta il colore. Guardi guardi che bel rosso». «Ma Gemma, l’organza rossa allarga molto». «E va ben, mo a me mi piase dli stesso». L’organsa è il tessuto di questa lingua straripante di umori: «un caos arduo da governare, ma pieno di colori e sorprese, come un fuoco d’artificio». Ed è questa, con rara costanza, la materia che incarna il “mondo sensibile” della narrazione: un po’, si parva licet, come quella di Proust secondo un maestro dimenticato della critica, Jean-Pierre Richard.

Siamo in un tempo imprecisato, a cavallo del Sessanta, ma in un territorio assai preciso: un minuscolo borgo della bassa parmigiana che ristagna quasi ancestrale. Volendo citare un talento paragonabile a quello di Mianiti, nella riproduzione dell’oralità, bisognerebbe tirare in ballo la scuola emiliana, appunto, dei Cornia e dei Nori; ma il suo mondo, a differenza del loro, non ha niente di simpaticamente stralunato, niente di umoristico. Nessun Eden pasoliniano, neppure; nessuna “umile Italia” fiera delle radici. È un piccolo mondo soffocante e crudele, invece, disegnato con precisione altrettanto crudele («Sono piccola, ma vedo tutto, anche quello che non dovrei vedere»: le descrizioni – come quelle à la Federigo Tozzi del macello del maiale o della castrazione del cappone – sono di un virtuosismo quasi da école du regard). La Luisa, che sarebbe curiosa del mondo (a parte sua figlia, solo lei non si esprime in dialetto), viene risucchiata indietro, dalla città e dalla modernità, da genitori tanto gretti quanto egoisti, da suo marito loro succube, dalle ripetute gravidanze. E così resta prigioniera dell’osteria che deve gestire e del “casone” annesso, prigione-labirinto dove si accumula tutto quello che, chi sa mai, magari un giorno le darà la libertà che la terrorizza (finirà per collezionare cinque lavatrici).

Da questa vita strozzata fantastica di salvarla sua figlia: «Vorrei essere ricca per regalarle le cure che non ha mai potuto concedersi, i viaggi e le vacanze che non ha mai fatto. E invece scappo». Alla fine scapperà davvero, l’Aurelia, “tradendo” insieme sua madre e le proprie viscere linguistiche: si guadagnerà da vivere scrivendo – ovviamente in perfetto italiano. Ma sarà proprio questa lingua a consentirle, a posteriori, di redimere l’esistenza della donna che a quella lingua-corpo ha dato la luce.


(Un abito di organza rossa allarga molto ma alla cliente della Luisa “piase dli stesso”, La Stampa – TuttoLibri, 27 marzo 2021)