di Mariangela Gualtieri


Ascoltala su https://www.doppiozero.com/materiali/come-si-fa [in allegato file audio]


Prima mi sono vergognata. Poi ero

incredula delusa. Come bocciata.

Tutta una specie ritornata indietro.

Alle bastonate. Maschi al comando ancora,

con i vecchi randelli trasformati in armate

missili carri armati corazzate,

tutta un’esibizione muscolare così evoluta –

e le teste invece rimaste indietro, alla predazione,

alla zampata feroce su qualcuno che trema.

Solo dopo è arrivata la pena. Solo dopo

sono entrata dentro un gonfio

di lacrime tenute. E il dolore

dei miei umani casi si è fuso insieme

al dolore per loro, i morti, gli scampati

i feriti lasciati lì in un fosso, i rifugiati.

E se adesso piango a volte – non so per chi

o per che cosa, tanto sono confusa.

Un dolore non grave però, il mio,

spesso sospeso,

un dolore che non mi toglie ancora

l’appetito e posso guardare

i notiziari, continuando a mangiare,

sopportare ancora lo stridore della pubblicità

col suo falso prometterci le cose.

Come si fa a provare

un dolore vero. Come si fa

da quel dolore sentir nascere

un atto vero di pace. Come si fa

ad esser solidali fino alla radice.

Allora forse troveremmo strade

impensabili ora. Accordi fra nemici

talmente inaspettati. Soluzioni di tregua

permanente, abbracci molto attesi,

terreni condivisi, confini più sfumati.

Allora la terra intera

sarebbe nostra alleata, tutti

i pesci sotto le corazzate, gli

uccelli disturbati

dai fumi e dai boati, i tronchi

le radici che stavano aspettando

la loro primavera. I gatti per le strade

i cani, i lombrichi, le api.

Tutto sarebbe alleato con noi

dentro la pace. Ce ne verrebbe 

una gioia vera, una potenza

di creazione – proprio il contrario

di questa morte dei corpi e delle cose.

Sarebbe la più grande rivoluzione di specie:

risolvere i conflitti col nostro ragionare

intelligente – in compassione.

Risolverli parlando e tacendo

donne e uomini insieme,

con ricorrenti abbracci a ricordare

ciò che più vogliamo, il nostro fine supremo.

Stare nella pace. Abitare la terra

in un respiro grato. Noi, ultimi arrivati.


Mariangela Gualtieri

in dialogo con Antonio Viganò


(Doppiozero, 20 marzo 2022)

di Franca Fortunato


Il libro postumo di Gino Strada, da poco in libreria, Una persona alla volta, edito Feltrinelli, è un vero e proprio Manifesto per un mondo senza guerre, lasciato in eredità all’umanità da parte di un uomo che ha dedicato la sua vita a curare le vittime di tutte le guerre, stando sul campo, e guardando i volti stravolti di feriti, mutilati, morti, affamati, rifugiati, disperati, per lo più donne e bambine/i. Ovunque sia stato, Pakistan, Perù, Somalia, Bosnia, Etiopia, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, sempre “atrocità e disumanità”, “morti e feriti” di “cittadini normali, molte donne e moltissimi bambini”. Il volto della guerra gli si presenta per la prima volta alla fine degli anni Ottanta in Pakistan, all’ospedale internazionale della Croce Rossa dove dall’Afghanistan, occupato dai sovietici, arriva un bambino mutilato da una mina giocattolo, armi pensate, progettate, costruite per i figli dei “nemici”. “Quel bambino, a cui dovetti amputare la mano, divenne per me il vero volto della guerra, il volto di una delle sue tante vittime”. “La guerra per me ha sempre avuto la faccia di un uomo stravolto dalla sofferenza, il rosso caldo del sangue e la puzza di bruciato. Così mi si è presentata più o meno in tutti i posti dove sono andato a curare le vittime. Quante donne ho visto disperate per un figlio ucciso”. Quando gli Stati Uniti, dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre, bombardano e occupano l’Afghanistan, seguiti dall’Occidente, in nome della “guerra al terrorismo”, Strada capisce “di non essere un pacifista, ma di essere semplicemente contro la guerra”. “Dopo anni passati tra conflitti – spiega – mi sono scoperto saturo di atrocità, del rumore degli spari e delle bombe. E lì, in Afghanistan, dove avevo vissuto per tanti anni operando feriti, non ce l’ho fatta più a sopportare l’idea di una nuova guerra. Così alla vigilia di un’altra ondata di sofferenze e di morte ho detto il mio ‘no’, basta con la guerra, basta uccidere mutilare infliggere atroci sofferenze ad altri esseri umani”. Sappiamo come è andata a finire quella guerra e le altre che l’hanno seguita, un disastro, che rafforza in Strada la convinzione che “la guerra non si può umanizzare. Non si può renderla meno pericolosa, crudele e folle (…) si può solo abolire” iniziando a vederla “per quello che è veramente, l’uccisione volontaria di tanti esseri umani. Non importa quale sia la ragione, o la ‘causa’, di un conflitto: è lo strumento ‘guerra’ a essere un crimine”. “Per oltre trent’anni ho letto e ascoltato bugie sulla guerra. Che la motivazione – o più spesso la scusa – per una guerra fosse sconfiggere il terrorismo o rimuovere un dittatore, oppure portare libertà e democrazia, sempre me la trovavo davanti nella sua unica verità: le vittime”. “Dopo tutti questi anni di guerra, la sola verità inoppugnabile è che questo strumento non ha funzionato” e “nel mondo atomico in cui viviamo, non possiamo più permetterci la guerra”. La possibilità di una guerra nucleare è entrata nel mondo con la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, alla fine della seconda Guerra mondiale, e oggi sembra tornata con la guerra in Ucraina.

Strada ricorda il Manifesto di Russel-Einstein (1955) sottoscritto da scienziati di tutto il mondo per un disarmo nucleare. Servirebbe oggi – si chiede – scrivere un nuovo Manifesto? Come abolire la guerra? “Non quella in Iraq o in Afghanistan, ma la guerra in sé e il suo unico, vero contenuto: morte, sofferenza, disumanità”. Un mondo senza guerre è “il compito più ambizioso”, “la scommessa più grande” che per Gino Strada attende l’umanità. 


(Il Quotidiano del Sud, 18 marzo 2022)

di Hannah Arendt


Anticipiamo stralci della biografia “Rosa Luxemburg” di Hannah Arendt (1966), dal 17 marzo 2022 in libreria con Mimesis e la curatela di Rosalia Peluso.


Ogni movimento della Nuova Sinistra, quando è giunto il momento di trasformarsi in Vecchia Sinistra – di solito quando i suoi membri hanno raggiunto i quarant’anni – ha seppellito prontamente il primo entusiasmo per Rosa Luxemburg insieme ai sogni di gioventù; e dato che di solito non ci si è preoccupati di leggere, e tanto meno di capire, quanto lei aveva da dire, si è trovato facile liquidarla con tutto il filisteismo condiscendente del loro status appena acquisito.

Il “luxemburghismo”, invenzione postuma degli scribacchini del partito per motivi polemici, non ha mai ottenuto nemmeno l’onore di essere denunciato come “tradimento”; è stato trattato come una malattia innocua e infantile.

Nulla di ciò che Rosa Luxemburg ha scritto o detto è sopravvissuto, a eccezione della sua critica, sorprendentemente accurata, della politica bolscevica durante le prime fasi della Rivoluzione russa: questo solo perché coloro secondo i quali “dio aveva fallito” potevano usarla come un’arma conveniente, sebbene del tutto inadeguata, contro Stalin. (“C’è qualcosa di indecente nell’uso del nome e degli scritti di Rosa come una specie di missile da guerra fredda” ha sottolineato il recensore del libro di Peter Nettl, che firmò una prima biografia sulla Luxemburg, ndr). I suoi nuovi ammiratori non avevano più cose in comune con lei dei suoi detrattori. Il suo senso, altamente sviluppato, per le differenze teoriche, il suo infallibile giudizio sulle persone, le sue personali propensioni e idiosincrasie, le avrebbero impedito di confondere Lenin e Stalin in qualsiasi circostanza, a prescindere dal fatto che non è mai stata una “credente”, non ha mai usato la politica come un sostituto della religione ed è stata attenta, come nota Nettl, a non attaccare la religione anche quando si è opposta alla Chiesa. In breve, la circostanza che “la rivoluzione fosse vicina e reale, per lei come per Lenin” non costituì mai un suo articolo di fede, a differenza del marxismo. Lenin era per essenza un uomo d’azione e sarebbe entrato in politica in ogni caso, mentre lei, che, nella sua semiseria autovalutazione, si considerava nata “per badare alle oche”, avrebbe potuto benissimo immergersi nello studio della botanica o della zoologia, della storia, dell’economia o della matematica, se le contingenze del mondo non avessero offeso il suo senso di giustizia e libertà.

Ciò comporta naturalmente riconoscere che lei non sia stata una marxista ortodossa, talmente poco ortodossa da far dubitare che sia stata un’autentica marxista. Nettl afferma giustamente che per lei Marx non era altro se non “il miglior interprete della realtà con cui tutti loro avevano a che fare”, ed è rivelatore della sua mancanza di coinvolgimento personale il fatto che abbia potuto scrivere: “Provo ora orrore per il tanto decantato primo volume del Capitale di Marx a causa dei suoi elaborati ornamenti rococò à la Hegel”. Ciò che veramente contava per lei, perfino più della rivoluzione stessa, era la realtà, in tutti i suoi aspetti meravigliosi e terribili. La sua non-ortodossia era innocente, non polemica; “raccomandava volentieri agli amici di leggere Marx per la freschezza del suo stile e l’ardimento dei suoi pensieri, e perché non dava nulla per scontato. Gli errori che aveva commesso nell’analisi politica erano evidenti e inevitabili; per questo non si preoccupò mai di scrivere una critica di ampio respiro”.

Tutto ciò risulta meglio espresso nell’accumulazione del capitale, che solo Franz Mehring ha avuto la spregiudicatezza di definire un “risultato veramente magnifico, affascinante, impareggiabile dalla morte di Marx in poi”. La tesi centrale di questa “curiosa opera di genio” è abbastanza semplice. Dal momento che il capitalismo non mostrava alcun segno di cedimento “sotto il peso delle sue contraddizioni economiche”, lei cominciò a cercare una causa esterna per spiegarne la continua esistenza e crescita. La trovò nella cosiddetta “teoria del terzo fattore”, cioè nel fatto che il processo di crescita non era semplicemente la conseguenza di leggi innate che governano la produzione capitalistica, ma della continua esistenza di settori pre-capitalistici in Paesi che il “capitalismo” aveva catturato e portato nella sua sfera di influenza… Lenin si accorse subito che questa analisi, indipendentemente dai suoi pregi o difetti, era essenzialmente non marxista.

C’è un altro aspetto della personalità di Rosa che Nettl evidenzia, ma di cui non sembra cogliere tutte le implicazioni: il suo essere “coscientemente donna”. Questo dato poneva da sé diversi limiti a qualsiasi sua ambizione. Significativa, ad esempio, la sua idiosincrasia per il movimento di emancipazione femminile, che attraeva irresistibilmente tutte le altre donne della sua generazione e di stesse convinzioni politiche; all’uguaglianza reclamata dalle suffragette, sarebbe stata tentata di rispondere: Vive la petite différence. Era una outsider, non soltanto perché era e rimase un’ebrea polacca in un Paese che non le piaceva e in un partito che presto avrebbe disprezzato, ma anche perché era una donna… Rosa Luxemburg non è vissuta abbastanza a lungo per vedere quanto avesse ragione e per osservare il terribile, e terribilmente rapido, decadimento morale dei partiti comunisti, prodotti diretti della Rivoluzione russa, in tutto il mondo…

Una marxista poco ortodossa “Si considerava nata per badare alla fattoria: avrebbe potuto immergersi nello studio se il mondo non avesse offeso il suo senso di giustizia”.


(Il Fatto Quotidiano, 17 marzo 2022)

di Wisława Szymborska


Piatta come il tavolo

sul quale è posta.

Sotto – nulla si muove,

né cerca uno sbocco.

Sopra – il mio fiato umano

non crea vortici d’aria

e lascia tranquilla

la sua intera superficie.

Bassopiani e vallate sono sempre verdi,

altopiani e montagne sono gialli e marrone,

oceani e mari – di un azzurro amico

sui margini sdruciti.

Qui tutto è piccolo, vicino, alla portata.

Con la punta dell’unghia posso schiacciare i vulcani,

accarezzare i poli senza guanti grossi,

posso con un’occhiata

abbracciare ogni deserto,

insieme al fiume che sta lì accanto.

Segnalano le selve alcuni alberelli

tra i quali è ben difficile smarrirsi.

A est e ovest, sopra e sotto

l’equatore, un assoluto

silenzio sparso come semi,

ma in ogni seme nero

la gente vive.

I confini si intravedono appena,

quasi esitanti – esserci o non esserci?

Amo le mappe perché dicono bugie.

Perché sbarrano il passo a verità aggressive.

Perché con indulgenza e buonumore

sul tavolo mi dispiegano un mondo

che non è di questo mondo.


(da Basta così, ed. Adelphi, 2012)

di Paolo Di Paolo


Se le chiedi come vive, da scrittrice, ciò che sta accadendo in Ucraina, e se ha qualche parola in più, ti ferma subito: «Tutti parlano. La mia voce sull’argomento è priva di competenza specifica, quindi inutile». Eppure, proprio gli occhi «tristi» di Putin lampeggiano nel suo nuovo romanzo, Serge (Adelphi).  
È la madre del protagonista a notarli nelle immagini televisive. Ora quegli occhi tristi (e forse inquietanti) sono al centro dei nostri pensieri. Forse solo la letteratura può scegliere di fermarsi su un dettaglio simile, cercare lo spazio – anche di fronte all’inaccettabile – per una considerazione così umana. D’altra parte, da narratrice e da drammaturga tradotta in oltre trenta lingue, Yasmina Reza – 62 anni, nata a Parigi, ma figlia di un ingegnere iraniano e di una violinista ungherese – ha sempre cercato una prospettiva non ovvia sul mondo. Un incontro fra vecchi amici che degenera per una discussione sull’arte contemporanea, nella sua pièce più famosa, Arte. Un incontro pacificatorio tra due coppie di genitori che invece diventa un massacro: Carnage, appunto, come nel film con Kate Winslet che Roman Polanski ha tratto dal testo di Reza. E ancora: prende un uomo politico che non ama, Nicolas Sarkozy, lo segue durante la campagna elettorale del 2007 e anziché scrivere un libro politico, scrive un libro su un uomo «che vuole fare concorrenza alla fuga del tempo». La sua intelligenza è corrosiva, ma sempre capace di pietà. Come dimostra nel nuovo romanzo: una fotografia di gruppo mossa, a tinte accese. L’immagine sfaccettata della «sgangherata baracca» che è una famiglia, qualunque famiglia.

Il dettaglio sugli occhi di Putin mi ha fatto ripensare a certe piccole rivelazioni dell’umore dell’ex presidente francese Sarkozy nelle pagine di L’alba, la sera o la notte: «Sotto i suoi lineamenti appaiono dolcezza e infanzia». 
«Mi commuove il fatto che lei abbia notato gli occhi tristi di Putin. È un dettaglio minuscolo nel libro ma in effetti è significativo. Qualche volta, ma non sempre, sul viso di una persona c’è qualcosa che contraddice l’immagine che questa persona dà di se stessa. Quando la personalità adulta è forte e sembra andare in senso opposto è destabilizzante vedere un rimasuglio d’infanzia, di solitudine o di dolcezza nel suo corpo o nel suo comportamento. Non so che cosa riveli esattamente, se non il grande mistero dell’esistenza. E cioè la materia stessa della letteratura».

Seguirebbe di nuovo la campagna presidenziale? Di Macron? O di Marine Le Pen? Oppure di Éric Zemmour? Le sembrano storie, facce interessanti?

«No. Ho avuto la fortuna di potere seguire una personalità ricca e sconcertante, e che somigliava a un personaggio che avrei potuto inventare io. È stato un anno straordinario e sarò per sempre grata a Sarkozy di aver acconsentito a questo ritratto senza ostacolarmi in alcun modo. I protagonisti di oggi non mi interessano. Non ho nessun punto di vista letterario su Macron».

Lei non ama rispondere a domande sull’attualità, ma il momento è eccezionale: una pandemia, una guerra… Come saremo, dopo? 
«Nel corso del Ventesimo secolo è completamente scomparso un mondo, quello che costituiva l’Europa. È scomparso anche, e per sempre, il mondo precedente alle rivoluzioni digitali. Andiamo verso qualcosa di disaggregato e sfocato, senza che questo qualcosa sia analizzabile perché la rapidità delle mutazioni confonde il pensiero. È un clima generale che non consente alcun ottimismo. In un certo senso il libro tradisce questa preoccupazione». 

Serge, il protagonista del romanzo, è in effetti un uomo preoccupato. Anche solo dalle fatiche della vita adulta. La sorella lo rimprovera perché è sempre sarcastico, lo trova «gonfio di acredine». Forse lo siamo un po’ tutti, soprattutto sui social. 
«Il contesto dei rimproveri che Nana muove a suo fratello è puramente personale. Gli rinfaccia di avere sulle persone uno sguardo altezzoso e beffardo. Ne deduce che è risentito. Qui un personaggio sviluppa la propria visione di un altro personaggio. Una visione puramente soggettiva, quindi, che il lettore ha il diritto di disapprovare o relativizzare. Peraltro Nana, per via dei suoi aspetti da brava cittadina, è il bersaglio dei fratelli. In Serge vedo più un ritratto dei rapporti fra fratelli che un’evocazione dei rapporti nei social media».

I suoi personaggi dicono spesso cose che non direbbero «in pubblico». Ma esiste qualcuno al mondo le cui conversazioni private resisterebbero alla verifica del politicamente corretto? 
«A me sembra che ai miei personaggi capiti spesso di sbarellare in pubblico. Intendo dire, in circostanze in cui l’intemperanza del linguaggio non sarebbe consentita. Non lo faccio per provocare ma perché lo richiede l’umore della situazione e perché questa è la natura delle persone che descrivo. Ci sono ben pochi saggi e moderati fra i miei personaggi. In realtà, quello che chiamiamo il “politicamente corretto” non m’interessa. La letteratura, che io associo all’arte e non all’ambito intellettuale come per esempio la filosofia, è uno spazio di pura libertà. Per quanto mi riguarda, il criterio etico che guida l’uso delle parole non è la correctness o l’incorrectness bensì il vero o il falso. I personaggi che, nella loro umile misura, dovrebbero rappresentare l’umanità sono dilaniati e pieni di contraddizioni. È in questa tensione che gli uomini si dibattono, non all’interno di una virtù illusoria».

Riesce a farci sentire che nelle «chiacchiere» occasionali di ogni giorno c’è molta più verità di quella che affidiamo alle versioni ufficiali. Lei le fissa, forse proprio per dire: ecco che cosa riveliamo, di noi, semplicemente parlando. È così? 
«Quelle che lei chiama le versioni ufficiali sono una noia mortale. Anche quando (soprattutto, forse!) toccano i grandi temi. Ho sempre pensato che la vera natura delle relazioni umane stia nelle asperità della vita di tutti i giorni, nelle piccole incrinature, nelle piccole dissonanze, nulla di molto consistente in apparenza ma che la temporalità della scrittura permette di cogliere. A teatro, un attore può creare un mondo con una parola anodina. C’è così tanta ricchezza nel non-detto. Le “chiacchiere” aprono grandi spazi, se si è capaci di ascoltare al di là o al di qua delle parole».

Al centro del romanzo, c’è un viaggio che la famiglia di Serge, di origini ebraiche, fa ad Auschwitz. È l’occasione per guardarci da fuori nei panni di turisti «in tenuta semi-balneare» in un campo di concentramento. «Quando tornerai al sole, alla macchina, che cosa ti ricorderai? E se anche ti ricordassi?», lei scrive. La protesta dell’io narrante contro il «feticismo della memoria» lei la condivide? 
«Che cosa chiamiamo memoria? Nella mia accezione della parola, la sola memoria che possa avere delle conseguenze su una percezione del mondo o su altri comportamenti è una memoria che chiama in causa gli affetti. Non è una cosa che può essere imposta per decreto. Proprio come non si possono forzare i sentimenti, non si può forzare la natura della memoria. Il “dovere della memoria”, questa costante ingiunzione, è una formula vuota. Al massimo si potrebbe dire: il dovere della conoscenza. Ma quale parte di noi aspira a questa conoscenza? Il mio primo impulso era scrivere qualcosa che avesse a che fare con il turismo. E credo peraltro che sia un argomento importante del libro. La contemplazione del mondo in chiave turistica è l’essenza stessa della nostra epoca. Tutti quelli che, nel mondo, hanno avuto accesso a un certo tenore di vita sono turisti. Non ci si può escludere da questa categoria. Il turismo comprende anche chi si crede estraneo al fenomeno. Tutto si è adeguato alle esigenze di questa nuova umanità in cerca di sensazioni. I paesaggi, le usanze, il cibo, l’habitat, tutto. Tutto è un “sito”. Compresi i luoghi delle tragedie, il cui vantaggio è che sono luoghi in cui possiamo sentirci pieni di compassione, per così dire “al di sopra del male”».

«Il mondo per me resta un enigma», ha detto una volta. È ancora così? Scrive anche per questo? 
«Vedo la scrittura come uno stile di vita. Lo faccio perché mi diverte e perché ogni tanto credo di essere capace di farlo. È un tentativo di fissare alcune cose nel tempo. Non credo di aver capito meglio alcunché per il solo fatto di averne parlato. Tutto è sempre rimasto enigmatico ma sono felice di aver potuto talvolta stabilire i termini dell’enigma».

 
Drammaturga e scrittrice, attrice e sceneggiatrice: Yasmina Reza, 62 anni, ha pubblicato il suo primo romanzo Hammerklavier nel 1997. Quello nuovo s’intitola Serge.

Yasmine Reza presenterà il suo nuovo romanzo Serge ai lettori italiani il 16 marzo a Roma e il 17 a Napoli. In libreria dal 14 marzo, (Adelphi, pp. 186, 19 €).


(Vanity Fair, 16 marzo 2022)

di Traudel Sattler


Non era “diventare prete” il motivo per entrare come una delle prime donne nelle facoltà teologiche romane, spiega Marinella Perroni, docente emerita di Nuovo Testamento e fondatrice, insieme ad altre, del Coordinamento teologhe italiane, nel suo articolo “La figlia di Dio” (la Lettura, 6 marzo 2022). Tante donne che frequentano gli studi teologici nelle Pontificie facoltà romane e ci insegnano pure, senza la prospettiva dell’ordinazione sacerdotale, ciò nondimeno «hanno sviluppato un’autentica passione per la teologia che ci ha portato ad affrontare un curriculum di studi lungo almeno nove anni, impegnativo e, per la maggioranza, privo di sbocchi lavorativi. Lo scopo non era assolutamente il sacerdozio, ma, al contrario, cooperare a quel processo di declericalizzazione della teologia […]. Alcune, è vero, coltivavano anche il desiderio profondo di essere finalmente ammesse al sacerdozio». L’autrice ripercorre la storia del reiterato rifiuto del sacerdozio alle donne, mostrandone la fragilità di fronte alle pressioni del femminismo. E mette in evidenza come la differenza sessuale è divenuta convenzionale nell’immaginario clericale, che “ingabbia la complessità e genera stereotipi” e conclude: «da quando il pensiero femminista ha smascherato come androcentrica e patriarcale la subordinazione tra i sessi, tanto la visione antropologica cattolica che le sue ricadute sul piano dell’organizzazione ecclesiastica sono oggetto di riflessione e di discussione. Ben sapendo che una millenaria tradizione intellettuale, se viene assunta con rispetto, ma anche con lucidità, porta sempre già in sé stessa germi di futuro».


(www.libreriadelledonne.it, 9 marzo 2022; l’articolo pubblicato su La lettura è consultabile anche al seguente link: https://pierluigipiccini.it/archives/la-figlia-di-dio/)

di Liliana Rampello


Con Lo spazio delle donne (Einaudi, pp. 128, euro 12) Daniela Brogi ha il merito di fare chiarezza in un campo linguistico e politico molto disordinato, quello della relazione e del conflitto fra i sessi. L’autrice è docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università per Stranieri di Siena e specialista del Manzoni, sul quale ha scritto il notevole Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo (Carocci 2018), che cito perché fa intuire come nel suo lavoro, ad ampliare significativamente il campo interpretativo, convergano sempre anche i Visual Studies. Lo spazio delle donne arriva tra noi come un libro necessario, di scrittura limpida e appassionata, in grado di rivolgersi a un pubblico ampio con intelligenza, serietà di studio e l’autorevolezza di un percorso condiviso ormai con tante e – vorrei dire – tanti, ma è più realistico dire alcuni.

Possiamo tagliare il testo seguendo due importanti affermazioni, una di ordine concettuale e una di ordine metodologico. Daniela Brogi assume, giustamente, che il linguaggio sia «una forma di esperienza e di sentimento del mondo» e che per rendere giustizia a questa verità si debba lavorare alla composizione di un «fuori campo attivo» rispetto a quella «cultura patriarcale e monologica» che ha tenuto in un «fuori campo passivo», ossia inerte e invisibile, i vissuti, i saperi, il genio e le creazioni delle donne, letteralmente cancellandole o oscurandole. L’autrice è molto attenta, sia chiaro, a non cadere in pericolose generalizzazioni, relative a un indefinito «tutti gli uomini», ma è ben consapevole invece di un senso comune trasversale che va smontato con coraggio e precisione, perché induce le donne alla subalternità.

Senza pregiudizi favorevoli per quest’ultime: della necessità di questa postura, infatti, c’è tradizione esplicita, per dirla volando, già nella Stanza tutta per sé di Virginia Woolf, del 1929, che ci aveva raccontato delle donne «specchio», e ancora nel Secondo sesso di Simone de Beauvoir del 1949, con la riflessione sulle «donne-alibi». Subito, in queste ritagliate affermazioni, sono in gioco il linguaggio e lo sguardo, per la prospettiva stessa in cui lo sguardo fuori campo intercetta il linguaggio nella forma dell’esperienza.

Nel riscattare la parola femminismo (riscatto più che benvenuto), Daniela Brogi compie una doppia importante operazione: non la oppone a maschilismo, e non la inchina a quel «paternalismo benevolo» che confina le donne in uno spazio di minorità, ma la riformula consapevole di quanto proprio il femminismo sia «un capitolo fondamentale della storia della modernità, oltre che un capitale culturale enorme». Ed è questo il passo avanti che l’autrice ci invita a fare, la sfida che non si può eludere se guardiamo al futuro, se ascoltiamo con attenzione la voce delle giovani generazioni che si affacciano sulla scena della nostra storia.

Il termine cruciale del saggio, spazio, viene articolato in cinque capitoli, declinati secondo quella lente del fuori campo utile a non irrigidire le maglie del pensiero, a far sì che la «messa a fuoco dinamica» qui proposta generi un nuovo sguardo sulla realtà e la interroghi dialetticamente intorno «a ciò che è visibile e riconoscibile e ciò che invece è invisibile, ma tuttavia implicato». Questa interrogazione non si dà confini disciplinari, ha un respiro ampio, può avvalersi di una pagina letteraria, teatrale, psicoanalitica, filosofica, politica, rintracciata con amore curioso, o di un film, di una performance, in una scorribanda che mette a nudo un Novecento spesso in ombra. Muovendo in direzioni varie, note e meno note, scuotendo le gerarchie che indicano un alto e basso la cui misura neutra affiora appena grattiamo un po’ la superficie del già pensato, Daniela Brogi convoca per noi Grazia Deledda e Ada Negri, Virginia Woolf e Carla Lonzi, Karen Horney e Helena Janeczek, Marina Abramovic e Alice Munro, Toni Morrison e Margaret Atwood, Elsa Morante e Franca Rame e altre e altri… fino a farci immergere e poi riemergere dall’interno di una cultura dello stupro che non potrà mai dimenticare il delitto del Circeo.

La lente di questo telescopio, nell’illuminare l’invisibile della scena, mette ora a fuoco quanto sia abitata da silenzi, omertà, omissioni, vere e proprie mutilazioni di un sapere che si possa affermare come condiviso. E ci regala un’altra direzione di ricerca: è indubbio che l’intera tradizione maschile, quella stessa che ha fatto fuori le donne, va conosciuta, ma è altrettanto necessario ridisegnarla secondo «nuovi effetti di composizione», in una prospettiva «mobile e multifocale» dei nostri stessi saperi. Tutta la grande arte sa infatti trasformare «anche l’orrore in bellezza formale ed esperienza di verità», e dunque va ri-guardata accendendo la luce sui troppi angoli bui della storia delle donne. Non si tratta di aggiungere qua e là un nome, di giocare l’eccellenza femminile di alcune contro le altre, né di tollerare l’emersione di un mondo «inabissato»; si tratta, questo l’invito garbato, ma netto e severo, di combattere senza sconti contro ogni forma di retorica sessista, per esempio in tema di reputazione e «merito» femminili, e di ribellarsi a traduzioni in aneddotica di trame genealogiche di «relazioni e reciprocità» fra donne. Il famoso merito, sulla bocca di troppi, non è mai richiamato, né invocato quando si tratta di uomini (e ce ne è una valanga che occupa posti di prestigio e di potere non si sa a che titolo), ma sempre invece indicato come decisivo da un «sessismo difensivo» che lo trasforma «in un valore assoluto e separato dalla storia».

L’intreccio è ben altro, come mostra la timeline sintetica ma essenziale di una serie di date utili a ogni «ricostruzione critica seria» della situazione italiana. È quella che va dal 1946, voto alle donne, fino al 1996, quando lo stupro diventa un crimine contro la persona e non contro la morale: lungo questa linea, altre conquiste, accesso alla magistratura, asili nido, divorzio, aborto, riforma del diritto di famiglia… tappe, lo voglio ricordare, che hanno visto impegnate migliaia di donne, democristiane, socialiste, comuniste (da Rosy Bindi a Giglia Tedesco, Marisa Rodano e Livia Turco ad esempio) e prodotto un’intensa discussione tra femministe. Non una sola donna di destra al nostro fianco nella «rivoluzione gentile», né allora né ora, a proposito dell’altra moda mainstream sul loro presunto protagonismo (e non si può che applaudire a queste righe: «Lo spazio delle donne, come luogo e cultura della diversità, non è né può mai essere uno spazio contiguo a valori a suo tempo affermati dal fascismo»).

I passi del libro attraversano molte linee di confine di un Novecento che «è doppiamente il secolo della paura delle donne. La paura che si è fatta alle donne; e quella che le donne hanno fatto, man mano che diventavano sempre più soggetti della storia». Muovono dallo spazio storico «come destino imposto» (con le sue «figure emblematiche: il recinto, l’abisso, l’interstizio, la mappa, il fuori campo attivo»), riconoscono e rivelano nel disprezzo verso le donne non una «conseguenza del maschilismo» ma la sua secolare «condizione di esistenza», sottolineano il gender gap ancora alto, parlano dello spinoso tema dello «specifico artistico femminile». Qui il salto è decisivo: le «forme» non sono «banali involucri», se donne e uomini fanno una diversa esperienza del mondo, se abitano «in maniera diversa la vita», differenti saranno voce, immaginazione e stile della loro arte.

Quando Doris Lessing, nel discorso tenuto in occasione del Nobel per la Letteratura, ricorda la necessità, per scrivere, di «uno spazio vuoto, che ti circonda», la mente vola al salotto di Jane Austen, alla stanza di Virginia Woolf e alle mille altre simboliche stanze che in tante hanno cercato per sé, quelle dove hanno disfatto il mondo che le teneva chiuse all’interno, spalancando porte e finestre per farne un altro, differente e libero, per donne e uomini. Che Daniela Brogi avverte con garbo e coraggio: «ignorare tutto questo è ormai semplicemente incultura».


(il manifesto, 8 marzo 2022)

di Luciana Tavernini


María-Milagros Rivera Garretas Il piacere femminile è clitorideo, Edizione indipendente, 2021

di cui parleremo sabato 26 febbraio 2022 ore 18.00 alla Libreria delle donne.

https://www.libreriadelledonne.it/2022/02/26/


Casta fui, lanam feci, Recensione di Barbara Verzini, pubblicata in Per amore del mondo 17 (2020)

«Come si può trasmettere la meraviglia dell’urgenza che si intreccia con la necessità, dove senti che le parole che leggi finalmente si liberano dalla violenza ermeneutica, per portare giustizia a qualcosa a cui da anni cercavi di dare un nome, un senso, una spiegazione?

Come si può abbracciare un libro che crea vertigini per la grandezza smisurata della sua portata e delle sue scoperte?

La risposta è che non si può.

Non si può imbrigliare l’eccedenza con i lacciuoli del cacciatore.

Bisogna cercare un’altra strada, che non è quella della com-prensione, del prendere tutto insieme, del possedere che chiude, ma è quella della risonanza, del suonare insieme che è sentire insieme; un movimento che apre porte e finestre, che ti chiede di stare in una relazione autentica generando gli spazi dove la verità possa accadere».

La recensione di Barbara Verzini, traduttrice in italiano del libro e che sarà presente all’incontro, ci suggerisce un modo di avvicinarci alla lettura, partendo proprio dal primo capitolo Confondere l’orgasmo per scoprire Il piacere femminile liberopiacere del sentire, delle viscere e dell’anima e liberarci dall’inganno prodotto dall’invenzione dell’orgasmo vaginale nel XX secolo e della vagina nel XVII.



(www.libreriadelledonne.it, 23 febbraio 2022)

di María-Milagros Rivera Garretas


Questo prezioso libro offre un’impeccabile interpretazione femminile e femminista dell’affascinante storia di Tiamat, la Grande Dea Primordiale del Mare, madre senza coito del Tutto, nella Mesopotamia babilonese.

La sua storia e il suo enigma sono documentati per iscritto in un grande poema delle origini, inciso con i preziosi segni della lingua accadica dai guerrieri usurpatori e assassini di Tiamat, su 7 tavole di pietra di 150 versi ciascuna. Il poema si intitola Enuma Elish, che significa Quando in alto.

La prima di queste tavole racconta la storia di ciò che il Mondo era prima dell’arrivo in Mesopotamia dei guerrieri accadi, portatori nella loro mente del contratto sessuale che imposero con il filo delle loro spade a una società matrilineare e matrifocale.

L’Enuma Elish è stato datato intorno al XII secolo prima dell’Era cristiana. Quindi con l’arrivo di questi guerrieri si concluderebbe il primato di un’Era della Perla.

La Madre nel Mare è un libro che, a mio avviso, inaugura un cambio di scena nella politica attuale delle donne occidentali. Perché fa per davvero tabula rasa delle filosofie e della teoria politica maschili del XX secolo, che ancora calcavano la propria impronta misogina nella pratica e nel pensiero della differenza sessuale; in particolare la psicoanalisi di quel secolo e i suoi derivati del XXI secolo. Me lo ha confermato la sua prima presentazione, in remoto da Napoli, organizzato da Stefania Tarantino lo scorso 20 dicembre 2020. Questo incontro è stato, per me, il quadro di un nuovo Salotto: quello delle Preziose del XXI secolo, la cui indipendenza simbolica è infine di radice, fusto e fiori molto differenti dalla mia. È stata la prova che nel Mondo ci sono Madri di pensiero e di politica che non sono né eredi delle femministe dell’ultimo terzo del XX secolo, né una nuova generazione, bensì l’attuale ciclo della genealogia delle Tre Madri delle religioni mediterranee prepatriarcali, mai scomparse. Non mi piace la nozione di “generazioni” perché non mi ci riconosco; la trovo patriarcale, edipica. Mi riconosco invece nella genealogia femminile e materna, quella che sa riconoscere le Madri senza coito quando arrivano; e mi riconosco nei contesti relazionali di cui Marirì Martinengo ha scritto. Mi piace la genealogia che, in questo libro, è della Sfinge che Edipo non capì mai, perché non riconobbe la propria madre neppure avendola di fronte.

Questo atto di presentazione di La Madre nel Mare mi ha dato l’opportunità di sentire e riconoscere il miracolo della grandezza dell’altra e delle altre che vengono dopo di me e sono Madri, non anelli di una catena di eredità. Loro irrompono, sono già qui. Io sono loro grata. Le Madri devono riconoscere le Madri venute dopo perché ci sia politica delle donne

La storia di Tiamat è rimasta un enigma sino ad ora perché nella testa dei ricercatori non entrava la possibilità di un Mondo senza patriarcato, un mondo reale, non solo mitico, nonostante i miti contengano sempre la loro parte di realtà, come la topica.

Il miglior studioso era capax Dei, capace di Dio, però non capax Deae, capace di Dea. La sua scienza terminava dove iniziava il Due. E dove una donna poteva essere madre di corpi senza coito e concetti senza fallo.

Nel libro La Madre nel Mare, Barbara Verzini decifra l’enigma di Tiamat, non perché sappia di più ma perché sente di più e, riconoscendo autorità al suo sentire proprio originario, conosce di più.

A quale universitaria non è capitato di sentire qualche volta che nei paradigmi della conoscenza c’è qualcosa di essenziale che lei sente essere falso ma non sa come dirlo? Chi non ha mai sentito che le parole non arrivano a dire quello che lei sente?

È nelle parole dove agisce questo libro, nelle famose parole per dirlo, del romanzo che in tante abbiamo letto a suo tempo.

L’enigma sta nella violenza ermeneutica universitaria, nell’essere una – una donna – in grado di sentirla nel profondo di sé, nel sentire che María Zambrano chiamò sentire originario e Candela Valle chiama sentire proprio. Quando una donna arriva a sentire nel suo profondo la violenza ermeneutica subita, le parole escono da lei e fluiscono, senza Tommaso d’Aquino, senza Hegel, senza Marx, senza Freud, senza Lacan, senza Nancy, senza femminismo patriarcale. È quello che accade in questo libro: La Madre nel Mare guarda questi autori con distanza, senza vederli. Non apportano nulla alla sua visione. La sua visione è immacolata. Per questo la sua parola fluisce nelle onde dell’acqua dolce e salata di Tiamat.

Cosa mi ha dato questo libro per chiarirmi, per darmi da pensare? La verità è che mi ha dato una cosa che mi ha scossa molto e che continua a muoversi facendo vacillare l’espressione, la parola. È la chiarezza con cui mostra che tutta la creatività viene dal Caos; perché nel profondo del Caos c’è armonia, armonia possibile perché scatenata dal proprio processo creatore femminile, processo a volte dolce, a volte molto doloroso. Senza che Caos e Armonia formino un’opposizione binaria. Chi non ricorda da bambina il mistero del caos della propria madre e di come, allo stesso tempo, lei sapesse sempre dov’era tutto? Questa è precisamente la Tiamat primordiale, la grande Dea Madre senza coito babilonese: il Caos che sa dove c’è tutto.

Da cui si deduce che né il Caos è l’opposto dell’Ordine né è sinonimo di disordine. Ordine e disordine sono, adesso sì, un’opposizione binaria o un’antinomia del pensiero, un’operazione mentale che non ha mai dato nulla a una donna. Cosa che sta avendo per me delle conseguenze politiche e filosofiche importantissime. Perché Barbara Verzini in questo libro mostra che, storicamente, l’ordine – come il temibile Ordine nuovo che rivendicavano con grande violenza gli uni agli altri quando io ero studentessa – è sempre l’Ordine della spada, l’ordine imposto con la spada. Un ordine che è, prima di tutto, patriarcale, è quello che imposero a colpi di spada i guerrieri accadici per distruggere la società matrilineare e matrifocale governata da Tiamat. Loro, con la spada dell’Età del Bronzo, o del Ferro, non lo so, tagliarono Tiamat in due, come raccontano i bellissimi petroglifi dell’Enuma Elish. La loro spada continua ad essere oggi il fallo, e il loro ordine l’ordine fallico, nelle sue distinte varietà storiche, tutte temibili.

La qual cosa a sua volta ha delle conseguenze molto importanti rispetto l’ordine simbolico. Ho sempre avuto difficoltà nelle aule a spiegare l’ordine simbolico della madre perché, nonostante avessi studiato Lacan, non l’avevo imparato, e quindi non sapevo che l’ordine simbolico fosse una nozione sua: questo mi avrebbe fatta sospettare.

Né avevo capito perché alcune filosofe parlassero di ordine simbolico patriarcale e ordine simbolico della madre, come se ci fossero due ordini simbolici, quando il mio più grande tesoro nel libro L’Ordine Simbolico della Madre di Luisa Muraro, era stato che la lingua è una e – avevo dedotto io – c’è un ordine simbolico ed è della madre. Questo libro me l’ha chiarito. Barbara Verzini mi ha insegnato che il simbolico non è un Ordine, ma l’Armonia del Caos. C’è il simbolico ed è della madre. Gli ordini, nati dagli ordini (comandi), vengono dall’uso violento della spada. Esiste dunque il simbolico della madre, che è la lingua materna, la sua armonia; ed esiste o è esistito l’ordine simbolico patriarcale, non armonico bensì violento.

Questo coincide con il senso di “simbolico” e di “simbolo” che insegnava mia madre nelle lezioni di greco: derivano da sun-ballein “lanciare con”, con la sua parte di Caos, trasportata con la voce, grazie al sentire proprio originario della parlante.

Una volta aperta questa fonte, il libro spiega fluidamente come tanta conoscenza maschilista nasca da una separazione, ad esempio nella Genesi e i suoi enormi derivati culturali: come la separazione sia una delle operazioni preferite della violenza ermeneutica, detto ora con le mie parole, fino ad arrivare a separare una donna dal proprio piacere e dal proprio orgasmo.

E tra le tante cose, il libro spiega il dialogo, che sino ad ora consideravo assurdo, tra Edipo e la Sfinge. Alla seconda domanda della Sfinge, quella che dice: “Ci sono due sorelle delle quali la prima genera l’altra e la seconda a sua volta genera la prima, chi sono?”, si diceva che Edipo abbia risposto: “Il giorno e la notte”, quando la risposta è “Le Tre Madri”. Le prime due sorelle (sorelle di sesso) sono la madre e la figlia; la terza è la figlia quando la madre le riconosce autorità, perché, in quel preciso momento, lei riconosce sua figlia, Madre, la Terza Madre, prima della Trinità successiva e intrecciata. Meraviglioso Enigma della Sfinge / Madre. Chi ha una madre che non sia Sfinge, enigma?

Barbara Verzini spiega tutto questo a partire da sé, dalla relazione con sua madre mai eclissata dalla relazione con la maestra e anche partendo dalla sua stessa essenza, che l’autrice porta nella scrittura attraverso l’allegoria della grande e deforme bocca della rana. A Bilbao, quando ero bambina, si giocava in piazza o per strada a La rana, cercando di lanciare una moneta, con o senza prendere la mira, nella sua grande bocca di bronzo aperta. Non era facile. La rana è madre senza coito e canta instancabile tra la terra e l’acqua, sulla cui riva lascia le proprie uova in modo che possano essere fecondate senza di lei. Nella rana e nella sua grande bocca, Barbara Verzini mette il segno della sua originalità filosofica, che rompe la forma e sta nei suoni.

L’attenzione minuziosa alle parole e ai loro suoni, che questo libro insegna, mi ha recentemente portata a una rivelazione che per me è importante. Per molto tempo ho cercato che cosa sentivo fosse rimasto in sospeso, nell’interpretazione femminile libera della storia del Tempio originale di Delfi dedicato a Gê(a), la Dea Madre senza coito equivalente, nell’Europa mediterranea, alla Tiamat babilonese e mesopotamica. Neus Calvo Escamilla offrì qualche anno fa nel suo La E di Delphi una preziosa spiegazione dell’insegna di Gê(a) incisa sulla pietra dell’autentico tempio: la Epsilon dei tre tratti, ma qualcosa rimaneva pendente. Influenzata dal libro di Barbara Verzini, l’attenzione al suono della E mi ha comunicato ciò che è ovvio, un’ovvietà difficilissima da riscattare con il pensiero del pensiero: la epsilon dei tre tratti è prima di tutto il suono E della lingua madre, suono e desinenza che nella lingua greca simboleggiavano il femminile, il genere grammaticale femminile, la differenza sessuale, come in Gê, come in Kore (Bambina, Vergine), come nei famosi attributi kale kai agaze (bella e buona) propri delle donne e del femminile. Come nel probabile motto della dea Gê(a) di Delfi che i guerrieri della polis, del contratto sessuale e della democrazia ateniese, avrebbero usurpato, il probabile Gnothi seautón (Conosci te stessa) dove il suono E venne sostituito con il suono O (maschile) nel posteriore tempio patriarcale dedicato ad Apollo, il tanto ripetuto Gnothi seautón (Conosci te stesso) dei filosofi classici e postclassici. Deve essere stato così perché la madre viene sempre prima, è sempre prima e ti insegna a parlare parlando, non per iscritto: la lingua materna si impara ascoltandola, ascoltandola dalla bocca di tua madre, preferibilmente stando nella calda armonia delle sue braccia. La lingua materna è in primo luogo e sempre lingua ascoltata, come il messaggio della concezione senza coito di Maria di Nazaret (una donna qualunque) nella scena dell’Annunciazione / Incarnazione. Penso che questo abbia delle conseguenze sulla nozione di simbolico, o di armonia simbolica, come dice l’autrice di La Madre nel Mare. E le abbia anche nella nozione di scrittura femminile, perché questa conserva nel testo la voce della madre e i suoni della lingua materna. La scrittura femminile si vede e si ascolta; la scrittura del pensiero del pensiero si vede solamente: non porta il suono della voce della madre, né porta l’impronta della lingua materna, anche se i segni sono gli stessi, perché si è separata dalla madre, dall’Alma Mater, addirittura ha tagliato con lei, arrivando a proibirla.

La Madre nel Mare. L’enigma di Tiamat è il libro che inaugura la Collana A mano, fondata nel 2020 in kdp.amazon.com da Barbara Verzini e María-Milagros Rivera Garretas. La Collana A mano è una casa aperta e disponibile nel freddo mare di internet, un fuoco femminile amabile per la scrittrice che desideri autoeditarsi senza sottomettersi a giudizio né a capitali stranieri, giudizio e capitale oggi più attenti alle vendite che a ciò che è scritto. Il suo senso l’abbiamo spiegato così: A mano è una Collana di libri di Scrittrici fedeli alla genealogia femminile e materna, ispirate dalla creatività del caos, del piacere clitorideo, del sentire originario, della relazione senza fine e della radicalità di Dama Amore, orientate dal bene e dalla felicità.


(www.diotimafilosofe.it, Rivista n. 17/2020, traduzione dallo spagnolo di Barbara Verzini) 

di Alessandra Pigliaru


Un percorso di saggi e narrazioni sul desiderio e il piacere femminile. Da Tamara Tenenbaum a Catherine Malabou, da María-Milagros Rivera Garretas a Barbara Verzini. La pandemia ha reso evidente la rimozione dei corpi e ha rimpicciolito gli spazi delle relazioni, sessuali ed erotiche. È però questo un processo che ha radici lontane


«Quello che penso sia successo con la pandemia è che ha accentuato cose che stavano già accadendo, cioè che siamo così sovrasfruttati tutto il tempo che è difficile per noi connetterci con il desiderio». A riferirlo è Tamara Tenenbaum in una conversazione con Pablo Herón per «La Izquierda Diario» (e riportata da «La voce delle lotte»). Dalla intervista sono trascorsi circa due anni e, con probabilità, adesso abbiamo più elementi per comprendere lo smarrimento di cui accenna Tenenbaum, scrittrice con una formazione filosofica nata e cresciuta in una comunità ebraica ortodossa nel quartiere di Once, a Buenos Aires, che nel 2019 ha dato alle stampe El fin del amor. Querer y coger en el siglo XXI. Per Fandango, esce ora la versione italiana La fine dell’amore. Amare e scopare nel XXI secolo (pp. 224, euro 20, traduzione di Alberto Bile Spadaccini), un testo che consente di orientarsi nell’arcipelago complesso delle relazioni partendo da una esperienza di trasformazione personale che sposta una ragazza a riflettere sulla propria libertà, sulla propria autonomia simbolica, sul proprio disidentificarsi con ciò che è il dettato all’apparenza obbligatorio della coppia.

Lasciata la propria comunità, Tenenbaum fa interloquire la propria storia per ricontrattarne i contorni. L’amore da congedare è quello romantico. Più avanti, sottolineando il tenore di questa decostruzione a partire da sé, specifica che il desiderio ha un carattere paradossale, «lo percepiamo come una cosa che ci succede, un accidente che ci capita, eppure dobbiamo assumerne la responsabilità». Non solo del nostro, ma anche di quello altrui. Ed è qui che consiste l’opposizione tra la libertà e il consumo neoliberista. Lo dice a partire da sé, dal proprio essere donna. Potremmo aggiungere che la scoperta di una tale generatività priva di imperativi sia l’ingresso diretto al piacere.

Non c’è bisogno di dire quanto la stretta pandemica sia stata nociva al desiderio, in primis quello sessuale. Questa distanza di sicurezza arriva però da lontano, si è radicata negli anni e oggi la ritirata del desiderio, sacrificato sull’altare di una deriva politica a tratti reazionaria e depressiva, non è, ancora una volta, un’astrazione. Diventa piuttosto qualcosa che si inchioda ai corpi. Leggere Il piacere rimosso. Clitoride e pensiero, di Catherine Malabou (Mimesis, pp. 157, euro 14, traduzione di Linda Valle, prefazione di Jennifer Guerra, il 6 marzo se ne discuterà a Milano nell’ambito di BookPride alle 14.30) precisa al mondo una geografia incarnata. A partire dalla domanda sul soggetto del femminismo, Malabou – filosofa, psicoanalista e docente alla Kingston University – fa un’operazione piuttosto azzardata e dunque preziosa di questi tempi: intanto riparla apertamente di clitoride, al centro di molte riflessioni – inaggirabili quelle di Carla Lonzi che nel 1971 scrive La donna clitoridea e la donna vaginale pubblicandolo in un volumetto edito da Rivolta Femminile con Sputiamo su Hegel). Dà alla clitoride uno statuto politico, tornando dunque a un posizionamento che, radicandosi almeno storicamente nel pensiero della differenza sessuale, osserva e interroga genealogie critiche e altre soggettività.

Oltre Lonzi, cui dedica un capitolo, la ricognizione passa infatti al setaccio Simone de Beauvoir, Luce Irigaray ma anche l’immaginario ninfale e naturalmente quello maschile che in questi decenni di nascondimenti ha creduto di poter disporre dell’orgasmo femminile. Ricordando che non esistono «corpi intatti» né indenni da «artefatti farmacologici», Malabou dialoga inoltre con l’esperienza di Paul B. Preciado e degli approcci queer, intersessuali, trans; la clitoride, spiega «è diventata il nome di un dispositivo libidinale che non appartiene necessariamente alle donne e sovverte la visione tradizionale della sessualità, del piacere e dei generi. Altre chirurgie, altri immaginari».

Più che domandarsi di quale rimozione si stia vagheggiando nel titolo, sarà il caso di chiedersi quante siano. Malabou ripercorre la violenza che ha attraversato i corpi delle donne, per occultare, eliminare, e poi ancora opprimere a diverse latitudini. Nel 2012 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 6 febbraio «Giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili (mgf)» e se la clitoridectomia è stata anzitutto simbolica, per impiantare al suo posto il fallomorfismo che ben conosciamo, è pratica utilizzata, come lo sono l’escissione e l’infibulazione. Si parla di una ragazza o una donna escissa ogni quindici secondi.

La clitoride però è un’anarchica, conclude Catherine Malabou. E lo è perché con l’anarchia condivide l’ingovernabilità, la clandestinità e il grado massimo di rifiuto del potere. È sulla base di questa rivoluzione di prospettiva che produce pensiero, che può essere crocevia di molteplicità come di desideri plurali. Del resto, dopo le agonistiche e spesso arroganti elucubrazioni falliche, c’è una ragione sufficiente per cui non si possa rendere alla clitoride (e dunque al piacere), questa piccola e smisurata altura incastonata di meraviglie, tutta la centralità sovrana che le è propria? Ne avremmo tutti e tutte nutrimento oltre che godimento. 
Certo il problema permane quando si cerca il contatto con altri corpi ma anche per questo María-Milagros Rivera Garretas ha scritto Il piacere femminile è clitorideo (uscito a Madrid e ora, grazie alla traduzione di Barbara Verzini, disponibile anche in Italia; edizione indipendente, è il quarto titolo della collana «A mano», pp. 208, euro 17, verrà discusso alla Libreria delle donne di Milano il 26 febbraio, alle 18). Storica medioevale che ha insegnato all’Università di Barcellona e che, nella stessa città, ha fondato con altre Duoda (Barcellona) e ora Dhuoda (Cáceres), Rivera Garretas fa ordine su una serie di malintesi che cominciano proprio dalle parole. È per esempio il caso emblematico di «ermeneutica» che, se ha prodotto molta della violenza che conosciamo (dall’impianto accademico alla costrizione del metodo cartesiano), contiene le «erme», una pratica e un’usanza femminile ancestrale delle donne aymara boliviane che, quando viaggiavano, ponevano una piccola pietra sopra dei mucchietti ai punti di incrocio tra valle e montagna per chiedere protezione divina. Il cumulo di sassolini della Dea Era (e non di Hermes) è una collina, ovvero la clitoride.

Questo cambio prospettico, uno dei tanti esempi che propone l’autrice, è la traiettoria di ritorno all’origine, così come lo sono le poesie di Emily Dickinson o le voci di Juana Inés de la Cruz o ancora di quel legame che dal piacere passa al godimento, al toccare e ritoccare delle labbra di cui ha scritto Luce Irigaray nel suo Questo sesso che non è un sesso (1977) e che ancora ha molto da raccontare. Bisogna approfittare, secondo Rivera Garretas, dei misteri clitoridei che sono tali poiché «la nostra cultura trova difficile capire e impossibile ammettere che i concetti vengono concepiti nel piacere, non nello studio né nello sforzo angoscioso della ragione». Ecco spiegata l’immagine secondo cui «la donna clitoridea concepisce corpi senza coito e concetti senza fallo».

Non è una suggestione, è il senso libero di una esplorazione di cui rende conto Barbara Verzini nel suo La Madre nel Mare. L’enigma di Tiamat (volume prezioso e frutto di edizione indipendente, che inaugura la collana «A mano» (pp. 110, euro 16). È un testo speciale, sofisticato nell’esegesi, poetico di scavo per le connessioni teoriche, simboliche e artistiche individuate e in cui si studia e si legge, con sguardo innamorato, il poema accadico Enuma Elish (sette tavole di 150 versi ognuna) e la babilonese Tiamat, signora del Chaos.

«Affrontare la dismisura femminile», avverte Verzini, filosofa indipendente e docente a Barcellona al Master di Duoda e anche lei, con altre, fondatrici di Dhuoda, «è un problema del patriarcato e delle donne patriarcali». Dalle profondità oceaniche di Tiamat, origine e totalità, arriva allora lo scintillio trasformativo che – al posto del rimpicciolimento di cui in tante hanno fatto e fanno esperienza, chiudendo il piacere clitorideo in un cassetto – propone di spalancare la visione: «Sia benvenuto un mondo di abbondanza di rane e di bocche dalle carnose labbra, un mondo che brinda alla differenza e alla grandezza femminile, dove nessuna sia mai più costretta a farsi piccola mentre si sente chiamare pazza, ma possa gridare indomita la propria eccedenza».

Da questa festa politica di libri, non sembra che il desiderio sia poi così sdrucito, si tratta solo di tenerlo insieme al piacere dei corpi. Che sentono e vivono tutto, con amore passione e talvolta stordimento. Come un abbraccio irrinunciabile.


(il manifesto.it, 17 febbraio 2022)


di Luciana Tavernini


Nel suo ultimo libro Pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo Luisella Vèroli, esploratrice degli archetipi del femminile e prima biografa di Alda Merini di cui ha scritto in Reato di vita, Autobiografia e poesia e in Alda Merini ridevamo come matte (2011), ci propone un breve e finora inesplorato periodo della vita di Sibilla Aleramo, l’estate del 1912 in Corsica. E lo fa basandosi sulla documentazione dell’archivio Gramsci di Roma, su lettere, diari, fotografie inedite di chi l’ha conosciuta, ma anche ricreando dialoghi e situazioni verosimili, in cui unisce la sua conoscenza della Corsica, in cui Vèroli soggiorna da quarant’anni, e le sue conoscenze di archeologia femminile.

Così possiamo viaggiare in compagnia di Sibilla alla scoperta di figure femminili del mito e conoscere anche le mazzere e una bandita; vedere lo schiudersi di amicizie, come quella con Anne-Marie Comnène e Benjamin Crémieux, con cui condivide riflessioni sulle relazioni tra donne, tra donne e uomini, e sulla scrittura e che la metteranno in contatto con circoli culturali parigini. Possiamo seguire lo sbocciare dell’amore incandescente per il giovane Joe Luciani, di cui diventa maestra di piacere proprio perché non rinuncia al proprio. E, per la prima volta, la scrittrice e giornalista si scopre anche poeta.

Un viaggio dunque alla scoperta dell’energia creativa femminile che sa trasformare anche gli uomini.

Luisella Vèroli, Pudore selvaggio. L’estate in Corsica di Sibilla Aleramo,

Associazione Culturale Le Melusine/ La vita felice, Milano 2020, € 14,00

Per saperne di più una approfondita e appassionata recensione:

Nadia Tarantini, Pudore selvaggio, selvaggia nudità, Letterate magazine, 2 dicembre 2020

www.letteratemagazine.it/2020/12/02/pudore-selvaggio-selvaggia-nudita

e per conoscere l’autrice il video di uno degli incontri di presentazione del libro:

Intervista di Katia Trinca Colonel a Luisella Vèroli per il Circolo dei lettori di Como

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(www.libreriadelledonne.it, 13 febbraio 2022)


di Arianna Di Genova


Non sono capaci di pensare in una misura tridimensionale, solo bidimensionale, quindi l’architettura non fa per loro. La sentenza senza possibilità di appello fu decretata da Walter Gropius mentre le studentesse, entusiaste, si iscrivevano al Bauhaus. Attratte in gran numero dalle tesi enunciate nel manifesto della scuola – tra cui la sostanziale parità di genere – oltre che dallo stile esistenziale comunitario in una condivisione di spazi anche quotidiani fra docenti e «operai/e», le ragazze del Bauhaus in realtà si scontrarono con un pregiudizio storico. Spesso, lo introiettarono loro stesse, rendendosi invisibili da sole, seguendo i propri compagni nelle attività, sposandosi – moltissime furono le unioni fra «interni» – e affossando in solitudine i loro progetti al presentarsi della mutazione di status sociale.

Dopo il biennio di base, quelle che decidevano di continuare venivano indirizzate verso materie ritenute a loro consone, come la tessitura, la ceramica, la legatoria, pochissime alla falegnameria, vietata l’architettura fino all’avvento del nuovo direttore svizzero Hannes Meyer che preferì aprire le porte dei laboratori a tutti indistintamente (Lotte Beese ne approfittò e, alla fine della seconda guerra mondiale, contribuì alla ricostruzione di Rotterdam).

Le eccezioni ci furono e, per la verità, quelle officine di destinazione femminile furono il vero fiore all’occhiello della scuola, sia nella rivoluzione dei linguaggi utilizzati che nel campo economico, assicurando con la vendita di oggetti e una produzione in serie di artigianato di altissima qualità la sussistenza del Bauhaus in periodi non proprio rosei. Eppure, le docenti erano pagate meno dei loro colleghi maschi e le studentesse dovevano far fronte a tasse più alte, oltre che ai servizi di mensa e di manutenzione ordinaria degli strumenti di lavoro. Molte poi non hanno lasciato tracce dietro di sé, altre sono state mal considerate da chi ha costruito la narrazione ufficiale della storia delle arti dopo di loro.

Non è un caso, infatti, che l’autrice di 494 – Bauhaus al femminile, Anty Pansera, lamenti fin dall’apertura del suo libro (edito da Nomos, pp. 302, euro 24,90) le difficoltà incontrate nell’attendere al suo compito titanico, quello di recuperare le miriadi di biografie perdute: scarse informazioni, lacune, scomparse, eclissamenti volontari, inghiottimenti di artiste nella sfera maschile famigliare. Un atto di volontà incrollabile quindi quello di Pansera, che ricerca dopo ricerca, archivio dopo archivio, l’ha condotta a rimettere insieme le frammentate notizie intorno a quei percorsi sempre in lotta fra il buio e la luce.

Su 1400 frequentanti e insegnanti – provenienti in gran parte dalla Germania o dall’est, ma non mancavano americane e pure italiane come l’avellinese Maria Grazia Rizzo, in classe con Kandinskij – le donne erano rappresentate da quel numero 494 che troviamo in copertina del volume (per la precisione, 475 studentesse, undici docenti, sei «donne intorno a Gropius», una manager, una fotografa). Loro, come un po’ tutti i partecipanti a quell’avventurosa esperienza didattica, che era anche costellate di mitiche feste organizzate fin dai costumi da Schlemmer, non erano ben viste: Weimar – prima sede del Bauhaus che poi si sposterà a Dessau e per una brevissima parentesi a Berlino, riuscendo a resistere agli attacchi nazisti per un anno – era una piccola e tranquilla cittadina, non abituata a stravaganze né al look sbarazzino che molte sfoggiavano, con capelli corti o a caschetto e giacche di pelle usate e ricontestualizzate della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca.

Soffermandosi sui nomi, gli episodi narrati e le biografie raccolte, le sorprese sono molte. Si va dalle ribellioni nei laboratori per apporre il proprio nome ai prototipi destinati alle aziende tessili (registrando pure i diritti dei modelli) alla storia della letteratura per l’infanzia. Margret Rey detta Grete (nata Margarete Elisabeth Waldstein), dopo aver lasciato la scuola e aver lavorato come pubblicitaria alla Crawford’s, girovagando tra Parigi e Rio de Janeiro con il marito – entrambi erano ebrei e in fuga dal nazismo – darà vita in coppia a Curious George, uno dei protagonisti nei racconti per bambini/e più conosciuti al mondo.

Margaretha Reichardt entrò al Bauhaus 19enne, frequentò l’officina di tessitura ma anche quella di falegnameria, oltre a corsi di Klee e Moholy Nagy. Disegnò meravigliosi giocattoli in legno che negli anni successivi furono scelti per una produzione industriale e realizzò un filo di cotone cerato di grande resistenza che verrà utilizzato su larga scala. Sarà lei poi la creatrice dello speciale tessuto per i rivestimenti degli arredi: la sua «tappezzeria» andrà a ricoprire la celebre sedia Wassily di Breuer.

Quando Annelise Else Frieda (conosciuta come Anni Albers, dal cognome del marito e docente) arrivò al Bauhaus, dovette riavvolgere il nastro del suo aristocratico stile di vita adattandolo a una realtà ben più umile. Lo farà comunque benissimo, diventando «la padrona del telaio», poi insegnando teoria del design e affiancando la leggendaria Gunta Stölzl nelle attività (non riuscì invece a entrare nel laboratorio di pittura su vetro di Albers che però, in seguito, sposerà). Sperimentava sui materiali e le stoffe, propendendo per tessuti che assorbissero luce e suoni. Approdata in America all’avvento di Hitler, divenne docente al Black Mountain College e anni dopo, nel 1949 il MOMA le dedicò una mostra monografica, cosa non scontata per una artista del ramo «tessile».

L’albero del Bauhaus femminile è pieno di ramificazioni e grondante di stupefacenti frutti. E nonostante l’ingombrante presenza di Gropius, va ricordato che fu proprio sua moglie – Ise Frank, la cui storia, in forma romanzata, è narrata nel libro di Jana Revedin per Neri Pozza – a diventare, con i suoi scritti e conferenze, la migliore promoter nel mondo di quella scuola d’avanguardia, invisa al potere.


(Alias-il manifesto, 5 febbraio 2022)

di Stefania Tarantino


Tra il 1931 e il 1938 la filosofa Simone Weil insegnò in vari licei di diverse città francesi. Il suo impegno pedagogico e l’importanza che dava al processo educativo sono immortalati nello scambio epistolare che ebbe con alcune sue ex-allieve, negli appunti che queste ultime prendevano a lezione, negli schemi delle lezioni che la stessa Simone Weil preparava e nelle testimonianze di tutti e di tutte coloro che la conobbero negli anni di insegnamento.

Grazie al prezioso lavoro di cura di Maria Concetta Sala possiamo oggi leggere queste corrispondenze tutte d’un fiato e nella loro interezza (Simone Weil, Piccola cara… Lettere alle allieve, Marietti, pp. 83, euro 17). Nella sua introduzione al volume, sembra quasi di poter entrare nell’aula dove quell’insegnante d’eccezione faceva lezione. Se ne coglie per lo meno l’atmosfera che trapela da quella profonda fiducia nel sapere inteso come azione trasformativa, come elemento modificatore di sé e della propria capacità di lettura dei molteplici significati del testo-mondo. Tra il tepore dell’attenzione e la gravità del tono e degli accenti, le parole che la filosofa francese rivolge alle sue ex allieve, denotano una premura e una schiettezza in cui ne va del valore autentico di un processo educativo che riguarda la formazione di tutta la personalità umana e non solo delle «sue» competenze e in cui educazione, istruzione e cultura sono profondamente intrecciate. Prima che sui libri, l’educazione è un lavoro su di sé, una trasformazione dell’essere, un rivoltare tutta l’anima nel senso socratico del termine. Per uscire dalla «caverna» è infatti necessario agire sull’immaginazione, su tutte quelle illusioni che impediscono un vero contatto con la realtà.

Per Simone Weil l’insegnamento teorico, mai slegato dalla sua controparte pratica, ha il compito di «strappare», dissodare e estirpare tutto ciò che ci spinge verso il basso e ci rende schiavi delle passioni e della potenza collettiva della società. Educare equivale a innalzare ai propri occhi ciò che non si vedeva, ciò cui non si prestava attenzione, non solo in sé ma anche fuori di sé. Tale innalzamento equivale a un vero e proprio risveglio attraverso cui si scopre il proprio valore e la propria unicità e in cui si percepisce la presenza dell’altro e della realtà in tutta la sua irriducibilità. È solo apparentemente, infatti, che l’uomo pensa di dominare le forze che lo sovrastano. In realtà, quando si perde completamente la nozione di necessità, è da queste forze che è dominato. Essere dominati dalle sensazioni significa essere raggirati dalla vita, perché per Weil la realtà della vita non è la sensazione, che è sempre egoismo, illusione, delirio di onnipotenza, ma è l’attività, sia del pensiero che dell’azione. Proprio perché l’azione del sapere comporta lo spostamento di una forza, non si tratta tanto di produrre astrazioni, ma di creare analogie tra le cose a partire dalla loro concretezza e particolarità. Nel trasferimento d’energia non ne va semplicemente di uno spostamento da un luogo a un altro, ma di una trasposizione da un ordine a un altro. In questo senso, per Simone Weil, capire è sempre un movimento ascendente, un movimento che conduce su un altro piano in cui si afferrano, con la tenaglia della mente, i reali rapporti tra le forze che agiscono nel reale e nella soggettività.

In queste dieci lettere, seguite da tre frammenti, emerge come il lavoro didattico, nella strategia educativa weiliana, si divida in tre rami fondamentali che fanno parte di un unico grande albero. Un primo ramo fa riferimento all’istruzione che ha, come sua vocazione principale, quella di insegnare che cosa significa conoscere. Un secondo ramo è relativo all’educazione che deve suscitare delle motivazioni che sono la base necessaria di ogni azione. Il terzo ramo riguarda il ruolo della cultura che deve formare all’attenzione.

Insegnare l’amore del sapere significa predisporre all’attenzione intuitiva e all’accettazione autentica della vita e degli altri, non riportare tutto a sé, alla propria misura. Far entrare davvero il sapere nel corpo, come un nutrimento indispensabile, implica la liberazione dagli attaccamenti, dall’egoismo predatorio, dal senso di prestigio e di onnipotenza. L’educazione, intesa come disciplina interiore, consente di non essere preda di se stessi e dell’immaginario sociale. È un’arma indispensabile per imparare a conoscere la vita materiale che è sempre sottoposta alla necessità. Proprio per questo è imprescindibile per Simone Weil andare in direzione di un superamento della divisione degradante del lavoro in lavoro manuale e lavoro intellettuale. Così come è necessario lavorare in direzione di una volgarizzazione delle conoscenze attraverso cui realizzare il legame tra conoscenze complesse e conoscenze comuni. Ciò che preoccupa Weil è l’indifferenza al sapere, il perdersi nella pura fantasia e, sebbene sappia che quando si è giovani si ha diritto a qualche illusione, sa anche che è meglio dire sempre la verità. In più si tratta di non perdere il prezioso nesso che unisce il segno al significato.

Nessun meccanismo verbale può creare verità. Solo una parola vera, frutto di un pensiero reale ancorato al proprio vissuto, può creare verità. Ecco perché è di fondamentale importanza portare esempi di vita reale, mettere in gioco la propria verità soggettiva nell’oggettività del sapere, far «sentire» il contatto con un sapere che agisce sulla vita reale, sul comportamento che abbiamo nei confronti di noi stessi e degli altri.

Prestando molta attenzione al fatto che le relazioni educative sono asimmetriche e che molto spesso chi è nella posizione di allievo/a vive la fascinazione per il maestro o la maestra, Simone Weil cerca di far capire che, nonostante l’affetto che anche lei prova per le sue allieve, è necessario mantenere la distanza tra sé e l’altra. Una distanza necessaria per non scivolare in un «abuso di fiducia» e per lasciare lo spazio affinché ciascuno trovi il proprio ritmo di un libero respirare. Non mancano i riferimenti alle prime esperienze affettive delle allieve che si rivolgono a Simone Weil per avere qualche consiglio. Anche qui si tratta di imparare ad amare nella distanza, di conciliare l’amore con la propria libertà per non fare dell’amore un pretesto per dominare l’altro. Come tutte le cose importanti della vita non si tratta di cercare ma di attendere. La ricerca a vuoto, che non significa a perdere, è essenziale al sapere. Per il suo carattere pratico, agli occhi di Simone Weil lo studio corrisponde a un addestramento, a una ginnastica della mente, a un’abitudine in cui attraverso l’esercizio dell’attenzione, della critica e della costatazione si riesce a cogliere e a disattivare quel nucleo oscuro delle forze che sovrastano le relazioni tra gli individui. Con grande fermezza, invita le sue allieve a non perdere tempo prezioso, a mettersi in contatto con se stesse e con ciò che fanno nella consapevolezza che l’attenzione è la vera «fatica» che insegna a chi studia a conoscere il lavoro e a entrare in un rapporto più intimo e reale con la natura.

Nella scuola non ne va solo di una presenza, ma della creazione di una comunità reale in cui ciascuno è chiamato a mettere a disposizione le proprie conoscenze nello sforzo di un’istruzione reciproca, nella persuasione che consente di dirigere la propria attenzione verso le cose di maggior valore. Nelle aule di scuole ci si vede e si è visti. Tra dedizione e rifiuto, la creazione di qualunque comunità prevede implicitamente un patto di fiducia, la disponibilità a creare un’intesa, un legame di affidamento in cui la relazione fa da garante all’assimilazione vera del sapere. La scuola ci aiuta a non mancare la nostra vita. Nel corpo a corpo con il reale è possibile resistere allo sfacelo del presente solo guardando e impegnandosi nella creazione di una nuova civiltà, poiché la scuola è il motore primo che avvia una trasformazione della relazione simbolica e materiale che abbiamo con il mondo.


(il manifesto, 1° febbraio 2022)


di Alessandro Zaccuri


Tutta colpa di Remarque, nel senso di Erich Maria. Il nome o, meglio, il cognome dello scrittore tedesco, popolarissimo nella prima metà del Novecento, salta fuori in modo abbastanza inaspettato dai documenti relativi al dibattimento che nel 1993 vede imputata Svetlana Aleksievič. Siamo nel tribunale di Minsk, da un paio di anni la Bielorussia ha rivendicato la propria indipendenza, ma il quadro delle accuse riprende senza eccessive variazioni il repertorio in voga durante il regime sovietico. Ragazzi di zinco, il libro la cui veridicità viene messa in discussione, è colpevole di disfattismo, scarso patriottismo, pacifismo tendenzioso, intelligenza occulta con le potenze straniere. In una parola, di “remarquismo”, secondo l’indignata espressione adoperata a un certo punto dal giudice. Che magari non avrà mai letto Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma è stato comunque raggiunto dalla fama del più noto tra i titoli di Remarque, incentrato sul tragico destino di un gruppo di giovani tedeschi che, partiti con ingenuo entusiasmo, trovano la morte nelle trincee della Grande Guerra. Ragazzi di zinco, in effetti, rievoca una storia simile, solo che questa volta non si tratta della sconfitta degli Imperi centrali all’inizio del XX secolo, ma della fallimentare guerra combattuta dall’Urss in Afghanistan negli anni Ottanta. C’è anche un’altra differenza, non meno importante: se quello di Remarque è un romanzo in senso tradizionale, con personaggi di invenzione che assommano su di sé esperienze belliche, Ragazzi di zinco (l’allusione è alle anonime bare nelle quali venivano rimpatriate le salme dei soldati russi) è un ‘racconto documentario’, definizione in apparenza contraddittoria, che non a caso viene sottoposta a una perizia indipendente nel tentativo di chiarire i termini del contendere. Secondo l’illustre studioso incaricato di dirimere la questione, il genere ricade nel dominio della ‘prosa artistica’ e non è quindi soggetto alle regole solitamente in uso in ambito giornalistico. Di conseguenza, Ragazzi di zinco non può essere considerato un reportage. Per dirla nel modo più semplice, è uno dei capolavori per cui nel 2015 la scrittrice bielorussa sarà insignita del premio Nobel. I materiali del processo, conclusosi con una sentenza ambigua che non assolve e non condanna, costituiscono la principale novità della versione di Ragazzi di zinco che il lettore italiano trova ora all’interno di Guerre (a cura di Sergio Rapetti, pagine 1036, euro 35), primo volume delle Opere di Svetlana Aleksievič realizzate da Bompiani su espressa indicazione dell’autrice. Non si pensi, però, a una mera riproduzione degli atti. L’appendice giudiziaria è allestita secondo i criteri che la stessa Aleksievič riassume nella dichiarazione a sua volta composta «da ciò che è stato detto e da ciò non mi è stato consentito di dire». Ascoltiamola: «Io non invento, non estrapolo, ma organizzo il materiale che mi fornisce la realtà. I miei libri sono le persone che raccontano e io stessa, col mio modo di vedere il mondo e di considerare le cose. Scrivo, annoto la storia contemporanea nel quotidiano. Parole vive, vite e destini». L’allusione all’opus magnum di Vasilij Grossman (Vita e destino, appunto) è tutt’altro che fortuita, così come inequivocabile, per quanto inespresso, risulta il riferimento al metodo di lavoro di Fëdor Dostoevskij, il grande romanziere febbrilmente attratto dalle vicende minute e orribili della cronaca nera. Nata in Ucraina nel 1948, in un ambiente pervaso dai ricordi della guerra appena terminata, anche Aleksievič si è formata alla letteratura attraverso l’apprendistato giornalistico, fino a elaborare un’originalissima forma di narrazione ibrida che, per comodità, si può indicare con il termine di ‘racconto documentario’. Gli anglosassoni la chiamerebbero narrative non fiction, per i francesi potrebbe essere una autofiction con molte anomalie. In sostanza, è una scrittura basata sull’ascolto, è il resoconto di una testimone che, di pagina in pagina, si sforza sempre più di farsi invisibile. Lo si comprende bene rileggendo nel loro ordine originario i tre libri riunti in Guerre. In La guerra non ha un volto di donna (1985) la scrittrice-intervistatrice ricorre ancora alla prima persona, per quanto sia chiaro che le vere protagoniste sono le combattenti di quella che, nella retorica di regime, è la Guerra Patriottica contro il nazifascismo. Simile, ma non identica è la struttura di Gli ultimi testimoni (1985, qui riproposto nella traduzione di Nadia Cicognini), dove le memorie di quanti erano bambini durante il secondo conflitto mondiale si armonizzano in un coro che sembra prescindere da ogni mediazione. Non è così, come si intuisce dal sottotitolo del libro, “A solo per voce infantile”, nel quale la responsabilità dell’autrice è pudicamente rivendicata. Infine, in Ragazzi di zinco (1991), i due elementi ai quali Aleksievič farà appello durante il processo, «le persone che raccontano e io stessa», si costituiscono in un dialogo serrato, mediante il riaffiorare di appunti e considerazioni personali. Eppure, nonostante tutto, la scrittrice non è mai al centro della scena. A interessarle sono sempre gli altri, l’altro, il ‘piccolo uomo’ che, con i suoi drammi e i suoi slanci, rappresenta un intralcio insormontabile per ogni versione di comodo patrocinata dal potere. «Dietro le madri intravedo le spalline dei generali», afferma Aleksievič commentando l’andamento del processo, nel corso del quale le stesse donne che poco tempo prima avevano pianto con lei la morte dei propri figli in Afghanistan, le si rivoltano contro in nome della ragion di Stato. Un pregiudizio che riecheggerà e sarà smentito anche nel discorso tenuto a Stoccolma per il Nobel: «Sono stata definita scrittrice delle catastrofi, ma non è vero – ribatte Aleksievič –, io cerco continuamente parole d’amore. L’odio non ci salverà. Solo l’amore. È la mia speranza».


(avvenire.it, 19 gennaio 2022)

di Laura Fortini


È così difficile scrivere di felicità in questi tempi tanto complessi e agitati che si può solo comprendere Rossana Rossanda quando all’incontro del Seminario Estivo della Società italiana delle letterate nel luglio 2006 a Frascati, in cui parlammo insieme de La ragazza del secolo scorso, disse che era felice di essere lì, invitata da quelle sorelle pazze del libro Movimenti di felicità, pubblicato da manifestolibri nel 2004.

Il seminario era dedicato a «Eccesso e misura. Al crocevia della scrittura» e molto discutemmo di che cosa significasse per ognuna l’eccesso e la misura della politica e della polis (l’incontro è stato poi pubblicato nel febbraio 2008 su Leggendaria e ricordato nelle pagine dedicate a Rossana Rossanda sempre da Leggendaria nel 2020). Rossanda vi partecipò con la consueta schietta e rigorosa generosità, grazie a Doriana Ricci che era con lei e l’accompagnò, come sempre. Nonostante si sia in quell’incontro parlato a lungo di molte questioni e al tema avessimo dedicato un seminario e poi un libro, la parola «felicità» non appare nel corso del dibattito se non in forma antifrastica, troppe altre questioni erano urgenti: il femminismo, il comunismo, il Sessantotto, il corpo, anche nella vecchiaia.

Eppure lei stessa aveva parlato e a lungo di felicità con Christa Wolf, mescolata però al capitalismo e la cosa non era più facile, anzi, come non lo è neanche adesso: chi ha partecipato all’incontro che si svolse a Roma il 21 marzo 1992 promosso dal Centro Culturale Virginia Woolf – Gruppo B con il titolo “Se la felicità… Per una critica al capitalismo a partire dall’essere donna” (pubblicato l’anno stesso dalle Edizioni del Centro e riproposto da VandA edizioni) ricorda benissimo il silenzio teso e concentrato di un numero imprevisto di donne che riempirono all’inverosimile il teatro Avila e che ascoltarono a lungo dialogare con la franchezza e sincerità dei pensieri acuminati due donne del calibro e della levatura di Christa Wolf, della quale erano state tradotte in Italia da Anita Raja per e/o Cassandra (1984), Guasto (1987), Recita estiva (1989), mentre Trama d’infanzia, del 1976, era stato appena pubblicato in Italia nel 1992, e ogni opera letta con attenzione, meditata, discussa nei gruppi femministi, e Rossana Rossanda, che gli editoriali fulminanti e le splendide recensioni, insieme alla successiva narrazione autobiografica, consegnano anche alla definizione di scrittrice, pure se molto altro è stata.

Il tema, lo ricorda Alessandra Bocchetti che coordinò l’incontro e ne ha scritto la premessa all’edizione VandA, è «la felicità delle donne come strumento per una rivoluzione contro il capitalismo»: «non la lotta di classe ma la felicità delle donne per cambiare veramente». Tema ardimentoso quant’altri mai, ma che al tempo stesso risuona vicino, vicinissimo ad ogni soggettività, perché è il desiderio a muovere le rivoluzioni: motore il bisogno di giustizia di contro all’ingiustizia sociale, certo, il bisogno di pane e lavoro ma anche delle rose, perché senza la vita non ha significato. Tutto questo allora agiva e tutt’oggi agisce sottotesto alla vita di ognuna e ognuno, anche se pandemia e capitalismo selvaggio – difficile dire dove inizia l’uno e finisce l’altro, spesso strettamente irrelati – pongono l’età presente sotto scacco.

Sullo sfondo allora la caduta del muro di Berlino, e un senso malcelato di malessere per un ideale e un’utopia – il sogno di un mondo migliore, comunista – che si erano mostrati vani e fallaci: se le prospettive erano allora opache, però, la capacità di analisi delle due donne non lo era affatto, sia nel confronto tra loro che nelle risposte alle domande nel corso del dibattito, la cui chiarezza risulta a oggi ancora sbalorditiva per la capacità di analisi e di prefigurazione di quello che è attualmente il presente.

A partire dalla definizione di Christa Wolf per la quale «essere viva con ogni fibra del mio corpo, della mia anima e della mia mente: questo è per me felicità», «agire, sentire, pensare, magari contemporaneamente»: quanto di questa definizione potremmo fare nostro oggi? Tutto, direi, tanto più in un periodo storico in cui agire, sentire, pensare contemporaneamente sembra quasi impossibile, ottusi come siamo dai dispositivi della fragilità e della vulnerabilità che non riescono a divenire forza creatrice tra le nostre mani. Vi è sì, lo riconoscono entrambe, una felicità nella scrittura, ma come non condividere quanto osserva Rossana Rossanda a proposito della libertà: «Libertà significa essere in condizioni di realizzare se stessi, di vivere con tutte le proprie fibre, e questo dipende molto, direi quasi esclusivamente, invece, dalle condizioni sociali, dai rapporti sociali che ci sono dati».

E prosegue «Questa è la ragione per la quale io continuo a fare politica: perché penso che ci sia un’illibertà diffusa e che questa illibertà per le donne sia ancora maggiore. Occorre molto sforzo, molta capacità di costituirsi in soggetto autonomo per dichiararsi libere, per volersi libere, per sentirsi libere».

Pesava la sconfitta del sogno di rivoluzione comunista allora nel 1992 e ancora nel 2022, a trenta e più anni di distanza da quell’incontro. Rossanda tornò poi nel corso del dialogo sulla questione, ponendo la domanda «Si può essere felici senza sapere?» a proposito di quando nel 1943 studiava al Castello Sforzesco di Milano e intravide una possibilità di felicità personale in quello che lei definisce «il luogo della mia quiete». Ma non della libertà, aggiunge, e l’osservazione che l’accompagna è ciò che meglio rende la motivazione all’impegno politico di tante e di tanti: «io non voglio essere quieta in un mondo di ingiustizie».

Vi è una politica delle donne e più ampiamente di tutte le soggettività che non chiede né cerca quiete, allora come oggi, che critica il capitalismo e che è soggetto politico in divenire. Ben chiaro, allora come oggi, che la questione non è quella della sola emancipazione ma di una critica al sistema capitalistico delle merci, rispetto al quale la subordinazione è degli uomini come delle donne e di tutte le soggettività che vedono nel patriarcato la forma archetipica del capitalismo.

Nel corso del dibattito, assai vivo e vivace, Rossanda osservò che «le donne, per essere state oggetto più di un uomo, merce più di un uomo, bene di scambio più di un uomo» possono essere più di altri ribelli all’idea di mercificazione totale; ma già allora notava come le algerine appena uscite di casa rischiavano di dover rimettere il velo e altrettanto lucidamente Christa Wolf si chiedeva se fosse possibile invertire l’andamento per il quale i paesi poveri divenivano sempre più poveri e che «certamente le masse affamate verranno a bussare alla porta dell’Europa occidentale! E che faremo? Li rispediremo a casa sulle navi? Li fucileremo? O che altro?». Sullo sfondo, non nominata ma incombente, la nave albanese Vlora che nel 1990 trasportò in Italia 20.000 albanesi, il più grande sbarco di migranti da un’unica nave. Sul tavolo le domande irrimandabili ancora e sempre: sono possibili altre economie di mercato? O occorrerà scardinare l’intera economia mondiale perché cessi il sistema di sfruttamento capitalistico?

In altre parole: è possibile l’utopia? Sulla possibilità di scrivere dell’utopia confidando che cessi di essere utopia e diventi – vogliamo dirlo? – rivoluzione (parola che però non si pronunciò), si chiuse allora l’incontro tra Rossanda Rossanda e Christa Wolf coordinato da Alessandra Bocchetti e le questioni sono e rimangono assai aperte, sia nelle forme delle conseguenze a quanto allora avvenne: la caduta del muro di Berlino e dei paesi del socialismo reale, le guerre su vari fronti del mondo con tutto quello che ne è venuto poi; la radicalità selvaggia del capitalismo e del sistema delle merci che certo non sono stati e non sono estranei a quanto sta avvenendo nel mondo.

Vale rileggere perciò quanto allora donne di tanto calibro si dissero – oggi sì utopia la partecipazione così affollata a un dibattito – per continuare a pensare utopia e farla diventare mondo reale: dati i tempi, impossibile morire per troppa felicità come accade alla protagonista del racconto omonimo di Alice Munro.


(il manifesto, 16 gennaio 2022)

E di come per secoli è stata considerata disdicevole e repressa, con un gran lavoro di medici, filosofi e teologi

di Giulia Siviero


La storica francese Sabine Melchior-Bonnet ha pubblicato Le rire des femmes. Une histoire sur le pouvoir, ed. Puf [La risata delle donne. Una storia di potere, Ndt], un saggio sulla risata femminile dall’antichità ai giorni nostri, argomentando come la storia di un gesto così comune nella specie umana sia sessuata: diversa, cioè, tra uomini e donne. Tale storia va di pari passo con la costruzione di un modello tradizionale di femminilità associato a un ruolo considerato a lungo giusto per la donna nella società e nel mondo, in quanto madre e angelo del focolare.

Per secoli, spiega Melchior-Bonnet, poeti, filosofi, retori, teologi e medici hanno cercato di spiegare e di stabilire, da un punto di vista biologico, morale e sociale, perché ridere non si addicesse a una donna. La storia della risata femminile è dunque anche la storia del lavoro meticoloso e costante per contenerla, reprimerla o tollerarla, ma a certe condizioni. Per lungo tempo, una donna che rideva ha violato le aspettative di genere della femminilità (che secondo alcuni stereotipi molto radicati hanno a che fare con grazia, virtù, modestia e pudicizia) e ha corso il rischio di apparire pazza, brutta, ignorante o lasciva. Guardando la storia dall’altra parte, la risata ha dunque avuto e conservato un grande potere sovversivo.

Frivolezze 
Secondo un antichissimo luogo comune, le donne devono alla loro natura un’emotività che le porta a ridere spesso: non solo ridono più degli uomini, ma secondo questo stesso stereotipo passano anche senza soluzione di continuità dal riso al pianto, dall’allegria alla tristezza. È una questione di fisiologia, di umori e di organi, hanno detto i medici e i filosofi che nella storia hanno dissertato sulle cause dell’ilarità fin dai tempi antichi.

Secondo Aristotele, per il buon funzionamento di un corpo era fondamentale il calore naturale e la necessità che venissero mantenuti certi equilibri tra calore e umidità. Il medico greco Galeno, le cui teorie del II secolo d.C. hanno dominato la medicina occidentale fino al Rinascimento, sosteneva a sua volta che il sesso maschile godesse di una “temperatura” – la distinzione corretta tra calore e temperatura risale all’Ottocento – calda e secca, che invece era fredda e umida per quella femminile. Da questo temperamento a dominanza freddo-umida e dalla mancanza di calore, secondo questa teoria antica, derivavano la “tipica” irragionevolezza, incostanza, lussuria, loquacità, suggestionabilità e frivolezza della donna. La propensione al riso delle donne era insomma la conseguenza naturale di una sua lacuna strutturale: di una costituzione fisica imperfetta.

Difetti termici a parte, nella storia della filosofia e della “medicina” il disequilibrio delle donne ha trovato varie presunte spiegazioni: un minor numero di suture craniche, ad esempio, che non permettevano l’uscita dei vapori che salivano alla testa, secondo il teologo e filosofo tedesco del Medioevo Alberto Magno. Ma, su tutto, la potenza del suo sesso.

Platone descriveva l’utero come una bestia che si agitava nel corpo delle donne, che ostruiva i passaggi dell’aria e che poteva essere placata solamente quando “riempita” dal seme maschile.

Il corpo femminile e il suo benessere erano dunque strettamente collegati alle funzioni sociali: quella di moglie che aveva il dovere, anche per il suo bene, di unirsi al marito, e quella di procreatrice. Quando l’utero, vuoto, era invece lasciato libero di vagare poteva scatenare malattie, capricci, convulsioni, lacrime, crisi isteriche, e risate smodate. Ancora nel Cinquecento, il medico e chirurgo del re di Francia Laurent Joubert, nel suo Traité du Ris, citava la storia di due sorelle a cui era stato permesso di ridere così a lungo che il loro utero era salito fino alla gola rischiando di soffocarle.

Per secoli, un’alleanza tra medici e filosofi contribuì dunque a fondare su basi “scientifiche” l’interdizione per le donne al riso: la donna che se ne lasciava coinvolgere restava preda di un furore uterino molto pericoloso. Non ridere, per il sesso femminile, così come procreare era dunque e innanzitutto una questione di buona salute.

Sorridere invece che ridere 
Nella sua Ars Amatoria, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., il poeta latino Ovidio impartì molti insegnamenti per praticare l’arte della seduzione: agli uomini. E nella terza e ultima parte della sua opera fornì anche alle donne diverse indicazioni per essere amate. Alcune di queste avevano a che fare con la risata:

«Si apra moderatamente la bocca, e siano piccole le fossette delle guance, dall’una e dall’altra parte, e i bordi delle labbra coprano la parte più alta dei denti, e non stanchino i fianchi col ridere continuamente, ma il riso abbia sempre un non so che di delicato e femminile.

Vi è qualcuna che storce la bocca con risate scomposte; un’altra, quando ride allegramente, crederesti che pianga; quell’altra ride con un suono rauco e sgradevole; ride come dalla ruvida macina raglia una brutta asinella».

Da lì in poi, e fino al XIX secolo, queste poche righe hanno ispirato un intero genere letterario: i manuali e i trattati di buona educazione per “signore”, che hanno cercato di giustificare sia da un punto di vista morale che sociale perché ridere, per una donna, fosse sconveniente. Indicando canoni e precetti ben precisi a cui una donna pienamente donna si doveva attenere, come i trattati medici anche i manuali di comportamento avevano lo scopo di costruire il modello della moglie e della padrona di casa ideale: di stabilire il ruolo sociale della donna, ma anche e soprattutto quello di preservare l’ordine sociale.

Nel trattato composto nel 1318, Reggimento e costume di donna, Francesco da Barberino mise insieme un galateo femminile passando in rassegna tutti i comportamenti adeguati a una donna nelle varie situazioni della vita. Nella sua condotta pubblica, la fanciulla doveva imparare a non suscitare né invidia né desiderio né pietà, e il suo volto doveva esprimere un misto di paura, vergogna e pudore; doveva tenere gli occhi bassi e bandire il riso. Le era concesso di rilassarsi nel privato, continuando comunque a controllarsi: in nessun caso, quando provava gioia, doveva mostrare i denti.

I denti tornano spesso in questo genere di testi: nel suo manuale intitolato Mes Secrets pour plaire et pour être aimée (I miei segreti per piacere ad essere amata, del 1896) la baronessa Staffe – autrice di best seller e considerata, all’epoca, l’educatrice della donna per eccellenza – diceva che il riso era nemico della grazia femminile sia interiore che esteriore. Scegliendo di non ridere, scriveva, «il nostro spirito resterebbe più elevato, le linee del nostro viso conserverebbero meglio la loro nobiltà, e noi più intatta la nostra individualità». Ridere, per una donna, aveva poi molti inconvenienti:

«Non pensiamo mai abbastanza a tutti gli inconvenienti del ridere. Una donna che ha i denti brutti, porta la mano davanti alla bocca quando ride. Se la mano è bella, va ancora bene, ma se non lo è? L’imperatrice Joséphine, che aveva dei denti molto difettosi, aveva inventato la moda di eleganti fazzoletti da tenere in mano. Quando le veniva da ridere, ella copriva la sua bocca per mezzo del piccolo quadrato di batista e di pizzo. Sarebbe stato meglio abituarsi a non ridere, cosa che si addice, del resto, alle labbra di coloro che hanno passato la giovinezza».

Più che il riso, dunque, era raccomandato il sorriso: espressione di armonia interiore ed equilibrio mentale, di saggezza e amabilità: «La donna deve sorridere e non ridere: il sorriso è uno dei suoi più grandi fascini. Anche presso la più carina, il ridere non può che essere una convulsione o una smorfia».

Ridere andava contro l’etichetta: procurava fastidio agli altri perché era rumoroso, attirava su di sé l’attenzione e metteva in evidenza i difetti del corpo. Tali rigide regole erano valide in qualsiasi ambito, compreso quello della pittura. Il Cours de peinture par principes fu pubblicato a Parigi nel 1708 dal critico francese Roger de Piles: era una specie di compendio dei fondamenti della pittura e dei generi del ritratto e del paesaggio. Tra le regole vi era quella che il volto di una donna dovesse essere serio o leggermente sorridente, «di nobile semplicità e modesta giocosità».

Nell’agosto del 1787, la pittrice Vigée Le Brun presentò al Salon di Parigi, la principale vetrina artistica che si teneva ogni anno al Louvre, un autoritratto con la figlia Julie. L’artista intendeva esprimere la sua felicità di madre, ma lo fece dipingendosi con un sorriso che sconfinava nel riso e che metteva in mostra i denti, con risultati scandalosi.

La bocca come una vagina 
C’erano molte buone ragioni per impedire alle donne di abbandonarsi al riso, ma la principale era l’associazione del riso alla sessualità. La risata, spiega Melchior-Bonnet, «apre il corpo», a differenza di un sorriso che lascia invece il corpo chiuso, composto e decoroso. E ancora una volta, le questioni morali e sociali trovarono nella fisiologia una loro alleata.

Per i medici ippocratici il corpo della donna era delimitato da due aperture: una inferiore (vagina-utero) e una superiore (bocca-narici), unite da un lunghissimo canale che passava attraverso gli intestini, lo stomaco e la gola. La donna che rideva manifestava dunque direttamente e pubblicamente il proprio piacere sessuale, apriva un varco, ed era di conseguenza sospettata di essere una prostituta, una cortigiana o una donna poco onesta e lussuriosa.

I Greci avevano una parola precisa per indicare la risata aperta e perturbante delle donne, che il padre della Chiesa Clemente Alessandrino riprese nel Pedagogo, un trattato pratico in tre libri il cui scopo era quello di addestrare il cristiano a una vita disciplinata. Ridere fa parte della natura umana, diceva, e dunque non può essere proibito totalmente. Ma il riso va usato con parsimonia: da tutti, ma soprattutto dalle donne poiché desta sospetto. «Principalmente nelle giovinette e nelle donne il riso è facile ad essere male interpretato» scriveva. E ancora:

«Lo spianare il volto in modo che le sue linee diventino armoniche come le corde di uno strumento, si dice sorridere, è questa un’espressione dolce che risplende nel volto, e questo è il riso dei saggi. Il rilassamento eccessivo del volto se avviene nelle donne è detto kichlismos, ed è un riso proprio delle meretrici».

Il legame bocca-vagina si rinforzò, storicamente, nel Medioevo: nell’ambito delle regole monastiche e del pensiero cristiano. Riprendendo la fisiologia che identificava il maschile con la parte superiore del corpo e il femminile con quella inferiore, il riso e la donna vennero associati al peccato. Una donna che rideva era dunque la peggior cosa a cui si potesse pensare. Come spiega Daniela Carpisassi, esperta in storia delle scritture femminili e saggista che si è a lungo occupata di riso e umorismo femminile, «se il riso e la donna sono incompatibili con la questione del controllo del corpo, il ridere da parte della donna è atto doppiamente peccaminoso, gesto della femme fatale, dannata e che conduce alla dannazione dell’uomo, atto di incontinenza che costituisce una duplice colpa».

Del resto, ricorda la studiosa, la parola latina culpa deriva dal greco kolpos che significa «utero», «vagina»: indica una «mancanza» e «un’azione che contravviene alla norma (etica e religiosa)»: «Lo schiudersi di labbra nel ridere richiama l’atto sessuale ed è considerato licenzioso e indecente in modo particolare per le donne, destinate a essere emblemi disincarnati della virtù e del pudore». Il riso femminile, in quest’ottica, compromette l’onestà, costituisce «un invito, una tentazione, un concedersi, un aprire la porta della/alla perdizione, un disserrare la bocca-chiavistello».

Brutta 
Per secoli, una donna che rideva non correva solo il rischio di apparire poco onesta, ma anche di perdere la sua bellezza. La risata disarticola il corpo, lo fa sussultare, deforma il viso, lo fa contrarre in smorfie. E sono molte le dettagliate descrizioni del corpo femminile trasfigurato da una risata.

Padre Le Moyne, esploratore francese del Seicento e poeta nel tempo libero, descrisse ad esempio con precisione gli effetti disastrosi di una risata sul volto di una donna:

«Toglie la proporzione della bocca, mette le guance fuori dalla loro posizione naturale, gonfia le vene e le fa sporgere fuori dal loro posto, spegne gli occhi e li annega, copre il viso di rughe e dona alla persona le smorfie degli indemoniati e le convulsioni degli epilettici».

Il riso, spiega ancora Carpisassi, «alterando i tratti distintivi della donna, ne stravolge la “giusta” forma, contravviene al canone della bellezza, lede la femminilità tout-court». Il riso era dunque considerato per una donna socialmente sconveniente, «non vantaggioso nella relazione privata tra i sessi, ovvero nell’ambito della seduzione strategicamente esercitata dalla donna nei confronti dell’uomo: quando ella ride, perdendo femminilità e bellezza, compromette la propria appetibilità e desiderabilità mettendo così a rischio la propria realizzazione sociale e l’istituzione “famiglia”».

Bruta 
La risata femminile poteva tradire anche stoltezza e stupidità. Platone nel Teeteto fa narrare a Socrate un aneddoto relativo a Talete:

«Talete, mentre stava scrutando le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo. Allora una servetta di Tracia, garbata e graziosa, rise dicendogli che si dava un gran da fare a conoscere le cose del cielo, ma le cose che gli stavano dappresso, davanti ai piedi, gli rimanevano nascoste».

Una giovane donna, schiava, e che proviene dalla Tracia (fatto che, di per sé, era al tempo cifra di ignoranza e di scarsa intelligenza), ride di Talete, il primo filosofo. L’aneddoto di Platone, nel corso dei secoli, è stato ripreso e commentato per spiegare l’incomprensione della speculazione filosofica da parte della gente comune. Il riso della servetta, una donna dedita alle cose minute della vita e alla cura dei corpi, divenne cioè il paradigma dell’ottusità sempliciotta degli ignoranti nei confronti della theoria, ossia nei confronti della contemplazione della realtà superiore e del vero operata dal pensiero.

La risata sovversiva 
Nell’interpretazione dell’aneddoto della servetta di Tracia, la filosofa femminista Adriana Cavarero sottolinea come la risata della donna abbia anche il potere di denunciare la pretesa verità e universalità dell’astrazione filosofica «che vorrebbe rimuovere in un’operazione, in fondo unica e coerente, le cose della terra e i corpi», cioè il femminile. Il riso porta dunque con sé una potente carica critica e dissacrante.

Fin dalle commedie di Aristofane, la risata delle donne è sovversione. È quando guidano la loro protesta e fanno uno sciopero del sesso che ridono: tra di loro e senza uomini. Lungo la storia della letteratura, dei miti e delle religioni, Melchior-Bonnet passa in rassegna diverse figure femminili che ridono e sovvertono, raccontando anche la lenta conquista del riso da parte delle donne.

Una delle prime a raccontare il ruolo emancipatorio della risata fu Virginia Woolf, scrittrice spesso superficialmente associata a malattia, depressione e suicidio. Nel 1905 Woolf pubblicò sul Guardian un breve saggio dal titolo Il valore della risata. La risata, «la pura, spontanea risata, quella che sentiamo provenire dalla bocca dei bambini e di sciocche donne», spiega Woolf, «è tenuta in discredito»: «si sostiene sia la voce della frivola stupidità, che non trae ispirazione né dal sapere né dall’emozione, che non offre messaggi, non comunica informazioni».

La risata porta invece con sé, dice Woolf, un grande sapere: mostra gli esseri umani per quello che sono e li mette a nudo. E i soggetti che più sono in grado di fare tutto questo sono i bambini e le donne:

«Tutti sanno che i bambini hanno una maggiore capacità, rispetto agli adulti, di conoscere gli uomini per quello che sono, e credo che il verdetto che le donne emettono sul carattere delle persone non sarà smentito il giorno del Giudizio. Le donne e i bambini, dunque, sono i principali rappresentanti dello spirito comico, perché non hanno gli occhi annebbiati dal sapere, né le menti ingombrate da teorie libresche, il che fa sì che uomini e cose preservino nitidamente i loro tratti originali. Tutte le odiose, soffocanti escrescenze che hanno ricoperto a dismisura la nostra vita moderna, le cerimonie pompose, le convenzioni, e le noiose celebrazioni solenni, niente temono di più del balenare di una risata, che, come un lampo, le inaridisce e le dissecca fino a lasciarne solo le ossa. È perché la loro risata possiede questa qualità che i bambini sono temuti dalle persone consapevoli della propria affettazione e falsità; ed è probabile che, per la stessa ragione, le donne siano guardate con tanta sospettosa disapprovazione nelle professioni dotte. Il pericolo è che possano ridere, come il bambino nella favola di Hans Andersen, che notava apertamente che il re era nudo, mentre gli adulti ne ammiravano lo splendido abbigliamento – che non esisteva».

Il riso, a partire da Virginia Woolf e poi per altre scrittrici del Novecento, ha permesso di svelare gli artifizi della società, di liberarsi dalle convenzioni e di smontare ruoli e stereotipi. La risata è stata rivendicata da quelle donne che hanno sfuggito la norma, che hanno sfidato l’ordine sociale e i giudizi morali, spiega la storica Melchior-Bonnet, ed è proprio per questa sua intrinseca minaccia che la risata delle donne è stata così a lungo negata, sorvegliata o tollerata purché nascosta dietro a un ventaglio. Ridendo le donne si sottraggono al loro ruolo, e «mettono di fatto in pericolo la virilità».


(Il Post, 12 gennaio 2022)

di Elena Fausta Gadeschi


Le prime pagine iniziò a scriverle all’età di cinque anni, ricopiando i racconti di Hemingway, ma Joan Didion cominciò a sentirsi una scrittrice solo dopo la pubblicazione del suo primo romanzo Run River nel 1963. Quasi sessant’anni dopo quel debutto è inevitabile interrogarsi sull’eredità artistica e umana di una donna che ha attraversato la letteratura di mezzo secolo rimanendo sempre fedele a se stessa e al suo stile narrativo atroce e affilato e che ieri ci ha lasciato all’età di 87 anni.

Giornalista, autrice e acuta osservatrice della politica e della cultura americana contemporanea, Joan Didion è scomparsa ieri nella sua casa di Manhattan, New York, per il morbo di Parkinson, che da anni non le dava tregua e che ne aveva assottigliato sempre di più corpo e voce. Tra gli autori più rappresentativi del New Journalism, uno stile giornalistico anticonvenzionale tipico degli Anni 60 e 70, capace di mescolare narrativa e saggistica, letteratura e verità, Didion è stata per lungo tempo in odore di Nobel, fin da quando nel 2005 vinse il National Book Award per la saggistica per il suo capolavoro L’anno del pensiero magico. Un riconoscimento tardivo arrivò dalle mani del presidente americano Barack Obama, che nel 2013 le conferì la National Humanities Medal, quando era già molto debilitata nel fisico.

Nata a Sacramento, in California, il 5 dicembre 1934, Joan Didion da bambina non frequentò le scuole regolarmente. A causa della professione del padre, membro delle United States Army Air Forces durante la Seconda Guerra Mondiale, era spesso costretta a continui trasferimenti con la famiglia e questo contribuì a fare di lei “un’eterna estranea” come poi scriverà nel suo memoir del 2003, Where I was from (Da dove vengo). Timida e riservata, trovò consolazione nei libri, specialmente nelle biografie per adulti per le quali si faceva rilasciare un permesso speciale dalla madre da esibire in biblioteca. Proprio il genere biografico diventò uno degli ingredienti principali della sua prosa, dove al resoconto giornalistico si univa la soggettività dell’autrice, che tra gli Anni 60 e 70 diventò la voce femminile più rappresentativa all’interno di un movimento maschile come il New Journalism, che annoverava autori quali Tom Wolfe, Truman Capote e Gay Talese.

Nel 1956 si laureò presso l’Università della California, Berkeley con un Bachelor of Arts in Lettere. Durante il secondo anno di studio a 21 anni vinse un concorso di saggistica sponsorizzato dal mensile di moda “Vogue” che le affidò un lavoro come assistente alla ricerca presso la rivista. In quegli anni lavorò prima come copywriter e poi come redattrice, mentre completava il suo primo romanzo, Run River, pubblicato nel 1963 (Il Saggiatore, 2016). Successivamente lasciò New York e nel 1964, dopo aver sposato lo scrittore, giornalista e sceneggiatore John Gregory Dunne, si trasferì in California. Nel 1968 pubblicò Verso Betlemme (Il Saggiatore, 2008), il suo primo lavoro di saggistica, costituito da una raccolta di articoli sulla propria esperienza in California, dove trascorrerà gran parte della sua vita. Il libro è un disincantato viaggio attraverso la promessa e la dissoluzione della controcultura californiana degli Anni 60, che tanto influenzerà la sua esperienza umana e professionale. «Un luogo – scrisse una volta – appartiene per sempre a chi lo rivendica più duramente, lo ricorda più ossessivamente, lo strappa da se stesso, lo modella, lo rende, lo ama così radicalmente da rifarlo a sua immagine».

Nel 1979 esce The White Album (L’album bianco), un’altra raccolta di articoli pubblicati in precedenza su riviste quali “Life”, “Esquire”, “The Saturday Evening Post”, “The New York Times” e “The New York Review of Books”. A quelle pagine appartiene una delle sue citazioni più famose: «Raccontiamo storie a noi stessi per vivere». Prendila così, ambientato a Hollywood, viene pubblicato nel 1970, a cui segue nel 1977 Diglielo da parte mia. Nel 1984 viene dato alle stampe un altro romanzo, Democracy, che narra la storia di un amore non corrisposto tra una ricca ereditiera e un uomo anziano, agente della Cia, sullo sfondo della Guerra Fredda e della Guerra del Vietnam.

A seguito della morte del marito, con il quale aveva lavorato fianco a fianco scrivendo molti soggetti per film come Qualcosa di personaleL’assoluzioneÈ nata una stellaMa che razza di amici!, e della dura malattia della loro figlia adottiva Quintana, Joan Didion scrive L’anno del pensiero magico. Iniziato il 4 ottobre 2004, viene terminato 88 giorni dopo, il giorno della vigilia di Capodanno. La sua pubblicazione e il tour di promozione del libro, corredato da diverse letture pubbliche e interviste, tengono impegnata l’autrice, aiutandola a elaborare il lutto. «Ci siamo evoluti in una società in cui il lutto è totalmente nascosto. Non si svolge nella nostra famiglia. Non si svolge affatto», disse una volta all’Associated Press nel 2005. Dopo essersi ripresa da uno shock settico causatole da una polmonite, la figlia morì di pancreatite acuta il 26 agosto 2005, all’età di 39 anni. Per lei Didion scrisse nel 2011 alcune delle pagine più belle dedicate al dolore in Blue Nights.

Molto protettiva nei confronti del suo lavoro, Joan Didion non rivelava mai nemmeno agli amici intimi il nuovo argomento del suo libro fino a quando non era pronto per la pubblicazione. Faceva parte della serietà con cui interpretava il suo ruolo di acuta osservatrice e implacabile giudice. Preveggente e inaspettata, era la Cassandra del nostro secolo. E ci mancherà anche per questo.


(Elle, 24 dicembre 2021)

di Luca Martinelli


Nel 2021 è uscito uno di quei libri che il lettore dell’ExtraTerrestre dovrebbe tenere sempre a portata di mano, nella libreria o sul comodino. S’intitola Il profitto e la cura e lo ha scritto Cinzia Scaffidi per Slow Food Editore, con prefazione firmata da Luciana Castellina (208 pp., 16,50 euro).

La mia copia, quella che ho letto per preparare l’intervista, è piena di occhielli, tanti sono i rimandi a concetti-da-ricordare-assolutamente. Sono tante, tra questi, le citazioni da testi del passato scritti dalle «voci che non abbiamo ascoltato», come spiega il sottotitolo del libro di Scaffidi, che ha il merito di far dialogare tra loro la Bibbia e lo scrittore Italo Calvino, il poeta inglese William Wordworth e Don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi di Barbiana, la Nobel per l’Economia Elinor Ostrom e Justus von Liebig, padre dei fertilizzanti e dell’agricoltura intensiva. Sono le voci di chi ha avviato e portato avanti riflessioni sulla sostenibilità, sul conflitto tra (ricerca del) profitto e (tensione alla) cura, senza riuscire a influenzare o impattare gli effetti avversi che modello capitalistico applicato all’agricoltura stava producendo, su tutti la perdita di fertilità del suolo, nonostante fossero palesi fin dall’Ottocento.

La figura di Liebig è importante, perché nel 1861, quindi centosessant’anni fa, riconobbe che le sue pratiche si sono rivelate dannosissime: «Confesso volentieri che l’impiego dei concimi chimici era fondato su supposizioni che non esistono nella realtà. Avevo peccato contro la saggezza del Creatore e ho ricevuto la dovuta punizione» scrive.

La sua “scoperta” aveva permesso di avviare un business con un margine di profitto pazzesco, perché la materia prima dei fertilizzanti è l’aria. Il profitto e la cura è nato a margine dei miei corsi all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Cuneo), a partire dall’idea di mettere a disposizione del lettore una mappa dei classici, dei punti di riferimento che si possono avere quando si ragiona intorno ai temi dell’agricoltura e della sostenibilità. Non è vero che le cose esistono nel momento in cui le scopriamo ed è importante conoscere gli argomenti facendo sempre riferimento a quanto si è detto e scritto su questi temi a partire da epoche ormai quasi completamente lasciate fuori dal discorso pubblico. Trovo eccezionale che mentre Alexander von Humboldt (che è vissuto tra 1769 e il 1859, ndr) stava parlando di cambiamento climatico nel 1802, ancora pochi anni fa c’era qualcuno che sosteneva che il fenomeno non esistesse e dopo 200 anni siamo riusciti a eleggere Donald Trump presidente degli Stati Uniti d’America. L’evoluzione della specie è troppo lenta.

Perché nel saggio ha scelto di far dialogare le voci di un passato più o meno lontano con quelle che ascoltiamo ancora nel presente, come Greta Thunberg, Carlin Petrini o Papa Francesco?

Oggi è il papa ad aver evidenziato che i problemi ecologici si abbattono innanzitutto sui più deboli e se non ne avesse parlato lui, il tema non sarebbe in agenda, tuttavia c’è stato un Alexander Langer che senz’altro ha avuto meno eco ma ha detto esattamente quelle cose lì e quasi esattamente con le stesse parole. Il mio obiettivo non è riconoscere la paternità di un pensiero, che non è mai il problema, ma far sapere che qualcuno ha iniziato a ragionare su queste cose tanto tempo prima dà il senso di come siano maturate. Il papa per sua stessa ammissione ci ha messo un po’ a capire questa situazione, in uno dei suoi dialoghi con Petrini afferma di non aver creduto nella Teologia della Liberazione, nella Chiesa sudamericana che a partire dagli anni Settanta aveva scelto l’opzione per i poveri.

In quali ambiti immagina che possa essere utilizzato «Il profitto e la cura»?

Credo che sia uno strumento di formazione, che potrebbe essere molto utile in ambienti nei quali queste riflessioni trasversali sui temi della sostenibilità non arrivano, come quello legato alla formazione dei docenti, che non sono preparati e non hanno testi di riferimento per presentare l’ecologia a scuola collegandola alle diverse materie. La divulgazione scientifica è un elemento chiave e anche nobile della scrittura, perché se vogliamo che le cose cambino attraverso i comportamenti dei cittadini non possiamo immaginare di raggiungerli solo con liste di “così si fa” e non con spunti di riflessione.

Tra le voci non ascoltate c’è quella di Laura Conti, partigiana, medico, parlamentare per una legislatura, tra i fondatori di Legambiente. Perché ha scelto di dedicarle tanta attenzione?

Anche se è morta meno di trent’anni fa, il suo pensiero non è più riconosciuto tra quelli che hanno ispirato l’ambientalismo italiano. Abbiamo scelto di riportare in quarta di copertina una sua frase: «L’intima logica del capitalismo confligge ormai apertamente con i limiti naturali che l’agricoltura non può valicare». Questo significa che il capitalismo non si cura del domani, ma anche che non è possibile scegliere tra profitto e cura, perché non sono due temi alternativi: il problema è qual è il tuo obiettivo, perché si può costruire un’impresa solida se l’obiettivo è la cura. Il contrario non vale: se cerchi il profitto, sei portato ad abbandonare la cura. La società è arrivata a pensare che chi mira al profitto è in qualche modo giustificato a non avere attenzioni verso l’ambiente. Che il mestiere dell’azienda sia l’utile. Questo però non è vero e preso non sarà più così nemmeno nella Costituzione, perché la modifica dell’articolo 41 (verrà votata in via definitiva entro la fine di gennaio, ndr) prevede che l’iniziativa economica non possa svolgersi in modo da recare danno alla salute e all’ambiente e che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini ambientali. A quel punto non sarà più giustificato né giustificabile l’imprenditore che lavori senza ricercare un miglioramento per tutta la società.

L’autrice sottolinea che forse «questo libro non servirà agli esperti di ecologia e di sostenibilità», ma non è vero: non ne esistono altri capaci di tracciare in modo così evidente il filo rosso che lega riflessioni sviluppate in momenti storici diversi, da pensatori che mai hanno potuto dialogare tra loro. Tra le voci quasi dimenticate c’è quella di Sir Albert Howard, morto nel 1947, botanico, precursore e fondatore indiscusso del movimento dell’agricoltura biologica (nel 2021 Slow Food Editore ha ristampato il suo libro I diritti della terra, pubblicato per la prima volta nel 2005). «È commovente – conclude Scaffidi – leggere ciò che scrive negli anni Trenta del Novecento, quando dà per spacciata l’agricoltura industriale. È convinto che tutti abbiano capito che “quella cosa lì non funziona”, che ha fallito, ed è convinto che si andrà verso un’agricoltura sostenibile. Meno male non ha visto ciò che è successo dopo».


(ExtraTerrestre – il manifesto, 23 dicembre 2021)


Alcuni stralci dalla recensione di Nadia Lucchesi al libro María Milagros Rivera Garretas, Il piacere femminile è clitorideo, traduzione di Barbara Verzini, Edizione indipendente, Collana A mano, 4, Madrid e Verona 2021


Il testo integrale si trova in https://www.autricidicivilta.it/maria-milagros-rivera-garretas-il-piacere-femminile-e-clitorideo-nadia-lucchesi


[…]


Recuperare per la politica il vincolo millenario tra il sentire, l’anima e il piacere femminile: questo è lo scopo dichiarato del libro di María Milagros Rivera Garretas (p. 17), che dimostra come la sessualità femminile sia stata colonizzata attraverso l’invenzione perversa della vagina nel XVII secolo, tristemente famoso perché fu l’apice della caccia alle streghe, e dell’orgasmo vaginale, letteralmente progettato dal nulla dalla medicina maschile e dalla psicoanalisi dal XVIII secolo in poi. Lo scopo di questa “trovata” era legittimare la penetrazione, una pratica spesso pericolosa e rischiosa, che porta con sé gravidanze indesiderate, dunque aborti, infezioni e malattie mortali come la sifilide. […]

M.M. Rivera Garretas ha preso sul serio le parole di suor Juana Inés de la Cruz, senza curarsi di come sono state interpretate da altri, fidandosi invece solo del piacere, del godimento e della felicità che la lettura delle sue opere le suscitava. Questa donna portò al suo massimo sviluppo in America le tematiche della Querelle des femme. […]

M.M. Rivera Garretas ha conosciuto la figura e l’opera di suor Juana fin da quando era bambina e ne ha scritto una biografia, mossa solo da un piacere profondo di studiarla contemporaneamente studiando se stessa (p. 64) e facendone emergere un ritratto completamente diverso da quello del suorjuanismo accademico: il ritratto di una donna innamorata di un’altra donna, una donna che riconosce l’eccellenza femminile ed esalta il piacere di essere donna, scegliendo come oggetto di devozione l’Immacolata Concezione, colei che è capace di concepire corpi senza coito e concetti senza fallo (p. 86).

Di fronte all’Immacolata Concezione il pensiero del pensiero tace, la clitoridectomia simbolica si ferma, la violenza ermeneutica perde il suo potere. Juana seppe conservare la sua fedeltà al piacere originario, restando una donna “clitoridea”, che, come scriveva Carla Lonzi, «non ha nulla di essenziale da offrire all’uomo e non si aspetta da lui nulla di essenziale».

E tuttavia questo rifiuto di assoggettarsi alla vaginalità, fisica o simbolica che sia, e all’«ordine simbolico della spada» non allontana dall’esperienza della fusionalità amorosa, che la mistica, la poesia, l’arte femminili hanno sempre comprovato (p. 96).

Da Saffo a Margherita Porete, da Suor Juana e Teresa d’Avila a Emily Dickinson: in una ricerca compiuta sulle parole di queste straordinarie autrici, M.M. Rivera Garretas evidenzia la descrizione del “ratto”, del trasporto amoroso, che caratterizza l’orgasmo femminile. L’estasi che santa Teresa ha così magistralmente descritto si ritrova anche nel racconto di María Zambrano riguardo all’esperienza dell’azione vera, del piacere che si trova nella capacità di trasformare il mondo (p. 113).

Il trasporto amoroso ci colloca nella dimensione del cielo, ci mostra come sia possibile tenere insieme trascendenza e immanenza, il dentro e il fuori. Il piacere clitorideo ha un andamento spiraliforme, partendo da un centro si irradia alla matrice intera e a tutto il corpo, a tutta l’anima. Non è un caso se la spirale è uno dei simboli più antichi, la sua presenza si riscontra fin dal Neolitico (10000-3500 a.C.) e Marija Gimbutas l’ha collegata alla Dea, senza però associarla all’orgasmo femminile.

Un altro simbolo che lo richiama è la conchiglia, nella quale si trova la perla, uno dei nomi della clitoride. Suor Juana ne inviò una in regalo alla sua amata, Emily Dickinson propose che la perla e la conchiglia facessero epoca, periodizzassero la storia (p. 24) e le vite, come era accaduto a lei stessa. Entrambe, conchiglia e perla, sono associate all’acqua, che accompagna il piacere femminile puro. Anche la rosa è da sempre un nome della vulva e il rosario è frutto dell’amore per la rosa; la devozione al rosario, sottolinea Maria Milagros, è il culto alla vulva immacolata di Maria di Nazareth (p. 128).

Le donne hanno sempre coltivato la libertà amorosa e tra loro si sono sempre sviluppate relazioni molto forti, soprattutto nei monasteri medievali, dove si realizzava quella capacità mistica che è l’amore “platonico”, o meglio quello che Socrate ha imparato da Diotima, di cui quello carnale è solo una copia, come affermava María Zambrano (p. 137). Gli uomini non solo non hanno compreso questa forma d’amore, ma l’hanno temuta e svilita, condannandola e punendola duramente.

L’autrice ricorda in particolare il caso di suor Bartolomea Crivelli e di suor Benedetta Carlini che, dopo una condanna alla reclusione che si protrasse per 35 anni, morì senza tradire la fedeltà a se stessa e il popolo ne venerò le reliquie, senza tenere in alcun conto il giudizio espresso dagli inquisitori.

Se una donna mantiene la propria indipendenza simbolica, può concepire corpi senza coito (pp. 151-152), come è accaduto a Maria e a Elisabetta (ma anche ad Anna, aggiungo io), e concetti senza fallo, come sanno tutte le donne che pensano senza perdere il loro sentire originario, senza tralasciare il piacere e prescindendo dalla violenza ermeneutica maschile: Saffo, Roswitha di Gandersheim, santa Teresa di Gesù, suor Juana, Emily Dickinson, ne sono alcuni esempi di straordinario valore.

I misteri dell’Immacolata Concezione comprendono anche la rifondazione, da parte di Anna, la madre di Maria, della genealogia femminile matrilineare delle tre madri, che il Cristianesimo avrebbe, secondo María Milagros, troncato sostituendo il figlio alla figlia.


[…]


Nelle ultime pagine del suo libro M.M. Rivera Garretas confida di essere solo ora pienamente libera da ogni violenza ermeneutica e di sapersi connettere con il proprio piacere e sentire originari, che hanno radici con la lingua materna e con la relazione, l’abbraccio con la madre, quella reale che le è stata anche maestra e le ha indicato con chiarezza il proprio piacere, la propria allegria nello svolgimento del suo lavoro di docente. La madre le ha insegnato a toccare la quintessenza della materia, la tessitura e l’anima della parola e della sintassi, forse anche per questo l’autrice ha sviluppato una particolare attenzione per il lavoro delle tessitrici, per la loro capacità di “fare la lana”, quindi di creare qualcosa di nuovo, e di essere caste: qualità che appartengono alle donne clitoridee.

Mi fermo qui, consapevole che non è possibile riprodurre appieno la ricchezza di questo saggio: occorre leggerlo e seguire passo passo gli innumerevoli riferimenti alla poesia, all’arte figurativa, alla narrativa, alla saggistica.

Io ho imparato moltissimo e me ne sono veramente deliziata, anche se non tutte le affermazioni dell’autrice coincidono con le mie modalità di espressione e di percezione. Ad esempio, io interpreto la raffigurazione di Anna, Maria e Gesù in quella che chiamo la Trinità della gioia, non come una vittoria del pensiero dominante maschile, anche nel Cristianesimo, o della violenza ermeneutica, ma come una sua sconfitta. Benché Anna non compaia in nessuno dei testi canonici, benché Maria vi sia ridotta a una figura subordinata al figlio, gli uomini non sono riusciti a cancellare la consapevolezza che il figlio maschio è radicato nella genealogia femminile. La nonna e la mamma che lo abbracciano allontanano dalla nostra visione del mondo l’idea mortifera di un padre che mette in croce il proprio figlio, di un divino che si realizza pienamente solo attraverso il martirio. Sarà quel figlio cresciuto alla scuola dell’autorità femminile, della sua sovranità, a trasformare, quasi per effetto di quella che Mary Daly indicava come risonanza morfica, l’intero universo maschile e insegnerà la tenerezza e la gratitudine verso l’opera ininterrotta della Madre, come l’autrice stessa sa che sta già accadendo (p. 158).

È merito delle donne, di quelle che, come questo libro insegna, hanno saputo ritrovare la strada di casa, collegarsi con le loro radici più profonde, salvaguardare la loro anima, insieme ai loro corpi, e fermare la tracotanza di origine patriarcale, per riportare al mondo il piacere.


(Autrici di civiltà – Rivista Online, 6 dicembre 2021)

di Doranna Lupi


Alla Libreria delle donne di Milano


Vi inviamo il Testo Visitazioni frutto del lavoro di un gruppo di donne su mandato del Collegamento Nazionale delle donne CdB e Le molte altre.


In questo tempo di pandemia sono incredibilmente fiorite o rifiorite tante relazioni che in parte hanno attutito, a volte persino accorciato il peso della distanza. Abbiamo avuto l’occasione di conoscere tante donne con le quali difficilmente ci saremmo potute incontrare in presenza, né mai avremmo potuto intessere relazioni così intense e frequenti, dalle quali sono scaturite nuove esperienze, nuovi pensieri e grandi possibilità di scambio.

Da questa inattesa possibilità di incontro è scaturito il desiderio di raccontare il pluridecennale cammino della nostra esperienza di Gruppi di donne della Comunità di base e le molte altre.

Lo strumento è un testo che, attraverso la storia dei nostri gruppi, prova a narrare il confronto tra donne credenti e non credenti sulla spiritualità, sulla ricerca teologica femminista, sul divino e sul sacro e sul ruolo delle donne nella comunità di fede, l’intreccio delle relazioni con altre donne cattoliche, evangeliche, e di altre fedi religiose.

Sia la versione breve, una sorta di abstract che speriamo possa suscitare l’interesse ad approfondire la lettura della versione integrale, sia il testo più ampio e completo, corredato di fotografie e di immagini, sono pubblicati sul sito delle Cdb italiane, che gentilmente ci ospita (https://www.cdbitalia.it/gruppi-donne/visitazioni/).

Siamo contente, quindi, di poter mettere a disposizione in un incontro molto più vasto, le nostre relazioni, le nostre riflessioni, il nostro impegno, i nostri “talenti” e le nostre competenze, nella speranza di poterci incontrare e scoprire le strisce di futuro che potremmo aprire insieme.

Vorremmo organizzare un evento nel quale riprendere a più voci queste nostre Visitazioni, arricchite dalle vostre reazioni, critiche, desideri, abbracci, contributi e altre differenti fioriture!

È possibile che il nostro scritto vi sia giunto per altre vie, vorrete considerarlo non come un… doppione, ma come il frutto degli intrecci delle nostre relazioni.


Grazie per la vostra generosa attenzione. Restiamo in contatto.


Lupi Doranna per “Il gruppo comunicazione Visitazioni”


Pinerolo 29/09/2021


(www.libreriadelledonne.it, 29 settembre 2021)