Leah Elliott è una fumettista e attivista per i diritti digitali: adora i melograni, i muffin ai semi di papavero e la democrazia e ha creato il fumetto “Contra Chrome” per spiegare come nell’ultimo decennio il browser più diffuso al mondo sia diventato una minaccia tanto per la privacy degli utenti quanto per gli stessi processi democratici.
“Contra Chrome” è un riarrangiamento del fumetto “Chrome” commissionato da Google a Scott McCloud nel 2008, e presenta la trasformazione di questo browser in uno degli strumenti di sorveglianza più utilizzati al mondo, mettendone a nudo i funzionamenti che non conosciamo.
Lo abbiamo tradotto in italiano a beneficio di tutti coloro che sono sensibili alle problematiche della privacy.
Buona lettura di una storia di formiche digitali, specchi semitrasparenti, rane bollite, piranha vegani e tutto quello che avreste voluto sapere su Chrome e non avete mai osato chiedere.
Di seguito i link per
scaricare il fumetto: https://copernicani.it/wp-content/uploads/2022/07/ContraChrome_IT_final.pdf
-consultarlo online: https://issuu.com/copernicani/docs/contrachrome_it_final
(copernicani.it, 13 luglio 2022)


In libreria vi aspetta una mappa speciale per guidarvi nelle letture dell’estate: minirecensioni pensate e scritte dalle libraie per accompagnarvi nei vostri viaggi tra le pagine… e scoprire che è bello condividere le passioni!
(libreriadelledonne.it, 09/07/2022)
di Pinella Leocata
Catania. Nel cortile della Cgil, promossa da La Città Felice e moderata da Anna Di Salvo, si è tenuta la presentazione della biografia che la scrittrice inglese del Novecento Vita Sackville-West dedicò nel 1927 alla sua collega conterranea Aphra Behn, nata del 1640. Una scrittrice fino ad allora espulsa dal canone della letteratura e considerata un’autrice minore, oltre che oscena e dissoluta. Sackville-West, per prima, insieme a Virginia Woolf – con la quale ebbe un intenso sodalizio intellettuale e amoroso – la sottrae al disprezzo e ne mette in evidenza la modernità e il valore pionieristico riconoscendola tra le capostipiti di una genealogia femminile che comincia proprio nel Seicento.
A fare “dialogare” a distanza le tre scrittrici è Stefania Arcara, docente di letteratura inglese al Disum di Catania e componente del Centro studi di genere Genus, nella sua prefazione al testo di Sackville-West Aphra Behn. L’incomparabile Astrea (VandA edizioni). Astrea è il nome di penna con cui la scrittrice, poetessa e commediografa del Seicento firmava le sue opere per le quali fu definita “geniale”, “incomparabile”, ma anche “sgualdrina” e “poetessa oscena”. Una vita avventurosa, la sua. Nasce a Londra, parte con la famiglia per l’America del Sud per raggiungere il Suriname, un dominio olandese, ma il padre muore durante il viaggio. In Suriname incontrerà un principe nero divenuto schiavo cui dedicherà il suo romanzo più noto, Oroonoko, il primo romanzo antirazzista della letteratura inglese. Tornata in Inghilterra si sposa con tale Behn che la introduce alla corte di Carlo II per il quale accetterà di trasferirsi ad Anversa come spia. Qui, abbandonata dagli inglesi e non pagata, viene messa in prigione per debiti. Quando viene liberata, con l’aiuto della madre, comincia la sua carriera di scrittrice.
Aphra Behn – sottolinea Stefania Arcara – è una figura dalla forte valenza simbolica. È una borghese che, con la propria determinazione e con coraggio, s’impone nel mercato editoriale degli uomini e a teatro, soprattutto per le sue commedie comiche. «Un’impresa difficile dal momento che non usa un umorismo misogino». È l’unica voce femminile del teatro della Restaurazione quando, sconfitti i Puritani, i teatri riaprono, ritorna la monarchia ed esplode il libertinismo e l’edonismo. Usa battute, doppi sensi, ambienta le scene in camera da letto, come facevano tanti autori maschi, ma lei era una donna e questo non viene tollerato. Di qui gli attacchi e le accuse di plagio o di oscenità. Lei si difende e critica le posizioni dei suoi detrattori nelle prefazioni e postfazioni ai suoi testi e rivendica – per una donna che non ha un’educazione classica, in un Paese che non lo consentiva – il diritto a scrivere commedie e a guadagnarsi da vivere grazie alla scrittura. Scelte di vita e di lavoro che ispireranno l’opera di Vita Sackville-West e di Virginia Woolf, in particolare nel testo Le tre ghinee del 1938.
Sackville-West presenta la biografia di Aphra Behn come un ritratto dell’anima. La descrive come una donna che vuole divertirsi, avere successo, rozza – come nel gusto del tempo – dal linguaggio sboccato, anticonformista, amante di uomini e donne. E nello stesso tempo ne esalta la fondamentale onestà e il grande idealismo. È contro il puritanesimo, eppure critica il libertinismo di cui comprende la radice patriarcale. Ma le sue opere, sottolinea Maria Grazia Nicolosi – docente di letteratura inglese al Disum e componente del Centro di studi di genere – non hanno valore solo in quanto precorritrici del romanzo moderno, ma anche dal punto di vista artistico per la qualità della scrittura. Le sue storie non finiscono quasi mai con il matrimonio, che l’autrice considerava un contratto sesso-economico che penalizza le donne, e spesso le sue protagoniste non hanno figli. «Il matrimonio – scriveva – è un veleno per l’amore come prestare danaro lo è per l’amicizia». Ed è interessante come le due studiose catanesi mettano in evidenza il rispecchiamento tra le due scrittrici inglesi del Novecento e la loro antenata di due secoli e mezzo prima, «una genealogia che le unisce in quanto donne che, in una società patriarcale, sono riuscite a fare della scrittura la propria professione». Ed evidenziano come Aphra Behn, che scelse di fare la spia, costruisca maschere e identità plurime e avventizie anche nella sua vita reale che, in buona parte, rimane misteriosa, a partire dalle sue origini.
(La Sicilia, 2 luglio 2022)
di Paolo Pileri
Sessant’anni fa, nel 1962, usciva “Primavera silenziosa” di Rachel Carson (Feltrinelli). Un libro manifesto, ma anche un manuale per imparare un attivismo ecologico fondato su dati e indicatori. La natura non è un’opinione, ma un fatto preciso. Idem la sua tutela.
Quattro anni ha impiegato Rachel Carson a scrivere “Primavera silenziosa”: notti insonni di ricerche, interviste, studi, documenti. Grazie a lei si è aperta la strada per eliminare i Ddt (diclorodifeniltricloroetano). La sua ostinazione magistrale ha svelato i danni di pesticidi ed erbicidi usati nelle terre agricole. Giornalista colta, biologa e donna rigorosa, con il suo libro meraviglioso ha smontato pezzo per pezzo l’ipocrisia mortifera che allora – e per anni a seguire – le multinazionali dell’agrofarmaco, assieme a governi, hanno fatto sorbire a tutti, addolcendo il loro egoismo con il nome-beffa rivoluzione verde.
Un abile gioco di parole per imporre come lieve e giusto ciò che non aveva nulla di lieve, di verde e di giusto, ma anzi era l’inizio di una tragedia e il vessillo di un modello spaccone che ci ha persuasi che lo sfruttamento della t/Terra è un nostro diritto. Le manomissioni di parole sono il piede di porco che da decenni viene usato per confondere la gente e allontanarla dalla verità, per gettare fumo nei loro occhi nascondendo le alternative che esistono e sono possibili.
Anni fa è stato sviluppo sostenibile, oggi il mantra è transizione ecologica, con tutta la sua corte di declinazioni. Sarà ancora come la rivoluzione verde? Abbiamo un’urgenza pazzesca di una Rachel Carson oggi o, meglio, abbiamo urgenza di divenire tutti noi Rachel. Lei ci ha lasciato un libro in eredità dal quale imparare: possiamo leggerlo, ricordarlo, discuterlo a scuola, al lavoro, in vacanza. Non dimenticare Rachel, questa sì che è vera rivoluzione verde. Quel libro è una spinta potentissima per tirar fuori la testa da questo minestrone ambiguo e melmoso che è lo storytelling sulla transizione ecologica propinato da chi non ne vuole sapere di cambiare, neanche un pochino.
“Primavera silenziosa” è un libro scritto con passione e metodo, poesia e rigore. Ed è quest’ultimo uno degli strumenti più vincenti che Rachel ha usato. Dati, indicatori, fatti, testimonianze, casi reali per mostrare concretamente che quella rivoluzione non era verde, ma nera come la pece. Non solo proclami, non solo opinioni, non solo parole, ma numeri e prove: così si fa. Come Rachel, anche noi non possiamo ingoiare qualunque transizione ci propinino, ma abbiamo bisogno di entrare nelle questioni, farle nostre, non vergognarci di dubitare anche quando ci sono poche ragioni per farlo.
Per scrivere “Primavera silenziosa” dovevi mettere da parte i compromessi che annebbiano la mente. Dovevi scegliere documenti e letture che chiariscono a te e fanno capire a tutti. Davanti a noi avremo un’estate bollente, l’ennesima di un clima che non è impazzito da solo, ma per causa nostra. Regaliamoci una lettura ecologica; regaliamoci la possibilità di capire le parole dell’ecologia leggendo giganti come Carson e non assorbendo solo le frasi fatte di politici e venditori porta a porta di transizioni poco ecologiche, molto finanziarie, zero rivoluzionarie. Ogni parola che non capiamo è un calcio nel sedere che riceviamo, come diceva don Milani. Per tutelare la natura dobbiamo aumentare la padronanza del lessico della natura.
Certo, questo è faticoso, come lo è stato per Rachel Carson disvelare l’atrocità del Ddt dato dopo dato. Ma la sua costanza rigorosa ci ha salvato e questa lezione è lezione di metodo che ora è nelle nostre mani. Pensate che bello trovarci tutti in piazza, virtuale e reale, sventolando quel libro come si fa con un manifesto, pretendendo di essere presi sul serio. Come Rachel Carson seriamente fece con noi.
(Altraeconomia, rivista n. 250, luglio/agosto 2022)
di Luisa Muraro
La candidata sconfitta e la nuova sindaca, dopo il ballottaggio delle ultime amministrative, si sono incontrate e tra le due di colpo c’è stato un abbraccio, un vero abbraccio che ha cambiato il senso della prova elettorale. E che mi ha fatto ripensare al libro di Lia Cigarini, La politica del desiderio uscito da poco (Orthotes, Napoli 2022, a cura di Riccardo Fanciullacci e Stefania Ferrando).
In quell’abbraccio ho visto brillare in un lampo di fulminea bellezza l’intuizione che lo anima dall’inizio alla fine: «l’orizzonte della politica delle donne era ed è un cambio di civiltà». Si è aperto, questo orizzonte, con l’atto di aver interpretato la differenza sessuale come indipendenza femminile dalle misure maschili. E va realizzandosi nel fare dell’indipendenza femminile una mediazione necessaria anche per gli uomini.
Un cambio di civiltà è un processo plurale da cui le cose prendono, per finire, un senso nuovo ai nostri occhi, man mano del suo farsi a nostra insaputa. Come si fa, dall’interno di un tale cambiamento, a saperlo? Solo l’opera d’arte può farci vivere questa esperienza che nella realtà sembra disperdersi in una miriade di avvenimenti. Ma ecco che una vita vissuta con un’intima concentrazione forma come un filo rosso che li collega tra loro!
Tale è il caso di questo libro. La politica del desiderio, infatti, si ispira non a una idea ma a una esistenza che è andata svolgendosi con la partecipazione alla storia vissuta: la sua confezione abbraccia molti decenni, la prima parte va dal 1974 al 1994, la seconda dal 1999 al 2020. E ciò nonostante è di una straordinaria unità, libro dotato di una coerenza che nulla deve alle circostanze occasionali, che sono le più varie, e tutto alla profondità della ricerca.
C’è un’altra caratteristica che lo distingue dall’essere un libro comunemente inteso ed è che non ha un vero inizio né una vera fine. C’è un prima cui si allude nella prime pagine che è l’esperienza di altre donne e c’è un presente su cui esso si sporge nelle ultime, quelle in cui, dopo aver parlato di una torta velenosa, tossica, piena di armi, segue questo commento: ti puoi riconoscere in una civiltà solo se hai contribuito a tesserne le forme, a fare sì che vi trovi spazio ciò a cui tieni, a cominciare ovviamente dalla tua libertà.
Che è il tema di fondo di questo capolavoro. So che è un capolavoro, anche se non so come dirlo.
(www.libreriadelledonne.it, 1° luglio 2022)
di Paola Mammani
È stato appena pubblicato dalla casa editrice Orthotes, La politica del desiderio e altri scritti di Lia Cigarini. Si tratta dell’attesa ristampa della raccolta originaria di testi che vanno dal 1974 al 1994, pubblicati da Pratiche Editrice a cura di Luisa Muraro e Liliana Rampello, nel 1995. Vi si aggiunge una ventina di testi che abbracciano gli anni dal 1999 al 2020. Il volume è a cura di Stefania Ferrando che firma la nota introduttiva, e di Riccardo Fanciullacci che chiude la raccolta degli scritti con un’inedita intervista all’autrice. In appendice è riportata l’intensa introduzione di Ida Dominijanni, alla prima edizione.
Disponibili, dunque, e riuniti in un solo volume, molti scritti di Lia Cigarini, avvocata, attiva nel femminismo fin dagli anni sessanta, teorica del pensiero politico delle donne, tra le fondatrici della Libreria delle donne di Milano nel 1975. La raccolta ci permette di seguire lo sviluppo del suo pensiero che tenacemente, per decenni, ha ricercato e trovato le parole per dire e rendere efficace e vera la ricerca di libertà femminile. Nei suoi scritti si ritrovano intuizioni, proposte di pratica politica che rimangono attuali per il movimento delle donne nel nostro paese e non solo. Per chi non c’era, perché era altrove o perché era troppo giovane, niente di meglio che abbracciare attraverso questi scritti mezzo secolo di impegno politico ed intellettuale.
Si può dare un’idea solo approssimativa dei molti temi delineati negli scritti, si va dalla riflessione nei piccoli gruppi di autocoscienza, alla scoperta dell’importanza delle relazioni tra donne per prendere la parola e affrontare il mondo, non per chiedere uguaglianza o parità rispetto agli uomini ma per poter essere ciascuna libera di realizzare il proprio desiderio. Stare nella vita con agio, grazie anche alla forza che viene dalle donne che ci hanno precedute, pensatrici, scrittrici, artiste, è un obiettivo costante della politica concepita dall’autrice. Ancora, si troveranno scritti sul tema del lavoro e sulla ricerca dei modi possibili per una donna di portare con sé intero il suo desiderio anche in questo ambito, oltre a una più generale riflessione sulle difficoltà che donne pure decise e consapevoli, trovano nel rendere visibile e pubblico il proprio progetto di vita.
È attraversando questi ampi spazi che Stefania Ferrando, filosofa, da sempre attenta al pensiero delle donne, compone la sua introduzione. Prende le mosse dalla constatazione, per me emozionante, di aver già ereditato da sua madre, femminista, la consapevolezza che la vita di una donna può essere benedetta dalla libertà e dalla felicità assieme. Attraversa perciò il pensiero di Cigarini alla ricerca di punti d’appoggio che le servano per stare nel mondo realizzando quella promessa e compone una specie di itinerario di formazione, un suo personale programma di viaggio, scandito dal pensiero e dalle pratiche politiche che più sembrano utili al suo percorso.
Uno dei temi più importanti cui Cigarini dedica instancabile attenzione a partire dagli anni novanta e fino agli scritti più recenti, è la ricerca di una interlocuzione con gli uomini. Nei suoi scritti appaiono molte, vive relazioni di scambio con politici, studiosi, attivisti che si mostrano interessati e capaci di comprendere la forza dell’unica rivoluzione del secolo scorso che ancora agisce nel mondo, quella delle donne, come ha detto qualcuno. Ma nel complesso non vi è stata fino ad ora una risposta politicamente significativa ed efficace da parte degli uomini, alle pratiche politiche delle donne. È questa la constatazione di Lia Cigarini e la sfida che raccoglie Riccardo Fanciullacci, docente di filosofia. Nell’intervista, Fanciullacci insiste nella richiesta di chiarimento su punti che gli appaiono controversi o difficili da comprendere nella politica delle donne: in maniera esemplare, quel che sembra una mancanza di procedure o di un metodo che garantisca la possibilità di prendere decisioni. Come si decide quando si pratica una politica che rifiuta la logica della delega, della maggioranza che vince, dell’organizzazione che si sostituisce ai singoli? Come si decide se si pratica il partire da sé, se si è attente prima di tutto alle relazioni e si rifuggono le pratiche di costruzione e allargamento del potere? In che modo agisce quel che la politica delle donne chiama autorità femminile? Ed è questa in grado di determinare scelte e dirimere conflitti?
È uno scritto politico di grande interesse quello che Fanciullacci e Cigarini compongono nel loro scambio serrato, tutto da leggere e meditare.
E infine, la lingua di Lia Cigarini è cristallina, i suoi scritti sono come incollati alla realtà, al singolo problema da affrontare, alla concretezza della vita e delle relazioni tra le donne. E sono pieni di riferimenti, a un film, a un racconto, ad un’opera d’arte che hanno ispirato il pensiero. Quasi tutti brevi, fulminanti nella loro essenzialità.
P.S. Lia Cigarini ci chiede di comprare il suo libro (e anche altri libri) nelle librerie delle donne di Milano, Padova e Bologna invece che su Amazon che fa una concorrenza sleale alle librerie indipendenti. Comunque anche le librerie delle donne recapitano il libro a domicilio e la Libreria delle donne di Milano lo vende on line al seguente link https://www.bookdealer.it/goto/9788893143349/607
(libreriadelledonne.it, 27 giugno 2022)
di Umberto Rossi
Ricordiamo tutti quella scena di 2001: Odissea nello spazio nella quale Kubrick immagina – per metterla in termini antropologici – il primo dispositivo culturale: un osso con il quale uno dei nostri antenati quadrumani abbatte un suo avversario. La cultura avrebbe dunque inizio, per un pessimista e misantropo come Kubrick, con un’arma e un assassinio. Per Ursula Le Guin, invece, come ci spiega nel saggio La teoria letteraria del sacchetto della spesa, il primo dispositivo culturale deve essere stato un recipiente, qualcosa per portare a casa il cibo raccolto in giro, che consente dunque di conservare, non di distruggere.
Questo sovvertimento di tutte le mitologie che mettono alle origini dell’umanità qualche eroe armato (e ovviamente maschio) è un’immagine che ben rappresenta la raccolta I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo (a cura di Veronica Raimo, BigSur, pp. 249, € 18,00), selezione tratta da una ben più ricca antologia uscita nel Regno Unito quattro anni fa, autentico «sacchetto della spesa» contenente scritti assai diversi: discorsi di accettazione di premi letterari, saggi sulla scrittura, introduzioni a riedizioni di romanzi, brevi pezzi a carattere autobiografico, riflessioni occasionali, anche un vero e proprio monologo, «Mi presento», scritto per essere recitato, allo scopo di evidenziare e scardinare i pregiudizi di genere impliciti nel linguaggio. Scrittrice prolifica, nella sua lunga carriera Ursula K. Le Guin ha attraversato i due territori solo in apparenza distanti – ma in realtà contigui – della fantascienza e del fantasy, lasciandoci alcune pietre miliari.
I temi di affezione
Nei vari pezzi inclusi nei Sogni si spiegano da soli la scrittrice esplicita ciò che nella sua narrativa è criptato, nascosto nella tessitura delle trame, rappresentato in modo anamorfico: il suo rapporto con l’antropologia, con la California, con l’ondata femminista degli anni Settanta. Figlia del grande antropologo Alfred L. Kroeber, Le Guin ne eredita l’interesse per le culture native della California, alcune delle quali spazzate via dagli insediamenti dei bianchi succedutisi dalla metà dell’Ottocento in poi. Emblematica è la storia di Ishi, tratteggiata in uno degli scritti nella raccolta, «Zii indiani di Ursula Kroeber Le Guin»; Ishi era l’unico superstite di un’intera cultura nativa, l’ultimo a parlarne la lingua, e a poterla insegnare a Kroeber. Il contatto con queste civiltà, e il caparbio tentativo degli antropologi di comprenderle, si rispecchieranno nel rapporto con civiltà aliene su pianeti extrasolari ripetutamente messo in scena da Le Guin nel ciclo fantascientifico Hainish. Si parte dal presupposto che le popolazioni dei vari pianeti (inclusa quella terrestre) discendano tutte da un’originaria specie umanoide colonizzatrice, perché nei mondi di Le Guin non c’è spazio per le farneticazioni pseudoscientifiche razziste; c’è invece attenzione ai complessi processi di mediazione, di traduzione, di comprensione e fraintendimento che intercorrono negli incontri-scontri tra civiltà.
Teatro di questi processi è stata la California fin dai primi insediamenti umani, poi con la colonizzazione spagnola, quindi con l’annessione agli Stati Uniti, infine con l’immigrazione di massa dagli anni Trenta in poi: è un territorio alieno, questo, più a ovest del mitico west, terminale della frontiera che secondo lo storico Frederick Jackson Turner ha plasmato il carattere degli Stati Uniti (incluso l’amore morboso per pistole e fucili). Non è un caso se lo stato sul Pacifico ha ospitato, oltre a Le Guin, anche Philip K. Dick, suo compagno di high school, più vecchio di un solo anno, con il quale Ursula intratteneva una corrispondenza intermittente; ma mentre Dick ambienta alcuni dei suoi migliori romanzi tra San Francisco e Los Angeles (da L’uomo nell’alto castello a Un oscuro scrutare), Le Guin traspone sempre questo estremo ovest su altri mondi, dove si ripresenta in una serie di affascinanti variazioni l’incontro tra culture e la loro difficile convivenza. Talvolta, come nel romanzo breve Il mondo della foresta (1972) l’incontro diventa guerra, o meglio guerriglia, in una straniata raffigurazione del Vietnam che allora infuriava; altre volte, come nei Reietti dell’altro pianeta (1974) l’incontro tra una società utopica anarchica e una sorta di distopia capitalistica planetaria non porta apparentemente a nulla, se non a svelare limiti e contraddizioni di entrambe le civiltà.
Il tema utopico è potente in tutta l’opera di Le Guin e ben rappresentato dal saggio «Una visione non-euclidea della California come luogo freddo», compreso nei Sogni si spiegano da soli, dove ancora una volta antropologia, politica, storia e archeologia dialogano in modo originale e spiazzante. A questi temi ricorrenti s’intreccia inevitabilmente la riflessione sul genere, sulla scrittura delle donne, sulla tutt’altro che risolta questione dell’emancipazione femminile: un problema di cui, per sua stessa ammissione, Le Guin ha preso coscienza solo progressivamente, come attestano le note a piè di pagina aggiunte a «Il genere è necessario? Versione aggiornata». Qui la scrittrice, riflettendo su La mano sinistra delle tenebre, fa i conti con se stessa e la sua passata consapevolezza, solo parziale, in materia di femminismo, offrendo così prospettive inedite su uno dei suoi romanzi più noti.
Giudizi critici
A fronte delle perplessità destate dal giudizio che Le Guin dà di Hemingway (ricorrente bersaglio di una garbata ironia) e della sua maschera da macho man che oggi sappiamo essere una ingannevole finzione, non si può non restare affascinati dall’acuta rilettura di Piccole donne in «La figlia della pescatrice», o dai commenti sul tragico diario dello sventuratissimo esploratore polare R. F. Scott in «Eroi». Le Guin contrappone qui alla posa di eroismo guerresco di Ernest Shackleton (che «aveva fatto la cosa giusta ma ha detto quella sbagliata»), all’assunzione di responsabilità di Scott, che «ha ammesso completamente il proprio fallimento», senza contrapporsi a qualche nemico o avversario incarnato nei ghiacci polari. E sono queste intuizioni a costituire l’innegabile valore aggiunto di questi scritti.
(Alias – il manifesto, 19 giugno 2022)
di Franca Fortunato
Metti che donne di Palermo, Partinico, Corleone, Napoli, Locri, Roma, impegnate da anni nella lotta alle mafie si ritrovino, sollecitate da altre, a riflettere, scrivere e raccontare le pratiche politiche che le hanno viste, e le vedono, protagoniste di un’antimafia diversa da quella degli uomini, quello che ne viene fuori è un racconto corale di esperienze e pratiche di donne che, pur diverse per generazione, professioni e scelte di vita, sono accomunate dalla consapevolezza che ognuna di loro, come ognuna di noi, con la mafia c’entra, anche se non sono vittime o parenti di vittime di mafia, o appartenenti a famiglie mafiose. È quello che viene fuori leggendo il libro Che c’entriamo noi. Racconti di donne, mafie, contaminazioni, curato da Alessandra Dino e Gisella Modica, promotrici del progetto, e pubblicato da Mimesis. Un libro che ci racconta di donne che hanno fatto della loro professione di giornaliste, scrittrici, ricercatrici universitarie, insegnanti, della loro passione e amore per la vita e per le donne come volontarie nei Centri antiviolenza, in “Libera” e nella Casa Memoria di Felicia Impastato, uno strumento “altro” di lotta alle mafie. Una storia individuale e collettiva nella Palermo degli anni ’70 e ’80 passando per le stragi di Capaci e via D’Amelio del ’92, che ha cambiato la vita di molte e ha visto le donne e chi era cresciuta nella paura della mafia, «paura di percorrere le strade e poter essere colpita per caso, o di vedere qualcosa per sbaglio ed essere punita», protagoniste di invenzioni creative come i lenzuoli sbiancati del sangue di mafia, esposti ai balconi per dire «Non sto dalla vostra parte. Non contate su di me», o il digiuno con l’adesivo, un piattino giallo appeso al collo con scritto «Ho fame di giustizia, digiuno contro la mafia». Storia narrata alle proprie alunne e alunni da chi ne fu protagonista o testimone, per trasmettere una «memoria attiva, che si fa viva e palpitante, che si manifesta in azioni concrete». Donne che si mettono in gioco, a partire da sé, nell’incontro con altre donne, ne raccolgono i racconti, ne scrivono libri che loro o altre leggono alle proprie alunne e alunni, alcuni figlie/i di mafiosi. C’è l’antimafia “spettinata” “squattrinata”, “sciattona” di chi dirige una rivista portando orgogliosamente avanti il testimone di Pippo Fava, ucciso dalla mafia. C’è chi vive in un quartiere popolare accanto a una donna il cui marito è in carcere da anni e le due si parlano da donna a donna e «convengono che la vita che ha fatto il marito l’ha portato» a non «godersi la sua famiglia, la moglie e i figli». C’è chi scopre di dover fare i conti con un nonno che ama tanto e che è stato un mafioso. Donne che, bambine nel ’92, conoscono la mafia «dalla storia dei morti ma è attraverso chi è rimasto vivo» che incontrano «la sofferenza e la perdita» o chi incontra la ’ndrangheta nel racconto della nonna dell’uccisione del nonno, maresciallo dei carabinieri, e «negli sguardi fieri delle madri che chiedono verità e giustizia per i loro figli» e di cui scrive la storia. È l’antimafia delle donne, che a Palermo sente che «le ferite» del ’92 «si riaprono ogni qualvolta si svelano corruzioni, misteri irrisolti, complicità politiche, mandanti ed esecutori rimasti impuniti non solo per i delitti e le stragi di quegli anni, ma anche quando ci rendiamo conto che troppe sono le protezioni e le connivenze». Ferite che il risultato delle amministrative, col ritorno in campo di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, condannati per mafia, temo riaprirà e che rende questo libro ancora più prezioso, da leggere e fare leggere.
(Il Quotidiano del Sud, 18 giugno 2022)
di Alessandra Quattrocchi
Con un Meridiano in due volumi che raccoglie i suoi romanzi in una nuova traduzione, finalmente anche l’Italia rende giustizia alla scrittrice inglese. Che si è imposta con le armi delle sue eroine: ironia, allegria, rigore
È una verità universalmente riconosciuta – per dirla con l’incipit di Orgoglio e pregiudizio, il più amato dei suoi romanzi – che Jane Austen sia stata ammessa tardi, troppo tardi, nel Canone dei grandi scrittori. Finalmente anche in Italia le si rende giustizia con un’edizione di riferimento, un Meridiano Mondadori in due volumi (il primo è appena uscito), curato da Liliana Rampello e con la traduzione di Susanna Basso per tutti e sei i romanzi dell’autrice, scritti fra il 1803 e il 1816.
«Austen è stata tradotta molto, in tanti modi, dal meglio al peggio» spiega Rampello. «Adesso si offre al suo pubblico sterminato un’unica voce e un ampio apparato di commento. Una piccola magia che ci permette di accedere alla scrittrice con un percorso diverso.»
Ed è essenziale per sfatare il mito una volta per tutte: Austen non è un’autrice “per donne”, non scrisse romanzi “rosa”, sebbene sul suo nome sia nato un vero brand, un impero di imitazioni, sequel, prequel, gadget, film, serie tv. La fortuna dei period drama in costume forse è dovuta anche alla nostalgia per un mondo che ci appare più semplice, «grazie alle tante regole» spiega Rampello. «Le classi sociali sono definite dalle case, dagli abiti, elementi che aiutano a visualizzare le cose. La differenza però è che leggendo i romanzi scompare la patina romantica ed emerge l’ironia, che rovescia la realtà e ce la fa vedere spolpata.» Allora Austen si rivela come la grande innovatrice e il genio che fu, nei temi che tratta, nei personaggi, nel linguaggio, nella scrittura narrativa.
«Le sue eroine sono protagoniste del loro destino. Il tema universale – ed è per questo che lei è letta ovunque – è quello della felicità individuale, alla luce del desiderio femminile» sottolinea ancora Rampello. «Ma la libertà interiore si incrocia con la necessità del matrimonio; sicché le sue protagoniste si sposano bene, e rompono non solo la struttura patriarcale ma anche la ferrea divisione in classi. Insomma, è lei che costruisce davvero il romanzo di formazione femminile, perché la formazione al maschile non è compatibile con la vita delle ragazze. Però non si mette mai in una posizione vittimista, non fa rivendicazioni, regala alle sue protagoniste la libertà di muoversi in un mondo codificato, e le fa vincere, secondo una geografia morale ferma e precisa, che implica l’assunzione di responsabilità.»
Ballando ballando
Le tante norme, però, non uccidono la vitalità: emblematiche le tante scene di ballo, «la fortissima sensualità dei due ballerini che devono seguire le regole ferree dei passi mentre i corpi si sfiorano appena, come i meccanismi umani che lei sa indurre per allusione»; e si sa che Jane amava ballare. Altro tema cruciale, la presenza non solo delle eroine, ma di un intreccio fittissimo di relazioni fra donne: madri figlie sorelle amiche parenti. «Andare da sole nel mondo degli uomini è perdente. Ma Austen ha uno sguardo limpido su entrambi i sessi»: i suoi romanzi sono popolati anche di donne meschine – come l’intrigante Lucy Steele in Ragione e sentimento – o sciocchissime – come Lydia Bennet in Orgoglio e pregiudizio. E ancora, la struttura: «mette in gioco tutto questo in romanzi dove esplode una vocazione fortemente teatrale, shakespeariana». Monologhi, dialoghi, scene corali che dipingono i rapporti e tracciano ritratti fulminanti. «Tutto ciò la rende estremamente moderna.»
Il primo volume del Meridiano contiene i primi tre romanzi: L’abbazia di Northanger, Ragione e sentimento e Orgoglio e pregiudizio, oltre a una selezione dei Juvenilia, gli scritti giovanili sempre più studiati dalla critica. I romanzi, come gli ultimi tre che usciranno nel secondo volume, hanno la “voce” di Susanna Basso. Operazione editoriale necessaria perché, dice Rampello, «la traduzione è un passo interpretativo e quindi critico, a tutti i livelli; abbiamo un debito grandissimo per questa versione che riesce anche a rendere la maturazione progressiva della scrittrice».
Per voce sola
Susanna Basso è traduttrice di lungo corso che ha all’attivo fra l’altro i capolavori contemporanei di Ian McEwan, Kazuo Ishiguro, Julian Barnes, Alice Munro. Per un impegno come l’integrale di Austen, dice, è servita un po’ di sconsideratezza: «Ho attraversato molti momenti di crisi, ma era impossibile dire di no. Tradurre Jane Austen è straordinario; tanto più ritradurre Orgoglio e pregiudizio. Lo avevo già fatto nel 1999 per Sperling&Kupfer, ma questa versione è diversa, anche perché è cambiata la mia posizione di lettrice del testo, con vent’anni in più».
Tradurre Austen significa rendere in italiano la soavità della sua lingua sarcastica. «Si affronta nella speranza di riuscire a “dire quasi la stessa cosa”, il che è di per sé anche una definizione dell’ironia. Con la pazienza, grazie al sostegno redazionale che si crea intorno a un Meridiano, cercando di restituire l’allegria incrollabile di tono, di lingua.» Altra sfida: il discorso indiretto libero, cioè quell’artifizio moderno che proprio Austen cominciò a usare massicciamente, con cui lo scrittore trascrive i pensieri del/la protagonista fuori dalle virgolette, così che si mescolano con la voce autoriale. «Austen ci dà degli indizi: studiando i manoscritti vediamo dove usa i trattini invece della punteggiatura, e sono pause di riflessione, incertezze, così come le esclamazioni: lì il discorso appartiene ai personaggi, perché la sua voce autoriale non conosce pause né enfasi.»
E ancora: quella di Austen è una lingua complessa nella sua eleganza, un periodare lungo pieno di secondarie e giravolte: c’è la tentazione di spezzare, traducendo? «Fuori dai dialoghi, che sono un motore narrativo quasi teatrale, e hanno leggi di traduzione un po’ diversi, posso dire che no, non si spezzano le frasi di Jane Austen. L’italiano offre una sintassi così ricca che si può lasciare il ritmo originale, e del resto è proprio l’autrice a offrire una bussola incredibile, bisogna andarle dietro.»
Mistero svelato
Tre anni di traduzione in ordine cronologico; adesso, dice Basso, la spaventa affrontare Mansfield Park, il più cupo, doloroso, stratificato dei capolavori austeniani. Noi lettori aspettiamo il progetto integrale perché in Italia si comprenda meglio il “mistero Austen”. Un mistero che tale non è. Austen crebbe, sì, nella canonica del padre pastore protestante; con pochi soldi ma con libero accesso a un’ampia biblioteca, e in una baldoria di giovani, fra i numerosi fratelli maggiori, la sorella Cassandra e gli studenti del padre, le recite teatrali inscenate per gioco, le serate in cui leggeva le sue creazioni al pubblico familiare, esercitando lo spirito satirico e il gusto del paradosso. Vediamo dietro di lei la figura del padre – che le regalò il quaderno per la bella copia del secondo volume dei Juvenilia, e uno scrittoio portatile oggi alla British Library – e che la incoraggiò strenuamente nei suoi primi tentativi editoriali.
Il padre: per tante scrittrici ottocentesche la figura che cementa la capacità di credere in se stesse. Benché Austen abbia pubblicato fino alla sua prematura morte firmandosi semplicemente «a Lady», dalle sue lettere sappiamo bene quale fiducia avesse nel proprio talento. «Questo Meridiano dà molte risposte a un universo di questioni», dice Rampello, «e alla spaccatura storica della critica, fra detrattori e adoratori». Stiamo riscrivendo il Canone? «Sono cinquant’anni che le donne scavano e studiano; non si tratta solo di riscoprire scrittrici, ma di riposizionare la letteratura e la critica delle donne. Abbiamo il vantaggio che leggiamo tutto, uomini e donne, mentre persino Italo Calvino in Perché leggere i classici scriveva, paternalisticamente, “Amo Jane Austen perché non la leggo mai ma sono contento che ci sia”. Noi siamo tante e ci occupiamo di letteratura senza pregiudizi. C’è molto da affermare; con la serenità con cui Austen affermò se stessa.»
(la Repubblica, 13 maggio 2022)
di Redazione
Segnaliamo l’uscita dell’ultimo numero del trimestrale di azione Mag e dell’economia sociale “AP Autogestione & Politica prima” dal titolo Andavamo a mietere il grano, il grano, il grano… (n. 2-3, aprile/settembre 2022). Questo numero doppio della rivista, che esce con la collaborazione delle Citta Vicine, è particolarmente ricco di esperienze, riflessioni e rubriche e il dossier Femminismo e profezia.
Ecco il sommario:
– UNA CAROVANA DI SOGNI… anzi, di utopie concrete, per “fare la Pace”, a cura di Paolo Pasetto
– Guerra in Ucraina, crisi alimentare, transizione ecologica, a cura di Francesco Benciolini
– MALVE DI UCRAINA Associazione Femminile a Casa di Ramia -Verona, a cura di Fabiana Bussola
– ATTINGERE al SENTIRE PROPRIO: la sorgente viva della libertà femminile, a cura di Laura Minguzzi
– LA SCELTA NASCE DALLA CONOSCENZA. Fisico, sostenibile, veronese: è il primo negozio plastic-free scaligero, a cura di Tommaso Vesentini
– COMUNITÀ ENERGETICHE. Una possibile chiave di volta per la transizione ecologica, a cura di Debora Poles e Sandro Giuliari
– Dossier – FEMMINISMO E PROFEZIA, a cura di Alessandra De Perini
– I MASCHI, LA GUERRA, LA POLITICA. Appello agli uomini di valore, a cura di Simonetta Patanè
– IL CAMBIAMENTO CHE PASSA DALLA RELAZIONE, a cura di Gemma Albanese
– EDILIZIA PUBBLICA e SOCIALE: quale stato di salute a Verona, a cura di Giuseppe Braga e Michele Ceschi
– SHAMSIA HASSANI street artist di Kabul, a cura di Anna Di Salvo
– Figure Femminili nella storia – TROTULA LA MEDICA VIRTUOSA, a cura di Anna Di Salvo
– Spaginando. L’EREDITÀ DI GINO STRADA PER UN MONDO SENZA GUERRE, a cura di Franca Fortunato
– Letto per voi. CHTHULUCENE: sopravvivere su un pianeta infetto. Recensione del testo di Donna Haraway, a cura di Elisabetta Zamarchi
– Letto per voi. CONTRORA. Recensione del libro di Katia Ricci, a cura di Franca Fortunato
La rivista è in vendita alla Libreria delle donne. È possibile sottoscrivere l’abbonamento ad Autogestione & Politica Prima al costo di € 25 annui cliccando al seguente link: https://magverona.it/partecipa-e-sostieni-la-mag/abbonati-alla-rivista-a/
Per qualsiasi informazione rivolgersi a: Segreteria CASA COMUNE MAG – Giulia Pravato Tel. 0458100279 (dal lunedì al venerdì ore 9.00-13.00 e 14.00-18.00).
(www.libreriadelledonne.it, 18 maggio 2022)
di Patrizia Melluso
Françoise Duroux (1942-2015) ha insegnato all’Università di Paris VIII, dove è stata responsabile di un master sul pensiero della differenza e di un dottorato di Studi femminili, è stata una docente e una militante femminista.
Il paradigma perturbante della differenza sessuale. Una filosofia femminista di Françoise Duroux (a cura di Stefania Tarantino e Chiara Zamboni, Mimesis 2021) raccoglie alcuni degli scritti di Françoise Duroux e alcuni saggi critici. Su queste pagine [del sito della rivista online Il Paese delle donne, ndr] ne ha parlato Giovanna Borrello nella sua recensione del febbraio 2022.
Ne parliamo con Stefania Tarantino, curatrice del volume insieme a Chiara Zamboni, autrice di uno dei saggi critici e traduttrice di alcuni scritti di Duroux contenuti nel testo.
Il paradigma perturbante della differenza sessuale. Una filosofia femminista è stato oggetto di un incontro, sabato 14 maggio alle ore 18.00, alla Libreria delle donne di Milano con l’intervento delle curatrici e di Luisa Muraro.
Paradigma e perturbante, che ricorrono nel titolo del libro, sono concetti contrastanti. Paradigma è un modello, qualcosa di codificato insomma, che rimanda a una certa regolarità. Perturbante, sia che lo intendiamo come sostantivo che se lo consideriamo un aggettivo, è sempre, invece, irregolare, qualcosa che irrompe (e sconvolge) un ordine. Questo contrasto, riferito alla differenza sessuale, ne fa un paradosso?
Paradigma e perturbante sono concetti contrastanti, volutamente messi insieme. La parola paradigma rimanda al senso antico del termine e non al senso moderno legato a un insieme di regole metodologiche: paradigma era un archetipo, un esempio, qualcosa che indicava, mostrava. Platone parlava degli archetipi come realtà ideali, concepiti come eterni modelli delle passeggere realtà sensibili. Qui invece li si lega alla concretezza dei corpi e al loro legame con il divenire dove la differenza sessuale resta perturbante, un nodo che difficilmente si scioglie o si guarda per ciò che è, al di là di tutte le sovrastrutture che nel corso della storia si sono sedimentate sulla differenza sessuale stessa, irrigidendone i caratteri che invece sono transeunti, cangianti e mutevoli.
Duroux non separava vita/biografia e politica, così come Sarah Kofman non separava vita/biografia e filosofia. Entrambe, però, erano donne degli anni Settanta, e vivevano in modo molto pressante la necessità di affermare un pensiero autonomo in un mondo, politico o accademico, molto più fallocratico di quello attuale. Che cosa è cambiato, oggi, per una donna che fa filosofia?
Per una donna che oggi fa filosofia è molto più complesso perché complessa è l’epoca in cui viviamo, con l’insorgere di tante cose nuove che è necessario affrontare tenendo conto di tutti quanti gli aspetti. Rispetto al femminismo degli inizi, oggi ci si trova con un femminismo consolidato che è contrastato dai vari transfemminismi che hanno idee e posizionamenti diversi. Fare filosofia oggi e in particolare una filosofia femminista significa avere uno sguardo ampio sulla contemporaneità, sulla necessità di portare giustizia in tutti gli ambiti e per tutti gli esseri umani e, però, senza rinunciare alla soggettività femminile in quanto tale. Ecco, questa è una sfida molto importante: piuttosto che riandare in un neutro, lavorare alla moltiplicazione delle soggettività ancorandosi a quella che è la loro storia, il loro percorso. Andare verso una moltiplicazione più che in una direzione di neutralità che cancella ancora una volta la soggettività femminile nel suo aspetto ancora non conosciuto, non pienamente dispiegato.
Scrivi, nel tuo saggio, di un’iniziale associazione intuitiva fatta tra Françoise Duroux e Angela Putino. Un’intuizione che poi hai approfondito scoprendo molti punti di contatto tra le loro posizioni e con il pensiero di Virginia Woolf. Li puoi accennare?
Il pensiero di Virginia Woolf è fondamentale nel percorso teorico e femminista di Françoise Duroux (e anche di Angela Putino) che le dedica anche un libro. Ciò che Duroux apprezza in particolare è di aver visto il pericolo di un’inclusione che schiaccia ancora una volta le donne in una soggettività costruita da altri. Duroux critica il modello che le società moderne propongono riferendosi alla società delle estranee di Woolf, o all’inclusa/esclusa di cui parla un’altra autrice, Nicole Loraux. È qui il passaggio, per lei, dal patriarcato a una società fallocentrica. Occorre quindi essere vigili, essere sentinelle su questo. Virginia Woolf è una donna che ci dà tutti gli strumenti per poter vedere chiaramente questo imbroglio e per andare alla ricerca della nostra soggettività, al di là dei modelli imposti dalla modernità che sembrano tanto inclusivi e che invece sono un’ulteriore trappola per le donne.
Françoise Duroux rimarca nei suoi scritti la distanza da un femminismo che, soprattutto in Francia, ha fatto leva sull’emancipazione e sulla parità di diritti e salari. Qual è il principale punto di distanza tra il femminismo di Duroux e quello che ha puntato tutto sulla parità?
Françoise Duroux è una pensatrice della differenza sessuale che dà un taglio molto particolare a tale differenza. Ecco perché ho segnalato la vicinanza con il pensiero di Angela Putino. Per loro la differenza non è una differenza pensata in una forma essenzialistica, né fondata da rapporti sociali oggettivi, ma simbolica, fondata dall’immaginario e dal fantasma. La sua è stata una posizione “marginale” che però le ha consentito di restare indipendente dal punto di vista del pensiero. Quello che le interessava era partire da una posizione femminista di guerriera, non di vittima. È a partire dalle singolarità che si può avere quella rivoluzione simbolica e dell’immaginario che Françoise Duroux auspicava. Non bisogna dimenticare, inoltre, che lei prende da Freud l’idea che la libido sia una, che non ci siano due libido e che le forme che la soggettività incarna, a partire dalla storia vissuta, possono dare luogo a infinite variazioni. Una soggettività libera, desiderante e potente che va a sparigliare le carte dei sistemi che invece incasellano le soggettività e le loro forme. In questo senso è molto interessante la sua passione per la danza, una passione anche teorica. Nelle infinite posture che il corpo può assumere nei passi di danza, Françoise vedeva il dislocarsi di posizionamenti diversi, possibili, per le soggettività a partire dal loro vissuto concreto e reale.
Alcune femministe evocano la condizione delle donne nere, delle migranti, insomma altre subalternità, e le considerano punti privilegiati per contestare l’ordine globale del capitale neoliberale. In questo libro, invece, c’è un richiamo molto forte alla singolarità dell’esperienza della differenza, che non si può ridurre a un “insieme”. C’è un rischio che l’insieme renda insignificante la potenza della differenza?
Per Françoise Duroux, e qui c’è l’elemento di distanza con i femminismi che appiattiscono la differenza sessuale sulla questione sociale o di mero costrutto sociale: la differenza sessuale affonda nella dimensione antropologica e psico-fisica, e in questo senso è archetipica. La psicoanalisi è un’arma che Françoise Duroux usa, accogliendo di Freud alcune cose e altre no. È un po’ la stessa cosa che fa, da questo punto di vista, Sarah Kofman (ndr: a Sarah Kofman è dedicato il seminario che Tarantino ha tenuto all’Istituto per gli Studi filosofici di Napoli il 16, 17 e 18 maggio).
Di questo libro, sei curatrice ma anche una delle traduttrici. Come è stata l’esperienza della traduzione di un linguaggio così contemporaneo, polemico e provocatorio di Duroux?
Il linguaggio di Duroux è molto complesso, come dice Mireille Azzoug nella sua introduzione. Passa da un linguaggio molto forbito a un linguaggio molto più popolare, se non addirittura volgare. È stato quindi difficile restituire pienamente il significato delle sue parole e su questo è stato di grande aiuto il confronto con le mie amiche francofone e non solo. Ma come esperienza di traduzione è stato un viaggio bellissimo, un’esperienza di immersione totale nel pensiero e nella voce di Françoise Duroux.
(Il Paese delle donne rivista online-womenews.it, 13 maggio 2022)
di Luisa Cavaliere
È uscito di recente per la Liguori un libro (L’interrogazione del reale) che celebra il pensiero del filosofo Aldo Masullo a due anni dalla scomparsa. Curatrice appassionata del volume, Giovanna Borrello prima allieva e, poi figlia prediletta di un pensatore sapiente. Rigorosissimo. Capace di parlare anche all’inedito e, dell’inedito come è stato il pensiero femminista dalla fine degli anni ’70. Molti e tutti interessanti, i contributi di quella che ha avuto il tratto di una vera e propria scuola napoletana. Il libro collettaneo ha anche una nutrita parte documentaria (e un robusto indice).
Borrello ha evitato la trappola del tono elogiativo chiuso nella maglia dello specialismo e ha guidato i suoi colleghi seguendo il desiderio di raccontare il suo maestro (così audacemente lo definisce), nei suoi poliedrici tratti, e ha scelto di tratteggiare attraverso i differenti contributi il profilo di un pensatore capace di tenere salda la speculazione “classica” senza aver paura di confrontarsi, facendosene anche contagiare, con quelle e quelli che chiedevano alla filosofia di pensare il presente. Di trovare un filo che potesse essere tessuto anche con parole e percorsi speculativi eccentrici. Significativo il suo confronto con il pensiero delle donne. Un confronto mediato proprio da Borrello che di quella riflessione insieme ad Angela Putino e a Lucia Mastrodomenico è stata autorevole esponente. Ad essere messa in gioco e a sottendere il pensiero della differenza era la cruciale questione dell’alterità, sul campo emergeva una critica radicale al soggetto unico, compatto autore referenziale e narcisista della storia, e il definirsi di un altro soggetto portatore di una scomposizione delle radici stesse della soggettività così come era stata pensata e narrata fino a quel momento. Qui il pensiero e la speculazione filosofica conobbero affascinanti saldature con la politica e con il potere. Masullo (mi piacerebbe essere smentita) fu l’unico a comprendere quale fosse la posta in gioco e a offrire ipotesi speculative capaci di affrontare le questioni inedite. La contemporaneità andava a sintesi precarie e si misurava con il rigore. Qui i ricordi si intrecciano con l’oggettività e le restituiscono anche la ricchezza di questo interlocutore attento. Nel libro curato da Borrello forse questo aspetto è tenuto un po’ ai margini della celebrazione. Masullo colse quello che il pensiero femminista imponeva al dibattito politico e filosofico e non furono poche le occasioni che tentarono la saldatura fra il rigore speculativo e la ricerca di parole e di pratiche adeguate. Ricordo un dibattito a Caserta avvenuto nei primissimi anni ’80, organizzato dall’associazione “Lo specchio di Alice” sui temi della maternità e della sessualità – che Masullo concluse parlando di una inquietudine ontologica che lo invadeva quando affrontava i temi che il convegno casertano aveva messo all’ordine del giorno. Una espressione che faceva giustizia di qualunque arroganza e mostrava quante poche certezze desse nella ricerca della “verità” quel sapere. E ricordo la pazienza affettuosa che riservò alla mia domanda sul “rispecchiamento empatico” che tanto mi aveva colpito e l’aiuto decisivo che mi diede per preparare una intervista a Emanuele Severino (questo un “parmenideo cattolico”) che avevo scelto per uno speciale della rivista “Donne e politica” che il PCI pubblicava. Non so e non mi avventuro su sentieri impervi che richiederebbero conoscenze ben più profonde di quelle che ho, se Napoli sia stata capace di sentire la voce potente di Masullo. Non so se il valore politico della sua speculazione sia stato assunto dalla città come utile a riflettere su se stessa. So, e anche di questo bisogna essere grati a Giovanna Borrello e all’editrice, che ad ascoltare quella voce siamo state in tante e in tanti perché sentivamo, più o meno consapevolmente, che essa ci avrebbe aiutato a districarci tra le insidie del presente tenendo salda la memoria di un passato che da molti veniva considerato inutile e che Masullo tratteneva e trasmetteva nella sua inesauribile presa sul presente.
(Corriere del Mezzogiorno, 26 aprile 2022)
di Adele Longo
Nell’introduzione del libro Controra edito da Les Flâneurs di Bari, l’autrice Katia Ricci ne racconta la genesi: l’aver salvato dallo sgombero della casa dei suoi genitori fotografie, lettere che raccontano la storia della sua famiglia, pensando di leggerle al momento opportuno, quando ne avesse avuto tempo e desiderio.
Parecchi anni dopo Katia prende in mano questo materiale: ha tempo a disposizione per il lockdown e soprattutto negli ultimi anni ha fatto parte della comunità di “storia vivente” di Foggia, pratica avviata da Marirì Martinengo con la comunità di Milano.
Una pratica che vuole portare alla luce un nodo irrisolto dentro di sé, raccontando la propria storia a partire dal corpo, dal proprio vissuto, un racconto che certamente necessita di uno scavo solitario, ma che soprattutto emerge e si forma nelle relazioni all’interno di una comunità di ricerca, un lavorio lento, continuo, basato sull’ascolto e sulla fiducia. Ed è così che una storia personale diventa condivisa e nello scambio si crea una parola autorevole che produce cambiamenti personali e simbolici.
Nel libro la storia personale si intreccia con oltre mezzo secolo di storia politica e sociale italiana e del sud in particolare. La storia di suo padre Pasqualino, unico figlio maschio sopravvissuto di una famiglia di proprietari terrieri di Rignano. L’incontro con la bellissima Anna conosciuta a Potenza, dove era ufficiale dell’esercito, e di cui si era subito innamorato a tal punto da sposarla nonostante l’ostilità dei genitori.
La nascita dei quattro figli, i ricordi indelebili di Katia dell’infanzia trascorsa in campagna, il rumore delle spighe di grano battute dal vento, le scorribande nei terreni rocciosi, gli animali, i racconti di Giuseppina.
Sono gli anni della guerra, la liberazione, il dopoguerra, le tradizioni contadine che andavano man mano cambiando, le riforme come quella agraria, la politica della DC, la Cassa per il Mezzogiorno, riforme mai risolutive per il sud disastrato, anzi, una politica sbagliata che faceva infuriare Pasqualino che non lesina passione nell’impegnarsi politicamente per il bene del suo paese.
Racconto, narrazione per indagare e affrontare un nodo che Katia si porta dentro da sempre: il conflitto con suo padre, mai risolto neanche con la sua morte.
Da dove nasce il bisogno di riconciliazione, il desiderio di andare a fondo nei luoghi più segreti dell’essere, le viscere come le chiama María Zambrano, di superare la loro resistenza per sbrogliare, mettere in parola, dare senso ad un groviglio di emozioni?
Nell’introduzione Katia scrive: «È in nome di mia madre che cercherò di riconciliarmi con mio padre e sciogliere la ruggine che sento in me perché, come tanti uomini, pensava che fosse suo diritto imporre il suo punto di vista, magari con uno schiaffo, alla donna che pure amava appassionatamente e forse malamente».
C’è un cambio di prospettiva, uno spostamento di sguardo che segna un nuovo inizio, e che avviene grazie all’incontro e alla relazione con le altre donne della comunità.
Non è la rabbia, la ribellione verso il padre, con tutto il suo carico di valori patriarcali, a guidarla in questo cammino, ma si affida all’amore della madre per suo padre, un amore che acquista valore e dignità. È la fiducia nella madre, per il suo insegnamento, modo di fare, il suo amore tenace per Pasqualino che se da giovane suscitava in Katia rabbia e ribellione, ora rappresenta la spinta ad andare oltre, a capire un uomo difficile, perennemente scontento, a tratti violento ma anche capace, come testimoniano le lettere, di passione, di tenerezza di un amore profondo irrinunciabile.
Ne viene fuori il ritratto di un uomo dibattuto tra il senso di responsabilità verso la sua famiglia di origine e il risentimento verso di essa perché gli impediva di essere sé stesso nel lavoro e negli affetti, che gli impediva di fare prevalere quell’anima leggera, gentile e affettuosa che era in lui.
Inoltre, mi pare molto significativo e rivelatore il sogno epifanico di cui Katia scrive nell’introduzione. Sogna di stare dietro una porta o una gabbia un po’ socchiusa che però ha paura di aprire perché teme si nasconda un pericolo. Ma subito dopo si sorprende a pensare che dietro quella porta ci poteva essere «al contrario qualcosa di interessante e di bello che avrei voluto vedere e fare uscire».
È un’epifania, un’illuminazione: l’ostacolo, la porta, la barriera può essere spostata, perché dietro ci può essere qualcosa di interessante, di bello, che non fa paura ma al contrario è una forza rigeneratrice che libera bellezza, il senso profondo della vita.
(donne e altri, 15 aprile 2022)
di Marina Montesano
Avrei dovuto incontrare Chiara Frugoni pochi giorni fa a Genova, durante la manifestazione «La Storia in Piazza». Era attesa per parlare di donne medievali, ma poi aveva comunicato agli organizzatori di non sentirsi abbastanza bene da poter viaggiare, e aveva mandato un video di poco più di mezz’ora. Su richiesta degli organizzatori, un po’ preoccupati per la sua assenza, l’avevo introdotto in una sala gremita nonostante si sapesse che lei non ci sarebbe stata, e il pubblico aveva seguito attento il racconto di Chiara, alternato ad alcune immagini, da sempre il perno centrale dei suoi studi.
Un grande successo, tanti applausi e parole di apprezzamento, al punto che avevo pensato di mandarle una mail per complimentarmi e soprattutto per raccontarle il pomeriggio. Poi non avevo trovato l’indirizzo, poi la necessità di ripartire, gli impegni, la solita dannata fretta, e la mail non è stata spedita, con l’idea che tanto ci sarà occasione. Nel pomeriggio del 10 aprile, apprendendo la notizia della sua scomparsa, il primo pensiero è stato proprio quello dell’occasione mancata che non si ripeterà.
Non che Chiara Frugoni avesse bisogno di conferme. La sua fama è cresciuta negli anni grazie alla rara capacità di intrecciare fonti scritte e iconiche e costruirsi così una carriera inedita, accompagnata dalla pubblicazione di tante belle monografie. Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto (Einaudi 1993), Premio Viareggio per la saggistica del 1994, resta celebre e controverso per la proposta interpretativa; su Francesco era tornata molte volte: già l’anno successivo con Vita di un uomo: Francesco d’Assisi (Einaudi 1995, con introduzione di Jacques Le Goff) e poi a distanza di oltre vent’anni con Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della Basilica superiore di Assisi (Einaudi 2015), un libro al quale teneva molto perché metteva a frutto tanti anni di osservazione dei particolari iconografici e che le aveva consentito scoperte importanti.
Si era formata tra Roma (sia all’università sia presso l’Istituto storico italiano per il Medio Evo) e Pisa, ed aveva insegnato in entrambe le città dagli anni Settanta fino al 2000. Sul difficile rapporto con suo padre, lo storico medievista Arsenio Frugoni, evidentemente anche molto ammirato, si era aperta negli ultimi anni, anche grazie alla scrittura di memorie: consigliatissimo almeno il suo Da stelle a stelle. Memorie di un paese contadino (Laterza 2003).
Ha scritto su tanti argomenti diversi, con particolare riguardo alla storia culturale e delle idee, sempre tendo al centro il filo rosso del dialogo fra testo e immagine, un campo nel quale, soprattutto in Italia, ma non solo, ha fatto scuola.
L’impegno femminista, non militante ma saldo e convinto, in parte certamente frutto delle esperienze personali, si era fatto largo in alcuni scritti, fra i quali Una solitudine abitata. Chiara d’Assisi (Laterza 2007) nel quale scriveva: «Tutta la vita di Chiara fu segnata dall’incontro con Francesco. Tuttavia Chiara non visse all’ombra e dell’ombra di Francesco, come mi è capitato di leggere». Ecco, certamente vivere nell’ombra di altri (padri, mariti) non era per lei.
Il suo ultimo libro, quel Donne medievali. Sole, indomite, avventurose (Il Mulino 2021) che presentava a Genova, contiene una galleria di figure femminili diverse tra loro come Radegonda di Poitiers, Christine de Pizan, la leggendaria papessa Giovanna, Matilde di Canossa, Margherita Datini.
«Tutte hanno scontato con la solitudine il coraggio e la determinazione con cui hanno ricercato la piena realizzazione di sé», recita la presentazione; e sembra che Chiara Frugoni un po’ ci si riconoscesse, in queste donne alle quali la società patriarcale sembra aver fatto scontare l’indipendenza, ma che comunque sono arrivate a realizzarsi. Come concludeva nel video inviato alla «Storia in Piazza», alle donne è richiesto il doppio del lavoro di un uomo per essere considerate sue pari: ma per loro è comunque facile. Aveva strappato molte risate, quella frase era pronunciata con un sorrisetto ironico davvero molto «suo», che faceva sparire i segni della malattia. Ed è così che mi piace ricordarla.
(il manifesto, 12 aprile 2022)
È disponibile in formato pdf la versione aggiornata al 2021 della Bibliografia degli scritti di Luisa Muraro, a cura di Clara Jourdan. Il file (190 pagine – 3,2 MB) sarà inviato gratuitamente a chi ne farà richiesta a info@libreriadelledonne.it
(www.libreriadelledonne.it, 11 aprile 2022)
di Luciana Castellina
Il pacifismo, venuto alla ribalta già in occasione della prima guerra mondiale, e poi cresciuto e diventato addirittura «Seconda potenza mondiale» – come ebbe a titolare la sua prima pagina il New York Times a commento delle manifestazioni mondiali che il 15 febbraio del 2003 si tennero contro la seconda guerra all’Irak – è tornato alla ribalta. In Italia forse più che altrove per via delle più ridicole ossessive accuse ai pacifisti che stanno animando le trasmissioni delle nostre tv: quella di essere amici di Putin, i più indulgenti degli sprovveduti idealisti, infantili, incapaci di prender atto della realtà nuda e cruda. Realisti, e consapevoli di quanto accade, e perciò autorizzati a orientare il che fare, sarebbero invece quelli che invocano le armi per fermare la guerra.
Ma davvero pensano che si possa riportare la pace in Ucraina ed evitare una generale deflagrazione bellica aumentando la potenza distruttiva delle armi e coinvolgendo altri paesi nel conflitto militare? A sentirli parlare sembrerebbe siano restati indietro al vecchio ’900, ai tempi della bella Guerra fredda, quando l’esistenza stessa di due sole grandi potenze garantiva una qualche deterrenza e il nucleare era racchiuso in grandi bombe chiaramente situate sotto il comando unico dei capi di Stato. Così non è più: è vero che la terribile bomba è tutt’ora in possesso soprattutto di due grandi potenze, Russia e Stati Uniti, ma anche oramai – questo è quel che sfugge ai «realisti» – non solo a molti altri Stati, ma anche a forze militari ufficiali e a foreign fighters, volontari o assoldati.
Le nuove tecnologie, come era naturale, conquistano anche il florido settore delle armi e oggi sul mercato ce ne sono molte che contengono la mortale energia. Anche di piccolo taglio, tattiche, a medio raggio, inserita in ogni tipo di arma. A disposizione di chi vuole. È per questo che a cominciare dal Papa si è compreso che oggi le guerre non si possono più rischiare, nemmeno quando sono giuste (e quella dell’Ucraina contro la Russia che invade è più che giusta).
Solo i dinosauri potrebbero ritenere che con l’evolversi del tempo le guerre rimangano uguali a quelle della loro epoca; o che i nuovi eroi da sacrificare (i giovani ucraini che è naturale vogliano rispondere all’aggressore) possano essere come i famosi eroi del nostro Risorgimento, fra questi quelli che sbarcarono a Sapri per combattere i Borboni. Ma che, come recita il testo che tutti conosciamo dalle elementari, «eran trecento, erano giovani e forti, e sono morti». Oggi un qualsiasi conflitto potrebbe innescarne uno che di morti potrebbe farne miliardi.
Il pacifismo, del resto, non si caratterizza solo per dire no alle armi. È, e ha provato ad essere, un movimento che riflette su come oggi deve e può essere regolata la politica internazionale, come sia possibile non rinunciare a battersi quando si è aggrediti ma occorra farlo con strumenti più adatti, politici e non militari.
E però di cosa sia il pacifismo reale, di come in particolare sia diventato un grande movimento popolare negli anni ’80 affollando le piazze europee di giovani armati dello slogan «per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali» – mai purtroppo diventato base della politica europea dopo la caduta del Muro –, si sa poco. Ed è per questo che è preziosa l’interessante pubblicazione da parte di Sbilanciamoci di un bel libretto collettivo che ne ricostruisce la fisionomia attraverso la voce di tanti, di ogni parte del mondo, che ne sono stati, e ne sono tutt’ora, protagonisti: I pacifisti e l’Ucraina. Le alternative alla guerra in Europa, curato da Martin Köhler (pacifista tedesco che a lungo si fermò a combattere con noi a Comiso), e Giulio Marcon (è un e-book che potete trovare sul sito sbilanciamoci.info, cui si può anche chiedere di averne un po’ di copie stampate).
Fra chi scrive, docenti della John Hopkins University, della City University di New York, della London School of Economics di Londra, del Quincy Institut di N.Y., della Scuola Normale Superiore di Firenze, della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, un deputato al Bundestag tedesco della Linke, il segretario del Movimento pacifista ucraino e un giornalista del New York Times.
Affrontati tutti i temi della vicenda attuale, anche raccontando le esperienze passate, e, inoltre, alcune – lucidissime – analisi dello stesso Kissinger su come sia facile entrare nelle guerre, ma quanto più difficile sia uscirne. «Io – dice l’ex potente sottosegretario del ministro Regan – nella mia carriera ne ho viste quattro e tutte sono terminate con ritiri unilaterali» (e ancora non aveva visto l’Afganistan). Un insegnamento per vinti e pseudovincitori.
(il manifesto, 6 aprile 2022)
di Martina Pala
Nel 1984 usciva per La Tartaruga Le signore della scrittura, opera prima di Sandra Petrignani. L’autrice si sarebbe affermata da lì in poi, tra le altre cose, come esperta di écriture féminine italiana del ventesimo secolo, dedicando la sua vita e la sua carriera a gettare luce su scrittrici più o meno note. Una missione, la sua, di cui ha sentito l’urgenza in tempi che oggi considereremmo non sospetti. Eppure, già nel 1984, Sandra Petrignani denunciava non solo un canone letterario monotono, unidimensionale e poco accogliente, ma metteva in guardia editoria, lettori e lettrici del pericolo tangente di dimenticare le poche eccezioni che fino a quel momento ne avevano fatto parte. Per questo decide, appunto, nel 1984, di pubblicare una raccolta di interviste ad autrici allora ancora viventi, tutte più che settantenni, con lo scopo di imporre e fissare le loro voci sempre più sbiadite.
Il fatto che a quasi quarant’anni di distanza La Tartaruga abbia deciso di ripubblicare questo volume, ormai diventato introvabile, rallegra e allarma allo stesso tempo. Scoraggia, infatti, che autrici «molto amate dai lettori (ma forse dovrei dire dalle lettrici, soprattutto)» come quelle qui intervistate, che tanto profondamente hanno segnato le sorti del loro secolo e di quella letteratura, debbano oggi essere riscoperte nonostante gli avvertimenti di Petrignani. Che la strada da percorrere fosse lunga nel 1984 e che lo sia ancora oggi, tanto da rendere queste interviste ancora più attuali, a tratti demoralizza. Non Petrignani, però, che negli anni ha continuato la sua battaglia letteraria (e politica) e torna a regalarci un cult della saggistica troppo poco conosciuto, e insieme, soprattutto, il coraggio di continuare il processo di riscoperta di autrici ingiustamente dimenticate.
Il suo lavoro dialoga con naturalezza con il ventunesimo secolo, come testimoniano molti passaggi del paratesto. Spiegando come, nel 1984, non abbia dovuto applicare nessuna selezione nella scelta delle autrici da intervistare, tante poche erano quelle che avevano potuto farsi strada fino a lì, Petrignani si unisce alla voce di Ferrante che nel suo ultimo volume, I margini e il dettato (e/o Edizioni, 2022), afferma provocatoriamente che ancora oggi non possiamo permetterci di lasciare al vento neanche un verso, quando si parla di écriture féminine: ennesima riprova che l’urgenza di allora è quella di oggi, e che questa ristampa è necessaria.
La nuova edizione di Le signore della scrittura non torna identica a se stessa, ma porta aggiunte preziose. A chiusura del volume troviamo, ora, una sezione bibliografica delle autrici intervistate, che sono ormai tutte scomparse; ad arricchire la sezione di Anna Maria Ortese c’è una lettera di Laura Lepetit (fondatrice della Tartaruga); una sezione dedicata a Natalia Ginzburg, esclusa nel 1984 perché non ultrasettantenne, è stata aggiunta.
La ristampa de Le signore della scrittura impone un confronto fecondissimo non solo tra le scrittrici intervistate a distanza di quarant’anni – chi è stata dimenticata? Dove e come si collocano le loro narrative oggi? Quali pensieri sono o meno ancora attuali? – ma anche, più in generale, tra il contesto contemporaneo e quello novecentesco. Se da una parte è innegabile che l’accesso delle donne alla scena letteraria sia oggi più facile e che, anzi, il mercato e il pubblico concedano una nuova e incuriosita attenzione alle scrittrici, dall’altra si tratta di un’attenzione spesso momentanea, che stenta a tradursi nella creazione di un canone scolastico e letterario autenticamente più eterogeneo. Il dibattito sull’argomento è acceso, e ci si muove consapevoli dell’arma a doppio taglio che rappresenta basarsi sul concetto novecentesco della differenza sessuale: a rileggere le interviste di autrici come Ginzburg o Morante (che pure sono tra le poche affermatesi indelebilmente) si percepisce forte il timore di essere isolate in un canone di sole autrici. Eppure, quello della riscoperta e della rivalutazione che Petrignani aveva iniziato e continua, è un passaggio obbligato, credo, nella speranza di imporre un processo più naturale di non esclusione di voci degne e segnanti della letteratura italiana.
Un altro confronto che sorge spontaneo è quello tra Petrignani autrice di allora e Petrignani oggi. La lucidità e la combattività, la consapevolezza e la tenacia, che traspaiono nella prima introduzione, si ritrovano identiche anche in questa nuova premessa al volume (nel quale l’introduzione del 1984 rimane così come era). È evidente l’imbarazzo pacato di una donna che si guarda teneramente quarant’anni dopo, capace di scorgere con sguardo severo errori (l’esclusione di Ginzburg per una rigidità di criteri tutta giovanile, per esempio) e cose che ora «cambierebbe. Ma va bene così». Di certo la prosa di Petrignani di oggi è più fluida e meno acerba, senza l’esigenza di dimostrare una certa poeticità, ma l’effetto complessivo, grazie alla struttura e al messaggio chiari, era vincente nel 1984 e lo è nel 2022. L’impressione è che al posto delle autrici, ancora in vita, che si preoccupavano di come la loro età anziana sarebbe apparsa in foto, ora c’è Petrignani, settantenne, più clemente, però, con se stessa, delle sue scrittrici.
Ma chi sono queste scrittrici?
Il volume si apre con Anna Banti, che pur avendo segnato profondamente ogni ambito da lei esplorato e tutto il suo secolo, oggi rimane un’autrice di nicchia, di cui si trova senza troppe difficoltà solo il capolavoro Artemisia e che, se torna ad essere ricordata, lo è quasi sempre come moglie di Roberto Longhi. Petrignani non riesce a prescindere da questa figura ingombrante, ma restituisce il ritratto di una autrice caparbia, controcorrente, severa, che si riconosce come emarginata in quanto scrittrice, ma che odia la definizione di femminista.
Quella femminista è una questione che il libro non poteva e non può evitare, e diventa infatti un tema ricorrente nelle interviste. Petrignani stessa, guardandosi indietro, si definisce «trentenne e femminista». Definizione che alcune delle sue autrici fanno fatica a digerire, o che allontanano con decisione. L’autrice della raccolta, nel suo paratesto, spiega lucidamente che queste scrittrici non sono e non possono essere femministe perché appartenenti a un’età che non contempla questa parola, anzi «se ne infastidiscono». E oggi? La nostra età la contempla? Le motivazioni che spingevano autrici di questo calibro ad allontanarsi dalla possibilità di essere inquadrate come femministe sono le stesse che nutrono lo scetticismo ancora contemporaneo nei confronti di un movimento sentito spesso come troppo radicale.
Il rischio che le parole di queste autrici avallino questo stato delle cose non è però da dare per scontato: c’è, indubbiamente; ma rimangono figlie del loro tempo, e soprattutto rimangono lucide osservatrici della realtà circostante. Il rifiuto del femminismo ufficiale non le esenta dal denunciare con estrema consapevolezza lo stato delle cose in cui vivono, il senso di esclusione e di ingiustizia che ammettono di soffrire e subire. Banti si riconosce al massimo in un femminismo umanista, perché «le donne sono cattive verso le altre donne»; eppure definisce come «un po’ femminista» il suo romanzo Lavinia fuggita, e ammette la sua contraddittorietà, messa in luce dall’intervistatrice, quando riconosce di vivere in una società che la svantaggia perché a misura di uomo.
Anche Natalia Ginzburg – di cui, dopo il successo della biografia La corsara (Neri Pozza, 2018), Petrignani torna a parlare in una finta intervista ricostruita a partire da tre colloqui diversi avuti nel 1982, 1986 e 1989 – che in articoli vari non si è mai spesa a favore dei movimenti femministi ufficiali, e la cui scrittura è stata spesso osannata da critici e colleghi perché abbastanza maschile, si ritrova a ragionare sulle componenti maschili o femminili del suo stile, e ad offrire personagge che sintetizzavano in modo aspro e spietato la loro condizione sociale. Eppure, la conclusione è la stessa che per Banti: un moderato umanesimo, che includa sì uno sguardo sulla madre, ma anche sul figlio.
Come Ginzburg in vita ha spesso ribadito di non voler essere chiamata scrittrice, così fa Elsa Morante nella sua pseudo-intervista – finzionale, infatti, è anche questo colloquio dal momento che la scrittrice già allora non concedeva più dichiarazioni. Anche il caso della romanziera italiana per eccellenza è tanto contraddittorio quanto interessante, e Petrignani riesce e restituirne tutto il fascino. Che la si chiami scrittore! D’altra parte «poche sono le donne veramente intelligenti», ma solo perché «scimmiottano l’uomo», spregiando «le loro grandi qualità femminili». E prendendone le distanze non significa, però, per Morante stessa ‘spregiarle’? La sua narrativa ci risponde: Ida, Nunziatella, Aracoeli, Santina, Mariuccia, Elisa e i loro ritratti mai stereotipati, le loro voci represse ma acute, le genealogie di livelli autoriali tutti femminili che creano sono la prova che Morante, nonostante tutto e nella pratica, non spreca le sue «grandi qualità femminili», ammesso che ne esistano di maschili o femminili. Insomma, la questione spinosa del (anti)femminismo è un fil rouge interessantissimo che conferisce unitarietà alla raccolta, che non impedisce alle autrici, anche le più contrariate, di denunciare la loro condizione svantaggiata di scrittrici e di donne in generale, e che fa dialogare posizioni diversissime.
Dopo un esordio letterario, incensato da Montale tra gli altri, Laudomia Bonanni fu completamente dimenticata, e solo molto di recente è stata riscoperta grazie agli interventi editoriali di Cliquot (che ha ripubblicato Il bambino di pietra) e Textus (che sta per ripubblicare Il fosso e La rappresaglia). Già Petrignani denunciava nel 1984 come i suoi libri fossero introvabili, e ne restituisce il profilo irriverente. Nel suo epistolario sono ricorrenti le polemiche nei confronti di una critica che la ignorava ingiustamente – scrive a giornalisti e critici per lamentarsene e richiede indietro libri mandati loro e ignorati – ma soprattutto riconosce in questo atteggiamento «una levata di scudi contro le donne». Neanche Bonanni si è mai definita femminista, eppure nei suoi romanzi riesce a mettere in crisi l’istituzione borghese della famiglia, il ruolo preconfezionato e imposto di madre e moglie, e a ‘narrativizzare’ nevrosi esclusivamente femminili. E tutto questo è perfettamente sintetizzato nella sezione che Petrignani le dedica.
Meno scettica nei confronti del femminismo è sicuramente Alba de Céspedes, il cui capolavoro Dalla parte di lei è stato ristampato solo l’anno scorso da Mondadori, dopo decenni di silenzio scandaloso. Petrignani la ritrae nella sua forza proverbiale, piena delle sue consapevolezze politiche, meno restia delle altre a schierarsi e a definirsi. D’altra parte, ha iniziato a scrivere a sei anni «una poesia dedicata alle donne che lavorano e che soffrono»: un inizio profetico della sua narrativa successiva, dedicata alle amicizie femminili, così poco raccontate prima del recente successo ferrantiano, e all’importanza che questo tipo di alleanza privata può avere su un piano pubblico. Il dialogo amicale, pacato, ma che poneva su due piani diversi Ginzburg e de Céspedes quando nel 1948 parlarono su «Mercurio» del ‘vizio’ femminile di cadere in un «pozzo» di torpore e malinconia – portando solitudine per Ginzburg e solidarietà per de Céspedes – si ripresenta anche attraverso queste interviste, così efficaci nel ritrarre posizioni sì diverse, ma in dialogo costante.
Una consapevolezza altrettanto lucida, e che porta ad esiti simili a quelli di de Céspedes e alla sua interpretazione del ‘pozzo’, è anche quella che Petrignani riesce ad inquadrare nell’intervista a Livia De Stefani, che parla di «storia comune delle donne». De Stefani spiega come le sue velleità prima e il suo mestiere di scrittrice poi non siano mai stati presi sul serio, non poteva che essere un «capriccio» il suo. Forse per questo conveniva pretendere di essere considerate scrittori? Maria Bellonci, che nella sua intervista si spertica nel celebrare gli effetti terapeutici che la scrittura ha avuto nella sua vita e nella sua persona, è accostabile a queste ultime due autrici perché lei stessa, fondatrice insieme al marito del Premio Strega, non solo crea un salotto letterario di amici della domenica che ha modellato e dettato le tendenze letterarie e commerciali del ventesimo secolo italiano, ma per sua stessa ammissione ha dato vita a un «gineceo letterario» di cui tutte le autrici ricordate da Petrignani hanno fatto parte in un qualche momento della loro vita.
Petrignani eredita, in parte, questo onere di mettere insieme e in dialogo voci così diverse, ma che tanto condividono anche solo in quanto scrittrici. In dialogo, infatti, possono essere lette anche le interviste a Ginzburg e Lalla Romano: se alla prima non piace parlare di sé, la seconda rifugge l’autobiografia, di cui pure, puntualmente, le due sembrano non poter fare a meno, a patto di ibridizzarla. E di nuovo, Petrignani ci offre lo spunto per riflettere sulle modalità e sulle motivazioni dietro questa ritrosia nei confronti di un genere e un modo di scrivere affibbiati tradizionalmente alle donne, che per non vedersi emarginate finiscono per esprimere l’urgenza repressa di parlare di sé attraverso una frammentazione della loro soggettività in diversi personaggi e personagge. Il rischio di una etichetta che peserebbe e le emarginerebbe è sempre tenuto in considerazione con ansia e maestria. La stessa Romano racconta a Petrignani di come sia lei che Ginzburg (rispettivamente con La penombra e Lessico famigliare) furono «liquidate […] (anche da lettori fini e intelligenti quali Alberto Arbasino) come scrittrici di confessioni». Possiamo quindi biasimare la scelta di voler essere considerate scrittori?
Lo stesso senso di estraneità ed esclusione è reso dal titolo dell’intervista a Fausta Cialente, che si sente «straniera dappertutto». Il riferimento questa volta è ai suoi continui spostamenti in giro per l’Italia e per il mondo, ma anche la sua intervista denuncia un certo pregiudizio nei confronti di questa autrice (e delle autrici, in generale), che si è vista censurare Natalia per lesbismo. Sebbene sia poi riuscita a ristampare questo titolo, oggi anche lei, come altre sue colleghe qui celebrate, subisce oblio immeritato.
Tra i modelli letterari che le scrittrici intervistate citano non vi sono mai donne (quali poi, se loro stesse sono state estromesse dal canone?). Eppure, il dialogo costante tra le interviste avviene anche grazie al fatto che le autrici intervistate si citano in continuazione, come visto prima con Romano e Ginzburg, o come succede con Paola Masino e Anna Maria Ortese. La prima, nella sua spietata filippica contro la letteratura contemporanea italiana, cita la seconda come esempio di scrittrice che ha scelto «silenzio, povertà e oscurità», perché incapace di reggere il peso del dovere di creare legami e amicizie artistici e di come lei invece non possa farne a meno. Un dialogo oppositivo ma non unidirezionale se Anna Maria Ortese, nella terza intervista finzionale della raccolta (costruita a partire da uno scambio epistolare e che diventa un vero e proprio saggio filosofico) conferma inconsapevolmente quanto affermato da Masino quando denuncia il bisogno e la mancanza di «solitudine, silenzio e ombra». E anzi è impressionante l’esattezza dei termini che tornano quasi identici.
Ritratti così diversi, personalità così contraddittorie e antitetiche sono riuniti dalla maestria e dalle conoscenze di Petrignani in un’opera solo apparentemente frammentata, che cela un’omogeneità inaspettata, costruita su rimandi e domande ricorrenti. Perché se l’identità femminile stessa non può che essere fluida e frammentata in assenza di un modello universale che le includa e rappresenti, è condivisa però l’impressione che la condizione di «essere donna […] pesa ancora molto».
Sandra Petrignani, Le signore della scrittura (nuova edizione), Milano, La Tartaruga, 2022, pp. 144, € 17.
(labalenabianca.com, 1° aprile 2022)
di Daniela Pizzagalli
È il fratello maggiore il titolare del nuovo romanzo di Yasmina Reza Serge (Adelphi, pagine 186, euro 19,00) ma a raccontare è Jean, «quello di mezzo», che per destino e per vocazione fa da tramite fra «lo spericolato primogenito» e «Nana, la Cocca di mamma e papà». Quale dei tre fratelli Popper ha ideato per primo? Chiediamo all’autrice, arrivata in Italia per la presentazione del libro. «Il primo è stato Serge, ma ho subito pensato di affidare la voce narrante a un fratello, una soluzione più empatica rispetto al distacco dell’autore-narratore». La capacità d’immedesimazione appartiene profondamente a Yasmina Reza, la scrittrice parigina d’origine ebraica, figlia di un ingegnere iraniano e di una violinista ungherese, che si è affermata come drammaturga prima di cimentarsi nella narrativa. A soli ventiquattro anni, già attrice di teatro, nel 1983 ha esordito con la pièce Conversation après un enterrement vincendo il premio Molière, e ha poi collezionato premi per la drammaturgia a livello internazionale, con Art del 1994, rappresentato anche a Brodway, e con Il dio del massacro del 2007 portato sullo schermo da Roman Polanski nel 2011, col titolo Carnage. «Non pensavo alla narrativa – ci racconta – però scrivevo per me delle paginette di osservazioni su persone che conoscevo, o sui miei figli, cose brevi, quasi come fotografie scritte, e quando il mio editore nel 1997 mi ha chiesto se avevo qualcosa nel cassetto gliele ho date, non prevedendo il suo entusiasmo e l’immediata pubblicazione di Hammerklavier, un titolo musicale per il mio primo libro di racconti, non più disponibile in italiano, ma che Adelphi pubblicherà presto». Dopo il felice esordio nella narrativa, ha alternato ai drammi anche vari romanzi come Una desolazione del 1999, fino ai recenti Felici i felici del 2013 e Babilonia del 2016. L’avvenimento centrale di Serge è un viaggio ad Auschwitz compiuto dai tre fratelli per accontentare la ventenne Joséphine, figlia di Serge, attirata da un turismo della memoria sulle tracce dei nonni ungheresi, mai conosciuti, vittime della Shoa. «Auschwitz – afferma Reza – è diventata ormai una meta turistica, l’omologazione del turismo tende ad annullare le differenze. L’idea del romanzo mi è venuta pensando a una famiglia ebrea la cui gita ad Auschwitz viene messa in crisi dalla deflagrazione di un litigio e da un conflitto generazionale». A suscitare il dramma familiare è il dirompente Serge, «il re delle attività nebulose», che ha procacciato al nipote Victor, aspirante chef, uno stage in un albergo svizzero, e quando Victor gli scrive di non gradire l’offerta, s’infuria a tal punto da provocare una rottura in famiglia. Yasmina Reza crea sempre personaggi dalle mille sfaccettature, sa essere feroce e compassionevole nello stesso tempo: «Serge ha buone intenzioni, ama sentirsi utile – ci dice – ma non fa nessuno sforzo per capire le esigenze altrui, anche quando cerca un appartamento per Joséphine vuole imporre quello che piace a lui». Il malumore di Serge è anche un segnale dell’età che avanza: «Sai che la vecchiaia arriva da un giorno all’altro? – dice a Jean – Un giorno ti svegli e non riesci più a rimetterti in sesto, la vecchiaia ti salta alla gola…». La vecchiaia, la malattia e la morte sono i temi di fondo del romanzo, temi ultimi, temi seri che l’autrice riesce a rendere con calibrata iro- e rispettosa leggerezza, come avviene nel personaggio di Maurice, il cugino quasi centenario, ex bon vivant relegato a letto ma che non rinuncia al suo «champagnino». Nel romanzo Maurice è l’araldo di questi tre temi, con cui anche i fratelli dovranno poi misurarsi. «Anche a me piace molto Maurice e come si confronta con la vecchiaia, la malattia e la morte. Sono i temi ricorrenti in tutte le mie opere, a partire dal mio primo dramma, Conversazione dopo un funerale, in quel caso sulla morte del padre». Anche in Serge sono i rapporti familiari a fare da argine contro l’incombere della fine: «Accettiamo che la vita sia una faccenda di solitudine – dice Jean – fintanto che c’è un futuro». E sarà lui a far riavvicinare Serge e Nana, nonostante i due lo accusino di essere «il paladino di insulsi valori familiari». Jean accetta le critiche dei fratelli, addirittura dà ragione a Nana che lo definisce «uno sfigato», eppure è la colonna portante della famiglia. «È Jean che si denigra, ma io non lo vedo così. Jean non ha stima di sé, perché non ha abbastanza forza di volontà per farsi una famiglia, resta in bilico. Ci sono molti uomini così, che si sottovalutano, che hanno la sensazione di essersi persa la loro ‘ vera vita’, ripiegando su un’idea di fallimento personale». La differenza tra i due fratelli appare evidente anche nella scelta dei libri che si portano da leggere durante il viaggio ad Auschwitz: Jean I sommersi e i salvati di Primo Levi, Serge Il blasfemo di Singer. «Ciascuno di noi si era portato il proprio frammento di storia ebraica», commenta Jean. E l’autrice spiega: «Entrambi hanno scelto libri di autori ebrei, ma la scelta di Jean rispecchia un uomo di cultura, infatti lui è un buon lettore, uno che viene da studi scientifici e si vuol documentare, Serge invece è portato ai valori materiali, dice: ‘Sai cosa mi piace di Singer? Lo spazio che dà a tutti i piatti che mangiano i personaggi’. Ma attenzione a non semplificare troppo, i personaggi non si riducono alle loro letture» Ciascuno di loro ad Auschwitz cerca se stesso, solo Nana sembra esprimere la posizione convenzionale del turista della memoria. «Nana c’è andata per un dovere morale, si compiace di assorbire buoni sentimenti». Di agghiacciante attualità lo scambio di battute tra Nana e Jean: «Com’è possibile che degli uomini abbiano fatto una cosa del genere? È inconcepibile». «È concepibile invece. E succede ancora, sai».
(Avvenire, 26 marzo 2022)
di Angela Napoletano
Lo sguardo sul mondo post Covid-19 dell’attivista ambientale Vandana Shiva è un concentrato di ottimismo e speranza mescolate a una dose di consapevolezza dei limiti della natura umana e della sua storia. Nel suo ultimo libro, Dall’avidità alla cura. La rivoluzione necessaria per un’economia sostenibile, la scienziata di origine indiana analizza la “tempesta perfetta” che da tempo flagella il mondo – emergenza climatica, instabilità economica, fragilità sociale e crisi democratica – per rilanciare un appello che, oggi, con la pandemia intervenuta ad esasperare quelle criticità, è forse ancor più urgente: “dobbiamo trovare il modo di riconciliarci con il Pianeta”. L’invito a tornare alla Terra, inteso come recupero di una relazione positiva con l’ambiente provata da secoli di sfruttamento smodato, è il leitmotiv del saggio (pubblicato da Emi in prima edizione mondiale). Ma la riflessione di Shiva, classe 1952, tra gli ambientalisti più famosi al mondo, nota in particolare per il suo impegno contro l’industria dei prodotti geneticamente modificati, non è solo ecologica. L’interconnessione tra i viventi, il rispetto degli equilibri dell’ecosistema, la distribuzione bilanciata delle ricchezze sono la base “verde” su cui si regge il modello economico della cura, l’unico, a suo dire, che può “inaugurare una nuova fase della democrazia globale”.
«Sono cresciuta all’insegna del bellissimo precetto – racconta in collegamento da New Delhi – secondo cui è solo dando che si riceve». Gratuità, reciprocità, condivisione sono i principi che regolano il “circolo del dono”, il meccanismo che genera benessere e prosperità. La legge del dare, spiega, consente di «superare le false categorie dell’estrattivismo, dell’affarismo, della crescita senza fine», di uscire dalla logica della cosiddetta “dis-economia” e di impedire «all’avidità senza freni di pochi di trasformare l’abbondanza in scarsità, il diritto in privilegio». Convinta che la matrice culturale degli squilibri odierni affondi le radici nel dualismo cartesiano tra mente e corpo, tra uomo e ambiente. L’attivista ammette senza esitazione di non sentirsi sola nella rivoluzione per un’economia sostenibile che va predicando. Fa squadra con i piccoli agricoltori locali e con gli scienziati ecologisti di tutto il mondo, i cui saperi, precisa in un passaggio del saggio, «stanno convergendo per plasmare la nascente epistemologia della cura». Teoria quantistica affiancata a studio delle tradizioni e scienza dei sistemi viventi auto-organizzati. «Non cerco compagnia – sottolinea – nella comunità delle istituzioni economiche internazionali». Fonte di ispirazione delle sue ricerche e delle sue campagne sono, piuttosto, gli insegnamenti di Papa Bergoglio sulla tutela del Creato condensati nell’enciclica Laudato si’. La scienziata ha partecipato al laboratorio internazionale di idee ed esperienze, “The Economy of Francesco”, sollecitato dal Santo Padre per individuare soluzioni per un’economia più “inclusiva e attenta agli ultimi”. «Una finestra di discussione privilegiata sul tema», spiega, «che ha contribuito a rinvigorire le mie idee». Il richiamo di Francesco, precisa, «a considerare gli altri esseri umani come fratelli e sorelle di una stessa famiglia, piuttosto che come oggetti da possedere o manipolare, ha rafforzato la mia idea di democrazia della Terra». Visione basata sul principio che tutti gli esseri umani hanno diritto ad accedere alle risorse del pianeta quindi ad avere cibo, acqua, aria pulita, ambiente sano e sicuro. L’evidenza che questa, non altre, è la strada da seguire arriva, puntualizza, «dalle crisi multiple del mondo reale che la pandemia ha solo esasperato».
Shiva parla del Covid-19, “sintomo” della violazione dell’“integrità degli ecosistemi!, in un parallelo con il “virus dell’avidità”. «Possiamo vivere in un mondo unito dalla diffusione di malattie come il Coronavirus – scrive nel libro – invadendo le case di altre specie, manipolando piante e animali per trarne profitto commerciale, oppure… vivere in un mondo unito dalla salute e dal benessere di tutti, proteggendo la biodiversità». La speranza è che la seconda opzione prevalga sulla prima. «Molte persone – commenta – hanno iniziato a prenderne consapevolezza, con coraggio, proprio durante i lockdown disposti durante la pandemia quando la posta in gioco è apparsa chiara: vivere o non vivere». Cura è femmina. La riflessione di Shiva non può prescindere dal ruolo delle donne nell’economia sostenibile. «Parte di ciò che ha causato il colonialismo in secoli di cultura patriarcale – osserva – è l’idea di una terra morta, vuota, e di donne come oggetti». Centrale, per questo, è la forza di quante in futuro «si lasceranno svegliare dalla bellezza della terra – aggiunge – cominciando a lottare per questa, prendendosene cura come se fosse il proprio corpo». L’ecofemminismo, promette, «diventerà sempre più determinante». La “decolonizzazione” dei modelli economici e sociali odierni e la presa di coscienza dell’interconnessione tra uomo e l’ambiente sono, in sintesi, «un dovere oltre che un diritto». La posta in ballo è la stessa sopravvivenza dell’umanità. «Sogno che presto – conclude – tutti imparino ad abitare il pianeta come se fosse un giardino, non una miniera da sfruttare, coltivato nella diversità e nella mutualità. Vivente. Un orto in cui ciascuno si prenda cura del terreno e dei semi piantati. I fiori che ne verranno saranno l’unica cosa di cui avremo bisogno per continuare a vivere». E per essere davvero liberi.
(Avvenire, 23 marzo 2022)
di Redazione
È uscito il numero 61 della Rivista DUODA Estudis de la differència sexual del Centro di ricerca dell’Università di Barcellona. «La rivista DUODA, fondata nel 1991, pubblica la scrittura femminile di prosatrici, poete e artiste che conoscono il mistero della lingua materna e sanno vivere, studiare, pensare e creare sentendo il simbolico della madre nato dall’armonia del caos.» I testi sono scritti in catalano o in castigliano e si possono leggere e scaricare liberamente dal sito RACO (Revistes Catalanes amb Accéss Obert): https://raco.cat/index.php/DUODA/issue/view/29959
La direttora Laura Mercader Amigό nell’editoriale afferma che questo è un numero speciale perché è anche una celebrazione. Le sue parole: «Annunciamo l’avvento chiave per la vita delle donne oggi, quelle del mondo occidentale e di qualunque mondo dove circola libertà femminile. L’arrivo dell’Era della Perla e dell’epoca delle acque di Tiamat, il tempo del patriarcato agonizzante».
La rivista inizia con due articoli:
Neus Maria Calvo Escamilla scrive della Ricostruzione del sesso della Dea (Gea-Gaia), facendo riferimento al Tempio di Delfi con un’ironica ed efficace vignetta di Pat Carra.
Laura Minguzzi in Attingere al proprio sentire: la sorgente viva della libertà femminile, nella sua lezione magistrale racconta la sua traiettoria di vita strettamente connessa alla sua pratica politica del desiderio attraverso i luoghi creati o scelti, la rete di relazioni preferenziali, le opere, sullo sfondo del femminismo della differenza (Libreria delle donne di Milano, Circolo della rosa, Comunità di Storia Vivente). Alcune immagini del libro d’artista di Rosy Daniello della Comunità di Storia Vivente di Foggia concludono la comunicazione. Segue la trascrizione di un colloquio sulle questioni poste.
La seconda parte riguarda il Tema Monografico dal titolo Madre senza coito di corpi e di concetti, con le relazioni rispettivamente di Laura Mercader A. che presenta il XXXII Seminario pubblico internazionale di DUODA, di Barbara Verzini che espone la sua ricerca su La madre, il mare e la rana. Armonia dal Caos di Tiamat, di Marίa Milagros Rivera Garretas sul Piacere di concepire corpi senza coito e concetti senza fallo, e i dibattiti che hanno suscitato.
Seguono colloqui di altre relatrici sui temi del Seminario annuale.
L’ultima parte del numero 61 della Rivista è dedicata a un Progetto d’Artista di Marta Vergonyόs Cabratosa, Mar Serinyà Gou, Rosa Pou Batlle.
(www.libreriadelledonne.it, 21 marzo 2022)