di Bianca Bottero
Confrontandosi originalmente con una vicenda che lei, giovane donna, ha solo letto nei libri e sentito narrare, Benedetta Tobagi affronta in questo che possiamo definire romanzo/ricerca, due dei topoi che oggi si presentano in modo dirompente, ma sovente distorto, banalizzato, reso, per la troppa enfasi addirittura disturbante: sono il topos del femminismo da un lato e quello della resistenza dall’altro.
Con l’obiettivo, da lei espresso nella recente presentazione del libro il 13 maggio presso la Libreria delle donne di Milano, di «far respirare la storia», Benedetta Tobagi costruisce infatti una sorta di Spoon River al femminile, dove una infinità di donne si affollano, conservando il loro nome e cognome oltre a quello assunto nella resistenza, ma insieme le loro storie di vita, fornite per piccolissimi accenni ma fondamentali a caratterizzarne i moventi, le debolezze, i sentimenti. È uno stuolo femminile che acquista con ciò una concretezza e insieme una sostanza quasi di elemento naturale, mai ideologico, mai banale o ovvio. Né ovvie o banali sono le fotografie, in bianco e nero, piccole, sfocate, che Tobagi ha puntigliosamente cercato e affiancato ai nomi delle donne citate, che sono con volti segnati o ridenti, graziosi o fatali o come si sia; gruppi di donne/natura mi verrebbe da dire, per come si rapportano tra loro, per come, lentamente fioriscono a una vita per loro nuova e insperata di libertà. È così che rileggere nel testo la ricorrente affermazione «Ho fatto quel che dovevo fare» quando, nella fase drammatica del dopo l’8 settembre, migliaia di donne del sud e del nord hanno nascosto, vestito, sfamato i ragazzi soldati, lasciati senza qualsiasi forma di guida da parte dei loro comandanti, fuggiti dalle caserme, lontani da casa, alla mercè della immediata reazione nazista contro i traditori italiani, accende una luce importante su di un mondo, prevalentemente popolare, operaio, contadino, che ha visto e patito le sofferenze della guerra come una sopraffazione, ulteriore rispetto a quella cui da tempo immemorabile sono soggette le classi più umili, ma che non ha comunque smarrito quel dono di umanità che in gran parte lo contraddistingue e che in particolare fa emergere dal misconosciuto, indistinto universo femminile, una formidabile, epica, dignità. È da questa premessa, da questo primo atto di opposizione al sopruso e per la vita, che nasce lo spirito più vivo e vero della futura resistenza delle donne. Che anche in seguito, quando nel centro-nord si costituiranno le formazioni di giovani combattenti, guidate da uomini, si affiancheranno ai gruppi, indossando pantaloni, rompendo i tabù millenari che le volevano in gonne, sfidando anche maldicenze e divieti familiari. E rappresenteranno anche un importantissimo aiuto, col rischio della vita, nel creare collegamenti, nel fornire armi e volantini alle varie bande partigiane, nel dare generosamente cibo, nascondiglio e supporto ai gruppi o ai singoli sbandati.
Ma, come continuamente ripreso e sottolineato da Benedetta Tobagi, pur entro questa gloriosa e anche gioiosa impresa, mai viene meno la convinzione, propria alla millenaria società patriarcale, fortissima in Italia, della ovvia inferiorità femminile. Se solo indicativo è il termine di staffette per le donne che agiscono nei collegamenti, ritenuto più adatto di quello di portaordini utilizzato per gli uomini, più gravi e mortificanti sono le imposizioni di comportamenti e doveri. Così nelle sfilate vittoriose non si vorrà che le donne partecipino, così è giudicato improprio l’abbandono della gonna per indossare i pantaloni, così i mariti rimbrotteranno duramente le mogli per mancanze nei lavori di casa, così lo stesso PCI affonderà le critiche per comportamenti ritenuti troppo liberi… È una situazione alla quale le donne stesse finiscono per assoggettarsi, che addirittura introiettano e alla quale in molti casi tornano a sottomettersi dopo la grande avventura di libertà vissuta nella resistenza.
Ma non tutto è stato solo Libertà: e mi ha fatto sobbalzare in chiusura del libro il ritorno di Tobagi in prima persona, a raccontare un fatto straziante che le pertiene direttamente. È la storia di Virginia Tonelli, una “staffetta”, «…mandata in missione a Trieste dove l’arrestano. Finisce alla Risiera di San Sabba, il lager triestino, l’unico campo di concentramento italiano dotato di forni crematori dove, dopo dieci giorni di torture, a 42 anni viene arsa viva perché si è rifiutata di parlare… Virginia, lo stesso nome della madre di mia madre… Virginia, alias la partigiana Luisa, il nome della mia nonna paterna… con un sorriso che ti regala l’anima, il mio possibile dentro il passato». Benedetta Tobagi, che ha vissuto il trauma dell’uccisione del padre negli anni ’80 da parte di incoscienti “rivoluzionari”, finisce il libro, finora così pacato, in un richiamo appassionato a una spirituale affinità a una donna, una sovversiva, una partigiana comunista dagli occhi ardenti che «trasformava in silenzio l’odio».
(www.libreriadelledonne.it, 24 maggio 2023)
di Redazione Erbacce – Illustrazione di Piera Bosotti

Dopo aver letto il libro L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane* abbiamo voluto conoscere l’autrice, Lucia Tozzi, tale era l’empatia con il suo tono analitico, tagliente e a tratti satirico. In particolare le abbiamo chiesto di approfondire la questione del Museo della Resistenza, in attesa dell’incontro del 31 maggio alle ore 18 al Circolo Combattenti nell’area verde, con glicine e tigli secolari, destinata al museo. Lucia è una studiosa e una pasionaria delle politiche urbane; tra i suoi libri Dopo il turismo e Napoli. Contro il panorama.
Nel tuo libro capovolgi la narrazione euforica di una città, Milano, che negli anni pre- e post-Expo si è trasformata in una metropoli del lusso. La definisci inventata, più che reale, da poteri economici che hanno interessi ben ancorati alla realtà. Quali sono i punti centrali della riflessione?
Il primo punto è il passaggio da una città che nel bene e nel male era fondata sulla produzione di merci, di cultura, di lavoro sociale a una città “attrattiva”, intenta a produrre solo un’immagine capace di attrarre i flussi finanziari e turistici, o gli abitanti a breve termine come expat e studenti. È avvenuto con l’Expo, ed è costato grandi sacrifici alla popolazione più fragile, che è stata espulsa dalla valorizzazione, dalla rendita elevata a metro e obbiettivo della crescita urbana.
Il secondo punto, fondamentale, è l’affossamento del conflitto e della capacità critica, ottenuto attraverso una forma molto profonda di propaganda che nega ogni contraddizione tra questo modello violento di crescita, fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, e la possibilità di assicurare a tutti i cittadini i servizi pubblici, lo spazio pubblico, il diritto di abitare in modo decente.
Come sono state trattate le voci critiche e le forze antagoniste?
Insieme alla propaganda mediatica, è stata cruciale l’elaborazione, a partire dalla giunta Pisapia, di forme di finta partecipazione, di stampo neoliberale, che in modo ricattatorio pretendono forme di “attivazione” dei cittadini che assomigliano molto a un consenso forzato. Sono state create reti claustrofobiche legate al sistema dei bandi, da cui non è facile smarcarsi e in cui è repressa ogni forma di critica anche velata. Di fatto, in questo modo si è avallato, attraverso la sussidiarietà spinta a livelli estremi, un regime di privatizzazione di servizi e spazi allocati a privati e terzo settore, ma spacciati per tutela del bene comune.
Negli ultimi mesi è ripresa la lotta in difesa del glicine e degli alberi secolari di Porta Volta/Garibaldi, in un’area verde gestita dal Circolo combattenti e dal Giardino Lea Garofalo. Lì dovrebbe sorgere la seconda piramide di vetro e cemento degli archistar Herzog & De Meuron, destinata questa volta al Museo della Resistenza, dopo quella di Fondazione Feltrinelli e Microsoft.
Si, quell’area sembrava a un certo punto destinata a rimanere libera, perché il Comune, proprietario, non sapeva bene a chi destinare questa piramide speculare a quella Feltrinelli-Microsoft, che avrebbe dovuto completare il progetto iniziato nel 2015 da Feltrinelli e Coima. Erano andati a vuoto parecchi bandi, e i cittadini che gestivano il Giardino Lea Galofaro hanno cominciato a protestare, chiedendo nel 2019 di lasciare intatta questa area verde, per lasciare riposare lo sguardo in un tessuto urbano così denso. A quel punto, dicembre 2019, il ministro Franceschini annunciò un finanziamento di 15 milioni per sistemare nella piramide il Museo Nazionale della Resistenza, in uno spazio di 2500 metri quadrati. Ne scaturirono molte critiche intelligenti, ricordo in particolare quella del collettivo MiRiconosci? ma anche tantissime altre. Poi con il Covid, e soprattutto con il clima sospeso per la rielezione di Sala nel 2021, un lungo silenzio. Fino a qualche mese fa.
Alcuni consiglieri comunali (in primis Monguzzi) hanno chiesto una piccola revisione della piramide per salvare glicine e tigli, mantenendo la costruzione. Che cosa ne pensi?
Il problema non sono solo il glicine e i tigli: quel progetto non ha più alcun senso, il museo va fatto da qualche altra parte senza consumare suolo, in qualcuno dei tantissimi edifici in disuso presenti in città.
Le contraddizioni sono molte: il Ministero della cultura del governo attuale potrebbe esigere una sezione dedicata alle foibe, per esempio. O approfittare delle critiche e dei conflitti per eliminare del tutto il MdR, non sono ipotesi da sottovalutare.
Al di là delle foibe, la memoria sui fatti del fascismo e della Resistenza è diventata un terreno di battaglia così conteso, e così strategico dal punto di vista simbolico, da ostacolare a volte la stessa ricerca storica. Personalmente credo che il comitato scientifico sia talmente autorevole da offrire una garanzia assoluta contro qualsiasi ipotesi del genere: non riesco a pensare a membri dell’Anpi o dell’Istituto Ferruccio Parri disposti a contrattare versioni edulcorate o alterate della storia di quegli anni. Ma esiste un rischio più che concreto che un governo così attento a contrastare ogni forma di cultura simbolicamente avversa spinga il progetto del Museo della Resistenza solo in funzione della cantierizzazione della piramide, e poi lo faccia fallire ancor prima di vedere la luce. Secondo me un Museo Nazionale della Resistenza non può e non deve nascere in un contesto del genere, in cui governo e opposizione attuano identiche politiche neoliberali e si scontrano solo sul piano simbolico. L’idea di cultura che condividono è in sostanza quella di una vacca da mungere per ricavarne denaro e soft power. Sono certa che oltre a qualche irricevibile proposta di memoria delle foibe potrebbe arrivare la richiesta di progettare il museo come una Resistenza Experience, con tanto di oculus e strutture interattive, o come diceva Battiato “proiettori e raggi laser”. E non sarebbe meno degradante e pericoloso.
L’uso strumentale delle buone cause per assicurarsi il consenso o almeno il silenzio è un fenomeno diffuso a Milano?
Assolutamente sì, un altro esempio terribile oltre al Museo della Resistenza è il caso del progetto di moschea localizzato a via Esterle perché funzionale allo sgombero degli occupanti di una palazzina pubblica: decine di riders, famiglie, persone che difficilmente troveranno altre collocazioni. È il miglior sistema per dividere il fronte dell’opposizione: chi contesta la moschea viene subito tacciato di essere razzista e islamofobo, così come qualsiasi dubbio sul Museo della Resistenza viene messo a tacere come espressione di complicità con la cultura fascista.
I conflitti aperti qui e là, come quello per lo stadio a San Siro, e le proteste degli studenti che non trovano casa, hanno aperto una crepa nella splendente vetrina del Modello Milano; non è più così facile, per le istituzioni e i gruppi finanziari, andare avanti indisturbati. Secondo te l’invenzione di Milano è una bolla che può scoppiare?
Potrebbe, ma dobbiamo essere molto bravi, perché il discorso pubblico tenta continuamente di appropriarsi delle istanze meno aggressive della critica per ricondurle nell’alveo di un discorso conciliatorio, focalizzato sul “si può fare di più, si può fare meglio”. Come se fosse solo un problema di efficienza, di riduzione delle “esternalità negative” e non di cambiare radicalmente la direzione politica. I media che fino a ieri gareggiavano a tessere le lodi del Modello ora rincorrono gli studenti, interrogano personaggi mediatori e cercano di far passare la tesi che il problema del caro affitti esiste, ma si risolve con qualche studentato pubblico-privato e qualche briciola di housing sociale. I politici che da anni governano questa città e hanno spinto con tutte le loro forze per valorizzarne ogni metro quadro, oggi riconoscono che in effetti “lasciare indietro le persone fragili” non è propriamente democratico, ma continuano a scaricare la responsabilità sul governo nazionale o a proporre come soluzione la privatizzazione a oltranza del patrimonio e dei servizi pubblici: stadi, piscine, centri sportivi, biblioteche, addirittura le case popolari, come sta cercando di fare Maran, assessore alla Casa.
*L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio 2023)
(Erbacce.org, 23 maggio 2023)
di Franca Fortunato
«Ho un carcinoma renale al quarto stadio, da cui non si torna indietro, mi restano mesi da vivere, ma la morte non mi fa paura» è la confessione choc che Michela Murgia ha fatto al Corriere della Sera in un’intervista ad Aldo Cazzullo, parlando del suo ultimo libro Tre ciotole – Rituali per un anno di crisi edito da Mondadori, da pochi giorni in libreria. Il libro con le sue dodici storie, l’una diversa dall’altra, si apre con il dialogo in terza persona tra lei e l’oncologo che le comunica la diagnosi e le spiega che quel carcinoma non è un nemico da combattere, da distruggere, ma «un complice della sua complessità, una parte disorientante del suo corpo sofisticato […], niente di più di un compagno» che sbaglia. «Il cancro non è una cosa che ho, è una cosa che sono» e lei non ha «voglia né forze di fare la guerra a sé stessa». A quel tumore (lei) la protagonista dà un nome coreano “I am”, perché «usare un termine che veniva dall’altra parte del mondo poneva una distanza tra sé e la diagnosi che le pareva l’unica sostenibile in quel momento». In tutti i racconti le/i protagoniste/i, all’interno dell’anno di pandemia, vivono una crisi soggettiva e per sopravvivere emotivamente trovano soluzioni inedite e impreviste. Tutte/i non hanno un nome ma solo la voce con cui si raccontano. In ogni storia autobiografia e non autobiografia si mescolano e tutte insieme come in un mosaico ci restituiscono l’autrice con le sue idee politiche, le sue lotte, le sue convinzioni, la sua vita dopo la diagnosi, vissuta con la consapevolezza di non avere molto tempo da vivere ma abbastanza per prepararsi e preparare alla sua morte chi le vuole bene. Le tre ciotole da cui prende il titolo il libro, comprate dalla protagonista di una delle storie, sono quelle in cui l’autrice mangia un pungo di riso, qualche pezzo di pesce o di pollo e qualche verdura per tenere a bada gli improvvisi conati di vomito. Nel racconto della moglie che non vuole che il marito venga tenuto in vita dalle macchine c’è lei che dice «posso sopportare molto il dolore, ma non di non essere presente a me stessa. Chi mi vuole bene sa cosa deve fare». Lei credente in un Dio relazionale a quella donna fa dire «ho passato la vita a fare scelte per il bene di mio marito e alla fine non è stato diverso. Su quel letto in terapia intensiva […], non vedevo più l’uomo che avevo sposato. Non avevo scelta. Non so se Dio mi chiederà conto di aver creduto più alla sua misericordia che alla scienza». La malattia rievoca antiche insofferenze come quella per i piatti, legata ai suoi genitori che «si erano distrutti addosso interi servizi di piatti con una frequenza tale che quando raccoglievamo i cocci dell’ultima lite trovavamo ancora sotto al divano le schegge di quelle precedenti». Nel racconto della donna che odia i bambini ma acconsente a metterne al mondo uno per dare un figlio al suo amico d’infanzia e alla moglie e in quella del professore che dice di essere con sua moglie “in attesa” dopo «una gravidanza prima difficile, poi impossibile e infine surrogata», c’è il pensiero dell’autrice su quella pratica. Lei che conosce la fine della sua storia chiude il libro con il racconto di un rito, che ha inaugurato al suo cinquantesimo compleanno. La protagonista organizza «un pranzo di addio per la sorella morta con i suoi vestiti appesi agli alberi» perché le amiche e gli amici invitati potessero scegliere «il ricordo da portare via» e portarsi, così, «a casa un pezzetto di lei». Alla fine delle storie il libro si rivela il romanzo di una vita vissuta e l’accettazione della morte con serenità, coraggio e dignità.
(Il Quotidiano del Sud, 20 maggio 2023)
di Emi Monteneri
Il 10 maggio 1924 nasceva a Catania Goliarda Sapienza. Dai genitori, entrambi figure di spicco della sinistra italiana, riceve un’educazione alternativa alle scuole del regime fascista, improntata ad un forte senso di libertà. Scrittrice e attrice, ha lavorato con Luchino Visconti e Citto Maselli, suo compagno per tredici anni. Per celebrare quello che sarebbe stato il suo novantanovesimo compleanno, proponiamo un estratto dal volume collettaneo “Le personagge sono voci interiori”,
dove Emi Monteneri immagina una intervista impossibile a Goliarda Sapienza, a partire dai luoghi e dalle persone della sua infanzia.
Goliarda non è stato un amore a prima vista. L’ho conosciuta con colpevole ritardo. Inizialmente non riuscivo a superare le prime cinquanta pagine de L’arte della gioia: troppi delitti, troppo dolore. Non capivo. Non ero pronta. Poi l’incontro “vero”, che mi ha ricondotta alla lettura del romanzo, cioè a Modesta, legandomi a lei inesorabilmente. Ma l’esplosione amorosa è avvenuta con Io, Jean Gabin. Goliarda mi parlava, e si raccontava, costringendomi a ripercorrere la sua esistenza, e quindi la sua scrittura dove si ricomponeva un sistema che creava mondo, che creava un nuovo senso di vita. Allora ho dovuto superare un senso di colpa divorante: cosa facevo, cosa leggevo mentre lei si dibatteva tra mille difficoltà? Mi dava angoscia scoprire in me la stessa indifferenza, o ignoranza, che ha contraddistinto persone che la circondavano e che non ne hanno scoperto il giusto valore. Il riconoscimento di disparità agiva in me in modo imprevisto e infantile, ma scoprire le fragilità di colei che sempre più si configurava come una “madre simbolica” me la rendeva affettivamente vicina, anche se il tributo alla sua autorità mi imponeva un doveroso distacco.
È stata proprio la scrittura di Goliarda a consentirmi di riequilibrare le distanze e accostarmi a lei per un confronto sereno.
Oggi mi piace ritrovarla nei luoghi della sua infanzia e percorrerli insieme: la Civita, il cinema Mirone… Dialogo dai toni diversi, ora ciarliero, ora pacato, o muto, quasi interiorizzato, seguendo con pensieri sospesi la sua voce resa unica da quella inflessione catanese che tanto la fece penare all’Accademia d’Arte Drammatica, e che adesso fa eco e si dilata dentro di me. Goliarda, scrittrice, attrice e donna di spettacolo si è sempre rivolta al suo pubblico di lettrici e lettori in un dialogo continuo, come con un pubblico teatrale. Goliarda artista poliedrica ma semplice ed essenziale.
Alla radice della sua arte sta la ricerca inesausta di “purezza” che conduce alla libertà. Goliarda scrittrice e personaggia, mente e corpo della sua scrittura, che porta in giro e mostra sempre la sua essenza di donna libera, la cui origine siciliana, profondamente radicata, non coincide mai con alcuno stereotipo, che, anzi, irrispettosa, nella vita come nella scrittura, di tutti gli schemi preordinati, rompe e attraversa tutti i modelli stereotipati. Lei “odia” – come si può odiare un nemico, o, ciò che è lo stesso, un ostacolo alla libertà dell’esistenza – tutte le manifestazioni di miseria femminile: vittimismo, rinuncia, dipendenza affettiva e materiale, mansuetudine, e, come fa Virginia Woolf con l’angelo del focolare, semplicemente “le uccide” perché mortifere e indegne della grandezza femminile. Grandezza che lei riconosce alla sua magnifica e inafferrabile madre, la socialista rivoluzionaria Maria Giudice. In tutti i romanzi di Goliarda Sapienza, almeno in quelli che ho letto, individuo una ricerca ed un omaggio continuo alla grandezza materna, a partire da quella della propria madre.
La madre e la galera, argomenti non tanto lontani come potrebbero sembrare, saranno i temi brevemente trattati in questa “intervista impossibile”.
Ma ecco Goliarda mi/ci parla, attraversando il tempo e giungendo a noi con la ricchezza del suo pensiero e dell’amore di vita che trasmettono sempre le sue parole.
Goliarda Sapienza è nata a Catania nel 1924 e morta a Gaeta nel 1996. Dai genitori, entrambi figure di spicco della sinistra italiana, riceve un’educazione alternativa alle scuole del regime fascista, improntata ad un forte senso di libertà.
A partire dai sedici anni visse a Roma, dove studiò all’Accademia di Arte Drammatica. Negli anni Cinquanta e Sessanta recitò come attrice di teatro e di cinema, lavorando, tra gli altri, con Luchino Visconti (in Senso), Alessandro Blasetti, Citto Maselli, di cui fu la compagna per tredici anni. Al suo primo romanzo, Lettera aperta (1967), seguirono Il filo di mezzogiorno (1969), L’Università di Rebibbia (1983), Le certezze del dubbio (1987) e, postumi, L’arte della gioia (1998), romanzo di tutta una vita, a cui si dedicò per oltre dieci anni senza trovare alcun editore disposto a pubblicarlo; i racconti Destino coatto (2002), il romanzo Io, Jean Gabin (2010), Il vizio di parlare a me stessa (2011), raccolta significativa di appunti tratti dai suoi numerosi e famosi taccuini.
Intervistatrice: Che bello il tuo nome, Goliarda, bello e raro.
Goliarda: Mi hanno messo nome Goliarda. Mio padre me lo mise, essendo ateo, perché era un nome senza santi. Con questo nome, da bambina, mi sentivo sola: non c’era nessuna Goliarda o Goliardo in tutta Catania e, per me, in tutto il mondo. Cominciai a dire che mi chiamavo Maria: era il nome di mia madre, e quindi non doveva essere un furto troppo rilevante.
I.: Grande famiglia, la tua.
G.: Mio padre, l’avvocato Sapienza, era un socialista con il vizio dell’assistenza. I più lerci delinquenti lui li raccoglieva all’uscita dal carcere e li sistemava o a casa propria o in qualche ufficio così noi avevamo sempre qualche avanzo di galera che puliva i vetri, lucidava le scarpe o accendeva il fuoco. Anche donne. La nostra Tina, per esempio. Aveva una voce dolce e cucinava favolose frittate, ma nella sua giovinezza gloriosa aveva ucciso a colpi di lupara, mentre facevano l’amore, il fidanzato e la sorella. E poi c’era Zoe che di tanto in tanto la sostituiva e di notte si aggirava con un coltellaccio nascosto in seno. Aveva ucciso, a coltellate, la madre e ferito il fidanzato.
I.: E i tuoi fratelli?
G.: Ogni tanto venivano i fascisti a strapazzarli un po’ e papà correva in questura per farli rilasciare, ma quando zoppicando tornavano a casa, trovavano pronto brodo, bollito, e una bella bistecca da mettere sull’occhio nero. Troppe ne ho viste di queste visite.
I.: Il quartiere della Civita, denso di storia e di misteri, ti ha vista attraversarlo spavalda, imitando il passo di Jean Gabin, il tuo eroe. Oggi della Civita, cioè il quartiere di S. Berillo, sventrata nel 1954, resta ben poco.
G.: Quello che non hanno fatto i fascisti, lo hanno fatto i democristiani. La Civita, di notte, quando i bassi erano chiusi, svegliava i suoi mostri scolpiti in quella pietra affilata e nera, e cominciava a risonare di gemiti, grugniti, fiati lunghi di serpenti, meduse e melusine…
I.: Dove abitavi?
G.: In via Pistone. Di notte c’era sempre una scusa per far baldoria. La gente attiva, piena di vita, magra e scattante, insomma, antifascista, dorme poco e non si annoia mai. E se qualcuno del palazzo osava replicare, allora la lama del mio stocco verbale usciva dal legno a graffiare: non viviamo di marcia rendita borghese, noi! Né lasciamo che il Duce o un santo qualsiasi pensi a noi. Prova a vivere libero, e vedrai il tempo che ti resta per dormire.
I.: Come vissuto la tua infanzia? Andavi a scuola?
G.: I miei genitori non volevano che frequentassi la scuola fascista. La mia divisa di piccola italiana è stata bruciata sul terrazzo. Passavo lunghi pomeriggi al Cinema Mirone o all’Arena Bellini. In fondo a casa preferivano sapermi al sicuro dentro un cinema, al riparo dalle incursioni fasciste che devastavano la nostra biblioteca. È lì che ho visto La regina Cristina con Greta Garbo. Lì ho conosciuto Charlot, artista anarchico e libertario, lì ho cominciato a identificarmi in Jean Gabin, l’eroe della Kasbah.
I.: Ti conosco solo attraverso i tuoi libri, in cui esprimi un forte bisogno d’amore.
G.: Senza sale l’organismo muore, e in fondo non è grande danno, ma senza amore si diventa assonnati, fragili, avari, larve d’uomo. Ma non era facile parlarne in famiglia. Tutti a casa mia, anche le donne, erano contrarie a quella parola da donnette. L’unica ad ammettere che l’amore era degno di essere preso in considerazione era mia madre, ma la faceva così complicata! Doveva essere un amore libero da convenzioni, da ricatti psicologici o finanziari… Insomma era meglio stornare il discorso sulla Grecia antica, la politica o la filosofia…
I.: Tua madre, Maria Giudice! Grande intellettuale rivoluzionaria.
G.: Su Maria non mi soffermo perché, come mio padre, è conosciutissima: era stata pure lei in galera per il bene degli oppressi. Studiava, e allora dovevo studiare anch’io per diventare come lei. Ecco la donna che Jean non avrebbe potuto non amare, se l’avesse incontrata. È stato mio fratello Ivanoe che si è preso cura di me in modo materno. La zia Grazia si indignava: Povera figlia, che unghie! Non è possibile che tua madre non te le tagli mai! Diceva. Oh, ma che razza di mutandoni porti? Sembri incinta, povera figlia! È possibile che tua madre… Mia madre chi? Rispondevo. Ivanoe? Ma Ivanoe deve dare tre esami…
I.: Ma come ti vedevi, cosa volevi realizzare da grande?
G.: La mamma mi diceva: potresti diventare medico, avvocato, come tuo padre: preparati a diventare sindacalista come me, per quando il fascismo finirà.
I.: Lei in fondo era la tua difesa da un destino di donna chiusa in casa a fare figli, di una donnetta come diceva lei.
G.: Quando ho saputo che alla mia amica Nica era venuto il sangue e doveva stare a casa ad aspettare un marito, ho avuto orrore. Mi chiedevo se veniva a tutte le femmine. Anche mia madre l’aveva? Mia madre non aveva detto sono donnette che non sanno fare altro che aspettare un marito? E aveva anche detto tu Goliarda, non sei una donnetta. Infatti io non volevo un marito, ma un compagno, come lei…Sarei stata come mia madre e se non aspettavo un marito, il sangue non sarebbe venuto.
I.: Tu hai sempre manifestato distacco nei confronti di figure, legate alla tradizione del sud, che rimandano un’immagine di miseria femminile.
G.: Sono modelli pericolosi per le donne, ma anche per tutta la società. Donne come la signora Bruno, sacco nero sformato che apre la porta di casa con le mani umide di farina, che prega o frigge; o come la madre di Modesta che urla o tace; o come madre Leonora, la superiora del convento, che ricamava e pregava perché abitua all’umiltà e all’obbedienza. Diventerò anch’io una dotta? Domandavo. Pazzerella che sei! A che ti servirebbe se sei una donna? Rispondeva. La donna non può arrivare mai alla sapienza dell’uomo.
I.: Tua madre è stato per te il più straordinario modello di forza femminile. Mi chiedo quanta di questa forza contenga la tua personaggia Modesta.
G: Maria Giudice fa una fugace apparizione in L’arte della gioia, la cito tra le donne di riconosciuta autorità della nostra storia. Modesta ha la forza che conduce alla libertà, è il sogno realizzato di una vita libera.
I.: Ma l’equilibrio psichico di tua madre crollerà.
G.: Pazzia… Le è scoppiata tra le mani proprio quando il suo nemico cadde distrutto. Cadendo lui, si ruppe la tensione per la quale aveva vissuto estraniandosi da se stessa.
I.: L’hai assistita nella sua malattia per tre anni.
G.: Diventai madre di mia madre. Ora provo grande rimorso, ma mi vendicavo facendole vedere come si cura una figlia, lei che occupandosi solo della mia mente, mi aveva trascurata in tutti i modi.
I.: La fine tragica, segnata dalla pazzia, ha contraddistinto donne forti e autorevoli.
G.: Penso a Virginia Woolf suicidatasi dopo avere scritto Orlando: come può stare vicina a quest’atto assurdo tanta freschezza e fantasia gioiosa: cosa l’ha tradita? Io so cosa. Ha pagato il suo osare entrare tra i grandi senza tradire il suo essere donna. Spero di farlo anch’io col tempo. La follia sembrerebbe quasi un porto per tutte le donne che falliscono; allora perché anche per Virginia e per mia madre lo è stato? Probabilmente la loro riuscita non appagava il tribunale antico di donna che le giudicava traditrici per aver osato uscire dai limiti concessi. Per loro era una condanna che le faceva sentire in colpa e le rendeva infelici anche mietendo grandi successi. Quanto a me, probabilmente non diventerò mai pazza, ma disertrice mi sento già.
I.: Sei stata in carcere per un breve periodo. Che avevi fatto?
G.: Ti rispondo come a Giovannella, una piccoletta incinta incontrata a Rebibbia: sai cosa ho fatto per finire qui? Un lungo viaggio in Russia e in Cina che ha spazzato quel poco d’etica che mi era rimasta… Da dodici anni non riuscivo più a pubblicare una riga; per dieci anni ho lavorato a un lungo romanzo e nel frattempo tutto cambiava: amici, situazioni, rapporti. Ero scivolata da ultimo in un ambiente pseudo-libero, pseudo-elegante, e così ho rubato a una di queste pseudo-signore per punirla. O per punirmi? Insomma un bell’acting-out da manuale.
I.: In carcere hai imparato in fretta, suppongo.
G.: Lì sai subito chi sarai nella vita, non ti è concesso crogiolarti nel falso problema di cercare la tua identità. Non c’è differenza fra dentro e fuori. Le donne conosciute sono comuni, come quelle che si incontrano per strada. Il carcere è sempre stato la febbre che rivela la malattia del corpo sociale: continuare ad ignorarlo può farci ripetere il comportamento del buon cittadino tedesco che ebbe l’avventura di esistere nel non lontano regime nazista.
I.: La tua ricerca di verità cosa ti ha fatto scoprire in carcere?
G.: Queste donne conoscono l’arte dell’attenzione all’altro, sanno che dalla condizione di una dipende quella delle altre: attenzione e solidarietà a chi ti è amica, ostruzionismo a chi ti è nemica. Impossibile trovare sfumature in questo consorzio: lingue, dialetti, diversità di classe e di educazione sono spazzati via come inutili mascherature dei veri moventi del profondo. Questo fa di Rebibbia una grande università cosmopolita dove chiunque può imparare il linguaggio primo.
I.: Credi ancora che tenersi stretti al sogno sempre, e sfidare anche la morte per non perderlo mai, come affermi in Io, Jean Gabin, sia l’unica via possibile?
G.: Sento ancora la sua voce: La vita è lotta, ribellione e sperimentazione, di questo ti devi entusiasmare giorno per giorno e ora per ora. Vedi me, sono morto tante volte combattendo, eppure sono qui con te tranquillo a ricordare e gioire delle mie lotte, pronto a rinascere e a ricominciare…
questo è il segreto … da lui solo sgorga quella che comunemente chiamiamo Vita.
I.: Ti ringrazio Goliarda per la tua grandezza che arricchisce tutte e tutti noi e per quel grande amore di vita che trasmettono sempre le tue parole.
Estratto a cura di Emi Monteneri in “Le personagge sono voci interiori” a cura di Gisella Modica. Vita Activa, Trieste, 2016
(Letterate Magazine, 10 maggio 2023)
di Annalisa Ambrosio
Ci sono vite che vengono raccontate più spesso di altre e quella di Hannah Arendt è certamente tra queste. Forse il suo personaggio letterario è così interessante perché è polifonico e attraversa i generi in maniera libera e anticonvenzionale: europea naturalizzata americana, filosofa che finisce per passare alla storia come reporter, in pochi anni allieva prediletta di Martin Heidegger e pure di Karl Jaspers, è intellettuale e due volte moglie, ha svariate lingue all’attivo e amici famosi sparsi in tutto il mondo. Come materiale è piuttosto ghiotto per desiderare di scriverne, ma anche un ginepraio dal punto di vista storiografico, perché la sua esistenza interseca di continuo la Storia, e di lei si potrebbe dire senza troppa esitazione che – talvolta suo malgrado – si trovava là dove le cose accadevano e, quando non capitava, prendeva un aereo per andarci. Così, infine, se il romanzo di Hildegard E. Keller racconta di nuovo Hannah, il compito principale di ogni recensore è quello di chiedersi che cosa c’era da aggiungere ancora e qual è la qualità essenziale di questo racconto.
Prima di rispondere alla domanda, meglio spiegare brevemente com’è fatto il libro di 508 pagine, che è uscito da poco per Guanda. Intanto si parte dalla fine, perché il primo capitolo prende il titolo di L’ultima estate (trad. di Silvia Albesano), e si ambienta in effetti durante il viaggio per Tegna, meta svizzera della residenza estiva di Hannah Arendt, che poi è morta lo stesso anno a New York di un attacco cardiaco. Da qui, dall’ultimo anno di vita, si saltabecca nel passato e di nuovo nel futuro in un grande slalom che va da Manhattan a Colonia, da Berkeley a Gerusalemme e così via. Nonostante la mobilità sia spaziale sia temporale, il perno del romanzo resta l’estate svizzera, e questo non è un dettaglio da poco perché conferisce alla biografia una specie di stadio parallelo, di tempo non tempo, di calma, di lentezza particolare, come se paradossalmente il punto migliore dal quale osservare una vita come quella di Arendt non fosse il lavoro o l’opera, il segno che ha lasciato nel mondo, la vita activa, ma semmai il suo respiro intimo, il ritiro, la solitudine matura. In fin dei conti è in questo spazio non congestionato dal calendario o dalla corsa del mondo, contemplativo, che un intellettuale si mostra come tale di fronte a sé stesso, cioè sceglie liberamente di dedicare le sue ore a pensare, perché così si sente in vita, o sereno, al riparo dai colpi della fortuna. Oltre a non fare del romanzo un thriller, una simile impostazione scelta da Keller ha significato per lei affrontare una difficoltà tecnica spaventosa: non è semplice rappresentare l’affioramento del pensiero, spingersi a mostrare come ha pensato una persona realmente esistita, e farlo non tanto ripercorrendo il suo ragionamento, quanto invece simulando quel che capita quando flash, intuizioni, considerazioni nuove sorgono negli attimi di pausa, si affacciano da una balaustra apparentemente vuota.
Qui siamo di nuovo a Tegna, è il 1° agosto del 1975: «Alle sue spalle sentiva le auto che sfrecciavano sul ponte e una sorta di crepitio proveniente da Tegna, come fuochi d’artificio. Si riscosse, si sporse in avanti con cautela e aspirò a pieni polmoni la frescura che saliva verso di lei dall’orrido gorgogliante. I fiumi sono fondamentali, cari fiumi. È davvero un grande mistero come un piccolo torrente di montagna possa trasformarsi nel Colorado River. Senza fiumi la terra sarebbe perduta, ma l’orrido della Maggia è davvero unico. Nella sua ultima estate lì, anche Heinrich aveva sgranato gli occhi, quando si era trovato accanto a lei su quel ponte». Non è che un esempio di come Keller, che ora insegna storytelling all’Università di Zurigo, ha scelto di procedere e di gestire il palcoscenico.
Hannah guarda il panorama della valle e la sua meraviglia arriva dai sensi, pensare a tutti i fiumi del mondo è un bisogno che fa tutt’uno col respiro, ma tutti i fiumi del mondo con le loro ragioni si fondono fino a ritornare a coincidere con quell’unica visione dell’orrido davanti ai suoi occhi, perché qualcosa di più carsico affiora, ed è il ricordo di Heinrich. Oltre a essere ragionevolmente credibile e autentica, questa ricostruzione dell’andamento del pensiero ha il vantaggio, per l’autrice, di fare risvegliare visioni nelle visioni, ricordi nei ricordi. Al passato più lontano o più prezioso di Hannah, nel corso del libro, si accede la maggior parte delle volte così, con la tecnica dell’affioramento, casuale e non causale – dopotutto arriviamo a conoscerci abbastanza da comprendere che le figure della nostra mente ricorrono, si riverberano tra loro e non escono mai dal nulla. Anche se a prima vista una simile strategia di racconto potrebbe apparire lenta, una volta compreso il gioco, lo spazio contemplativo diventa confortevole per il lettore perché il più delle volte è caldo, sentimentale, è il luogo privilegiato degli amori presenti e passati di Hannah Arendt, ma anche dei suoi problemi più espressamente filosofici.
Questa descrizione dello stile e del taglio scelto da Keller per affrontare Arendt nel suo primo libro potrebbe indurre a pensare che il testo sia statico, seduto: non è così, non è un genere di romanzo in forma di terra desolata, senza altre persone eccetto la protagonista, è bello anzi notare come sia pieno di dialoghi con amici, mariti, ma anche con estranei o nuovi incontri che tra le pagine finiscono per brillare e diventare qualcosa. Tra questi svettano soprattutto le amicizie femminili, come quella con la poetessa Ingeborg Bachmann o con la giovane Annemarie, una ragazza che Hannah incontra per la prima volta alla redazione del giornale per cui lavora e di cui farà la fortuna, convincendo suo padre a lasciarle frequentare l’Università. Negli scampoli diffusi di abitudine e di mondanità si avverte il piglio pragmatico di Arendt, la sua capacità di tenere insieme le cose, i pensieri e le persone, di istituire cerchie di legami, nonché il suo stile di scrittura e di insegnamento.
Proprio all’insegnamento è dedicata una delle scene più vivide di tutto il libro.
Siamo a Berkeley, nei primi anni Cinquanta, e dopo la presentazione del corso in Political Science un ragazzo chiede alla professoressa Arendt di illustrare per cortesia le modalità d’esame, lei risponde: «Chi vuole un buon voto, nel mio corso, dovrà imparare a pensare, al di là dell’argomento, ma naturalmente possiamo pensare sempre e solo sulla base di contenuti concreti. Sarete voi a proporre gli esempi, non io». Di lì a poco si parlerà di totalitarismo, di comunismo, di lager, di democrazia, ovviamente di Europa e di America. Alla fine, Hannah dirà anche che cosa è strettamente necessario consegnare per superare l’esame, e diventerà un’insegnante piuttosto amata, per quanto divisiva. Tra le richieste più spiazzanti ai suoi studenti, poi, si registra quella di presentarsi in aula portando una poesia.
E proprio la poesia è un’altra grande protagonista di questo romanzo, che prende il titolo da alcuni versi di Hannah stessa: «Quel che siamo e sembriamo / oh, a chi importa. / Quel che facciamo e pensiamo / non toglie il sonno a nessuno». I suoi stessi versi le sovvengono mentre parla alla nuova amica Barbara del legame che aveva maturato con Walter Benjamin, negli anni prima che per lui fosse troppo tardi. È come un problema di matematica o di geometria di cui questi versi rappresentano solo la necessaria premessa senza poi fornire la conclusione e la soluzione, anche perché la poesia è appena iniziata e non finisce qui, come se l’invito di Hannah, nella strategia di Keller, fosse quello di sfidare i lettori ad andarla a cercare, a ritrovare la poesia, a leggerne il finale. È questa la fatica del biografo, prima, dopo e durante la ricerca: scontrarsi con una materia al tempo stesso incandescente e completamente inutile o indifferente, un sacro fuoco di paglia. Andare sempre più vicino al posto in cui brucia una vita, e trovarsi con un pugno di mosche, cioè a toccare con mano che alle fine tutte le vite si assomigliano e si esauriscono nel rapporto evanescente tra «quel che siamo e quel che sembriamo», appunto. Eppure, Keller ha scelto la seconda parte del verso per il titolo del suo libro, forse perché gli altri, per quanto di noi sappiano o abbiano studiato, non possono che limitarsi a dire quello che a loro è apparso.
Tra le pagine sono molto diffuse le citazioni di Arendt, delle sue poesie, degli articoli, dei saggi, delle lettere: sono preceduti e seguiti da un cambio di paragrafo come una piccola riverenza. Sono utili per dare ritmo e aria al testo, ma anche estremamente eloquenti rispetto alle scene raccontate. È evidente che sono stati disseminati con precisione laddove era importante dire qualcosa senza giri di parole, andando dritti alla fonte.
Un’ultima cosa da dire su questa biografia riguarda il suo rapporto con le urgenze del lettore, che hanno sempre un tratto morboso: sentire e vedere l’amore con Martin Heidegger, sentire e vedere il processo a Adolf Eichmann, magari sentire e vedere la paura di una giovane donna ebrea di fronte al Vecchio Continente in fiamme. Keller ha grande riserbo nei confronti degli aspetti più delicati o spettacolari della vita di Arendt, ce li fa arrivare illuminati da una luce circonfusa. Ci sono ma non sono il vettore principale, non sono il compimento di nessuna parabola. È un punto forte del libro che, una volta arrivati alla conclusione, un’illuminazione di altro tipo, più diretta, non ci sia mancata per niente. Abbiamo guadagnato anzi dei ritratti più delicati e altrettanto coinvolgenti, come nei capitoli iniziali dedicati al rapporto di Hannah con sua madre Martha. È un piacere sentirle parlare, vedere una figlia affezionata ma schiva e una mamma innamorata della sua figlia eccezionale. È un conforto, infine, accorgersi che anche per le più grandi personalità vale la regola che «Quel che facciamo o pensiamo», la gran parte delle volte, «non toglie il sonno a nessuno» eccetto che a nostra madre.
(Doppiozero, 9 maggio 2023)
di Franca Fortunato
Tina Anselmi come tante donne della sua generazione ha fatto della passione politica la ragione della sua vita, restando sempre fedele a sé stessa, alla ragazza che a diciassette anni nel 1944 scelse di entrare nella Resistenza, pronta come altre/i “a morire” battendosi “contro il nemico, a morire detestando la morte, a morire per la pace e la libertà”. È così che racconta la sua scelta nel libro Storia di una passione politica scritto con Anna Vinci e tornato da poco in libreria con la prefazione di Dacia Maraini (Chiarelettere 2023). Dal libro è stata tratta la fiction Tina Anselmi. Una vita per la democrazia, interpretata da Sarah Felberbaum, andata in onda il 25 Aprile su Rai1. Ragazzina di campagna, nata a Castelfranco Veneto il 25 marzo 1927, conobbe l’antifascismo attraverso il padre, Ferruccio, socialista che “portava sempre con sé la tessera del partito firmata da Matteotti” e “schedato e controllato, quando c’erano manifestazioni, raduni, visite di gerarchi da Roma, lo prelevavano per portarlo nella farmacia dove lavorava e lo costringevano a bere l’olio di ricino”. Da lì il suo sentimento contro l’ingiustizia che l’accompagnerà per tutta la vita. Dalla madre, Norma, imparò ad essere contro la guerra. “Lei, la nonna e una mia zia dovettero andare profughe in Piemonte, per avere un lavoro, perché da noi la miseria era tanta. Erano state impiegate a cucire le ali dei piccoli aeroplani. La mamma aveva paura perché gli aeroplani portano la morte, quindi, partecipare, seppure indirettamente, a costruire quegli strumenti di guerra la faceva stare male. E il suo malessere, la sua paura io li ho vissuti, ne ho fatto un motivo per rifiutare la guerra”. Dalla nonna materna, Maria, imparò il coraggio, l’amore per la vita, la libertà di donna. È con gratitudine e riconoscenza che parla dei loro insegnamenti che l’hanno “messa in condizione di stare bene al mondo”, l’hanno aiutata “ad amare, stimare, avere fiducia nelle persone”. A quella prima scelta di adolescente ne seguirono altre e ogni volta scelse con coraggio da che parte stare, partendo sempre da sé, dal suo desiderio profondo di “esserci”, di “agire” per rendere il mondo migliore, prima di tutto per le donne. Vuole essere protagonista della ricostruzione del paese. Si laurea, entra nella Dc, nel sindacato per battersi con le operaie tessili, entra in Parlamento (1968) poi nel governo, ministra del Lavoro, prima, e della Salute, poi. A lei si deve la legge sulla parità salariale e di trattamento al lavoro, ma anche il Servizio Sanitario Nazionale. Quando la presidente della Camera Nilde Iotti le affida la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2, lei sceglie di stare dalla parte della verità. Sarà ostacolata da molti e isolata dal suo stesso partito. A distanza di anni si rammaricherà che quella inchiesta non si sia voluta portare fino in fondo in quanto “faceva paura a molti”. Lega i suoi ricordi “più belli alla risoluzione dei problemi, alle risposte che” ha “saputo dare ai bisogni della gente”, il che fa capire il senso per lei della politica e del potere. Una donna coraggiosa, battagliera, autorevole, che a ragione dopo Tangentopoli ha potuto dire: “Personalmente io mi sento con le mani pulite”. Attraverso il racconto della sua vita ci si immerge nella storia del nostro Paese dal 1944 al 1992, quando lascia il Parlamento. Un racconto che si chiude con un dolce ricordo della nonna: “La ventata di leggerezza che nell’infanzia ha tante volte spazzato via la malinconia mi accompagnerà fino alla fine, e avrà per me l’odore del cocomero e del panino con le ulivette di nonna Maria”. È morta il 1° novembre 2016.
(Il Quotidiano del Sud, 6 maggio 2023)
di Roberto Righetto
Il 29 aprile di cent’anni fa nasceva Cristina Campo, alias Vittoria Guerrini, una delle figure più appartate, misteriose e inclassificabili della letteratura italiana. Poetessa e mistica, oltre che traduttrice e critica letteraria, ci ha lasciato nel 1977 a causa di uno scompenso cardiaco dovuto a una malformazione di cui soffriva dalla nascita. È stato grazie all’editrice Adelphi, che ha mandato in libreria a partire dall’87 le sue opere principali (Gli imperdonabili e Sotto falso nome raccolgono suoi saggi critici, mentre La Tigre Assenza le sue poesie), e alla pubblicazione della corrispondenza con alcuni suoi amici, Margherita Pieracci Harwell e Alessandro Spina in primis, che il pubblico italiano l’ha potuta conoscere più da vicino. Giustamente Enzo Bianchi, introducendo i lavori del convegno che si svolse a Bose nel 1998, ricordò le parole pronunciate dopo la morte da Spina, che lamentò come il lutto per la sua scomparsa fosse stato un lutto di pochi, chiedendosi «anche, con ragione, come mai i cattolici non si accorsero di lei».
Eppure Cristina Campo aveva presentato e commentato opere come I detti e i fatti dei Padri del deserto e i Racconti del pellegrino russo e scritto introduzioni a libri fondamentali quali L’uomo non è solo di Heschel e Attesa di Dio di Simone Weil. Bianchi la definì «filocalica, donna ricreatrice di bellezza, testimone della grande tradizione». Certo, i cattolici italiani non potevano condividerne le riserve sul Concilio, che l’avevano fatta avvicinare a monsignor Lefebvre e al cristianesimo ortodosso: il suo amore per i riti e la liturgia nonché per la carnalità del cristianesimo infatti l’aveva portata a criticare le scelte dei padri conciliari, senza però mai abbandonare la Chiesa cattolica.
All’incontro di Bose (i cui atti furono pubblicati dalla rivista Humanitas edita da Morcelliana) parteciparono anche Mario Luzi e padre Giovanni Pozzi, Giovanni Tesio e Maurizio Ciampa, Pietro Gibellini e Gabriella Caramore, oltre che Mita, la sua amica di sempre con cui aveva condiviso dal 1950 l’amore per Simone Weil. Margherita era volata a Parigi per conoscere la madre della filosofa francese che stava curando l’edizione delle sue opere, mentre Cristina non era riuscita per motivi di salute. Ma l’incontro con la pensatrice si rivelò fondamentale per entrambe e per Cristina ebbe il significato di una riscoperta del cristianesimo.
A Simone l’avvicinavano l’amore per l’assoluto e per gli ultimi, la scoperta di concetti come “ombra”, “attenzione” e “sprezzatura”, la ricerca di una perfezione sempre irraggiungibile nella definizione della propria vocazione. Lo rileva Wanda Tommasi in uno dei saggi del libro Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile (pagine 122, euro 12,00), da poco pubblicato da Mimesis a cura di Chiara Zamboni; il libro raccoglie le relazioni tenute il 7 giugno 2022 all’università di Verona a un convegno sul pensiero di Cristina Campo. «Secondo la Campo – dice Tommasi – quella weiliana è una “grande didattica spirituale via negationis”: la Weil opera negativamente, distruggendo tutto ciò che può prendere idolatricamente il posto del vero Dio».
Francesco Nasti da parte sua rileva come Cristina si considerasse, rispetto al pensiero di Simone, «una pianta rampicante intorno alla roccia». E sottolinea come «per la Campo come per la Weil l’attenzione affonda la pienezza del suo significato nella parola greca hypomoné, il cui significato è anche quello di attesa che, insieme all’attenzione, orienta l’occhio e lo spirito dell’individuo alla percezione dei diversi piani della realtà, quello invisibile e quello invisibile». Siamo al centro della concezione della vita di Cristina, che nell’unica intervista rilasciata nella sua esistenza, alla Radiotelevisione svizzera pochi mesi prima della morte, dichiarò: «Credo pochissimo al visibile, credo molto nell’invisibile ed è forse la cosa che m’interessa di più». Il legame strettissimo fra la realtà e l’invisibilità è rimarcato da Antonietta Potente che a sua volta afferma: «Sembra quasi un paradosso: la vita risplende quando teniamo in conto il suo mistero, la sua invisibilità, perché il solo visibile è troppo poco. Con questa affermazione si comprende perché Cristina ami le fiabe, la poesia e i vangeli».
L’opera della Campo è poi segnata dall’incompiutezza, come segnala Laura Boella. Lei stessa l’aveva detto parlando di sé in terza persona: «Ha scritto poco e avrebbe voluto scrivere ancora meno». Rifiutava il ruolo dell’intellettuale, pur facendosi a volte coinvolgere nei salotti romani e fiorentini, e rifuggiva dal mondo della cultura italiana imbevuto di marxismo e psicoanalisi. Per Boella «il suo contesto o ambiente è quello dell’epoca imperdonabile in cui vivono uomini e donne imperdonabili. Un contesto tremendo, violento e per nulla datato: si tratta della civiltà della perdita, del vuoto, dell’orrore, del cattivo gusto, dell’imminenza della morte, del prezzo pagato per una vocazione».
Era lontana da ogni tipo di engagement e detestava i grattacieli e le nuove chiese, così come le nuove tendenze della pedagogia che voleva educare i bambini come se fossero dei piccoli adulti. Legata a Elémire Zolla e amica di María Zambrano, di quest’ultima condivideva questo giudizio fulmineo: «Io credo nella resurrezione, non in quella dei morti, ma in quella della carne». Allo stesso modo, la Campo individuava nel gesto di Maria Maddalena che cosparge di unguento prezioso i piedi di Gesù la genesi della liturgia. Riferendosi al suo breve scritto Note sopra la liturgia, così commenta Chiara Zamboni: «Non si tratta solo di ungere il corpo di Cristo, ma di esserci con tutta se stessa e mostrare quel gesto. È per questo che il suo gesto fa scandalo: rende sacro un legame intimo e corporeo. Dunque non riguarda solo l’anima, ma anche e soprattutto il corpo. E infatti, là dove il corpo è cancellato, l’anima fa in fretta poi a scomparire».
(Avvenire.it, 29 aprile 2023)
di Stefano Crippa
Squarci d’epoca e di un Paese che non esiste più, il ritratto di un personaggio della storia dello spettacolo e della musica italiana che non ha eguali in un percorso artistico alla costante ricerca della creatività. Milva, l’ultima diva (La nave di Teseo, pp. 288, euro 18) «l’autobiografia di mia madre» come la definisce nel sottotitolo l’autrice Martina Corgnati, curatrice di centinaia di mostre in Italia e all’estero, storica dell’arte e professore non insegnante presso la Scuola dei Beni Culturali dell’Accademia di Brera di Milano, presta il fianco a più chiavi interpretative. Un «lavoro psico-drammatico» – come spiega Giovanni Castaldi nella postfazione del volume, dove l’autrice prende il posto di Milva e la racconta in terza persona. Cinque vite, dall’infanzia agli ultimi giorni dove si pone l’accento sul suo multiforme talento e su una discografia vasta quanto varia. E i rapporti professionali che si intrecciano con quelli privati: da Maurizio Corgnati, padre di Martina e marito di una giovanissima Milva che l’aiuta nella sua maturazione artistica, a Massimo Gallerani. E il percorso che la porta a confrontarsi con Strehler, la scuola del Piccolo, i tour in Giappone e i trionfi tedeschi e francesi. L’incontro con la canzone d’autore, con Battiato e Jannacci.
Nei cinque capitoli, le cinque vite di Milva, Maria Ilva Biolcati – perché il parroco di Goro non volle acconsentire a quel nome senza santa protettrice, c’è il percorso di un’artista dai forti tratti e dalla determinazione ferrea ma che non nasconde le sue fragilità, l’ossessione per l’ordine: «Mia madre – spiega Martina Corgnati – ha sempre avuto un senso dell’ordine molto spaziale, ossessivo. Ma io credo che all’origine si trattasse di un’educazione molto dura impartita dalle suore e dal collegio. Penso che “l’ordine” per lei era diventato uno strumento per controllare l’ansia, e questo da bambina ci sta, da ragazzina anche. E poi da donna che si è trovata di fronte a compiti veramente ardui per una persona tutto sommato piuttosto sola com’era lei, senza un background che le consentisse di avere le spalle coperte. Mia madre non aveva le spalle coperte, e questo spero che emerga del libro». Milva cresce in una grande famiglia, dove il senso della solidarietà è spiccato: «Lei è nata nel 1939, e va ricordato che gli anni prima e dopo la guerra italiani sono difficilissimi. Le nostre realtà erano veramente povere, ai limiti della sussistenza. Noi non veniamo da Oxford, e intendo come Italia non individualmente. Nel 1945 mia madre ha sei anni; c’è appena stata la liberazione e si tratta ora di rimboccarsi le maniche. Ricostruire i valori democratici di un paese per la prima volta dopo decenni, ma anche umani e etici. La famiglia allargata era un espediente, uno strumento di vita per cui era normale venirsi incontro. E lo racconto quando parlo dell’alluvione: mia nonna Noemi accoglieva in casa le cugine di Rovigo, le nipoti. Non c’era problema in questo, se ce n’era si divideva. Questo era il mondo da cui veniamo, certo poi ce ne siamo dimenticati negli ottanta e novanta, in un’era di maggior benessere. Ahimè, non è detto che questo stato di benessere duri per sempre, e non è nemmeno detto che la famiglia nucleare sia un sistema di felicità maggiore. Era una necessità che era diventata una forma di naturalezza». Con Milva l’irrequietezza della ricerca tout court e l’afflato popolare andavano a braccetto senza che mai sembrasse una forzatura: Piazzolla e Amália Rodrigues, Berio, Vangelis. L’ascoltavi prodursi nell’Opera da tre soldi e la stessa emozione la metteva sul palco del festival di Sanremo, frequentato per ben quindici volte, ma senza che mai riuscisse a vincerlo, come lei stessa ricordava prendendosi in giro con garbata ironia. Artisticamente una carriera varia e incredibile, che ha una svolta importante con i due dischi dedicati ai canti della libertà: «Il primo è del 1965 ed è stato voluto fortemente da mio padre: c’erano i canti dei neri d’America, mentre il secondo Canzoni della libertà con gli arrangiamenti di Gino Negri (1975) – non era più con mio padre – è molto più politico. Un lavoro legato al presente, a una cronaca che non era più partigiana e politica e stava diventando piuttosto la cronaca dei primi anni di piombo». Nel 1965 quando arriva al Piccolo con Strehler è tutto in trasformazione. Quel fermento rappresenta la nuova cultura e un altro modo di fare teatro e coesione sociale.
Negli anni ’80 Milva cambia ancora, arrivano la canzone d’autore, Vangelis, Battiato. Ma – era lei stessa a sottolinearlo – la sua vera anima usciva prepotente dal vivo… «Sì, indubbiamente è vero: lei era un animale da palcoscenico dove dava il meglio di sé. Ho cercato di restituire nel libro ciò che era dovuto, da una parte, a Klaus Ebert che era un musicista e che è stato suo produttore e ideatore della discografia tedesca tra fine settanta e inizi ottanta. È lui che l’ha portata da Theodorakis e poi da Vangelis. E poi ho voluto sottolineare l’apporto di Massimo Gallerani con cui lei ha lavorato sugli autori italiani. Battiato è stata una sua idea: Massimo era attento, sentiva tutto, osservava tutto». Battiato è stato una tappa fondamentale nella carriera di Milva, si incontrano a pranzo e lui fa quasi scena muta. Rivelerà anni dopo che stava studiando l’artista, “come un sarto a cui adattare un repertorio adeguato”. «A dire il vero l’ha detto anche di Giuni Russo e Alice che insieme a Milva sono state le “sue donne”, artisticamente parlando. Credo che il rapporto con Battiato per mia madre sia stato illuminante, rasserenante e rassicurante. Lui la portava, quando non spessissimo si incontravano, alla conoscenza di mondi diversi, non solo musicali ma anche di vita. Franco aveva una sensibilità, una finezza di ascolto davvero unica. È l’unico autore che lei ha sempre cercato, anche alla fine. Non a caso con lui ha inciso tre dischi».
Con Enzo Jannacci la frequentazione (professionale) è breve ma intensa: un album, La Rossa (1980) in cui la canzone che intitola il disco è una fotografia perfetta di Milva, donna e artista. «Ho sempre amato Enzo, aveva un’ironia fantastica. C’è un elemento che li avvicinava molto, era la politica. Entrambi dichiaratamente e apertamente di sinistra, provenivano entrambi da un’estrazione sociale non propriamente da comfort. Un’appartenenza condivisa». Nei versi de La Rossa Enzo trasfigura Milva: “venuta su a patate e lenti”: «La bambina della Bassa che spacca tutto con la voce. È un’invenzione poetica e politica». Strehler è fondamentale nel percorso esistenziale e artistico di Milva, con lui arriva alla maturazione definitiva. E poi l’incontro con Milano negli anni che precedono il sessantotto, il Piccolo: «Siamo nel 1965 e tutto è in trasformazione e quel fermento rappresenta la nuova cultura, la nuova Milano e un altro modo di fare teatro e coesione sociale. Sia Giorgio Strehler che Paolo Grassi – ciascuno a suo modo certo – però erano in qualche modo pronti al salto. Forse si auguravano, forse contribuivano a preparare la nuova dimensione». Milva arriva al Piccolo proprio nell’anno in cui registra i Canti della Libertà: «Fortemente voluto da mio padre che la Resistenza partigiana, quella vera, l’ha fatta. Ci sono come dei semi che si mettono in rapporto e che poi germineranno in quello che sarà il Piccolo Teatro negli anni settanta». Anni in cui il rapporto con Strehler si rafforza, Milva non più artista da forgiare ma musa ispiratrice del maestro, protagonista di decine di spettacoli in cui lei sarà punto assoluto di riferimento.
Milva è mai stata realmente felice? «Penso che abbia avuto dei momenti e delle fasi di felicità, sicuramente lo era dopo i concerti, quando aveva successo era una felicità simile all’ebbrezza che ha provato tante volte. Ricordo in Giappone e in Germania la gente che l’applaudiva per un quarto d’ora senza smettere. Ci sono stati uomini di potere importanti che l’amavano e la stimavano. Sandro Pertini si è alzato ad un pranzo in un ristorante, per abbracciarla e farle il baciamano. Un’ammirazione bipartisan: l’amava Helmut Kohl, Willy Brandt ha voluto farsi fotografare con lei. È difficile suggestionare tutta Europa in questo modo: lei era commendatore, cavaliere per la Francia, Germania, Italia: quando riceveva queste onorificenze era felice. Però il problema di mia madre era, e poi domattina cosa facciamo? Faceva fatica ad accettare anche la continuità, la mediocrità della vita che fa parte dell’esistenza di ciascuno di noi».
(il manifesto, 29 aprile 2023)
di Doranna Lupi
Si è parlato molto di profezia delle donne negli ultimi due anni, in diversi ambiti, religiosi e non. Le profete hanno una intelligenza del presente che le apre al futuro e ogni tempo ha le sue profete. Occorre riconoscerle e aprirsi al loro messaggio. Nell’inserto Donne e profezia della rivista Viottoli 2/2022 (scaricabile gratuitamente) si trovano i percorsi di ricerca, testimonianze, riflessioni sulla profezia che hanno animato gruppi e singole donne che fanno riferimento al Collegamento donne Comunità di Base e le molte altre, contributi portati come doni all’incontro di Calambrone (Pisa) nel mese di maggio del 2022. Attraverso molteplici relazioni sono stati coinvolti anche altri gruppi, come le Femministe che leggono la Bibbia del Centro culturale Roccafranca di Torino, dove il Gruppo donne Cdb di Pinerolo (To) ha organizzato un ciclo di incontri sulla profezia delle donne, tra l’inverno 2021 e la primavera 2022. Con loro è stata condivisa la scommessa di tenere insieme spiritualità e femminismo, una scommessa che apre alle donne spazi inediti di riconnessione al proprio sentire profondo. (Luisa Bruno, Luciana Bonadio, Carla Galetto, Doranna Lupi)
(www.libreriadelledonne.it, 26 aprile 2023)
di Luciana Tavernini
Perché conoscere o rileggere la poesia di Antonia Pozzi?
Che cosa può dire a noi oggi la vita e l’opera di una giovane donna degli anni Trenta del secolo scorso?
Come si può restituire verità all’esistenza femminile in una biografia?
Per rispondere mi baso sulla preziosa biografia critica, scritta da Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, che giunge alla terza edizione completamente riscritta e ampliata grazie a nuove scoperte, e corredata da un nuovo apparato fotografico, comprensivo di fotografie della stessa Pozzi.
Infatti Graziella Bernabò da trent’anni si occupa della poeta e fotografa milanese, morta suicida appena ventiseienne. Con Onorina Dino, che nel 1980 ha creato e a lungo custodito l’Archivio Pozzi di Pasturo (trasferito nel 2014 presso il Centro Internazionale Insubrico dell’Università degli Studi di Varese), ha svolto un accurato lavoro sui testi, che ha portato alla pubblicazione integrale degli scritti di Antonia Pozzi: lettere diari e soprattutto poesie, depurate dalla deprecabile censura del padre, che voleva consegnarne un’immagine corrispondente alla visione convenzionale della donna tipica di una certa chiusa borghesia dell’epoca.
Il metodo di Bernabò per costruire biografie, utilizzato anche in quella accurata ed emozionante su Elsa Morante La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura (Carocci 2012), intreccia strettamente l’opera con la vita e con la storia. Muovendosi tra empatia e distanza, quindi con l’opportuna immedesimazione e con un uso rinnovato delle categorie interpretative rispetto alla biografia tradizionale, ma evitando una proiezione personale superficiale e destoricizzante, ricostruisce il contesto relazionale, non solo maschile, in cui si è svolta la vita dell’autrice. Basandosi su testimonianze dirette e su documenti, che continua a incrementare nel passaggio da un’edizione all’altra, riesce a offrirci uno spaccato dell’epoca e a farci apprezzare l’originalità e la modernità della sua opera poetica.
Antonia Pozzi, infatti, anticipa la poesia del corpo di autrici fondamentali del secondo Novecento come Rosselli e Merini, Sexton e Plath. A volte il corpo entra in modo diretto, ad esempio in Canto della mia nudità, scritta nel 1929 a soli diciassette anni, in cui la poeta si rivolge con il «tu» a un ipotetico spettatore, forse l’uomo amato, ma in qualche modo anche a sé stessa, perché è lei che guarda con fierezza il proprio corpo nudo. Si tratta di una poesia audace, in cui compare il corpo vivo e desiderante, anche se il contenuto dirompente è disciplinato dal perfetto uso dell’endecasillabo.
In varie poesie degli anni successivi subentrano i motivi della voce e del corpo negati. Per esempio, ne La porta che si chiude, del 1931, troviamo il tema delle parole, della voce soffocata, in relazione all’impossibilità di esprimersi liberamente nel mondo. Ne Il porto c’è l’eco del Battello ebbro di Rimbaud, ma totalmente rivisitato al femminile: la figura della nave sfasciata e svuotata del suo carico, affidata a immagini energiche, esprime con inedito vigore l’anima e il corpo di una donna annientata non soltanto per la forzata rinuncia a un amore e a una speranza di maternità ma soprattutto perché deprivata del proprio più veritiero sé.
Nonostante gli impedimenti esterni – l’ambiente familiare alto-borghese di stampo fascista e l’ambiente intellettuale che all’interno dell’Università Statale di Milano si riferiva al filosofo Banfi, che rifiutava il valore del sentire ed era del tutto chiuso alla creatività femminile – Antonia Pozzi rimase fedele alla sua autenticità di vita, che esprimeva nella sua poesia, dove trovava la più vera libertà.
La sua è soprattutto poesia della relazione con la totalità dell’esistente, non solo con le persone di tutti i ceti sociali con cui lei entrava in contatto, ma anche con la natura, con i luoghi, con gli animali, e perfino con le cose, come ci propone anche María Zambrano, che coglie il continuum tra la percezione della natura e la pietas, come capacità di trattare con l’altro.
Partendo da esperienze personali, Pozzi riesce a esprimere con grande respiro le profondità del cuore e, a un certo punto, anche le tragedie della guerra e la miseria dei ceti sociali più svantaggiati.
Nel 1937 avviene per lei una svolta significativa nella vita, nella fotografia e nella poesia. Dopo un lungo soggiorno in Germania, Antonia Pozzi ritorna in Italia sconvolta dal clima di aggressività e di guerra che vi ha trovato. In questo periodo conosce Dino Formaggio, uno studente lavoratore a sua volta allievo di Banfi, e con lui inizia a frequentare i quartieri operai di piazzale Corvetto e di Porto di Mare, dove trova una desolante miseria.
Il suo rifiuto della guerra, già presente in due poesie del 1935, Le donne e Notturno, in cui la guerra di Etiopia non era considerata nell’ottica della retorica fascista bensì in quanto apportatrice di morte, si fa più netto, a tratti deflagrante, in alcune poesie del 1937. In Voce di donna Antonia si cala con un’adesione assoluta in una donna il cui marito è partito per la guerra. Ogni elemento della poesia fa pensare con molta concretezza al mondo contadino di Pasturo. Le immagini che si snodano nel testo sono robuste e trovano il loro culmine nelle «salvie rosse» che sbocciano nel cuore, quasi a gridare l’amore e il dolore della sposa del soldato: fiori metaforici ma anche molto carnali, come quelli presenti in tante altre liriche di Antonia Pozzi: fiori espressionistici che non trovano l’analogo nella poesia italiana degli anni Trenta, ma semmai in quelli dipinti negli anni 1918-1932 dalla pittrice statunitense Georgia O’Keeffe, peraltro a lei sconosciuta. La condanna più esplicita e forte della guerra si trova però nella poesia La terra, un testo potente nella sua commistione di realismo e visionarietà, che si riferisce ai massacri delle guerre sino-giapponese e di Spagna. Qui il rifiuto della guerra, fermo e assoluto, nasce prima di tutto da un dolore concreto e fisico, che Antonia sente nella propria carne e condivide con le donne di Pasturo, accorse ad ascoltare il vecchio gobbo, un mendicante indovino della Valsassina, da lei anche fotografato, che diventa una sorta di ancestrale profeta a cui sono affidati quei terribili annunci di morte.
Importanti sono poi le poesie del 1938, suo ultimo anno di vita, che si riferiscono ai sobborghi di Milano Sud, dove Antonia non andava a fare dall’alto una distaccata carità ma si immergeva fino in fondo in quella realtà con una profonda sofferenza, con un’empatia non nuova in lei, come dimostrano Filosofia, che scrisse a soli 17 anni, La disgrazia, del 1931, e Le Strade, del 1932, in cui si riscontra un’attenzione, che potremmo definire weiliana, al mondo dei meno fortunati. Ma in alcune poesie del 1938 la sua denuncia si fa ancora più diretta e tagliente: lo si vede in particolare in Via dei Cinquecento, che si riferisce alla casa degli sfrattati, situata nell’omonima strada. È una poesia d’amore per Dino Formaggio, ma lei non rinuncia a rappresentare con un linguaggio graffiante la realtà che trovava in quel luogo di dolore, in antitesi con la visione edulcorata che delle classi popolari offriva il fascismo.
Bernabò ha scritto, in modo chiaro e avvincente, una biografia che fa crescere la comprensione della poesia e della figura di Pozzi, grazie non solo alla sua specifica attività di ricerca sull’autrice, al dialogo con la critica più recente su di lei e all’impegno in diverse attività di diffusione in vari ambiti, collaborando a convegni, film e spettacoli teatrali, ma in particolare grazie al suo peculiare interesse rispetto all’originale contributo femminile alla visione del mondo attraverso la letteratura. In questo modo sa presentarci gli ostacoli frapposti alla libera espressione di una donna, mostrandoci nel contempo la forza con cui Antonia Pozzi seppe mantenersi fedele alla propria esperienza e ai propri ideali nell’epoca difficile in cui visse. Così ci aiuta a riconoscere ciò che oggi permane e ciò che è mutato nella società e nel modo con cui le donne affermano il loro modo di esistere, anche grazie al diffondersi via via più ampio della conoscenza dell’opera e della vita di Antonia Pozzi.
Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Áncora, Milano 2022, 350 pagine, 26 euro
(Leggere Donna, n. 198 / gennaio-febbraio-marzo 2023, pp. 31-33
Titolo: Dove non mi hai portata
Autrice: Maria Grazia Calandrone
Editore: Einaudi
Anno: 2022
Curiosità: candidato Premio Strega 2023
Stelle: 5 su 5
Pagine: 247
In due parole: l’indagine, colma di amore, empatia e comprensione, sui propri genitori di una figlia abbandonata
Se in “Splendi come vita” Maria Grazia Calandrone ha raccontato il suo complesso rapporto con la madre adottiva che ha vissuto con dolore il suo essere madre in seconda per così dire, qui racconta invece la ricerca da lei fatta sulle circostanze e gli accadimenti, che hanno spinto i suoi genitori biologici ad abbandonarla prima e a suicidarsi poi. Ripercorre la vita della madre, il suo matrimonio infelice, l’incontro con il padre, la loro relazione, la gravidanza, la denuncia per adulterio, la fuga di entrambi per provare a rifarsi una vita, le mille difficoltà vissute a Milano e la decisione finale: uccidersi assicurandosi prima che la loro piccola figlia vada in buone mani. È un racconto commosso e commovente, pieno di amore verso Lucia e Giuseppe (così si chiamano la madre e il padre), di bisogno di comprensione e anche di riconciliazione. Ed è quello che succede, la prova dell’amore di Lucia e di Giuseppe sta nel fatto che nel buio della morte, Maria Grazia non l’hanno portata, l’hanno lasciata alla vita che vita era. Io l’ho trovato bellissimo.
(Arieccome.blogspot.com – Non siamo creature mansuete, 16 aprile 2023)
di Giorgio Vincenzi
Elvira Guerra, Ida Nomi, Marina Zanetti, Rosetta Gagliardi, Isaline Crivelli Massazza, Rosetta Pirola Mangiarotti, Hilde Prekop sono nomi che oggi non dicono molto. Eppure dai primi del Novecento e fino agli anni Quaranta hanno vinto tanto nello sport a livello nazionale e internazionale. Donne che hanno usato lo sport per rendersi più libere. A raccontare le storie di queste donne ci ha pensato Caterina Caparello nel libro Testarde. Storie di atlete italiane dimenticate (Ed. Caosfera, euro 14).
Caparello, perché testarde?
Sono atlete vissute in un periodo molto preciso, dai primi del Novecento agli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Di conseguenza ci troviamo davanti a delle donne che non avevano alcun tipo di diritto, ma solo moltissimi doveri. Tra questi, il dover essere collocate all’interno di ruoli obbligatori prestabiliti: mogli e madri esemplari. Il loro essere testarde, quindi, non nasce solo dalla voglia di «uscire dagli schemi» e di provare, per pochissimo tempo, ad alleggerire il peso della loro condizione, ma si rendono conto di come lo sport sia una piccola chiave che apre una porticina, quella di poter praticare ciò che amano: tirare di scherma, correre, giocare a tennis, nuotare, allenare, andare a cavallo o sciare. L’essere testarde non è altro che una consapevolezza di sé stesse e di poter essere di più.
Qual è l’esempio più eclatante? E quello al limite dell’eroismo?
Tutte queste atlete sono esempi eclatanti. Sicuramente c’è stata qualcuna più esposta e in prima linea delle altre come Marina Zanetti, la prima commissaria tecnica. Lei, che è stata velocista e cestista prima e allenatrice poi, è dovuta scendere a parecchi compromessi pur di salvare la Federazione atletica femminile che, nel 1929, sarebbe passata sotto l’egida della neonata Fidal (Federazione italiana di atletica leggera) inglobata nella sezione maschile e quindi destinata a sparire lentamente. Si assunse tante responsabilità, creò le cosiddette «Olimpiadi della Grazia» nel 1931, ovvero la manifestazione internazionale dedicata allo sport femminile – dove convocò anche Ondina Valla, prima medaglia d’oro italiana – per poi essere mandata via dalla Federazione nel 1933. Inoltre, non parlerei di eroismo ma, al contrario, di normalità. Tutte queste donne non fanno altro che cercare di rendere lo sport un bisogno naturale e normale, che va oltre la sola e propagandistica funzione agevolatrice del parto. Come scrive di suo pugno nel 1929 Isaline Crivelli Massazza, sciatrice e golfista, «lo sport per me fa parte dei doveri verso sé stessi».
Raccontare di loro non è solo un modo per tirarle fuori dall’oblio, ma anche dimostrare come tenacia e passione sono le chiavi dell’autodeterminazione…
L’autodeterminazione femminile è una lotta continua che si sta intraprendendo anche ai giorni nostri. È necessaria. La tenacia e la passione di queste atlete mostrano tanti aspetti della società in cui vivono. E spesso tenacia e passione non bastano. Accanto a loro ci sono infatti anche altre figure importanti: sorelle, fratelli, madri e padri che credono in loro e tifano per loro. Allo stesso tempo, non bisogna dimenticare il periodo storico in cui agiscono e soprattutto ciò che la società dell’epoca si aspetta da loro. Sicuramente non possono esimersi, ma riescono comunque a rendere lo sport un amore esclusivo.
Un esempio sono le piccole ginnaste pavesi…
Ho provato a raccontare la storia di queste dodici piccole atlete, dove la più giovane aveva solo undici anni, attraverso gli occhi di «mamma» Maria, la custode della palestra della Ginnastica Pavese. Ho immaginato quest’ultima, ex ginnasta anche lei, guidarle verso un traguardo storico: la vittoria della prima medaglia per le donne italiane, un argento, ad Amsterdam nel 1928.
Lei le definisce donne che hanno usato lo sport per rendersi più libere e diverse…
Assolutamente. Lo sport è un atto di libertà. La consapevolezza di riuscire a praticarlo, nonostante l’ipocrisia e la falsità di cui sono circondate, specie durante i momenti di vittoria in cui si ritrovavano a stringere mani e sorridere a persone che non le avevano mai minimamente considerate, se non delle semplicissime donne, è ciò che le rende anche diverse. Una diversità che riescono ad assaporare sul campo, perché si trovano quasi separate da quel loro mondo reale così sbagliato e chiuso. Un mondo che le vuole omologate e senza la possibilità di poter essere proprio libere e diverse. Praticare sport è il momento in cui si sentono delle persone, perché la società in sé le considera solo in un determinato modo e ruolo.
Il corpo delle donne è stato usato per tanti anni per limitare la loro voglia di esprimersi nello sport…
Limitarlo e, allo stesso tempo, esporlo. Come nel caso della nuotatrice Hilde Prekop, campionessa italiana e oro nel 1932. Di lei e del suo corpo se ne servì la propaganda fascista che, da un lato, la fotografava in costume da bagno, con le gambe in bella mostra e la didascalia incitante le donne a nuotare per aiutare la loro fertilità, dall’altro lato i quotidiani di stampo cattolico che la accusavano di mostrare troppo, e spesso, il suo corpo che doveva rimanere, invece, nascosto. Da qui, possiamo notare non solo una mercificazione, ma anche una strumentalizzazione che, ipocritamente, la portava a ritrovarsi in mezzo ai due fuochi. Dove la colpa rimaneva esclusivamente la sua.
Oggi le donne che fanno sport subiscono ancora gravi disparità di genere?
Basta la parola «professionismo». Come ho anche riportato nell’introduzione del libro, a febbraio 2022, per la prima volta, le calciatrici sono diventate «professioniste» di fronte alla legge, grazie anche alle battaglie della capitana della Nazionale italiana, Sara Gama, sempre in prima linea. Il mancato professionismo, a causa della legge 91 del 1981 (la cosiddetta legge sul professionismo sportivo), è ancora un grande ostacolo alla parità di genere nello sport. Per questa legge, tutte le atlete sono considerate delle «dilettanti» e ciò comporta una fortissima mancanza di quei diritti fondamentali che delle lavoratrici meriterebbero: pensione, maternità, sanità ecc. Perché queste donne lavorano. L’unica eccezione riguarda l’arruolamento nei gruppi sportivi militari previo concorso pubblico: le atlete come Sofia Goggia, facente parte delle Fiamme Gialle, sono giustamente tutelate e percepiscono uno stipendio. Ma le pallavoliste come Paola Egonu? Le cestiste come Cecilia Zandalasini? No, e sono anche considerate dalla legge delle dilettanti. Per le calciatrici il passo avanti è stato fatto, adesso mancano tutte le altre.
(Alias – Il Manifesto, 15 aprile 2023)
di Chiara Valerio
Come tutti, in fondo, sappiamo, e come dichiarava il personaggio di un film qualche anno fa «esistono le grandi verità, le grandi bugie e le piccole bugie, e poi esistono le statistiche». Il saggio di Sara Chaney* srotola la storia dei nostri rapporti con i dati e con essi la tensione e il tentativo di misurare il mondo per trarne, si direbbe dopo aver letto questo magnifico saggio, non tanto informazioni quanto desideri e intenzioni. Il fine di queste campagne di misurazione di corpi e abitudini, abitudini e natalità, eccezioni e mortalità, malattie e curvatura degli archi sopracciliari o misura dell’angolo nel quale iscrivere il corpo umano è in effetti identificare una norma umana. Un uomo medio. Una donna media. E, stabiliti i campioni dell’umanità, segnare le distanze da essi. E cominciare a chiamare chi è semplicemente diverso a sé, diverso, e a questa diversità attribuire una sfumatura di pericolo, stranezza, sospetto, diffidenza, e alla fine paura.
«La scienza della normalità creata da questi ricercatori, dunque, è anche la storia di come intere comunità siano state alterizzate e definite in opposizione agli standard occidentali che fissavano il “giusto” modo di essere». Prima degli anni Ottanta dell’Ottocento, l’umanità tutta non aveva formulato tale domanda, che subito, appunto, è diventata un desiderio. Sara Chaney – ricercatrice presso il Queen Mary Center di Londra, questo è il suo primo libro tradotto in italiano – per dimostrare quanto l’idea della norma sia sentimentalmente radicata in noi e sia praticata parte da quel periodo della sua vita – e della nostra – nel quale è difficile stare bene con sé stessi: la terribile adolescenza. Tutti abbiamo goduto, ma soprattutto sofferto del nostro aspetto, dei nostri abiti, dei nostri modi, tutti abbiamo misurato e ci siamo sentiti misurati. Chaney parte da sé stessa per dichiarare il punto di vista dal quale parte e cioè una donna bianca eterosessuale cresciuta nella provincia britannica con possibilità di accesso agli studi superiori. Possiamo arrivare all’università – laddove esista – solo accettando che non lo siamo noi. Chaney spazia, nel suo studio, dalla disabilità alla moda prêt-à-porter, svelando in questo caso, per esempio che «i mercati di massa ci hanno regalato la semplicità degli abiti confezionati in serie, con i quali sono i consumatori a doversi adattare a ciò che indossano, e non il contrario». Il campione della definizione della normalità è ovviamente britannico. Dico ovviamente perché è chiaro che gli imperi coloniali tutti, e in special modo un impero che si muoveva economicamente sui mari e diffondeva quella macchina economica chiamata Compagnia delle Indie, hanno la necessità di stabilire una norma e di segnare una distanza. Il campione è Sir Francis Galton che oltre ad essere cugino di Charles Darwin, importante meteorologo ed esploratore e aver inventato un abile dispositivo in matematica – cercate su Google Macchina di Galton – era anche convinto che l’eugenetica fosse la via per una umanità più vicina alla perfezione e dunque alla bontà e, con molte sue congetture ha posto un freno a ciò che oggi chiamiamo medicina di genere. Galton pensava che l’uomo bianco eterosessuale fosse la misura del mondo. «Galton e i suoi colleghi scienziati eliminavano i dati che consideravano irregolari prima ancora di calcolare le norme». I bambini – con la loro irritante tendenza a crescere di anno in anno – rappresentavano da tempo un problema per gli studiosi di statistica. E così anche le donne. Galton “trasformò” i dati sulle donne per poterli confrontare direttamente con quelli sugli uomini: per esempio, fu necessario aumentare le altezze femminili mediante un’equazione ideata da Galton stesso finché i dati continuassero a rientrare in una curva a campana. Tali modifiche non erano soltanto una strategia per il confronto statistico. Si tradussero anche in un vero e proprio standard: gli uomini rappresentavano la normalità biologica alla quale bisognava adeguare i dati femminili. E ovviamente gli uomini bianchi rappresentavano la norma con la quale le altre razze dovevano essere confrontate. Così a leggere Chaney si capisce chiaramente anche un’altra cosa, che, visto dove e come siamo oggi, il più grande romanzo d’invenzione dell’Ottocento è stata la statistica, altro che eroi ed eroine tragici o comici, altro che battaglie in campo aperto e trame nei salotti, la più grande invenzione narrativa – più tragica che comica – è stato l’Occidente come centro di gravità permanente del mondo, e il maschio bianco come centro del centro di gravità. Chaney non giudica, racconta, non cancella e non nega, accumula. E soprattutto conforta: possiamo abbandonare il grande racconto statistico e, anche con le statistiche, farne un altro. Meno “normale” per tutti.
(*) Sarah Chaney, Sono normale?, Bollati Boringhieri, traduzione di Bianca Bertola, pagg. 274, euro 27,00
(la Repubblica – Robinson libri, 15 aprile 2023)
di Sandra Petrignani
«Le parole non contano/ noi preferiamo le cose». Sono due versi di Alba De Céspedes dalla raccolta di poesie, Le ragazze di maggio, riproposte ora negli Oscar Mondadori (208 pagine, 12 euro). Era così esaltata, Alba, di quanto stava accadendo nelle strade di Parigi in quel maggio del 1968, che non le importava se le protagoniste delle rivolte e di quei versi mettevano in discussione le sue amate “parole” in nome delle “cose”. Ci sono momenti in cui le parole tacciono e in primo piano vengono i fatti. «Non facevo altro che seguire ciò che accadeva intorno a me» racconta in una nota al libro. «Mi recavo alla Sorbona, all’Odéon, assistevo ai dibattiti, alle riunioni, e lì come nelle strade devastate, disselciate, ingombre di automobili carbonizzate e puzzolenti di gas, incontravo i giovani rivoluzionari, li interrogavo, li spingevo a parlare». Ma lei resta comunque una scrittrice e, tornata a casa, sente il bisogno di creare qualcosa su quei fatti straordinari. Con le parole. Lei ama le rivoluzioni e le donne. Per questo nelle sue poesie dà la parola alle ragazze. Anche lei è stata una rivoluzionaria. Una decina di anni prima, per Cuba, non aveva avuto esitazione a schierarsi con Fidel Castro e Che Guevara, quegli eroi di cui adesso i giovani francesi sventolavano le immagini. Non ha battuto ciglio quando tutti i beni ereditati dalla famiglia (cubana) sono stati confiscati e distribuiti fra il popolo. Ha accettato con allegria di diventare povera, perché quel che conta è che tutti i bambini possano andare a scuola e che la gente abbia un tetto sopra la testa.
Marco Vichi
Il revival attuale di De Céspedes coincide curiosamente con tempi (in Italia) che sicuramente non amano le sue posizioni politiche. Eppure è tutto un fiorire di attenzione verso di lei e di ristampe dei suoi libri. È appena arrivato il libreria Dalla parte di Alba, un’approfondita biografia-romanzo di Michela Monferrini (Ponte alle Grazie, 253 pagine, 16,80 euro) e nell’ultimo anno sono ricomparsi in tascabile Mondadori – che nel 2011 aveva meritoriamente pubblicato un volume dei Meridiani a lei dedicato, curato da Marina Zancan – Nessuno torna indietro, Dalla parte di lei (introdotto da Melania Mazzucco), Quaderno proibito (introduzione di Nadia Terranova) e L’anima degli altri (con prefazione di Loredana Lipperini). E sottolineo che si tratta di nomi tutti femminili, perché le donne hanno imparato a sostenere con convinzione queste grandi madri della letteratura, troppo facilmente destinate a cadere nel dimenticatoio. Ma almeno uno scrittore appassionato di De Céspedes c’è. Si tratta di Marco Vichi che ha contagiato il suo commissario Bordelli con questa passione trasformandolo in un lettore di Alba. Vichi di romanzo in romanzo trova il modo di citarla e parlarne (anche nel prossimo, Nulla si distrugge, che uscirà da Giunti il 20 giugno).
E anzi, sempre a fine giugno una delle quattro serate di incontri, organizzati da Vichi, Lungomare da leggere a Marina di Massa, sarà dedicata ad Alba De Céspedes. Sono cose che fanno piacere: purtroppo è rarissimo che gli scrittori tributino un simile riconoscimento ad autrici che non siano già accettate nell’Olimpo, come Woolf, come Morante, forse come Flannery O’Connor.
Il libro di Michela Monferrini può essere un ottimo ingresso per imparare a conoscerla. Perché De Céspedes, oltre che una grande narratrice e una pasionaria, ha avuto una vita in qualche modo esemplare di un’identità femminile fuori dagli schemi, esuberante, coraggiosa. È una donna che con tenacia e determinazione fa della scrittura il senso centrale della propria esistenza senza rinunciare a impegnarsi quando i tempi lo esigono.
(Editorialedomani.it, 8 aprile 2023)
di Maria Teresa Carbone
Con poche eccezioni (fra queste il ritratto di Antonio De Sortis su Alias domenica) i media italiani hanno dato notizia in ritardo e con poco risalto della morte di Dubravka Ugrešic, avvenuta il 17 marzo a Amsterdam, dove la scrittrice – nata jugoslava da padre croato e madre bulgara – viveva da anni. Di questa indifferenza Ugrešic non si sarebbe stupita più di tanto, basti leggere il testo conclusivo dell’ultimo suo libro edito in italiano, lo splendido La volpe, tradotto da Olja Perišic per La Nave di Teseo (che, sia resa lode, ha appena ripubblicato un altro suo titolo, Il museo della resa incondizionata, uscito nel 2002 da Bompiani nella stessa traduzione di Lara Cerruti, prefazione di Predrag Matvejevic).
«Il mio settore professionale – scrive Ugrešic in questo racconto che comprende una descrizione esilarante della Scuola Holden di Torino (“una sorta di Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, corporativa, adattata ai nostri tempi”) – si suddivide in economy class e business class, rispetto alla visibilità mediatica dell’autore e ai suoi compensi. La grande maggioranza degli scrittori si trova in economy class, una minoranza trascurabile in business class… In ogni caso io rientro nell’economy class, autentico vivaio di misantropia».
E misantropico e buffo è il seguito: il resoconto di un viaggio aereo durante il quale il viaggiatore davanti «abbassa il sedile, anche se sa bene che con questo gesto mi schiaccia le ginocchia e mi fa rovesciare il caffè sulle gambe», perché – e qui sta il genio della scrittrice – «i poveri amano vantarsi, pavoneggiarsi, sbattere le ali, mettersi comodi sul sedile visto che l’hanno pagato, calpestare il vicino mandandogli il messaggio che è un esemplare umano del tutto trascurabile, come d’altronde lo sono loro».
Il fascino dei libri di Ugrešic sta qui, nella precisione di uno sguardo che grazie alla sua nitidezza coglie (e accoglie) gli aspetti assurdi e fantastici del mondo in cui viviamo, un mondo che la scrittrice osservava con pena. Lo si capisce in un’intervista inedita rilasciata a Andrea Toribio nel 2021 e pubblicata adesso dalla rivista messicana Letras libres: «L’orologio globale non funziona più per tutti allo stesso modo. La circolazione dei flussi di informazione ha perso significato perché percepiamo sempre le stesse cose. Allo stesso tempo, la tragedia più drammatica oggi, la vita dei rifugiati, sembra passare inosservata dalla società. E questa mancanza di consapevolezza si ripercuote su altri sconvolgimenti cruciali come la revisione della storia, soprattutto quella dei paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est, la “destigmatizzazione” del fascismo storico, l’emergere del neofascismo…».
Né Ugrešic si pensava «da meglio» in quanto scrittrice, sia pure di economy class: in una bella serie di ricordi dei suoi traduttori in inglese proposta da Literary Hub, Vlad Beronja nota che «nella sua immaginazione socialmente sovversiva, Dubravka vedeva una profonda affinità tra il proprio lavoro letterario e le acrobazie di una donna delle pulizie polacca ad Amsterdam, la malinconica musica di strada di una donna rom a Berlino, il mestiere meticoloso di una manicure vietnamita a New York: tutte figure precarie, migranti, esposte ai capricci crudeli del mercato capitalista».
Ricorda un’altra sua traduttrice, Ellen Elias-Bursac, di averla chiamata l’8 marzo, la giornata internazionale della donna, per farle gli auguri: «Mi ha detto che era malata e che lo era da più di tre anni. Questo è accaduto nove giorni prima che morisse. In questi anni io e lei abbiamo lavorato a stretto contatto sulle traduzioni, ma non lo sapevo. In Croazia c’è un detto: nascondere qualcosa come un serpente nasconde le zampe. Molto Dubravka».
(il manifesto, 6 aprile 2023)
di Alberto Leiss
Sabato ho partecipato nella Biblioteca comunale di Spinea, vicino a Venezia, a un evento a suo modo eccezionale. Si è discusso con l’autrice, Teresa Lucente, di un libro: Il luogo accanto. Identità e Differenza, una Storia di Relazioni, Effigi edizioni, 2020. Ed è stata data la notizia, da Gabriella Cimarosto e dalla responsabile della Biblioteca Paola Marchetti, che tutti i materiali relativi alla storia raccontata nel libro sono ora raccolti e archiviati, e potranno quindi essere consultati.
Ma qual è la storia?
Parla di un buon mezzo secolo – dai primi anni ’70 al 2018 – di attività politica, in un senso molto originale di questa parola, promossa da una associazione di donne e di uomini, Identità e differenza, il cui «motore energetico» è stato una donna, Adriana Sbrogiò.
Ma lei stessa aggiungerebbe, come ha fatto sabato, che se la cosa ha funzionato è solo perché con altri e altre è stata fatta nascere, rafforzarsi e moltiplicarsi una rete di relazioni che, seppure attraversata e in qualche caso rotta, da conflitti acuti, è riuscita a costituire un permanente «luogo accanto»: accanto ad altri luoghi più tradizionali della politica, come amministrazioni comunali, impegni sindacali, volontariato, comitati di quartiere; un luogo nel quale il confronto e lo scambio radicati nelle esperienze personali, soprattutto l’ascolto, hanno suscitato energie capaci di «allargare l’ambito del possibile».
Espressione pronunciata di Teresa Lucente, che si è appassionata alla storia che ha scritto pur non avendola vissuta direttamente, e con lei altre e altri. Come Graziella Borsatti, una donna minuta ma che con grande forza era riuscita a sperimentare, come sindaca di Ostiglia, una ricerca nuova sul governare come capacità di «creare», non solo «gestire», facendo del potere politico qualcosa che può essere condiviso nella più ampia connessione di relazioni tra «governati e governanti».
Come Gabriella Cimarosto, che ha parlato del suo impegno per la conservazione della memoria non solo a Spinea, ma anche nel contesto ricco di storia operaia e popolare di Marghera. Come altri amici che ho rivisto con grande piacere (Marco, Gianni, e Marco…).
Anch’io la condivido.
Ho partecipato alla fase trentennale che racconta il libro, quando dal 1988 al 2018 Identità e Differenza ha organizzato a Asolo e a Torreglia seminari annuali con al centro lo scambio tra donne uomini nella ricerca di una pratica politica comune. Condividendo, discutendo e provando a arricchire il portato del pensiero e della pratica inventati dal femminismo della differenza. Incontri a cui hanno sempre partecipato amiche della Libreria delle donne di Milano, a cominciare da Lia Cigarini e Luisa Muraro.
Per me è stato un luogo di incontro anche con altri uomini che desideravano questa ricerca, e mi è successo davvero di condividere nuova energia, investita – sempre con altri – per esempio nella costruzione della rete di Maschile plurale. Sabato ho ricordato che, per me, la scrittura con altri amici di questa rete, nel 2006, di un testo che affermava prima di tutto la responsabilità maschile, di tutti gli uomini, nella violenza contro le donne – testo che fu condiviso da moltissimi maschi e che diede impulso all’azione di Maschile plurale – era stata motivata dalle discussioni avute in quel «luogo accanto». Una esperienza molto concreta, dunque, di «allargamento dell’ambito del possibile».
Ogni storia prima o poi finisce. E non è detto che tutti rimangano felici e contenti. Credo però che quella ricerca sia ancor più necessaria oggi. Forse dovremmo essere noi uomini a tentare di reinventarla in altri luoghi. Nuovi, ma vorrei non troppo smemorati.
(il manifesto, 5 aprile 2023)
di Valentina Parisi
Riavvolgendo il filo di quella intricata matassa che è il suo romanzo Memoria della memoria, Marija Stepanova ha rinchiuso in una immagine pregnante l’aspirazione recondita che l’aveva animata nel corso della scrittura: «Il mio intento era far sì che al lettore venisse voglia di trasferirsi, armi e bagagli, nel mio labirinto verbale».
Abitare un dedalo affabulatorio, fatto di digressioni, citazioni colte e repentine stoccate emotive, è anche quanto spetta a chi si inoltri, gomitolo alla mano, nella sua eterogenea produzione poetica, cui di recente si è aggiunta la silloge La guerra delle bestie e degli animali (a cura di Daniela Liberti e Alessandro Farsetti, Bompiani, pp. 256, € 20,00).
I cinque testi raccolti confermano la tendenza di Stepanova a prediligere, rispetto all’improptu lirico, forme di ampio respiro, come quella della ballata o del poema, rielaborate con distacco post-moderno e con una energia deflagrante che ha spinto il critico Boris Paramonov ad avvicinare l’autrice nata a Mosca nel 1972 ai cubo-futuristi e ai poeti alogici dell’avanguardia. Al tempo stesso, i suoi versi sembrano scritti da un Io femminile dai confini instabili, che ha rinunciato a una individualità definita per aderire a quella metamorfosi continua che, sebbene inavvertita, contraddistingue secondo Stepanova l’esistenza umana. Proprio su questo desiderio di dare alla propria voce una fluidità proteiforme si è concentrata la nostra conversazione, a Napoli, poco prima che l’autrice intervenisse al Festival della Lettura e dell’Ascolto.
Nella sua poesia è fondamentale il ruolo svolto dalla parola altrui, quella dei poeti russi, e non solo, ma anche quella proveniente da canzoni e slogan sovietici. Sembra che la sua voce poetica sia definita proprio da questo continuo gioco citazionale. È così?
Vorrei che lo fosse. Il mio modo di esistere sulla lingua sta in questo discorso fra voci diverse – a volte anche fra culture e lingue eterogenee. Qualche decennio fa, quando ho cominciato a scrivere, regnava la convinzione che un poeta dovesse trovare una propria voce unica, da mantenere immutata per il resto della vita. Questa associazione fra una persona e una sola voce mi sembra molto limitante, così come lo è, del resto, l’idea che l’identità umana sia inalterabile.
Nel suo poema «Spolia» un personaggio ignoto, forse maschile, rimprovera a una non meglio precisata «lei» di non essere «capace di parlare per sé» e di «essere mille voci». C’è qualcosa di autobiografico in questa notazione?
L’inizio di Spolia è un montaggio di citazioni pressoché letterali dalle stroncature di quei critici che, anni fa, mi accusavano di non essere in grado di trovare una «mia» voce, e mi fa piacere che lei abbia intuito la natura maschile di quel coro, perché in effetti a parlare erano quasi esclusivamente uomini. Com’è ovvio, le mie poesie andavano in tutt’altra direzione rispetto alle confessioni liriche che, almeno in Russia, ci si attende tuttora da una poetessa. In generale però credo che tutta questa enfasi sulla persona dell’autore sia eccessiva. Quando penso all’Io, mi viene in mente il buco vuoto di una ciambella; da questo buco esce una voce che «tasta» il mondo e lo rende reale. L’istanza concreta da cui proviene questa voce mi pare irrilevante, anche perché come le dicevo, va soggetta a radicali cambiamenti.
In mezzo a tutte queste metamorfosi e a tutte queste voci c’è almeno una costante nella sua poesia?
Direi che c’è una sola cosa che non cambia e cioè una domanda alla quale cerco di rispondere scrivendo: probabilmente, non sono in grado di formularla con chiarezza, ma è legata alla morte come momento di passaggio e a ciò che segue subito dopo. Ovviamente è una domanda gigantesca, difficile da delimitare, simile a un enorme cratere o a un imbuto; mi limito a camminare sui margini di questa immensa buca, nel tentativo di individuarne i contorni.
Il poema «La guerra delle bestie e degli animali» risale al 2015 ed è ispirato agli scontri nel Donbass fra truppe separatiste filorusse ed esercito ucraino. Ora che quel «conflitto a bassa intensità» si è trasformato nell’attuale catastrofe, colpisce ancora di più il suo volgersi all’indietro per parlare del presente, il gioco citazionale che lei qui propone non solo pescando da «The Waste Land», ma anche dal Canto sulla schiera di «Igor’», un testo che si riferisce a Kiev. Come mai ha scelto di dialogare proprio con queste due opere?
Anzitutto perché sono entrambi «poemi del dopo-guerra», testi che cercano di restituire la percezione spaesata di una realtà in cui è cambiato tutto. Ma, a dire il vero, con queste inserzioni di voci diverse mi interessava più che altro infrangere la linearità del discorso poetico sulla guerra. Ogni conflitto è lacerazione, della carne, ma anche del linguaggio. Mi chiedo se la brutalità sia una componente intrinseca della lingua russa, ovvero se il potenziale di violenza di cui osserviamo oggi l’attualizzazione sia iscritto nelle nostre stesse parole. Non penso che la lingua sia colpevole, però ad esempio Paul Celan, per poter scrivere, ha dovuto inventare un tedesco «nuovo», sia dal punto di vista morfologico che grammaticale. D’altronde non c’è lingua che «vanti» un passato imperiale cui sia estranea la violenza. Quello che può fare la poesia, credo, è tentare di delimitare queste zone a rischio. La lingua è come un campo minato dove restano insepolti gli ordigni dei secoli passati. Forse, prendendo coscienza di questa minaccia nascosta, possiamo trasformare il tessuto stesso della lingua. Sogno una lingua russa che diventi consapevole della violenza di cui è stata ed è portatrice.
Nella sua poesia un’immagine ricorrente, che dà anche il titolo a un ciclo del 2020, è quella del «rammendo della vita» (počinka žizni). Come ne spiega l’origine?
Questa metafora non è mia, viene dal chassidismo, secondo il quale ogni essere umano è al mondo per «rammendare la vita», quasi fosse una calza. D’altra parte, è una immagine che per me ha una profonda valenza sentimentale, perché evoca il nome del villaggio sperduto, Počinki, da cui provengono i miei avi materni. Fin dall’infanzia avevo sempre sognato di visitare questo luogo irraggiungibile, pressoché fantastico, e così, quando in seguito mi sono imbattuta di questa idea della mistica chassidica, ho avuto l’impressione che, in fondo, fosse stata mia fin da bambina: la vita ha bisogno sì di počinki («rammendi»), ma anche di Počinki – una sorta di Eden perduto cui tendere.
(il manifesto-alias, 2 aprile 2023)
di Franca Fortunato
Adriana Valerio è una teologa, una storica, un’esegetica, interprete dei testi sacri della Bibbia. Nel suo ultimo libro Le ribelli di Dio. Donne e Bibbia tra mito e storia, edito Feltrinelli, raccoglie il suo lavoro di quarant’anni di passione e di ricerche per una narrazione delle donne “altra” da quella istituzionalizzata dalla Chiesa nei suoi millenni di storia.
Valerio parte dall’assunto, comune alle teologhe femministe, che la Bibbia composta da numerosi libri, tramandati e scritti nell’arco di tempo di circa mille anni (dal X sec. a.C al I sec. d.C.) è un prodotto letterario e come tale non esaurisce le sue potenzialità di senso nel passato, ma si arricchisce continuamente di nuove chiavi di lettura; per questo non ha, e non può avere, univocità di interpretazione, ma si presta a significati molteplici da decodificare e interpretare. Nel libro la sua narrazione abbraccia il Vecchio e il Nuovo Testamento fino a Paolo di Tarso; mette a confronto interpretazioni diverse tra donne e uomini, propone questioni teologiche e storiche ancora aperte. Nella sua narrazione il “racconto di creazione e di caduta” diventa il “mito delle origini”, la rappresentazione simbolica “dell’umano alla ricerca di una propria autonomia”. L’universo non è nato in sei giorni; Eva, come Adamo, non è mai esistita e quindi è priva di fondamento l’accusa di una trasgressione a un comandamento divino e infine Eva non è nata e non poteva nascere da Adamo giacché sono le donne che partoriscono e non viceversa. Le donne non sono solo destinatarie, come gli uomini, del messaggio di salvezza, ma anche “portatrici della salvezza”. “Nostre madri fondatrici”, protagoniste della loro vita e di quella del loro popolo, sono le “matriarche” – Sara, Rebecca, Rachele, Lia, Tamar, Miriam, Debora, Hulda, Ester, Giuditta, Rhut, Noemi –, una genealogia femminile che non ha trovato memoria nella storia collettiva.
Il Dio delle donne non ha i caratteri del potere maschile. Non è il Dio guerriero, monarca assoluto che chiede sacrifici, giudica, incute terrore, castiga, esige obbedienza. È il Dio, invece, dell’amore, della misericordia, della vicinanza che le accompagna nella vita accettando le loro scelte libere. È lo stesso Dio di Gesù, che non chiede sottomissione, non parla di timore, ma di amore: annuncia felicità e speranza. È il Padre misericordioso-materno che abbraccia, accoglie incondizionatamente il figlio perduto e cerca chi si è smarrito senza condannare. Le donne, le cui tracce non scompaiono dai testi canonici, riconoscono Gesù, il Maestro. Ascoltano, interrogano, provocano, accudiscono, amano, condividono, testimoniano, inquietano, trasgrediscono, lo seguono e lo accompagnano lungo il suo cammino fin sotto la croce, dove gli uomini lo abbandonano. Gesù, un uomo pieno di sentimenti, le ama, ne fa le sue discepole (le sorelle Marta e Maria), le sue Apostole (Maddalena, l’Apostola degli Apostoli, non la prostituta pentita, come la si è voluta ritrarre; Maria, la madre, la sovversiva che non sempre capisce suo figlio), discute e si confronta con loro (la Samaritana, la missionaria ispiratrice della mistica), nel mentre i discepoli faticano a comprendere il suo comportamento. Il Gesù dei Vangeli non concepisce la sua comunità come una cerchia separata di soli uomini e non voleva un tempio, un sacerdozio, una struttura gerarchica, né tantomeno un diritto canonico, la sua attenzione era esclusivamente rivolta a un profondo rinnovamento di vita, in vista dell’immanente Regno di Dio. Una narrazione, quella di Adriana Valerio, che va letta, conosciuta e studiata.
(Il Quotidiano del Sud, 1° aprile 2023)
di Jessica Chia
«Nella mia dimensione culturale è normale che il Gange, sulle cui sponde sono nata, mi scorra nelle vene come parte di me, così come è naturale sapere che l’Himalaya costituisce la forza di pietra che mi contraddistingue. Io e la mia terra siamo uno. E questo vale per tutti gli esseri umani». È forse partendo da questo tutt’uno che si può entrare nel pensiero dell’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva (Dehradun, 1952), che allo studio e alla salvaguardia del pianeta ha dedicato la sua intera esistenza. Esattamente «cinquant’anni di attivismo» su settanta di età, come ha detto a La 27esimaOra nell’intervista che si è tenuta in occasione dell’uscita del suo nuovo libro. Il volume La vita è maestra. La mia storia di rivoluzione (Piemme, a cura di Manlio Masucci e Cinzia Chitra Piloni) è la prima autobiografia di Shiva, un «testamento culturale» e «un lascito alle future generazioni». Il volume inizia dal racconto della sua famiglia progressista – il nonno Mukhtar Singh fu l’iniziatore delle scuole femminili nei contesti rurali e morì di digiuno durante una protesta per poter fondare la prima università femminile. Cresciuta in simbiosi con la natura, Shiva si laurea in fisica nel 1978 all’Università del Punjab e consegue un dottorato in filosofia all’University of Western Ontario, Canada. Per tutta la vita si dedica a progetti di tutela della biodiversità, della sostenibilità alimentare, del clima e diventa «custode dei semi», che per l’attivista rappresentano «il principio della vita sulla Terra». Motivo per cui fonda Navdanya («nove semi»): un’organizzazione nata per difendere la sovranità alimentare e la biodiversità. Ma soprattutto Shiva, vincitrice nel 1993 del Right Livelihood Award, il premio Nobel alternativo per la pace, e fondatrice della Earth University, è la principale teorica dell’ecofemminismo e si è sempre battuta contro la globalizzazione, le colture intensive, gli Ogm, oltre a promuovere l’empowerment femminile, come lei stessa ha fatto lottando tutta la vita contro il patriarcato: lei, donna indiana che studia, che si separa dal marito, affronta una battaglia legale per ottenere la custodia del figlio, in una società che considera ancora donne e figli proprietà dell’uomo. In questa intervista le abbiamo chiesto il suo punto di vista sui leader mondiali, sul cambiamento climatico, sull’“immigrazione climatica” e sulla nascita del suo pensiero ecofemminista.
Perché la salvaguardia dei semi è così importante per il nostro pianeta? E qual è il significato di “monocultura della mente”?
«Ci hanno voluto far credere che le monocolture producono di più, ma la foresta naturale ha in realtà una produttività ben maggiore. Ho pensato: cosa impedisce alla gente di vedere la ricchezza e la diversità dei sistemi? Cosa li rende ciechi? Poi mi è venuta l’idea che la monocultura della mente non fa vedere la vita, la diversità, la pluralità. Questo è il pregiudizio attraverso cui prende forma l’uniformità della monocultura».
Com’è nato l’ecofemminismo e come si è evoluto?
«Sono stata coinvolta dal movimento Chipko (nato in India per la tutela delle foreste; sono celebri le donne del movimento che nell’Himalaya indiano abbracciarono gli alberi incatenandosi a questi per impedirne l’abbattimento, ndr) e pian piano mi è stato chiaro che sono state le donne a difendere la Terra. Quando mi è stato chiesto di scrivere un libro con Maria Mies, Ecofeminism (1993), raccontai il modo in cui il colonialismo e il commercio coloniale avevano deformato il processo economico dando vita all’estrattivismo: gli uomini venivano risucchiati nelle miniere e nelle piantagioni, e le donne erano lasciate a fare il lavoro di sostentamento della società, che però non veniva chiamato “economia”. Le donne avevano conoscenze su come sostenere i sistemi idrici, quelli alimentari, la comunità e la famiglia, e hanno continuato a farlo. Ecofemminismo è il riconoscimento che la convergenza di capitalismo e patriarcato sono le radici della distruzione del pianeta, del dominio sulle donne e del dominio sulle altre culture e razze. Ecofemminismo è il riconoscimento che facciamo parte di una sola famiglia sulla Terra, dove non ci sono specie, generi e classi privilegiate. Sulla Terra ognuno partecipa alla società della vita: questa è la vera democrazia, che io ho chiamato democrazia della Terra, e che è cresciuta dal mio pensiero ecofemminista pensando alla diversità, e non alle gerarchie, come base dell’uguaglianza».
Nel libro lei cita il G8 di Genova. In quel momento (era il 2001) in Italia il dibattito sul clima raggiunse la massa. Da allora, cos’è cambiato?
«Il dibattito sul clima esiste dal 1992 (con il primo summit della Terra a Rio de Janeiro, ndr) e, per qualche ragione, si pensa che sia appena venuto fuori. La Convenzione sulla diversità biologica e la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici hanno 31 anni, ma siamo di nuovo di fronte a un punto cieco, come se non ci fosse una crisi della biodiversità.
Ricordo bene il G8 di Genova, la grande protesta; prima di allora, c’era stata quella di Seattle. Fu il momento in cui i poteri costituiti pensarono di poter creare monopoli; in realtà capirono che le persone sanno resistere. La violenza contro il ragazzo a Genova (Carlo Giuliani, ucciso a ventitré anni da un carabiniere, ndr) è stata la nuova morte della democrazia: le persone avevano il diritto di protestare, ma quel diritto è stato criminalizzato: è questo quello che abbiamo visto a Genova. Genova è uno spartiacque totale, perché un ragazzo ha dato la sua vita per la libertà e la democrazia. Perché il G8 di allora, e oggi il G20, sono gruppi di persone che si riuniscono e decidono verso quale direzione deve andare il mondo. Se guardiamo a oggi, le persone stanno marciando per la natura, per il lavoro… Ma pensiamo che i leader stiano ascoltando? No, loro pensano di essere immuni alla democrazia».
Poche settimane fa Giorgia Meloni ha incontrato in India Narendra Modi. Cosa pensa di quell’incontro e delle promesse dei leader fatte intorno all’emergenza climatica?
«Penso che l’emergenza climatica significhi scendere tutti dal carrozzone della globalizzazione. Dobbiamo guardare alle emissioni e a come sono aumentate dal 1995 quando l’economia, invece di essere locale e nazionale, è stata globalizzata attraverso il controllo di società multinazionali. La globalizzazione aziendale è una fabbrica di emissioni e distrugge anche i mezzi di sostentamento, la democrazia delle nostre culture. Direi ai due leader: voi, oggi nel 2023, rappresentate una civiltà molto antica. Cercate di conquistare la fiducia dei vostri popoli per difendere la diversità culturale e la biodiversità per affrontare il cambiamento climatico».
Che cos’ha rappresentato per lei l’incontro con Papa Francesco?
«Ho incontrato per la prima volta Papa Francesco durante gli incontri che aveva organizzato (nel 2014) in Vaticano per parlare del superamento di un’economia dell’indifferenza verso un nuovo paradigma economico. Poi di nuovo, via Zoom, per The Economy of Francesco. Quando mi è stato chiesto dell’enciclica (Laudato si’, 2015, ndr) ho detto che è stata scritta dai cattolici, ma avrebbe potuto scriverla un qualsiasi leader spirituale perché distilla il meglio dell’evoluzione e del pensiero umano, la giustizia e la sostenibilità, i diritti della gente e i diritti della Terra che sono interconnessi».
Secondo lei, qual è il cambiamento più urgente da fare per la salute della Terra?
«Stop al cibo industriale, stop alla globalizzazione dei sistemi alimentari. Perché il 50% dei gas serra proviene da un cattivo sistema dell’alimentazione che sta distruggendo anche la biodiversità. Ci si sta concentrando su quattro colture che sono geneticamente modificate, e da cui possono essere raccolte le royalties: mais, canola, soia, cotone. In India abbiamo visto cos’ha fatto il cotone ai nostri contadini. L’Argentina è stata distrutta dalla soia Ogm. È tempo di fermare questo macchinario distruttivo che è stato creato dall’industria chimica usando l’ingegneria genetica. La cosa più urgente da fare è sviluppare la biodiversità, le economie locali, maggiore connessione tra chi mangia e i produttori di cibo, per ricostruire le economie locali attraverso le democrazie locali e con esse la diversità culturale del nostro pianeta».
In Italia, nella tragedia di Cutro hanno perso la vita 91 migranti. L’immigrazione continuerà a crescere anche a causa dei cambiamenti climatici. Quale scenario ci attende?
«La disperazione della migrazione deriva dalla distruzione delle economie e delle ecologie dovuta al sistema globalizzato. Siamo noi a spingere le persone fuori dalle loro case. Come unica famiglia della Terra, dobbiamo iniziare a pensare a come la Terra e i mezzi di sostentamento delle persone stiano venendo distrutti. Questa è la prima cosa da fare perché le persone abbiano la possibilità di stare a casa; abbiamo l’obbligo di trovare modi per accoglierli perché il pianeta è la nostra casa comune. E trovare spazio per le persone che sono state sradicate e sfollate è un dovere umano. Criminalizzare gli sfollati è moralmente ed eticamente sbagliato».
(La 27esima Ora, 26 marzo 2023)
di Franca Fortunato
Vera Politkovskaja con la giornalista Sara Giudice nel suo libro Una madre edito Rizzoli, da poco in libreria, onora sua madre Anna, la giornalista assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006. Guarda con i suoi occhi di figlia la madre e racconta di lei affinché il mondo non dimentichi il suo nome, come è avvenuto nel suo Paese, dove era diventata “la pazza di Mosca”. Racconta per ricordare la lezione lasciata a lei e al fratello, «siate coraggiosi e chiamate sempre le cose con il loro nome, dittatori compresi». In un andirivieni tra passato e presente, tra madre e figlia, Vera ci racconta la sua Russia e quella della madre, la sua vita in quella della madre, legate dal filo della guerra. Ieri la seconda guerra in Cecenia (1999-2009) di cui la madre divenne con i suoi reportage testimone della verità, dei crimini e degli orrori, oggi la guerra in Ucraina che ha portato Vera a lasciare il suo Paese, con la figlia Anna: «La guerra in Ucraina ha stravolto la nostra vita. Dopo il 24 febbraio 2022 il nostro cognome è tornato a essere oggetto di minacce, ancor di morte, questa volta verso mia figlia, che è solo un’adolescente. Da quando a scuola hanno iniziato a parlare del conflitto in Ucraina, i compagni si sono scagliati contro di lei. Così abbiamo scelto l’esilio volontario, la fuga in un altro Paese. Da un giorno all’altro abbiamo fatto le valigie e ce ne siamo andate da Mosca, che già ci aveva tolto tanto. A me la madre, a mia figlia la nonna».
Una madre, una nonna, una giornalista «testimone viva di quella mattanza in Cecenia», dove partiva per testimoniare, per ascoltare le vittime, per dare parola al dolore. «Io sono come un poeta. Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo». Odiata dal potere, era sola, profondamente sola. «La maggior parte dei colleghi non la capiva o non voleva capirla. Reagiva con sconcerto ai suoi reportage, che spesso venivano apertamente criticati. Per paura o per invidia». Non meraviglia che a distanza di anni «tutti si sono dimenticati in fretta di Anna Politkovskaja, soprattutto la gente che conta», il suo nome è avvolto dal silenzio, mentre in Occidente sopravvive ancora il ricordo di lei e del suo coraggio. Vera testimonia ciò che è accaduto in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Ricorda le proteste contro la guerra, le manifestazioni con «una significativa presenza femminile». «Quasi 22 mila russi sono stati fermati per aver manifestato pacificamente». Ricorda il movimento delle madri dei soldati, nato durante la seconda guerra cecena quando le madri andarono a prendersi i figli vivi o morti e oggi sono scese in piazza per impedire la partenza o il ritorno dei figli in guerra. Pagine commoventi sono dedicate alle ultime ore passate con la madre, alle ultime parole che si sono dette per telefono, allo sconcerto e al dolore alla notizia del suo assassinio. Un dolore che non passa, fatto di amarezza perché, a distanza di anni, se sono stati processati e condannati gli esecutori restano impuniti i mandanti politici: «Non è cambiato nulla. Gli uomini che mia madre ha combattuto con le parole sono ancora lì». L’immagine con cui si chiude il libro ha un grande significato simbolico. Il 6 maggio 2022 la dacia, luogo della memoria familiare, va a fuoco ma dall’incendio si salva solo il giardino dove in estate fioriscono gli iris e le peonie della madre. Un enorme salice, che aveva piantato lei, si ricopre di foglie. Il prato è di nuovo un manto verde, come il ricordo di Anna Politkovskaja rinverdito dalla figlia. Un libro che è un atto d’amore di una figlia verso una madre che ha fatto della verità la sua passione e la sua ragione di vita.
(Il Quotidiano del Sud, 18 marzo 2023)