di Liliana Rampello
Con Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf. Storia di un’amicizia Sara De Simone ha scritto un libro necessario e bello (Neri Pozza, pp. 428, euro 22). Necessario perché sfida opinioni polverose, da tempo depositate nel nostro immaginario, e bello per come è scritto, a cavallo di due registri, quello saggistico e quello narrativo, senza mai stonati salti stilistici. La documentazione alla base della narrazione è molto ampia e salda: lettere, diari, romanzi, racconti dell’una e dell’altra vengono riletti e avvicinati con estrema accuratezza, lasciandoci rassicurate sulla solidità dello studio, senza che il piacere della lettura ne risenta. Dati e fatti vengono assorbiti da una scrittura agile, fresca, seduttiva, che non inventa, ma vede e fa vedere un intero mondo, quello dei primi anni del Novecento.
Un’epoca, più ambienti sociali, una comunità di intellettuali, la particolare atmosfera ante e post Prima guerra mondiale, luoghi diversi (dalla singola stanza alle case, dalle cliniche alle pensioni, dai giardini ai salotti…) tutto sembra affiorare con una leggerezza che sa illuminare ogni singolo dettaglio senza mai perdere il filo che tiene al centro il ritratto di due scrittrici, Katherine Mansfield e Virginia Woolf, molto diverse ma entrambe magnifiche nella loro unicità. Quello che viene narrato è un rapporto complesso, contraddittorio, carsico ma tenace, che corre tra detti e non detti, fra le righe e gli incontri, tanti e intensi, un rapporto che dopo questo libro non potrà più essere banalizzato straparlando impietosamente solo di invidia, gelosia, competizione, perché è stato (ed è) molto di più, come scrive l’autrice: «La scena che troppo spesso non figura nella storia della letteratura è quella di due donne – due scrittrici – che sono in una stanza, e parlano dei propri libri, e di quelli degli altri, e ridono, e sono d’accordo, e non sono d’accordo, e si guardano negli occhi, e si temono, e ammirano. E sono amiche». Parole che indicano che questo è un libro politico, in cui la ricerca e lo studio portano a un risultato che non riguarda solo la storia e la critica letteraria, ma rilanciano liberamente la capacità femminista di reinterpretare il già pensato con pensieri impensati, di restituire la vita e l’esperienza delle donne al nucleo incandescente della loro origine.
Ma cominciamo con ordine, a partire dalle due frecce temporali che troviamo nell’indice: 1917 – 1923 e 1923-1941; nella prima sono raccontati gli anni che vanno dal loro primo incontro alla morte di Mansfield, anni sgranati uno dopo l’altro, seguiti con passo di formica, rintracciati e ritracciati come i bianchi sassolini di Pollicino, fino a costruire un affresco da cui sbalza il ritratto di entrambe; nella seconda corrono i diciotto anni che legano la morte di Katherine Mansfield a quella di Virginia Woolf, anni raccorciati a dire tutto il resto, tutto quel che resta tra le sue mani (e le nostre) a partire da una mancanza patita e da una presenza incontestabile dell’assenza, nell’assenza.
Il disegno di questa donna «insolita», Katherine, una scrittrice arrivata a Londra dalla Nuova Zelanda, non ancora trentenne, con una vita decisamente turbolenta alle spalle, è offerto in una lettera all’amica Virginia da Lytton Strachey, letterato profondo e insieme meraviglioso pettegolo, che sa bene come far scoccare la scintilla della curiosità: «Tra gli altri ospiti c’era ‘Katherine Mansfield’ – sempre che questo sia il suo vero nome – non potrei giurarci. Ne hai mai sentito parlare? O hai letto qualcosa dei suoi scritti? È una creatura decisamente interessante, molto divertente e alquanto misteriosa. Ha parlato con grande entusiasmo de La crociera, e ha detto che desiderava conoscere te più di chiunque altro. Posso aggiungere che ha per faccia una brutta maschera impassibile, intagliata nel legno, capelli castani e occhi marroni molto distanti l’uno dall’altro; e dietro la maschera un intelletto acuto e fantasioso in una maniera un po’ volgare».
Bastava molto meno per far drizzare le antenne di Woolf, eccitare il suo autoironico snobismo, la pelle sottile della sua vanità, e comincia così l’avventura di un’amicizia, la scoperta dell’Altra, l’altra con cui, da subito, condividere l’urgenza della scrittura, dell’arte come vocazione della vita, perché è «la vita della vita» che va raccontata. L’altra come specchio. La «sensazione di un’eco» la chiama Sara De Simone, perché, al di là di esistenze molto diverse, quando ciò che unisce è la passione del «fare lo stesso lavoro», del «parlare la stessa lingua», allora questa affinità supera ogni ostacolo, benché si cammini su un terreno impervio e misterioso: «Sapere di essere in due era emozionante, eccitante, ma anche spaventoso. Talvolta irritante. Significava essere esposte una all’altra, condividere con un’altra – che capiva, che vedeva – il nucleo pulsante, e più segreto, della propria esistenza».
De Simone lavora con vere e proprie sonde emozionali per guidarci alla comprensione di quel ribaltamento del nostro sguardo che mette in asse l’intero libro, con un’analisi spietata di tutti i passaggi, a volte esili, quasi impercettibili, di un percorso davvero accidentato.
Perché Mansfield e Woolf sono realmente molto differenti, nel rapporto con il corpo, la sensualità, la sessualità con uomini e donne, mariti o amanti; nella loro forza e nella fragilità. Del resto, queste due donne, coraggiose e consapevoli, stanno affrontando da sole, nel romanzo e nel racconto, la sfida della modernità in letteratura, la stessa rivoluzionaria sfida, sulla soglia del Novecento, di Joyce, Proust, Kafka, Musil, Stein… e dunque come potevano salvarsi dall’invidia, dalla gelosia, dall’inevitabile umana competizione?
«Soffrire d’invidia è terribile. Penso che l’unica cosa da fare sia confessare di provarla», scrive Virginia Woolf all’amico Roger Fry nel 1920, e giustamente Sara De Simone sottolinea l’onestà intellettuale di questo sfogo, in grado di depotenziare, «proprio perché confessata, perché non rimossa», la «passione triste, livida» cui è meglio non consegnarsi. Sono passati pochi anni dal primo incontro, e dalla pubblicazione, per la Hogarth Press, la casa editrice dei Woolf, di Preludio, di Katherine Mansfield; ci sono stati fraintendimenti e incomprensioni, la malattia le tiene spesso lontane, ma restano ancora tre anni per inanellare le parole necessarie a capire quanto la ricerca, la sperimentazione per «trovare nuove espressioni e nuove forme», le stringa in un patto che farà finalmente posto al riconoscimento reciproco di valore. All’ammirazione.
La morte di Katherine porterà in dono a Virginia piena e matura consapevolezza di quanto «impagabili» fossero le ore trascorse con lei, nessuna «l’aveva resa tanto gelosa», nessuna come lei «l’aveva fatta sentire meno sola». Una volta aperto, nulla può interrompere il dialogo tra due donne: «Sapere di essere in due significava rinunciare all’idea di essere l’’unica’, ma dava in cambio molto altro. Non era un guadagno costante, continuo, senza ombre e senza ambiguità, ma c’erano momenti in cui toccare con mano quella verità aveva un valore inestimabile». Questo guadagno sarà confermato dalla pratica di relazione fra donne nei nostri anni Settanta, ma già all’inizio del secolo due meravigliose antenate hanno indicato la strada che De Simone mette a fuoco con lucida intelligenza. C’è molto altro in questo libro, basta leggerlo.
(il manifesto, 25 gennaio 2023)
di Flavia Perina
Nel giugno del 2021 in Piazza Montecitorio, sotto il Parlamento, si tenne una staffetta oratoria che non dimenticherò. Al microfono si susseguivano madri e avvocate, ognuna con una storia di separazione coatta dai figli incredibile e qualche volta raccapricciante. A un certo punto gli altoparlanti diffusero la registrazione delle urla di un bambino prelevato a forza dalla casa materna, a Pisa. Non sembrava reale. Gli stessi racconti andavano contro ogni senso comune, avevano un tocco di follia. «Sembrano tutte un po’ fuori di testa», dissi all’amica che mi aveva accompagnato. Lo saresti anche tu, mi rispose, se da due, cinque, dieci anni vivessi con l’incubo che i tuoi figli siano prelevati e portati in una casa famiglia perché sei giudicata malevola, alienante, simbiotica, adesiva, da un padre che magari hai denunciato per violenza o che non paga gli alimenti. Aveva ragione. Glielo dissi allora, lo confermo oggi dopo aver letto il saggio a più mani Senza madre. Storie di figli sottratti dallo Stato, in libreria per Edizioni scientifiche Magi e frutto del lavoro di dieci tra giornaliste e attiviste. Un libro coraggioso per molti motivi, ma soprattutto per il suo obbiettivo: sfatare il mito della bi-genitorialità, cioè il concetto all’origine del corto circuito giudiziario per cui il figlio che ha difficoltà nei rapporti con un genitore (solitamente il padre) deve essere “resettato”, anche con la violenza e con l’obbligo aggressivo di stare insieme all’uomo di cui ha paura.
Senza madre è un collage di storie estreme e di testimonianze dirette di un sistema che rende centinaia di bambini “orfani per sentenza”, sottraendoli alle mamme sulla base di Consulenze Tecniche d’Ufficio che ribaltano il principio di non colpevolezza: per il solo diniego del bambino a frequentare l’altro genitore, le madri si ritrovano sotto accusa, costrette a dimostrare di non essere cattive genitrici e di non manipolare i sentimenti dei figli. Il punto che più colpisce è l’eclissi di un principio che credevamo assodato nella giurisprudenza, cioè la prevalenza del benessere psico-fisico dei minori su ogni altro dato. Quasi mai i bambini vengono ascoltati dal magistrato, anche se la legge lo imporrebbe. Quasi sempre il “verdetto” è affidato agli psicologi delle CTU. E spessissimo, come osserva Flavia Landolfi nel saggio, quelle consulenze si riducono a una «rincorsa forsennata di un mondo perfetto», con la pretesa che ciò che non funzionava durante il matrimonio o la convivenza, dopo la separazione si metta in marcia come un orologio svizzero. Così la bigenitorialità nella pratica quotidiana dei tribunali è letta come interesse supremo del minore e «diventa un mostro che tutto divora, anche i diritti fondamentali e inalienabili, come quello alla vita, alla sopravvivenza e alla libertà». Le autrici di Senza madre sono Clelia Delponte, Franca Giansoldati, Flavia Landolfi, Silvia Mari, Assuntina Morresi, Monica Ricci Sargentini, Nadia Somma, Paola Tavella, Emanuela Valente e Livia Zancaner. Vengono tutte da una formazione femminista o cattolica ma propongono un lavoro non-ideologico, scientifico, disvelando una verità che è storia quotidiana nei tribunali minorili ma che la grande opinione pubblica non conosce. La loro lucida ricostruzione è il miglior sostegno a quelle madri “folli” che combattono per la vita e l’equilibrio dei loro figli e anche alle moltissime che si rassegnano a relazioni tossiche o violente per paura di perdere i loro bambini. Ma è anche una poderosa inchiesta che si impone all’attenzione della politica, rivelando pratiche inconciliabili con uno Stato di diritto e con lo stesso principio di umanità.
(La Stampa – Specchio, 22 gennaio 2023)
di Farian Sabahi
«Campagne di diffamazione, insulti sessisti, minacce di stupro e di morte stanno colpendo ricercatrici, giornaliste e attiviste sulla rete», osserva l’attivista femminista Lilia Giugni. Autrice del saggio La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere) per Longanesi (pp. 300, euro 19), insegna Innovazione sociale all’Università di Bristol ed è ricercatrice associata presso l’ateneo di Cambridge.
Di questi tempi giornaliste e accademiche che si occupano di Iran vengono attaccate sui social e accusate di essere agenti della Repubblica islamica, laddove hanno invece sempre lottato per i diritti umani. Come si spiega?
Questo fenomeno è figlio della cultura patriarcale che, sia pure in modi diversi, sopravvive in tutto il pianeta, e porta utenti della rete (principalmente, anche se non esclusivamente, uomini) a tentare di zittire le donne che dicono la loro. A volte ci troviamo di fronte a episodi di violenza politica organizzata, di matrice quasi squadrista. Accade, per esempio, che operatori politici con pochi scrupoli sguinzaglino i propri follower contro una donna, non solo e non tanto per danneggiare lei specificamente, quanto per consolidare e compattare il proprio seguito fornendo loro una nemica, o magari per seminare divisioni all’interno di uno schieramento. In altre parole, le donne vengono sacrificate sull’altare della costruzione o della manipolazione del consenso, che al giorno d’oggi passa soprattutto per il web.
In quali paesi si è verificata una campagna di denigrazione per delegittimare giornaliste e accademiche?
Nel Brasile di Bolsonaro la giornalista Patricia Campos Mello, voce critica dell’ex presidente, ha subito per anni pesantissime minacce sia contro lei stessa sia contro la sua famiglia. In India la reporter Rana Ayyub, autrice di un libro inchiesta che indagava le responsabilità governative nelle violenze contro la popolazione musulmana del Gujarat, è stata ricoverata dopo che la diffusione online di un falso video pornografico le ha scatenato contro un’autentica persecuzione. Nella Russia di Putin, sono note le azioni delle «brigate del web», orde di «bot» (account automatici) con cui vengono prese di mira le oppositrici del Cremlino sia in patria sia all’estero. Negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia e in Italia abbondano i casi di donne prese d’assalto sui social quando si occupano di diritti di genere, migrazione, razzismo e cambiamento climatico.
Come mai sono in primis le donne a essere prese di mira?
Entrano in gioco misoginia e pregiudizi sessisti, che si traducono nel tentativo di privare le donne della libertà di prendere spazio sulla scena pubblica. I politici hanno imparato che sobillare gli utenti social contro le donne ha un ritorno. La strategia di monetizzazione delle piattaforme digitali si fonda sull’estrazione dei dati dell’utenza, e quindi sul tentativo di tenerci tutte e tutti il più possibile attaccati alla tastiera. Questo modello di business spinge le piattaforme a favorire, con espedienti, la circolazione di contenuti divisivi, e incoraggia la diffusione di disinformazione e la radicalizzazione dell’utenza. Un cocktail micidiale, che gioca un ruolo chiave nel meccanismo della violenza di genere online.
Come funziona la campagna di legittimazione in termini di retweet?
A dare il là a un attacco social è la pubblicazione di un primo post condiviso da un account con un numero cospicuo di follower, che genera uno tsunami di messaggi contro la donna di turno. Donald Trump, ad esempio, si serviva regolarmente di questo schema contro oppositrici e critiche, prima di essere bannato da Twitter in seguito all’assalto al Campidoglio. Nel caso delle giornaliste, sono le sezioni commenti e le pagine social a diventare teatro di abusi. Per questo, giornali come il britannico The Guardian, hanno scelto di precludere la possibilità di commentare per proteggere le reporter.
Come ci si può difendere?
Tante organizzazioni internazionali, dall’Osce all’International Federation of Journalists, hanno lanciato programmi per sostenere la sicurezza e la libertà di parola delle giornaliste.
Anche le università stanno diventando più consapevoli e pronte a tutelare le ricercatrici. Nel mondo le donne si stanno organizzando in network e reti per proteggersi e per sostenersi. In Italia, pensiamo a “Giulia Giornaliste” [https://giulia.globalist.it/]. A restare vulnerabili sono le croniste freelance, le accademiche precarie, le più giovani e prive di un qualsiasi sostegno istituzionale. In ogni caso, la responsabilità di sconfiggere la violenza di genere non dovrebbe gravare sulle donne, servono interventi politici e giuridici.
(Alias – il manifesto, 7 gennaio 2023)
di Robin Morgan
La maestosa Morgan Library di New York ospita fino al 16 febbraio 2023 una mostra unica, intitolata Colei che scriveva: Enheduanna e le donne della Mesopotamia, dal 3400 al 2000 a.C. circa. Se vi trovate dalle parti di Manhattan, programmate assolutamente di vederla. Quella degli antichi sumeri è la prima letteratura umana che si conosca, la lingua sumera è la più antica lingua scritta ed Enheduanna è la prima scrittrice sumera di cui ci è giunto il nome, quindi la prima scrittrice conosciuta della storia dell’umanità. Leggeva e scriveva anche l’accadico. Definita dagli studiosi successivi “la Shakespeare del suo tempo”, i suoi salmi, le sue preghiere e le sue epopee hanno influenzato i salmi della Bibbia ebraica, il Cantico di Salomone, i poemi di Omero, il Magnificat e gli inni cristiani.
Enheduanna è rimasta sconosciuta all’epoca moderna fino al 1927, quando l’archeologo Leonard Woolley ritrovò oggetti che portano il suo nome e la sua immagine. Oggi sappiamo che il suo nome in sumerico significa “ornamento del cielo” e che era definita l’alta sacerdotessa, anzi (non scriveremo qui il diminutivo “sacerdotessa”) alta sacerdote della divinità lunare Nannasuen. La sua esistenza come personaggio storico è certa; non è una figura mitica, come non lo è suo padre, Sargon il Grande. I documenti storici indicano che sua madre era una sumera della Mesopotamia meridionale e che suo padre era presumibilmente figlio di una sacerdote. Compose 42 Inni del Tempio e tre poemi a sé stanti, paragonabili all’Epopea di Gilgamesh, che non è attribuita a un autore ma che gli studiosi considerano un’altra parte importante dell’eredità letteraria della Mesopotamia. È stata la prima scrittrice a usare la prima persona, un fatto di per sé sorprendente. Enheduanna esercitò anche un notevole potere politico: come figlia di Sargon, in cui la maggior parte degli storici riconosce il fondatore del primo impero del mondo, svolse un ruolo essenziale nel legare la regione mesopotamica settentrionale di Akkad, dove suo padre salì al potere, e le città-stato sumere del sud che egli conquistò. Lo fece fondendo le credenze e i rituali associati alla dea sumera Inanna con quelli della dea accadica Ishtar, enfatizzando questi legami nei suoi inni e poemi letterari e religiosi e creando così un sistema comune di credenze in tutto l’impero.
Ciascuno degli inni che Enheduanna scrisse per 42 templi nella metà meridionale della Mesopotamia metteva in evidenza il carattere unico della dea patrona per i fedeli di quelle città – in altre parole, rendeva le preghiere rilevanti per i fedeli locali. Gli inni furono poi copiati dagli scribi dei templi per secoli dopo la sua morte. I suoi scritti ci sono giunti su tavolette di argilla incise nella scrittura nota come cuneiforme.
In questo estratto del suo poema L’esaltazione di Inanna descrive il processo creativo: «Ho dato vita, o esaltata dea, a questo canto per te. Quello che ti ho recitato a mezzanotte, possa il cantore ripeterlo a mezzogiorno», rendendo omaggio alla magia della scrittura in sé, che rende possibile a un testo di durare nel tempo senza bisogno di essere memorizzato. La scrittrice rivendica inoltre con orgoglio la sua autorialità alla conclusione degli inni del tempio: «La compilatrice della tavoletta è Enheduanna e ciò che è stato creato qui nessuno lo ha mai creato prima!». Il che è vero.
La sua padronanza della matematica, tra l’altro, è forse meno sorprendente se ricordiamo che gli storici fanno risalire le origini della matematica alla Mesopotamia, in contemporanea allo sviluppo del cuneiforme e di altri sistemi di scrittura; lettere scritte e numeri si sono probabilmente sviluppati per necessità nell’attiva economia agricola e tessile della regione, dove agricoltori e mercanti contavano e registravano ciò che veniva prodotto, venduto e scambiato. Le donne si appropriarono di vari ruoli (o forse li avevano da sempre) in un’ampia varietà di mestieri, tra cui la ceramica, la tessitura, la panificazione, l’allevamento, la produzione di birra e il lavoro artigianale.
Enheduanna visse, compose e insegnò circa 2000 anni prima di Aristotele e 1700 anni prima di Saffo, e racconta la sua storia di esilio e di ritorno al potere per intervento di Inanna in un inno che entrò a far parte dei miti culturali della Sumeria e fu una componente di quella civiltà per migliaia di anni. Il componimento descrive il tentativo di colpo di stato contro la sua autorità da parte di un ribelle di nome Lugal-Ane, la sua cacciata e la sua preghiera alla dea. Spiega di essere stata bandita dal tempio della città di Oruk e denuncia Lugal-Ane, che ha distrutto il tempio, uno dei più grandi del mondo antico, e non solo: nel primo caso registrato di molestie sessuali, ha fatto avance sessuali alla somma sacerdote, la sua stessa cognata.
Questo è il discorso che Enheduanna gli rivolge nel Lamento allo spirito della guerra:
«Tu abbatti tutto ciò che vedi, ti alzi su ali spaventose e ti precipiti a distruggere la nostra terra, infuriando come i temporali, ululando come gli uragani, urlando come le tempeste, la vegetazione crolla davanti a te! Il sangue sgorga dai fianchi delle montagne, spirito di odio, avidità e vendetta! Il tuo fuoco feroce consuma la nostra terra!»
Si rivolge anche a Inanna, in modo intimo e personale, erotico e caldo:
«Ho disposto le tue margherite, ho acceso i carboni, ho condotto i riti, ho preparato la tua camera nuziale! Ora il tuo cuore mi abbracci! Queste sono le mie creazioni, regina onnipotente, che ho fatto per te, ciò che ho composto per te nel buio della notte il cantore lo canterà di giorno.»
Sembra che Inanna l’abbia ascoltata, perché le fu restituita la sua carica e scrisse che «il giorno le fu favorevole, vestita di bellezza, raggiante di gioia, avanzava come l’elegante luce della luna, oh sia lode a Inanna!».
Enheduanna sembra essere stata la prima donna a ricoprire questa carica a Ur, e il suo comportamento come somma sacerdote sarebbe servito da modello per coloro che l’hanno seguita. La raffinatezza e la bellezza delle sue opere non ebbero un impatto solo sulla teologia mesopotamica ma anche sulla politica, avvicinando gli dèi alla gente del paese, rendendoli personaggi più profondi e simpatici, divinità per tutto il popolo e non solo per i sumeri o gli accadi. In definitiva, il fascino dell’opera di Enheduanna sta nell’aperta sensualità e nell’ardente devozione. In un Magnificat precristiano a Inanna, La Signora dal cuore grande, scrive: «Tu sei magnifica. Il tuo nome è lodato, tu sola sei magnificata! Mia signora, io sono tua. E così sempre sarà, che tu possa ascoltarmi ed essere ben disposta verso di me. La tua divinità risplende nella terra! Il mio corpo ne ha fatto esperienza!».
(Erbacce.org, 1° gennaio 2023, traduzione di Margherita Giacobino. L’articolo è apparso il 19 dicembre 2022 sul blog di Robin Morgan)
di Virginia Nesi
A un certo punto Penelope domanda a sé stessa: «Si smette forse mai di aspettare? Esiste qualcuno che non aspetta nulla? Tutti aspettiamo qualcosa». Lei aspetta il ritorno del fidanzato dalla Spagna. Jonás è partito con la famiglia alla ricerca delle origini della madre defunta. E per frantumare l’attesa, Penelope tesse e disfa parole su un taccuino, un quaderno Ideal, come la nota marca messicana. In casa a farle compagnia c’è solo il gatto, Telemaco.
Più di una rivisitazione dell’opera omerica, la protagonista di «Quaderno ideale» (Alter Ego), il nuovo libro di Brenda Lozano, è il volto della Penelope contemporanea che mentre aspetta e scrive si ritrova a compiere un viaggio interiore. Di lei non conosciamo un’identità precisa, sappiamo solo che ha trent’anni. «Non volevo focalizzarmi sulla sua descrizione fisica, ma mostrare come vede il mondo», dice Brenda Lozano a La27Ora. Scrivere diventa per Penelope un modo per colmare vuoti, tracciare righe, combinare spazi e incrociare personaggi. Perché nel «quaderno ideale» domina il sincretismo. I personaggi inventati camminano sulle stesse vie di quelli reali. Si connettono generi ed epoche. Il risultato è un crocevia di incontri tra Marcel Proust, Fernando Pessoa, William Shakespeare. Ma anche Shakira, David Bowie, Virginia Woolf.
Spiega la scrittrice: «I classici e i grandi scrittori del XIX secolo si mescolano con il pop, tutto convive nel presente. Mi sembra incredibile poter rileggere adesso un’opera di Shakespeare tradotta in spagnolo in un ristorante giapponese di Città del Messico. La finzione si mescola in continuazione con la mia vita». Quindi aggiunge: «Il linguaggio è lo spazio della libertà assoluta perché la parola traccia idealmente una orizzontalità: possiamo mettere sullo stesso piano Hitchcock, Shakespeare e Rosalia». E tra una riga e l’altra del libro appare anche Federico Fellini: «Da adolescente ho fatto una maratona dei suoi film», ammette la scrittrice.
Sullo sfondo del romanzo, la quotidianità di uno Stato martoriato dalle violenze e
dagli omicidi. In Messico c’è una media di 41 morti al giorno, si legge nel diario della protagonista. Solo nel 2021 i femminicidi registrati risultano più di mille. Anche il Paese in cui Penelope vive aspetta, «aspetta la tranquillità per strada, sul lavoro, all’ora di andare a dormire. Qui la gente aspetta di sentirsi al sicuro, è chiedere molto?».
Quando domandiamo a Brenda Lozano se esiste qualcosa che la spaventi, lei fa una breve pausa, poi dice: «Ho paura di uscire per strada di notte e camminare, ma anche a prendere un Uber a serata inoltrata». Le violenze che subiscono le donne, ci tiene a sottolineare, non sono solo abusi. Così racconta: «Per la mia tesi volevo focalizzarmi su una scrittrice messicana ma il mio tutor mi disse che non dovevo scegliere una donna, meglio scrittori come Rulfo o Borges. Quella è già una forma di violenza nella cultura». E poi aggiunge: «La letteratura fatta dalle donne rischia di rimanere in secondo piano in Messico, Paese di Octavio Paz, Carlos Fuentes; ma anche in America del Sud, continente di Gabriel García Márquez e Mario Vargas Llosa. Sono cresciuta pensando che scrivere per me fosse quasi impossibile». Quindi oggi scrive per rivendicazione? «No, lo considero un atto di resistenza».
(La 27esima Ora, 30 dicembre 2022)
di Vincenzo Trione
Quasi un affronto. Quando Lea Vergine confessa la propria intenzione di curare un’esposizione interamente dedicata all’«altra metà dell’avanguardia» (organizzata nel Palazzo Reale di Milano nel 1980), il critico d’arte Antonello Trombadori le chiede: «Ma una mostra solo di donne? Vi volete fare anche la storia dell’arte per conto vostro?». Da questa infelice battuta muove Self-portait. Il museo del mondo delle donne (Einaudi), capitolo ulteriore dell’originale progetto storico-critico cui Melania G. Mazzucco sta lavorando da qualche anno. Come una nuova ala della pinacoteca senza pareti in parte ordinata in un volume precedente (Il museo del mondo, Einaudi, 2014).
Per allestire la sua galleria «personalissima» e impossibile, fatta di ritratti nei quali la donna è autrice e anche soggetto («detiene il controllo della vita»), Mazzucco indossa gli abiti della curatrice involontaria, polemica verso le sterili rivendicazioni femministe, impegnata a squarciare il velo di censure e di silenzi che per decenni ha avvolto ricerche ostinate e solitarie, a lungo rimosse, a causa di pregiudizi e di omissioni.
Attenendosi all’approccio poetico già sperimentato ne Il museo del mondo, Mazzucco disarticola le cronologie consolidate, incurante anche delle provenienze geografiche, culturali e stilistiche. Elimina nessi e collegamenti, per disporre i vari profili in sezioni monografiche, che ripercorrono le diverse età della vita (Nascita e infanzia, Adolescenza, Giovinezza, Vecchiaia) e alcune esperienze esistenziali decisive (Erotismo, Gravidanza, Aborto, Sessualità, Sorellanza, Maternità, Matrimonio, Lavoro).
In ogni area tematica sono radunate artiste lontane. Di ciascuna viene analizzata una sola opera, che è trattata, per riprendere un rilievo della filosofa marxista Ágnes Heller, come una persona concreta, portatrice di problematiche uniche e inviolabili, dotata di un’identità, di un carattere, di una singolarità, di propri diritti. I quadri sono considerati come palinsesti autonomi e chiusi in sé, eppure attraversati da tanti echi di fondo: rinvii storico-artistici e biografici non sempre consapevoli.
Per accostarsi ai quadri Mazzucco intreccia uno sguardo attento alla specificità del linguaggio pittorico con uno sguardo teso a estrarne vicende e segreti. Per un verso, si china su una fitta trama di figure e di colori. Per un altro, distante dall’ermetismo teorico e concettuale proprio di larga parte della critica d’arte attuale, si ricollega alla tradizione vasariana, attribuendo un’assoluta centralità alle vite degli artisti. Infine, procedendo per indizi e piste laterali, risale alle ragioni intime e private sottese ai dipinti, complessi ingranaggi visivi e materici che racchiudono narrazioni implicite, simbolismi nascosti, aneddoti non rivelati. Dunque, dall’opera alla vita. E dalla vita all’opera.
Le immagini sono trasformate così in discorsi. I quadri diventano drammaturgie, che vengono interrogate da una detective abile nel servirsi di una prosa classica e, insieme, seduttiva. Da Artemisia Gentileschi a Plautilla Briccia, da Carol Rama a Louise Bourgeois, da Marlene Dumas a Giosetta Fioroni e Jenny Saville, passando per Leonora Carrington e Berthe Morisot, per Suzanne Valdon e Marie Laurencin, per Frida Kalho e Georgia O’Keeffe, per Tamara de Lempicka e Gabriele Münther, per Sonia Delaunay e Natal’ja Goncharova. Una cartografia ricca di sorprese, in cui non mancano i nomi piuttosto eccentrici: Pauline Boty, Marie-Guillemine Benoist, Giulia Lama, Tarsila do Amaral, Eva Gonzalès, Marianne von Werefkin, Emma Ciardi, Katsushika Ōi e Helene Schjerfbeck.
Voci diverse che, tuttavia, condividono alcuni tratti caratteriali e la medesima filosofia dell’arte. Siamo dinanzi a «donne forti, eroine a loro modo, che rivendicano il diritto di volgere le spalle ai lavori domestici per contribuire lotta politica, e/o alla produzione culturale», osserva Mazzucco. Artiste erratiche, eretiche ed erotiche, che praticano quotidianamente la disciplina della pittura. E pensano visivamente, per immagini: «Ogni scelta (rinuncia al paesaggio, inquadratura stretta, composizione verticale per accrescere l’effetto di percolo), parla».
Segnate dalle stigmate dell’alterità, spesso condannate a ruoli secondari, queste infaticabili sperimentatrici sembrano comportarsi come Euridice senza Orfeo. Espressione di un’urgenza testimoniale, nelle loro tele evitano ogni pietas. Sfidano le rappresentazioni tranquille, per consegnarci iconografie che trasudano tenerezza, disperazione e sacralità. Elementi distintivi: l’autoironia, il sarcasmo, il coraggio, la capacità di non sfuggire alle follie, alle devianze, ai tormenti e ai dolori, la volontà di raccogliere il vissuto, infine il ricorso alla memoria intesa come dispositivo prodigioso per salvare emozioni passate e come filtro per esorcizzare la morte. Artificio frequente: la deformazione. Tema centrale: la corporeità, luogo dal perturbante, territorio dove si smascherano finzioni e imbrogli.
Nelle mani di queste artiste disubbidienti e angosciate, arte e autobiografia sfumano l’una nell’altra. I quadri sono come lettere su cui vengono registrate inquietudini, tragedie e solitudini. Diari che dicono le imposture del quotidiano e, per ricorrere ancora alle parole di Lea Vergine, descrivono «la malattia mortale per eccellenza: la vita».
Il senso di questi ininterrotti affioramenti è in un’opera di Marlene Dumas, The Painter (1994). Un ritratto e, al tempo stesso, un autoritratto traslato. Al centro, in un contesto poco riconoscibile, una bambina statica, immobile. La bocca serrata, i capelli corti, biondi e radi. Le braccia, ciondoloni. È nuda, senza ornamenti. Si tratta di Helena, la figlia dell’artista. Il titolo del quadro – la pittrice – però, ci porta altrove, suggerendo una certa ambiguità. Di fronte a noi è «la bambina o la donna che la dipinge»?
Ideale epilogo di questo viaggio divagante, Last Self-Portrait (1945). Con un carboncino, su un foglio di carta, la finlandese Helene Schjerfbeck abbozza una sagoma spettrale. Non ha corpo né capelli. Solo la testa: la bocca, una linea; il naso, un rigo; gli occhi, un cuneo. È come se l’artista si sdoppiasse, per specchiarsi nella sua imminente morte. «Un’inversione – scrive Melania Mazzucco, che potrebbe coronare questo racconto della pittura in cui la donna è s-oggetto. Ma la morte non esclude la rinascita e il ritorno».
(Corriere della Sera, 30 dicembre 2022)
Domenica 25/12/2022 è andata in onda su Radio popolare La domenica dei libri, trasmissione curata da Roberto Festa.
Proponiamo qui uno dei servizi, l’intervista a Liliana Rampello sul primo volume dei Meridiani Mondadori da lei curato, dedicato a Jane Austen (il secondo volume uscirà a breve). La traduzione è di Susanna Basso per tutti i sei romanzi dell’autrice, scritti fra il 1803 e il 1816.
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di Franca Fortunato
Il dieci dicembre 1927 a Stoccolma una donna, una grande scrittrice italiana, ricevette il Premio Nobel per la Letteratura, la prima e unica ad oggi. Il suo nome è Grazia Deledda, nata a Nuoro nel 1871. Una donna determinata e testarda che, credendo in se stessa, ha saputo farsi strada nel mondo letterario del suo tempo, un mondo misogino e sessista, ostile a ogni donna che pretendesse di fare della scrittura la propria professione. Appassionata di libri e di storie sin dall’infanzia, leggeva sempre e ovunque e così cominciò a scrivere giovanissima. Amava andare a scuola ma, come per tante della sua generazione, i genitori le proibirono di continuare dopo la quarta elementare perché “femmina” ma non le negarono lo studio che continuò a casa con un precettore e poi da sola. A 17 anni pubblicò la sua prima novella, dove in modo spietato descriveva l’ipocrisia e l’arretratezza della realtà del suo paese natio. Fu un grido unanime, “vergogna”, fu accusata di scrivere menzogne e calunnie. Anche i genitori e le zie la rimproverarono e la criticarono. Che si cercasse un marito, scrivere non è da “femminina”. Grazia deluderà tutte/i, continuando a scrivere e a pubblicare, restando fedele al suo desiderio profondo di diventare una grande scrittrice. Inseguirà il suo sogno e la sua ambizione fuori dalla Sardegna, a Roma, la “Gerusalemme della cultura”, dove si trasferisce con Palmiro Madesini, l’uomo che diventerà suo marito e suo agente letterario. Grazia vuole scrivere ma anche sposarsi, vuole lavorare ma anche avere figli, non vuole scegliere tra maternità e lavoro, aiutata e sostenuta in questo dall’uomo che ha scelto come suo compagno, un uomo che non la invidia, che non è geloso del suo successo, anzi è contento, la sostiene e la rende felice. In un tempo patriarcale come quello del primo Novecento, un uomo che lascia il lavoro per mettersi al servizio di una donna, un’intellettuale, suscita negli altri uomini disprezzo. È così che Luigi Pirandello lo ridicolizzerà in una sua opera, lui invidioso della scrittrice “ignorante” che gli aveva sottratto il Nobel. Lasciata la Sardegna per inseguire il suo sogno, Grazia non cesserà per tutta la vita di amare e raccontare con “la sua potenza di scrittrice” la sua terra e “la vita quale è nella sua appartata isola nativa” – come si legge nella motivazione al Nobel –. A quella terra natia da cui è fuggita, al suo amore per essa che, consapevole o meno, la tiene legata simbolicamente alla madre, la sua origine, deve la sua forza e la sua arte, come ha ricordato nel suo discorso a Stoccolma, dove sul palco è salita mano nella mano con il marito. «Sono nata in Sardegna. La mia famiglia composta di gente savia ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche una biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei (…). Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo». Un’arte originale, cioè radicata nelle sue origini, la terra, la madre, che ha fatto di lei una grande scrittrice e l’ha resa degna di quel Nobel assegnato quest’anno alla scrittrice francese Annie Ernaux.
(Il Quotidiano del Sud, 17 dicembre 2022)
In Libreria delle donne abbiamo i libri di Grazia Deledda e si possono acquistare anche online al seguente link: https://www.libreriadelledonne.it/ordina-un-libro/ (ndr)
di Marina Montesano
«Quello che infatti è il cibo per la conservazione dell’individuo, questo è l’unione carnale per la conservazione del genere umano; ed entrambe le cose non sono prive di piacere fisico. Ma questo piacere, regolato e disciplinato dalla temperanza secondo l’uso della natura, non può essere libidine. Ciò che è nel sostentare la vita un cibo illecito, questo è nella ricerca della prole un rapporto di fornicazione o di adulterio. E ciò che è un cibo non permesso nella ghiottoneria, questo è un rapporto illecito nella libidine senza la ricerca della prole. E all’avidità eccessiva che alcuni hanno per un cibo consentito, corrisponde nel matrimonio il rapporto non gravemente colpevole. Come dunque è meglio morire di fame, che cibarsi di cibi sacrificali; così è meglio morire senza figli, che cercare discendenza».
Il paragone fra i peccati della gola e quelli di lussuria è tracciato chiaramente da sant’Agostino del trattato La dignità del matrimonio. Lo ricorda Chiara Frugoni nel suo libro A letto nel Medioevo. Come e con chi (Il Mulino, pp. 168, euro 22), uscito postumo, quando, verso la conclusione, parla del modo in cui la Chiesa si insinua nei letti e traccia una geografia dei sensi parimenti condannabili.
Il Medioevo della studiosa, tuttavia, ha sempre sfidato le convenzioni, e anche questo breve libro corredato da splendide immagini non delude, mostrando come l’insieme dell’epoca non si possa certo ridurre soltanto a repressione e soppressione della sensualità. Prima di occuparsi di questi aspetti, però, Frugoni parte da quelli più materiali: in quali letti si dormiva, e in che modo? Si dormiva nudi, con un cappello a protezione del capo che resta fuori, mentre le fonti mostrano come a esser temuto fosse soprattutto il gran freddo.
Letti per ricchi e letti per poveri, letti per francesi e letti per italiani: l’autrice ci guida attraverso le differenze con l’aiuto dell’iconografia, con lo stile colloquiale ma attento ai dettagli che l’ha sempre contraddistinta.
Nei letti non si dorme soltanto, e anche questo è spiegato. Ma soprattutto il letto non è solitario: intorno c’è una camera che serve anche ad altri scopi (è una stanza «multitasking»): ci si chiacchierava seduti magari su un cassone con cuscini, ma i sovrani potevano anche ricevervi per affari di Stato. Inoltre, il letto non è detto che fosse soltanto nelle camere in cui si dorme. Una deliziosa miniatura mostra due amanti in un letto sistemato all’interno di un bagno pubblico, dove ci si rinfrancava e magari si consumavano incontri a pagamento o clandestini; si cita a riscontro dell’immagine la novella del Decameron nella quale Boccaccio racconta la storia di Salabaetto truffato da Biancofiore, complici gli agi di un bagno dove i due sono lavati da schiave per poi adagiarsi nudi fra lenzuola pulite.
(il manifesto, 22 novembre 2022)
di Alberto Leiss
Venerdì prossimo è la giornata contro la violenza sulle donne. Un’occasione per riflettere meglio, soprattutto noi uomini, sull’uso delle parole che pronunciamo, se le pronunciamo, quando affrontiamo questo argomento. «Di violenza sulle donne si parla molto», scrivono due giornaliste del Sole 24 ore, Chiara Di Cristofaro e Simona Rossitto, in un libro appena uscito con la loro testata: Ho detto no. Come uscire dalla violenza di genere.
Enumerando tv, convegni, libri «e, da ultimo anche campagne elettorali. L’attenzione politica e mediatica da alcuni anni è alta». Nel mondo – stando alle statistiche – circa un terzo della popolazione femminile subisce violenze, e in Italia ogni tre giorni una donna è vittima di femminicidio: «… nonostante l’accresciuta sensibilità, i numeri non migliorano».
Per ragionare sul perché e su come reagire consiglio di leggere il libro, i cui capitoli partono da vere storie di violenza per concentrarsi sugli aspetti comportamentali, le norme e la loro applicazione, il linguaggio nei contesti privati e pubblici, i dati disponibili, e infine sul ruolo e le scelte di chi agisce la violenza, noi maschi. Mi limito ad alcuni aspetti. Il primo è il fenomeno della «vittimizzazione secondaria», me ne sono occupato con altri amici della rete di Maschile plurale nel progetto europeo Never Again.
Un percorso, molto ricco, di formazione ideato dall’Università campana Vanvitelli con l’associazione Dire (Donne in rete contro la violenza), gestito dal gruppo Prodos, con il partenariato anche del Sole 24 ore e del gruppo teatrale M.A.S.C. (Movimento Artistico Socio Culturale), rivolto a magistrati, avvocati, forze dell’ordine e giornalisti. Al centro c’è l’uso delle parole. Quelle che pronuncia un magistrato («Come mai si è decisa a denunciare solo adesso?»), un poliziotto («Ma è sicura di voler inguaiare il padre dei suoi figli?»), un giornalista («Ha ucciso per troppo amore»). Quelle della legge, da interpretare, e delle sentenze, che spesso ripetono stereotipi e pregiudizi che fanno della vittima una complice.
Questo uso delle parole produce nuova violenza su chi già l’ha subita, e contribuisce a demotivare le donne a reagire. In due giornate di discussione che hanno concluso il progetto biennale di cui ho accennato, ho ascoltato Nunzia Brancati, della Polizia di Stato, parlare delle «stratificazioni culturali ataviche» che fanno della famiglia il teatro di queste violenze, e l’avvocata della rete Dire Elena Biagioni ricordare che solo il 30 per cento delle violenze emerge perché la donna trova il coraggio di denunciare.
Le docenti universitarie Teresa Bene e Roberta Catalano hanno fatto un bilancio del progetto, di fronte a un’aula gremita di studenti e studentesse di Legge. Un migliaio di persone raggiunte dalla formazione on-line, in numerosi seminari in presenza, e di nuovo in rete, alcune decine di casi-studio approfonditi, una rappresentazione teatrale sugli stereotipi della «vittimizzazione secondaria» di grande effetto (interpretata da Silvia Vallerani, Martina Zuccarello e David Mastinu su testo di Giulia Corradi). Un sito ricco di informazioni e di strumenti da utilizzare: https://www.vittimizzazionesecondaria.it
Ho visto, partecipando a un webinar rivolto al giornalismo, che la presenza maschile era più numerosa che in altre simili occasioni. Qualcosa comincia a cambiare?
Per me è stata una buona esperienza agire in una situazione con «più donne che uomini». Abituarsi a stare «in minoranza» e riconoscere l’autorità delle donne con cui lavoriamo può essere è un buon inizio per superare la cultura maschilista. Che ci pesa addosso e che alimenta anche gli esiti violenti.
(il manifesto, 22 novembre 2022)
di Francesca Maffioli
Paola Bono, con Le mie suffragette (Iacobelli editore, pp. 224, euro 15) riesce nell’impresa di dipingere con le parole un reportage storico appassionato sugli episodi al centro del movimento suffragista inglese – di quelle donne che militarono e lottarono per il riconoscimento della piena cittadinanza e del diritto di voto.
Il volume racconta la storia di un movimento plurale attraverso gli anni e le vicende delle sue protagoniste, le cui vite si srotolano attorno alla Storia, tramite capitoli che si presentano come ritratti di esistenze minute, seppur dirompenti.
Il racconto è agito tramite i ricordi di una giovane domestica, Nellie. La scelta del punto di vista della voce narrante è già di per sé parlante e lo è per vari aspetti. Innanzitutto perché a parlare sono le esperienze delle suffragette, personagge delle lotte, tramite il racconto di un’altra personaggia, i dettagli della cui esistenza sono verosimili e esemplari di un’epoca. Poi, nel senso che la prospettiva della visione di Nellie – che passa tramite l’espediente narrativo del ricordo continuato – è decisamente situata e rivelatrice di quanto il movimento inglese delle suffragette fosse composito e tutt’altro che uniforme. Nellie infatti, accolta in casa Pankhurst da bambina, cresce osservando ma anche vivendo le vicissitudini, gli entusiasmi attorno alla formazione dell’organizzazione fondata da Emmeline e le sue figlie.
Sappiamo fin dalle prime pagine che Nellie non appartiene allo stesso milieu sociale della famiglia che la adotta, e la sua visione dei fatti e delle relazioni rivela spesso un sentimento d’estraneità, talvolta anche divertita, capace di restituire quella ricchezza propria delle visioni composite, quando cioè il punto di vista è situato e si pone all’intersezione – nel suo caso – delle appartenenze di genere e di classe.
È tramite gli espedienti linguistici, le storpiature e caricature grammaticali, ma anche l’ironia sorpresa di Nellie, che vede compiersi il desiderato ma anche l’inatteso, che Paola Bono tesse la storia delle sue suffragette – ponendosi ben oltre e intelligentemente lontana da quella fantasmatica neutralità del punto di vista sulla Storia e sul mondo.
La storia di Nellie, raccontata all’incipit di questo speciale memoir, apre il testo «dal basso», rivelando uno spaccato di quella miseria economica che tra l’Ottocento e i primi del Novecento abitava le umili case d’Inghilterra. È infatti l’immigrazione del padre in America e la difficoltà a trovare lavoro della madre, e poi la sua morte, a condurre Nellie prima in un ospizio per i poveri di Manchester, poi, fortunosamente a casa e alle cure della famiglia Pankhrust.
È allora attorno a Emmeline Pankhrust e alle sue figlie che le azioni delle suffragette vengono raccontate – attorno al loro desiderio non tanto di violare la legge ma fare delle leggi capaci di consentire alle donne la piena cittadinanza tramite suffragio.
Nellie riporta le parole determinate di Emmeline durante il processo, tenutosi a seguito del suo discorso dell’ottobre 1908 a Trafalgar Square, in cui è imputata insieme a Flora Drummond e alla figlia Christabel: «Siamo spinte a farlo, siamo determinate a proseguire con questa agitazione, perché ci sentiamo obbligate moralmente a farlo, sul nostro onore. Proprio come era dovere dei vostri predecessori, così è nostro dovere rendere questo mondo un posto migliore per le donne di quel che è oggi. Se aveste il potere di mandarci in prigione non per sei mesi, ma per sei anni, per sedici anni, o per tutta la vita, il governo non deve credere di poter fermare questa agitazione. Proseguirà. Siamo qui non perché abbiamo infranto la legge, siamo qui perché ci adoperiamo per poter fare le leggi».
Alcuni dei capitoli del testo si svolgono come veri e propri ritratti parlanti, che vedono i fatti salienti del movimento per il suffragio femminile passare attraverso la narrazione delle relazioni tra quelle donne che lo resero possibile. La pluralità d’appartenenza propria al movimento delle suffragette si esplica ad esempio grazie alla presenza di Annie Kenney insieme a quella di Lady Constance Lytton. Da una parte c’è quindi Annie Kinney, operaia tessile, che dopo aver assistito a una conferenza di Christabel Pankhurst, tenuta all’Oldham Clarion Vocal Club nel 1905, iniziò a essere attiva nella Women’s Social and Political Union (Wspu) e assunse l’incarico di aprire la sede londinese in ordine al trasferimento da Manchester. Dall’altra, eppure insieme, c’è Lady Constance Lytton, nobildonna, che durante gli arresti scelse di travestirsi da cucitrice, usando il nome di Jane Warton, e subì di conseguenza tutte le pene e i trattamenti disumani imposti alle prigioniere appartenenti alle classi sociali subalterne.
Lady Constance Lytton scrisse un libro intitolato Prisons and Prisoners (1914), a denuncia delle sevizie subite e del diverso trattamento adottato dal governo a seconda dell’appartenenza sociale delle prigioniere.
Ci sono poi le vicende che vedono le incarcerazioni ripetute di Kitty Marion, attrice e cantante di varietà di origine tedesca. Tramite la cronaca della sua vita, Nellie ci parla anche di una delle strategie di lotta attuate dalle suffragette – la pratica di lotta rappresentata dallo lo sciopero della fame. Ci racconta anche di come le autorità carcerarie praticassero metodi di nutrizione forzata e come per le prigioniere la tortura fosse drammaticamente all’ordine del giorno.
«E dopo mi hanno riportato in cella e lì ho sentito in corridoio le urla di una compagna anche lei trascinata a subire quello stesso orrore. Disperata, ho afferrato una sedia e l’ho tirata contro la finestra rompendo il vetro, e mi sono arrivate le voci delle mie compagne suffragette radunate davanti alla prigione che gridavano “Il voto alle donne!” e cantavano le nostre canzoni».
Poi ci fu lo scoppio della prima guerra mondiale, che rappresentò per tutte una sorta di freno alle azioni. Fu il caso di Kitty Marion, tedesca, che si ritrovò cittadina di un impero in guerra con l’Inghilterra e che nel 1915 scelse di emigrare in America, dove partecipò al movimento a favore del controllo delle nascite. Fu anche quello di Emmeline e la figlia Christabel, che dichiararono l’arresto temporaneo dell’attivismo militante per concentrare gli sforzi contro il nemico tedesco. La Wspu quindi sospese le sue azioni suffragiste, anche se Sylvia e Adela Pankhurst continuarono la lotta.
Nell’appassionato volume di Paola Bono, il racconto di Nellie si ferma in concomitanza allo scoppio della Grande Guerra, a voler suggerire che la storia delle suffragette si sia conclusa in verità prima dell’approvazione della proposta del diritto di voto per le donne, proprio con la scelta patriottica di Emmeline Pankhrust e la sospensione delle attività della Wspu.
La Storia ci dice che nel 1918 il parlamento del Regno Unito approvò la proposta del diritto di voto per le donne con certi requisiti; dieci anni dopo, il 2 luglio 1928, il suffragio fu esteso a tutte le donne del Regno Unito.
(il manifesto, 18 novembre 2022)
di Giuliana Giulietti
In Toccate dal Male, María-Milagros Rivera Garretas e Barbara Verzini affrontano il tema del Male a partire dalla certezza della radicalità del Bene e dal rifiuto della contrapposizione dialettica tra il Bene e il Male. I quali esistono ognuno per conto proprio, senza un legame di opposizione binaria, senza fare antinomia del pensiero. Il Bene è. Il Male è. Nella storia delle donne il Male conosciuto e sperimentato è arrivato dal patriarcato, ma c’è un Male che esiste anche tra donne, portato dall’invidia e dalla gelosia e sul quale troppo spesso chiudiamo gli occhi, o che sottovalutiamo, pur di non fare i conti con una verità così dolorosa. Ma nominare e smascherare il Male quando cerca di entrare nella relazione tra donne avvelenandole, è un gesto simbolico di prima grandezza che ci riavvicina – leggo nel quarto di copertina – «al nostro piacere clitorideo, piacere che è sempre indice di bene, di felicità e di libertà femminile». Ed è con mani sapienti e immaginazione creativa che Milagros e Barbara, abilissime tessitrici, sono riuscite a intrecciare mirabilmente, nel loro libro, i fili del sentire, dell’esperienza, del pensiero. Ciascun filo con un suo particolare brillio, una sua sfumatura, un suo colore. Sì che la sua lettura è stata per me un’esperienza felice perché, pur avventurandomi nei territori del Male, mi sentivo protetta e guidata dalla luce del Bene che si irradia da ogni pagina, di capitolo in capitolo, da un’immagine a un’altra. Nato da un lungo dialogo tra le due autrici sul proprio vissuto personale del Male, il libro è diviso in due parti. Nella prima Milagros ci accompagna in un viaggio attraverso i cinque elementi: Quintessenza, acqua, aria, fuoco, terra, che nell’esperienza delle donne si mescolano armoniosamente senza dualismi, né opposizione binaria. Ma quando il Male vi penetra la sua azione è devastante. E negli elementi contaminati dal Male la Quintessenza, cioè l’Amore, non c’è più, non vive. Le relazioni tra donne vanno in malora. Senza amore, senza orientamento al Bene, l’acqua del piacere clitorideo si secca, l’aria diventa soffocante, il fuoco arde nell’ira, la terra perde la sua gravità. E senza attrazione e né direzione – scrive Milagros – non riesco ad atterrare, a mettere radici. Solo il Bene radica, dà radicamento e felicità. Nella seconda parte, Barbara ci porta con sé a cavallo insieme ai quattro cavalieri dell’Apocalisse cercando nei loro colori: il Bianco, il Rosso, il Nero, il Verdastro, le sfumature di alcune esperienze che fanno parte della sua vita. E raccontare una fiaba (nelle favole il male è sempre presente e appare all’improvviso sottoforma di un lupo, di una matrigna, di una maledizione) è sembrato a Barbara il modo migliore per parlare del male tra donne perché nel fantastico – lei scrive – si aprono strade magiche dove si riescono a trovare le parole per nominarlo dalla giusta distanza e, contemporaneamente, sottrarsi al suo tocco. Dalle fiabe, Barbara ha imparato che il Male si muove, si sposta e può essere spostato. Arriva dall’esterno, come un vento, o con il suono sordo dei suoi zoccoli. Come gli zoccoli dei cavali dei quattro Cavalieri dell’apocalisse. “Toccate dal Male” è un libro potente e bellissimo e certamente questo mio breve testo non può restituire la ricchezza di esperienza e di pensiero che esso ci dona. Io mi sono limitata a segnalare alcuni di quei fili luminosi a partire dalla certezza che è al cuore del libro: la certezza della radicalità del bene. Un’idea concepita da Hannah Arendt quando, nel 1961, si recò a Gerusalemme per assistere al processo del criminale nazista Adolf Eichmann. La cosa straordinaria che fa Milagros è che prende questa idea, che è più propriamente un sentire, e la situa nell’origine, nella nascita, nell’amore. Il Bene è l’unico radicale – scrive Milagros – perché viene sempre prima, perché nasciamo da una madre e nasciamo nel Bene, nell’amore, nella bellezza, nell’abbondanza. Il Male arriva sempre dopo, in seconda, terza o ultima battuta. Ma il Male – ci avverte Barbara – si muove, si sposta e può essere spostato. E a farci da guida verso il Bene, Milagros ci offre una parola: Sensualità (non sessualità). «Sensualità è una parola che celebra un’unione amorosa, mistica, nel piacere clitorideo, nell’anima corporea, anima e corpo inseparabili. È l’unione dei sensi con ciò che si sente e con il senso. I sensi, il sentito e il senso formano una Triade piacevole, gustosa. A volte la Triade appare come orgasmo della parola giusta, del segno giusto. Il Male è stato fermato».
(Facebook, 18 novembre 2022)
di Giuliano Milani
bell hooks, La volontà di cambiare, il Saggiatore, 200 pagine, 19 euro
Che le donne subiscano le costrizioni e la violenza del patriarcato è un dato acquisito, anche se non abbastanza considerato. Molto meno ovvio è che questo sistema danneggi in profondità anche gli uomini. È la tesi di questo libro, con cui Il Saggiatore inaugura la traduzione in italiano delle opere di bell hooks, figura importante del femminismo statunitense e teorica dell’interazione tra i sistemi di dominio, morta l’anno scorso. Fin da bambini i maschi sono portati dalla famiglia, dalla scuola o anche solo dalla cultura di massa a reprimere le loro emozioni, a adeguarsi a modelli predeterminati, a mentire, in primo luogo a sé stessi. In questo modo diventano incapaci di amare ed essere amati per quello che sono. Con esempi tratti da casi clinici e letteratura militante, bell hooks mostra che il patriarcato, veicolato anche dalle madri, è il principale responsabile dell’infelicità dei maschi, al di là del loro orientamento sessuale, perché li sradica dal loro vero sé senza farglielo dimenticare, aprendo ferite che possono essere colmate con la rabbia e la violenza, la ricerca di una sessualità inappagabile o di un’abnegazione nel lavoro. Minando dall’interno una logica di lotta tra i generi, bell hooks propone una rivoluzione affettiva che facendo ritrovare ai maschi la loro integrità paradossalmente distrutta dal sistema che dominano, può arrestare quel dolore profondo che ne genera tanti altri.
(Internazionale, n. 1486, 11-17 novembre 2022)
di Gioacchino Toni
Il volume di Alice Mammola, Voci. Storia di un corredo orale (Armillaria, 2022), in uscita proprio in questi giorni, analizza i contenuti di canzoni popolari intonate dalle donne in risposta a un bisogno di prendere la parola e di rompere il silenzio loro storicamente imposto.
Nel libro viene evidenziato come in diversi canti intonati dalle donne si manifesti un «atteggiamento consapevole, risoluto e di sfida delle norme, ben lontano dai sentimenti di sottomissione e rassegnazione che caratterizzano altri linguaggi».
In un contesto in cui la Storia ha tolto voce ed espressione alle donne, per farsi narratrici queste hanno individuato nel canto un’occasione di elaborazione di un discorso autonomo capace di divenire memoria storica tramandata come “corredo orale”. «Una memoria in cui si affermano in prima persona e che ha trasformato la loro voce, fornendo uno spazio per esprimere il loro contributo partecipativo ed emotivo, discostandosi dalle esposizioni che su di loro sono state fatte in letteratura e altri campi».
Si tratta di canti intonati in luoghi pubblici come cortili, lavatoi, stalle, risaie, fabbriche e piazze, raramente accompagnati da strumenti musicali. «Voce vera che dice. Voce sporcata dalla fatica del lavoro. Niente a che vedere col bel canto e l’esercizio del solfeggio. È voce che tiene il ritmo mentre lavora, voce che serve da accompagnamento al fare».
Al pari di altre produzioni orali, i canti popolari, sostiene Mammola, possono essere considerati proprietà collettiva della comunità. «Restituire il contesto storico-sociale in cui queste storie sono immerse, non come singole biografie e nomi propri ma come collettività, ripulendo le narrazioni dall’inquinamento protratto per secoli dal sistema patriarcale, significa riprendere in mano la complessità, ampliare spazi, intravedere le voci messe in sordina che erano anch’esse protagoniste vive e attive».
Quelli analizzati dalla studiosa sono canti che non hanno paura di nominare le sofferenze, i desideri, le aspirazioni lavorative di una collettività, capaci di farsi «strumento di resistenza e di richiesta», di opposizione alla concezione dominante della condizione femminile.
«A differenza della produzione intellettuale e letteraria delle classi più agiate, le canzoni popolari danno voce alle speranze, le rivendicazioni e le emozioni della classe povera e lavoratrice, molto spesso analfabeta o comunque priva di un accesso diretto alla parola scritta. Ne emerge una presa di coscienza in termini di genere, classe sociale, disparità che si traduce talvolta in un grido di denuncia. Il racconto delle cose nomina e riconosce. Le parole diventano patrimonio di tutte. Le figure liminali che hanno trasmesso e riportato molti di questi canti hanno il grande merito di aver tramandato una visione del mondo ricca di elementi sovversivi, rispetto al destino che molto spesso viene tracciato nei canti di stampo maschile.»
Mammola passa in rassegna i canti popolari femminili indagando come le voci delle donne abbiano saputo e voluto narrare dal loro punto di vista la vita quotidiana, il mondo del lavoro, le lotte e la guerra. A proposito di quest’ultima la studiosa si è sofferma soprattutto sui canti corali delle donne nel periodo della prima guerra mondiale in cui «con coraggio sfidavano il destino, rivendicando la loro sessualità, denunciando le oppressioni, ribaltando la condizione di vita domestica e infrangendo le regole della castità, dell’eteronormatività o della mancanza di desiderio sessuale. Nelle canzoni la loro voce diventa quella di un soggetto parlante, desiderante, che si esprime e autodetermina senza la paura di dire come vive e come soffre. Far uscire con la voce cantata problemi come la violenza di genere, le molestie, gli stupri, il diritto a un salario giusto e paritario significava portare queste questioni dal privato al pubblico e quindi farne un tema politico».
In diversi canti le donne denunciano «l’insensatezza della guerra e rivendicano al contempo una forza militante e combattente. Pur nella loro diversità, il servizio militare e il lavoro delle mondariso hanno alcuni punti in comune: sono esperienze di giovani che si allontanano dalle famiglie e dai contesti conosciuti per vivere un’esperienza dura e faticosa insieme a persone provenienti da altri luoghi».
Non a caso, nota l’autrice, diversi vocaboli utilizzati dalle mondine per raccontarsi sono derivati dalla vita militare, così come vari canti da esse creati e intonati sono mutuati da canzoni di caserma. A proposito della vita nella risaia, ad esempio, un canto afferma: «È già da un mese che faccio la monda, / la disciplina è come i soldati: / mangiare, dormire come i carcerati, /e tutto il giorno non debbo mollar».
L’ostilità nei confronti della guerra che si ritrova nelle strofe intonate dagli uomini al fronte – «Prendi il fucile e gettalo per terra, / prendi il fucile e gettalo per terra, / vogliam la pace, vogliam la pace, / vogliam la pace e non vogliam la guerra!» – si ritrova anche nei canti delle donne nelle risaie: «E se qualcuno vuol far la guerra / tutte unite insieme noi lo fermerem, / vogliam la pace sulla terra / e più forti dei cannoni noi sarem».
Dai canti dei soldati in trincea emerge spesso la consapevolezza di come la guerra non rappresenti gli interessi della popolazione e ciò viene espresso attraverso un senso di rassegnazione e fatalismo incentrato sulla retorica dell’uomo costretto ad allontanarsi dall’amata e dalla madre andando probabilmente incontro alla morte.
Le donne a cui rimandano i canti degli uomini al fronte sono le mogli, le fidanzate e le madri a cui si rivolgono spesso in forma di “lettera cantata”, come se si trattasse delle ultime parole rivolte loro prima di andare inesorabilmente incontro alla morte. Sono canti in cui non di rado si «toccano i sentimenti condivisi della famiglia sganciandosi dalla retorica maschilista e patriarcale. Il tono di queste testimonianze è indubbiamente in opposizione alla narrazione ottimista della partenza e all’esaltazione eroica della missione».
Quasi in risposta ai canti intonati al fronte che fanno riferimento al timore del tradimento da parte della fidanzata o della moglie, le mondine delle risaie vercellesi intonano versi come questi: «I nostri richiamati sono andati da Cadorna / perché le loro mogli gli fan portar le corna. / Bom bom bom sotto il rombo del cannon, / Cadorna gli ha risposto, non fate meraviglia / quando andrete a casa troverete più famiglia. / Sta attenta Filomena, che lo dico a tuo marito / che i soldi del sussidio li mangi con l’amico. / Il povero marito faceva il pecoraio, / le capre ci morivano le corna ci restarono».
Ai canti militari enfatici e patriottici disseminati di riferimenti virili e nazionalisti, in cui si racconta «di giovani combattenti valorosi, di mostrine e stelle, di onore e di vittoria contro gli antagonisti nel tentativo di infiammare i cuori della nazione», si contrappongono «quelli di trincea sull’amore, la fame e il desiderio di tornare a casa». La voce delle donne, invece, «mette in guardia dalla morte e dalla stupidità di combattere: la guerra per le donne è maledetta. Il punto di vista femminile nelle canzoni rivela infatti una visione coraggiosa che affronta scientemente l’argomento della guerra. I nemici da maledire sono lo Stato, il re, chi decide di mandare i loro cari a morte certa. La donna canta il lutto e la fatica di restare da sola ma senza far ricorso a un tono pietistico e drammatico, anche in questo frangente i testi delle canzoni sono taglienti. La parola è pragmatica e arrabbiata; nel condannare l’insensatezza del conflitto si fanno i conti con la vita quotidiana […]. Il grido che si sprigiona nei canti femminili che vivono la guerra da un “fronte interno” è ribelle, vibra della consapevolezza che le guerre le decidono i ricchi e le combattono i poveri per conquistare un palmo di terra (da “Fuoco e mitragliatrici”). Conoscono bene le conseguenze drammatiche che peseranno sui poveri, per il loro legame con il territorio depredato, le case distrutte, la fame, la precarietà; sanno la fatica della ricostruzione e denunciano il costo umano che verrà pagato dagli ultimi e dalle ultime».
Ecco allora, scrive la studiosa, che le parole di rabbia delle donne divengono un canto apertamente antimilitarista capace di gridare a voce alta e corale: «E maledico chi vorse la guerra, / i primi son stati gli studentini / e quanta gioventù caduta ’n terra / e quanto sangue sparso pe’ confini. / Vittorio Emanuele re del regno, / o quanta gente hai fatto macellare, / se vuoi i sordati fatteli di legno / ma i’ mi morino lasciamelo stare. / Vittorio Emanuele cosa fai, / la meglio gioventù tutta la vòi, / la meglio gioventù tutta la vòi, / e l’amor mio quando me lo ridai?».
Siamo dunque lontani, sottolinea Mammola, dalla rassegnazione; la voce delle donne «tende semmai a porsi in modo sabotante, a essere controcorrente, un pensiero lungimirante veicolato da parole coraggiose. Nei canti esprimono il rifiuto di partecipare alla distruzione e alla sopraffazione, denunciano come l’autoritarismo intensifichi le disuguaglianze e calpesti i diritti umani. Non hanno il dubbio dell’eroismo e della missione, e soprattutto non hanno niente da perdere nel dichiarare la loro disapprovazione».
Negli anni del fascismo, alla retorica del regime che distribuisce medaglie alle madri di famiglie numerose, diverse canzoni delle donne rispondono protestando della situazione in cui si sono venute a trovare con la guerra che le vede lasciate sole a gestire la fame propria e dei famigliari mentre il marito è al fronte. Sempre a proposito di guerra, nell’analisi di Mammola non mancano canti in cui compaiono o prendono la parola donne combattenti, soprattutto durante la stagione della Resistenza.
Oltre al punto di vista delle donne sulla guerra che emerge dai canti popolari, il volume indaga le canzoni intonate a proposito della loro condizione di vita, di lavoro e di lotta ricostruendo una modalità di presa di parola spesso sovrastata dalle voci e dagli immaginari maschili. Certamente un libro utile a chi desidera imparare ad ascoltare.
(Carmilla online, 16 novembre 2022, carmillaonline.com/2022/11/16/voci-di-donne/)
di Maddalena Spagnolli
Lo sapevamo.
Lo sentivamo tutti…
troppo furioso il nostro fare…
ci dovevamo fermare e non ci riuscivamo…
(Mariangela Gualtieri, Nove marzo 2020)
Quando nel marzo del 2020 tutto si è fermato per il Covid, in tante, penso, abbiamo colto questa poesia di Mariangela Gualtieri come una sorta di disvelamento del nostro tempo, di verità offerta a chi sentiva che, con il virus, il caos del mondo si riversava con inquietudine anche sulla propria pelle e che era necessario fermarsi.
A distanza di due anni dall’inizio della pandemia, molte cose sono successe, abitudini e sentimenti sconvolti nella vita quotidiana e, quando pensavamo di poter ricominciare a riprenderci in mano l’esistenza, con il vaccino e le riaperture, fiduciosi che il peggio dell’epidemia l’avevamo lasciato alle spalle, che la “guerra all’epidemia” si stava vincendo, ci siamo ritrovate/i gettate/i, di punto in bianco, senza soluzione di continuità, in una feroce “guerra vera” alle porte di casa lasciandoci in balia di uno sgomento che, via via, col passar dei giorni e dell’intensificarsi degli effetti devastanti di quell’invasione in Ucraina, si sta trasformando dall’incredulità iniziale in distruzione, terrore, disperazione per chi la sta vivendo e in sgomento, angoscia, strazio per chi la guarda.
Di fronte a questa svolta repentina (ma, a ben guardare, non così imprevedibile) della storia, ad un misto di sentimenti, tra smarrimenti ed impotenza, resta il bisogno di orientarsi in questa “doppia cesura” (covid e guerra) che ci ha gettato in un “tempo nuovo” e inquietante. L’ultimo dei Quaderni di Via Dogana, pubblicato nell’ottobre del 2021 dalla Libreria delle donne di Milano con il titolo Non sembra ma è una grande occasione1, a cura di Vita Cosentino e Marina Santini, può essere un ottimo strumento per fermarsi a mettere in ordine i fili che intrecciano il nostro tempo.
Attraversare questi testi dopo l’irruzione della guerra nella realtà e nei nostri pensieri (dal 24 febbraio 2022), permette a maggior ragione di non soccombere di fronte alle situazioni strazianti a cui stiamo assistendo e di seguire l’esortazione di Virginia Woolf nel saggio Le tre ghinee – scritto nel 1938 in risposta a uno scrittore e amico che le aveva chiesto di finanziare la sua Associazione per fermare il fascismo e prevenire la guerra, ma senza entrare a farvi parte in quanto donna. «Dove ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti?». «Pensare, pensare, dobbiamo. Noi non dobbiamo mai smettere di pensare dove ci conduce quel corteo».
Le curatrici del Quaderno di Via Dogana scrivono: «si trattava di pensare, pensare, pensare, pensare». Questa raccolta di testi infatti ci conduce, quasi con mano di tessitrice, in una sorta di fenomenologia non solo di ciò che è accaduto con il Covid e la pandemia, ma anche del nostro tempo. Il Quaderno raccoglie una quarantina di articoli che si sviluppano, intrecciandosi l’uno con l’altro in una sorta di dialogo, mostrando realtà, contraddizioni, esperienze. Nell’insieme propone anche analisi, apre possibilità di azione, testimonia saperi di donne del nostro tempo illuminanti per leggere quanto sta capitando anche con la guerra.
Come scrivono le curatrici, il Quaderno si compone di due parti:
«gli articoli della prima sezione sono più indirizzati a ripensare il paradigma economico, la concezione del lavoro, il rapporto con le nuove tecnologie e la posizione di noi esseri umani nei confronti della natura e degli altri esseri viventi; quelli della seconda sezione sono più centrati sulla politica che trasforma a partire da sé, sulla soggettività che appare comunemente nella sua costitutiva relazionalità, sulle pratiche ancorate alla verità soggettiva, alla differenza, all’autorità, sull’idea di libertà pratica e praticabile.»2
Un racconto ragionato del disvelamento operato dalla pandemia in cui si ritrovano riflessioni e idee già circolanti ma che raccolte in questo testo mostrano in maniera organica e con grande lucidità sfaccettature, intrecci, connessioni, contraddizioni, ma anche speranze, possibilità e trasformazioni del nostro tempo.
L’irruzione della guerra ha spostato repentinamente il nostro immaginario su una realtà inaspettata ma che a ben guardare rivela segni di continuità con la pandemia. Cercherò di tenere insieme pandemia e guerra.
Innanzitutto, l’invito a “pensare” pone l’attenzione sull’uso del linguaggio, tema centrale nella riflessione delle donne: attenzione che è un filo conduttore di tutta la raccolta, un uso fortemente radicato nell’esperienza e di cui metto però in risalto l’uso della “metafora” della guerra3 per parlare della pandemia, con tutto il portato di termini bellici, di logiche oppositive, di schieramenti rispetto alle decisioni, alla “verità” sul bene e sul male, finché la guerra, evocata a parole per raccontare la diffusione del virus, i suoi effetti sugli umani e il modo di “combatterlo”, si è materializzata davvero, alle nostre porte, con esiti così distruttivi che ancora fatichiamo a rendercene conto.
Confusione linguistica-caos della realtà: c’è la necessità di nuove rinominazioni, ancora di trovare le “parole per dirlo”. «C’è bisogno di parole… non parole che ci sono già. Le altre per non restare sassi»4 scriveva Luisa Muraro in un suo intervento all’Università nel maggio del ’99 in una riflessione sulla guerra nei Balcani.
“Per non restare sassi” nella pandemia e nella guerra, accomunate dalla paura ancestrale della morte, capitata/subita con la pandemia, intenzionalmente agita con la guerra, ma che chiede distinzioni ben precise appunto “per non restare sassi”; parole «per distinguere l’immaginario dal reale per diminuire i rischi di guerra senza rinunciare alla lotta, che Eraclito riteneva fosse la condizione di vita»5.
Se la questione della morte ci ha segnato in un modo drammatico negli anni della pandemia e si ripresenta con crudeltà inaccettabile con questa guerra, l’attenzione all’uso delle parole potrebbe riportarci ad uno spiraglio di vita: «Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso della altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane»6. Di fronte alla morte e alla distruzione Weil ci invita a questo lavoro per trovare un orientamento di vita. Ecco allora che ancora prima delle «parole adorne di maiuscole… parole gonfie di sangue e lacrime»7 che Weil elenca insieme ad altre come sicurezza, capitalismo, democrazia, ordine, proprietà, la pandemia e la guerra ci riportano, a mio avviso, alla radice del nostro essere: prima ancora di evocare con grandi discorsi tutti i diritti sanciti dalle più moderne costituzioni, le cesure che stiamo vivendo in questi due anni (pandemia e guerra) chiedono drammaticamente di ritornare al fondamento del nostro essere, semplicemente alla vita.
La trama della vita è l’altro tema di cui è intessuto il Quaderno, tema che nei diversi interventi illumina, come in un caleidoscopio, i molti aspetti relativi alle condizioni della nostra esistenza. Una riflessione sulla vita d’altro canto si impone proprio da una parte con la pandemia, che ci ha costretti a fare i conti con la morte come “impossibilità del respiro”, dall’altra con la guerra nel suo essere sinonimo di morte come distruzione violenta.
La pandemia, ma anche la guerra con gli effetti domino con cui dobbiamo fare i conti, ci hanno costretto ad affrontare aspetti della realtà già ben presenti e posti da tempo in discussione nella riflessione e nel pensiero delle donne: rispetto alle condizioni del nostro vivere, molti interventi si soffermano sul tema del lavoro strettamente intrecciato con quello dell’economia e del lavoro di cura.
La riflessione critica sul mondo della produzione, sull’economia capitalistica di mercato, sulle condizioni del lavoro – lavoro da casa (pro e contro), lavoro per il mercato e lavoro domestico, lavori essenziali – mostrano la necessità di un superamento del dualismo tra economia di mercato e economia della casa, dualismo che si innesta su quello che Ina Praetorius, citata da Vita Cosentino, chiama «ordine bipartito del mondo»: «due sfere diseguali, una più alta, alla quale si associano virilità e libertà, e un’altra più bassa, che si presume naturale, quella delle donne e della dipendenza»8. Un dualismo segnato dalla «misoginia nella politica e nel lavoro»9.
Ciò che si è reso evidente durante la pandemia è stata la presenza e la capacità quasi acrobatica delle donne di far fronte alle situazioni più impreviste e difficili per salvare la vita; si è chiaramente palesata, in quella contingenza, la centralità dell’opera femminile in tutti i campi. Con la guerra, scoppiata quando pensavamo di poter riprendere la vita normale, quest’opera sembra essere ancora una volta, ancora in questo XXI secolo, annientata con l’imporsi nella realtà di logiche machiste, violente, distruttive (non ci sono più parole per dire ciò che già sappiamo da tempo!).
La significativa e vitale presenza femminile in situazioni di emergenza come quella della pandemia e la violenza machista e distruttiva che muove la guerra, mostrano la necessità di un cambio di paradigma per salvare la vita, chiedono un cambio di civiltà: tutto ciò ci ha messo di fronte alla necessità di cercare/sentire l’essenziale e ciò che non lo è.
«Superare quell’ordine simbolico e sociale bipartito», scrive Vita Cosentino, «è già vivere un cambio di civiltà basato su un’altra concezione dell’essere umano»10 che dà origine ad un’altra politica e, come scrive Antonietta Lelario, «la politica delle donne rimettendo in gioco l’esperienza femminile, l’ha riconnessa con la vita e ha intravisto un’altra civiltà e un’altra economia»11.
È più che necessario dunque un cambio di civiltà, ed è proprio questo il senso e la prospettiva del Quaderno: nutrito dal cambio dei valori che non può trascurare il senso di vulnerabilità che stiamo sperimentando, e soprattutto «non si può immaginare rinnovamento politico economico e dei rapporti sociali senza fare spazio a ciò che le donne hanno da dire»12. Come molte riflessioni stanno mostrando ormai anche fuori dal pensiero femminista, si tratta di porre al centro il tema della cura. «L’economia è cura» scrive Ina Praetorius, «manutenzione dell’esistente»13. Non è più possibile tener distinti l’economia dai bisogni, il mondo del lavoro dal mondo della casa, lavoro produttivo e lavoro di cura, lavoro e salute, così come non è possibile tener separate le varie condizioni di vita della realtà umana. Non è più possibile tener separata la riflessione sulla realtà umana dal rapporto con gli altri esseri viventi, dalla vita della terra (sappiamo quanto sia urgente il problema climaticoecologico!) per la stretta connessione di tutti i viventi su questo mondo. Connessioni che hanno ricadute sul piano economico, della salute, sulla nostra stessa possibilità di sopravvivenza (e in questo vediamo come le/i giovani siano i più sensibili, attivi, ma anche inascoltati).
Con la pandemia si è imposta inoltre con prepotenza anche quella “vita parallela” che è il mondo digitale, una realtà già fortemente pervasiva che in quel contesto ha di fatto dominato le nostre giornate, ha fatto irruzione in un modo esplosivo mostrando la subordinazione delle nostre vite a quell’invisibile «Grande Fratello» che sono gli algoritmi. Rispetto a questi sviluppi della tecnica si pongono interrogativi sulle conseguenze legate, nel bene e nel male, alla “vita” online, agli incontri su zoom, alla DAD, alla pervasività della sorveglianza… ecc. Su tutto questo Traudel Sattler registra una difficoltà che così sintetizza: «Mi manca la misura»14. Ecco, sì, la mancanza di misura, vero male del nostro tempo! Come scriveva sempre S. Weil: «In ogni ambito, sembriamo aver perduto le nozioni essenziali dell’intelligenza, le nozioni di limite, di misura, di grado, di proporzione, di relazione, di rapporto, di condizione, di legame necessario, di connessione tra mezzi e risultati»15.
Nei testi, oltre questi temi, vengono affrontati con grande meticolosità e profondità tante altre questioni cruciali che abbiamo vissuto in questi due anni, come l’esperienza nuova del lockdown e lo smarrimento e il senso di isolamento che ne è seguito (il blocco delle attività produttive, delle relazioni, degli incontri in presenza); ma vengono anche registrate le esperienze di solidarietà, di cooperazione, di generosità (sopratutto nella prima fase) e suggerite nuove prospettive di regolazione sociale, come il principio della gratitudine16.
Ciò che viene meno indagato nei testi (per il fatto che sono stati scritti “a caldo”) sono le conseguenze che, in particolare la pandemia, stanno lasciando alla lunga: più aggressività, grande disagio psichico e sociale, soprattutto nelle giovani generazioni; la forte reazione al vaccino e al green pass, maturata in diverse fasce sociali soprattutto con i provvedimenti restrittivi legati alla certificazione e sfociata nelle posizioni “vax e no-vax”, fenomeno liquidato troppo facilmente a mio avviso, ma che andrebbe indagato più a fondo anche per la grande sofferenza che, a sua volta, ha generato in tante persone. Si tratta di fenomeni diffusisi proprio in nome della libertà, tema che conclude (ma nello stesso apre ad altro) la raccolta di scritti del Quaderno con una riflessione di Ida Dominijanni: la libertà, grande vessillo sbandierato anche per imporre la superiorità della nostra civiltà sulle altre, viene indagata nel suo duplice aspetto di libertà individualistica neoliberale e libertà relazionale legata al senso dell’interdipendenza reciproca. La pandemia ha fatto emergere con evidenza, anche nelle sue contraddizioni, la consapevolezza dell’interdipendenza come essenza della vita facendoci toccare con mano la vulnerabilità e la fragilità umana e la necessaria dimensione relazionale del nostro essere. Ecco dunque che nella direzione di un necessario cambio di civiltà va ripensato soprattutto il senso della libertà:
«Nella politica della differenza la libertà non è mai stata solo libertà “di” e “da”, bensì soprattutto “per”: è stata ed è libertà politica, legata al desiderio di aprire la realtà a possibilità inedite, di costruire spazi e di inventare forme di vita a nostra misura, impreviste nell’ordine simbolico dato… È di questo credo che dovremmo urgentemente riprendere a parlare»17.
Se questo valeva in tempo di pandemia, vale a maggior ragione nel contesto attuale in cui siamo quasi annientati dalla realtà della guerra in Ucraina. I testi del Quaderno radicati nel «sapere dell’esperienza» si rivelano un contributo necessario per fare un po’ di distanza, per prendere un po’ di ossigeno e provare a tornare a respirare, a pensare e agire per trovare anche in questo nostro inquietante tempo «la possibilità di aprire il presente ad altre possibilità»18.
Note
1 Non sembra ma è una grande occasione, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne, Milano, ottobre 2021.
2 Ivi, p. 6.
3 Ivi, p. 49. Ne parla Marco Deriu.
4 L. Muraro, Guerre che ho visto, Libreria delle donne, 1999, p. 5.
5 S. Weil, Sulla guerra, il Saggiatore, 2013, p. 74
6 Ivi, p. 57.
7 Ibidem.
8 Non sembra ma è una grande occasione, p. 33.
9 Ivi, p. 54-55.
10 Ivi, p. 33.
11 Ivi, p. 31.
12 Ivi, p. 54.
13 Ivi, p. 53. Da Immagina che il lavoro.
14 Ivi, p. 73.
15 S. Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia, in Sulla guerra, cit. p. 58.
16 Non sembra ma è una grande occasione, p. 34.
17 Ivi, p. 179.
18 Ibidem.
(Per amore del mondo n. 18/2022, www.diotimafilosofe.it)
di Alberto Leiss
È uscita una nuova edizione del libro di Lia Cigarini La politica del desiderio: il femminismo della differenza dagli anni Sessanta a oggi. Una pratica politica basata sul “partire da sé” e sull’invenzione simbolica. La “libertà relazionale” che chiede modifiche radicali al modo di vivere e produrre. Uno sguardo e una chiave per comprendere meglio la crisi che stiamo vivendo. Ma dal mondo degli uomini finora è mancata la capacità di capire e rispondere.
«La vittoria delle destre per l’Italia è una sventura, che tuttavia rivela alcuni fatti e può aprirci delle porte strette, se sappiamo analizzare le nuove contraddizioni con i nostri strumenti. Intanto, quando si parla di destra e sinistra bisogna distinguere tra uomini e donne: cioè tra un sesso in crisi e uno in movimento […] La sinistra ha abbandonato un’ipotesi incentrata sul protagonismo e sull’autorità femminile per tornare a una politica che rivendica la parità. In campagna elettorale si è presentata alle donne con un programma tutto diritti e parità, di nuovo basato sulla rappresentazione delle donne come sesso svantaggiato, laddove il senso comune femminile si era già spostato sul protagonismo. […] E la destra ha finito con l’interpretare le aspirazioni femminili meglio della sinistra, mettendo in campo donne che non avevano la preoccupazione di difendere parità e diritti».
Sono parole pronunciate dalla filosofa femminista Luisa Muraro non, come potrebbe a tutta prima sembrare, a proposito della vittoria di Giorgia Meloni, del suo partito e (molto meno) dei suoi alleati il 25 settembre del 2022, ma nel lontano 1994, subito dopo l’affermazione della coalizione formata da Berlusconi con la Lega di Bossi e Alleanza nazionale di Fini. Successo che portò all’elezione alla presidenza della Camera della trentenne «cattolica integralista, leghista di ferro» Irene Pivetti.
A definire così la neoeletta alla terza carica dello Stato e a raccogliere le opinioni di Luisa Muraro e di Lia Cigarini, fondatrici della Libreria delle donne di Milano, è Ida Dominijanni in una intervista sul manifesto raccolta il 25 aprile di quell’anno. Giornata in cui nella capitale del Nord si svolse la grande manifestazione antifascista che apparve come una prima risposta vitale delle forze di sinistra e democratiche al successo poco previsto e scioccante del neonato centrodestra. Al corteo si presentò a sorpresa anche Umberto Bossi: sopportò i fischi, voleva affermare una sua diversità1. Questa intervista, seguita dall’articolo di Lia Cigarini Meteore, uscito sulla rivista della Libreria di Milano Via Dogana qualche mese dopo, chiudeva la prima edizione del libro La politica del desiderio, raccolta dei principali scritti di Lia Cigarini a partire dai primi anni Settanta, pubblicato nel 1995 da Pratiche Editrice con una introduzione di Dominijanni.
Ora è stato ripubblicato da Orthotes con una nuova nota introduttiva di Stefania Ferrando (il saggio di Dominijanni si conserva in appendice) e una seconda parte che comprende scritti fino al 2020, chiusa da un’intervista all’autrice di Riccardo Fanciullacci. La lettura di questi testi consente una conoscenza diretta dell’elaborazione teorica e pratica del femminismo della differenza nel nostro paese, e anche una interpretazione di un buon mezzo secolo di storia politica italiana – e non solo italiana – dal punto di vista delle donne che hanno vissuto e vivono una ricerca di libertà secondo una via radicalmente alternativa a quella seguita dalle culture politiche, maschili, sia di radici marxiste, sia di orientamento cattolico o liberale, per non parlare delle realtà più a destra.
Un esercizio utile per comprendere il presente, a quasi trent’anni da quel 25 aprile che apriva, dopo l’89, dopo Tangentopoli e con la nuova legge elettorale maggioritaria (il “mattarellum”), la cosiddetta “seconda Repubblica”.
È seguito l’alternarsi di governi di centrodestra e centrosinistra, dei governi “tecnici” e delle inedite maggioranze seguite alle affermazioni dei 5 Stelle e della Lega di Salvini: ora ci ritroviamo, per così dire, al punto di partenza. Con la novità non di poco conto che la destra è più radicalmente a destra, con in mostra i vecchi legami con il neofascismo, ed è guidata da una donna che per la prima volta sale al governo del paese.
A maggior ragione, forse, serve provare a adottare uno sguardo femminile.
Quale desiderio
Ma che cosa significa l’espressione «politica del desiderio»? C’è il desiderio, il bisogno profondo «di valere come singolarità» che prova ogni persona – scrive in apertura Stefania Ferrando – e che viene intercettato dalle società neoliberali offrendo però «surrogati scadenti e violenti, che si traducono nella competizione, nella dinamica della prestazione, in relazioni strumentali e quindi alla fine in una esistenza a disposizione del mercato, schiacciati da una realtà che, di per sé, appare immutabile». Ma c’è una libertà – e un desiderio di libertà – che il liberalismo non conosce (o forse la intravede e cerca di sradicarla), simile a quella di chi crea opere d’arte, «ed è la libertà di inventare nuove mediazioni, indipendenti dai soldi e dai rapporti di forza. Che vuol dire: uscire dal determinismo, scoprire che il mondo racchiude molti mondi e che noi già lì abitiamo».
Queste sono invece parole scritte insieme da Lia Cigarini e Luisa Muraro2 che così proseguono: «Il linguaggio e le relazioni sono il luogo di questa scoperta, anzi: noi siamo il luogo di questa scoperta, nella misura in cui ci lasciamo modificare nello scambio con le altre, gli altri. Mettere le relazioni al cuore della politica, è come l’apertura di un mercato libero e creativo, dove uno/una smette di essere numero, mezzo, variabile, categoria, questione […] e acquista quella che i linguisti chiamano competenza simbolica: l’autorità di dire con le sue parole quello che gli capita di essere e di vivere. Dunque la libertà».
Ho riportato questo lungo passo perché contiene già molte delle parole-chiave che raccontano questa differente idea e pratica della politica. Ed è significativo che ciò avvenga in un testo che partiva dall’analisi di un documento sindacale3, scritto da cinque sindacalisti della Fiom – quattro uomini e una donna – in cui si leggeva tra l’altro che «l’esperienza e il punto di vista delle donne è condizione ormai irreversibile per i rapporti sociali». Una premessa indicativa della consapevolezza di un assetto completamente mutato delle relazioni tra uomini e donne, subito contraddetta però, nello stesso documento, dalla tendenza tipica della cultura della sinistra a ridurre la cosa a “questione sociale” al problema di una “categoria” colpita da determinate ingiustizie. Il ripetersi di questa «riduzione delle donne, da presenza viva e parlante, a un problema, oggetto di un discorso neutro- maschile – osservano le autrici – è impressionante».
Politica e simbolico
Come può emergere una «presenza viva e parlante» delle donne e come può contribuire a una politica di segno nuovo? Capace di coinvolgere anche il mondo maschile? La ricerca di Cigarini nei primi gruppi di autocoscienza si orienta subito al lavoro che “partendo da sé”, dalla propria esperienza reale e dal contesto relazionale in cui è vissuta, guarda prima di tutto alla “narrazione” e alla invenzione di un altro linguaggio. Grazie anche a una reinterpretazione delle scoperte della psicanalisi, da Freud a Lacan4. L’autrice ci tiene a puntualizzare che se sono gli anni del ’68 e successivi quelli che vedono emergere e realizzarsi il femminismo e “il taglio” del separatismo, le origini e la dinamica del movimento delle donne sono fin dall’inizio distinti e diversi da quelle che hanno caratterizzato la rivolta studentesca e giovanile, e poi l’ideologia dei vari gruppi di sinistra, il ’69 operaio, e dall’altro lato la deriva della lotta armata.
Anzi questa storia nasce prima del ’68. Già nel 1965, ricorda Cigarini5, esisteva a Milano il gruppo Demau (Demistificazione autoritarismo patriarcale) che nei due anni successivi produsse vari testi su quella che ancora veniva definita “questione femminile” per poi pubblicare nel ’69 Il maschile come valore dominante6. Analisi nella quale tra l’altro si critica la «mistica della lotta politica» in cui restano rinchiusi i movimenti anti-autoritari, che non vedono e non mettono «al centro della loro lotta la problematica delle donne».
I primi scritti raccolti nel libro di cui parliamo infatti affrontano subito alcuni nodi simbolici emersi già nei primi anni Settanta. Una polemica con Elvio Fachinelli e il regista della Grande abbuffata Marco Ferreri7: secondo l’autore de Il desiderio dissidente il film racconta che il maschio sta diventando inconsistente e superfluo mentre la femmina si rivela «madre mortifera». Non sembra questa obietta Cigarini – la realtà delle cose, piuttosto si tratta di «fantasmi». Abitanti menti maschili che avvertono che qualcosa sta cambiando ma sempre con caratteristiche rimozioni: si vede del femminismo la critica al maschio-padrone, e la si liquida sbrigativamente come cosa schematica, “ottocentesca” (i maschi-padroni non esistono più?), ma non si vedono le donne stesse, il loro moto di liberazione, il loro stare insieme, e la «lotta per dare un linguaggio a questa gioia (delle donne)».
Si vede invece la figura della madre e la si definisce mortifera. La critica prosegue utilizzando termini analitici (l’attribuzione alla figura materna del potere fallico nasconde «il desiderio di ucciderla per mettersi al suo posto») e si conclude con un folgorante riferimento alla concreta realtà italiana: una società con «madri onnipotenti ed esaltate, donne particolarmente asservite e mute, parata virile e fascismo endemico». Parole scritte nel 1974, che purtroppo non suonano troppo anacronistiche anche oggi.
Altro passaggio determinante, due anni dopo, è l’intervento scritto insieme a Luisa Abbà, L’obiezione della donna muta8. Anche in questo caso si parte dalla propria esperienza personale, gli anni di analisi, l’abbandono della politica in un partito, il disagio provato, fino al blocco della parola, anche nel gruppo di autocoscienza quando da questa pratica si avverte il bisogno di spostarsi su altri temi. Dal “personale” al “politico”: lavoro, istituzioni, medicina, la gestione di una libreria… Ma qui sorge il rischio di ricadere in nuove astrazioni, di rompere la relazione con se stesse e con le altre, “la perdita della sessualità”. «Mi sono convinta – recita il testo, originariamente pubblicato anonimo, come usava nel movimento, sul Sottosopra rosa9 – che la donna muta è l’obiezione più feconda alla nostra politica. Il “non politico” scava gallerie che non dobbiamo riempire di terra».
Vedere e provare a nominare il rimosso, a partire dal proprio silenzio oltre che da quello altrui. Un esempio di come l’esperienza analitica e il punto di vista aperto dalla psicanalisi possano contenere la tendenza della politica (maschile) alla verbosità vuota, alla costruzione di analisi astratte, all’indicazione di “obiettivi” che non sono nelle nostre mani.
Potere e autorità
La vittoria elettorale di Giorgia Meloni a capo dei Fratelli d’Italia ha riaperto una discussione sul rapporto tra donne e potere. Come mai a sinistra, e nei partiti e movimenti che si collocano nell’area democratico-progressista, il tanto parlare di diritti e di parità non si è ancora tradotto in Italia in forti leadership femminili? Appena eletto segretario del Pd Enrico Letta ha deciso di sostituire i due capigruppo maschi alla Camera e al Senato con due donne. Una scelta che ha avuto il sapore di una logica correntizia (contro il renzismo interno) oltre che essere un premio ma di tipo octroyé – al protagonismo femminile. Le donne di destra, poco favorevoli alle quote, si affermano perché omologate ai modelli maschilisti? E quelle di sinistra non dimostrano spesso forme di subalternità ai potentati maschili nei partiti? La filosofa Michela Marzano si è chiesta se «l’ossessione che hanno certe donne di arrivare a ogni costo al potere» non sia sbagliata. «La libertà e l’autonomia femminile, con il potere, c’entrano poco»10.
Negli scritti di Cigarini si ritrova il filo di una continua riflessione ed esperienza su questo punto. La libertà femminile è il frutto di una competenza simbolica su di sé e nasce dalla relazione e dello scambio con altre donne. Naturalmente ogni donna è un universo a sé e la relazione si incarna con il riconoscimento delle altre, di un’altra, vedendo anche le “disparità”. Anzi è proprio la relazione di “affidamento” con un’altra donna alla quale si riconosce un di più, se sono chiari il desiderio e il contenuto dello scambio, che produce autorità femminile. Questa critica all’idea di una indistinta “sorellanza” ha sollevato discussioni nel mondo femminista. Disparità, affidamento, autorità: questa dialettica non porterà, di fatto, a nuove gerarchie di potere?
Autorità è una parola che ha anche il significato di un potere che si istituzionalizza. Ma il senso che le si attribuisce in questo caso è opposto (più simile, ma non coincidente, con “autorevolezza”). Per Cigarini, e nella ricerca di questa tendenza del femminismo, l’autorità è «una figura dello scambio», non è un sinonimo del potere che si incarna in questa o quella persona. Anche se naturalmente esistono donne alle quali l’autorità è riconosciuta. D’altra parte «quella dell’autorità femminile è una questione aperta, sempre in forse»11. E il lavoro per riconoscerla, costruirla «è tremendo», giacché l’ingombro creato nei secoli dal simbolico maschile è pesantissimo: «ha occultato e confuso la differenza dei sessi, persino nella procreazione, dove non vi è, da nessuna parte, la donna e il suo desiderio».
Da qui, anche, la valorizzazione della “relazione materna” che ancora una volta, pur radicandosi nel rapporto con la madre reale, è una figura simbolica, che spinge alla ricerca di una propria genealogia, orienta la “contrattazione” tra donne per affrontare gli inevitabili conflitti. Non esistono “madri simboliche” in carne e ossa, ripete Cigarini: questa ricerca e questa pratica politica vuole formare «autorità femminile alla quale tutte possono attingere per realizzare liberamente nel mondo i propri desideri”. Una pratica che “impedisce che si formi un’autorità di tipo materno o di tipo fallico, nel senso che la libertà di stabilire le regole misurata con la libertà dell’altra è tua».
Naturalmente lo scoglio del potere non può essere rimosso: «La questione del potere scrivono Lia Cigarini e Luisa Muraro in un articolo uscito su questa rivista12 – [è] centrale per la politica (come per la vita degli esseri umani e per la vita in genere)». Per le due autrici il femminismo ha vissuto la possibilità «provata praticamente, di creare autorità senza potere nei rapporti sociali. Fino alla distruzione di ogni forma di potere?», si chiedono. E la risposta è questa “formula”: il massimo di autorità con il minimo di potere. Non sarebbe “volontarismo”, perché la più parte delle donne «sono internamente oppresse dal potere, dalla sua logica e dai suoi simboli».
Ma è una formula che può essere fatta propria anche dagli uomini? Non lo sappiamo, osservano Cigarini e Muraro, perché “manca da parte maschile un lavoro di presa di coscienza. Non possiamo quindi sapere quanto l’avere potere conti per un uomo e per la sessualità maschile”.
Femminismo e sinistra
In numerosi interventi nella parte centrale del libro – cronologica- mente tra fine degli anni Ottanta e anni Novanta – Cigarini torna su un episodio emblematico del rapporto tra il femminismo e la sinistra, in particolare il Pci dell’ultimo periodo prima della “svolta” che ne cancellerà il nome, e di fatto anche la sostanza. È l’iniziativa di Livia Turco, giovane responsabile femminile nella segreteria Natta, succeduto a Berlinguer, di lanciare una “Carta itinerante delle donne comuniste” intitolata Dalle donne la forza delle donne13. Il documento, che fu approvato dalla Direzione del Pci nel 1986 e che animerà in effetti numerose iniziative politiche e sociali verso le realtà femminili, nel mondo del lavoro e non solo, era costituito da una prima parte che mutuava dal femminismo della differenza i concetti del ruolo fondamentale delle relazioni tra donne, del desiderio e della libertà femminili, e in una seconda parte con una serie di obiettivi e rivendicazioni programmati- che. Una sorta di “compromesso”, quindi, tra l’ispirazione del femminismo radicale e la “politica di massa” per com’era intesa dal Pci. Ma il punto dolente fu la scelta delle donne comuniste – non senza discussioni interne – di battersi per il “riequilibrio della rappresentanza” tra donne e uomini nelle istituzioni, e di fatto accentuando una forma di politica separata dentro il partito nelle commissioni femminili. In questo modo le donne, secondo Cigarini, rinunciavano a “mettersi al centro” della politica in un partito e dell’azione per cambiarlo, inoltre aprivano l’equivoco che donne elette in Parlamento lo fossero per rappresentare altre donne.
Nel Pci che dopo la scomparsa di Berlinguer cercava una difficile via di rinnovamento tra tendenze interne opposte, le idee del femminismo della differenza venivano formalmente riconosciute. Il congresso del cosiddetto “nuovo Pci”, nel marzo dell’89, fu aperto da un intervento di Luce Irigaray, autrice di quel libro, Speculum14, che aveva inaugurato la riflessione sulla differenza sessuale, pagando la sua “eresia” con l’espulsione dall’Università di Vincennes e la rottura con Lacan e l’Ecole Freudienne de Paris, dove Luce si era formata.
Pochi mesi dopo il crollo del muro di Berlino e il metodo con cui il Pci andò alla rimozione del proprio nome di fatto cancellarono quei tentativi di contaminazione. Nelle formazioni seguite alla fine del vecchio partito le politiche rivolte alle donne saranno sempre più improntate alla parità e ai diritti. Ma la legge non ha principalmente il potere di cambiare la realtà, può registrare il cambia- mento quando avviene nella testa e nei comportamenti delle persone.
Il lavoro e la legge
Questo tentativo di lettura dei testi di Cigarini, mettendoli saltuariamente in relazione con gli eventi della storia politica italiana dell’ultimo mezzo secolo sarebbe monco se non citassi almeno altri due aspetti della sua riflessione e esperienza. Il mondo del diritto, e quello del lavoro.
La professione di avvocata ha portato l’autrice a riflettere radicalmente sul funzionamento della giustizia nel processo e sul significato della legge. Da un lato l’idea che la pratica politica femminista tende ad agire «sopra la legge»15, cioè nel luogo «dell’esistenza simbolica, il luogo dell’autorità che io oggi riconosco ad altre donne e mi riconosco». Il rischio di puntare in primo luogo a nuove leggi è quello di passare da una condizione di «escluse-internate» in un ordine normativo segnato dal maschile, a quello di «incluse-internate» nello stesso ordine. Come ha scritto Antoinette Fouque quello che si desidera è invece «un gran balzo al di fuori, in indipendenza», che cambia quella condizione. Ciò non vuol dire che si escluda la possibilità, vista la crescita del cambiamento ottenuto dal movimento delle donne, della creazione di un nuovo diritto. Ma questo, secondo l’autrice, può avvenire se si creano nella pratica del processo quelle relazioni tra donne, avvocate, clienti, magistrate, che sappiano modificare le norme costruendo nuove mediazioni. Che devono necessariamente avere una valenza universale.
Al mondo del lavoro è dedicata una sezione, “Immagina che il lavoro”, nella parte nuova del libro che copre gli anni più vicini. Anche qui i testi sono in grande misura il racconto di pratiche che nel corso degli anni hanno coinvolto sindcaliste, ma anche imprenditrici, intorno alla Libreria delle donne di Milano. Il titolo della sezione rimanda al Sottosopra che nel marzo 200916 fa un punto su questiscambi, insistendo sulla idea che per lavoro si debba intendere «tutto il lavoro necessario per vivere». Quindi non solo l’attività produttiva riconosciuta dal mercato economico, ma anche tutto il lavoro di cura, o di “manutenzione”, della vita, che in genere è svolto dalle donne senza essere, letteralmente, messo nel conto. Un punto di vista che apre a una concezione del “mercato” radicalmente diversa: un luogo a cui “portare tutto”. Non solo le prestazioni professionali, ma anche desideri, sentimenti, relazioni. Un cambiamento che dovrebbe coinvolgere tutti, donne e uomini, nei loro tempi e modi di vita.
Ma la sezione è aperta da un intervento di spessore teorico – Se Marx avesse capito17 – letto nel 2015 al convegno I ritorni di Marx, tenuto presso la Fondazione Luigi Longo di Alessandria. Il ritorno all’autore del Capitale di Lia Cigarini presenta un Marx «mai rinnegato», ma riletto – e corretto – con gli occhi di Simone Weil, accostata al contemporaneo pensiero di Antonio Gramsci. Due coetanei che non si conoscevano, «corpi fragili, abitati da un’intelligenza superlativa e dalla passione politica».
Da questa lettura esce assai ridimensionata la pretesa “scientifica” delle previsioni di Marx (un «idealismo utopico») così come l’aver concentrato nell’economia la «chiave dell’enigma sociale della sottomissione del numero più grande ai pochi detentori del potere». Ne deriva un’idea di libertà del lavoro, e di libertà di e per tutte tutti che non rimuove la “singolarità irriducibile” del soggetto, ma senza avere nulla a che fare con la libertà borghese o con quella del neoliberismo: una «libertà relazionale», che «non è data una volta per tutte ma che si struttura nella interdipendenza tra gli esseri umani».
E questa acquisizione, propria del movimento delle donne e del femminismo, possono essere – afferma Cigarini – «una possibile risposta agli interrogativi e alla estrema sofferenza del mondo del lavoro».
Una risposta mancata
Quel saggio su Marx terminava, ribadendo la “complessità”, ma anche la verità di una idea della libertà non liberale ma relazionale. Qualcosa che supera il paradigma dell’uguaglianza, oltre un mondo “già pensato” (giustizia, socialismo, comunismo): la libertà delle donne «apre un campo non concluso ma in divenire: il conflitto tra i due sessi è dinamico». «Noi ci stiamo pensando aggiungeva Cigarini – ma se gli uomini a loro volta non lo fanno, in specifico, se non pensano al rapporto tra produzione e riproduzione continuano a mancarci le mediazioni necessarie».
Come in altri interventi l’autrice qui poneva la necessità – a questo punto della storia – dello sviluppo di “relazioni di differenza” tra donne e uomini per aprire un mutamento complessivo, che spesso questo femminismo ha nominato come un “cambio di civiltà”. Qualcosa che presume una modificazione radicale dello sguardo e del desiderio anche da parte nostra. La domanda rivolta a noi maschi torna nella lunga intervista condotta da Riccardo Fanciullacci, che chiude il volume ricapitolando e aggiornando tanta parte del materiale precedente. Intanto siamo entrati in un nuovo decennio e le cose non vanno molto bene.
È in crisi la politica della rappresentanza e dei partiti, e sono in crisi le stesse grandi democrazie occidentali: siamo davanti al precipizio nella guerra dopo una pandemia i cui effetti e interrogativi non sono ancora sciolti, conclusi. La lettura di Cigarini è che questa crisi sia in buona misura interpretabile con la caduta della pretesa di universalità che avevano le costruzioni e istituzioni maschili, quindi anche come un effetto del movimento delle donne. Ma ancor più come prodotto «dell’insufficienza della risposta che a questo hanno dato gli uomini».
L’intervistatore prova ad argomentare che, se non nei luoghi del potere, dell’informazione, della politica, ma nell’agire quotidiano, a fronte dei maschi che reagiscono con violenza, fino al femminicidio, c’è sicuramente una maggioranza di uomini che accettano per esempio il fatto di essere lasciati, per- ché «sanno che questa possibilità è nell’ordine delle cose giacché è conseguenza della libertà femminile». Questo è vero, riconosce l’autrice, tuttavia non sanno ancora mette- re in parola questo mutamento, dargli valore simbolico e quindi farne discendere conseguenze piano politico o sul piano della organizzazione del lavoro.
Cigarini, a questo proposito, fa un esempio sul quale non posso mancare di interloquire. Ci sono stati lunghi anni di interlocuzioni tra la rete di Maschile plurale, della quale faccio parte, e le femministe della Libreria delle donne di Milano. In particolare nei seminari annuali organizzati da “Identità e differenza” in Veneto18. Anche da quegli scambi è cresciuto un impegno sul terreno del contrasto alla violenza maschile e nella diffusione di gruppi di uomini che riflettono sulla propria differenza sessuale. Una pratica che però stenta a uscire dal “tra uomini”. Una sorta di separatismo speculare?
«Non è più la politica tradizionale – osserva Cigarini – ma non è neppure ancora una politica che mette al centro lo scambio con le donne e con ciò che il movimento delle donne ha generato […] mi pare un appuntamento mancato». Credo che siano osservazioni fondate. Posso dire che nei gruppi di Maschile plurale, e in altre realtà simili diffuse un po’ in tutta Italia, si conferma la ricerca di uomini anche molto giovani verso luoghi dove parlarsi, tra maschi, in un linguaggio diverso da quello prevalente nei luoghi di lavoro, al bar, in palestra, allo stadio. Che c’è il racconto di relazioni diverse con le compagne o mogli, con i figli piccoli. Con altri uomini. Che c’è un consapevole rifiuto della “maschilità tossica”, propria e altrui. Emerge però un grande interrogativo su che cosa sia e cosa si debba intendere per politica. Quel salto di qualità simbolico e pratico resta come un oggetto rispetto al quale il desiderio sta come acquattato.
Forse, in forme più o meno inconsce, teme, manifestandosi pienamente, di produrre altri terribili guai?
1 All’esibizione antifascista a Milano Bossi farà seguire – come si ricorderà – una intesa di fatto con Massimo D’Alema, segretario del Pds, che porterà otto mesi dopo alla caduta del primo governo Berlusconi, sul tema delle pensioni, e alla nascita del governo “tecnico” di Lamberto Dini. L’Ulivo di Prodi vincerà nel 1996 anche perché la Lega di Bossi non si alleò con Berlusconi e Fini.
2 La politica del desiderio e altri scritti, Napoli-Salerno, Orthotes Editrice, 2022. Al fondo e al centro della politica, su Via Dogana, n. 64, Io e il capitale, marzo 2003, p. 213.
3Pubblicato su Critica Marxista, 2002, n. 5-6.
4 Lo argomenta nel suo saggio Ida Dominijanni: «C’è al cuore del pensiero politico di Cigarini un nocciolo senza il quale tutti gli strati perdono di significato e si disfano nell’equivoco. Questo nocciolo […] ha a che fare con la psicanalisi e più precisamente con il debito, disconosciuto, che il concetto di materialismo ha contratto con l’eredità di Freud e che la politica si rifiuta di assumere nel proprio bagaglio teorico e pratico» (in La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 337).
5 Ivi, p. 253.
6 Firmato da Lia Cigarini, Daniela Pellegrini, Elena Rasi, pubblicato sulla rivista Il manifesto, 1969, n.2, e poi nel libro di Rosalba Spagnoletti I movimenti femminili in Italia, Roma, Samonà e Savelli, 1971.
7 La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 19.
8 Ivi, p. 25.
9 Sottosopra sarà la testata di tutti i principali documenti pubblicati negli anni dalla Libreria delle donne di Milano.
10 Nell’articolo Donne, meglio libere che di potere, su La Repubblica, 11 ottobre 2022.
11 Note sull’autorità femminile, pubblicato su Madrigale 1989-90, n. 4. In La politica del desiderio e altri scritti, cit. a p. 99.
12 Lia Cigarini, Luisa Muraro, Politica e pratica politica, in Critica Marxista, 1992, n. 3-4. In La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 169.
13 Di questa esperienza parlano le pro- tagoniste in C’era una volta la Carta delle donne, a cura di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss, Roma, Biblink, 2017. Vedi anche Livia Turco, Compagne. Una storia al femminile del Partito comunista italiano, Roma, Donzelli, 2022.
14 Luce Irigaray, Speculum, traduzione di Luisa Muraro, Milano, Feltrinelli, 1975.
15 La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 149.
16 Immagina che il lavoro, Sottosopra, marzo 2009 (https://www.libreriadelledonne.it/pubblicazioni/sottosopra-immagina- che-il-lavoro/). Vedi anche il nuovo libro, a cura del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, Bergamo, Moretti e Vitali, 2022.
17 La politica del desiderio e altri scritti, cit., p. 259.
18 Cfr. Teresa Lucente, Il luogo accanto. Identità e differenza, una storia di relazioni, Roma, Effigi edizioni, 2020.
(Critica Marxista n. 5, 2 novembre 2022)
di Luciana Castellina
Io non sono una pioniera del femminismo. Innanzitutto per ragioni generazionali, visto che appartengo a quella maturata nel dopoguerra, quando la promessa dell’emancipazione, e dunque della conquista di diritti uguali a quelli degli uomini, ci parve di già una bella prospettiva: non avevamo capito che quelli che servono a noi non sono gli stessi. Sono stata però una precoce recluta del nuovo femminismo che comparve sulla scena italiana intorno al ’68 – non figlia del movimento, ferocemente maschilista – e però accanto, perché ci aveva insegnato la ribellione.
Ebbi fortuna, perché a coinvolgermi fu il «femminismo della differenza», di cui tutt’ora rimango una fedele discepola. A convincermi fu Lia Cigarini, e fu più facile perché, sebbene parecchio più giovane di me, avevamo una provenienza analoga, la Fgci, di cui lei fu anzi la prima segretaria donna di una grande provincia, Milano (la nostra antica comunanza ha fatto sì, non a caso, che il primo scritto femminista della rivista «il Manifesto», del 1969, fosse firmato da Lia).
Fortunata fui anche per via di un precoce incontro con un’altra importantissima esponente del nuovo movimento: Luisa Muraro, conosciuta a un dibattito sul divorzio alla biblioteca di Montevarchi, uno dei primi e per di più in una zona che come allora la Toscana, dominata dalle famiglie mezzadrili, all’argomento restava molto ostica. Quando mi dissero che ci sarebbe stata questa Muraro, docente della Università Cattolica, mi irritai: perché far parlare proprio l’avversario più duro su una questione già così difficile in quella zona? Luisa era giovane e incinta. Dopo poco ci trovammo, con mia sorpresa, sostanzialmente d’accordo. Tanto che l’indomani telefonai alla assai intelligente responsabile femminile della federazione Pci di Milano, Nora Fumagalli, per dirle: guarda che alla Cattolica c’è un gruppo molto interessante di donne, prendici contatto. Da allora non ci perdemmo più di vista, sempre più convergenti anche sulle questioni politiche generali.
Adesso molti degli scritti più antichi e parecchi nuovi di Lia Cigarini sono stati raccolti dalla casa editrice Orthotes in un libro – La politica del desiderio (pp. 374, euro 25) – curato da Riccardo Fanciullacci (c’è anche una sua bella intervista all’autrice) e da Stefania Ferrando che scrive la nota introduttiva.
Non tenterò nemmeno di riferire, e neppure di accennarvi, a tutte le tematiche che il volume affronta, nemmeno al saggio assai intrigante sul rapporto con la psicoanalisi scritto da Ida Dominijanni nel ’95 (era a introduzione della prima edizione de La politica del desiderio, per Pratiche editrice nel 1995, ndr) e qui ripubblicato. Scelgo un solo tema, il lavoro, del resto quello su cui Lia ha scritto le cose più interessanti, anche perché, cosa rara, ha continuato a partecipare assiduamente alla vita sindacale, portando nel dibattito delle lavoratrici, a cominciare dai primi collettivi femminili di fabbrica, la nuova consapevolezza: la contraddizione di genere. Aggiungerei anzi: il lavoro, come tema particolarmente segnato dalla differenza sessuale, un problema diventato anche più esplosivo da quando le donne sono massicciamente entrate nel mercato del lavoro.
E quando proprio la conquista del diritto ad accedere a tutte le professioni ha mostrato quanto grande, anzi drammatico, sia il peso di una società ancora patriarcale, che non ha nemmeno mai seriamente messo in discussione la divisione fra lavoro produttivo, per il mercato, e quello riproduttivo, non pagato né socializzato, pur essenziale per il mantenimento dell’umanità. E così è proprio in seguito a una conquista come l’accesso a tutte le carriere che, paradossalmente, le donne si sono ritrovate con un’identità ancora più appiattita su quella maschile, la differenza sessuale ancora una volta calpestata.
All’inizio si è forse pensato che sarebbe gradualmente venuta alla luce, via via automaticamente risolvendosi; e invece è accaduto il contrario. Le stesse lotte per l’occupazione, per la parità di retribuzione, quelle per il welfare – restato tutto centrato sulla figura del capofamiglia – non hanno fatto che rendere più evidente l’urgenza di prendere in conto la questione di genere e quindi la insuperata separazione fra lavoro per il mercato e il lavoro domestico di cura. E dunque la necessità di considerare a tutti gli effetti «lavoro» tutto quello che è necessario per vivere, non più concepibile come attività residuale, affidata alla benevolenza femminile. Con evidenti grosse conseguenze di carattere più generale di cui sarebbe obbligatorio prendere atto: che non è possibile pensare di modificare i rapporti sociali di produzione senza pensarli insieme a quelli di riproduzione, e dunque della necessità di rivedere leggi e comportamenti alla luce della differenza di genere che ne è alla base. È proprio a partire dal lavoro che più limpidamente appare l’imbroglio grazie al quale viene regolata la nostra società, che vengono scritte le sue leggi e plasmati i comportamenti. L’imbroglio di far credere che esista un cittadino neutro, quando quel neutro è tutto disegnato sull’identità maschile, contrabbandata come modello universalistico.
Per svelare l’imbroglio, le donne stanno prendendo la parola ma non senza esser confrontate con nuove minacce. Contro cui è urgente rispondere innanzitutto rinominando con le proprie parole quelle che ci sono state imposte dal maschio, quelle «ufficiali» del «femminismo di stato», che cerca di convincerci che quanto devono volere è conquistare un pezzetto di quanto hanno gli uomini. Sicché il tripudio di fierezza per aver conquistato una percentuale crescente di presenza nella magistratura, nella medicina, nella scienza, nella politica, in fabbrica, finisce per corrispondere, in realtà, con una maggiore oppressione: un doppio lavoro stressante che o costringe ad abbandonare o altrimenti a subire il disagio imposto dall’obbligo di rispettare regole che ci sono state cucite addosso dal sistema che della natura della donna non ha mai voluto prendere atto: a farci sentire menomate perché non capaci di rendere altrettanto se non a costo di enorme fatica e sacrificio, finanche ad obbligarci a rinunciare a diventare madri, di perdere un potere che pure in molte vorremo conservare. Costrette a perdere la felicità oltreché l’autonomia.
Nel momento in cui assistiamo al varo di un governo espresso da una maggioranza che come primo progetto di legge ha presentato quello che riconosce diritto di cittadinanza italiana al feto, ma non alla donna che lo porta nel grembo; e che lancia una campagna per incrementare la natalità pur senza fare nulla per renderla possibile a tutte le donne che lo desiderino, rischiamo di perdere anche il diritto pur con fatica conquistato, il diritto di decidere se avere figli o non averli.
Costrette a subire la campagna già lanciata dal presidente Fontana intesa a far sentire le donne colpevoli dell’estinzione degli italiani, che, visto il tasso di natalità ridotto all’1,3%, potrebbe verificarsi in un tempo prevedibile. La minaccia di abolire il diritto all’aborto si accompagnerà sicuramente all’accusa alle donne di essere responsabili del crollo delle nascite. La battaglia per cambiare il nostro modo di vivere, per socializzare il lavoro di cura attrezzando servizi collettivi adeguati per bambini, vecchi e malati, spostando l’accento a questi investimenti anziché a quelli destinati a moltiplicare merci superflue, ridurre finalmente l’orario di lavoro e renderlo flessibile non per risparmiare salario ma per adattarsi ai bisogni più elementari, tornare a puntare su uno scambio fondato sul valore d’uso e non solo su quello di scambio, credo sia ormai un obiettivo possibile e un impegno urgente. Vorrei che tutte e tutti leggessero questo libro di Lia Cigarini per ritrovare il coraggio di ripensare al mondo, di ritrovare il proprio agio in una visione diversa del vivere, liberandosi dalla gabbia che ci è stata cucita addosso. In gabbia ci lasciamo Giorgia Meloni con il suo titolo di presidente del Consiglio.
(il manifesto, 1° novembre 2022)
di Matilde Quarti
Quando incontro Rebecca Solnit è una giornata di sole e di vento, come quasi sempre a San Francisco. Mi ha dato appuntamento alla libreria Green Arcade, a metà di Market Street, arteria che taglia la città in diagonale da Twin Peaks, il suo punto più alto, ai moli dell’Embarcadero. La Green Arcade è una libreria di quartiere e di lotta, tanto accogliente con il cliente che fa capolino quanto chiara nella sua inclinazione politica, e il proprietario, Patrick Marks, è un buon amico di Solnit. L’atmosfera, mentre la intervisto, tra scaffali di legno e pile di saggi di attualità e di storia e un banco di scintillante novità (ma poche, perché oltre che di quartiere e di lotta la Green Arcade è soprattutto una libreria di – vastissimo – catalogo), è quella di un confortevole salotto casalingo. Sembra difficile, quasi impossibile, inquadrare la produzione di Rebecca Solnit: scrittura e attivismo, nel suo cangiante lavoro, si compenetrano incessantemente e, allo stesso modo, i suoi testi sono un continuo rimando tra argomenti, come una scatola cinese, come una matrioska, le suggestioni letterarie lasciano spazio all’attualità politica, le dissertazioni storiche aprono squarci sulle più recenti ondate femministe. Un gioco di specchi che si ritrova anche nel suo ultimo saggio, Le rose di Orwell(Ponte alle Grazie, 2022), dove la minuta vicenda personale di un grande scrittore che amava prendersi cura dei suoi fiori diventa lo spunto per parlare di un Orwell inedito, rispetto all’uomo severo raccontato da gran parte della critica, aprendo divagazioni che toccano persino Tina Modotti e Stalin, per parlare, in ultima sintesi, di totalitarismi e rapporti di potere. I rapporti di potere, d’altronde, sono un tema caro a Solnit, che percorre più o meno esplicitamente gran parte della sua opera. La raccolta di saggi Gli uomini mi spiegano le cose(Ponte alle Grazie, 2017, traduzione di Sabrina Placidi) e il memoir femminista Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie, 2021, traduzione di Laura De Tomasi), si muovono su questo stesso filo rosso: la riflessione femminista non può prescindere dal discorso sul potere e sui corpi. Sono questi gli spunti da cui prende avvio una conversazione in cui Solnit parla di misoginia e sopraffazione, della crisi attraversata dalla sua città, San Francisco, negli ultimi decenni, di autoritarismi e di Trump, di attualità e, in fin dei conti, di politica in tutte le sue sfaccettature.
Partirei dal suo libro che ha avuto maggior risonanza in Italia: Gli uomini mi spiegano le cose. Cosa pensa indichi della società il calore con cui è stato accolto?
Il saggio che dà il titolo alla raccolta è stato pubblicato nel 2008, ma il libro è uscito solo nel 2014. In ogni caso, il mio proposito era cercare di collegare alcune delle cose più orribili che possono accadere alle donne alle credenze e ai valori della nostra società. Può trattarsi di un evento minuto, come un uomo che, durante una cena, non crede che una donna abbia il diritto o l’autorità di parlare di un dato argomento, oppure può svolgersi nella sfera professionale, dove, ugualmente, una donna può essere trattata come se non fosse competente nel proprio campo. O ancora, come racconto proprio in quel saggio, può essere la storia di una donna che urla terrorizzata perché il marito sta cercando di ucciderla, ma la gente intorno, invece di ascoltarla, dà per scontato che sia pazza. Sono tutti esempi che fanno eco a un’esperienza molto specifica delle donne: essere trattate come incompetenti. Si tratta, sempre, di un attacco alla voce di una donna, al suo diritto di essere considerata a pieno titolo una persona, una cittadina, la parte di una comunità. Ho un’intera collezione – che ho chiamato “le Olimpiadi del mansplaining” – di esempi di quanto sto dicendo: tra questi figura anche la vicenda di una donna a cui degli uomini hanno cercato di spiegare come si pronunciasse il suo nome.
Il saggio inizia con un aneddoto personale.
Ero convinta che avrei scritto un testo relativamente divertente, perché ho iniziato con l’aneddoto di un uomo che mi voleva spiegare un libro che avevo scritto io: insomma una cosa fastidiosa, ma non pericolosa. Però, procedendo nella scrittura, mi sono resa conto di quanto velocemente stessi passando da questo spunto alla storia che ho appena raccontato: un uomo che trovava divertente aver visto correre fuori di casa una donna, nuda, nel cuore della notte, che gridava che il marito stava cercando di ucciderla. Perché ai suoi occhi doveva essere per forza pazza, non poteva essere attendibile. Questo cambio di prospettiva mi ha scioccato.
Quando raccontiamo la violenza di genere, la prima cosa che dovremmo fare è parlare di patriarcato, eppure è una parola che fatica ancora a entrare nel discorso politico.
Il problema è di chi comanda: le femministe non hanno problemi a usarla, questa parola. Si tratta di cambiare lo status di un termine, e forse non è un processo diverso dal cambiare l’intero sistema valoriale di chi decide cosa sia valido e cosa no. In inglese usiamo molto il termine “misoginia” e sono contenta che l’italiano abbia reso più popolare la parola “femminicidio”. “Femminicidio”, “cultura dello stupro”, “misoginia”, “patriarcato”, “sessismo”: ognuno di questi termini ha un significato e, di solito, quando le persone rifiutano una parola stanno anche rifiutando la realtà che ci sta dietro.
Per esercitare una forma di potere è indispensabile annichilire anche il corpo. Un suo testo dove è centrale il discorso sul corpo è Ricordi della mia inesistenza. Le chiedo: il discorso sulla violenza di genere è sempre un discorso di corpi?
Il corpo è la scena del medesimo attacco che cerca di distruggere la donna come persona, che cerca di impedire il suo diritto ad autodeterminarsi e stabilire i propri confini: perché solo quando hai una voce puoi dire di no, puoi stabilire dei limiti, puoi testimoniare in tribunale ed essere creduto. Abbiamo sotto gli occhi le modalità sistemiche con le quali gli uomini sono stati in grado di commettere crimini: anche in un’epoca come la nostra in cui, a differenza del passato, la violenza domestica e gli stupri coniugali sono considerati un crimine, nonostante tutto continuano a perpetuarsi, e questo accade perché permane una disuguaglianza di voce e di potere. La violenza fisica è una rappresentazione dell’identità maschile come potere, dominio, controllo. Ed è da questa volontà di dimostrare che la donna non vale niente che nascono le umiliazioni, le mutilazioni del corpo.
C’è una pagina molto potente, all’inizio di Ricordi della mia inesistenza, in cui sottolinea come alle donne venga insegnato a immaginare il proprio assassinio. È una violenza psicologica che inizia tra le mura di casa e plasma la percezione che si ha del mondo.
Parte del motivo per cui ho scritto Ricordi della mia inesistenza è che ci rapportiamo a questi fatti terribili come se accadessero a sole poche donne, anche se la percentuale di donne che sono state violentate o che hanno affrontato un qualche tipo di violenza è piuttosto alta. E vivere in un mondo in cui questo accade a persone della tua categoria significa essere costantemente consapevoli che potrebbe capitare anche a te. Questo ha un impatto enorme, così come lo ha organizzare costantemente la propria vita per evitare la violenza maschile in una società in cui è molto raro che vengano limitate le libertà degli uomini in modo che le donne possano avere i loro pieni diritti. Avviene piuttosto che le donne debbano rinunciare al loro diritto di camminare per strada, di indossare quello che vogliono, di esprimere la loro opinione, di dire di no agli uomini o di lasciarli. Ci viene costantemente ripetuto che siamo noi a dover prevenire la violenza maschile, ma questo non è altro che un modo per deresponsabilizzare gli uomini e sottintendere che la società continuerà a far prevalere i loro diritti.
In questo libro è centrale anche il discorso su San Francisco, la gentrificazione, la crescita dei costi. Com’è cambiata la città negli ultimi decenni?
Ho vissuto in almeno dieci città diverse chiamate San Francisco e quella attuale è la città che meno preferisco. La San Francisco in cui mi sono trasferita, nel 1980, prima della crisi dell’AIDS, aveva il 15% di cittadini neri, mentre ora ne conta forse il 3%. Era molto più accessibile, le persone arrivavano per scoprirsi poeti, attivisti politici, idealisti, ed era anche relativamente facile avere una casa e una vita che non comportasse lavorare sessanta ore a settimana per un’azienda. Poi la Silicon Valley è arrivata come un mostro e si è mangiata tutto. Prima San Francisco era un’alternativa, un rifugio: la città della liberazione gay, delle Sorelle della Perpetua Indulgenza, della nascita del movimento ambientalista con la fondazione del Sierra Club nel 1892, della poesia sperimentale… Mentre ora la Bay Area è diventata uno dei centri del potere mondiale, è il luogo di Google, Facebook, Twitter, Uber, Airbnb, e tutte le altre aziende che hanno cambiato il mondo, per molti versi in peggio, trasformando la privacy in merce.
Il problema che emerge è anche abitativo.
La San Francisco attuale è diventata una città poco accessibile e sta assistendo a una crisi continuativa di homeless (“senzatetto”, Ndr). Si tratta del prodotto di decisioni prese a livello perlopiù federale, oltre al fatto che l’alloggio viene trattato principalmente come una merce speculativa e non come un diritto di base. Alloggio, cibo, vestiti e assistenza sanitaria vengono trattati come prodotti e non come diritti. Mentre è necessario avere salari più alti, più reti di sicurezza, più fondi federali per gli alloggi, che sono stati tagliati. È necessario costruire alloggi a prezzi accessibili per i cittadini a basso reddito, invece nella Bay Area vengono costruiti molti alloggi, ma tutti per redditi più alti.
Ha però anche spesso portato San Francisco come esempio positivo di buone pratiche politiche. Può ancora trainare il resto del paese?
Penso di sì, ma non come un tempo, perché mancano molte voci. Se devi guadagnare 100.000 dollari all’anno per poter restare qui, hai meno tempo per concentrarti sul clima, sui diritti umani o su altre questioni cruciali. Non c’è una forte presenza della destra, ma credo che sempre più persone molto benestanti non avranno il tempo di impegnarsi: potranno sostenere valori progressisti, ma non saranno impegnate politicamente come potevano esserlo quarant’anni fa. Il grande mutamento economico a cui abbiamo assistito ha reso tutti più conservatori, perché, a meno che non si abbia un’eredità, bisogna lavorare molto duramente per guadagnare abbastanza per andare avanti. E i senzatetto ci ricordano che, quando si cade, si cade molto in basso e molto duramente. Mentre negli anni Sessanta e Settanta la società americana aveva raggiunto un tale livello di benessere che molti giovani – bianchi perlomeno – potevano permettersi di fare scelte di vita basate sui propri ideali, senza doversi preoccupare troppo di come sopravvivere.
L’esperienza dell’attivismo è molto importante nel suo lavoro autoriale. È nata prima la Rebecca attivista o la Rebecca scrittrice?
L’attivismo alimenta la scrittura in molti modi, mi porta a contatto con persone straordinarie e mi permette di essere testimone dei cambiamenti. Con Hope in the Dark ho raccolto una serie di argomentazioni sulle teorie del cambiamento. Penso che, prima di essere cittadini di un luogo specifico, siamo cittadini della Terra, e dobbiamo pagare la nostra “quota di partecipazione”, prendendocene cura. Non mi sento eccezionale, ho più tempo libero e più possibilità di scelta di altre persone. Il mio meraviglioso fratello minore David, poi, è stato un attivista fin dall’adolescenza e il suo esempio ha avuto grande influenza su di me: spesso siamo stati impegnati per le stesse questioni, per esempio al momento ci occupiamo entrambi molto di clima. Ma ho l’impressione che negli Stati Uniti ci sia spesso l’attitudine a ritenere la politica il lavoro di qualcun altro, quando invece dovrebbe essere il lavoro di tutti. Credo che per molti americani l’obiettivo sia avere una vita felice, mentre per me deve essere significativa, quindi avere una vita che comporti il farsi in continuazione domande, ma anche impegnarsi per i valori, le comunità, la vita pubblica. Io mi sento grata di avere una vita significativa.
La sua produzione sembra essere caratterizzata da un costante flusso di pensiero in cui, nel discorso sull’attualità, convergono studi sulla lingua, la letteratura, la storia. E mi sembra che il suo nuovo libro, Le rose di Orwell, sia un esempio perfetto di questo suo approccio alla scrittura.
Orwell era già uno scrittore importante per me, ma quando ho scoperto la storia delle sue rose si è svelata ai miei occhi un’immagine di lui assolutamente inedita. Parlare del rapporto di Orwell con i fiori e il giardinaggio mi ha permesso di approfondire tematiche che ritengo particolarmente significative, come il rapporto tra il piacere e la politica, tra il mondo naturale e quello sociale, politico e umano. La vicenda umana di Orwell si lega alla domanda su come sia possibile vivere in tempi difficili, come praticare l’antiautoritarismo e l’antifascismo. Spesso c’è una grande austerità, si ha come l’impressione che nessuno dovrebbe divertirsi fino a quando tutti i problemi nel mondo non saranno risolti. Ma, dal momento che questo non è possibile, allora non sarà neanche mai possibile distendersi. In questo senso, Orwell diventa un esempio perfetto: un uomo serio, posato, che tuttavia traeva grande piacere dai fiori, dalla natura, dalla bellezza, ma anche dalle fiabe e dalle filastrocche. Penso sia un invito a trovare un equilibrio nella propria vita.
Un aspetto di Orwell inedito.
E molto affascinante: non me lo sarei mai aspettato perché i testi su di lui – la maggior parte dei quali scritti da uomini – lo presentano come una figura austera, cupa, ma in realtà aveva un grande senso dell’umorismo, e apprezzava piaceri semplici come una buona tazza di tè, il cibo inglese, trascorrere tempo con il proprio figlio o occuparsi del suo giardino e dei suoi animali. Considerando che il problema più grande del nostro tempo riguarda proprio la natura, il clima, la sopravvivenza umana e di tutta la biosfera, e che il mondo naturale è stato spesso trattato come meramente decorativo, superfluo, al di fuori del regno della politica umana, ho voluto utilizzare Orwell come leva per approfondire il ruolo in realtà politico della stessa natura e collegarmi alla crisi politica attuale.
Il discorso su Orwell si collega anche a quello sui totalitarismi. Nell’ultimo anno, con l’invasione dell’Ucraina, abbiamo avuto modo di vedere come sia ancora attuale parlare di autoritarismo.
La mia pratica femminista si collega per forza di cose a quella antiautoritaria: che si parli di un “capofamiglia” o capo della nazione, si parla sempre di un individuo autoritario che si arroga il diritto di dettare come debba essere la realtà e che vede nella verità e nelle voci indipendenti un nemico. Nelle famiglie patriarcali autoritarie, l’uomo pretende di detenere sempre la ragione, relegando le donne a fonti inaffidabili, e il medesimo approccio avviene a livello internazionale in politica. Come nel caso di Trump, che sostiene di non aver perso le elezioni contribuendo così all’escalation di violenze che ha portato all’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Il punto centrale che collega autoritarismo e patriarcato è il desiderio di determinare a priori quale sarà la verità.
Che cos’è la politica per lei?
Come recita un meraviglioso slogan femminista, il personale è sempre politico. Penso che la politica sia ovunque, in chi ha accesso alla cultura e al mondo naturale, nella qualità del cibo che mangiamo, nei film che vediamo, nel rapporto con gli altri, in ciò che immaginiamo possibile. Tutti, a prescindere dal loro mestiere e dal loro ruolo nella società, operano in un mondo politico. Il personale è politico, il politico è personale: tutto è permeato dalla politica.
(ilLibraio.it, 29 ottobre 2022)
di Francesco Varanini
Il libro Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo (Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne, ed Moretti & Vitali) mi ha attirato per la sua insolita costruzione, descritta nella introduzione dalla curatrice Giordana Masotto: «Per sette anni ho curato l’inserto Pausalavoro, il quartino centrale della rivista cartacea Via Dogana, che il Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano ha prodotto dal 2008 al 2014 […] Penso che questi testi mettano in scena il processo di elaborazione di un punto di vista politico da parte di quel soggetto inedito che sono le donne libere del nostro tempo». Ho cominciato a guardarlo un po’, e l’ho letto quasi tutto in una notte. È un libro che emoziona e fa riflettere.
È molto bello non solo come testo, ma per come, partendo da un’apparente raccolta di documenti, fa emergere una narrazione con un suo sviluppo: incontri, avanzamenti, gruppi che si intersecano, persone che ritornano, pensieri che si intrecciano. C’è una grandissima ricchezza di storie, personali o collettive. Già questo è avvincente, porta chi legge dentro l’argomento, che è il lavoro in generale, e la ricerca del suo senso.
La storia di questa ricerca, ripercorsa nel libro, riguarda un periodo del recente passato, ma sfocia nell’oggi: tocca temi di grande attualità. Continua nelle narrazioni orali che le donne portano nei loro incontri su questo tema. Perciò il libro è una testimonianza importante, presentata attraverso una narrazione di per sé bella e attraente.
Giustamente le donne vedono e cercano il senso del lavoro dal loro punto di vista, ma credo sia importante ricordare che oggi il senso del lavoro non c’è più per nessuno. Nessuno di noi sa più che cos’è, cosa dovrebbe o potrebbe essere. La cultura del lavoro manca per tutti.
Credo che oggi dobbiamo impegnarci molto tutti e tutte per creare una nuova cultura del lavoro, che sia viva da oggi in poi: il lavoro come elemento vitale, come ricerca di sé.
Il rischio è di stare tutti sul divano, in assenza di un lavoro che non c’è più per nessuno.
Per chi oggi è coinvolto in questa ricerca del senso del lavoro, avere in mano questo libro è confortante.
(www.libreriadelledonne.it, 26 ottobre 2022)
di Michele De Palma
La lettura del libro del Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne di Milano Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo (Moretti&Vitali, pp. 359, euro 22, collana «Pensiero e pratiche di trasformazione») è avvenuta in occasione dell’Assemblea nazionale delle metalmeccaniche della Fiom. La presentazione del volume, curato da Giordana Masotto, è stata una finestra aperta dalle metalmeccaniche su un lavoro che, utilizzando le parole di Michela Spera che ha aperto i lavori, ha messo ordine e reso fruibile la documentazione su il «lavoro» del pensiero politico delle donne sul lavoro.
Di questi tempi dare un ordine al pensiero che sia accessibile e consultabile o restituire un grado di libertà nell’ordine di esplorazione e di lettura non è certamente uno sforzo facile. Si pensi per fare un parallelo alla discussione che seguì alla decisione di divulgare i «quaderni dal carcere» la decisione di dare un ordine ai materiali non è neutro. La curatrice di questa pubblicazione decide di offrire la libertà della consultazione perché la Libreria delle Donne nasce dalla necessità di «andare a vedere che cosa avevano scritto le donne», creare occasione d’incontro per le donne decidendo di ragionare sul lavoro. Non il lavoro delle donne. Le donne esprimono la propria soggettività passando dal «problema femminile» ad essere un soggetto che elabora un punto di vista sul lavoro.
Primo passo è, come ci dice Giordana Masotto, «leggere la realtà partendo da sé». Secondo passo è disoggettivare i numeri: come sono stati raccolti, le parole di narrazione a corredo danno un senso. Mettere in discussione i dati, andare oltre, dietro, ad analizzare permette di elaborare pensiero e dargli parola. Discutere i dati dà autorevolezza e il libro è una bussola in questa ricerca. L’ultimo capitolo è quello legato alla parola contrattazione. Termine che apre un mondo perché mette in relazione la soggettività con la realtà, il mondo intero. La dimensione della contrattazione è chiaramente legata al riconoscimento delle altre e degli altri: un mettersi in relazione che cambia se stessi, la realtà. Contrattare è quindi fare politica: cambiare la realtà.
Per me, a cui il Comitato centrale ha concesso la fiducia di una investitura a Segretario generale della Fiom, il libro è sembrato una fune tesa per attraversare una Assemblea delle metalmeccaniche che mi ha fatto conoscere la vertigine del vuoto di relazione che pur una organizzazione sociale e contrattuale dovrebbe praticare.
Come scrive Lia Cigarini nel volume: «ma oggi la democrazia rappresentativa è messa in crisi e noi ne vediamo i limiti. Fa politica chi apre conflitti, chi lotta per il cambiamento (…) l’altra è politica che formalizza ciò che è già accaduto. Non sono d’accordo nel chiamare politica quella esterna a chi pratica il conflitto». Queste parole offrono un riferimento di movimento a chi rischia di rimanere impantanato nelle sabbie mobili di chi «formalizza la realtà». Il conflitto è la vittima eccellente dell’attuale forma di capitalismo. Il conflitto è escluso mentre la guerra si fa normalità nel discorso pubblico. La guerra come distruzione della differenza, come annientamento della critica uniforme del pensiero, è la minaccia con cui fare i conti. Il lavoro crea, la guerra annichilisce.
È necessario il conflitto per impedire la guerra, la contrattazione è la definizione in divenire della soggettività, sapendo che la soggettività per eccellenza del ‘900 è stata il movimento operaio. Oggi quella soggettività ha dovuto fare i conti con il dominio del capitale patriarcale. Affermare «il patriarcato è morto», come ha fatto Masotto, «perché non esistono più le donne disposte a riconoscerlo», permette di comprendere meglio l’intervento di una donna partigiana kurda e le manifestazioni scoppiate in Iran in queste settimane. Affermazione di una soggettività nel conflitto che non vuole cambiare per sé ma per tutte e tutti.
Tale cambiamento è frutto del lavoro, «tutto il lavoro necessario per vivere» che abbatte il muro di separazione tra produzione e cura. Conflitto necessario a dare una possibilità all’umanità a partire da una presa di coscienza della realtà e della propria soggettività. Il portato delle metalmeccaniche e dei metalmeccanici nella vita della Fiom si è dotato di un «vademecum» con questo testo. Già nel rinnovo del contratto nazionale avevo potuto constatare come la forza relazionale delle donne sia stata capace di determinare un miglioramento per tutti. Un insegnamento tratto dalla realtà. Un riferimento per il futuro della Fiom. Un libro che sceglie le parole e le condensa per una pratica del conflitto, della contrattazione.
Michele De Palma è segretario generale Fiom-Cgil
Il 22 ottobre 2022 alla Libreria delle donne di Milano (Via Pietro Calvi, 29), si è tenuto l’incontro «Donne uomini lavoro: qualcosa sta cambiando», a partire dalla presentazione del volume «Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo» del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano (Moretti&Vitali). Hanno aperto la discussione Giordana Masotto (curatrice del libro) e Michela Spera (Fiom Nazionale).
Materiali utili:
Cambiare il lavoro a partire dal nesso vita/lavoro. Una discussione pubblica tra Giordana Masotto (Dalla servitù alla libertà) e Luisa Pogliana (Una sorprendente genealogia) nell’ambito dell’ultima edizione del Festivaletteratura di Mantova.
(il manifesto, 22 ottobre 2022)