di Alberto Leiss


Sabato ho partecipato nella Biblioteca comunale di Spinea, vicino a Venezia, a un evento a suo modo eccezionale. Si è discusso con l’autrice, Teresa Lucente, di un libro: Il luogo accanto. Identità e Differenza, una Storia di Relazioni, Effigi edizioni, 2020. Ed è stata data la notizia, da Gabriella Cimarosto e dalla responsabile della Biblioteca Paola Marchetti, che tutti i materiali relativi alla storia raccontata nel libro sono ora raccolti e archiviati, e potranno quindi essere consultati.

Ma qual è la storia?

Parla di un buon mezzo secolo – dai primi anni ’70 al 2018 – di attività politica, in un senso molto originale di questa parola, promossa da una associazione di donne e di uomini, Identità e differenza, il cui «motore energetico» è stato una donna, Adriana Sbrogiò.

Ma lei stessa aggiungerebbe, come ha fatto sabato, che se la cosa ha funzionato è solo perché con altri e altre è stata fatta nascere, rafforzarsi e moltiplicarsi una rete di relazioni che, seppure attraversata e in qualche caso rotta, da conflitti acuti, è riuscita a costituire un permanente «luogo accanto»: accanto ad altri luoghi più tradizionali della politica, come amministrazioni comunali, impegni sindacali, volontariato, comitati di quartiere; un luogo nel quale il confronto e lo scambio radicati nelle esperienze personali, soprattutto l’ascolto, hanno suscitato energie capaci di «allargare l’ambito del possibile».

Espressione pronunciata di Teresa Lucente, che si è appassionata alla storia che ha scritto pur non avendola vissuta direttamente, e con lei altre e altri. Come Graziella Borsatti, una donna minuta ma che con grande forza era riuscita a sperimentare, come sindaca di Ostiglia, una ricerca nuova sul governare come capacità di «creare», non solo «gestire», facendo del potere politico qualcosa che può essere condiviso nella più ampia connessione di relazioni tra «governati e governanti».

Come Gabriella Cimarosto, che ha parlato del suo impegno per la conservazione della memoria non solo a Spinea, ma anche nel contesto ricco di storia operaia e popolare di Marghera. Come altri amici che ho rivisto con grande piacere (Marco, Gianni, e Marco…).

Anch’io la condivido.

Ho partecipato alla fase trentennale che racconta il libro, quando dal 1988 al 2018 Identità e Differenza ha organizzato a Asolo e a Torreglia seminari annuali con al centro lo scambio tra donne uomini nella ricerca di una pratica politica comune. Condividendo, discutendo e provando a arricchire il portato del pensiero e della pratica inventati dal femminismo della differenza. Incontri a cui hanno sempre partecipato amiche della Libreria delle donne di Milano, a cominciare da Lia Cigarini e Luisa Muraro.

Per me è stato un luogo di incontro anche con altri uomini che desideravano questa ricerca, e mi è successo davvero di condividere nuova energia, investita – sempre con altri – per esempio nella costruzione della rete di Maschile plurale. Sabato ho ricordato che, per me, la scrittura con altri amici di questa rete, nel 2006, di un testo che affermava prima di tutto la responsabilità maschile, di tutti gli uomini, nella violenza contro le donne – testo che fu condiviso da moltissimi maschi e che diede impulso all’azione di Maschile plurale – era stata motivata dalle discussioni avute in quel «luogo accanto». Una esperienza molto concreta, dunque, di «allargamento dell’ambito del possibile».

Ogni storia prima o poi finisce. E non è detto che tutti rimangano felici e contenti. Credo però che quella ricerca sia ancor più necessaria oggi. Forse dovremmo essere noi uomini a tentare di reinventarla in altri luoghi. Nuovi, ma vorrei non troppo smemorati.


(il manifesto, 5 aprile 2023)

di Valentina Parisi


Riavvolgendo il filo di quella intricata matassa che è il suo romanzo Memoria della memoria, Marija Stepanova ha rinchiuso in una immagine pregnante l’aspirazione recondita che l’aveva animata nel corso della scrittura: «Il mio intento era far sì che al lettore venisse voglia di trasferirsi, armi e bagagli, nel mio labirinto verbale».

Abitare un dedalo affabulatorio, fatto di digressioni, citazioni colte e repentine stoccate emotive, è anche quanto spetta a chi si inoltri, gomitolo alla mano, nella sua eterogenea produzione poetica, cui di recente si è aggiunta la silloge La guerra delle bestie e degli animali (a cura di Daniela Liberti e Alessandro Farsetti, Bompiani, pp. 256, € 20,00).

I cinque testi raccolti confermano la tendenza di Stepanova a prediligere, rispetto all’improptu lirico, forme di ampio respiro, come quella della ballata o del poema, rielaborate con distacco post-moderno e con una energia deflagrante che ha spinto il critico Boris Paramonov ad avvicinare l’autrice nata a Mosca nel 1972 ai cubo-futuristi e ai poeti alogici dell’avanguardia. Al tempo stesso, i suoi versi sembrano scritti da un Io femminile dai confini instabili, che ha rinunciato a una individualità definita per aderire a quella metamorfosi continua che, sebbene inavvertita, contraddistingue secondo Stepanova l’esistenza umana. Proprio su questo desiderio di dare alla propria voce una fluidità proteiforme si è concentrata la nostra conversazione, a Napoli, poco prima che l’autrice intervenisse al Festival della Lettura e dell’Ascolto.

Nella sua poesia è fondamentale il ruolo svolto dalla parola altrui, quella dei poeti russi, e non solo, ma anche quella proveniente da canzoni e slogan sovietici. Sembra che la sua voce poetica sia definita proprio da questo continuo gioco citazionale. È così?

Vorrei che lo fosse. Il mio modo di esistere sulla lingua sta in questo discorso fra voci diverse – a volte anche fra culture e lingue eterogenee. Qualche decennio fa, quando ho cominciato a scrivere, regnava la convinzione che un poeta dovesse trovare una propria voce unica, da mantenere immutata per il resto della vita. Questa associazione fra una persona e una sola voce mi sembra molto limitante, così come lo è, del resto, l’idea che l’identità umana sia inalterabile.

Nel suo poema «Spolia» un personaggio ignoto, forse maschile, rimprovera a una non meglio precisata «lei» di non essere «capace di parlare per sé» e di «essere mille voci». C’è qualcosa di autobiografico in questa notazione?

L’inizio di Spolia è un montaggio di citazioni pressoché letterali dalle stroncature di quei critici che, anni fa, mi accusavano di non essere in grado di trovare una «mia» voce, e mi fa piacere che lei abbia intuito la natura maschile di quel coro, perché in effetti a parlare erano quasi esclusivamente uomini. Com’è ovvio, le mie poesie andavano in tutt’altra direzione rispetto alle confessioni liriche che, almeno in Russia, ci si attende tuttora da una poetessa. In generale però credo che tutta questa enfasi sulla persona dell’autore sia eccessiva. Quando penso all’Io, mi viene in mente il buco vuoto di una ciambella; da questo buco esce una voce che «tasta» il mondo e lo rende reale. L’istanza concreta da cui proviene questa voce mi pare irrilevante, anche perché come le dicevo, va soggetta a radicali cambiamenti.

In mezzo a tutte queste metamorfosi e a tutte queste voci c’è almeno una costante nella sua poesia?

Direi che c’è una sola cosa che non cambia e cioè una domanda alla quale cerco di rispondere scrivendo: probabilmente, non sono in grado di formularla con chiarezza, ma è legata alla morte come momento di passaggio e a ciò che segue subito dopo. Ovviamente è una domanda gigantesca, difficile da delimitare, simile a un enorme cratere o a un imbuto; mi limito a camminare sui margini di questa immensa buca, nel tentativo di individuarne i contorni.

Il poema «La guerra delle bestie e degli animali» risale al 2015 ed è ispirato agli scontri nel Donbass fra truppe separatiste filorusse ed esercito ucraino. Ora che quel «conflitto a bassa intensità» si è trasformato nell’attuale catastrofe, colpisce ancora di più il suo volgersi all’indietro per parlare del presente, il gioco citazionale che lei qui propone non solo pescando da «The Waste Land», ma anche dal Canto sulla schiera di «Igor’», un testo che si riferisce a Kiev. Come mai ha scelto di dialogare proprio con queste due opere?

Anzitutto perché sono entrambi «poemi del dopo-guerra», testi che cercano di restituire la percezione spaesata di una realtà in cui è cambiato tutto. Ma, a dire il vero, con queste inserzioni di voci diverse mi interessava più che altro infrangere la linearità del discorso poetico sulla guerra. Ogni conflitto è lacerazione, della carne, ma anche del linguaggio. Mi chiedo se la brutalità sia una componente intrinseca della lingua russa, ovvero se il potenziale di violenza di cui osserviamo oggi l’attualizzazione sia iscritto nelle nostre stesse parole. Non penso che la lingua sia colpevole, però ad esempio Paul Celan, per poter scrivere, ha dovuto inventare un tedesco «nuovo», sia dal punto di vista morfologico che grammaticale. D’altronde non c’è lingua che «vanti» un passato imperiale cui sia estranea la violenza. Quello che può fare la poesia, credo, è tentare di delimitare queste zone a rischio. La lingua è come un campo minato dove restano insepolti gli ordigni dei secoli passati. Forse, prendendo coscienza di questa minaccia nascosta, possiamo trasformare il tessuto stesso della lingua. Sogno una lingua russa che diventi consapevole della violenza di cui è stata ed è portatrice.

Nella sua poesia un’immagine ricorrente, che dà anche il titolo a un ciclo del 2020, è quella del «rammendo della vita» (počinka žizni). Come ne spiega l’origine?

Questa metafora non è mia, viene dal chassidismo, secondo il quale ogni essere umano è al mondo per «rammendare la vita», quasi fosse una calza. D’altra parte, è una immagine che per me ha una profonda valenza sentimentale, perché evoca il nome del villaggio sperduto, Počinki, da cui provengono i miei avi materni. Fin dall’infanzia avevo sempre sognato di visitare questo luogo irraggiungibile, pressoché fantastico, e così, quando in seguito mi sono imbattuta di questa idea della mistica chassidica, ho avuto l’impressione che, in fondo, fosse stata mia fin da bambina: la vita ha bisogno sì di počinki («rammendi»), ma anche di Počinki – una sorta di Eden perduto cui tendere.


(il manifesto-alias, 2 aprile 2023)

di Franca Fortunato


Adriana Valerio è una teologa, una storica, un’esegetica, interprete dei testi sacri della Bibbia. Nel suo ultimo libro Le ribelli di Dio. Donne e Bibbia tra mito e storia, edito Feltrinelli, raccoglie il suo lavoro di quarant’anni di passione e di ricerche per una narrazione delle donne “altra” da quella istituzionalizzata dalla Chiesa nei suoi millenni di storia.

Valerio parte dall’assunto, comune alle teologhe femministe, che la Bibbia composta da numerosi libri, tramandati e scritti nell’arco di tempo di circa mille anni (dal X sec. a.C al I sec. d.C.) è un prodotto letterario e come tale non esaurisce le sue potenzialità di senso nel passato, ma si arricchisce continuamente di nuove chiavi di lettura; per questo non ha, e non può avere, univocità di interpretazione, ma si presta a significati molteplici da decodificare e interpretare. Nel libro la sua narrazione abbraccia il Vecchio e il Nuovo Testamento fino a Paolo di Tarso; mette a confronto interpretazioni diverse tra donne e uomini, propone questioni teologiche e storiche ancora aperte.  Nella sua narrazione il “racconto di creazione e di caduta” diventa il “mito delle origini”, la rappresentazione simbolica “dell’umano alla ricerca di una propria autonomia”. L’universo non è nato in sei giorni; Eva, come Adamo, non è mai esistita e quindi è priva di fondamento l’accusa di una trasgressione a un comandamento divino e infine Eva non è nata e non poteva nascere da Adamo giacché sono le donne che partoriscono e non viceversa. Le donne non sono solo destinatarie, come gli uomini, del messaggio di salvezza, ma anche “portatrici della salvezza”. “Nostre madri fondatrici”, protagoniste della loro vita e di quella del loro popolo, sono le “matriarche” – Sara, Rebecca, Rachele, Lia, Tamar, Miriam, Debora, Hulda, Ester, Giuditta, Rhut, Noemi –, una genealogia femminile che non ha trovato memoria nella storia collettiva.

Il Dio delle donne non ha i caratteri del potere maschile. Non è il Dio guerriero, monarca assoluto che chiede sacrifici, giudica, incute terrore, castiga, esige obbedienza. È il Dio, invece, dell’amore, della misericordia, della vicinanza che le accompagna nella vita accettando le loro scelte libere. È lo           stesso Dio di Gesù, che non chiede sottomissione, non parla di timore, ma di amore: annuncia felicità e speranza. È il Padre misericordioso-materno che abbraccia, accoglie incondizionatamente il figlio perduto e cerca chi si è smarrito senza condannare. Le donne, le cui tracce non scompaiono dai testi canonici, riconoscono Gesù, il Maestro. Ascoltano, interrogano, provocano, accudiscono, amano, condividono, testimoniano, inquietano, trasgrediscono, lo seguono e lo accompagnano lungo il suo cammino fin sotto la croce, dove gli uomini lo abbandonano. Gesù, un uomo pieno di sentimenti, le ama, ne fa le sue discepole (le sorelle Marta e Maria), le sue Apostole (Maddalena, l’Apostola degli Apostoli, non la prostituta pentita, come la si è voluta ritrarre; Maria, la madre, la sovversiva che non sempre capisce suo figlio), discute e si confronta con loro (la Samaritana, la missionaria ispiratrice della mistica), nel mentre i discepoli faticano a comprendere il suo comportamento. Il Gesù dei Vangeli non concepisce la sua comunità come una cerchia separata di soli uomini e non voleva un tempio, un sacerdozio, una struttura gerarchica, né tantomeno un diritto canonico, la sua attenzione era esclusivamente rivolta a un profondo rinnovamento di vita, in vista dell’immanente Regno di Dio. Una narrazione, quella di Adriana Valerio, che va letta, conosciuta e studiata.


(Il Quotidiano del Sud, 1° aprile 2023)

di Jessica Chia


«Nella mia dimensione culturale è normale che il Gange, sulle cui sponde sono nata, mi scorra nelle vene come parte di me, così come è naturale sapere che l’Himalaya costituisce la forza di pietra che mi contraddistingue. Io e la mia terra siamo uno. E questo vale per tutti gli esseri umani». È forse partendo da questo tutt’uno che si può entrare nel pensiero dell’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva (Dehradun, 1952), che allo studio e alla salvaguardia del pianeta ha dedicato la sua intera esistenza. Esattamente «cinquant’anni di attivismo» su settanta di età, come ha detto a La 27esimaOra nell’intervista che si è tenuta in occasione dell’uscita del suo nuovo libro. Il volume La vita è maestra. La mia storia di rivoluzione (Piemme, a cura di Manlio Masucci e Cinzia Chitra Piloni) è la prima autobiografia di Shiva, un «testamento culturale» e «un lascito alle future generazioni». Il volume inizia dal racconto della sua famiglia progressista – il nonno Mukhtar Singh fu l’iniziatore delle scuole femminili nei contesti rurali e morì di digiuno durante una protesta per poter fondare la prima università femminile. Cresciuta in simbiosi con la natura, Shiva si laurea in fisica nel 1978 all’Università del Punjab e consegue un dottorato in filosofia all’University of Western Ontario, Canada. Per tutta la vita si dedica a progetti di tutela della biodiversità, della sostenibilità alimentare, del clima e diventa «custode dei semi», che per l’attivista rappresentano «il principio della vita sulla Terra». Motivo per cui fonda Navdanya («nove semi»): un’organizzazione nata per difendere la sovranità alimentare e la biodiversità. Ma soprattutto Shiva, vincitrice nel 1993 del Right Livelihood Award, il premio Nobel alternativo per la pace, e fondatrice della Earth University, è la principale teorica dell’ecofemminismo e si è sempre battuta contro la globalizzazione, le colture intensive, gli Ogm, oltre a promuovere l’empowerment femminile, come lei stessa ha fatto lottando tutta la vita contro il patriarcato: lei, donna indiana che studia, che si separa dal marito, affronta una battaglia legale per ottenere la custodia del figlio, in una società che considera ancora donne e figli proprietà dell’uomo. In questa intervista le abbiamo chiesto il suo punto di vista sui leader mondiali, sul cambiamento climatico, sull’“immigrazione climatica” e sulla nascita del suo pensiero ecofemminista.

Perché la salvaguardia dei semi è così importante per il nostro pianeta? E qual è il significato di “monocultura della mente”?

«Ci hanno voluto far credere che le monocolture producono di più, ma la foresta naturale ha in realtà una produttività ben maggiore. Ho pensato: cosa impedisce alla gente di vedere la ricchezza e la diversità dei sistemi? Cosa li rende ciechi? Poi mi è venuta l’idea che la monocultura della mente non fa vedere la vita, la diversità, la pluralità. Questo è il pregiudizio attraverso cui prende forma l’uniformità della monocultura».

Com’è nato l’ecofemminismo e come si è evoluto?

«Sono stata coinvolta dal movimento Chipko (nato in India per la tutela delle foreste; sono celebri le donne del movimento che nell’Himalaya indiano abbracciarono gli alberi incatenandosi a questi per impedirne l’abbattimento, ndr) e pian piano mi è stato chiaro che sono state le donne a difendere la Terra. Quando mi è stato chiesto di scrivere un libro con Maria Mies, Ecofeminism (1993), raccontai il modo in cui il colonialismo e il commercio coloniale avevano deformato il processo economico dando vita all’estrattivismo: gli uomini venivano risucchiati nelle miniere e nelle piantagioni, e le donne erano lasciate a fare il lavoro di sostentamento della società, che però non veniva chiamato “economia”. Le donne avevano conoscenze su come sostenere i sistemi idrici, quelli alimentari, la comunità e la famiglia, e hanno continuato a farlo. Ecofemminismo è il riconoscimento che la convergenza di capitalismo e patriarcato sono le radici della distruzione del pianeta, del dominio sulle donne e del dominio sulle altre culture e razze. Ecofemminismo è il riconoscimento che facciamo parte di una sola famiglia sulla Terra, dove non ci sono specie, generi e classi privilegiate. Sulla Terra ognuno partecipa alla società della vita: questa è la vera democrazia, che io ho chiamato democrazia della Terra, e che è cresciuta dal mio pensiero ecofemminista pensando alla diversità, e non alle gerarchie, come base dell’uguaglianza».

Nel libro lei cita il G8 di Genova. In quel momento (era il 2001) in Italia il dibattito sul clima raggiunse la massa. Da allora, cos’è cambiato?

«Il dibattito sul clima esiste dal 1992 (con il primo summit della Terra a Rio de Janeiro, ndr) e, per qualche ragione, si pensa che sia appena venuto fuori. La Convenzione sulla diversità biologica e la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici hanno 31 anni, ma siamo di nuovo di fronte a un punto cieco, come se non ci fosse una crisi della biodiversità.

Ricordo bene il G8 di Genova, la grande protesta; prima di allora, c’era stata quella di Seattle. Fu il momento in cui i poteri costituiti pensarono di poter creare monopoli; in realtà capirono che le persone sanno resistere. La violenza contro il ragazzo a Genova (Carlo Giuliani, ucciso a ventitré anni da un carabiniere, ndr) è stata la nuova morte della democrazia: le persone avevano il diritto di protestare, ma quel diritto è stato criminalizzato: è questo quello che abbiamo visto a Genova. Genova è uno spartiacque totale, perché un ragazzo ha dato la sua vita per la libertà e la democrazia. Perché il G8 di allora, e oggi il G20, sono gruppi di persone che si riuniscono e decidono verso quale direzione deve andare il mondo. Se guardiamo a oggi, le persone stanno marciando per la natura, per il lavoro… Ma pensiamo che i leader stiano ascoltando? No, loro pensano di essere immuni alla democrazia».

Poche settimane fa Giorgia Meloni ha incontrato in India Narendra Modi. Cosa pensa di quell’incontro e delle promesse dei leader fatte intorno all’emergenza climatica?

«Penso che l’emergenza climatica significhi scendere tutti dal carrozzone della globalizzazione. Dobbiamo guardare alle emissioni e a come sono aumentate dal 1995 quando l’economia, invece di essere locale e nazionale, è stata globalizzata attraverso il controllo di società multinazionali. La globalizzazione aziendale è una fabbrica di emissioni e distrugge anche i mezzi di sostentamento, la democrazia delle nostre culture. Direi ai due leader: voi, oggi nel 2023, rappresentate una civiltà molto antica. Cercate di conquistare la fiducia dei vostri popoli per difendere la diversità culturale e la biodiversità per affrontare il cambiamento climatico».

Che cos’ha rappresentato per lei l’incontro con Papa Francesco?

«Ho incontrato per la prima volta Papa Francesco durante gli incontri che aveva organizzato (nel 2014) in Vaticano per parlare del superamento di un’economia dell’indifferenza verso un nuovo paradigma economico. Poi di nuovo, via Zoom, per The Economy of Francesco. Quando mi è stato chiesto dell’enciclica (Laudato si’, 2015, ndr) ho detto che è stata scritta dai cattolici, ma avrebbe potuto scriverla un qualsiasi leader spirituale perché distilla il meglio dell’evoluzione e del pensiero umano, la giustizia e la sostenibilità, i diritti della gente e i diritti della Terra che sono interconnessi».

Secondo lei, qual è il cambiamento più urgente da fare per la salute della Terra?

«Stop al cibo industriale, stop alla globalizzazione dei sistemi alimentari. Perché il 50% dei gas serra proviene da un cattivo sistema dell’alimentazione che sta distruggendo anche la biodiversità. Ci si sta concentrando su quattro colture che sono geneticamente modificate, e da cui possono essere raccolte le royalties: mais, canola, soia, cotone. In India abbiamo visto cos’ha fatto il cotone ai nostri contadini. L’Argentina è stata distrutta dalla soia Ogm. È tempo di fermare questo macchinario distruttivo che è stato creato dall’industria chimica usando l’ingegneria genetica. La cosa più urgente da fare è sviluppare la biodiversità, le economie locali, maggiore connessione tra chi mangia e i produttori di cibo, per ricostruire le economie locali attraverso le democrazie locali e con esse la diversità culturale del nostro pianeta».

In Italia, nella tragedia di Cutro hanno perso la vita 91 migranti. L’immigrazione continuerà a crescere anche a causa dei cambiamenti climatici. Quale scenario ci attende?

«La disperazione della migrazione deriva dalla distruzione delle economie e delle ecologie dovuta al sistema globalizzato. Siamo noi a spingere le persone fuori dalle loro case. Come unica famiglia della Terra, dobbiamo iniziare a pensare a come la Terra e i mezzi di sostentamento delle persone stiano venendo distrutti. Questa è la prima cosa da fare perché le persone abbiano la possibilità di stare a casa; abbiamo l’obbligo di trovare modi per accoglierli perché il pianeta è la nostra casa comune. E trovare spazio per le persone che sono state sradicate e sfollate è un dovere umano. Criminalizzare gli sfollati è moralmente ed eticamente sbagliato».


(La 27esima Ora, 26 marzo 2023)

di Franca Fortunato


Vera Politkovskaja con la giornalista Sara Giudice nel suo libro Una madre edito Rizzoli, da poco in libreria, onora sua madre Anna, la giornalista assassinata a Mosca il 7 ottobre 2006. Guarda con i suoi occhi di figlia la madre e racconta di lei affinché il mondo non dimentichi il suo nome, come è avvenuto nel suo Paese, dove era diventata “la pazza di Mosca”. Racconta per ricordare la lezione lasciata a lei e al fratello, «siate coraggiosi e chiamate sempre le cose con il loro nome, dittatori compresi». In un andirivieni tra passato e presente, tra madre e figlia, Vera ci racconta la sua Russia e quella della madre, la sua vita in quella della madre, legate dal filo della guerra. Ieri la seconda guerra in Cecenia (1999-2009) di cui la madre divenne con i suoi reportage testimone della verità, dei crimini e degli orrori, oggi la guerra in Ucraina che ha portato Vera a lasciare il suo Paese, con la figlia Anna: «La guerra in Ucraina ha stravolto la nostra vita. Dopo il 24 febbraio 2022 il nostro cognome è tornato a essere oggetto di minacce, ancor di morte, questa volta verso mia figlia, che è solo un’adolescente. Da quando a scuola hanno iniziato a parlare del conflitto in Ucraina, i compagni si sono scagliati contro di lei. Così abbiamo scelto l’esilio volontario, la fuga in un altro Paese. Da un giorno all’altro abbiamo fatto le valigie e ce ne siamo andate da Mosca, che già ci aveva tolto tanto. A me la madre, a mia figlia la nonna».

Una madre, una nonna, una giornalista «testimone viva di quella mattanza in Cecenia», dove partiva per testimoniare, per ascoltare le vittime, per dare parola al dolore. «Io sono come un poeta. Io vivo la vita, e scrivo di ciò che vedo». Odiata dal potere, era sola, profondamente sola. «La maggior parte dei colleghi non la capiva o non voleva capirla. Reagiva con sconcerto ai suoi reportage, che spesso venivano apertamente criticati. Per paura o per invidia». Non meraviglia che a distanza di anni «tutti si sono dimenticati in fretta di Anna Politkovskaja, soprattutto la gente che conta», il suo nome è avvolto dal silenzio, mentre in Occidente sopravvive ancora il ricordo di lei e del suo coraggio. Vera testimonia ciò che è accaduto in Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Ricorda le proteste contro la guerra, le manifestazioni con «una significativa presenza femminile». «Quasi 22 mila russi sono stati fermati per aver manifestato pacificamente». Ricorda il movimento delle madri dei soldati, nato durante la seconda guerra cecena quando le madri andarono a prendersi i figli vivi o morti e oggi sono scese in piazza per impedire la partenza o il ritorno dei figli in guerra. Pagine commoventi sono dedicate alle ultime ore passate con la madre, alle ultime parole che si sono dette per telefono, allo sconcerto e al dolore alla notizia del suo assassinio. Un dolore che non passa, fatto di amarezza perché, a distanza di anni, se sono stati processati e condannati gli esecutori restano impuniti i mandanti politici: «Non è cambiato nulla. Gli uomini che mia madre ha combattuto con le parole sono ancora lì». L’immagine con cui si chiude il libro ha un grande significato simbolico. Il 6 maggio 2022 la dacia, luogo della memoria familiare, va a fuoco ma dall’incendio si salva solo il giardino dove in estate fioriscono gli iris e le peonie della madre. Un enorme salice, che aveva piantato lei, si ricopre di foglie. Il prato è di nuovo un manto verde, come il ricordo di Anna Politkovskaja rinverdito dalla figlia. Un libro che è un atto d’amore di una figlia verso una madre che ha fatto della verità la sua passione e la sua ragione di vita.


(Il Quotidiano del Sud, 18 marzo 2023)

di Riccardo Michelucci 


Nata a Zagabria, contestò il nazionalismo che avrebbero portato alla guerra civile e per questo dal 1993 visse in esilio. Appena tradotta la sua opera principale, “Il museo della resa incondizionata”.


Dubravka Ugrešić, una delle più importanti scrittrici croate contemporanee, è morta oggi a 73 anni ad Amsterdam, costretta all’esilio nel 1993 non dalla guerra dei Balcani ma dalla deriva nazionalista che aveva travolto il suo Paese. Per la sua strenua opposizione al nazionalismo fu a lungo ostracizzata e messa all’indice anche da molti suoi colleghi dell’Università di Zagabria. In esilio avrebbe però prodotto una delle sue opere principali, Il museo della resa incondizionata, che torna adesso anche in traduzione italiana con La nave di Teseo (traduzione di Lara Cerruti; pagine 368, euro 20,00), in cui ammette: «Sì, scrissi qualcosa che non avrei dovuto. Lo feci, lo ammetto, più per una mia incapacità di adeguarmi alla menzogna generale, che per un desiderio di eroismo. Ero nell’età in cui la menzogna, in quanto strategia legittima, è sopportabile soltanto in letteratura, e non più nella vita».

Nata vicino a Zagabria nel 1949 da padre croato e madre bulgara, Dubravka Ugrešić è stata tradotta in oltre venti lingue e si è aggiudicata alcuni dei più prestigiosi premi letterari internazionali proprio mentre nel suo Paese veniva insultata e disprezzata. Non riconoscendosi in quello che è diventato il suo Paese dopo la guerra, ha vissuto per trent’anni tra l’Olanda e gli Stati Uniti ma si sentiva ancora intimamente jugoslava. Più che una cronaca del suo esilio, Il museo della resa incondizionata è un viaggio nella memoria, un contenitore di ricordi, di oggetti e di personaggi che l’autrice ha incontrato dopo aver abbandonato la sua terra d’origine. Un libro che è popolato anche da figure del suo passato, come la madre e le amiche, le cui parabole esistenziali ci restituiscono un campionario delle differenti reazioni alla violenta e improvvisa disgregazione di quel mondo. Per molti cittadini della ex Jugoslavia come lei, la memoria individuale è diventata l’unica forma di memoria collettiva possibile. Gli elementi sparsi e apparentemente senza relazione tra loro che Ugrešić ci racconta sono simili a quelli che compongono l’elenco postmoderno riportato all’inizio del suo libro: sono i reperti in mostra in una vetrina dello zoo di Berlino, recuperati dallo stomaco di un elefante marino morto nel 1961. È un ammasso di oggetti inghiottiti dall’animale durante la sua esistenza, ai quali il visitatore è chiamato a dare un senso, a ricercare legami e possibili coordinate significative.

Partendo da una serie di immagini ritrovate in una borsa di pelle in fondo a un armadio, la scrittrice croata ricostruisce la storia di sua madre raccontando parallelamente anche il suo presente e il suo passato in un libro che è a metà strada tra il diario, il romanzo e il memoir, reso con uno stile aforistico e una narrazione che non segue mai un andamento lineare o cronologico. Quel che è indubbio, però, è che al centro di esso ci sono la memoria e il modo in cui essa viene conservata. «La vita non è altro che un album di fotografie. Solo quel che c’è nell’album esiste. Quel che nell’album manca, non è nemmeno mai accaduto». Non a caso Ugrešić riteneva che gli esiliati siano divisi in due gruppi, quelli che possiedono fotografie – e quindi un legame con il passato – e coloro che invece non le hanno. Chi è costretto alla fuga e alla precarietà dell’esilio sa bene che i ricordi possono diventare il bene più prezioso. Lo sapeva anche il criminale di guerra serbo-bosniaco Ratko Mladić, che un giorno telefonò a un suo conoscente di Sarajevo e gli disse di portar via i suoi album di fotografie, sapendo che la sua casa stava per essere bombardata.


(Avvenire, 17 marzo 2023)

di Jessica Chia


Sono sempre state lì e per molto tempo quasi nessuno le ha ricordate. Sono scrittrici – conclamate e non – dimenticate, ma per i loro contemporanei sono state, in base all’epoca, solo delle cortigiane, delle «isteriche» o delle degenerate. Ora molte di queste voci popolano il nuovo saggio della traduttrice e autrice Margherita Giacobino (Torino, 1952), Quello che ho da dire lo dico da sola (Somara!Edizioni) e danno vita a un’antologia di nomi fuori dal canone, un prato in cui si incontrano fiori meravigliosi, erbe urticanti e piante selvatiche: nessuna di loro può lasciare indifferenti. E in ognuna c’è quello che diventerà la sostanza del nostro presente; ci sono pagine di vita, sangue e carne. Pagine di libertà e del suo prezzo: l’esclusione, l’esistenza ai margini, l’eccesso.

Dall’alto a sinistra, in senso orario: Jean Rhys, Carla Lonzi, Patricia Highsmith, Leslie Feinberg, Annemarie Schwarzenbach, Audre Lorde

Giacobino ripercorre un arco temporale che va da Saffo fino al secolo scorso, raccontando vite e opere di donne unite da un indomito bisogno di scrittura. Quasi tutte riscoperte in seguito, e non sempre alle prese con una carriera editoriale, queste donne hanno scritto prima di tutto per sé stesse e per la loro sopravvivenza: «Scrivere un romanzo è un’esperienza terribile, durante la quale spesso cadono i capelli e si cariano i denti. Mi irritano sempre molto quelli che dicono che scrivere fiction è evadere dalla realtà. È tuffarsi nella realtà, ed è un grosso shock per il sistema», scriveva Flannery O’Connor nel 1969 in Mistery and Manners. Occasional Prose.

«Scomode, sessualmente trasgressive, fuorilegge, outsider. Irritanti, sconvenienti, disadattate, pazze, affascinanti, terribili. Eccessive, indigeste, non riducibili in pillole, rivoltose, insofferenti a ogni modello. Tenacemente, meravigliosamente sé stesse. Così sono le autrici di cui parlo». Le pagine iniziali ci accompagnano in un viaggio storico attraverso la nascita della figura delle scrittrici, a cui per secoli «è stato insegnato a ritenersi marginali e parziali, incapaci di comprendere l’astratto, il grande, l’assoluto, l’universale». Portando l’esempio della letteratura inglese, Giacobino cita autrici che hanno scritto 150 anni prima di Jane Austen – la prima scrittrice riconosciuta dalla critica ufficiale – che sembrano essere sparite nel nulla. Come Margaret Cavendish (1623-1673), «una delle più famose – e vilipese – letterate del Seicento inglese», condotta all’isolamento dai suoi contemporanei perché osava scrivere. Oppure Aphra Behn (1640-1689), considerata una cortigiana perché si manteneva col suo lavoro di scrittura.

Dopo l’introduzione storica, Giacobino passa poi a raccontare le «sue donne» dimenticate – che mai come oggi vivono nel presente – raggruppate per temi che le rendono più affini tra loro, come «le guerriere». Di queste fa parte l’americana Audre Lorde (1934-1992), che si autodefiniva «nera, lesbica, guerriera, femminista, madre, poeta»; un’outsider, provocatrice. La sua scrittura si mette in lotta contro razzismo, sessismo, omofobia, classismo e tutte le «distorsioni» della nostra epoca. Ma questo è anche il capitolo della regina dei banditi, l’indiana Phoolan Devi (1963-2001) e della sua incredibile storia – fatta di ingiustizie, violenza, stupri, lotte di classe, povertà, abuso di potere – che fece narrare ad altre mani per via del suo analfabetismo.

Poi ci sono le «svergognate»: è il capitolo, per esempio, dove compare la francese Violette Leduc (1907-1972) che, senza pietà, «scrive proclama, lamenta, grida sé stessa», il suo piacere sessuale e l’eros tra donne – tormentato, come la sua esistenza – e si innamora di Simone de Beauvoir, sua madrina letteraria. Mentre nel capitolo «sui confini dell’identità di genere» trova posto anche Anne Lister (1791-1840), personaggio che sembra appartenere alla nostra epoca, e a cui siamo debitrici per aver introdotto nella narrativa dell’Ottocento (attraverso i suoi diari segreti) il corpo e la sessualità femminile, e per averci lasciato le descrizioni delle sue amanti e del piacere lesbico con una sorprendente modernità.

Poi ci sono le autrici protagoniste di «travestitismo e transgenderismo letterario» (come Patricia Highsmith e Carson McCullers); «le vampire», «le peccatrici punite» (tra cui i personaggi femminili raccontati da autori maschi, cioè le «grandi adultere» dell’Ottocento, un caso per tutti: Madame Bovary), e infine «le figlie delle rivolte» (Valerie Solanas, la donna che nel 1968, a New York, sparò tre colpi di pistola ad Andy Warhol e poi scrisse il Manifesto Scum Carla Lonzi, dal quale secondo Manifesto di rivolta femminile è tratto il titolo di questa raccolta) e «le strade solitarie» (Annemarie Schwarzenbach e Flannery O’Connor).

Non possono bastare poche righe per rendere gli universi di queste autrici, descritti con profonda conoscenza da Giacobino. Ognuna di loro è stata considerata «pazza» per aver scritto, o per averlo fatto in contrasto col suo tempo; ognuna di loro ha avuto qualcosa da dire, e l’ha detto «da sola». Ora lasciamole entrare dalle nostre porte, lasciamole sedere sui banchi delle nostre classi, facciamoci svegliare dai loro sussurri notturni. Per troppo tempo sono state taciute, è ora di lasciarle urlare.


(https://27esimaora.corriere.it/23_marzo_17/scandalose-fuori-canone-anne-lister-carla-lonzi-ecco-scrittrici-dimenticate-margherita-giacobino-600846b2-c17a-11ed-839f-35544f562c09.shtml, 17 marzo 2023)

di Alessandra Sarchi


Sara De Simone è traduttrice e studiosa di Virginia Woolf ma ha deciso di dedicare il suo primo libro al rapporto che Woolf intrattenne nell’arco di cinque anni (1917-1923) con Katherine Mansfield. Quando ci incontriamo a Bologna, in una Salaborsa gremita per la presentazione, le chiedo: cosa l’ha spinta a voler indagare quella che ci era stata trasmessa perlopiù come una rivalità? «La prima idea del libro è nata mentre traducevo, con Nadia Fusini, il carteggio d’amore tra Woolf e Sackville-West. Qualche anno dopo la morte di Mansfield, in una lettera a Vita, Virginia osserva: “Che strane amiche ho avuto, tu e lei”. Una frase tanto breve quanto enigmatica. Mi sono chiesta cosa potessero mai avere in comune Katherine Mansfield e Vita Sackville-West, donne e scrittrici diversissime. Vita è – di fatto, assieme alla sorella Vanessa – la donna più importante nella vita di Virginia, mentre Katherine ci è stata spesso raccontata come una meteora nell’esistenza di Woolf, una collega più invidiata che amata».

«Ma allora perché Virginia mette assieme “l’adorata creatura” e la rivale, accomunandole sotto la definizione di “strane amiche”? Era una frase di nemmeno dieci parole, ma mi sembrò la chiave di un mondo. Quello di una relazione strana, singolare, vivissima, e – come purtroppo accade spesso per le storie di donne – ridotta da molti a un rapporto di mera competizione».

Nessuna come lei si legge come un romanzo ma ha la precisione e la puntualità di una scrittura frutto dello studio accurato dei diari, delle lettere e delle opere, tanto di Mansfield e di Woolf quanto della cerchia di intellettuali e artisti da loro frequentati in quel magico momento che furono gli anni venti del Novecento. Cosa ci rivela la quotidianità di queste due grandissime scrittrici? 
«La mole delle fonti è immensa. Da subito ho capito che non aveva senso scrivere un’altra biografia centrata sulle singole scrittrici. Ce ne sono diverse, e molto valide. Quello che mi interessava era la biografia di una relazione. Dovevo occuparmi di un arco cronologico breve, e certo molto intenso, ma proprio per questo potevo prendermi il lusso di indugiare nei dettagli, di seguire giorno per giorno Katherine e Virginia, non nei grandi eventi, ma in quelli minimi, andando a verificare di pari passo i pensieri e i movimenti dell’una e dell’altra. Ho costruito delle cronologie incrociate: oggi, lunedì, Virginia fa questo, Katherine fa quest’altro. È incredibile quanto, anche nei momenti in cui non si vedevano, le loro vite fossero intrecciate da pensieri e sentimenti comuni. Un giorno leggono lo stesso libro, e ne hanno la stessa opinione. Un altro sono ammalate entrambe, a letto, e fanno considerazioni simili, senza dirselo. Mi ha sempre affascinato il concetto di “amicizia stellare”. Due persone legate da un’amicizia profonda continuano a esserlo anche da lontano. Si rispondono e corrispondono ovunque siano. Woolf sopravviverà a Mansfield di quasi vent’anni, eppure il filo che le aveva unite, fino alla fine, non si spezzerà».

Katherine Mansfield muore a 34 anni di tisi. Eccentrica, esotica, bollata di sentimentalismo spesso dalla stessa Woolf, si potrebbe pensare a lei come a una meteora. Come si colloca invece Mansfield in relazione a Woolf e alla letteratura del ’900? 
«Mansfield è una pioniera del modernismo. Woolf impara molto da lei. Quando s’incontrano, nel 1917, Katherine è più avanti di lei nell’elaborazione di uno stile sperimentale. Certo, anche Virginia sta seguendo quella pista, ma la vicinanza e il confronto con Mansfield la influenzano e ispirano in maniera decisiva. Anche quando Katherine recensisce negativamente il secondo romanzo di Virginia, Notte e giorno, ritenendolo troppo tradizionale, dopo l’iniziale ferita, Woolf non può che riconoscere l’importanza di quel giudizio sincero. È una lezione di amicizia anche questa: Mansfield soffre moltissimo a scrivere quella recensione, ci rimette mano cento volte, eppure alla fine non può che dire la verità. Una verità che farà bene a Woolf e la aiuterà a scrivere il suo primo romanzo sperimentale, La stanza di Jacob».

Parliamo della gelosia o invidia che colpisce soprattutto Virginia nei confronti di Katherine. Si può essere amiche e in competizione? 
«Certo. Non si capisce perché tra uomini tutto questo sia lecito, mentre tra donne le possibilità siano solo due: o sorellanza idilliaca, senza pieghe e senza ambiguità, o velenosa competizione. I rapporti veri sono spesso attraversati da sentimenti contrastanti. Il punto, semmai, è che tenere le donne divise fa comodo a molti. Spesso anche alle donne stesse, che cadono in questo equivoco. Mansfield e Woolf non hanno paura di confrontarsi a viso aperto, e se ce l’hanno la superano, perché l’urgenza di aderire alla vita, per loro, è più forte».

Leggendo il suo libro si ha l’impressione che Woolf abbia messo a fuoco molte delle riflessioni sulla condizione femminile anche grazie al rapporto con Mansfield. Cosa rappresentavano l’una per l’altra
«Erano indubbiamente due donne molto diverse. Per certi aspetti complementari. Katherine è audace, libera, anticonformista. Si fa buttare fuori da un bus perché difende pubblicamente le suffragette, pur non facendo parte del movimento. Si sposa e pianta in asso il marito la sera stessa. Ama follemente una principessa maori. Impavida va al fronte, durante la prima guerra mondiale, per raggiungere un amante scrittore. Vive le passioni dell’anima e del corpo con estremo coraggio. Virginia è più timida, titubante, spaventata. Ma, in fondo, è animata dalla stessa audacia, dalla stessa libertà. Per questo è attratta da Katherine. Katherine è quello che lei non è, ma è anche quello che lei è, in una maniera più evidente, talora eccessiva. Il nodo è qui: Katherine è un’appassionata della verità e la pratica in ogni campo, dall’amore alla scrittura, alla spiritualità, senza riserve. Virginia a volte ne è turbata. Riconosce in lei un movimento quasi feroce, eppure sempre, profondamente, autentico. Non è un caso che, proprio quando Katherine muore, Virginia sia finalmente pronta a immergersi più pienamente nella vita: con i suoi romanzi sperimentali, e con l’amore per una donna».

Entrambe avevano dimestichezza con la malattia che fu vissuta non solo come prigione ma anche come momento di conoscenza. Le considera creature del buio o della luce? 
«Pur nelle loro differenze, sia Woolf che Mansfield sono state spesso raccontate come figure tragiche. Avevo voglia di parlare soprattutto della loro luce: sono donne di un’ironia travolgente, sempre capaci di cogliere l’aspetto comico della vita, sempre pronte a godere del ridicolo (in specie quando riguarda loro stesse). Insieme officiano vere e proprie “riunioni religiose in lode di Shakespeare”, insieme se la ridono di Joyce, leggendo ad alta voce il suo monumentale Ulisse , che tutti additano come un capolavoro, e di cui loro sanno rintracciare pregi e difetti, senza deferenza verso il genio maschile, ma anche senza alcun risentimento».


(Corriere della Sera, 16 marzo 2023)

di Antonella Mariani 


La filosofa Valentina Pazé si interroga: lo sfruttamento dei corpi è frutto della logica capitalistica, che fa passare per “altruistico” ciò che invece è al servizio del mercato


Vendere il proprio corpo può essere una scelta di libertà, come il mito della “prostituta felice” suggerisce? E affittare il proprio utero, magari con l’idea di “aiutare” una coppia sterile? O, al contrario, sono espressioni di false libertà, quelle di chi si mette, anche inconsapevolmente, al servizio dello sfruttamento capitalistico dei corpi? A porsi queste domande è una filosofa della politica, che le risposte le ha scritte in un libro uscito nei giorni scorsi da Bollati Boringhieri, Libertà in vendita. Il corpo tra scelta e mercato (192 pagine, 16 euro). Senza tema di fare spoiler, possiamo anticipare le conclusioni, con una frase che Valentina Pazé, docente all’Università di Torino, ha consegnato ad Avvenire al termine di una lunga intervista: «La forma specificamente capitalista di sfruttamento si basa sulla libertà di chi ha poche alternative». Marx dixit quello che la sinistra, oggi, spesso non dice più.

Professoressa Pazé, che una filosofa si occupi di libertà è normale, che prenda in esame la presunta libertà di prostituirsi o di affittare il proprio utero è più originale. Da cosa è nato il suo interesse?

Dalla curiosità che hanno suscitato in me alcuni racconti, letti su vari giornali, di alcune madri surrogate che descrivevano in modo positivo la propria esperienza. All’inizio ho pensato che questi racconti fossero poco credibili. Poi il mio giudizio è cambiato. Ho riflettuto su ciò che già osservava Alain Caillé: la grande capacità del capitalismo di mobilitare il “non utilitario”, come la dedizione, la generosità e l’altruismo, al servizio dell’utilitario. E, per altri versi, il bisogno, da parte di chi è coinvolto in simili transazioni, di raccontare a sé e agli altri una verità diversa da quella dello scambio commerciale.

Insomma, le madri surrogate che dicono di farlo per altruismo sarebbero in realtà manipolate dal capitalismo?

I racconti di chi ha vissuto un’esperienza in prima persona vanno sempre ascoltati con attenzione e con rispetto. Ma senza essere ingenui, cioè considerando il giro di soldi che c’è dietro. Anche nei Paesi in cui è ammessa solo la gravidanza per altri (Gpa) altruistica, come in Gran Bretagna, esistono le cliniche, le agenzie di intermediazione, i consulenti legali: un mondo che non è mosso da altruismo. E le madri surrogate ricevono cospicui rimborsi spese, in realtà veri e propri compensi. Mi pare insomma che dietro il concetto di Gpa solidale si annidi una certa ipocrisia.

Chi fa pressioni per introdurre nel nostro ordinamento almeno la Gpa solidale sostiene che si tratti di un dono. Non è così?

L’articolo 3 della Carta di Nizza (la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata una prima volta il 7 dicembre 2000 nella città francese, ndr) vieta di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro. Con la “Gpa solidale” si vuole aggirare l’ostacolo. Ma il dono è una cosa seria, gli antropologi che lo hanno studiato ci spiegano che è un modo per costruire relazioni. Qui c’è un dono al servizio del mercato.

Professoressa, è consapevole di nuotare controcorrente rispetto al pensiero mainstream, in particolare a sinistra?

A sinistra – ma non solo – si incorre spesso nell’abbaglio di non vedere il mercato dietro fenomeni di questo tipo. Mi sconcerta il silenzio assordante che circonda le nuove forme di sfruttamento, mascherate e giustificate nel nome della libertà. E mi colpisce l’incapacità di vedere l’esistenza di rapporti di subordinazione, di sfruttamento o vero e proprio dominio, quando siano mediati dalla forma giuridica del contratto. Ma esistono anche voci critiche: posso citare grandi pensatori laici e di sinistra come Stefano Rodotà, che denunciava il pericolo della “cannibalizzazione” del corpo da parte del mercato, oppure Luigi Ferrajoli, grande giurista allievo di Norberto Bobbio, per il quale la stella polare della sinistra è l’uguaglianza. Nella gravidanza per altri sono evidenti i rapporti asimmetrici; non a caso la madre surrogata è sempre di ceto sociale inferiore alle coppie paganti. C’è una certa cecità di fronte a questi fenomeni; oggi mi sembra interessante che sia il Papa a spendersi contro la mercificazione universale.

Nel suo saggio argomenta anche contro la presunta libertà di prostituirsi. Un tema molto controverso: sempre più spesso sentiamo testimonianze di “escort felici”…

Anche in questo caso, è giusto ascoltare tutte le testimonianze, con rispetto ma non con ingenuità, confrontandole con tutto quello che sappiamo sul mondo della prostituzione. Ad esempio il numero di donne che vengono uccise o che sviluppano patologie psichiatriche o si suicidano… Se l’invito a mettersi in vendita, veicolato da un certo modello culturale, è stato accolto da donne che interpretano la libertà sessuale in questo modo, le leggi devono però proteggere i soggetti più deboli. Chi finisce a esercitare quell’attività nella stragrande maggioranza dei casi non ha avuto altre possibilità.

E se una donna vende il suo corpo volontariamente?

Questo ha a che fare con l’egemonia del modello neoliberale, che dice che siamo tutti imprenditori di noi stessi e dobbiamo mettere a valore tutto ciò che abbiamo e che siamo. A questo modello si può opporre ciò che diceva Marx, e cioè che gli operai devono lottare per ottenere una legge che limiti la loro libertà di diventare volontariamente schiavi del capitale. Quello che Marx sapeva è che le forme moderne di sfruttamento si basano sulla libertà di chi ha poche alternative. Una disponibilità a farsi sfruttare che si manifesta nella forma estrema della “prostituzione volontaria”, ma non solo; pensiamo ai giovani invitati a lavorare gratis per arricchire il curriculum o alle condizioni di braccianti e rider…


(Avvenire, 9 marzo 2023)

di Franca Fortunato


C’è una storia di un tempo passato che ci parla nel presente della guerra che da un anno infiamma l’Europa e di cui non si vede la fine. La racconta Simone Weil, una delle più grandi pensatrici del Novecento, nella sua tragedia Venezia salva, rimasta incompiuta, che lei scrisse nel 1940 a Vichy dove si era rifugiata con i genitori dopo l’entrata dei tedeschi a Parigi.

La storia narra che nel 1618 Bedmar, ambasciatore di Spagna a Venezia, ordì una congiura per dare Venezia al re di Spagna, allora signore di quasi tutta l’Italia. Egli affidò l’esecuzione del piano a Renaud, gentiluomo francese, e a Pierre, pirata provenzale, che sognavano “onori”, “dominio” e “possesso”.  Gran parte delle truppe mercenarie di guarnigione a Venezia e molti ufficiali, la maggior parte stranieri, al servizio di Venezia, furono coinvolti nella congiura, con promesse di denaro e onori. Il piano era di agire di sorpresa in piena notte, occupare la città, appiccare il fuoco in tutti i quartieri e uccidere tutti coloro che avrebbero tentato di resistere. La notte prescelta era quella della vigilia della Pentecoste. Accadde però che Jaffier, uno dei capi della congiura, la fece fallire denunciandola al Consiglio dei Dieci.

Saint-Réal, che aveva scritto la storia nel 1672, aveva interpretato il gesto di Jaffier come l’azione di un traditore, un vigliacco, un debole, da disprezzare secondo l’immaginario maschile che nella guerra accompagna l’eroe, il guerriero da onorare. «Valori» quali «nazione», «libertà», «democrazia”, «sicurezza nazionale», «difesa dei territori» utilizzati dagli uomini per giustificare le loro guerre «hanno come contenuto solo milioni di cadaveri, orfani, mutilati, disperazione e lacrime». Non ci sono guerre giuste, la guerra è sempre un crimine, è imperio della forza che distrugge, disumanizza, massacra, sradica chi scappa e uccide chi resta, è odio, foriero di nuovi conflitti e nuove guerre. Chi si rifiuta di combattere come gli obiettori di coscienza in Russia e in Ucraina, o le madri che impediscono ai figli di partire o di tornare al fronte, chi fugge o si nasconde per sottarsi alla proscrizione obbligatoria, non è che un vigliacco, un traditore.

È questo immaginario maschile che Jaffier abbandona divenendo per Simone «l’eroe perfetto», disprezzato, di cui il nostro tempo ha bisogno per cacciare la guerra dalla storia prima che una guerra nucleare, complici le donne di potere, cacci l’umanità dalla faccia della terra. Jaffier non si è mosso per tradire i suoi compagni, ma per pietà verso «la splendida città» che, ignara di quello che l’aspetta, le appare in tutta la sua «fragilità». Salvare una città, un paese, un popolo dalla catastrofe non è segno di resa o di debolezza ma di forza e di amore. La guerra in Ucraina non si è voluta evitare, anzi la si è preparata, non si è voluta fermare anzi è divenuta una guerra tra potenze nucleari. Scelta la strada della «resistenza», dell’invio di armi e delle sanzioni, a distanza di un anno non restano che città rase al suolo, milioni di profughi sradicati, centinaia di migliaia di morti di civili e di giovani costretti a combattere contro la loro volontà, legami familiari e parentali distrutti, un bene prezioso perduto per sempre. Non restano che macerie materiali e spirituali e un mondo che si arma per altre guerre e altri massacri. Nessuna pace è «vergognosa», nessuna condizione è inaccettabile per salvare una città, un paese, l’umanità. Ce lo insegna Simone Weil e la sua «Venezia Salva».  


(Il Quotidiano del Sud, 25 febbraio 2023)

di Irène Némirovsky, a cura di Marina Santini e Clara Jourdan


Da Tempesta in giugno, di Irène Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942), edita in Italia da Adelphi nel 2022, pp. 160-161, che racconta l’esodo del giugno 1940 da Parigi, versione dattiloscritta pubblicata in Francia nel 2020 di Suite francese.


Il diciasettenne Huber, esaltato, si sta vantando di aver combattuto, per fermare l’avanzata dell’esercito tedesco verso Parigi, a Moulins.

«Vengo da Moulins. Ho difeso Moulins» disse.

Si aspettava di essere circondato, di ricevere domande, omaggi, conforto, ma vi furono solo sguardi silenziosi. Una donna chiese:

«Ah, sì? Quindi c’è stata una battaglia a Moulins?»

Un’altra donna piangeva. Piangeva e nel contempo mangiava: un singhiozzo, un boccone. Le lacrime le cadevano nel caffellatte:

«Ne è valsa proprio la pena» disse lanciando a Hubert uno sguardo di rimprovero, come se fosse responsabile della battaglia di Moulins. «Se non opponiamo resistenza, non ci faranno niente. Abbiamo perso, dobbiamo soltanto rimanere tranquilli. Se la gente comincia a difendersi il paese sarà messo a ferro e fuoco. Ci ammazzeranno tutti quanti» disse con tono da tragedia, mentre si prendeva una seconda fetta di pane.


(www.libreriadelledonne.it, 24 febbraio 2023)

di Redazione Africa rivista


Raccontare l’Africa con la forza comunicativa della graphic novel: questo il primo intento della scrittrice ivoriana Marguerite Abouet, quando ha creato la fortunata serie “Aya de Yopougon”, oggi al settimo volumeIllustrata dall’artista francese Clément Oubrerie, è stata tradotta in 15 lingue e adattata per la televisione e il cinema. I suoi personaggi Aya e Akissi spopolano tra i più giovani, che riescono a rispecchiarsi in loro. Attraverso le loro avventure l’autrice vuole lanciare un messaggio soprattutto alle bambine, per accompagnarle nel diventare donne libere e indipendenti.

«Ho creato i miei personaggi per dare ai giovani un’altra immagine dell’Africa che non vedono spesso», racconta a Rfi la scrittrice ivoriana Marguerite Abouet, cinquantadue anni, nata ad Abidjan e trasferitasi poi a Parigi a dodici anni. Conosciuta in Costa d’Avorio, Senegal e Francia, la fama di Abouet è in ascesa e tantissimi appassionati sono venuti al festival internazionale del fumetto di Angoulême che si è svolto a gennaio solo per incontrarla. Le sue opere sono diventate una serie, Aya de Yopougon, che ha riscosso un grande successo di pubblico tra i più giovani. I motivi risiedono probabilmente nel motore che ha portato la scrittrice a realizzare la serie. Ricorda infatti a Rfi del suo arrivo in Francia e di come nessuno avesse un’idea chiara di come fosse l’Africa, quando invece lei ce l’aveva fin da piccola del mondo occidentale grazie alle serie tv. I suoi libri nascono per raccontare la sua infanzia e permettere ai piccoli lettori di oggi di ritrovare sé stessi tra le sue immagini e parole.

Questa sua prima missione di voler raccontare l’Africa è diventata più specifica negli anni, rivolgendosi in particolare alle bambine, cercando di lanciare loro un messaggio. La scrittrice, cresciuta con modelli di donne forti come la cantante sudafricana Miriam Makeba, ci tiene a trasmettere loro un messaggio simile e lo fa attraverso i suoi personaggi. «Educare le ragazze è la mia causa perché, come tutti sappiamo, non è facile essere una ragazza oggi in Africa, o in qualsiasi altro posto», ribadisce a Rfi.

Non solo graphic novel

L’impegno attivista e educativo di Abouet si traduce anche nella sua organizzazione senza scopo di lucro “Des Livres pour Tous” (Libri per tutti). Con l’associazione ha fondato cinque biblioteche in Costa d’Avorio per condividere l’amore per la lettura con i bambini che non hanno facile accesso ai libri, dove quest’ultimi possono fare anche altre attività educative legate all’arte e all’ambiente.


(africarivista.it, 16 febbraio 2023)

di Guido Caldiron


Non è solo un omaggio alla memoria degli affetti, al dolore di una perdita che si rinnova ogni giorno. Una madre, il bel libro di Vera Politkóvskaja, con Sara Giudice, da oggi in libreria per Rizzoli (pp. 204, euro 19, traduzione di Marco Clementi), è anche un documento che indica come la lotta per la libertà, e la verità, della giornalista uccisa a Mosca il 7 ottobre del 2006 non si sia, malgrado tutto, mai del tutto arrestata.

In questo senso, il fatto che l’uscita del volume coincida con l’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, è tutt’altro che un caso. «I primi due anni dopo la morte di mia madre sono stati difficilissimi sia per me sia per tutta la famiglia. Ma l’ultimo anno è stato probabilmente uno dei più difficili della mia vita, perché per la seconda volta la storia della nostra famiglia si è divisa a partire dal 24 febbraio 2022», ha spiegato ieri Vera Politkóvskaja in occasione della presentazione a Roma del libro. L’autrice, che aveva 26 anni al momento dell’assassinio della madre e che dopo gli inizi come musicista classica ne ha seguito le orme nel campo dell’informazione, è stata costretta a lasciare la Russia subito dopo l’inizio della guerra e ha completato la stesura di Una madre «al di fuori dei confini della Federazione Russa, cosa che mi ha dato la possibilità di sentirmi più libera nel ricordare la nostra vita».

Vera Politkóvskaja racconta infatti, accanto alla relazione intensa ma a volte burrascosa tra due donne dal carattere deciso, la vita, la passione e le battaglie per la libertà di stampa condotte da sua madre che indagò i crimini di guerra perpetrati dai russi in Cecenia come la corruzione del potere putiniano. Proprio nel ripercorrere la determinazione e la volontà di non arrendersi di fronte ad alcun ostacolo della giornalista della Novaja Gazeta, è però evidente come lo sguardo finisca per abbracciare anche il presente. La «nuova» guerra del Cremlino di cui Vera Politkóvskaja è oggi testimone evoca quelle sulle quali sua madre cercò di fare luce: indagini scomode che ha pagato con la vita. Analogamente, oggi, chi a Mosca voglia cercare di raccontare la campagna bellica inaugurata un anno fa da Putin, trova davanti a sé solo porte sbarrate. E minacce.

«I primi giorni, le prime settimane, la sensazione generale era che non fosse successo nulla – spiega Vera Politkóvskaja -, la vita continuava nello stesso modo. Poi è accaduto che hanno cominciato a chiudere progressivamente i mezzi di informazione liberi, che non erano tantissimi, però c’erano. Anche cercare informazioni alternative era difficile perché i siti internet sono stati bloccati. In questo preciso momento si può dire che il giornalismo libero in Russia non esiste più».


(il manifesto, 21 febbraio 2023)

di Crocefisso Dentello


Aperte lettere, in libreria per Nottetempo, raccoglie con la curatela di Francesco de Cristofaro una selezione di saggi critici di Rossana Rossanda, scomparsa all’età di 96 anni nel 2020. Un’occasione per ripercorrere la parabola intellettuale della storica dirigente del Partito comunista e fondatrice del manifesto, nonché giornalista e scrittrice.

Il volume restituisce una passione divorante per la letteratura. Rossanda scrive – ora elogiativa ora idiosincratica – su opere come L’inganno di Thomas Mann, Le tre ghinee di Virginia Woolf, Antigone di Sofocle, La Storia di Elsa Morante. Tra gli autori studiati a fondo figurano Dostoevskij, Emily Dickinson, Pessoa, Franco Fortini, Garcia Marquez. Una fedeltà a se stessa che si traduce in un “leggere fuori tempo”. Un rimuginare instancabile e sempre lontano da ogni gusto corrente anche per il grande schermo. Ne Il film del secolo – dialogo a tre voci con Ciotta e Silvestri (Bompiani, 2013) – si abbandona a un liberatorio: «Il cinema di Godard non mi cambia niente». In Quando si pensava in grande (Einaudi, 2013), nel raccontare la sua duratura amicizia con Jean-Paul Sartre, si lascia sfuggire una frase rivelatrice: «Era più interessato alle idee che alle persone, e quindi il rapporto con lui fu facile e costante».

Le idee – prima di metabolizzare la rivolta ungherese del 1956 – sono state anche uno schermo contro la realtà. Quando aiuta Anna Maria Ortese a realizzare un viaggio in Unione Sovietica e la scrittrice racconta il Paese come povero e malandato, Rossanda reagisce con veemenza. Quando il Pci tenta di impedire la pubblicazione de Il dottor Živago di Pasternak, è sempre lei a rimbeccare Giangiacomo Feltrinelli sul pericolo di una propaganda anticomunista. A bilancio della sua esistenza ha dichiarato: «Ho cercato di cambiare qualcosa nella società in cui vivevo. Non ci sono riuscita. E sento molto pesantemente la sconfitta. Sono comunista e lo resto. Non formalmente, lo sono davvero: sono persuasa delle ragioni per esserlo». Ragioni che sono messe nero su bianco ne La ragazza del secolo scorso, edito da Einaudi nel 2005 (l’anno successivo sfiora il premio Strega, che finisce per pochi voti in più nelle mani di Sandro Veronesi). Un romanzo autobiografico che – tra i due estremi della sua nascita a Pola nel 1924 e la sua radiazione dal Pci nell’autunno 1969 – ripercorre l’utopia rossa dei seminterrati e delle sezioni di strada, il partito di «quelli che passavano di reparto in reparto o di casa in casa, a fine lavoro, a raccogliere i bollini del tesseramento». Legge i testi sacri di Lenin e di Marx e compie la sua scelta definitiva dopo avere incontrato sul tram tre operai «sfiniti di fatica e di vino, malmessi». Si laurea in filosofia alla Statale di Milano, allieva di Antonio Banfi. Col nome di battaglia “Miranda” partecipa alla Resistenza.

Nel dopoguerra, in virtù della sua erudizione e della sua rete di amici intellettuali, conquista un ruolo di primo piano nel Partito comunista. Prima dirige la Casa della Cultura di Milano e poi, su invito di Togliatti, diventa responsabile a Roma della sezione culturale di Botteghe Oscure. Nel 1963 è eletta deputata. L’anno della rottura è il 1969, che coincide con i postumi delle mobilitazioni studentesche e l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Critica contro il socialismo reale, fonda insieme ai compagni Pintor, Natali e Magri la rivista e poi quotidiano il manifesto. Fatale per la radiazione dal Pci l’editoriale “Praga è sola”. Un coraggio da “comunista eretica” che si riverbera anche nel 1978 quando firma forse l’articolo più celebre e controverso della sua lunga carriera di giornalista. In pieno sequestro Moro, nel tentativo di comprendere la logica terrorista, con l’espressione “album di famiglia” riconosce una contiguità con alcune istanze storiche dei comunisti.

Nel Novecento italiano – lei che ha infine riconosciuto il valore del femminismo come cultura antagonista – spicca come una delle donne meno al rimorchio del potere e pertanto mai sotto il plagio maschile nella politica come nella speculazione. In Questo corpo che mi abita (Bollati Boringhieri, 2018) il segreto di una libertà irriducibile: «Ho corso sempre, continuo a correre per capire un mucchio di cose… in ogni modo è un bel vivere, non mi sono annoiata mai».


(Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2023)

di Chiara Valerio


«Tu nel momento stesso in cui non sei altro che un’impressione un’insistenza nel m/io corpo… i/o ti chiedo di lasciarti vedere, di domando di lasciarti toccare».

È probabile che Monique Wittig – scrittrice e teorica francese, lesbica, scomparsa vent’anni orsono il 23 gennaio 2003 a Tucson, dove insegnava letteratura francese e studi di genere – abbia scritto ciò che ha scritto troppo presto. Il suo primo romanzo L’opoponax – pubblicato per la prima volta nel 1966 (Einaudi, trad. C. Lusignoli), uscirà presto in una nuova traduzione di Laura Piperno per Luiss University Press – vince il Prix Médicis e racconta la storia d’amore tra due adolescenti. È il 1964 e, del romanzo, Marguerite Duras dirà che è un capolavoro, il New Yorker, quando il libro uscirà in America, ne sottolineerà le prodezze linguistiche e la New York Times Review of Books strillerà che la migliore definizione è «uno smagliante rientro nell’infanzia». Quando, insomma, Monique Wittig, nata nel 1935 in una famiglia modesta e conservatrice a Dannemarie, paesino dell’Alto Reno, irrompe sulla scena letteraria, se ne accorgono tutti. Nathalie Sarraute dirà: «probabilmente non sarò qui a testimoniarlo, ma vedrete tra venti o trent’anni che scrittrice abbiamo premiato oggi». Monique Wittig voleva essere chiamata “scrittore”.

Amore, prodezze linguistiche, infanzia, dunque trasformazione, rimarranno caratteristiche fondanti e motrici di tutta l’opera di Wittig – sia letteraria che teorica, teorica perché letteraria – talmente presenti che quando nel 1973 esce Il corpo lesbico, non tutti – e, in questo tutto, la comunità lesbica – capiscono che per Wittig il lesbismo non è solo un orientamento sessuale ma una pratica politica. Wittig lavora sui pronomi, cerca la scomparsa dei generi, scrive all’impersonale, smantella i generi grammaticali per tentare di intaccare le gabbie di genere nella società. Forse è troppo presto, oggi aggettivi come fluido o queer sono componenti di una riflessione che non riguarda solo le comunità omosessuali e gli studiosi e le studiose di genere. Corpi che mutano in nuove forme. Lavorare sui pronomi, in parole forse troppo povere, significa rifiutarsi che il maschile faccia funzione di neutro, si appropri dell’universale.

Il 26 agosto 1970 Wittig è nello sparuto drappello di militanti che depone una corona di fiori alla memoria della moglie del milite ignoto, sotto l’Arc de Triomphe a Parigi. Il gesto, la performance diremmo oggi, segna la nascita del movimento femminista francese.

Sei anni più tardi, Wittig lascia la Francia per gli Stati Uniti, in rotta con le compagne del movimento, o si mette in discussione l’eterosessualità come modello sociale, o non si va da nessuna parte, ribadisce che lesbismo è pratica politica e non solo orientamento sessuale.

La prima traduzione italiana de Il corpo lesbico esce nel 1976 per le Edizioni delle donne tradotto da Elisabetta Rasy e Christine Bazzin e fino a oggi era l’unica disponibile (e introvabile). Deborah Ardilli, autrice della nuova, smagliante traduzione per VandA edizioni, chiede per essa «una carità ermeneutica» perché oggi abbiamo un vantaggio prospettico e sappiamo cose che nel 1976 era impossibile sapere o accettare. «In un mondo dove noi non esistiamo se non ridotte al silenzio, dobbiamo, in senso proprio nella realtà sociale e in senso figurato nei libri, che ci piaccia o no, costruire noi stesse… in un’epoca in cui gli eroi sono passati di moda, diventare eroiche nella realtà, epiche nei libri».

Questa frase di Wittig è in esergo alla precisa e appassionata introduzione di Ardilli – traduttrice e studiosa di teoria politica e storia dei movimenti femministi – che introduce il romanzo, lo colloca fuori del solco dell’«enfatica messa in scena dell’amore tra donne» ponendo l’accento sul valore politico del testo.

Tuttavia, l’enfatica messa in scena dell’amore tra donne è il motivo per cui io, a metà degli anni Novanta, prendo in mano Il corpo lesbico. Ero al liceo e speravo il libro dicesse qualcosa di me. Che è il motivo per cui si leggono i libri ed è la ragione per cui i libri servono in mezzo alle persone e non sulle isole deserte. Il testo mi aveva straniata – spatriata diremmo oggi grazie a Mario Desiati – per la struttura a pannelli, e per certe parole stampate enormi che rompevano la monotonia delle righe. La prima osservazione è che il corpo lesbico è un corpo, di tendini, organi, ossa. E già questo, per chi pensa di essere strano e diverso, è tranquillizzante. La seconda osservazione è che il corpo lesbico è un corpo che muta, mitologico per come siamo abituati a pensare le mitologie, cioè possibilità e metamorfosi. La terza è che le metamorfosi coprono tutti i regni e tutti i mondi, sono animali e inorganiche, nell’ambito dell’inorganico si va da ciò che esiste a ciò che l’essere umano ha fatto, dalle pietre insomma, alle statue. È un cantico dei cantici moderno e nel quale scorre il sangue anche se non si è feriti. La quarta osservazione è che gli eroi sono e possono essere declinati al femminile. La quinta è una prassi: «I/o ti cerco m/ia radiosa in mezzo all’assemblea». Chi leggerà il libro oggi troverà un testo diverso da quello che ho letto io, un libro trionfante, che mischia i generi e rompe la grammatica, righe di rivoluzione ed ebbrezza.

Thomas Simonnet, direttore delle Éditions de Minuit, editore francese di Wittig, in un’intervista a Nathalie Crom per Télérama del 3 gennaio scorso ha dichiarato: «Le vendite dei suoi libri sono aumentate a partire dal 2018. Limitandosi ai primi due, sono aumentate di dieci volte: L’opoponax è passato dalle 100-150 copie all’anno alle 1500-2000, quelle de Les Guérrillères da 250-300 copie a 2500-3000». Dunque, bentornata anche in Italia Monique Wittig.


(la Repubblica Cultura, 14 febbraio 2023)

di Guido Caldiron


Nel mondo anglosassone, e ormai non più solo in quello, con il termine whistleblower, derivato dall’espressione «blow the whistle» (soffiare nel fischietto) che indica l’azione di un arbitro in una competizione sportiva che vuole fermare un comportamento irregolare o pericoloso, si identifica un «lanciatore di allerta»: chi, in base alle proprie ricerche o analisi è in grado di individuare la china pericolosa che stanno prendendo determinate vicende, processi tecnologici, scientifici o economici o, per estensione, gli esiti catastrofici verso cui possono condurre le scelte di questo o quel leader. Una categoria che sembra essere stata inventata per descrivere la traiettoria di Anna Politkóvskaja, la giornalista russa che di allarmi e ammonimenti ne aveva lanciati molti attraverso il proprio lavoro, senza essere davvero ascoltata né in patria né all’estero, ma tanto da finire ammazzata a 48 anni il 7 ottobre del 2006 a Mosca. Perché, come ricorda Francesca Mannocchi nella prefazione agli scritti di Politkóvskaja dedicati alla seconda guerra cecena (1999-2009) e al modo in cui quel conflitto ha plasmato la società russa e il sistema di potere al cui vertice siede Vladimir Putin, che tornano oggi in libreria per Bur, (Un piccolo angolo d’inferno, postfazione di Geórgi M. Derluguián, pp. 274, euro 15), di fronte all’invasione dell’Ucraina e all’ulteriore svolta nazionalista e repressiva del regime di Mosca, quelle pagine rappresentano «la cronaca di un avvertimento inascoltato».

Figlia di due diplomatici sovietici di stanza all’Onu a New York, Anna Politkóvskaja arriva alla Nóvaja Gazéta, il giornale che nel 1993 aveva avuto tra i suoi cofondatori Gorbačëv e che era contraddistinto da una linea di indagine rigorosa e lontana da ogni soggezione verso il potere, alla fine degli anni Novanta dopo un decennio di lavoro da cronista in varie testate moscovite. L’ex funzionario del Kgb Vladímir Putin e al debutto della propria carriera politica nazionale, nel 1999 è stato nominato primo ministro da Eltsin e un anno più tardi sarà eletto, per la prima volta, presidente della Federazione russa. Per poco più di sei anni Politkóvskaja segue il conflitto sanguinoso che ha luogo nel Caucaso – le stime più attendibili parlano di circa 200mila vittime lungo un ventennio, senza contare la distruzione pressoché totale della città di Grozny, rasa al suolo dai bombardamenti – recandosi decine di volte nei luoghi dove infuria la battaglia e dove hanno luogo reciproche e crudeli rappresaglie fatte di prigionieri decapitati e torture sistematiche, e che fa sentire la sua tragica eco anche nelle grandi città russe con le azioni del terrorismo e le campagne e le violenze xenofobe che si abbattono sui rifugiati.

Quella che è nata dalla volontà di indipendenza di un popolo al momento del crollo dell’Urss si trasforma in un conflitto sanguinoso che conosce ogni sorta di deriva, «estremismo islamico e lotta allo stesso sono un’unica e sola tragedia», scriverà la giornalista nei suoi appunti. Politkóvskaja racconta i crimini dei signori della guerra locali, l’emergere del fondamentalismo islamico, ma anche il modo in cui il Cremlino e i vertici delle forze armate, e una parte almeno della società russa, considerano normali le atrocità che i soldati di Mosca compiono ogni giorno contro la popolazione civile: emblematica la vicenda del colonnello Júrij Budánov responsabile di un battaglione corazzato i cui uomini rapirono, stuprarono e fecero a pezzi una giovane cecena e che diventerà, una volta sotto processo a Mosca, un simbolo dei nazionalisti russi. Una storia terribile che Politkóvskaja racconta in La Russia di Putin (Adelphi, 2005), uno dei molti libri dedicati al modo in cui quel conflitto ha segnato la realtà russa di oggi, spiegando come, «offuscata dalla propaganda, la Russia ha pensato che quanto successo fosse giusto: Budánov aveva strangolato la ragazza vendicandosi su di lei, magari ingiustamente, dei guerriglieri ceceni». Sul fondo, per la giornalista, emergeva il modo in cui il Cremlino stesse conducendo «dei giochi estremamente pericolosi», sfruttando la paura, il razzismo e la richiesta di sicurezza per rafforzare il proprio potere e mettere a tacere di volta in volta oppositori, giornalisti scomodi e proteste di piazza. E senza arretrare di fronte a niente: oltre a Politkóvskaja nella sola redazione di Nóvaja Gazéta si sono contati cinque reporter uccisi e il giornale è stato chiuso definitivamente dalle autorità lo scorso settembre per aver voluto raccontare la verità sull’invasione dell’Ucraina».

Il lavoro della coraggiosa cronista non si limitava però solo al turbine violento della guerra del Caucaso, nei suoi articoli dava voce ogni giorno alle proteste contro gli abusi delle forze dell’ordine, alla denuncia dei casi di corruzione che lambivano i vertici stessi del Paese o del ruolo crescente dell’intelligence del Fsb, l’ex Kgb, nel limitare le libertà civili. Nel 2005 avrebbe raccontato la protesta delle «restituenti»: «Le madri dei soldati caduti in Cecenia (che), private dei sussidi, hanno rispedito a Putin i 150 rubli (4,50 euro) della compensazione in denaro: l’equivalente di venti biglietti dell’autobus». In altre occasioni avrebbe descritto le mobilitazioni per l’aumento di stipendi e pensioni o la crisi sociale derivante dalla diffusione dell’alcolismo. Eppure, si legge al termine del suo Diario russo (Adelphi, 2007), «il potere rimane sordo a ogni “segnale d’allarme” che viene dall’esterno, dalla gente. Vive solo per sé stesso. Con stampato in faccia il marchio dell’avidità e del fastidio che qualcuno possa ostacolare la sua voglia di arricchirsi. Lo scopo è far sì che nessuno glielo impedisca: la società civile va calpestata e la gente convinta giorno dopo giorno che opposizione e opinione pubblica si nutrono al piatto della Cia, dello spionaggio inglese, israeliano e finanche marziano».

Ma, in quella stagione, Politkóvskaja coglie un altro elemento destinato a illuminare di nuova luce anche il presente. Siamo all’indomani della rivolta di Maidan a Kiev e la giornalista annota: «Quanto accaduto in Ucraina ha segnato la fine della Grande Depressione politica russa: è storia. L’opinione pubblica si è svegliata dal torpore e ha invidiato con tutte le forze la piazza di Kiev. “Perché non facciamo come loro, accidenti?” ci si ripeteva l’un l’altro. “Siamo così simili, eppure…”». E anche se la passione politica ucraina non ha contagiato Mosca, aggiungeva Politkóvskaja, «ci è servita comunque da sprone per un Rinascimento di protesta, ha buttato giù i russi dal divano e li ha costretti a guardare per strada». Molto più di una semplice sottolineatura: quella rivolta parlava anche ai russi. Forse in pochi se ne sarebbero accorti a livello internazionale, ma c’è da credere che qualcuno al Cremlino stava cominciando a preoccuparsi di una possibile diffusione di quei fermenti.

Non a caso, scrive oggi Francesca Mannocchi, «molti hanno paragonato l’invasione russa dell’Ucraina alla seconda guerra cecena e in effetti le guerre in Cecenia raccontate da Politkóvskaja possono essere lette come l’avvertimento di quello che sarebbe accaduto altrove, l’allarme inascoltato di una Cassandra che tanto più denunciava e descriveva gli orrori che si consumavano nella piccola repubblica, quanto più si sentiva allontanata, messa ai margini da una società che rifiutava di vedere». Se quelle guerre hanno definito «la strategia della terra bruciata» che il Cremlino ha poi messo in atto in ogni scenario nel quale le sue forze sono state impegnate, sono tali vicende ad aver «cominciato a modellare la Russia moderna per come la conosciamo ora, un Paese che ha spento la libertà d’opinione, che punisce i dissidenti, incarcera gli oppositori politici, vieta le manifestazioni di dissenso, che ha ucciso e continua a uccidere giornalisti leali alla verità».

Dopo aver subito ogni sorta di minaccia, un tentativo di avvelenamento, più d’un arresto, e aver trascorso nel 2001 alcuni mesi «al sicuro» a Vienna, Anna Politkóvskaja fu uccisa nel pomeriggio del 7 ottobre del 2006 mentre rientrava con le borse della spesa. Il suo assassino, che conosceva il codice per aprire il portone le ha sparato alla testa con una pistola silenziata mentre apriva la porta dell’ascensore. Per quel crimine, a otto anni dai fatti, sarebbero stati condannati alcuni malavitosi ceceni, già informatori del Fsb, e un ex poliziotto, senza che sia fatta mai luce sul motivo e i mandanti dell’omicidio. La giornalista fu uccisa il giorno del 54esimo compleanno di Putin, nessun rappresentante del governo russo prese parte ai suoi funerali.

Del resto, il suo lavoro l’aveva resa oggetto di un odio sordo e determinato negli ambienti del potere moscovita come presso i signori della guerra del Caucaso, di volta in volta avversari, complici o subalterni al Cremlino. Eppure, al di là della difesa di qualunque «causa», ciò che rivendicava era la possibilità di svolgere, e bene, il proprio lavoro. «Ma, alla fine, che cosa avrei combinato? – spiega in uno dei testi raccolti in Per questo (Adelphi, 2009) dopo la sua scomparsa – Ho scritto ciò di cui sono stata testimone. E basta. L’importante è avere l’opportunità di fare qualcosa di necessario. Descrivere la vita, parlare con chi ogni giorno viene a cercarmi in redazione e che non saprebbe a chi altri rivolgersi. Dalle autorità ricevono solo porte in faccia: per l’ideologia al potere le loro disgrazie non esistono, di conseguenza neanche la storia delle loro sventure può trovare spazio sulle pagine dei giornali. Solo sulla Nóvaja Gazéta». L’articolo che conteneva questo brano fu pubblicato il 26 ottobre 2006, Anna Politkóvskaja era già morta da qualche giorno.


(Il manifesto, 5 febbraio 2023)

di Dino Piovan


«La guerra è affare di uomini». Quante volte l’abbiamo sentita e risentita, questa frase? Non abbiamo constatato il suo inveramento ancora una volta, per l’ennesima volta, nell’interminabile conflitto in Ucraina, con le donne lasciate libere di fuggire dal paese a differenza di quasi tutta la popolazione maschile? Una frase che pare una constatazione più che una ingiunzione, la semplice descrizione di un dato di realtà più che una prescrizione a cui la realtà deve uniformarsi. Una frase di sempre, buona per tutte le epoche; una frase senza storia.

E tuttavia, una storia ce l’ha. C’è un testo in cui appare per la prima volta, almeno in forma scritta: l’Iliade di Omero, uno degli archetipi della nostra tradizione letteraria (copyright Franco Ferrucci). In uno dei passi più celebri del poema, nel canto VI, Ettore, capo dell’esercito troiano, incontra sua moglie Andromaca, in ansia per la sorte del marito che sta per tornare in battaglia, e dopo averla rassicurata la rimanda a casa a lavorare al telaio perché, appunto, alla guerra devono pensare gli uomini.

In effetti, quando si pensa all’Iliade, sono soprattutto i guerrieri che balzano alla mente, Achille, Ettore, ecc. Tuttavia, per quanto stretto sia il ruolo loro assegnato, la presenza delle donne è tutt’altro che marginale nell’epica e nella ricchissima tradizione letteraria che riprende, continua o riscrive quegli episodi, come documenta adesso Il grido di Andromaca – Voci di donne contro la guerra, a cura di Alberto Camerotto, Katia Barbaresco e Valeria Melis (De Bastiani Editore, pp. 252, euro 15,00).

Il libro raccoglie ben diciotto contributi, tutti di autrici salvo l’epilogo, ed è il frutto di una inedita collaborazione tra giovani studiose che operano nel laboratorio Aletheia dell’Università di Venezia e studiose di letteratura greca e latina affermate da tempo. La ricerca coinvolge autori distribuiti in un amplissimo arco di tempo, dall’VIII secolo a.C. al IV secolo d.C., da Omero a Virgilio al poco noto Quinto Smirneo, senza trascurare né i grandi tragici del V secolo (Eschilo, Sofocle, Euripide) né la commedia di Aristofane, e privilegia aspetti meno indagati di testi perlopiù molto noti grazie alla loro presenza nel canone scolastico. Come ad esempio il pianto delle donne troiane, di Andromaca come della regina Ecuba, che si configura «come narrazione della guerra alternativa a quella proposta dalle retoriche eroiche maschili» (Federica Leandro) che finisce per mettere in crisi i criteri di valore consolidati. O come Tecmessa, la schiava concubina dell’eroe greco Aiace, figura non menzionata nell’Iliade ma che nella tragedia sofoclea esce dall’ombra per «smontare le argomentazioni con cui Aiace giustifica la scelta del suicidio» (Chiara Mingotti), in polemica con l’ideologia eroico-aristocratica che giustifica, anzi richiede quel suicidio. O le giovani donne che formano il coro dei Sette a Tebe di Eschilo, che il re Eteocle vorrebbe zittire per il timore che i loro foschi presagi sulle disumane conseguenze del conflitto imminente possano intaccare la fermezza dei cittadini-soldati; un coro che non solo dà voce a un punto di vista femminile ma che rende la tragedia «uno strumento di indagine e di costruzione del reale, che mira a mostrare non già l’assenza di una verità, ma il suo carattere plurale» (Manuela Giordano). O le conseguenze linguistiche di quell’attacco comico al dominio maschile da parte delle donne stanche della guerra, messo in scena nella Lisistrata aristofanea, in cui «morfologia, lessico e sintassi riflettono un unico grande significato: le donne sono un insieme, e quindi agiscono insieme» (Elisabetta Biondini).

Ma non c’è il rischio, per questa via, di rimanere ancorati a una visione essenzialista, quella per cui il legame tra le donne e la pace sarebbe ‘naturale’ e che anche per questa via rafforza l’idea che le donne siano ‘naturalmente’ predisposte alla cura? Una visione riproposta anche in tempi recenti e recentissimi. Una visione tuttavia non così scontata nel mondo antico, se è vero che sia il mito sia la letteratura pullulano di donne incapaci di controllarsi, violente fino all’omicidio di figli e mariti (Medea, Clitennestra e tante altre), in patente contraddizione con l’esaltazione della moglie ideale, fedele e devota alle cure domestiche (la donna-ape di una celebre tirata misogina del poeta arcaico Semonide). Una rappresentazione contraddittoria la cui radice va rintracciata nel proposito di «relegare le donne al ruolo materno, escludendole allo stesso tempo dalla guerra e dal governo, sia in quanto pericolose sia, al contrario, in quanto imbelli» (Marcella Farioli).

Se Lisistrata vuole la pace al punto da proclamare il primo «sciopero del sesso» della storia, insomma, non è tanto per un ‘naturale’ pacifismo ma per la sua appartenenza a una categoria oppressa; è per una questione di diseguaglianza di potere tra chi decide e chi subisce. Ieri come oggi.


(Alias – Il Manifesto, 5 febbraio 2023)

di Franca Fortunato


Il 6 gennaio 1923 moriva Katherine Mansfield, scrittrice neozelandese poco conosciuta e poco ricordata. Per il centenario della sua morte Nadia Fusini ha ripubblicato il suo libro La figlia del sole. Vita ardente di Katherine Mansfield edito da Feltrinelli, dove racconta di lei attraverso il dialogo tra un fratello e una sorella. Una vita breve, la sua, ma intensa, dedicata alla scrittura e al desiderio di amare e di essere amata fuori da ogni conformismo. Nasce il 14 ottobre 1888. Il padre è l’uomo più ricco del paese ma anche il più avaro, tirannico e autoritario. La madre, donna bellissima, costretta come tante della sua generazione a continue gravidanze, si ammala di cuore e affida la cura delle figlie e del figlio a sua madre, che vive con lei. Katherine di sua madre scrive: «È a pezzi, indebolita, il suo coraggio se n’era andato a cause delle gravidanze […] lei i bambini non li amava […] anche se ne avesse avuto la forza, non avrebbe allattato le bambine, non avrebbe mai giocato con loro». Non vuole diventare come lei, si ribella al modello di donna che la società del tempo le impone, diventa una bambina scontrosa, stizzosa, criticona, poi una donna originale, sfrontata, sfacciata che gioca con il suo essere bisessuale. Legge tutto quello che le capita sottomano, pubblica il suo primo racconto a nove anni. Va al College a Londra dove incontra l’amica fedele di una vita, Ida Baker. Torna in Nuova Zelanda ma, dopo qualche anno, va via per sempre. Ha bisogno di vivere la sua vita, di viaggiare, di girare l’Europa, di allontanarsi dal provincialismo soffocante del suo paese, da suo padre di cui ha sempre avuto paura. Va via e lui «per ripicca le passa un assegno che non le basta per vivere». Katherine è però una donna coraggiosa, determinata, piena di talento, intraprendente e non si lascia abbattere. Per guadagnare qualche soldo si arrangia a fare la comparsa al cinema o a teatro. Lei ama il teatro, da ragazzina pensava di diventare un’attrice. Poi cambia idea, diventerà una musicista. Infine decide: farò la pittrice. No, anzi la scrittrice. Scrive, scrive notte e giorno i suoi racconti e dopo aver vagabondato tra molti pseudonimi, sceglie di firmarli Katherine Mansfield come l’amatissima nonna. Quando a ventitré anni incontra l’uomo che diventerà il suo compagno, John Middleton Murry, ha alle spalle esperienze di amore e di sesso con donne e uomini, due aborti, un marito che abbandona il giorno delle nozze. È una ragazza avida di incontri, impulsiva, confusa e autodistruttiva. È spaventata. Ha paura, paura della solitudine. Corre, corre di esperienza in esperienza come se sapesse che la sua vita sarà breve. Cerca l’amore, perché crede che il perfetto amore scacci la paura. Ma neanche con Murry smette di avere paura. Si separano di continuo e ogni volta giurano che sarà l’ultima. Incontra Virginia Woolf che le pubblica il libro Preludio definendolo “un’opera d’arte”. È ancora giovanissima quando si ammala di tubercolosi. Non vuole, non può, andare a curarsi in un sanatorio, lì non potrebbe mai scrivere, mentre scrivere è l’unica cosa al mondo che desidera. Scrive notte e giorno, scrive sempre, in una specie di gara col tempo. Ha paura di morire senza aver finito di scrivere un racconto e subito ne comincia un altro. Scrive racconti bellissimi dei luoghi della sua isola, di cui ha nostalgia, della sua infanzia dove ritorna col ricordo del fratello morto, della nonna, della madre e così «smette di sentirsi esule, randagia». Scopre di non aver mai abbandonato quei luoghi perché vivono dentro di lei. Quando muore ha solo 34 anni. Ha lottato fino alla fine. A noi ha lasciato i suoi bellissimi racconti da leggere o rileggere.


(Il Quotidiano del Sud, 5 febbraio 2023)

Il bestseller di Nancy Friday, Il mio giardino segreto, negli anni ’70 ha fatto conoscere i desideri più profondi delle donne. Ora la star di Sex Education vuole esplorare dove ci sta portando oggi la nostra immaginazione.

di Gillian Anderson


Nel 1973 avevo appena cinque anni quando il libro-culto di Nancy Friday Il mio giardino segreto: le fantasie erotiche femminili riempì gli scaffali e le borse delle donne negli Stati Uniti; ne avevo solo sette quando raggiunse l’Inghilterra centrale. Il mio giardino segreto rendeva conto delle fantasie erotiche delle donne, ricche e variegate quanto quelle degli uomini. Finalmente un libro in cui donne e ragazze comuni – “tu, io e la nostra vicina di casa” – parlavano sinceramente di eccitazione, masturbazione, sogni e desideri sessuali. Nelle loro menti niente era vietato, nemmeno il cane alsaziano del vicino.

Il libro di Friday ha rivelato che, per alcune di noi, il sesso immaginato può essere più stimolante di un rapporto sessuale effettivo, non importa quanto “piccante”. Liberate dai vincoli sociali interiorizzati, dall’autocoscienza o forse dalla paura di spaventare il nostro partner, nella nostra immaginazione possiamo assecondare i nostri desideri più profondi e “sporchi”. È stato rivoluzionario, persino provocatorio all’inizio, poi è diventato una lettura obbligatoria per tutte, un bestseller globale multimilionario, un classico.

Non so se mia madre Rosemary, analista di computer, possedesse il libro di Nancy Friday. Certamente la mia non era una famiglia puritana in cui una lettura del genere sarebbe stata disapprovata, ma per quanto liberale fosse la mia infanzia, non sarebbe stato un libro che mia madre avrebbe lasciato sul tavolino in salotto. Quando ero un adolescente, una volta ho trovato una copia di Histoire dO nascosta dietro un cuscino del divano nella casa dei nostri vicini e ho sicuramente dato un’occhiata a quel libro. Ricordo anche quando, molto più piccola, entrai in soggiorno dove qualcuno aveva lasciato la TV accesa e rimasi catturata dall’immagine dello schermo, dove una coppia si dedicava ad attività piuttosto caste ma chiaramente illecite. Ricordo ancora oggi le sensazioni che mi ha lasciato. Idubbiamente, anche se inconsapevolmente, da giovane ho beneficiato di questa nuova alba del movimento femminista, che era positivo verso il sesso. Le donne, a quanto pare, avevano iniziato a parlare in modo più aperto e sincero di ciò che volevano davvero. Beh, alcune l’avevano fatto.

Però avrei dovuto aspettare quasi 50 anni per scoprire di persona questa raccolta di fantasie erotiche di donne anonime. All’inizio del 2018 sono stata scritturata nella serie Netflix Sex Education come Jean Milburn, la terapista sessuale favolosamente liberata e schietta. Avevo sempre sentito parlare del libro Il mio giardino segreto, e così l’ho letto per la prima volta per prepararmi alla serie. La sua sincerità dolorosa e senza filtri mi ha scosso. Queste lettere e interviste sono incredibilmente intime e molto crude. Non pretendono di essere raffinate o letterarie, sembrano provenire direttamente dal cuore misterioso del desiderio più intimo delle donne.

Ciò che mi ha tristemente colpito è stata la forte frustrazione sessuale che molte di queste donne esprimevano negli anni ’70 (nonostante la rivoluzione!). L’esperienza delle donne era ancora tale che i loro desideri erano distanti da ciò che potevano avere. Molte non avevano mai avuto un orgasmo. Alcune non sapevano cosa fosse una fantasia sessuale; altre non potevano riconoscere di averne. Per la maggior parte c’era l’ammissione di profonda vergogna e senso di colpa, c’era ancora molto pudore e imbarazzo riguardo al sesso e alle fantasie erotiche. Molto spesso queste donne hanno confessato la paura di avere tali fantasie e hanno tirato uno straziante sospiro di sollievo quando finalmente sono state in grado di esprimerle. Come ha scritto una donna: “Non ho mai confidato a un’anima viva le mie fantasie sessuali, ma sento di doverne parlare a qualcuno, e quindi accolgo con favore l’opportunità di sfogarmi. Mi sono sempre vergognata di averne, perché sento che le altre persone le considererebbero innaturali e mi considererebbero una ninfomane o qualcosa di simile”. E un’altra ha scherzato: “Penso davvero che il tuo libro sia una buona idea, dal momento che le fantasie e le esperienze sessuali femminili raramente sono discusse in modo aperto. Di solito sono nelle opere di narrativa scritte da uomini”. Finalmente le donne avevano iniziato a sentirsi in grado di aprirsi un po’. Si sentivano meno sole.

Oggi, grazie a Dio, viviamo in un mondo diverso. Possiamo parlare di queste cose. Penso che sia uno degli elementi liberatori che la gente trova nella serie Sex Education, dove mostriamo personaggi che fanno i conti con le loro relazioni sessuali, e sono abbastanza coraggiosi da parlarne con i loro amanti e partner, per ottenere ciò che desiderano sessualmente. Lo spettacolo mette tutto sul tavolo e rende legittimo parlarne.

Eppure, anche se programmi come il mio e altri come Naked Attraction o Planet Sex di Cara Delevingne vengono passati in televisione, sono curiosa di sapere se le donne, riguardo al sesso, si sentono a proprio agio nella vita reale. Da quando è stata trasmessa Sex Education, amici e giornalisti hanno iniziato a chiedermi se qualche volta le donne si sono sentite obbligate a condividere con me i loro problemi o le loro fantasie sessuali. Beh, no. Questo alla fine mi ha dato l’idea di fare un libro – un Il mio giardino segreto per il 21° secolo, per così dire – che vorrebbe essere rivelatore, profondo e inclusivo su tutta la linea. Vorrei che donne da tutto il mondo e tutte voi che ora vi identificate internamente come donne – queer, eterosessuali e bisessuali, non binarie, transgender, poliamorose – tutte voi, vecchie e giovani, qualunque sia la vostra religione, sposate, single o altro, vorrei che mi scriveste per dirmi cosa pensate quando pensate al sesso. Sia quando lo fate da sole o con un partner, o con più di un partner. Raccontatemi fantasie, frustrazioni, esplorazioni, cose proibite, infanzia, suoni, feticci, sensi di colpa, insaziabilità. Cinquant’anni dopo Nancy Friday i confini sono stati cancellati, non più che nella nostra stessa sessualità: BDSM, il significato moderno di genere ecc., tutto è in ballo. Le donne sono ancora il sesso silenzioso? Suppongo che sia una delle cose che scopriremo. Spero che le vostre voci, provenienti da diverse nazionalità e background, facciano luce su quanta strada abbiamo fatto dal 1973.

Come ha scritto Friday nella sua introduzione originale, “Nel cercare di capire cosa significhi essere una donna, non sono la nazionalità o la classe sociale che ci aiutano a definirci, è piuttosto la sincerità rispetto ai sentimenti e desideri che proviamo”. Creiamo un testo che vada dritto al cuore di ciò che significa essere una donna oggi. Un libro che spero sia d’ispirazione per le donne, per le generazioni a venire. Per ora, chiamiamolo semplicemente Dear Gillian. Sarà pubblicato da Bloomsbury Publishing e abbiamo impostato un indirizzo email sicuro per ricevere le testimonianze: tutte le identità saranno protette, anonime. Ovviamente includerò la mia lettera anonima. Non vedo l’ora di leggere la tua. Invia le tue fantasie su Deargillian.com fino a mezzanotte del 28 febbraio.


(The Guardian, 1 febbraio 2023 – articolo in lingua originale)

di Franca Fortunato


Ci sono storie di donne che vanno conosciute e raccontate perché diventino parte della memoria collettiva, storie straordinarie come quella delle suore francescane del convento della Misericordia che hanno salvato dalla persecuzione e deportazione dodici ebrei durante l’occupazione nazista di Roma, città pullulante «di camionette e di spie». Storia che Ritanna Armeni ha scoperto per caso e ha voluto raccontare nel suo romanzo Il secondo piano (Ponte alle Grazie), arrivato nelle librerie a ridosso della Giornata della Memoria. Una storia di coraggio, di carità e amore cristiano verso «i fratelli ebrei», di strategie di sopravvivenza tra paure, ansie e fatiche, una pagina di lotta e di resistenza che le suore «non avrebbero mai immaginato di vivere». La storia ha inizio la sera in cui un gruppo di ebrei suonò al campanello del convento. Era il 16 ottobre 1943, il giorno dell’incursione dei nazisti nel Ghetto a caccia di ebrei. Ne presero e deportarono ad Auschwitz-Birkenau mille di cui 800, fra cui 200 bambine/i, furono mandati direttamente nelle camere a gas. Molte/i che erano fuggite/i giorni prima trovarono riparo nei conventi, nei monasteri maschili e nelle parrocchie che ne nascosero e salvarono tra 4 e 5.000. Quella sera le suore francescane a una donna e un uomo anziani, a un ragazzo, a una coppia giovane, a una ragazza e a un bambino, a cui più in là se ne aggiunsero altre/i, spalancarono il portone del convento, consapevoli dei rischi che avrebbero corso. Madre Ignazia, la superiora, li sistemò al secondo piano e fino al giorno della liberazione di Roma (3 giugno 1944), insieme alle altre sorelle, li tenne al sicuro, ne ebbe cura in quell’«oasi di pace, lontano da quella atmosfera di sospetto e di timore che dominava nelle vie centrali» della città. Ogni giorno, alcune di loro si avventuravano in città con prudenza in cerca della questua. «Suor Elisabetta, era una donna forte, non si scoraggiava facilmente […]. Era capace di percorrere chilometri per scambiare un vasetto di marmellata con un po’ di farina». Mai un rumore arrivava dal secondo piano con le finestre sempre chiuse e oscurate per non destare sospetti nel sacrestano che moriva dalla voglia di compiacere i nazisti, che intanto si erano sistemati al piano terra del convento con un’infermeria. Mesi difficili ma tranquilli fino a quando due ufficiali chiesero di perquisire il convento. Il sacrestano le aveva tradite. La madre superiora con fermezza intimò loro di fermarsi e lesse, in tedesco, la sua lingua madre, l’ordine del comando militare che proibiva la perquisizione. Dopo pochi giorni arrivò la liberazione, i tedeschi scapparono, le campane suonarono a festa, «tutti erano liberi di circolare nel convento e nel giardino (…), le ansie, le paure e le fatiche dei mesi appena passati si sciolsero in sorrisi e parole gioiose». Una storia raccontata con passione e amore verso quelle suore forti e coraggiose, escluse dalla Memoria. Storia già scritta dalle sue protagoniste – suor Ignazia, suor Elisabetta, suor Emilia, suor Benedetta, suor Maria Rita, suor Lina –, dal racconto della superiora del convento, dai diari di madre Ignazia e di suor Lina, dall’unico rifugiato rimasto in vita, dalle ricerche storiche di suor Grazia Loparco. Non restava che raccontarla e Ritanna Armeni l’ha fatto, per gratitudine verso quelle suore oggi tutte morte.


(Il Quotidiano del Sud, 28 gennaio 2023)