Alcune studentesse e studenti dell’Università di Verona come di altre università hanno chiesto ai docenti di dedicare le lezioni del 5 maggio 1999 alla riflessione sulla guerra nei Balcani; quello che segue è il testo del mio contributo.

Care studentesse, cari studenti, non ho cose risolutive da dirvi su quello che ci sta capitando. Che è una guerra, né più né meno. La stiamo facendo contro un paese che si chiama, ufficialmente, Repubblica federale di Jugoslavia, capitale Belgrado. Non è una guerra che loro fanno a noi, potrebbero anche provarci, ma tutti lo escludono, infatti l’Occidente ha inventato guerre unilaterali, che sono molto comode dal suo punto di vista, perché l’altro non è in condizione di rispondere. E noi facciamo parte dell’Occidente, sia pure un po’in bordo. Siamo dalla parte giusta, direbbe l’anziano filosofo torinese Norberto Bobbio.

Quello che ho da dire, ho deciso di dirlo in una lezione pubblica (ringrazio gli studenti che mi hanno dato questa idea) e ho chiesto al quotidiano il manifesto di pubblicarla. C’è bisogno di parole. I giornali, televisione compresa, sono pieni di discussioni sulla guerra, per fortuna, e io li leggo volentieri, ma le parole che mancano sono di un altro tipo. I giornali ragionano sulla guerra come se fosse una cosa sensata, più o meno giusta (o, secondo altri, più o meno sbagliata). Mancano le parole per quelli che sono rimasti di sasso, come me e come molti di voi. I soldi che prendo ogni mese li prendo da voi o da chi vi mantiene, li prendo dalle mie ex compagne di scuola elementare che, a undici anni, mentre io andavo alle medie, sono andate a fare marmellate da Boschetti, li prendo dagli operai che hanno costruito questo edificio dentro il quale voi studiate e io insegno. In cambio di che cosa? Di parole. Non parole che ci sono già. Le altre, per non restare sassi.

Nella mia vita è la seconda volta che l’Italia entra in guerra. La prima volta ero vecchia di due giorni, la guerra durò quasi cinque anni e i miei ricordi d’infanzia somigliano a quelli di un reduce. Credevo che la vita fosse fatta di bombardamenti, fosse anticarro, caccia che scendono in picchiata a mitragliare, dormire in cantina e sognare grandi mangiate di latte e pane.

Poi venne la pace e mi sono adattata. Poi, verso i dieci anni, mi portarono sull’Altipiano d’Asiago, dove ho fatto la conoscenza della Prima guerra mondiale. A distanza di quanti anni, trenta, l’Altipiano era ancora coperto di cicatrici e di reliquie. Diventarono i nostri giocattoli. Non ho ricordi orribili, perché sono stata protetta dall’infanzia e da mia madre. Però conosco la guerra: l’ho vissuta, l’ho guardata, l’ho toccata, me l’hanno raccontata.

Conosco un po’ anche la storia dell’Italia e sono arrivata alla conclusione che noi non possiamo più andare in giro a fare guerre. Invece sui giornali è scritto che sì, ne stiamo facendo una, lo dicono con parole contorte, che però equivalgono. Ma non riesco a convincermi. Agli inizi, ogni mattina leggevo i giornali sperando d’aver capito male. Adesso, sperando di leggervi la parola fine. Quando, nel 1992, cominciarono ad arrivare notizie terribili dalla Bosnia, io, aiutandomi con la mia ignoranza della geografia, cominciai a spingere la Bosnia distante dall’Italia, verso oriente, credo d’averla mandata in Asia, quasi in Mongolia. Questa volta il gioco non mi riesce, la geografia dei Balcani l’ho imparata, ma non mi abituerò all’idea.

Mai avrei creduto, e fino a due mesi fa in Italia nessuno, ne sono certa, ha pensato che la Nato ci avrebbe portato a fare la guerra nei Balcani. Proprio lì da dove è partita la Prima guerra mondiale, che si è tirata dietro sciagure immani, il nazismo, lo sterminio degli ebrei e degli zingari, la Seconda guerra mondiale. Chissà se negli Usa conoscono la storia dei Balcani… I professori d’università sì, gli altri mi chiedo, perché negli Usa fuori dalle università la cultura libresca circola molto poco, meno che da noi.

La peggiore ipotesi che potevo fare sull’Italia era l’introduzione della pena di morte. L’ho sempre escluso, sia chiaro, e continuo, però mi è capitato una volta di pensare: se dovesse succedere, emigrerò, non potrei vivere in un paese che ha la pena di morte. Adesso di colpo mi trovo a vivere in un paese che fa la guerra, è incredibile. Stiamo uccidendo i nostri vicini che non ci hanno fatto niente, stiamo distruggendo le loro case, le loro fabbriche, gli stiamo portando via il sonno, il lavoro, il combustibile, la salute, la vita. Le ragioni che ci hanno dato di questa guerra non stanno in piedi. Non si può aiutare degli innocenti ammazzando altri innocenti, così non si fa che moltiplicare il male. Forse ci aumenteranno le tasse per finanziare la guerra. Ho letto su un giornale: ci rifaremo con la ricostruzione. Ma non ci rifaremo della nostra disumanità.

Molti, per non disperarsi, si aggrappano all’intervento umanitario: dovevamo pure fare qualcosa per gli abitanti del Kosovo. Certo che dovevamo, per esempio non dovevamo fare i furbi quando la ex Jugoslavia è entrata in crisi; per esempio dovevamo proporre, come Europa, un piano di aiuti economici razionali e disinteressati; per esempio, non dovevamo dare soldi e pubblicità a giovanotti in cerca di avventure, e dare invece tutto il sostegno possibile agli oppositori politici più responsabili…

La notte, quando mi sveglio, preparo un discorso per spiegare agli alleati della Nato che l’Italia non può starci. Ma ci siamo già… Lo so, ma di notte posso ancora credere che no, senza contare che il discorso potrebbe tornar buono, chissà, per il nostro prossimo otto settembre.

Eccolo, anzi eccoli, perché ne ho preparati più d’uno: «Cari alleati, noi non ce la sentiamo di intervenire contro la Serbia perché noi che siamo suoi vicini, anzi un po’ congiunti, sappiamo che la penisola balcanica è un mosaico unico al mondo di popoli e di culture, che ogni tanto esplode e quando esplode bisogna assisterli con pazienza e sapienza perché le tessere si rimettano insieme. Bisogna ascoltare tutti e non mettersi con nessuno contro nessuno, e non pensare di avere noi la soluzione del conflitto perché soltanto loro sono in grado di ritrovare il delicato disegno della loro convivenza, lo hanno già fatto in passato, si sono insaccati in quella penisola da secoli e secoli e in tanti secoli di non facile convivenza hanno imparato il suo segreto anche se ogni tanto se lo dimenticano. È come eseguire una musica difficile. Se proprio vogliamo contribuire, diamo soldi, non è la soluzione, ma è sempre meglio delle bombe».

Secondo discorso: «A parte il fatto che la nostra Costituzione ci vieta espressamente di fare guerre che non siano di difesa, a parte il fatto che con voi abbiamo firmato un’alleanza a scopi difensivi soltanto e non risulta che la Jugoslavia abbia aggredito nessuno di noi, tenete conto che la nostra capitale, Roma, è anche la capitale del mondo cattolico e il Papa non è d’accordo con le guerre in genere e soprattutto con questa. È vero che non siamo tutti veramente cattolici e molte prendono la pillola anticoncezionale, molti usano il preservativo, divorziano, bestemmiano, sono gay ecc., tutte cose che al Papa non piacciono. Ma la guerra è un’altra faccenda e al Papa diamo ragione, ce l’ha! Voi, inoltre, vi state dimenticando che l’anno prossimo abbiamo il giubileo. Non dite che l’anno prossimo sarà finita, perché delle guerre si sa quando cominciano ma non quando finiscono. E poi, finisse pure tra una settimana, che sarebbe già troppo in là, noi dobbiamo prepararci fin d’ora, anzi siamo in ritardo. Come possiamo pensare alla guerra dovendo prepararci spiritualmente? E fare fronte all’invasione dei pellegrini? Rischiamo un caos spaventoso, nei lavori pubblici come nelle nostre anime».

Avrei concepito un altro discorso ancora, è il più forte, ma ho idea che a D’Alema non piacerebbe pronunciarlo. Ve lo dico: «Cari alleati, lasciateci fuori dalle guerre, non siamo adatti perché le nostre mamme ci hanno educati a dare bacini all’avversario. Appena si cominciava una baruffa, subito intervenivano le mamme a dividerci e poi “bacino, bacino”. Lo chiamano mammismo, ma è una civiltà anche questa. Giudicatela come vi pare ma siete avvisati che noi, dopo un po’, vogliamo dare bacini all’avversario».

Tu hai voglia di scherzare, mi dite. Sì, moltissima, respingo la retorica dell’“atroce guerra” che risuona in bocca di quelli che la guerra l’hanno decisa. Ma forse non è retorica, forse i nostri governanti non hanno deciso niente. Infatti, ripetono che era una scelta obbligata. A rigore, dunque, una non scelta. Se fosse così, dobbiamo tirare le conseguenze: altri hanno deciso per noi, ci hanno obbligati, forse siamo dalla parte della punta della spada (la parte sbagliata, direbbe Bobbio) e non dalla parte dell’impugnatura. Io questo non lo so, non sono in condizione di saperlo, né voi, del resto. Mi viene in mente un verso dei Sepolcri di Foscolo a proposito del potere politico: «…di che lagrime grondi e di che sangue».

O: di che sperma. Non è una parolaccia. Me l’ha suggerita quel film che s’intitola Sesso e potere dove si racconta di un presidente degli Usa il cui staff s’inventa una guerra (Sapete dove? In Albania, cioè un posto sconosciuto agli americani) per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo sessuale del presidente. Storia inventata prima che venisse fuori quella di Clinton con l’ormai famosa staggera Monica Lewinski. Nel cinema gli americani sono geniali. Va detto, però, che tra la pellicola e la realtà c’è una differenza tutt’altro che secondaria. Nella realtà, tutti i tentativi per coprire lo scandalo sono falliti e il presidente Clinton è stato messo alla gogna, in una maniera indecente, alla lettera, con tutti quei particolari, e per noi in Europa inaccettabile, ma non altrettanto negli Usa, la cui classe al potere ha una cultura, nel suo fondo, dura e bigotta. Basta leggere il bellissimo romanzo La lettera scarlatta di Hawthorne (1850). Solo che una volta la condanna del sesso libero ricadeva sulla donna mentre ora, in seguito al femminismo, può ricadere anche sull’uomo. Falliti i tentativi di coprire lo scandalo, il presidente Clinton ha salvato il potere riconoscendosi colpevole. E ora si sta rifacendo dell’umiliazione patita facendo una guerra giusta (che è peggio di una guerra finta, perché l’inganno non è esteriore ma interiore).

Per rendervi conto di quello che dico, guardate le foto del presidente Clinton in mezzo agli altri capi politici della Nato che festeggia i cinquant’anni a Washington, il 24 aprile scorso. Alto, pimpante, con il braccio destro alzato, sorridente. Si vede che si sta rifacendo della sua virilità messa alla gogna. Gli altri, tolto Solana, troppo onorato di essere in quella compagnia, hanno tutti l’aria di esibire una contentezza che non sentono.

Fra le distruzioni di questa guerra, quando dovremo fare i conti, prevedo che si dovrà mettere anche l’eredità del Sessantotto. La decisione di bombardare la Jugoslavia, infatti, è stata presa o sostenuta da uomini in gran parte di sinistra e provenienti dalle rivolte studentesche del famoso Sessantotto, da Clinton a D’Alema, passando per il segretario generale della Nato, Solana, e il ministro degli esteri tedesco, Fischer. La cosa che più mi urta, in questa faccenda, è che anche da noi gli intellettuali si siano messi a fingere, sui giornali e in televisione, una discussione sul bene e sul male, sulla guerra giusta e la guerra ingiusta, traendo in inganno le persone oneste e semplici, le quali persone possono credere che veramente l’intenzione di questa guerra fosse umanitaria e, soprattutto, che si possa giustificare una guerra con simili intenzioni.

In una celebre lettera del 1932, Perché la guerra?, quando ancora la Prima guerra mondiale era l’unica e non la prima di un elenco, lo scienziato Albert Einstein chiese a Freud se fosse possibile «dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione». Aggiunse subito che non stava tanto pensando alle «masse incolte». «La mia esperienza dimostra anzi che è proprio la cosiddetta “intellighenzia” a cedere per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata» (Freud, Opere 1930-1938, pag. 291).

Il contatto diretto con la realtà che dice Einstein, ce lo dà il nostro essere corpo. La realtà è corpo, sono corpi, non interamente certo, ci sono anche i minerali, stavo dicendo il sole, le stelle, la luna, ma sono corpi celesti e anche la società è corpo. E i corpi, quando si avvicina la guerra, tremano e sono in pena. Sanno che la guerra è fatta per distruggere, in un crescendo che non si saprà come fermare, tutto quello che piace ai corpi, come la casa, la tavola apparecchiata, il caffè, i vestiti, le fidanzate, i fidanzati, la luce, il tepore, l’amore. Perciò, io credo, il 24 marzo siamo rimasti di sasso, per passare nella realtà minerale, non essere più corpi, diventare tondi e insensibili. Le idee del bene e del male, mi dispiace per Platone, troppo spesso hanno ucciso e distrutto. Io vi consiglio di ascoltare piuttosto il vostro sentimento di corpi vivi, bisognosi, dipendenti, e ragionare di conseguenza.

Articolo uscito su “il manifesto”, 4 maggio 1999, e poi ripreso nel Quaderno di Via Dogana «Guerre che ho visto», di varie autrici, disponibile in Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, info@libreriadelledonne.it

Da ied.it – IED News – «Sono per una progettualità senza confini, qualcosa che nel mondo di oggi corrisponda ai nostri bisogni ma anche ai sogni».

È con alcune sue parole che IED saluta Rossella Bertolazzi, appena scomparsa a Milano: donna dallo spirito indomabile e generoso, dotata di uno sguardo sagace, schietto e genuino sulla contemporaneità, sempre aperto al confronto con studenti, docenti, creativi, intellettuali. Femminista impegnata, professionista dalla cultura e dalla curiosità sconfinate nel campo delle arti visive, del design, delle contaminazioni virtuose fra i mondi del progetto.

Rossella Bertolazzi è stata questo, e molto altro.

Dal 2001 a capo della Scuola di Arti Visive IED Milano, ha trasferito in IED tutta la sua esperienza professionale e le competenze acquisite nei molti progetti che l’hanno coinvolta e in cui la relazione con studenti e docenti ha sempre occupato un posto centrale. In lei non è mai mancata un’entusiasta curiosità per tutto ciò che è nuovo e diverso, e che ha fatto nascere in IED percorsi formativi inediti, come quello di Sound Design.

Nel 2020 ha ricevuto il Premio Compasso d’Oro ADI alla Carriera in occasione della XXVI edizionedel riconoscimento mondiale nel design. «Le personalità e le imprese cui è stato conferito il Compasso d’Oro ADI alla Carriera hanno tutti ideato e creato opere che hanno fatto storia. Quando ho saputo del Premio mi sono chiesta: io cosa ho fatto? Nulla di tutto questo – così aveva dichiarato in occasione del conferimento del Premio. – Sono sempre stata un’outsider, da ragazzina ad esempio impazzivo per i film western; avrei voluto scrivere di cinema, invece ho scritto di società e ambiente. La possibilità di lanciare lo sguardo un po’ più lontano mi ha portata a fare molte cose nella vita, tutte apparentemente diverse, ma tutte con qualcosa in comune: la progettualità».

Ripercorrendo la sua carriera emergono le diverse redazioni e i contesti artistico-culturali in cui Rossella Bertolazzi ha operato: caporedattrice per Sapere, SE Scienza Esperienza, IKON, Ottagonoe per la testata dicultura materiale La Gola; direttrice per Cronache filmate del XX secolo, uno dei primissimi esperimenti di periodico multimediale e poi autrice televisiva per Mediaset, Telepiù e Rai. A fine anni Novanta è stata capo-progetto della trasmissione “La scuola in diretta” per Rai Educational, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione e pensata per promuovere le nascenti consulte degli studenti. Ha preso parte alla giuria della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo (Bjcem) per diverse edizioni. Ha curato mostre e collaborazioni come quella con Mini Bmw per “Personal Design: dall’oggetto al soggetto” (2003, con Studio Azzurro) e quelle per MINI Design Award su “Il Futuro della città: slow o fast? La luce” (2005), “La città su misura” (2006), “La città che comunica” (2007) e “Il futuro della Città: l’ambiente. Dare valore all’acqua” (2008), oltre alla partecipazione al Noir in Festival di Courmayeur con i lavori degli studenti IED. 

Nel 2017 ha curato, insieme a Davide Sgalippa della Scuola di Arti Visive IED Milano, la mostra La luna è una lampadina per i 50 anni dell’Istituto Europeo di Design, che ha preso forma negli spazi de La Triennale ricostruendo il contesto in cui IED è nato e si è evoluto attraverso lo sguardo e i tracciati geografici dei suoi Alumni. Un’incursione interattiva nelle aule del passato, in un percorso fatto di idee e progetti, volti e avvenimenti che hanno tracciato lo sviluppo del network IED insieme a quello della nostra società, dal 1966 ad oggi. Un percorso di memoria resa attuale nella riproposizione di un metodo progettuale nell’ambito di workshop creativi che per tre settimane hanno coinvolto attivamente studenti e pubblico. Nel 2019 infine, ha curato il volume Dialogues – Architecture Interiors Design sui 25 anni dello studio Locatelli Partners (Rizzoli International).

Oggi le sue intuizioni, i suoi insegnamenti restano in quanti l’hanno conosciuta, nelle generazioni che ha visto formarsi, crescere e affermarsi attraverso innumerevoli progetti di design.

(ied.it – IED News, 17 luglio 2024,  https://www.ied.it/news/ied-saluta-rossella-bertolazzi)

Da L’Urlo, anno XI, Speciale arte, maggio 2024 – Immaginatevi una ragazza milanese degli anni ’30 del secolo scorso, con occhi che brillano di curiosità e un cuore pieno di passioni travolgenti. Questa è Antonia Pozzi, una delle voci più intense e sensibili della poesia italiana del Novecento. Nata nel 1912 in una famiglia borghese, Antonia Pozzi si distingue presto per il suo talento letterario e il suo spirito ribelle. Le sue poesie esplorano i punti più reconditi dell’animo umano e riflettono la bellezza e il dolore della sua esistenza. Leggendola, abbiamo l’occasione di fare un viaggio colmo di emozione, essendo i suoi versi finestre aperte sui pensieri più intimi. Antonia Pozzi trovava ispirazione nelle montagne di Pasturo, un piccolo paese in Valsassina dove trascorreva le vacanze, e dove cercava rifugio dal tumulto della vita cittadina.

Dopo aver studiato nel nostro Liceo classico, si laurea in Lettere all’Università degli Studi di Milano. Nonostante il suo brillante percorso accademico, è sempre stata in conflitto con le aspettative della sua famiglia e della società dell’epoca. Tragicamente, la sua vita è stata breve: Antonia Pozzi si dà la morte nel 1938, a soli ventisei anni.

Ho avuto modo di conoscere Graziella Bernabò alla Libreria delle donne di Milano, una studiosa che ha svolto un ruolo importante nella divulgazione della vita e dell’opera di Antonia Pozzi e l’anno scorso è stata anche nel nostro liceo per una conferenza sulla poetessa. Ha accettato di rispondere ad alcune mie domande.

Come è nata la tua passione per Antonia Pozzi e cosa ti ha spinto a scrivere una biografia su di lei?

Verso la fine degli anni Settanta, alla Libreria delle donne di Milano, acquistai un libro di poesie curato da Biancamaria Frabotta (Donne in poesia. Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra a oggi, con una nota critica di Dacia Maraini, Savelli, 1976). Benché riguardasse un’epoca successiva a quella di Antonia Pozzi (che aveva scritto i suoi versi tra il 1929 e il 1938), la raccolta iniziava proprio con alcune sue liriche, considerate come l’ideale introduzione alla scrittura di autrici più recenti. Rimasi estremamente colpita dall’originalità e dal vigore con cui la giovane poetessa – grazie a un linguaggio raffinato ma anche sensoriale, corporeo e comunicativo, quindi lontano dalle rarefazioni e dalle oscurità in auge nella lirica italiana degli anni Trenta – riusciva a esprimere la difficoltà da parte di una donna di trovare un proprio posto nel mondo. Successivamente lessi, in varie edizioni man mano accresciute, la sua raccolta di poesie, le lettere, i diari e i saggi critici; ed ebbi anche la possibilità di visitare una bella mostra dei suoi scatti fotografici. Potei apprezzare in questo modo la sua ardente personalità di donna e la sua poliedrica creatività; e mi venne allora il desiderio di restituirle in qualche modo, con un lavoro adeguato, quella voce che le era stata negata in vita, non solo dalla famiglia – ligia a convenzioni aristocratico-borghesi – ma anche dall’ambiente culturale in cui era inserita all’Università Statale: il gruppo del filosofo Antonio Banfi, innovativo per l’epoca ma ancora chiuso all’alterità femminile.

Quali poesie ti hanno colpito maggiormente in occasione del tuo primo accostamento ad Antonia Pozzi?

Inizialmente sono stata impressionata soprattutto da “La porta che si chiude” e da “Rossori”: due liriche in cui la poetessa esprime con inedito vigore l’angoscia di non ritrovarsi più nel proprio corpo, quindi il senso di «depersonalizzazione» che le derivava dall’impossibilità di vivere conformemente ai propri desideri più profondi. Su questo pesarono sia l’opposizione del padre al suo rapporto d’amore con il grande classicista Antonio Maria Cervi, sia varie incomprensioni con lo stesso uomo amato, che, pur volendole bene, era imbarazzato dalla sua indole appassionata e poco convenzionale, essendo su vari piani tradizionalista e di fatto inscritto in un sistema patriarcale. Le poesie che ho citato sono oltretutto storicamente interessanti rispetto alla situazione della donna in età fascista.

Com’era l’indole di Antonia Pozzi? Puoi raccontare qualche aneddoto a questo proposito?

In realtà Antonia, di per sé, non era assolutamente chiusa e cupa: al contrario era libera, ardente, innamorata della vita per tutto ciò che essa poteva offrirle: dal contatto profondo con la natura, soprattutto con la montagna attraverso l’alpinismo, agli studi, ai viaggi, al rapporto con gli altri, comprese le persone più umili. Antonia sapeva trarre piacere anche dalle piccole cose. Alcuni passi di diario della prima adolescenza, poi diventati temi scolastici, ci mostrano, per esempio, quanto riuscisse a divertirsi con gli amici al Palazzo del Ghiaccio di Milano. La sua amica Elvira Gandini, principale testimone della mia biografia, oltre a moltissime vicende importanti di Antonia, mi riferì un semplice, ma indicativo, episodio. Una volta si trovavano insieme a sferruzzare, come spesso le ragazze facevano in quell’epoca, e Antonia stava completando una sciarpa di un vivace colore arancione; a un certo punto se la accostò al viso, dicendo, con un sorriso radioso (il suo sorriso era molto bello, a detta di vari testimoni): «Mi dona?». Nel suo studio di Pasturo ho potuto vedere fiori essiccati e tanti piccoli oggetti, a volte proprio minuscoli, che Antonia conservava perché erano legati a lieti momenti di vita e ai viaggi che spesso faceva in Italia e all’estero. Fu il mondo esterno, inteso come famiglia, uomini amati e compagni di università, a inibire più volte, nel corso della sua breve esistenza, questa capacità di gioia che le era connaturata.

Quali sono state le maggiori sfide nella ricerca e nella scrittura della biografia di Antonia Pozzi? Hai scoperto qualcosa di inaspettato durante il tuo lavoro?

Sono partita da un’idea tradizionale di biografia ma poi, grazie a un lungo lavoro con alcune storiche della Libreria delle donne, ho capito che le categorie interpretative utilizzate per le vite degli uomini non erano assolutamente adatte a raccontare la vita di una donna in genere, tantomeno di una poetessa che, come Antonia Pozzi, si poneva al di fuori degli schemi della sua epoca, dato che, a dispetto dei molti condizionamenti subiti, era interiormente libera e in anticipo sui tempi, perciò tanto poco capita nel suo tempo quanto meravigliosamente capace di parlare al nostro presente. Per cogliere il senso della sua vita ho evitato stereotipi, luoghi comuni e discorsi generici, basandomi invece sulle molte testimonianze orali che ho potuto reperire, sulla ricostruzione delle sue reti di relazioni (affettive e intellettuali) attraverso le lettere, i diari e altri materiali dell’archivio Antonia Pozzi di Pasturo. Ma soprattutto mi sono concentrata sulla vivida e originale simbologia delle sue liriche, cercando di rintracciarvi il suo più autentico sentire, i suoi desideri più profondi: penso, per esempio, allo schietto eros di donna espresso dai molti e carnali fiori che compaiono nei suoi versi, oppure alla forza femminile delle sue montagne, insieme concrete e mitiche, sorta di ancestrali madri capaci di riscattare dall’inautenticità del vivere sociale. Ho scoperto così, anche al di là delle mie previsioni iniziali, un meraviglioso immaginario poetico che, nell’esprimere in modo pregnante l’anima e il corpo di una donna, non trovava niente di analogo nella lirica contemporanea ad Antonia Pozzi, mentre precorreva per certi aspetti la poesia di altre grandi autrici del secondo Novecento: da Sylvia Plath ad Anne Sexton, a Ingeborg Bachmann, ad Alda Merini, per fare solo pochi nomi.

Antonia Pozzi ha iniziato a scrivere poesia da giovanissima. Che consiglio daresti ai giovani poeti e poetesse che vogliono seguire le sue orme?

Ai giovani, ragazzi e ragazze, che avvertono in sé una vocazione poetica, consiglierei di leggere molti poeti di epoche e paesi diversi; e di partire certamente da sé, dalla propria soggettività, avendo però sempre chiaro che la vera poesia non può essere immediata ed effusiva, in quanto richiede un notevole senso critico e un duro lavoro di elaborazione formale. Questo Antonia Pozzi lo aveva ben chiaro, come affermò Eugenio Montale, suo scopritore, e come appare dalle tante varianti presenti nei suoi autografi, che attestano un accurato lavoro di lima, evidente anche nelle sue liriche dell’adolescenza.

Qual è, secondo te, l’eredità più importante che Antonia Pozzi ha lasciato alle generazioni future?

Antonia Pozzi ha lasciato al mondo l’eredità di una poesia che potremmo definire della “relazione” con la totalità dell’esistente, quindi con le persone, gli animali, i luoghi e le cose (le «cose sorelle», come le chiamava lei). Una poesia che partiva dalle sue esperienze personali, ma che, nel suo grande respiro, sapeva restituire il senso vivo della natura, le profondità del cuore umano, la bellezza e il dolore del mondo, comprese le tragedie della storia: la guerra e la miseria dei ceti più svantaggiati.

Come è stato il tuo percorso professionale e personale da biografa? Ci sono momenti particolarmente significativi che vorresti condividere con noi?

Ho sempre amato le biografie: ne ho lette molte e ne ho scritte due: La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2016 e Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Viennepierre, Milano 2004; nell’ultima versione Àncora, Milano 2022. Dietro il mio modo di intendere questo genere di scrittura c’è il rapporto, iniziato negli anni Ottanta, con un gruppo di storiche della Libreria delle donne, insieme alle quali ho sviluppato l’idea di una biografia non romanzata, perché basata su una lunga ricerca delle fonti scritte e orali, ma assolutamente non fredda. Penso infatti che, se si vuole scrivere un libro su una persona che ci interessa profondamente, ci deve essere la disponibilità a porsi nei suoi confronti con un’assoluta empatia e a immergersi nel suo mondo. Questo comporta il fatto di ricostruirne con pazienza e impegno non solo le vicende e i contesti, ma anche i luoghi prediletti, le abitudini, le letture, gli interessi culturali, gli svaghi e qualunque ulteriore elemento, non importa se minimo, utile a delinearne la fisionomia, perché a volte anche particolari apparentemente insignificanti, se interrogati con attenzione e disponibilità, possono contribuire alla comprensione più articolata e profonda di una vita. Questo mio modo di lavorare ha comportato per me innumerevoli scoperte, tanto su Antonia Pozzi quanto su Elsa Morante; ed è sfociato in due volumi che mi hanno dato molta soddisfazione, perché hanno contribuito a promuovere la conoscenza di queste due grandi autrici, oltre che tra gli addetti ai lavori, presso un ampio pubblico, come ho potuto constatare in occasione delle numerose presentazioni che mi è capitato di farne nel tempo.

Antonia Pozzi mi ha insegnato che la poesia può essere un rifugio, un modo per comprendere e affrontare le complessità della vita. Dalle parole di Graziella Bernabò abbiamo capito bene la ricchezza e il tormento del suo animo poetico. Ma se volete davvero vivere la sua poesia, immergetevi nelle sue parole, leggetele, sussurratele. Scoprirete una giovane donna che, nonostante le difficoltà, ha saputo trasformare il suo dolore in bellezza eterna.

Da la Repubblica – Per il New York Times il primo volume della tetralogia della scrittrice che non ha mai rivelato la sua identità, è il libro del secolo. Superando Franzen e Bolaño, tra quelli usciti dal 2000. Il commento dello scrittore che ha collaborato alla sceneggiatura della serie.

Le classifiche sono un gioco, ma i giochi vanno presi sul serio. E questa specie di sentenza del New York Times serve a ragionare su un po’ di cose: in questa classifica, nei primi dieci posti c’è Franzen con le sue “Correzioni”; Whitehead con il grande romanzo americano; ci sono scrittori di romanzi storici e distopici. C’è un immaginario perfettamente americano. E poi c’è il romanzo fatto di tanti romanzi di Bolaño; e al primo posto un romanzo lunghissimo pubblicato nel tempo in quattro volumi, che racconta la vita intera di due amiche cresciute insieme in un rione poverissimo di Napoli e che poi si dividono e si riuniscono per l’intera esistenza, attraversando la storia del Paese, la politica e la letteratura, la camorra e gli amori fallimentari, la povertà e la ricchezza, l’invisibilità e il successo. Cioè, l’immaginario di una scrittrice napoletana che forse su per giù racconta la sua vita nella sua città, supera (certo, è un gioco, ma questo dice il gioco) l’immaginario americano per gli americani.

I giochi vanno presi sul serio, così come sul serio è stata presa la quadrilogia di Elena Ferrante negli Stati Uniti (e non solo lì, ovviamente). E davvero non bisogna per forza svelare il mistero del rione dove passa il treno, diviso dal resto della città da un tunnel che sarà il momento epico e decisivo dell’amicizia di Lenù e Lila, quando lo attraverseranno per la prima volta per andare a vedere il mare, e sveleranno a loro stesse ancora inconsapevoli, e ai lettori ancora inconsapevoli, il destino che le attende: Lila ostinata e feroce avrà paura del diluvio e vorrà tornare indietro, nel rione – dove infatti resterà tutta la vita; Lenù, timida e impaurita, che scopre dentro sé stessa che indietro non vuole tornare – e infatti andrà via per il mondo. Ma senza la spinta della sua amica non avrebbe mai scoperto di essere quella che sarà. Non bisogna per forza svelare il mistero del perché quel tunnel, quel mare lontano, quell’amicizia, l’ostinazione di due bambine a non essere ignoranti e succubi come le loro madri, colpisce in pieno l’immaginario dei lettori di tutto il mondo: sono loro che trasformano quel tunnel nel loro tunnel del loro rione della loro cittadina; della loro magra o grassa esistenza.

Non bisogna per forza svelare il mistero dei romanzi popolari. Ma dobbiamo sapere che noi italiani di grandi romanzi popolari ne abbiamo fatti pochi, pochissimi, e la scrittrice a cui la Ferrante si è esplicitamente ispirata, Elsa Morante, quando ne ha fatto uno, “La storia”, è stata insultata da amici e nemici, da destra e sinistra. Ma ha avuto dalla sua parte, pronti a combattere al suo fianco, i suoi lettori, migliaia e migliaia. Esattamente come li ha avuti, e li ha adesso Elena Ferrante. È questa la forza dei romanzi popolari, riuscire a cogliere dentro il melodramma di una vita intera, di un mondo che non sparisce mai ma ritorna a ogni età, la forza ancestrale dell’esistenza degli esseri umani. E di conseguenza conquistarli, tenerli accanto, sentirli dalla propria parte.

È questa la risposta alla decisione dei circa cinquecento critici che hanno proposto L’amica geniale come miglior libro degli anni Duemila, ed è una risposta generica e semplice, ma specifica e profonda allo stesso tempo: provate a cercare un tema, un conflitto, un genere narrativo, un mito letterario, un archetipo o qualcosa che vi riguardi direttamente, che sia successo nella vostra vita: e nell’Amica geniale c’è. Chiunque lo legga sente che lo riguarda, è questo il miracolo.

Nell’averci a che fare per lavoro, avendolo dovuto scavare e rivoltare e cercare di comprendere in tutti i modi, quello che ho capito è che questo romanzo è ciò che si può definire opera-mondo. E c’è di più. Non so se è un azzardo, anche perché la Ferrante è invisibile e parla poco, ma questo ritmo avvolgente che ti trascina per molte centinaia di pagine, sembra avere una consapevolezza di fondo, ma anche una inconsapevolezza di fondo: è come se chi lo ha scritto fosse andato avanti, con la certezza che i personaggi, veri o inventati che fossero, potessero vivere, cadere, incontrarsi più volte, perdersi, sparire, tornare, vendicarsi, soccombere – fare tutto questo un po’ da soli, mentre la storia si scriveva, andando avanti. Ora, ogni scrittore sa che questo è impossibile, che il controllo è il punto di partenza di ogni libro. Ma ogni scrittore sa anche che un libro speciale, può diventare tale solo se a un certo punto sovrasta chi lo scrive, lo tira da una parte, decide il cammino, fa la rivoluzione. E questo può succedere soltanto se l’impianto iniziale è così perfetto che libera i personaggi e li fa vivere da soli.

Ecco, nessuno dei romanzi che compare in questa classifica, è così “popolare” e libera così tanto i personaggi, togliendo loro le briglie. Anzi, alcuni di questi sono amati per quanto lo scrittore li sopravanzi. Molti dei romanzi di questa classifica sono di scrittori in atto di pensare; Elena Ferrante non sembra mai in atto di pensare.

E così, in cima agli altri, c’è questa storia lontanissima, nel tempo e nello spazio, dal New York Times. Ma lì lontano, in quelle famiglie povere con tutti a dormire negli stessi letti, con l’idea che la scuola sia costosa e inutile, appare Dickens, appaiono i pionieri americani e i primi emigrati, c’è l’inizio di tutto, e c’è l’inizio della ribellione di due ragazzine a un mondo che le aveva già destinate a non essere altro che quello che già c’era.

E quindi le aveva destinate a non entrare in un libro, a non diventare mai letteratura.

Da Il Tascabile – «Il letto, mio caro, è tutta la nostra vita. Qui si nasce, qui si ama, qui si muore»: sono le parole della protagonista di un breve racconto di Maupassant del 1882 che s’intitola, per l’appunto, Il letto. La donna, di cui non conosciamo e non conosceremo il nome, è allettata da giorni e descrive così in una lettera al suo amante, l’abate d’Argencé, quel tempo di degenza obbligata:

Mio caro amico, sono malata, soffro veramente, non posso lasciare il letto. La pioggia batte contro i vetri e io me ne sto a fantasticare languidamente al caldo, nel tepore dei piumini. Ho qui un libro che amo e che mi sembra fatto con un poco di me stessa. Devo dirvi quale? No. Mi rimproverereste. Poi, dopo aver letto un po’, mi metto a pensare, e voglio dirvi a cosa. Dato che da tre giorni sono a letto, penso proprio al mio letto, e persino nel sonno continuo a pensarci. Se solo possedessi la penna di Crébillon, scriverei proprio la storia di un letto.

Costretta a trascorrere il suo tempo distesa, la donna fantastica, legge, scrive lettere, pensa. E pensa proprio al giaciglio che la accoglie, e ci pensa così intensamente che perfino mentre dorme il letto – quel letto – diviene il pensiero fisso delle sue giornate. Oh, se solo avesse il talento di un grande scrittore come Crébillon! Ma no, è soltanto una donna, senza nome né (apparentemente) talento. Una donna malata, che pensa al suo letto, mentre è a letto. Quasi cinquant’anni dopo – è il 7 gennaio del 1926 – un’altra donna, con un nome e un talento, scrive una lettera alla sua amante, in quei giorni costretta a letto per una breve malattia: «Solo per chiederti come stai – hai la febbre? 38? 39? 40? Non ti senti bene? Mezzo addormentata sorseggi il tè, mangiucchi una fetta di pane tostato, e poi verso sera ritorni luminosa e remota e irresponsabile distesa nel tuo baldacchino come un minuscolo chicco nel guscio?». L’amante ammalata risponde: «Sei un angelo ad avere scritto. E mi piace il tuo atteggiamento nei confronti della malattia: “luminosa e remota”, quando la maggior parte delle persone avrebbe detto “calda e appiccicaticcia”».

Già, Vita Sackville-West – l’amante ammalata – ha proprio ragione: nessuno più di chi le ha scritto quelle parole, ovvero Virginia Woolf, è capace di raccontare la malattia in modo così diverso, originale, inconsueto. A testimoniarlo, appena qualche giorno dopo quello scambio di lettere, è il breve e indimenticabile saggio On Being Ill, “Dell’essere malati”, pubblicato per la prima volta proprio sul numero del gennaio 1926 della rivista “New Criterion”, diretta da T.S. Eliot. In Dell’essere malati, Woolf riflette – e ci fa riflettere – su come il fatto di essere costretti a letto da una malattia non sia sempre, non sia solo, una sciagura. È anche, più spesso di quanto crediamo, un’occasione. Lo è nel senso etimologico del termine. Se pensiamo alla parola occasio, dal latino ob + cídere, subito ci rendiamo conto che la parola “occasione” porta con sé un movimento di caduta, una parabola discendente. La malattia è un’occasione perché ci ac-cade, “ci cade davanti”. O siamo noi che, andando avanti, ci cadiamo dentro. Eppure questa caduta, avverte Woolf, non è necessariamente un male. Molto spesso, infatti, “cadere ammalati” significa essere costretti a cambiare prospettiva, ad abbandonare la verticalità, a divenire orizzontali. Sdraiati a letto, non più feminae e homines erecti, obbligati a rinunciare alla postura che l’evoluzione, la storia, il mondo, ci chiedono per essere parte attiva del consorzio civile, noi, gli ammalati, i distesi, gli inetti, abbiamo improvvisamente la possibilità di abitare un altro spazio, di guardare qualcosa di diverso. Qualcosa che, in piedi, continuava a sfuggirci e che da sdraiati, invece, ci si rivela.

Con la malattia la simulazione cessa. Appena ci comandano il letto, o sprofondati tra i cuscini in poltrona alziamo i piedi neanche un pollice da terra, smettiamo di essere soldati nell’esercito degli eretti; diventiamo disertori. Loro marciano in battaglia. Noi galleggiamo tra i rami nella corrente; volteggiamo alla rinfusa con le foglie morte sul prato, capaci forse per la prima volta dopo anni di guardarci intorno, o in alto – di guardare, per esempio, il cielo.

Quella che credevamo una disgrazia, la malattia, può diventare, in alcuni casi, uno stato di grazia, una modificazione posturale che, imponendoci di abbandonare le file dell’esercito degli eretti, degli attivi, dei produttivi, ci obbliga (o autorizza) a sostare, a non agire, a osservare. Il cielo, per esempio. «Diventati una foglia, o una margherita, supini, lo sguardo rivolto in alto» – continua Woolf – «scopriamo che il cielo è qualcosa di così diverso, ma così diverso che ne siamo scioccati. Ecco dunque cos’è che da tanto tempo andava avanti senza che lo sapessimo! […] Solo i supini sanno ciò che dopotutto la Natura non si dà affatto la pena di nascondere – che alla fine sarà lei a trionfare».

I supini lo sanno. Sanno ciò che gli eretti dimenticano, tutti presi dalla propria verticalità, dalla propria “rettitudine”, per usare il termine che la filosofa Adriana Cavarero mette al centro del suo saggio Inclinazioni. Critica della rettitudine, proprio per ragionare sulla «centralità della postura verticale, tanto cara all’individuo sovrano e ai suoi sogni di autonomia» e che per la filosofa, come per Woolf, non è che un «patetico abbaglio». Chi si pensa dritto e intero, chi guarda sempre davanti a sé, chi procede senza sosta nell’esercito degli eretti, illudendosi di dominare lo spazio – e dunque il mondo – confortato dal proprio orientamento verticale, (o dalla propria erezione), è completamente fuori strada. Ignaro, o dimentico, «di ciò che dopotutto la Natura non si dà affatto la pena di nascondere – che alla fine sarà lei a trionfare».

Essere orizzontali, per Woolf, significa avere la possibilità di sfuggire a questo abbaglio, a questa fatale dimenticanza. Significa allenare lo sguardo a un’altra prospettiva, una prospettiva eccentrica, fuori dal centro di un’autoreferenzialità che è in realtà miope. A letto, distesi come «una foglia, o una margherita», al cospetto di un cielo che non ricordavano, i supini ritrovano i confini di un corpo vulnerabile e vivo, che patisce, che dipende da un altro, dagli altri, che è in contatto con i propri bisogni, con la propria parzialità. E, insieme, con la propria creatività. Sì, perché è proprio quando siamo distesi, ammalati, che siamo più disponibili a lasciarci attraversare dall’incomprensibile. Spesso, quando siamo in piedi, e in salute – scrive ancora Woolf – «il senso usurpa il ruolo del suono. L’intelligenza domina sui sensi. Ma nella malattia, con la polizia non più in servizio, le parole liberano il loro profumo, sussurrano come fanno le foglie, ci coprono di luci e ombre». Liberi dall’imperativo categorico del dover capire, del dover dare senso e ordine al mondo, affrancati dall’asse verticale della ragione, i supini fantasticano, leggono, scrivono. Proprio come la donna protagonista del racconto di Maupassant. Proprio come Virginia Woolf, che scrive Dell’essere malati subito dopo – o dovremmo dire grazie al fatto – di essere stata costretta a letto per un mese, nell’autunno del 1925.

Quello di Woolf non è certo l’unico caso. Sappiamo bene che la maggior parte della Recherche Proust la scrive a letto. E che è a letto, mentre è ammalato di pleurite, che il grande poeta Attilio Bertolucci compone la sua seconda raccolta di versi, Fuochi in novembre, del 1932. Ed è sempre a letto che, dieci anni prima, nel 1922, Katherine Mansfield, malata di tubercolosi, scrive uno dei suoi racconti più belli e più crudeli: La mosca. Ed è ancora a letto, o addirittura stesa sul pavimento, che Karen Blixen, malata da tempo di sifilide, scrive o detta uno dei suoi capolavori: la raccolta di racconti Capricci del destino, pubblicata nel 1958. Perfino Via col vento, il romanzo di Margaret Mitchell da cui sarà poi tratto il celebre film, nasce in posizione orizzontale: l’autrice inizia a scriverlo proprio perché costretta a letto per settimane a causa della frattura di una caviglia. La storia della letteratura è piena di scrittrici e scrittori orizzontali. Autori e autrici per cui stare a letto, o a terra, o su un divano è non solo la condizione migliore, ma talora l’unica condizione, la condizione necessaria per creare. Edith Warthon, che da ragazzina è solita leggere stesa sul tappeto della biblioteca paterna, da adulta scrive quasi solamente a letto, libera – così dice – dalla dittatura femminile del corsetto, che asfissia qualsiasi slancio creativo. Mark Twain e George Orwell scrivono a letto. William Wordsworth scrive addirittura a letto e al buio… non si sa come. E così Truman Capote, che in una intervista del 1957, dichiara: «Sono uno scrittore assolutamente orizzontale. Se non sono sdraiato a letto o su divano, non riesco a pensare». «Io sono verticale/ ma preferirei essere orizzontale», scrive dal canto suo Sylvia Plath, in una delle sue più celebri poesie, I am vertical.

Io sono verticale

ma preferirei essere orizzontale.

Non sono un albero

con radici nel suolo

succhiante minerali e amore materno

così da poter brillare

di foglie a ogni marzo,

né sono la beltà

di un’aiuola ultradipinta

che susciti grida di meraviglia,

senza sapere che presto

dovrò perdere i miei petali.

Confronto a me,

un albero è immortale

e la cima di un fiore, non alta,

ma più clamorosa:

dell’uno la lunga vita,

dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera,

all’infinitesimo lume delle stelle,

alberi e fiori

hanno sparso i loro freddi profumi.

Ci passo in mezzo

ma nessuno di loro ne fa caso.

A volte io penso

che mentre dormo

forse assomiglio a loro

nel modo più perfetto

con i pensieri andati in nebbia.

Stare sdraiata è per me più naturale.

Allora il cielo ed io

siamo in aperto colloquio,

e sarò utile il giorno

che resto sdraiata per sempre:

finalmente gli alberi mi toccheranno,

i fiori avranno tempo per me.

In questa bellissima poesia, che troppo spesso è stata banalizzata e interpretata solo come uno dei tanti annunci della poeta americana rispetto al suo futuro suicidio, c’è molto altro, c’è ben altro. Anche Plath, come Woolf, si pensa supina, come foglia o margherita, vicina alle radici degli alberi, ai traffici minerali del terreno, ai fili d’erba che guardano le stelle. «Sono verticale / ma preferirei essere orizzontale» non è semplicisticamente il verso-manifesto di chi è vivo ma preferirebbe morire. È il canto di chi sa la richiesta di verticalità che le fa il mondo – la richiesta di assennatezza, appropriatezza, conformità all’esercito degli eretti – la separa da ciò che le è più caro, da ciò che le permette di essere vicina a sé stessa.

Sylvia Plath, come Virginia Woolf, come Truman Capote, come William Wordsworth, come Amelia Rosselli – che in un suo celebre verso tratto da Serie ospedaliera scrive proprio questo: «non staccarsi dalle cose basse scrivendone / supina» – per essere vicina a sé stessa deve disertare. Sottrarsi al traffico quotidiano, rinnegare il negotium, in favore di un otium che non è semplice inerzia, pigrizia, al contrario, è un’inattività attiva, una inoperosità fertile che pesca nel doppio fondo dell’esistenza, nei suoi recessi, nelle sue falde, in tutto ciò che è basso, e perciò stesso in aperto colloquio con l’alto. È dal basso che ci si accorge del cielo. È da stesi che si vedono le nuvole. Nuvole come «isole felici, pecorelle, cavolfiori e pannolini – che si asciugano al sole» (sono versi di Wisława Szymborska, questi). Nuvole come quelle che Marina Cvetaeva vede mentre, distesa a terra nel bosco, sta scrivendo una lettera al giovane letterato Aleksandr Bachrach: «Caro, vi scrivo tra il muschio, nel cielo avanza una enorme, minacciosa nube nera – rilucente. Stavo leggendo la Vostra lettera e di colpo ho avvertito la presenza di qualcosa… Il muschio corto mi punge le braccia, scrivo distesa, se sollevo la testa eccola, lucente». Lucente sul corpo della poeta stesa sulla nuda terra, nell’umidore del muschio, la nuvola avanza e entra nella scrittura, il cielo finisce sulla pagina, la contamina, alimenta, decentrandola dalla sua autrice, che è insieme testimone e cantrice di qualcosa di più grande, di cui è ospite e ospitante, orizzontale e protesa. Il cielo fa così. Preferisce i supini. Visita gli orizzontali. I corpi guasti, stanchi. I corpi in abbandono. Gli inservibili. Come inservibili sono i corpi dei burattini Totò – nel ruolo di Jago – e Ninetto Davoli – in quello di Otello – gettati in una discarica a cielo aperto alla fine del film Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini.

Otello: Iiiiih, che so’ quelle?

Jago: Quelle sono… sono le nuvole…

Otello: E che so’ le nuvole?

Jago: Mah!

Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!

Jago: Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!

Dice così Jago, con la sua faccia verde, che si illumina tutta, proprio quando non ha più un ruolo, quando la pantomima è finita, quando non c’è nessun filo a tenerlo in piedi. Orizzontale, derelitto, incongruo, e per ciò stesso rinato al mondo che lo coglie dall’alto, e che può cogliere perché è in basso. Lì dove la vita accade come una scoperta. Un ritorno. Un mistero.

(*) Sara De Simone ha conseguito un dottorato di ricerca in Letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha tradotto, con Nadia Fusini, “Scrivi sempre a mezzanotte”, il carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West (Donzelli, 2019). È vicepresidente dell’Italian Virginia Woolf Society. Ha scritto “Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf: storia di un’amicizia” (Neri Pozza, 2023).

Da Doppiozero – È decisamente confortante assistere al ritorno in libreria, tra inediti e ristampe, degli scritti e dei diari di Susan Sontag, saggista, romanziera, drammaturga, cineasta, attivista di sinistra e femminista, molto famosa fin dagli anni Sessanta. Una mente multiforme, il cui pensiero, pur muovendosi nelle diverse pieghe della sua contemporaneità, supera in modo folgorante l’esame del tempo che passa, arrivando a noi con la ferma padronanza delle prospettive teoriche e l’ostinazione di un nucleo antagonistico di sorprendente agilità che punta dritto ai problemi, in ragione di un tenace desiderio di conoscenza.

I saggi raccolti in Sulle donne (a cura di David Rieff, Einaudi 2024) coprono gli anni dal 1972 al 1975, e li vorrei scorporare in due momenti per cercare di rendere conto di alcune fra le molte sollecitazioni e riflessioni di un tema sì ben identificato, ma variamente declinato, nel tempo e in paesi diversi. Naturalmente gli scritti sono tutti legati, più o meno sottotraccia, da un contesto che è costituito sempre, nell’orizzonte di lavoro di Sontag, di fatti, viaggi, incontri, libri e lotte. Scenario primo dei suoi bersagli sono, negli anni della guerra del Vietnam, il neoliberismo, l’anticapitalismo e l’antimperialismo, la sua postazione quella di un’intellettuale anticonformista e anti-ideologica, anche tra le femministe. Tre saggi e una lunga intervista definiscono il primo campo, con al centro il corpo delle donne, il secondo campo è costituito da un lungo e importante saggio (“Fascino fascista” del 1974, già ristampato in Sotto il segno di Saturno, Nottetempo 2023), da uno scambio polemico, di grande interesse, tra l’autrice e Adrienne Rich (poeta e saggista, suo un classico del femminismo, Nato di donna, 1976), e da un’intervista che riprende e rilancia alcuni momenti della storia intellettuale di Sontag.

Nella prima parte salta agli occhi con grande evidenza come il suo pensiero sia insieme per certi aspetti datato e per molti altri di estrema lungimiranza, il che significa che la lente storica con cui lo leggiamo oggi registra uno sguardo critico, finemente antropologico, in grado di cogliere elementi naturali, culturali, sociali ed economici propri del suo tempo, ma di rivelare anche, spesso, piccole o abbaglianti verità, balenio di intuizioni che ancora ci interrogano. Se prendiamo ad esempio il saggio di apertura, “Invecchiare: due pesi e due misure”, la messa a fuoco più rilevante riguarda la brutalità dell’asse patriarcale che, distribuendo a uomini e donne privilegi e potere in modo violento e dispari, rende l’invecchiamento femminile «osceno», perché quel corpo è ormai orfano di ogni potenza desiderante (attribuita solo alla giovinezza), e dunque soggetto a un giudizio sociale umiliante, una «demonizzazione della femminilità» che è arrivata persino a cristallizzarsi «in caricature mitiche come la megera, la virago, la vamp e la strega». Questo da un lato, ma dall’altro è la subalternità interiormente introiettata a rendere le donne complici attive di questa minorità. Distinguendo tra vecchiaia e invecchiamento, Sontag vede in quest’ultimo «un’ordalia dell’immaginazione – un malessere morale, una patologia sociale –» tale che la donna finisce per viversi con «vergogna» e «disgusto»; si innestano qui pagine ancora importanti sul teatro della femminilità, sulle forme di un’autorappresentazione asservita al gusto dominante (e dominato dall’uomo, con «regole» utili a rafforzare «le strutture del potere»), sull’acquiescenza delle donne, nutrita di bugie, riflesso penoso di un insultante paternalismo (ricordo le donne-specchio di Woolf, le donne-alibi di de Beauvoir). I profondi pregiudizi e gli inveterati privilegi maschili, che hanno costruito nei secoli un così radicato «tabù estetico», indicano chiaramente le forme di una manipolazione culturale tale da lasciare ben salda nelle mani degli uomini la leva del potere, perno e volano di ogni ragionamento sulla sessualità e sul corpo delle donne. Sesso, potere, soldi: non ne siamo uscite del tutto nemmeno oggi, se è vero che le donne vecchie sono diventate una buona fetta del mercato cosmetico mondiale da blandire, e le più giovani, afferma una recente indagine, chiedono come regalo per il loro diciottesimo compleanno interventi estetici soprattutto sul seno. Affari e profitti colossali.

Altri due scritti intitolati alla bellezza (Fonte di discredito o di potere e Come cambierà?) annodano un filo costante del suo pensiero, il rapporto tra estetica ed etica, e ripropongono la questione del potere, il potere, ben noto a tutte noi, della seduzione, con il suo volto bifronte, che per un verso garantisce il piacere dello scambio erotico e vitale, dall’altro si riduce a potere di “attrarre” e dunque nega se stesso, perché rinuncia a essere trasformativo della relazione. Se “farsi bella” diventa un lavoro, un dovere di sopravvivenza in un mondo diseguale, allora la bellezza stessa diventa in definitiva un’altra fonte di auto-oppressione. Ma ancor peggio, ci racconta il secondo articolo, la bellezza e il consumismo vanno a braccetto, perché non solo la bellezza naturale non esiste, ma in quanto mito è una perversa invenzione maschile che imprigiona le donne e, «democratizzandosi», fa pensare che si possa e si debba acquisirla per diventare «uniche, eccezionali».

È il vecchio gioco del divide et impera, pensiero che torna prepotente in “Il terzo mondo delle donne”, assieme ai temi già in parte nominati, dal mai intaccato privilegio maschile, ai pregiudizi, all’oppressione millenaria che radica una delirante idea proprietaria del corpo dell’Altra e che, in Occidente, a fronte dell’avvento della libertà femminile, arriva troppo spesso al femminicidio. Necessità dunque di una rivoluzione economica, culturale, linguistica, necessità che il cambiamento passi da una nuova coscienza femminile, necessità di un’etica sessuale non più incardinata nell’eterosessualità, lotta alla mistica della natura (non a caso La mistica della femminilità, di Betty Friedan, è del 1963) e al biologismo, lotta per il potere e non per la parità, lotta agli stereotipi sessuali sul lavoro…

Alcune questioni di questo lungo ragionamento tornano in modo aspro anche nella seconda parte del libro, a partire da “Fascino fascista” in cui, con lucida passione, Sontag mette a fuoco l’intreccio perverso di etica ed estetica sia nel libro dedicato ai Nuba sia nei film documentari di Leni Riefenstahl (in particolare Il trionfo della volontà e Olympia), sottolineandone una continuità tale da non permettere da non permettere alcuna riabilitazione in nome dell’arte (è una tematica questa che ritroviamo nella conversazione finale per la rivista “Salmagundi”, con richiami a Kracauer e Benjamin). Premesso che quei due documentari – scrive Sontag – «sono indubbiamente magnifici […] ma non hanno una reale importanza nella storia del cinema come forma d’arte», tuttavia un «giro di ruota culturale» non può rendere «irrilevante» il passato nazista di Riefenstahl, l’insieme di opere tanto funzionali e fondative dell’estetica fascista da essere finanziate direttamente da Hitler e Goebbels: masse «in inquadrature panoramiche», «primi piani in cui è isolata una singola passione, una singola, perfetta sottomissione», estasi della vittoria, culto del capo, e ancora i corpi nudi dei primitivi, i bellissimi Nuba (un’intera comunità destinata all’estinzione), e infine il legame intrinseco e «naturale» fra fascismo e sadomasochismo. Non si salva il passato di una donna solo perché è una donna.

La lettura di questo articolo sul New York Times stranisce Adrienne Rich, che obietta a Sontag di non essere ben informata sulle proteste femministe per la presenza di questi film nei diversi festiva, ma soprattutto per aver tradito il saggio precedente, Il terzo mondo delle donne, dopo il quale molte si aspettavano opere con «un rigoroso rispecchiamento dei valori femministi». Ridotto a «puro esercizio intellettuale», questo scritto secondo Rich mostra Sontag vittima di una vera scissione tra l’acutezza intellettuale e la base emotiva della conoscenza, che è la forma in cui meglio si profila la colonizzazione patriarcale. La replica è esplosiva e tagliente, mostra lo scatto orgoglioso di una mente indipendente, sempre lontana dal cercare approvazione o dall’inchinarsi a qualsiasi dettato ideologico, indica con veemenza una «persistente aberrazione della retorica femminista: l’anti-intellettualismo», afferma che il «discredito delle virtù normative dell’intelletto […] è una delle radici del fascismo». La lotta alla misoginia, che passa dal separare le «eccezionali» da tutte le altre, come ha già scritto Sontag, vive della consapevolezza che una cosa è accettare «con compiacimento» il proprio privilegio partecipando «all’oppressione di altre donne», dunque tradendole, altra cosa è rivendicare la libertà di pensare, di distinguere, di contestualizzare, per non sacrificare tutto a una generica «storia patriarcale» («Sono una femminista militante, non una militante femminista», leggo nel diario). Quel «sospetto nutrito contro il pensiero e le parole rientra a pieno nella grande tradizione dell’anti-intellettualismo americano» ribadirà ancora nel 2002, e le donne non devono peccare dello stesso errore. Errore ancora attuale, sul quale molto avremmo tutti da pensare, così come, per una migliore comprensione, va contestualizzata la sua polemica contro il separatismo, in cui l’affinità con Simone de Beauvoir le impedisce di capire la necessità storica di quel taglio generatore di libertà femminile che dobbiamo a Irigaray e Lonzi. Ora l’ultimo nodo da rilevare, con rispetto e discrezione, riguarda quella crepa interiore, intuita da Rich, e che la lettura dei diari (Rinata e La coscienza imbrigliata nel corpo, Nottetempo) conferma come sua dolorosa ferita, a riprova che se il pensiero vitale e polemico di Susan Sontag è invecchiato benissimo, certo il suo corpo di donna ha pagato un alto prezzo all’eresia della sua mente.

Da Doppiozero – Siamo in un’epoca di “caos cognitivo” che si è preso molti cervelli nel mondo. Spesso anche quelli che si ritenevano cervelli migliori, a sinistra, paiono brancolare nel buio e non comprendere cosa accade veramente nella realtà quotidiana. Concordemente nei luoghi di osservazione indipendenti, si pensa sia perché la sinistra istituzionale si è adattata all’andamento confuso del cosiddetto capitalismo neoliberista finanziario. Il fatto è che questo adattamento collabora con la fine del pensiero critico attraverso l’elaborazione del cosiddetto “politicamente corretto”, altrimenti pensabile come morale pubblica imposta soprattutto attraverso i media, social compresi. Il combinato disposto caos cognitivo e politicamente corretto conduce velocemente in uno stato mentale e comportamentale che potremmo definire di dominio, poiché si esplica soprattutto attraverso slogan, parole d’ordine, formule morali, ma soprattutto al fumo con cui si ricopre ogni cosa grazie all’attivazione continua dell’appello ai “diritti”. Si dimentica, allo stesso tempo e a sinistra, che nel sistema giuridico occidentale i “diritti” sono individuali e si richiamano strettamente a proprietà individuali. Tutto questo, fino al femminismo della seconda ondata compreso, le donne lo avevano chiaro, perché in tutto questo non erano mai state considerate, grazie al cielo. Si dà il caso che, oggi, il femminismo come soggetto politico, si sia diviso in correnti, in pratiche differenti, in prese di posizione molto distanti tra loro. Tutto grazie al mercato neoliberista dei diritti. Così sinistra istituzionale e femminismi difensori della libertà individualistica si trovano d’accordo nel dare addosso al femminismo della origini che “non crede di avere (solo) dei diritti”.

Questa premessa si è resa necessaria per dare molti motivi alla necessità di raccogliere dati e testimonianze confluiti nel libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femmnisti su temi scomodi, curato da Daniela Dioguardi, femminista della differenza sessuale, cioè del femminismo della libertà non individualistica. L’eccellente introduzione di Francesca Izzo, spiega molto chiaramente come, lei e molte altre, si siano trovate allontanate «da partiti e organizzazioni della sinistra a cui erano appartenute o avevano guardato con simpatia». La mia premessa dà una traccia per capire i motivi di questo allontanamento che trova ulteriori ragioni nella lacerazione prodotta, anche tra donne, da temi e appelli “divisivi”. Mi sembra chiaro che la divisione deve ringraziare i dettami politicamente corretti che ammaliano anche una parte delle femministe, creando nella mente una forbice dicotomica. Eccone alcuni: affido condiviso che “cancella la madre”; prostituzione come “lavoro” parificato agli altri neoliberisti; maternità surrogata come diritto ad avere figli a prescindere dall’unità psicofisica materna; identità di genere che nega l’unità psicofica di ogni corpo; gender per tutti, a prescindere se c’è una donna di sesso femminile o una donna di gender femminile, e via così di dicotomia in dicotomia, di identità spacciate per fluidità, ecc. ecc. L’inaccettabilità, sia logica sia umana, di queste risorse della confusione del presente, risulta sottolineata da un’evidenza: ogni dicotomia che si presenti nella storia tende a cancellare le donne di sesso femminile dalla cittadinanza e dall’autorità guadagnata dal pensare radicalmente. Forse una nuova era che tende all’insignificanza del soggetto sessuato? Forse un revanchismo misogino di maschi che intendono riprendersi di nuovo l’autorità assoluta?

Fatto sta che le autrici del libro si sono sentite nella necessità di mettere nero su bianco «i problemi che ci stanno di fronte, non affrontabili accumulando e sovrapponendo diritti. Si tratta invece di rivoluzionare i fondamenti, i paradigmi della cittadinanza perché l’ingresso delle donne significa la rottura e lo sconvolgimento defgli assetti istituzionali», compreso tutto quanto supporta questi assetti, come fa il “politicamente corretto”. Le esperienze e i contributi di riflessione contenuti nel libro (scritti da Silvia Baratella, Marcella De Carli Ferrari, Lorenza De Micco, Anna Merlino, Daniela Dioguardi, Caterina Gatti, Cristina Gramolini, Roberta Vannucci, Doranna Lupi, Laura Minguzzi, Laura Piretti, Stella Zaltieri Pirola) cercano di rispondere alla domanda: perché per porre fine alle discriminazioni e alle violenze si deve annullare la differenza sessuale? Scrive Francesca Izzo: «Nei fatti ciò che viene dissolto è la donna (dell’uomo non se ne parla…) per raggiungere un’uguaglianza secondo imperativi sociali pensati e voluti dagli uomini per gli uomini». Perciò chi, a sinistra, aderisce ai veti all’espressione della dissidenza rispetto agli “Imperativi sociali”, chi cerca di marginalizzare le femministe del pensiero della differenza, dovrebbe prendersi la responsabilità politica e storica di rappresentare la misoginia contemporanea. «Cosa succede quando la sinistra cosiddetta progressista si chiude al confronto su alcuni temi e l’inclusione diventa dogma? Oltre a lasciare spazio in maniera allarmante alla destra sugli stessi temi, rischia di contribuire all’affermazione di nuove censure e ingiustizie, anziché allo sviluppo di nuove pratiche democratiche». Non lasciamo ai posteri l’ardua sentenza. I tempi che corrono hanno già giudicato.

Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi, a cura di Daniela Dioguardi, introduzione di Francesca Izzo, Castelvecchi, pp. 91, euro 14,00

Da il manifesto – E se un premio internazionale per la pace fosse assegnato, in questo 2024, all’unico movimento al mondo che vede impegnati ex combattenti e obiettori di coscienza da entrambi in fronti di un conflitto ancora in corso? Intanto, ai «Combatants for Peace», associazione bi-nazionale di israeliani e palestinesi che dal 2006 porta avanti una storia di pacifica resistenza, è dedicato il libro Combattenti per la pace. Palestinesi e israeliani insieme per la liberazione collettiva, curato da Daniela Bezzi (con contributi di Ilaria Olimpico, Luisa Morgantini e Sergio Sinigaglia), per Multimage edizioni. E un campo per la pace si svolgerà in Israele il 1° luglio a opera di Combatants e di altre organizzazioni (fra cui Standing Together, Ir Amim, Peace Now).

La speranza attiva è sopravvissuta anche al 7 ottobre e a quel che ne è seguito a Gaza, confermano le due direttrici dell’associazione, Rana Salma ed Eszter Koranyi. I militanti auspicano una soluzione di «mutuo rispetto e riconoscimento, che possa restituire ai cittadini israeliani e palestinesi una vita di libertà, sicurezza, democrazia e dignità in entrambe le loro patrie». Fin dagli incontri segreti durante la seconda Intifada fra alcuni palestinesi che stavano combattendo o erano stati in carcere, e alcuni israeliani che erano nell’esercito, «si era arrivati alla conclusione che non esistono soluzioni militari» spiega Sulaiman Khatib, uno dei fondatori. Via via si sono aggiunte persone che non avevano partecipato ad attività militari.

Il lavoro comune dei Combatants si svolge anche sul terreno, nella cosiddetta area C della Cisgiordania, per aiutare le comunità palestinesi durante i raccolti e mitigare le aggressioni dei coloni. E poi sostegni economici alle vittime, visite organizzate, seminari formativi come le Freedom Schools, tentativi diplomatici… Il perno sono due annuali, solenni commemorazioni, capaci di radunare decine di migliaia di persone: la Joint Memorial Ceremony che, alla vigilia della celebrazione ufficiale della nascita dello Stato di Israele, introduce il concetto di un memoriale dedicato ai caduti di entrambi i fronti; e il ricordo della Nakba palestinese, perché pace e riconciliazione implicano un confronto con la storia. Nel 2024, per ragioni di sicurezza, le due cerimonie sono state preregistrate e seguite in streaming in tutto il mondo.

Le storie personali di quindici fra i membri dell’associazione si intrecciano con le tormentate vicende israelo-palestinesi nei decenni. Maia Hascal non approvava l’obiezione di coscienza dei soldati israeliani finché non ha trascorso settimane nei territori occupati. Galia Galil, la cui nonna nata a Jaffa era ebrea ma si definiva palestinese, si arruola a diciott’anni ma davanti alla violenza cerca un’altra via e un cartello pacifista per strada le fa capire che «il momento per fermare la guerra è durante la guerra stessa». Jamil Qassas ha partecipato all’Intifada e ha perso un fratello per mano dell’esercito occupante, ma un giorno vede sua madre piangere davanti alla notizia di bambini israeliani uccisi in un attentato, e da allora lotta «per la libertà per il mio popolo, ma in modo pacifico». Sulaiman Khatib negli anni trascorsi nelle carceri israeliane capisce che esistono narrazioni opposte del conflitto (e questa è una presa di coscienza comune a molti membri) ma che «apparteniamo alla stessa terra» e «abbiamo nemici comuni: odio, paura, trauma collettivo».

Chen Alon, diventato negli anni da soldato un «esperto militare dei territori occupati», alla fine firma la petizione dei refusenik (soldati che rifiutano di servire nei territori) e inizia il cammino che fonda i Combatants. Nathan Landau, arruolato nell’esercito israeliano, capisce che la guerra non è affatto romantica, è paura e disagio psico-fisico; al funerale di un amico riflette: «1948, 1967, 1973, prima Intifada, seconda Intifada, la guerra sarà sempre il nostro orizzonte se non fermiamo la spirale». Per Bassam Aramin, militante fin da piccolo, il confronto con una guardia carceraria è l’inizio di una scoperta che lo porta a incontrarsi con ex soldati israeliani. Nel 2007 sua figlia di dieci anni viene uccisa fuori dalla scuola. Bassam lotta per la giustizia, ma continua il dialogo perché «è stato un soldato israeliano a sparare ad Abir, ma cento ex soldati hanno costruito un giardino a lei dedicato».

«Ai primi incontri segreti c’ero anche io», scrive Luisa Morgantini. Era l’epoca in cui le manifestazioni pacifiche palestinesi venivano represse e Hamas colpiva i civili con le azioni suicide. Il risultato della violenza era devastante; e Israele continuava a espandere le proprie colonie (illegali). Proprio in quel contesto, fiori sbocciano. Familiari delle vittime israeliane e palestinesi si uniscono nel dolore. Nel 2004 nasce Breaking the Silence, soldati che escono dall’omertà. Si mobilitano politici delle due parti, viene anche presentato un Piano di pace. Certo sui Combatants come sulle altre forze pacifiche – minoritarie – piovono le accuse, sia in Israele («traditori») che in Palestina («normalizzatori»). Ma «oggi più che mai c’è bisogno di chi si oppone alla violenza, per una pace giusta e l’autodeterminazione del popolo palestinese, libero da apartheid, colonizzazione e occupazione militare».

Ricostruire la storia travagliata di quei popoli, per superare la quale occorrono i «costruttori di ponti» capaci nelle loro comunità di «tradire la compattezza etnica» mettendo tutto in discussione (anche se stessi): ecco il compito che nel libro spetta a Sergio Sinigaglia. Il conflitto non inizia con la creazione dello Stato di Israele nel 1948 ma è secolare. Negli ultimi anni, poi, «si sono viste tutte e due le società subire un processo di involuzione: una sempre più avvolta in una logica militarista e oscurantista; l’altra, un tempo laica, ormai egemonizzata dall’integralismo islamista». Ma i Combatants sono un seme per la futura realtà. Sarebbe piaciuto ad Hannah Arendt il cartello che compare nella foto che chiude il libro: «Nei tempi più bui, dobbiamo rifiutare di perdere la nostra umanità – altrimenti che senso ha vivere?».

Da il manifesto – «Possiamo aprire il presente all’imprevisto, possiamo fare la differenza». Così scrive Giulia Siviero, in chiusa alla introduzione del suo volume Fare femminismo (Nottetempo, pp. 181, euro 16,50). Più che una constatazione augurale, l’autrice sceglie di aprire il suo ragionamento sulla pluralità di pratiche e luoghi della politica delle donne che muovano da quel verbo declinato all’infinito scelto nel titolo. Cui se ne aggiungono molti altri, dal generare all’occupare, dal disertare allo spiazzare.

Legati a episodi storici, prese di parola e mutamenti di contesto, i tagli riferiti dall’autrice attingono al “fare” come senso libero di una esperienza attraversata. Ché parla ai (e dei) corpi e porta con sé la direzione anche di un disfare. Operazione genealogica e non archeologica, come ricorda Siviero fin dalle prime pagine, si restituisce una tessitura tanto più utile in questo tempo di rimozione ed equivalenza. Il metodo che Siviero utilizza per significare l’intreccio, storico e politico, è di una parola sessuata che emerge, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta (anche se gli andirivieni svettano di qualche secolo, quando occorre), in molti modi e continenti.

Ci sono storie, note e meno note, intorno alle parole (e alle lotte) che sono servite per scoprire e appropriarsi dei corpi, del proprio vissuto. Come quella di Matilde Maciocia che il 24 novembre del 1971 a Piazza Navona – durante una manifestazione per l’abrogazione del reato di aborto – racconta le condizioni per cui a vent’anni ha scelto di abortire, segnalando per un verso la brutalità della mammana cui si era rivolta e, d’altra parte, la violenza medica insieme alla necessità di rompere il «muro di omertà» e contro un sistema ingiusto. Siviero descrive, con sagacia e pazienza, il crocicchio di luoghi e nomi che hanno trasformato, con radicalità, il modo stesso di stare nel mondo: dall’autocoscienza, alle pratiche di self-help e dell’iter – non solo legislativo e non solo in ambito italiano – dell’aborto, dei processi per stupro e di molti altri temi.

«Generare lotta» è sottofondo di tutto il volume, e gli episodi riportati dall’autrice sono più che semplici aneddoti: per esempio ciò che accade il 13 settembre del 1968 al Congresso della lega tedesca degli studenti socialisti, a Francoforte sul Meno. Helke Sander, unica donna autorizzata a parlare, davanti ai compagni delegati denuncia la struttura sessista del movimento studentesco e propone di discuterne. La risposta è che un compagno riprende rapidamente la parola. In quel momento Sigrid Rüger, arrivata anche lei al congresso – quasi al termine della sua gravidanza e assistendo all’ennesimo tentativo di seppellire un confronto aperto – prende i pomodori che aveva con sé per la sua cena, si alza e inizia a lanciarli. Verso i delegati, gridando: controrivoluzionari.

In che modo, oggi, luoghi pubblici e domestici possano leggersi in una prospettiva interdisciplinare – politica e femminista – lo affronta il volume Gli spazi delle donne. Casa, lavoro, società a cura di Michela Bassanelli e Imma Forino (DeriveApprodi, pp. 202, euro 18). Storia, arte, sociologia, architettura, filosofia ed economia, sono i campi, presenti e mescolati, cui rispondono le autrici che avviano le rispettive riflessioni critiche. Spazio è qui parola cangiante e ricca di molteplici significati che però non possono saltare corpi ed esperienze: fisico, virtuale, tra forza collettiva e lotta politica, il corpo sessuato è, anche e non solo, luogo dell’agire e di relazioni con altri. Dall’idea della «casetta eugenica» di marca fascista (sviluppato da Annalisa Avon) alla «stanza per sé» (discusso da Carola D’Ambros), si arriva a ulteriori indagini come quella relativa alla casa intesa come spazio di lavoro produttivo e riproduttivo che, almeno dal tardo Settecento, è stato condizionato da un processo di femminilizzazione (come spiega Raffaela Sarti). Tutti molto utili ed efficaci, i testi inseriti ne Gli spazi delle donne raccontano della metamorfosi di gerarchie e ruoli che dalla modernità arrivano fino alle negoziazioni contemporanee, carichi di cura compresi (come ricorda Sandra Burchi) e alla disciplinazione sociale della sessualità (nel contributo di Carlotta Cossutta).

Prezioso è anche il volume a più voci curato da Paola Stelliferi e Stefania Voli: Anni di rivolta. Nuovi sguardi sui femminismi degli anni Settanta e Ottanta (Viella, pp. 314, euro 29), inserito nella bella collana «Storia delle donne e di genere», il cui punto di avvistamento più disciplinare nasce dal fermento globale provocato intorno a Ni una menos e il #Metoo, approfittando del cinquantesimo anniversario del primo manifesto di Rivolta Femminile comparso sui muri di Roma e Milano nel luglio del 1970.

Se la pandemia ha modificato quanto la Società italiana delle storiche si era prefissata, è importante che questo libro ritessa gli esiti di quante, nella primavera del 2020, avevano salutato con grande partecipazione la call for papers lanciata dalla Sis, consentendo di osservare in profondità alcuni momenti cruciali. A cominciare dall’intervento di Marta Panighel che si occupa della esperienza interna alla rivista Effe (1973-1982) e alla sorellanza come rappresentazione dell’Altra, proseguendo con il brillante contributo di Elisa Bellè sul femminismo trentino (di cui si era diffusamente occupata nel suo volume del 2021 per Rosenberg&Sellier, L’altra rivoluzione) proseguendo un lavoro ben documentato di costruzione della memoria pubblica che scardina la gerarchia «centro-periferia», collocando l’esperienza di Trento in una rete di relazioni, italiane e non. Altrettanto utile è il saggio di Anastasia Barone, sui consultori romani prima e dopo la legge 405/1975, e quello di Elena Biagini, concernente la soggettivazione politica delle lesbiche.

Da Adista – «E quando mi si dice che una donna è libera di fare del proprio corpo ciò che vuole, comincio a pensare che l’idea di libertà abbia iniziato a partorire mostri», ha chiosato brillantemente Alessandra Bocchetti già nel 20131.

Voci di “donne indisponibili” a questa malintesa idea di libertà sempre più prendono parola: per decostruire e affermare l’inaccettabilità di una idea di libertà disincarnata, che disconosce la logica del Due per riaffermare l’Uno, in una riedizione della logica universalistica androcentrica. Voci di autrici femministe che resistono a una cultura conformistica imperante che si spaccia per progressista; ma non lo è, piuttosto si tratta di “progressismo”, come precisa Francesca Izzo; un “pensiero unico” che vorrebbe bellamente spazzare via teorie e pratiche guadagnate dal femminismo anni ’70 (il cui cardine si incentrava sulla differenza sessuale), ritenute da quest’ondata dilagante un’ammuffita anticaglia da “superare”; e in un luciferino gioco trasformistico, si approderebbe a una novella riedizione – sotto “travestite” spoglie – dell’ineffabile e immarcescibile dominio del neutro maschile.

Tra le voci più incisive ed esaurienti che si sono esposte per dire no, spicca per limpidità e assertività il libro Noi le lesbiche, preferenza femminile e critica al transfemminismo; vanno citate poi le traduzioni dalle opere di Sylviane Agacinski (per es. L’uomo disincarnato, prefazione di Francesca Izzo), Le avventure della libertà, di Francesca Izzo, Libertà in vendita, il corpo tra scelta e mercato, di Valentina Pazé, e mi scuso per le omissioni.

Ora è apparso Vietato a sinistra, dieci interventi femministi su temi scomodi (Lit edizioni, 2024), libro atteso, auspicato, di più, necessario: introduzione di Francesca Izzo cui seguono i saggi di (in ordine alfabetico) Silvia Baratella, Marcella De Carli Ferrari, Lorenza De Micco e Anna Merlino, Daniela Dioguardi, Caterina Gatti, Cristina Gramolini e Roberta Vannucci, Doranna Lupi, Laura Minguzzi, Laura Piretti, Stella Zaltieri Pirola.

Quali sono in estrema sintesi i temi esposti nell’agile ma sostanzioso pamphlet, quali i temi “vietati a sinistra”, che «hanno allontanato molte (me compresa) – scrive Izzo – da partiti e organizzazioni di sinistra»? Si dislocano in un arco tematico che va dall’affido condiviso, alla gestazione per altri (GPA), dall’identità/fluidità di genere alla prostituzione/sex work, alle norme anti-separatismo imposte dai regolamenti del terzo settore; temi visitati e interpretati secondo varie angolazioni e accenti, puntuali nel documentare episodi di censura, intimidazione, discriminazione; vicende vissute dalle autrici, episodi incresciosi, imbarazzanti, inquietanti.

«Vogliamo richiamare l’attenzione su alcune pratiche che impoveriscono lo spazio critico, un tempo fiore all’occhiello del campo dell’alternativa, e – inaudito – giungono a minacciare le donne indisponibili a sostenere presunti nuovi diritti sessuali quali la surrogazione della maternità, il blocco della pubertà, il lavoro sessuale… riferiremo solo alcuni episodi…», si legge nel saggio di Cristina Gramolini e Roberta Vannucci.

Non manca un’altra barbarie sessista: «Vorrei riflettere a cosa succede alle bambine, perché anche le bambine accedono alla pornografia… gli stupri sono comuni e la narrazione fa credere che alle donne possa piacere essere violentate», scrive Caterina Gatti, saldando prostituzione e pornografia, due questioni cruciali non separate tra loro.

Questioni divisive nel movimento delle donne, si sa: con grande coraggio il libro si assume il compito di affrontare tali argomenti “prendendo parola”, una parola scomoda, una parola audace: osa dire che il re è nudo; mettendola in circolo, restituendola alle tante – e io fra queste – che il femminismo l’hanno conosciuto, vissuto, praticato per anni, e ora sono sconcertate da come il mainstream della cultura dell’inclusione abbia deviato dalle premesse di giustizia sociale da cui era partita, stravolgendola, e si è giunti a invocare libertà – per qualcuno (al maschile) – che danneggiano o calpestano esistenze di altre (femminile), e chi non ci sta è omofoba o transfobica o fa discorsi d’odio.

Le questioni trattate quindi sono identificabili all’interno delle aree tematiche che ho menzionato; che, come si può capire, sono legate tra loro con un fil rouge, da una precisa economia simbolica, radicate in un impianto politico, filosofico e di diritto sessuato che lo sorregge, impianto acutamente argomentato nella introduzione di Francesca Izzo, dove le tessere del discorso sono poste e sviluppate in una prospettiva di politica sessuale coerente con l’eredità del femminismo.

«I problemi che ci stanno di fronte non sono affrontabili accumulando e sovrapponendo diritti, si tratta invece di rivoluzionare i fondamenti della cittadinanza perché l’ingresso delle donne significa la rottura e lo sconvolgimento degli assetti istituzionali. La logica dei diritti impedisce di “vedere” questi dati sistemici e punta invece a neutralizzarli con un approccio individualistico e neutro-maschile. Mai come dalla prospettiva delle donne il paradigma individualistico… appare fuorviante. I risultati li abbiamo sotto gli occhi, con un uno scambio della concezione della libertà come affermazione positiva dell’integralità della persona con l’idea mercantile della libertà come assenza di vincoli nel disporre di sé sul mercato. Sino al punto di invocarla per giustificare la pratica della maternità surrogata, per ridurre la prostituzione a sex work, un lavoro come un altro, o per pensare la sessualità come scelta soggettiva, come nel caso dell’identità di genere».

L’idea di libertà si è inquinata, stritolata dalla morsa narcisistica dell’ultraliberismo. La tendenza che si sta affermando, dunque, è quella di rivendicare libertà in spregio alla benché minima idea di reciprocità e interdipendenza; rivendicazioni che sgomitano per emergere sopra le vite dell’altro/a, che si vuole tacitare o manipolare o dipingere come consenziente, in una relazione alla pari, dove invece tra i due si configura un rapporto di potere.

Molteplici sono gli elementi che sbalordiscono in questo delirio idolatrico: una sistematica appropriazione di elementi della soggettività femminile; un oblio o un travisamento della cultura femminista, tra cui spicca l’irrilevanza del corpo, oscurato nella celebrazione dell’identità di genere (essendo il genere una costruzione sociale performativa che si declina in pura esperienza interiore, personale, svincolata dalla corporeità); la confusione di elementi contraddittori: «Contemporaneamente si moltiplicano gli appelli per la parità e il rispetto per le donne… e sono molto partecipate le manifestazioni al grido di “donna, vita, libertà”. Tante, in questa confusione di parole e di slogan, non vedono il punto in cui l’esecrazione della violenza domestica si trasforma in acclamazione della violenza a pagamento nella prostituzione e nella GPA», scrive Stella Zaltieri Pirola.

Fanno parte di quest’atmosfera mafiosa l’intolleranza, l’insulto, l’ingiuria, il boicottaggio, lo screditamento sul piano politico per chi si sottrae al «conformismo ideologico che vuole fare piazza pulita della pluralità delle idee… la nuova intolleranza di chi impone il pensiero unico» (Daniela Dioguardi); per chi pensa che sex work, GPA, ecc. siano un arretramento, non un progresso, e lo si bolla di moralismo, oscurantismo e di collusione con la destra. E nemmeno ci si prende l’onere di argomentare le proprie ragioni, si squalifica e basta; tecniche tipiche dei regimi autoritari, messe in atto anche nel consenso acritico e conformista nel dibattito pubblico veicolato dai media, medusizzati dal progressismo di cui sopra. «L’accusa di moralismo sposta immediatamente le posizioni contrastanti da un piano che dovrebbe essere di parità antagonista a un piano dove una delle due parti è automaticamente preminente: l’una progressista, l’altra retrograda» scrivono Lorenza De Micco e Anna Merlino.

Una delle parole d’ordine è “autodeterminazione”. È bene soffermarsi su questa pietra miliare del movimento degli anni ’70, anch’essa stravolta: «Con lo slogan (“L’utero è mio e lo gestisco io”) non si mutilavano i corpi. Negli anni Settanta quelle parole erano antitetiche a una visione che istituisce una barra di separazione tra mente e corpo: l’utero/corpo non era assolutamente vissuto come strumento di cui si poteva disporre, anzi, ci si opponeva radicalmente alle logiche biopolitiche strumentali, prefigurando piuttosto una riappropriazione di sé, del proprio organismo, nell’orizzonte di un insieme inscindibile di mente e corpo, di una ritrovata ricomposizione. L’impianto della regolamentazione (e della legittimità del sex work) si fonda, al contrario, su una disunione con il corpo, su un’ideologia di individualismo proprietario acquisitivo, da cui discende il disporre del proprio corpo, interpretato come “bene economico a disposizione”, strumento inscritto nell’orbita della merce: la dissociazione tra mente e corpo è evidente già in queste premesse di fondo… Comprendersi incarnati/e è assai più difficile che inneggiare alla libertà: una libertà che non fa i conti con il principio di realtà, che non accetta il limite, la relazione e l’esistenza dell’altra/o»2. Il brano è tratto da Religioni e prostituzione, le voci delle donne, dove il focus era il sistema prostituente; ma è possibile estendere le argomentazioni a tutta l’area delle questioni trattate in Vietato a sinistra, un pamphlet in cui si respira indubbiamente la voce femminile inaddomesticata, una voce che fin dalle origini del femminismo è sempre stata a favore della libera espressione e manifestazione dell’orientamento sessuale; ma come narrano con lucidità le donne di Noi le lesbiche, essere lesbiche non coincide con il conformismo ideologico dai tratti mafiosi così bene documentato in Vietato a sinistra.

La voce di una cristiana e femminista quale io sono è forse inopportuna, alla fin fine, in merito alle finalità del libro? Voci come la mia confermerebbero le accuse di moralismo e bigottismo che ci vengono rivolte?

La Chiesa cattolica, per lo più affossata in un clericalismo misogino, si è spesso pronunciata irriducibilmente contraria alle questioni qui esposte.

Ma non si cada in rozze semplificazioni. A volte le istanze convergono negli esiti finali, pur partendo da visioni e posizioni inconciliabili, nella teoria come nella prassi. Per esempio la Chiesa cattolica si colloca su posizioni di sostanziale esclusione dei gay all’interno nel clero, praticando così una inaccettabile discriminazione.

Non poche femministe cristiane, alcune presenti tra le autrici, partono quindi da assunti assai distanti da quelli dell’istituzione ecclesiastica; piuttosto hanno come apice quella carica sovversiva che è la libertà delle donne; hanno ben chiaro che «le religioni istituzionalizzate sono state il più fermo piedistallo della millenaria supremazia maschile» (Carla Lonzi)3, sono attrezzate e mature nell’operare discernimento sulla realtà di una Chiesa per lo più sessista, immersa in stereotipi antifemministi e per lo più maestra in strategie mafiose (occultate: vedi le dinamiche che la coinvolgono negli abusi di coscienza e sessuali) per ostacolare la presenza delle donne, per umiliarle, per inferiorizzarle.

Ripeto: alcuni posizionamenti possono avere esiti simili, ma hanno radici differenziate. Rigettiamo l’accusa di moralismo: i nostri cammini e la teologia femminista a cui ci richiamiamo sono esempi di spirito libero antidogmatico. Pensiamo e agiamo senza preoccupazione alcuna di un possibile accordo o disaccordo con l’insegnamento disciplinare della Chiesa. L’energia della Ruah affiancata alla luce della fede (e non della religione) ci sono compagne, in armonia con le parole di Simone Weil: «… Non riconosco alla Chiesa alcun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni d’amore nell’ambito del pensiero»4.

(Paola Cavallari)

Note

1. Alessandra Bocchetti (2013), “Il diritto alla felicità”, intervista ad Alessandra Bocchetti realizzata da Barbara Bertoncin, in Una città, 200, febbraio 2013.

2. Paola Cavallari, Doranna Lupi, Grazia Villa (a cura di), Religioni e prostituzione. Le voci delle donne, VandA edizioni, 2024.

3. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Rivolta femminile, 1970, p. 16.

4. Simone Weil, Lettera a un religioso, Adelphi, 1996, p. 91-92.

Ho avuto il piacere di conoscere personalmente Heide Goettner-Abendroth, quando nel 2014 l’ho invitata a parlare alla Libreria delle donne di Milano delle sue ricerche, sfociate nel libro Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene nel mondo” (Venexia 2013).

Ho grande ammirazione sia per il suo coerente e coraggioso percorso di studiosa sia per gli straordinari risultati della sua ricerca.

Infatti dal 1973 al 1983 Heide Goettner-Abendroth aveva insegnato filosofia e teoria della scienza all’università di Monaco ma contemporaneamente, analizzando studi di archeologia, linguistica, antropologia, dunque con un metodo interdisciplinare, cominciava a rendersi conto che il Matriarcato non è il “dominio o regola delle madri”, non è quindi equiparabile al Patriarcato che correttamente significa “dominio o regola dei padri”. Entrambi i termini sono composti da archē che oltre a ‘dominio’ ha anche il significato di ‘origine’, ‘inizio’, come troviamo nelle parole archeologia, studio delle origini, e archetipo, prototipo originale. Matriarcato significa dunque ‘in principio le madri’. Infatti, se attraverso la documentazione storica ed etnografica si cercano società dominate dalle madri o dalle donne, è impossibile trovarle perché il porre all’origine le madri produce una diversa forma sociale.

Già nel 1976 presentò al pubblico i suoi primi risultati che divennero nel 1980 il libro in tedesco La dea e il suo eroe, tradotto quindici anni dopo in inglese e che prossimamente verrà tradotto anche in italiano da Gabriella Galzio.

Nell’università però non vi era spazio per queste ricerche, infatti vigeva, come spesso anche oggi, quella che la storica María-Milagros Rivera Garretas chiama violenza ermeneutica. Quindi nel 1983, ormai 40 anni fa decise di non insegnare filosofia ma di dedicarsi completamente agli studi matriarcali e nel 1986 fondò l’International Academy Hagia (www.hagia.de) per gli Studi Moderni sul Matriarcato e la Spiritualità Matriarcale, che con Cécile Keller dirige ancora oggi.

Mi è parso significativo il suo percorso in cui, madre di due figlie e un figlio, ha saputo lasciare una posizione consolidata per continuare ad approfondire e diffondere le sue scoperte.

È oggi riconosciuta come la fondatrice degli Studi Matriarcali moderni, un nuovo campo epistemologico che ha messo a punto una definizione strutturale della forma sociale matriarcale. Decenni di studi antropologici e viaggi presso società matriarcali tuttora esistenti, ma anche donne e uomini di queste società le hanno fornito molte informazioni e confermato molte ipotesi, messe a confronto nei diversi convegni internazionali, da lei promossi, come nel 2003 in Lussemburgo, nel 2005 a San Marcos (Texas), nel 2009 a Roma, Milano e Bologna e nel 2012 a San Gallo in Svizzera. Dall’edizione canadese degli Atti del convegno del 2005 sono stati pubblicati in italiano, nel libro Società di pace. Matriarcati del passato, presente e futuro (Castelvecchi, 2018), curato da Luciana Percovich, alcuni saggi generali anche con uno sguardo ampio sulle caratteristiche di alcune società matriarcali delle Americhe, dell’Asia e dell’Africa.

Leggendo i suoi libri ricchissimi non solo di informazioni ma di connessioni che portano a un nuovo paradigma interpretativo della società, provo grande riconoscenza, come del resto è avvenuto e avviene da parte di molte donne, infatti è stata eletta una delle mille Donne di Pace del mondo e candidata ben due volte al Premio Nobel per la Pace ed è stata posta in suo onore una pietra nel Frauen-Gedenk-Labyrinth di Francoforte.

Quali caratteristiche presenta la forma sociale matriarcale da lei delineata?

A livello economico, poiché le donne gestiscono i beni essenziali come la terra, la casa, il cibo e cercano di bilanciare la ricchezza con la redistribuzione, senza accumulazione ma attraverso il dono, possiamo parlare di società di reciprocità basate su un’economia in equilibrio, un’economia del dono di origine materna, in cui vi è la pratica del dare doni non quella dello scambio del mercato, come ci ricorda anche Genevieve Vaughan (Per-donare. Una critica femminista dello scambio, Meltemi 2005).

A livello sociale la maternità è considerata la funzione basilare perché crea le nuove generazioni ma non è necessario essere madri biologiche perché la maternità è condivisa tra sorelle. Si vive in clan legati dalla parentela matrilineare e spesso matrilocali (residenza presso la madre) dove i sessi hanno lo stesso valore (parità di genere) pur avendo ciascuno una propria sfera di attività: ad esempio le donne sono socialmente al centro della vita collettiva e gli uomini sono rappresentanti del clan all’esterno.

A livello politico si tratta società del consenso dove le decisioni vengono prese localmente nelle case del clan e, solo quando si raggiunge una decisione condivisa, la si mette in pratica e, se coinvolge altri clan, si delega agli uomini di essere i portavoce del clan in incontri allargati, dove le decisioni sono solo comunicate ma non modificate.

A livello culturale si può parlare di cultura sacra perché basata su una profonda visione in cui il divino è immanente e tutto il mondo – uomini, donne, piante, animali, pietre, corpi celesti – è considerato divino, un divino femminile. L’universo è frutto della creazione di una grande madre e le feste, che seguono i ritmi della vita e delle stagioni, celebrano la natura nelle sue infinite manifestazioni. Non c’è separazione tra sacro e profano e c’è continuità tra vivi e morti perché si crede che gli e le antenate si reincarnino.

Farsi guidare da una definizione strutturale, come quella sopra presentata, non significa proiettare un tipo ideale di società fisso e immutabile ma di contribuire a un processo creativo di «comprensione ricettiva ma rigorosa delle variegate forme sociali matriarcali esistenti», utilizzabile anche per interpretare i reperti e i risultati archeologici. Heide Goettner-Abentroth ha potuto infatti nell’ultimo decennio sviluppare ed esporre la storia culturale delle società matriarcali e affrontare il problema dell’origine del patriarcato, un processo protrattosi per millenni, in luoghi e tempi diversi.

E lo ha fatto nel suo ultimo libro Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia Occidentale e Europa (Mimesis 2023)appena tradotto in italiano da Luisa Vicinelli e Nicoletta Cocci del collettivo Le matriarcali che in Italia promuove con diverse iniziative i moderni studi matriarcali (https://lematriarcali.wordpress.com/).

Leggere questo libro è stata per me una triplice avventura della conoscenza, quel conoscere che ti trasforma. Innanzi tutto ho potuto seguire, come in un giallo, il modo in cui l’autrice smantella le false interpretazioni ideologiche presentando e confrontando le scoperte archeologiche fra loro e con le società matriarcali del presente e disvelando così quelle che finora erano confuse rappresentazioni delle società dei primordi per farci credere che la civiltà nasce con le forme patriarcali di dominio.

La seconda avventura è stata viaggiare, partendo dall’Africa, attraverso soprattutto i territori dell’Europa e dell’Asia Occidentale insieme alle popolazioni antiche ma anche alla scoperta delle centinaia di siti archeologici imparando a vedere segni che prima erano indecifrabili o interpretati in modo proiettivo e approssimativo: una guida affascinante anche per i miei futuri viaggi.

La terza avventura è stata andare nel passato dell’umanità scoprendo il modificarsi di strutture economiche, sociali, politiche e culturali e riconoscere le diverse origini del patriarcato e le forme di resistenza al suo lento instaurarsi in modi differenti.

In ogni pagina ho trovato sempre tre o quattro informazioni, interpretazioni, immagini del tutto nuove per me, pur essendo io stata un’insegnante di storia. Leggere per la seconda volta le 550 pagine del testo si è rivelata un’esperienza piena di sorprese perché ho potuto soffermarmi su particolari delle prove che via via l’autrice presentava e cogliere anche il suo stile nel dialogare con interpretazioni proiettive del presente sul passato di alcuni archeologi, un dialogo a volte ironico ma molto ben documentato (tra bibliografia e autorizzazioni delle immagini vi sono oltre venti pagine).

L’autrice, dopo un’introduzione in cui si sofferma su come si sono sviluppati i moderni studi matriarcali, nel primo capitolo rifiuta la divisione tra storia e preistoria perché implica lo svilimento e la deformazione delle conquiste non solo intellettuali dell’umanità antica e propone invece primevo e primordi. Dimostra la falsità dell’ideologia della guerra infinita, che legge, ad esempio, ogni resto di muro come fortificazione contro nemici e non come protezione da inondazioni o da animali e ogni cimitero collettivo come frutto di violenza e non come forma di culto per le e gli antenati. Un’ideologia di cui oggi, più che mai, avvertiamo la grande pericolosità, perché porta a una svalutazione della pace intesa solo come assenza di guerra e non invece come l’invenzione e messa in pratica di strategie per la risoluzione dei conflitti. Non si tratta dunque di parlare di società pacifiche, in cui non avvengono conflitti ma in cui essi possono sfociare in faide non in guerre perché non vi sono strutture organizzate come gli eserciti. Si tratta invece società in cui la violenza non è glorificata e, quando nascono conflitti, vengono risolti, ad esempio, con alleanza tribali o con matrimoni tra clan o con accordi rituali.

Gli altri sette capitoli sono strutturati in maniera simile tra loro e ciascuno è dedicato a un periodo preciso. Si aprono con una tabella cronologica, una descrizione degli ambienti e degli spostamenti delle popolazioni e una mappa in base ai ritrovamenti archeologici.

In quello dedicato al Paleolitico e nei due al Neolitico, seguendo un vasto percorso temporale e geografico, vengono delineate società con caratteristiche economiche, sociali, politiche e culturali complesse, capaci dell’uso di simboli, grazie a un’attenta e non ideologica interpretazione delle evidenze archeologiche, ad esempio nel Paleolitico le pitture parietali, le statuette femminili, i cimiteri collettivi o nel Neolitico le costruzioni megalitiche, i palazzi di Creta, le forme di irrigazione artificiale in Mesopotamia.

Nel quarto capitolo sull’età del bronzo nella steppa euroasiatica si descrivono le società del primo nomadismo con le loro iniziali forme di dominio e si mostra la resistenza delle donne, in particolare si affronta la questione delle Amazzoni.

Negli ultimi tre vengono presentate le diverse situazioni nell’età del bronzo e del ferro: dapprima si vede in Asia occidentale la nascita della forma stato e poi impero e l’inizio di una teocrazia che abolisce la Dea per giungere al monoteismo, poi si esamina come nell’Europa meridionale resistono le società tardo matriarcali, ad esempio in Sardegna, a Creta, in Etruria. Infine a Nord delle Alpi si mostra la permanenza di elementi matriarcali in società patriarcali come tra i popoli celtici e germanici.

Ogni capitolo è corredato da una documentazione di immagini e al termine troviamo una sintesi del capitolo e una definizione del periodo.

La struttura del libro dunque lo rende anche un’opera di facile consultazione, di cui possiamo rileggere anche solo quei capitoli sui periodi, sulle popolazioni, sui temi che più ci interessano.

Posso aggiungere che questa lettura mi ha trasformato nel senso di avermi fatto riconoscere e radicare nel tempo e nello spazio modalità di comportamento mie, di amiche e anche di uomini a me vicini, che prima vedevo in gran parte come caratteristiche individuali ed estemporanee.

Nota: La videoregistrazione dell’incontro del 3 marzo 2024 alla Libreria delle donne di Milano con Heide Goettner-Abentroth dal titolo Quando la civiltà era più umana si trova nel canale YouTube nel sito della Libreria al seguente link:

(*) Luciana Tavernini è impegnata nelle attività della Libreria delle donne di Milano. Ha partecipato fin dall’inizio alla Pedagogia della differenza e alla Comunità di pratica e riflessione pedagogica e ricerca storica, successivamente alla Comunità di Storia vivente di Milano e ora SAMI. Tiene con Marina Santini il corso Historia viviente al master in Studi della differenza sessuale presso l’Università di Barcellona. Con altre ha scritto Libere di esistere (SEI, 1996), Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, 2015), Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione (VandA e-publishing, 2019), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (Moretti & Vitali, 2019). Traduce e scrive saggi per diverse riviste.

(AP-Autogestione e politica prima, a. XXXI, n. 2/3, aprile-settembre 2024, pp. 11-13)

Da Letterate.Magazine – In “Donne che allattano cuccioli di lupo” la filosofa femminista Adriana Cavarero smonta la dimensione del materno come trappola per le donne e destino biologico per descriverla invece come esperienza generativa, amorosa e trasformativa di indiscussa potenza, oltre ogni copione patriarcale

Mai saggio è stato così congruente con i nostri tempi. Donne che allattano cuccioli di lupo è l’ultima fatica di Adriana Cavarero. Con emozione l’ho ascoltata qualche tempo fa a Napoli, a Palazzo Serra di Cassano, già Istituto degli Studi Filosofici, dove nel 1985 nacque il movimento femminista della differenza sessuale a opera sua e di altre militanti. L’incontro è stato organizzato da Stefania Tarantino, con la partecipazione del gruppo di Studi femministi e di Giovanna Borrello.

L’immagine in copertina e il titolo forniscono un indizio importante sull’impostazione filosofica del testo. Il dipinto di Eugène Grasset di tre donne che volano tra gli alberi, con tre lupi accanto, riprende Le baccanti di Euripide, in cui alcune donne, ubriache di gioia e di libertà, allattano cerbiatti e cuccioli di lupo, trasformate dalla forza dionisiaca della maternità, che fa cadere la distinzione tra umano e animale: ed è proprio questa esuberanza nutritiva del materno che viene discussa, esperita e elaborata oltre gli stereotipi di genere.

Da sempre, l’esperienza della maternità ha avuto un’interpretazione retorica, colonizzata e gestita dall’ideologia maschilista cristiano-cattolica dei vertici ecclesiastici. La dimensione femminile della maternità è stata propagandata e vissuta come dimenticanza di sé, sacrificio oblativo, esaltazione del dono della vita all’interno della famiglia patriarcale. Attraverso la letteratura, Adriana Cavarero recupera le ombre di un’esperienza complessa, dove è urgente e necessario individuare ogni verità fino al fondo più buio, affrontando anche gli aspetti repulsivi e attrattivi. Scrittrici come Elena Ferrante, Clarice Lispector e Annie Ernaux hanno esplorato con una lingua dura e viscerale il tremendo del materno, quella vertigine interiore e incarnata nel corpo che viene lacerato nel parto, trasformato nella gravidanza, traumatizzato dal dolore delle doglie, scosso dal contatto fisico con il rischio di morte e con il mistero della vita. Il corpo gravido è l’esperienza della materia pulsante che vibra in ogni sua fibra, attua il processo della vita nel suo qui e ora, superando l’astrattezza algida della tradizione filosofica maschile, che si allontana dai corpi ed enfatizza puramente l’elucubrazione del mentale.

Ogni aspetto oscuro del materno simbolico, scrive Cavarero «viene indagato dalle scrittrici, cercando le parole per narrare quella frantumazione incarnata, che permette all’una di diventare due, oltre ogni retorica tradizionale idilliaca e luminosa». Ogni donna ha in sé la potenza della procreazione, rende possibile la rigenerazione della vita ma viene costretta a pagare per questo un prezzo feroce, nella struttura patriarcale passata e presente: mutilare il proprio progetto di vita, non sentire la fame di mondo. Eppure c’è da riascoltare l’intreccio assolutamente femminile tra parto e physis, che permette alle donne di «sentire con il proprio corpo il legame con la natura, con zoé». Scrive ancora Cavarero: «il processo generativo della materia pulsa nel corpo materno, nel profondo della carne e della psiche». Non c’è separazione ma unione sinergica tra mente e corpo. Siamo tutti vivi perché una donna ci ha partorito. Questo dato è incontrovertibile e Cavarero riprende le parole di Hannah Arendt: «Nessuno e nessuna di noi sarebbe al mondo, sarebbe apparso nel mondo se un corpo di donna, complice del ciclo naturale della generazione, ovvero della necessità della vita organica, non si fosse strappato per generarci».

Ma la società patriarcale e tecnologizzata ha “funzionalizzato” il naturale linguaggio creativo legato al materno. È un’espropriazione del corpo femminile che va invece riconsegnato alle donne. La psicanalisi freudiana ha, a sua volta, schiacciato l’eros femminile sull’invidia del pene senza saper elaborare l’invidia e la gelosia dei maschi della potenza del corpo femminile che dà la vita. Leggendo le belle pagine di Cavarero, viene in mente Donne che corrono coi lupi, il libro della psicanalista femminista Clarissa Pinkola Estés che vuole recuperare la donna selvaggia, libera di vivere con estrema naturalità il suo corpo e di gestire la sua sessualità in modo totale.

Dice Elena Ferrante: scrivere veramente è parlare dal profondo del grembo materno. Attraverso il pungolo incandescente delle scrittrici, Cavarero invita a una riflessione ontologica sul tema dell’origine come orizzonte materiale e carnale del bíos, o meglio della zoé, senza sentimentalismi e senza tecnologismi. La maternità si pone come una esperienza iniziatica di pura animalità, una fonte di conoscenza della vita e della morte, esperienza di un corpo preso nel ciclo violento della riproduzione. La materialità corporea della gravidanza e del parto ci permettono di vivere la complicità con una natura che stringe il corpo gravido in una morsa necessaria, vitale e inevitabile, oltre ogni indulgenza autoconsolatoria. La letteratura che Adriana Cavarero cita è alleata di questa narrazione cruda e violenta, che offre le parole giuste e non retoriche a questo nuovo percorso zoo-ontologico. Le autrici non parlano di obbligo delle donne a diventare madri, non parlano del desiderio della maternità ma narrano semplicemente questa esperienza come materia di conoscenza.

Nella nostra società, la famiglia monogamica si è basata sulla divisione della cura per le donne e del lavoro esterno e politico per gli uomini. E ancora adesso le donne sanno che, per emanciparsi e lavorare, devono marginalizzare il loro desiderio di maternità. Alcune comunità matrilineari vissute in epoche pre-patriarcali avevano dato vita a una struttura organizzativa inclusiva per le donne e i loro figli, senza asservimenti di genere. Queste culture arcaiche, attraverso una simbologia matriarcale, sottolineavano la potenza del corpo materno, che si apre per far nascere e che nutre e allatta. La Dea madre o Madre Terra era considerata una divinità primigenia e veniva rappresentata con caratteristiche genitali e sessuali molto visibili senza celare le differenze del corpo femminile. Lo strano e misterioso potere di figliare era celebrato come sacro e naturale. Per Aristotele, la physis è il perenne processo della nascita e crescita di ogni vivente che partecipa perciò dell’«essere – per – sempre nella natura». Questo principio, ripreso da Arendt è citato nel saggio di Cavarero: il pensiero filosofico maschile ha usato la metafora del parto per rinforzare la scissione tra la creatività intellettuale maschile e il potere riproduttivo della donna. Tale scissione ha sempre voluto sottolineare il primato della ragione sul corpo, spingendo verso la subordinazione e la rimozione del corpo materno nell’immaginario simbolico patriarcale. Invece il culto della Dea madre enfatizza e potenzia le immagini simboliche del corpo materno che nutre e genera.

Cavarero ci ripropone le ricerche dell’antropologa Marija Gimbutas, che a partire dal 1974 studiò la religione della grande Madre nelle civiltà neolitiche, dimostrando attraverso i reperti archeologici le caratteristiche pacifiche e comunitarie della cultura matrocentrica, in sintonia con la natura e in interconnessione tra tutti i viventi, animali e piante. Tesi osteggiata subito dall’ambiente accademico e poi, in seguito, da molte femministe, nel timore che celebrasse troppo la dimensione del materno, col rischio di rinchiudere di nuovo le donne nel recinto della sfera domestica. Non sembra probabile che discutere sulla nascita e sulla maternità voglia dire imprigionare le donne nella trappola di una funzione biologica che diventa un dispositivo normativo. È necessaria comunque, secondo Cavarero, una zoo-ontologia materialista, capace di affrancare la pluralità dei viventi dalla presa antropocentrica, dal suo slancio predatorio, distruttivo e autodistruttivo. In linea con le tesi di Bonnie Honig, si tratta insomma di recuperare la dimensione del materno non come trappola per la donna, ma come esperienza generativa, amorosa e trasformativa di indiscussa potenza esistenziale e di selvaggia vitalità nutritiva, oltre ogni copione patriarcale.

La disamina di Adriana Cavarero della mitologia classica legata alle icone dell’iper-materno, come Niobe e Latona, fa comprendere come le orride trasformazioni narrate, fino alla pietrificazione del corpo, abbiano avuto lo scopo di punire la celebrazione della potenza creativa/generativa della donna, considerata un atto di hybris, cioè un atto di tracotanza e di superbia, di arroganza e di insolenza, nella cornice misogina del sistema patriarcale.

Il tema della maternità rimane, oggi più di prima, una questione complessa, in bilico tra un’ingenua, idilliaca e accattivante celebrazione del destino biologico della madre e la denuncia femminista del suo essere prigione, fino al più moderno e controverso dibattito sulla madre surrogata e l’utero in affitto. Cavarero contrasta anche la posizione filosofica di Simone de Beauvoir, che, nel suo famoso saggio, Il secondo sesso (1949), considera la funzione riproduttiva come un rigido destino biologico, da cui ogni donna si deve liberare per realizzarsi come soggetto libero e aspirare alla trascendenza, oltre la mera conservazione della specie. Storicizzando le affermazioni di De Beauvoir, che operava in un’epoca dove il ruolo della donna/madre/schiava del sistema patriarcale era un dato incontrovertibile, dopo oltre settant’anni possiamo condividere la posizione di Adriana Cavarero nell’affermare con Luce Irigaray che non è il dato biologico della riproduzione la trappola principale per la donna: ciò che bisogna superare è questo anti-biologismo filosofico, promuovendo una diversa opinione del bíos, senza combattere la zoé. E in questa direzione di ricerca rimane valida ogni interpretazione filosofica e politica, che sposta il baricentro del primato dell’uomo sulla natura, valorizzando una concezione ecologica, tesa a proteggere il nodo biologico che lega tutti i viventi in un’unica rete, in un’incessante rigenerazione, oltre la violenza maschile e guerrafondaia.

Qualche settimana fa, spulciando nella mia vecchia libreria di campagna, mi sono imbattuta in alcuni testi di Sylvia Plath; li ho riletti e, come mi era accaduto altre volte, ne sono rimasta turbata. Molti smarrimenti della poeta mi sembrano, tra l’altro, attualissimi e sovrapponibili a quelli che, oggi, vengono avvertiti soprattutto dalle donne. Ci ritroviamo, infatti, a difendere diritti già acquisiti, oggetto di tante battaglie da parte del femminismo. Così ho pensato di rendere omaggio alla poeta scrivendo di lei e, in tal modo, ricordarla a quante/i l’hanno amata.   

Negli anni settanta la poesia di Sylvia Plath fu letta e analizzata in modo parziale e riduttivo perché ne furono considerati unici temi dominanti la presunta schizofrenia e la denunciata violenza maschile responsabile non soltanto della “follia” della scrittrice, ma anche del suo suicidio.

Certo fu donna e poeta assai scomoda, provocatoria e sovversiva; genio che ambiva alla perfezione, specchio di quante videro riflessa in lei la propria soggettività fino a creare il Plath Myth.

Emerge inequivocabilmente dai suoi scritti un atteggiamento anti-maschile in cui le figure di dio/padre/marito, vestite con abiti nazisti, vengono identificate in quelle di carcerieri e oppressori.

C’è infatti nella poeta, soprattutto negli ultimi anni, una chiara identificazione con gli ebrei vittime dell’olocausto e della perversione maschil-nazista, ma c’è di più in quella che può sembrare solo una identificazione nel ruolo di vittima. C’è qualcosa che tende ad andare oltre il dato biografico e che presenta una condizione di sofferenza esistenziale comune alla generazione vissuta negli anni ’50 e ’60. C’è la violenza di una struttura sociale e storica nominata nelle tragedie di Hiroshima e Dachau. C’è una società che ruota intorno a valori quali «domesticità, religiosità, rispettabilità, sicurezza attraverso l’acquiescenza verso il sistema» e che induce le ragazze ad essere studentesse e figlie perfette, madri e mogli inappuntabili.

Così il sogno di perfezione in Plath si schianta contro un’avvertita inadeguatezza: il sentirsi non all’altezza delle aspettative della madre, dalla quale non era mai riuscita a distaccarsi, al punto da dipendere totalmente dalla sua accettazione fino a perdere il senso di sé.

La ricerca poetica di Sylvia Plath mette in gioco la sfera personale, si connette alla complessità della sua psiche sfociando verso visioni sempre più sconvolgenti e facilmente confondibili con nuove possibilità di essere donna e poeta.

Ma il frutto della elaborazione poetica, intellettuale e psichica finisce per scontrarsi con gli obblighi della vita quotidiana e le sue forme, i ruoli, i legami sociali nei quali viveva immobilizzata e dai quali avrebbe desiderato liberarsi, mentre la madre – così presente e così distante – la costringeva a fingere di essere forte per superare ogni difficoltà, per farcela comunque.

La poeta canta da un luogo di dolore estremo.

La “stanza tutta per sé” è stanza di cristallo che la taglia e l’attraversa. Da quel luogo di dolore non può che rappresentare luoghi di dolore deromanticizzati e resi negli aspetti più umilianti e ghettizzanti: l’orrido, la mostruosità, l’oscenità, l’abiezione, l’isteria sono il tessuto connettivo dei suoi versi. L’ansia e la disperazione evolvono in forme e figure senza corpo con testa di medusa, arpia, gorgone che raccontano esperienze borderline.

Dal dolore insostenibile si può fuggire rifugiandosi nell’asensibilità asettica, come se da dentro una teca di vetro si potesse guardare tutto senza percezione di dolore; come se auto-imprigionandosi e allontanando da sé ogni possibile tattilità, ogni con-tatto, si potesse rendere sordi il corpo e l’anima.

Ma, come scrisse Anne Sexton, amica di Sylvia Plath: a woman who writes feels too much (una donna che scrive sente troppo). Così la scrittura, che avrebbe potuto salvarla, in realtà la pone ancora al centro di un dolore la cui ferocia intollerabile incontra il suicidio, il salto fuori di sé forse come possibilità di estinguere il dolore medesimo, forse come tentativo di cancellare il sé.

La mia scelta è tuttavia quella di non codificare il gesto, bensì ritenerlo un fatto tragico e privato anche nella prospettiva di demolire stereotipi nei quali, ancora oggi, Plath rischia di rimanere ingabbiata.

È la stessa poeta a darsi corpo di strega in poesia come scelta di provocazione che, verosimilmente, mirava a rovesciare la mistica della femminilità americana – e non solo – proposta dai cartelli pubblicitari degli anni cinquanta ed oltre. Strega, luna (dea), olocausto, sono i tre temi ricorrenti nei suoi scritti dove la parola della ribellione solitaria venne considerata pericolosa e sovversiva dall’ipocrita società, tanto da essere letta come follia, e isterico fu definito il corpo da cui quella parola veniva fuori a turbare le coscienze “buone” e “giuste”.

Questa poeta ambiziosa e fragile che avvertiva soffocante indossare solo gli abiti di madre e sposa, rappresenta uno dei sacrifici femminili al mondo e all’arte, perché scardinando in solitudine le porte del disvelamento di sé, mediante la ricerca linguistico-poetica, frantumò se stessa e fu travolta dai suoi stessi demoni creativi ed esistenziali.

Da il manifesto – Sara De Simone da anni si occupa di poesia e letteratura, da Emily Dickinson a Katherine Mansfield e Virginia Woolf, e la incontriamo spesso anche su queste pagine. Di recente ha pubblicato per Viella L’atto sospeso. Azione e inazione dell’eroe dall’Iliade a Virginia Woolf (pp. 188, euro 20), inoltrandosi in un percorso lungo molti secoli e intorno a un tema davvero originale.

Un arco così esteso di tempo e di storie, per non finire in narrazioni banali o già note, doveva di necessità esigere un taglio attento, ben ragionato, e doveva orchestrare la materia per squarci in grado di superare la distanza e affondare in spazi simbolici precisi ma tra loro comunicanti. Una scommessa non facile, a mio avviso felicemente vinta, perché mostra in modo inequivocabile come uno sguardo differente, quando si posa su una grande e comune tradizione, può farci vedere qualcosa che non è stato né visto né registrato prima. Il punto di vista è dunque importante, una specie di gradiente che mette in luce le variazioni possibili di quella stessa tradizione, perché varia la forma stessa dell’avvistamento. Cambia la cartografia del passato, lo illumina là dove qualcosa se ne stava in ombra, o del tutto al buio, non detto o cancellato.

Nell’«atto sospeso» sembra andare in pezzi quell’eterno atto eroico che pensavamo intangibile, soprattutto per l’inerzia con cui spesso viene trasmesso durante il nostro percorso scolastico (absit iniuria verbis, benedico sempre la scuola pubblica). Quando però, come in questo caso, la tradizione viene trafilata alla luce di un pensiero non binario, improvvisamente diventa chiaro che l’inazione non è necessariamente l’opposto, il negativo dell’azione ma, al contrario, genera e rafforza l’azione, e, sbucando dagli interstizi, dalle fessure di un pensiero non ancora pensato, la interpella in modo cogente.

Cosa succede dunque se in una narrazione l’eroe si ferma, smette di agire? Intanto succede che di fronte a questa tesi la nostra curiosità si accende e ci spinge a considerare da vicino un’orchestrazione così radicale della temporalità da tagliarla senza sgomento in tre grandi momenti della letteratura: l’antichità classica, il romanzo medievale del XIII secolo e la prima metà del Novecento.

Il libro di De Simone si apre sull’immagine di Brice Parain, filosofo-personaggio di un film di Godard, Vivre sa vie, che racconta un episodio in cui, nel Visconte di Bragelonne di Dumas, Porthos va incontro alla catastrofe per il semplice fatto di essersi messo a pensare come sia possibile mettere un piede dopo l’altro quando camminiamo. Un’ironia feroce ci fa vedere un eroe che soccombe «sotto il peso di un pensiero», e nasce qui la prima interrogazione del testo, che lavora intorno all’idea di come i tanti eroi «in sospeso», lungo la storia della letteratura, «da Arjuna ad Achille, da Oreste a Pelasgo, da Perceval a Lancelot, fino ad arrivare alla riscritture novecentesche di Orlando e Percival nell’opera di Virginia Woolf», mettano in crisi «lo stesso paradigma eroico di cui sono il simbolo».

Intorno a questo cuore centrale dell’indagine si addensano studi e prelievi che provengono dal cinema alla fotografia, dai miti orientali e occidentali al teatro, alla filosofia, che agiscono tutti muovendo e percorrendo il tema da una colta profondità alla superficie, in modo spesso, e sorprendentemente, divertente. Il primo grande ritaglio temporale, la classicità, è accolto dalla riflessione filosofica di Simone Weil e Rachel Bespaloff, su posizioni diverse per quanto riguarda struttura e argomento del poema omerico (a questo proposito è bene ricordare il bel libro di Nadia Fusini, Hannah e le altre, precursore di questo ideale confronto). Per Weil, ne L’Iliade poema della forza, è propriamente la forza «il vero argomento, il vero centro» del poema, per Bespaloff è la poesia che ne «tiene assieme» «i ventiquattro libri».

De Simone sposa quest’ultima idea per due ragioni, la prima, subito messa in evidenza, è che è proprio della poesia l’interruzione, la cesura, l’aritmia e dunque la pausa, con la sua sospensione, arresta nell’istante la durata «che scandisce il ritmo indiavolato dell’azione» epica. Leggiamo di Elena, che nel terzo libro, sulle mura delle porte Scee, elenca a Priamo i nomi dei guerrieri achei più famosi, mentre si attende il duello che deciderà della guerra, ma l’esempio decisivo, che informa buona parte dell’Iliade è l’inazione, il non-fare di Achille che, da sola, determina l’intera evoluzione delle molte battaglie in campo.

Una pausa, e una domanda, bloccano anche Oreste, nelle Coefore di Eschilo: il suo braccio resta sospeso prima di infiggere la lama nel petto della madre Clitemnestra, aprendo i versi al teatro di una mente che non può sfuggire a un destino inesorabile.

La seconda ragione a sostegno dell’idea che la poesia sia in sé lo spazio e il tempo dell’interruzione, e dunque idea centrale per il valore dell’inazione in letteratura, si sviluppa con altrettanta coerenza nel capitolo dedicato al ciclo bretone di re Artù, introdotto dalla riflessione portante sulla malinconia, che poggia le sue ragioni sui testi di Warburg, Panofsky e Saxl, Wittkower, il Benjamin del Dramma barocco tedesco, Barthes, Susan Sontag, ma anche sul cinema di Rohmer e il volto di Buster Keaton nella famosa fotografia di Joseph Frank. Tutto converge a illuminare il sonno di Artù, «roi pansif», che fermando ogni azione, terrorizza la sua corte, o l’assenza a se stesso, stupefacente, di Lancilotto nel ciclo del Lancelot-Graal, il cui filo di pensiero lo rende meditabondo e passivo, trasognato eppure capace di azioni improvvise che abbattono il suo avversario, in ragione di un’«energia statica» che si trasforma in «energia cinetica». Perceval, protagonista di Le conte du Graal, è un altro cavaliere immobile, addormentato o in dormiveglia sul suo cavallo, non agisce, non pone le domande giuste, sbaglia tutti i tempi, ma l’incompiutezza della sua azione, così come incompiuto sarà il conte, produrrà tutte le narrazioni seguenti.

Manca ora solo l’ultimo salto che porta alla rilettura critica che Virginia Woolf propone dell’Orlando ariosteo nel suo Orlando. Una biografia e di Perceval nelle Onde. Un capitolo ricco di tensione critica, sentiamo che questo è il punto non finale, ma originario dell’intero percorso che possiamo leggere ora a ritroso, perché questi due romanzi vivono della «memoria dell’eroe», qui il sonno e il tempo esistono come necessità narrative esplicite, non più miticamente alluse. L’ironico rovesciamento del Furioso che qui si addormenta, cambia sesso e attraversa d’un balzo i secoli, l’assenza nelle Onde di Percival che, non essendoci, orienta ogni parola dei personaggi, indicano che il tema della sospensione è giocato con massima consapevolezza dalla Woolf, consapevolezza prima di tutto del ritmo di una prosa che, tra dieci interludi e nove soliloqui, deve inseguire i movimenti della mente, e insieme dello scorrere della vita.

Così come Orlando non compie nessuna azione memorabile, ma si «dimostrerà sempre più incline alla malinconia, alla fantasticheria e al sonno profondo», così Percival non è certo un condottiero, viene disegnato con in testa un caschetto colonialista, su una cavalla «malridotta», eroi entrambi messi a fuoco da uno sguardo ironico, sarcastico, che rivoluziona l’intera tradizione di cui i loro eponimi erano simbolo.

A vincere sui temi, sui personaggi stessi, non è però una «tesi» da dimostrare, ma la geniale intuizione che la sospensione, il ritmo, la pausa non stanno tra l’eroe e il mondo, tra azione e inazione, ma sono elementi connaturati a una scrittura che vuole sfuggire ai “generi” codificati. Una biografia fuori canone e un play-poem sono la forma che Woolf ha trovato per rallentare le scene, dilatarle o diminuirne la tensione, come e quando necessario alla narrazione stessa. È la vittoria ultima della poesia, da lei tanto amata, l’esito di questo lungo attraversamento della tradizione.

Da Robinson – la Repubblica –Torna l’opera che la grande femminista dedicò ai suoi amici più geniali: Pascali, Fontana, Accardi, Twomby. Fotografia collettiva di una rivoluzione

Carla Lonzi pubblicò Autoritratto nel 1969,con l’editore De Donato: era ed è rimasto il suo ultimo lavoro di critica d’arte. Da quel momento e fino alla sua scomparsa, nel 1982, si sarebbe dedicata anima e corpo alla teoria e alla militanza femminista, con l’elaborazione di testi ancor oggi fondativi. Già in queste pagine le ragioni della sua svolta esistenziale sono esposte con perentoria chiarezza: «Quando mi sono trovata a fare la critica d’arte, ho visto che era un mestiere fasullo, completamente fasullo», afferma, e ne parla già al passato. Autoritratto nasce dalla raccolta e dal montaggio di una serie di conversazioni con quattordici artisti, registrate tra il 1965 e il 1969: Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, cui si aggiungono le domande, senza risposta, rivolte a Cy Twombly nel 1962.

Un libro formidabile che, dando seguito alla ripubblicazione delle opere complete di Carla Lonzi iniziata con Sputiamo su Hegel (2023), La Tartaruga restituisce al pubblico in un’edizione curata da Annarosa Buttarelli (pp.416, 22 euro). Non solo l’epoca e il luogo delle registrazioni sono diversi, ma varia anche la composizione degli interlocutori che partecipano a ciascun incontro. Nel trasporne i contenuti dal parlato allo scritto, Carla Lonzi lavora sul montaggio e crea una sorta di flusso di coscienza, o autocoscienza, che solo di rado interrompe con le proprie osservazioni.

Definisce Autoritratto «un libro un po’ divagato». Possiamo intuire le domande – sulla poetica, sulla tecnica, sull’ontologia stessa dell’arte, la politica, il mercato, il pubblico, la ricerca in divenire – ma non sempre sono dichiarate. È dichiarato, invece, lo scopo di questo convivio: dimostrare che l’artista è naturalmente critico e che l’opera d’arte rappresenta naturalmente una «possibilità di incontro e un invito a partecipare» a «un’altra condizione dell’uomo».     

Come nessun altro, la natura “implicitamente” critica dell’artista è innervata di vissuto e di tecnica, di capacità immaginativa e sfondamenti politici, di potenza simbolica e di evocazione. È il motivo per il quale nel 1969 Carla Lonzi inserisce, come racconto parallelo al testo, fotografie le più diverse, pubbliche e private: immagini degli artisti da bambini, da soli o con i genitori, adulti assieme a mogli e compagne, immagini di opere e immagini realizzate in occasioni espositive. In copertina, anziché il Concetto spaziale di Fontana scelto all’epoca dall’editore, avrebbe desiderato l’immagine che ora Claudia Durastanti, curatrice editoriale de La Tartaruga, ha voluto per questa edizione: la fotografia di Teresa di Lisieux (1895) che interpreta Giovanna d’Arco seduta in catene nella sua prigione.

Cosa c’è sullo sfondo di Autoritratto? Ovviamente il Sessantotto, il Maggio francese, la Biennale contestata. «La nostra società – scrive Lonzi nella premessa – ha partorito un’assurdità quando ha reso istituzionale il momento critico distinguendolo da quello creativo e attribuendogli il potere culturale e pratico sull’arte e sugli artisti». E davanti a sé? Lo dichiara Jannis Kounellis quando osserva che noi «abbiamo fatto di tutto per abolire il mestiere dell’artista e, una volta abolito il mestiere, non per fare un altro mestiere, ma per essere un uomo diverso». O una donna diversa: perché, come dice Carla Accardi, gli uomini «se lo devono levare, eh, un poco, questo terrore della donna che ragiona. Il Potere io l’ho conosciuto, certo che l’ho subìto: come educazione, come ordinamento della società stabilito dagli uomini, con la forza, con l’addomesticamento, con l’asservimento, con l’intontimento, insomma».

È la magnifica utopia dell’artista che, con le parole di Luciano Fabro, si spinge a «prendere possesso del mondo, aprire una breccia attraverso cui possano passare tutti coloro che sono disponibili». Pino Pascali, all’epoca della pubblicazione di Autoritratto scomparso da un anno, confessa che «io cerco di fare quello che mi piace fare, in fondo è l’unico sistema che per me va bene», il che non esclude «una propria identità morale». Lucio Fontana, portentoso, preconizza la liberazione dell’uomo dalla materia: «Diventerà un essere semplice, come un fiore, una pianta e vivrà solo della sua intelligenza, della bellezza della natura e si purificherà del sangue». Ancora Carla Accardi usa un’espressione bellissima nel descrivere il proprio lavoro: «Mi piace che uno capisca dove il mio cuore tocca e dove la mia parola, invece, circonda». È una sintesi perfetta anche per l’altra Carla – l’amica, la femminista, la rimpianta Carla Lonzi.

Da Il Quotidiano del Sud – Ci sono donne, le femministe, a cui le altre devono la loro libertà, in particolare le giovani donne. Una di queste è Carla Lonzi che, alla fine degli anni Sessanta inizio anni Settanta del secolo scorso, con il suo gruppo di autocoscienza Rivolta Femminile ha dato origine, come altre, al femminismo italiano della differenza. A distanza di quarantadue anni dalla sua morte, avvenuta nel 1982, Lonzi non solo continua a essere presente nella mente di chi c’era ma è diventata una delle femministe più studiate in tutto il mondo. A lei, infatti, sono dedicate tesi di laurea, seminari, ricerche, studi, in tutte le università. È riconosciuta come “avanguardia filosofica italiana del XX secolo” e ovunque nascono gruppi di lettura dei suoi scritti la cui riedizione oggi è curata dalla filosofa femminista Annarosa Buttarelli, autrice tra l’altro del recente saggio Carla Lonzi, edito da Feltrinelli per la Collana “Eredi”. «Gli scritti di Carla Lonzi – scrive l’autrice – possono essere considerati di “trasformazione”, ovvero testi non accademici, ma d’esperienza, di vita e di pensiero concreti, capaci di produrre cambiamenti irreversibili in chi ha la fortuna di sentirli risuonare come veri e adeguati a sé». È quello che è accaduto a lei, a me e a tante donne della sua/mia generazione divenute “eredi senza testamento” di un pensiero e di una politica. Eredità oggi da «conservare e trasmettere memoria alle nuove generazioni», alle giovani donne che «pur avendo acquisito la libertà creata dalle loro madri, spesso non sanno dire come, dove e quando si sono combattute le lotte che hanno dato origine alla loro libertà». È questo l’impegno di Buttarelli che nel suo saggio ci porta dentro gli scritti di Lonzi, la quale era consapevole «di essere all’origine della rivoluzione più radicale mai realizzata: la fuoruscita delle donne dalla cultura patriarcale», attraverso la pratica dell’autocoscienza e la trasformazione di sé nella relazione con l’altra, con le altre. «Essere una donna – scrive Lonzi –, che assume di esserlo, comporta il disfacimento di ciò che prevede la società e la cultura per lei» e «ricusa ogni ruolo sociale e intellettuale». Lonzi “traghetta” così se stessa e le donne fuori dalla cultura patriarcale, le rende “donne pensanti e libere” e si misura nelle relazioni “donna con donna”, che altre femministe della differenza renderanno «più praticabili dentro un ordine simbolico femminile, agli albori nel momento in cui lei scrive». Le giovani della “quarta ondata” del femminismo, che oggi lottano contro stereotipi e ruoli patriarcali, non hanno memoria del lavoro di “deculturizzazione” che le madri del femminismo della differenza hanno già fatto, togliendo al patriarcato ogni credito femminile e creando «una genealogia di saperi e sapienze femminili». Buttarelli nel suo saggio ci guida nella comprensione di parole chiave del pensiero e della pratica politica di Lonzi: autenticità, autocoscienza, relazioni tra donne, fare vuoto, auto-inferiorizzazione, andare via, che ci fanno capire come lei della sua vita ne fece «un’opera d’arte dove mente, corpo, relazioni, esperienza sono tenute insieme». […]

Parlerò, e ne avrò sollievo 

Giobbe 32, 20

Da Doppiozero – «Pazienza, assennatezza, speranza, coraggio, lucidità, sete di verità». Ritrovo queste parole tra i miei appunti del 2009, in occasione del Premio letterario Città di Napoli di quell’anno, della cui giuria facevo parte. Le scrivevo a proposito di un saggio autobiografico folgorante, Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico (trad. it. e cura di Elena Loewenthal, Neri Pozza, 2008), dell’ebreo israeliano Avraham Burg (1955), presidente della Knesset dal 1999 al 2003, figlio dell’ebreo tedesco Yosef Burg, uno dei padri dello Stato di Israele. Quel libro avvincente, accorato, scomodo, che denunciava apertamente l’implosione etica, ancor prima che politica, di Israele, si poneva come una questione di coscienza. «Mi sono sentito in dovere», scriveva l’autore, «di dire le cose che mi bruciavano dentro». Un atto di responsabilità di contro alle morte gore della convenienza e della comodità. Dall’interno della cultura ebraica, amata e rispettata, amata perché rispettata, Burg denunciava l’establishment politico e la società di Israele, perché «ho la sensazione che il paese si sia trasformato in un regno senza profezia». Quel suo appello autoriflessivo avrebbe ottenuto il massimo riconoscimento, rassicurando in qualche modo tutte e tutti noi: nel microcosmo israeliano, autoproclamatosi la sola democrazia del Medio Oriente, una sorta di Occidente dislocato a Levante, c’era ancora chi aveva a cuore la giustizia e sapeva esercitare con acutezza priva di ideologismi l’arte critica del pensiero.

Sono passati, da allora, quindici anni, cinque cosiddette guerre di Gaza e un aumento vertiginoso degli insediamenti coloniali nei Territori occupati di Cigiordania. Il regime di apartheid si è, se possibile, aggravato e il processo di “pulizia etnica” intensificato. L’ipotesi dei “Due stati per due popoli”, oggi sveltamente riattualizzata dalla vulgata mediatica e dalla prassi poco più che discorsiva di troppi governi nazionali, fa pensare a una cristallizzazione dell’intelligenza, a un inciampo non innocente della volontà, a un deficit di immaginazione politica. 

L’artista ebrea israeliana Sigalit Landau, le cui opere accompagnano questo mio testo, ha osservato da vicino i processi di “incrostazione” provocati dal sale del Mar Morto: il sale si stratifica, corrode e al contempo conserva. Non è quello che sta succedendo da più di un secolo nella Palestina storica? Non è quanto da lì si riverbera sulle diaspore ebraiche e palestinesi di tutto il mondo? Non siamo, tutte/i noi, parte in causa di una situazione di stallo evidentemente voluta, perseguita, facilitata, concessa?

In un libro fresco di stampa, Gaza. Odio e amore per Israele (Feltrinelli, 2024), scritto – io credo – con mani tremanti e un’enorme inquietudine nel cuore, il nostro Gad Lerner sembra porsi quesiti simili, un’analoga tempesta di dubbi. La sua, tuttavia, è una posizione asimmetrica rispetto a quella di Burg: se quest’ultimo ha scelto la nazionalità israeliana e l’impegno civile e politico nel proprio paese, Lerner è un cittadino italiano che in questa nostra povera patria ha combattuto le sue battaglie politiche e intellettuali facendo opera incessante di buon giornalismo. Ed è da qui che oggi si domanda e ci domanda: «Si può vivere in paradiso sapendo di avere l’inferno accanto?» Postulando, pur senza esplicitarlo, un interrogativo persino più destabilizzante: e se “l’inferno accanto” fosse la precondizione del mio paradiso e, insieme, il suo esito diretto?

A ripercorrere quietamente una serie di imprese coloniali che hanno trasformato il nostro Occidente in un temporaneo paradiso è inevitabile constatare che ogni giardino dell’Eden si fonda su un abuso originario, una sottrazione, un diniego, un atto di cecità, un’amnesia o una memoria a senso unico, un vuoto di empatia, una cancellazione… Eppure, in duecentocinquanta pagine febbrili, affollate di ricordi personali, notizie di cronaca, date e dati storici, incontri, scambi di pensieri con amici e persone della parte “avversa”, riferimenti a opere lette e scrittori amati (magnifiche le pagine sull’intervista del 1984 a Primo Levi), l’autore compie a sua volta una curiosa, forse involontaria, operazione di omissione. La Gaza che dà titolo al volume, sovrastata dalla riproduzione di Sansone l’eroe – la scultura monumentale di Baruch Wind che dal 2009 arreda la città di Ashdod – è alla lettera assente dalla narrazione. Non c’è la sua geografia, non c’è la sua storia, non c’è la sua economia, non c’è soprattutto la sua popolazione.

In un saggio del 2012 sul “contratto civile della fotografia”, la studiosa israeliana Ariella Azoulay, autrice tra l’altro di Atto di Stato. Palestina-Israele, 1967-2007. Storia fotografica dell’occupazione (Bruno Mondadori, 2008) cita Edouard Glissant che cita Gilles Deleuze, dicendo: «Funzione della letteratura e dell’arte è inventare un popolo che manca». Ecco, nelle pagine di Gaza quel popolo continua a mancare, miticamente evocato solo come oggetto della frustrazione e dell’ira dell’accecato Sansone. Mi si dirà che gli interrogativi di Lerner, che nel corso del libro si riconosce più volte il ruolo disagevole dell’“ebreo buono”, sono altri, che il suo corpo a corpo è piuttosto con la sua gente, con la complessità vertiginosa di un’appartenenza dai margini a un centro in caduta libera. Lo capisco e mi sforzo di immaginare i costi di un tentativo controcorrente, per sua natura inevitabilmente solitario. Eppure, rimugino, se il problema fosse proprio questo, questa fissazione su di sé, questo sbarramento dell’orizzonte, questo fermarsi sulla soglia di casa, questo continuare a interrogarsi su ciò che di terribile è accaduto a te, alla tua famiglia, ai “tuoi” senza riuscire ad assumere quello sguardo analogico teorizzato tanti anni fa da Tzvetan Todorov. So che la memoria traumatica crea fortezze e blinda il pensiero. So che l’invito di Gad Lerner a riscoprire il «filone ebraico della tolleranza» – come lo definiva Primo Levi – e a onorare la figura del Giusto dovrebbe bastarmi. E invece credo serva qualcosa di più, una mossa a lato. Perché Gaza, se tutto si riduce a una questione di odio e amore per Israele? Se dici Gaza, devi dire Gaza. E così propongo a lettrici e lettori di leggere attentamente questo libro «dettato dall’urgenza degli eventi» per provare a immaginare quali sono le immagini mancanti, quale il fuoriscena sincronico e diacronico che gli fa da tacito sfondo. «A meno che non si venga colti dal panico», infatti, «l’oscurità tende a ridurre la fretta. C’è più tempo».

Le Ribelli uscì per la prima volta nel 2006. L’intento era di sottolineare l’importanza, anche simbolica, di un filone femminile nella lotta alla mafia, fin lì ricondotta comprensibilmente –nella pubblica narrazione – al coraggio e al protagonismo di figure femminili.

Uomini le decine di sindacalisti uccisi nelle lotte contadine del secondo dopoguerra; uomini i giudici e i rappresentanti delle istituzioni colpiti a ripetizione tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso; uomini i rappresentanti della società civile – imprenditori e giornalisti soprattutto – puniti a morte per non essersi piegati alle pretese di obbedienza e silenzio di Cosa Nostra. […] Le Ribelli provò (e nel volgere di qualche anno riuscì) ad aiutare la diffusione di una lettura diversa. Mise in luce attraverso sei Scene concatenate le storie di donne che, muovendo dal proprio rapporto di sangue o affettivo con alcune vittime, avevano contribuito esemplarmente a rompere un’omertà secolare. Raccontò il coraggio di sfidare un potere criminale che era anche il potere più maschilista sperimentato dalla storia sociale italiana. Donne di ogni età. «Donne di popolo e donne benestanti» recitava la prefazione «vissute nel culto delle istituzioni o allevate nella più piena contiguità ambientale alla cultura mafiosa». Armate, indipendentemente dal titolo di studio o dal rango sociale, di una sola inarrestabile forza: i propri sentimenti. La loro era stata una rivoluzione “per amore”. Esattamente come l’inaudita rivolta delle madri di Plaza de Mayo contro la dittatura argentina che aveva falciato la “meglio gioventù” sotto il regime dei colonnelli tra gli anni ’70 e ’80. Il loro non era stato solo pianto disperato o furia vendicativa, come nel caso da antologia di Serafina Battaglia. Era stata soprattutto lotta per la verità, per la giustizia. E in senso più generale profondissima sfida culturale. Così che era possibile vederle una dopo l’altra, queste donne, su un sentiero sociale insanguinato, quasi cippi di un immaginario, dolente e orgoglioso cammino.

L’immagine delle Ribelli si è fatta strada. […] Film e libri si sono successivamente abbondantemente appropriati della parola per raffigurare le proprie protagoniste. […] Si sono così radicati progressivamente nella consapevolezza del movimento antimafia i nomi di queste donne sole, allineate in una storia civile che pareva scorrere a parte ma che apriva squarci potenti nella Storia d’Italia. E che già aveva visto sorgere al suo fianco alcune esperienze collettive locali. Si pensi all’Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, promossa a Palermo nel 1982 da Giovanna Giaconia, moglie del giudice Cesare Terranova, fatto uccidere da Luciano Liggio nel 1979. O all’indimenticabile comitato dei lenzuoli bianchi nato a Palermo dopo le stragi del ’92, dove l’amore che aveva spinto alla rivolta non era quello per un figlio o per un marito ucciso, ma una straziante combinazione di affetto e gratitudine per i propri giudici che aveva scosso la città dopo le bombe del grande trauma. […] Ebbene, in questi vent’anni molto è cambiato, dando al titolo e al contenuto del testo un valore più grande, quasi di annuncio. Che è giusto rimarcare, così da poter meglio cogliere le increspature e le onde che sempre si formano nella Storia. Cosa Nostra, l’onnipotente organizzazione che sognava di ottenere tutta per sé la Sicilia, con Totò Riina nella veste di riverito viceré dell’isola, ha subito rovesci un giorno inimmaginabili. Non è stata solo una sconfitta giudiziaria e militare. È stata anche e soprattutto una sconfitta culturale, certo mai totale, avanzata sotto la spinta decisiva di migliaia e migliaia di donne. Familiari di un numero crescente di vittime […]; ma soprattutto familiari di nessuna vittima, cittadine e studentesse ostili alla violenza mafiosa, maestre e insegnanti desiderose di dare un altro futuro alle nuove generazioni. E in effetti a rivederla oggi la storia successiva al 2006 è costellata di protagonismi femminili diffusi in ogni campo dell’antimafia, capaci anche di creare nuovi campi di pensiero e di azione. Le studentesse di un tempo sono entrate nella carriera giudiziaria e in quella prefettizia, in quella giornalistica e in quella accademica, modificandone fisionomie culturali e prassi operative. Hanno reso più impetuoso il vento di ribellione che arrivava dalle associazioni e dalle scuole, e perfino dalla vita amministrativa. Come non vedere l’impegno straordinario e incessante di tante magistrate nel contrastare Cosa Nostra a Palermo, la ’ndrangheta a Milano, o la camorra a Napoli? Come non ricordare che i colpi subiti dalla ’ndrangheta in Emilia, la regione che si gloriava dei suoi “anticorpi” senza averli, sono arrivati grazie a una prefetta agrigentina? […]

Sarebbero infiniti gli esempi di questa nuova ribellione in nome dell’Italia e delle sue istituzioni che potrei fare, molti avendone visti e vissuti. È stato dunque in questo ciclo di anni che ho cominciato a rigirare nella mia mente e poi a proporre timidamente in pubblico il principio che l’antimafia è donna. Riflettendo su quello che vedevo. […] In realtà vedevo anche che quella mia tesi dell’antimafia donna non suscitava particolari consensi proprio tra le donne, comprese le mie stesse colleghe; facevano eccezione le studentesse, che d’altronde potevano proprio fisicamente verificarla nelle aule ogni giorno. Immaginavo che questo dipendesse dal pregiudizio femminile circa una astuta (e notoriamente maschile) captatio benevolentiae. O che potesse dipendere anche da quella certa incredulità che circonda ogni intuizione in tema di mafia non ancora maturata nel senso comune […]. Come si può dire d’altronde che l’antimafia è donna con tutti gli eroi che sono caduti combattendola da ruoli tipicamente maschili?

Finché la Storia, sempre lei!, mi mise davanti tra il 2011 e il 2013 una vicenda che sembrava fatta apposta per rafforzarmi nel convincimento che andavo coltivando da qualche anno. Una vicenda riassumibile in un nome di tre lettere che per me è diventato nel tempo un autentico spartiacque: Lea. Il nome di una giovane donna giunta a Milano da Petilia Policastro, che rivelò ancor più la forza rivoluzionaria dei sentimenti. Lea Garofalo. Nella sua vicenda si intrecciarono in forma irripetibile, quasi fosse stata immaginata da un sublime regista, la ribellione individuale e solitaria che attraversa la storia della lotta alla mafia della donna nel Novecento, e la ribellione femminile, collettiva, sociale, maturata negli anni Duemila. Un intreccio (lotta personale-lotta collettiva) che in modalità diverse aveva preso forma nella Palermo di fine secolo e successivamente nella campagna elettorale di Rita Borsellino per la presidenza della Regione Siciliana, con cui – non per caso – si chiudeva la prima versione delle Ribelli. Perciò questa edizione delle Ribelli [Le Ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore, 240 pp., ed. Solferino 2024, € 16.50], che giunge dopo numerose ristampe, ha sentito il bisogno di arricchirsi di un nuovo capitolo. Quello dedicato appunto a Lea Garofalo, alla sua storia e soprattutto alla storia del processo che le ha dato «verità e giustizia». […] Ossia dal momento in cui donne dai ruoli tanto diversi – magistrate, avvocate, giornaliste, insegnanti, studentesse – messe insieme dalla loro sensibilità e dal destino gridano tra la commozione e l’orgoglio che, sì, l’antimafia è donna. O almeno lo è abbastanza da poter colorare interamente al femminile una vicenda tanto esemplare e di confine nella lotta alla mafia. Dopo di allora anche il rapporto tra donna e mafia non è più stato lo stesso. […] Dopo di allora, sia pure lentamente e molecolarmente, il potere della mafia più antica e impermeabile, la ’ndrangheta, ha tradito scricchiolii crescenti. […] Difficile perciò a questo punto sottrarsi all’intuizione maturata tempo prima. Perché l’asse di scorrimento della lotta alla mafia sembra passare effettivamente oggi come non mai per l’evoluzione della cultura femminile e la sua inedita capacità di rompere schemi e ordini mentali partendo dalla sfera dei sentimenti.

(Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2024, apparso con il titolo «Rivoluzione “per amore”. La mafia sconfitta da Lea e le ribelli»)

Da 27esimaora.corriere.it – Quando la tunisina Gisèle Halimi viene al mondo, nel 1927, suo padre si dispera a tal punto che nega quella nascita per quasi tre settimane. Una figlia femmina era una disgrazia, un peso di cui liberarsi appena possibile. E quel marchio Gisèle lo sente bruciare sulla sua pelle fin da subito, già dentro le mura domestiche, dove ha inizio quella che diventerà un’instancabile ribellione. Che dalla Tunisia la porterà a diventare una delle prime – e più rivoluzionarie – avvocate di Francia.

È con lo sciopero della fame che da bambina riesce a ottenere il suo primo diritto: smettere di servire i fratelli in casa. Nonostante l’orrore – e la disperazione – dei genitori di fronte a quella bambina così sfrontata ed indomita. Ma Gisèle fa di più: riesce a imporsi sugli studi che non vogliono farle compiere, lei che è così brillante rispetto ai fratelli maschi. E riesce, da sola, a spezzare quelle catene che da secoli la vogliono immobilizzata nel ruolo di femmina destinata a servire i maschi della famiglia prima, e l’autorità di un marito poi. Catene che rompe a una a una: «Ben presto sfuggire da quello che appariva come un destino già tracciato è diventata la mia ossessione».

Una feroce libertà, di Gisèle Halimi con Annick Cojean (Fve, pagine 144, euro 17)

Ora la storia di Halimi è raccontata in Una feroce libertà (Fve), un libro-intervista (raccolto a pochi mesi dalla sua scomparsa, avvenuta nel 2020 a Parigi), firmato dalla reporter di Le Monde Annick Cojean, che ha raccolto la sua biografia sotto forma di colloquio. Qui Halimi racconta la sua terribile condizione familiare di nascita attraverso la storia della Francia, quella coloniale e post-coloniale d’Algeria, e le grandi rivoluzioni per i diritti delle donne che lei stessa in prima persona ha contribuito a tracciare.

Quest’innato senso di ingiustizia che riconosce nel volto di ogni donna fin da piccola, e la sua spiccata sensibilità verso gli ultimi, gli oppressi, la fanno diventare un’avvocata di successo, grazie anche alle sue arringhe spietate e appassionate con cui riesce a piegare chiunque, merito di un’estenuante preparazione. Ma, nel libro, racconta anche delle difficoltà quotidiane per essere accettata, rispettata e riconosciuta in un ambiente, fino a quel momento, costituito da quasi solo uomini.

Halimi è una forza della natura, e molto di più. Durante la guerra d’Indipendenza d’Algeria, sceglie di difendere in tribunale le partigiane algerine torturate dall’esercito francese, denunciando le violenze e gli stupri. Dal 1956 fino ai trattati di Evian nel 1962, fa la spola fra Algeri e Parigi (dove ormai vive da anni) per portare avanti questi processi, venendo definita «traditrice della Francia» e subendo lei stessa insulti e anche minacce di morte (nel 1961 riceve una lettera da parte dell’Oas, l’organismo terroristico francese, che annuncia la sua condanna a morte). Ma «la mia libertà non ha senso se non serve a liberare gli altri», dice in questa sua appassionante intervista.

In particolare, tra queste partigiane diventa famoso il caso di Djamila Boupacha (1938), militante del Fronte di Liberazione Nazionale algerino (Fln) che viene arrestata perché aveva cercato di far esplodere un caffè ad Algeri. E, per questo, costretta alla confessione dopo trentatré giorni di torture e stupri. Il processo che Halimi porta avanti infrange pubblicamente il tabù sullo stupro coinvolgendo l’opinione pubblica francese, i media, e prima fra tutti gli intellettuali che partecipano al caso, Simone de Beauvoir, che con un articolo pubblicato su Le Monde descrive minuziosamente lo stupro subito da Boupacha. Un testo sconvolgente che cambierà per sempre l’attenzione su questo tema.

Ma i processi-simbolo di Halimi sono tanti; tra questi ricordiamo quello rimasto nella memoria collettiva francese, il processo di Aix-en Provence del 1978 – passato alla storia come «il processo dello stupro» – che ha portato a modificare la legge contro le violenze sessuali in Francia. Processo che ha difeso due turiste belghe aggredite in tenda mentre erano in vacanza, picchiate e violentate per cinque ore da alcuni francesi: «La legge del 23 dicembre 1980 avrebbe riformulato la definizione di stupro, la quale avrebbe oramai incluso ogni forma di aggressione sessuale, compresi quelli che un tempo venivano considerati “attacchi contro il pudore”», spiega Halimi.

E Halimi è la stessa che firma il Manifesto delle 343 pubblicato dal Nouvel Observateur il 5 aprile 1971, nel quale donne molto famose, come Catherine Deneuve, Françoise Sagan, Marguerite Duras, Delphine Seyrig, dichiarano di aver abortito, infrangendo di conseguenza la legge. E accompagnando così la liberalizzazione dell’aborto, arrivata poco dopo con la legge Veil del 1975.

«Ribelle, impetuosa, instancabile. E libera. Ferocemente libera», Halimi è stata il terremoto perfetto che ha contribuito a far sgretolare – almeno un po’ – il sistema patriarcale francese. Alla fine della sua intervista, Halimi si rivolge alle giovani donne a cui consiglia, prima di tutto, di essere sempre indipendenti economicamente e di fare in modo di ottenere nuovi diritti, senza aspettare che siano gli uomini a «concederli». E poi, rivolgendosi alle ragazze: «Mi aspetto che facciano la rivoluzione. Non riesco a concepire, in effetti, come non abbia già avuto luogo. Hanno urlato i loro furori, hanno fatto scoppiare qua e là rivolte, seguite da grandi passi in avanti per i diritti delle donne. Ma siamo ancora ben lontani dall’obiettivo. Serve una rivoluzione del costume, degli spiriti, delle mentalità. Un radicale cambiamento nei rapporti umani, fondati da millenni sul patriarcato: dominazione degli uomini, sottomissione delle donne».

Da L’indice dei libri del mese – Tra le uscite recenti della collana “Fact Checking” di Laterza – collana che ha l’intento lodevole di confutare pseudofatti e false teorie del nostro tempo – c’è anche il libro di Laura Schettini L’ideologia gender è pericolosa che si pone l’obiettivo di criticare tale tesi: la cosiddetta ideologia gender, ci rassicura l’autrice, non è pericolosa, è solo “un fantasma”. Il gender è una categoria analitica che le studiose femministe hanno elaborato dagli anni ottanta, con validi risultati di ricerca. Il mito dell’ideologia gender invece, sostiene Schettini, sarebbe stato costruito in funzione antifemminista da forze reazionarie, fascistoidi e bigotte – il Vaticano innanzitutto, in sintonia con i movimenti nazionalisti di destra. Dal momento che, come Schettini e l’editore Laterza, credo anch’io nel valore dell’evidenza empirica, sottoporrò a fact-checking questo libro in cui manca, innanzitutto, il riconoscimento del fatto che, oltre alla nozione del gender come categoria di analisi storico-sociale – l’unica che Schettini considera, esaminandola in dettaglio nel cap. 2 – ne esiste oggi un’altra, assai diversa, centrata sul concetto di “identità di genere”. E quando si parla di ideologia gender ci si riferisce comunemente a questa seconda nozione, come viene intesa nelle legislazioni sul “gender self-id” (l’autodeterminazione di genere) e nella cosiddetta “gender affirmative medicine”. Il silenzio di Schettini è sconcertante, perché è proprio questo il concetto di gender che ha assunto un’importanza straordinaria nella politica, come anche nella medicina e nel diritto, del nostro tempo. Manca inoltre nel libro la ricognizione di un altro fatto cruciale: la critica all’ideologia gender non viene solo da destra ma anche da sinistra, da un nuovo femminismo che si chiama appunto “gender-critico”. Ci sono oggi due modi di intendere il gender, profondamente diversi ed anzi, a mio parere, incompatibili. Il gender come categoria di analisi mette a fuoco come il sesso biologico – di cui non si contesta la realtà – venga interpretato in modo variabile a seconda delle culture. In questa prospettiva, il gender è un fatto socioculturale, intersoggettivo. La cosiddetta “identità di genere”, invece, come formulata sin dai principi di Yogyakarta (2006) nel movimento transgender, è qualcosa di puramente e intrinsecamente soggettivo e avulso dal dato biologico. Ecco come la definisce per esempio la principale lobby trans britannica, Stonewall UK: «Il senso innato del proprio gender, maschile, femminile o altro, che può corrispondere o no al sesso attribuito alla nascita». Si noti l’aggettivo “innato”. E si noti “il sesso attribuito alla nascita”, che implica che la determinazione del sesso sia potenzialmente arbitraria. Il sesso, infatti, non è più visto come un fatto osservabile ma come un opinabile “costrutto sociale”.

Siamo di fronte a una definizione del gender che prescinde del tutto dalla realtà biologica dei corpi. È maschio o femmina o altro (secondo un repertorio illimitato di gender possibili) chi si identifica come tale. In netta contraddizione con l’originale nozione culturale del gender, l’identità di genere viene presentata qui come un tratto innato e quindi preesistente rispetto ai condizionamenti sociali. Nasciamo tutti – ci viene detto – con una predefinita identità di genere, che può essere allineata con il sesso biologico (in qual caso la persona è “cisgender”) oppure no (in qual caso la persona è transgender). Questo non allineamento viene visto, contraddittoriamente, in due modi: come una forma di malattia mentale (“disforia di genere”) ma anche come un tratto “normale” della variabilità umana. Su che evidenza empirica si basa tutto questo? Come distinguere fra persone cisgender e transgender? Poiché l’identità di genere è qualcosa di squisitamente soggettivo, pertinente all’interiorità della persona, non c’è altro modo di accertarla che attraverso quanto la persona ci dice. Anche un bambino, anche una persona che soffre di turbe psichiche, anche uno stupratore: se ci dicono che sono trans, lo sono, e dobbiamo credergli. L’arbitrarietà e inverificabilità di questa nozione di gender sono evidenti. Siamo passati dal gender come strumento di analisi storico-sociale a qualcosa che non saprei come altro chiamare che una metafisica del gender. Nel libro di Schettini manca consapevolezza di questo fondamentale slittamento di senso nel modo di pensare il gender. Il libro, di conseguenza, è tutto costruito su un equivoco. Nessuno ha paura del gender come strumento di analisi storica, ma vivissima preoccupazione desta invece la metafisica del gender. Il dissenso da questa metafisica viene tanto da destra che dal femminismo gender-critico, con motivazioni e argomentazioni profondamente diverse. Questo è l’altro fatto centrale che Schettini passa sotto silenzio: c’è nel libro solo un brevissimo cenno dove si ammette che al richiamo della “sirena antigender” (sic!) hanno risposto in questi anni anche alcuni settori del femminismo. Schettini non menziona nulla peraltro di quella che è ormai una ricca letteratura di studi femministi che hanno criticato “gender identity”, “gender self-id” e “gender-affirming medicine”: dal libro della filosofa Kathleen Stock, Material Girls. How Reality Matters for Feminism (2021) a quello della politologa Holly Lawford-Smith, Gender-Critical Feminism (2022), all’antologia Sex and Gender (2024) curata dalla sociologa Alice Sullivan e dalla storica Selina Todd (2023), per citarne solo alcuni (nessuno di questi libri compare nella bibliografia in appendice al libro di Schettini). Questi testi rendono chiaro che le obiezioni del femminismo gender-critico alla metafisica del gender non hanno niente a che fare con un progetto reazionario di restaurazione del “patriarcato”. Al contrario, denunciano le conseguenze regressive che la metafisica del gender ha per le donne. Se qualsiasi uomo, semplicemente col dichiarare un’identità femminile, diventa legalmente donna, le donne perdono il diritto agli spazi separati (negli sport, nelle carceri, nei rifugi antiviolenza, nei bagni pubblici, eccetera) che le salvaguardano, almeno in parte, dai rischi legati alla differenza di forza fisica fra i sessi. Non solo, la metafisica del gender impone a tutti una ridefinizione della realtà. Rifiutarsi di convalidare l’autodefinizione di una persona che si identifica come trans, attraverso, per esempio, il cosiddetto “misgendering” – l’uso dei pronomi corrispondenti al sesso, non all’identità di genere – è stigmatizzato come “transfobico”, un termine di ignominia nella “neolingua” del nostro tempo. In un processo per stupro in Inghilterra, alla vittima è stato richiesto dal giudice di usare pronomi femminili per l’aggressore, identificatosi come trans: di dire quindi “her penis”, “il pene di lei” – l’espressione più orwelliana, più crudelmente assurda del nostro newspeak. Sostenere che donna è un essere umano adulto di sesso femminile, o che le donne non hanno un pene, o che un uomo non può essere una lesbica, sono diventate opinioni denunciabili non solo come “transfobiche” ma come hate speech. La metafisica del gender non comporta solo un grave arretramento dei diritti delle donne ma minaccia quel che è prezioso per tutti: la libertà di parola.

Ma c’è di più e di peggio, ed è quello che, in nome della metafisica del gender, si sta facendo a bambini e adolescenti. Secondo Schettini, una delle immotivate e irrazionali paure associate al “fantasma” dell’ideologia gender è che spingerebbe a «deregolarizzare e promuovere in modo selvaggio le transizioni da un sesso all’altro». Ma questa non è affatto una paura irrazionale: è quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Proprio in questi giorni, sui media di tutto il mondo, si parla della Cass Review (https://cass.independent-review.uk/), l’indagine del servizio sanitario inglese sulla “gender-affirmative care” praticata sui bambini coi “bloccanti della pubertà” e sugli adolescenti con gli ormoni femminilizzanti o mascolinizzanti. Sulla base dell’esame sistematico della letteratura medica su questo tema, la Cass Review ha concluso che l’evidenza scientifica a sostegno di questi interventi è «estremamente debole». Molto era già stato anticipato da Hanna Barnes nel suo Time To Think: The Inside Story of the Collapse of the Tavistock’s Gender Service for Children (2023) segnalando come bambini e adolescenti vengano sottoposti a interventi rischiosi (come i bloccanti della pubertà) o addirittura irreversibili (come gli ormoni “cross-sex”) senza una base evidenziaria attendibile. Lo studio riscontra inoltre come il modello “gender affirming” comporti una grave distorsione del processo diagnostico (“diagnostic overshadowing”). Nonostante la disforia di genere sia spesso associata, nei minori, a problemi mentali come autismo e turbe della personalità, questi vengono sistematicamente messi in ombra dal fattore gender. La disforia viene vista infatti come segno di un’innata e stabile identità trans, e si presume che i problemi mentali saranno risolti dalla “transizione”. Questo nonostante il fenomeno crescente dei “detransitioners”, che desistono dal trattamento ormonale proprio perché non risolve, e a volte peggiora, il loro disagio. Non si prende in considerazione l’ipotesi che la disforia possa essere dovuta a forme di condizionamento o contagio sociale. Non si prende in considerazione soprattutto il fatto che molti degli adolescenti disforici sono lesbiche e gay e che la loro disforia possa essere legata al persistente stigma dell’omosessualità – un fatto che lesbiche e gay del movimento gender-critico hanno denunciato da tempo. Quel che viene “affermato” nella “gender affirming care” non è scienza ma metafisica, con costi umani inaccettabili.

(*) Giovanna Pomata è professora emerita di storia della medicina presso la Johns Hopkins University

(L’indice dei libri del mese, 3 maggio 2024)