da Leggendaria

I cinquant’anni della Libreria delle donne di Milano vengono festeggiati anche con tre numeri speciali cartacei di Via Dogana, la rivista politica delle donne, nata nel 1991. Il n.1 Speciale, il primo di tre, dal titolo È ora di andare via, è uscito in febbraio 2025.

La lettura di questa rivista è un percorso inaspettato perché inaspettato è il filo conduttore che si percepisce sin dall’inizio. Ora chiaro e manifesto, ora sotteso, si nasconde per poi irrompere: è la libertà femminile. Viene declinata in vari modi, o inclusa implicitamente fra le righe dalle autrici degli articoli, ma sempre cattura la nostra attenzione.

Si presenta chiaramente nel titolo dell’articolo Distorsioni di libertà di Daniela Santoro e ammicca in un altro, Shirin Neshat e la liberazione dello sguardo,di Rosella Prezzo. In quest’ultimo articolo, dedicato all’opera dell’artista iraniana Shirin Neshat, la libertà è sottesa nelle «linee vibranti che ne [dell’immagine femminile] liberano il senso» edè nelle vicende biografiche dell’artista, come suo obiettivo di lotta e di vita, espresso dal grido “Donna, vita e libertà”. Di libertà femminile e di architettura ci parla Francesca Pasini, ma il nesso forte di Arte-Politica è, soprattutto, nell’articolo di Laura Minguzzi, là dove la libertà è indicata dall’autrice come la linfa vitale di questo nesso. Minguzzi dipana la storia della band Pussy Riot, quattro donne russe che dal 2011 lottano contro la guerra per la pace e la libertà. E proprio della libertà viene privata la loro leader Maša Alëchina che racconta in un libro la sua persecuzione. Quindi, non solo questo libro, ma tutte le performances della band ci vengono mostrate da Minguzzi come espressioni artistiche con una forte valenza politica libertaria: perché sono mezzi di lotta politica di donne, mosse dal desiderio di libertà e lanciate alla conquista della libertà stessa, per sé e per l’Altra/Altro. Così «la storia diventa un’altra storia»e nell’attributo “altra” c’è tutta la carica rivoluzionaria della libertà. Rivoluzionaria è anche la parola autorevole delle donne sulla scena pubblica: infatti, cambia il concetto stesso di parola umana, perché ha il suo presupposto nella libertà, come si evince dall’articolo di Giordana Masotto.

Nuccia Nunzella sembra andare alla ricerca della libertà nei libri che utilizza come una bussola per arrivare finalmente a scoprire in uno di questi l’incognito di una libertà da conquistare.

Inoltre, la libertà emerge nelle denunce, rispettivamente di Annarosa Buttarelli e di Daniela Santoro, nei confronti dell’attuale destra governativa e delle sue eclatanti mistificazioni ai danni del femminismo.

Buttarelli, andando al di là del contingente, dichiara: «[…] le cosiddette destre di ieri e di oggi, agiscono con la privazione progressiva delle libertà anche individuali[…] Tutto questo è senza ombra di dubbio distruttivo della libertà femminile».

Daniela Santoro focalizza la libertà femminile per evidenziarne le“distorsioni”nel campodel linguaggio, dal momentoche, come ci ricorda, «la lotta per la libertà femminile continua, infatti, a intrecciarsi profondamente con il linguaggio».

Secondo Santoro avviene attualmente, da parte di Meloni e Roccella, «[…] un vero e proprio scippo del linguaggio del femminismo (e di conseguenza del simbolico), trasformandone il nucleo concettuale […] e usandolo come scudo davanti a politiche repressive. Tutto questo […] depotenzia le parti in gioco nel campo di battaglia per la libertà femminile».

Il presente è anche tragico e la tragedia irrompe con un grido di dolore nell’articolo di Renata Sarfati, Israele Palestina pensare le cose come sono, in cui la pace invocata implica la libertà di scegliere la vita e non la morte.

A proposito della storia, non mi soffermo sulla dialettica passato-presente, che appare in parecchi scritti della rivista, e in cui la libertà ha un ruolo fondante, perché meriterebbe un’analisi a parte.

Si possono concludere queste brevi note con la domanda finale di rito: la via da percorrere quale è? Luisa Muraro sottolinea che non è quella della libertà femminile intesa come parità. Eppure, secondo Mirella Maifreda e Tiziana Nasali, il concetto di libertà femminile come equiparazione agli uomini esiste nella narrazione di stampa e dei social. È vero. Allora, che cosa fare? Possiamo, innanzitutto, rispondere con le parole di Daniela Santoro che, alla fine del suo articolo, scrive che è necessaria la «risemantizzazione della libertà delle donne riportandola al centro del discorso a partire dal caos post-patriarcale riconoscendone la portata trasformativa come nel 2022 ci invitava Dominijanni».

Comunque, ineludibile è la dimensione pratica della lotta, come sostiene Poonam Bruni nel suo articolo, il cui titolo Che fine ha fatto la pratica? è un interrogativo carico di molti significati. Il presupposto, secondo l’autrice, è una liberazione:«a lotta contro il proprio maschilismo interiorizzato nemico subdolo dei nostri giorni».

Il traguardo di questo percorso ideale potrebbe essere la conclusione di Lia Cigarini: l’autrice rivolge lo sguardo all’orizzonte, ad una società in cui la libertà si potrà concretizzare in modo preciso e definito, incarnandosi in «donne libere e uomini liberi».

Perciò, superando la dialettica passato-presente, viene prefigurato, fra storia ed utopia, ovviamente intesa in senso rivoluzionario, il futurofondato sulla libertà.

da L’Altravoce il Quotidiano

Dopo Una donna Annie Ernaux scrive Il posto dove racconta del padre, a distanza di vent’anni dalla sua morte. Da tempo voleva scrivere di lui, della “sua vita”, della “distanza” che si era “creata tra lui” e lei, del suo “posto” nel mondo di cui lei aveva fatto parte. In un primo momento aveva pensato di scrivere un romanzo il cui protagonista principale era il padre, ma lo lasciò a metà perché un “romanzo è impossibile” per narrare la “realtà” e arrivare alla “verità”. «Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io.» Ed è quello che fa, con una scrittura che lei chiama “piatta”, la stessa che utilizzava un tempo scrivendo ai genitori per dare “le notizie essenziali”. Da questi primi due libri emerge chiaramente come, più che raccontare della madre e del padre, è di se stessa, tramite loro, che parla, del suo percorso di donna che, con la scrittura, fa i conti col patriarcato che, come tutte le donne, la separa dalla madre e dal padre, promettendole libertà nell’emancipazione col passaggio dalla classe sociale considerata “inferiore”, in cui è nata, cresciuta ed è stata persino felice, a quella “superiore” della “piccola borghesia”, che umilia e disprezza le sue origini.

Un mondo che incontra, per la prima volta, al collegio religioso, scelto dalla madre, nelle compagne, nelle loro madri e nella suora/maestra, che la “riprendeva”. Piangendo rimproverava ai genitori: «Come potete pretendere che non mi si faccia osservazione se voi parlate male tutto il tempo!», rendendo “infelice” il padre. È allora, a sedici anni, che inizia il suo allontanamento dal padre, come dalla madre; gli faceva osservazioni “sul suo modo di mangiare e parlare”, non gli parlava più dei suoi studi e lui non le raccontava più storie della sua infanzia. “Lentamente” emigrava in quel mondo piccolo-borghese che la porterà a vergognarsi delle sue origini e la renderà “estranea” a se stessa. Procede lentamente nella scrittura, sforzandosi di «fare emergere la trama significativa di una vita da un insieme di fatti e di scelte», che si intrecciano col racconto del periodo storico in cui avvengono e con la vita sua e di sua madre. Fa fatica a riportare alla luce fatti dimenticati, riconoscendo di essersi “piegata al volere del mondo” in cui vive, «un mondo che si sforza di fare dimenticare i ricordi di quello che sta più in basso come se fosse qualcosa di cattivo gusto». Scrivendo riscatta la vita del padre, le sue scelte come quella di sposare una donna, sua madre, “moderna”, “anticonformista” tanto che “in paese la si trovò poco raccomandabile” e le sorelle di lui la guardavano “dall’alto in basso”. Ammira l’uomo, «alto, moro, con gli occhi azzurri, la schiena diritta, allegro, giocoso, sempre pronto a raccontare storie, a scherzare». E Il padre “sempre pronto” a portarla «al circo, al cinema, ai fuochi d’artificio, al luna park» e la compensava «ad ogni compito in classe andato bene, più tardi ogni esame» sempre con la “speranza” che lei sarebbe stata “meglio di lui”. Guarda con benevolenza il suo «terrore di essere fuori posto, di avere vergogna», la sua timidezza e l’irrigidirsi «di fronte alle persone che reputava importanti», come lo studente di Scienze politiche, futuro marito della figlia. Con la lontananza lei aveva «levigato l’immagine dei genitori» e trovato «naturali, come erano sempre stati», le «loro maniere di dire e di parlare a voce alta».

Il racconto della storia del padre, che inizia con la sua nascita (1898), si apre e si chiude con il giorno della sua morte (1967). «Ho sentito mia madre camminare lentamente al piano di sopra, cominciare a scendere. Era ancora sulla curva delle scale, ha detto “È finita”». Un bel libro che si legge tutto d’un fiato.

da Minima&Moralia

Scrivo autofiction per capire meglio le cose che mi succedono. Attraverso la scrittura cerco di comprendere quello a cui altrimenti, senza questo processo, non arriverei. Se lo avessi già capito in anticipo, non avrei bisogno di scrivere. Spesso la mia è una prospettiva microsociologica. Mi arrovello domandandomi in che modo la società influisca sul singolo essere umano. Quali forze agiscano all’interno delle famiglie, delle amicizie, delle relazioni amorose. Nella vita di tutti i giorni. Nei gesti, nei sentimenti.

Nel pormi questa domanda ritorno spesso alla mia infanzia o giovinezza, laddove insomma prendono forma i tratti decisivi che ci marcano. È un ritorno singolare, una misteriosa combinazione di ricordi vividi e gusto per la finzione. Ora, occuparsi di se stessi nel XXI secolo è una cosa tutt’altro che innocente. Viviamo in un’epoca iperindividualizzata, in cui molte persone spendono parecchio del loro tempo a “trovare” se stesse. Spesso però ci si dimentica che la conoscenza di sé non è mai stata concepita come fine a se stessa; e mi aiuta tenere sempre a mente l’imperativo sociale della massima antica «Conosci te stesso». L’oracolo di Delfi aprì la strada a molte correnti filosofiche, in primis l’umanesimo e il suo ideale: l’educazione permanente. Tuttavia, l’oracolo è stato a lungo riservato esclusivamente agli uomini. Uomini di stato che dovevano superare una crisi, ma innanzitutto giovani per la cui iniziazione sembrava fondamentale chiarirsi precocemente le idee sulle proprie predilezioni, capacità e inclinazioni. Solo così potevano trovare un posto congruo in società.

Di questo tipo di indagini troviamo traccia nei romanzi di formazione del Settecento. Leggendoli si assisteva alle avventure di uomini che trovavano se stessi, le figure femminili invece si limitavano a sostenere gli eroi nella loro evoluzione. Un esempio emblematico è il Wilhelm Meister di Goethe. A volerlo cercare, il suo pendant femminile potrebbe essere Agnes von Lilien, scritto da Caroline von Wolzogen. Wilhelm Meister alla fine trova il suo posto nella società, mentre Agnes von Lilien – lo avrete indovinato – trova l’amore… Io sostengo che il pendant femminile di un Wilhelm Meister non può esistere in questi termini. Né allora né oggi. Come potrebbe infatti realizzarsi un’educazione compiuta e “armoniosa”? Un’eroina sarà sempre in contrasto con la società, per il semplice fatto che la società è patriarcale.

Proprio per le donne, però, conoscere se stesse è di importanza vitale. È interessante quanto questo desiderio mi appaia ancora proibito ed egoistico. Non c’è da stupirsi. Fin da piccole le donne vengono educate a prendersi cura degli altri. Non certo di se stesse. L’autofiction, così come io la intendo, va ben oltre la dimensione autoreferenziale. Attraverso la scrittura, ciò che si è vissuto personalmente diviene riconoscibile come una struttura “sovrapersonale”. Inoltre, il mio oracolo non mira all’amore o alla riconciliazione, all’adattamento alle circostanze, ma piuttosto a cambiarle. Di conseguenza, probabilmente sono più vicina io all’oracolo di una volta di quanto non lo siano certi signori contemporanei…

Nei secoli l’antico appello si è spostato sempre di più sull’individuo. Lo scopo della psicologia contemporanea è lo sviluppo di una personalità autentica che permetta di condurre una vita buona e serena. Ma ci si dimentica che questo, in un ordinamento sociale capitalistico, sembra essere pressoché impossibile. Le forze esterne che ci isolano, ci separano e ci mettono in concorrenza tra noi sono troppo potenti. La felicità individuale – ammesso che la si trovi – non può né eludere l’ingiustizia collettiva né tantomeno porle rimedio.

Lungi da me condannare la psicologia. Credo che confrontarsi con la propria infanzia sia quasi un dovere civile. Avete mai visto un autocrate che va in terapia? Putin sul lettino? Trump? Orbán o Erdoğan che fanno autocritica interrogando un oracolo? Non è impensabile? E proprio a questi uomini sarebbe da augurare la conoscenza di sé, magari ne smusserebbe un po’ il carattere autoritario. Questo almeno mi suggerisce il mio senso del possibile, che crede imperterrito alla sostanziale bontà di tutti gli esseri umani. Spesso mi immagino quanto sarebbe grandioso se uno di questi uomini fosse ospite del bellissimo podcast Fashion Neurosis, in cui la stilista britannica Bella Freud (pronipote del grande Dottor Freud) dialoga con personaggi famosi dei loro gusti in fatto di moda. Sarebbe affascinante se Bella Freud potesse interpellare i suddetti autocrati sui loro look pretenziosi da cacciatori o cavallerizzi, sui torsi nudi e le catene d’oro. Su motoseghe, parrucchini e mogli trofeo.

Purtroppo, un’autorità capace di indurre un autocrate a occuparsi di se stesso in tal senso non esiste. Semplici cittadine e cittadini, invece, che della terapia hanno molto meno bisogno, sottoponendosi a regolari sedute tornano alla propria infanzia, un gesto importante ed essenziale. Ma lo sguardo resta eccessivamente rivolto al passato. Penso che il punto – e anche questa è un’idea antica – sia la misura con cui ci si occupa della propria persona. Non a caso, la seconda iscrizione scolpita sull’oracolo recitava «niente di troppo». L’oracolo dell’antichità, non a caso, custodiva un imperativo. Un invito al… movimento. Il culmine di ogni classico viaggio dell’eroe sta nel porsi al servizio della società. Questo ritorno si trova già nella Divina Commedia di Dante. Non c’era per l’eroe nessuna sofferenza, tortura o autoriflessione che non avesse precisamente questo scopo: riportare quel che ha imparato ed esperito alla società.

Tra dentro e fuori, tra lettino e società, c’è qui e oggi un vuoto da colmare. È proprio in questo punto che il cerchio sembra non riuscire a chiudersi del tutto. Mentre al singolo la propria vita pare modificabile – permeabile al processo terapeutico –, il contesto sociale sembra, invece, immutabile. Piuttosto che investire energie a sostegno di battaglie comuni, troppo grandi e apparentemente vane, si cambia ciò che si crede di poter cambiare: il proprio corpo, il proprio lavoro ecc.

Penso che la stragrande maggioranza dei mutamenti sociali comincino di fatto nella sfera privata, nell’emancipazione del singolo. Non devono però fermarsi lì. Un mezzo capace di avviare cambiamenti, sia dentro che fuori, è la letteratura. Esistono libri dopo i quali non è più possibile ritornare alla vita di prima. Ciò che abbiamo letto ci tocca talmente nel profondo che non possiamo più restare attaccati alla nostra vecchia identità. Alcune lettrici, dopo aver letto Bugie su mia madre, mi hanno scritto che era stato il mio libro a spingerle a lasciare il marito. Il matrimonio, «la più piccola unità sociale», come la chiamava sempre mia madre, per moltissime donne è ancora un luogo di impressionante mancanza di libertà.

Un solo personaggio può diventare un modello per tutti gli altri. «The function of freedom is to free someone else». «La funzione della libertà è quella di liberare qualcun altro» ha scritto una volta Toni Morrison. Se c’è qualcosa in cui voglio credere, è questo effetto che si propaga come un’onda. Comprendere che ciò che causa sofferenza non è connaturato al proprio essere, percepito come sbagliato e difettoso, ma è insito in alcune strutture sociali, ha qualcosa di estremamente emancipante. Una scrittrice scrive per un pubblico composto da un’unica persona, «an audience of one». Al contempo, però, un libro può spingere a creare comunità. «Al rifiuto della solitudine» come ha detto una volta Spinoza.

Guardando ai diritti delle donne si riesce a comprendere la libertà di una società nel suo insieme. Nel XXI secolo sarà cruciale concepire la libertà non più come qualcosa di essenzialmente negativo, bensì come libertà positiva. Come donna, oggi ho in mano più possibilità e strumenti che in qualsiasi momento storico precedente. Devo sfruttarli prima che lo spazio sociale, che altre e altri hanno conquistato senza risparmiare sangue e coraggio, si chiuda di nuovo.

da RivistaStudio

Nel 2005 lo scrittore Ian McEwan ha deciso di liberarsi di una buona parte della sua biblioteca personale. Con il figlio ha portato pile di romanzi in un parco non lontano da casa per darli via ai passanti. È rimasto sorpreso nel vedere che le donne erano quelle più interessate alla narrativa che stava regalando. Diverse donne si sono portate via anche due o tre volumi. Molti uomini invece dicevano: «No, non fanno per me». Dopo questo episodio ha scritto: «Quando le donne non leggeranno più, il romanzo morirà».

Il Guardian qualche anno dopo, nel 2019, ricordando la frase di McEwan, titolava un pezzo “Senza le donne il romanzo morirebbe”, riportando i dati ufficiali secondo cui le donne compravano più narrativa degli uomini, escluse le categorie fantasy, science fiction e horror. E magari nel frattempo dopo il ripescaggio e la trasformazione in “filosofe” di Octavia Butler e Ursula K. Le Guin, si potrebbe vedere se il mondo maschile si è perso un’altra di queste categorie. E anche l’horror e il weird nel frattempo sembrano più femminili – dopotutto se pensiamo a Frankenstein… – e basta vedere un importatore chiave del genere, Mercurio Books, notando quanto le voci di punta tradotte siano donne. Il romanzo diventa anche uno strumento attivo del femminismo, come è il caso di Margaret Atwood e del suo Il racconto dell’ancella.

Questione di genere

Un sondaggio citato nell’articolo del Guardian diceva che nei mercati anglofoni (Regno Unito, Canada e Usa) il mondo femminile acquistava l’80 percento della narrativa. Allora si diceva anche che se gli uomini, quando leggevano romanzi, preferivano quelli scritti da uomini, le donne invece «leggono e ammirano romanzieri uomini, facendo raramente giudizi di valore in base al genere».

Andiamo avanti di sei anni, cioè a oggi. “Io leggo solo romanzi scritti da donne”. Lo abbiamo sentito dire, da amiche, da parenti, da autrici pubblicate, da sconosciute che si danno un tono coi librai, da librai che vogliono fare gli “alleati”, dagli amici che ci credono davvero (forse). Per alcuni la scelta è una questione di quote rosa, cioè forzare un meccanismo facendo in modo che diventi prassi, e quindi un mondo governato storicamente da un genere viene scardinato imponendo con la “forza” finché l’imposizione non diventa abitudine (a volte funziona).

Per altre scegliere di leggere solo libri scritti da donne (più che per altri, secondo esperienza) è una questione di sensibilità. La cosa si spiega dicendo che ci si ritrova di più nella voce di qualcuna che condivide con noi sesso e/o genere perché è più semplice che ci siano cose in comune. Se usciamo dalla questione di genere, per un momento, è interessante notare come per alcuni lettori e lettrici il romanzo debba creare una situazione e una voce in cui “ritrovarsi” – quante “recensioni” sui social ci concludono con “mi ci sono ritrovato tantissimo, sarà anche che in questo periodo sto vivendo una cosa simile alla protagonista”.

Sorellanza

Torniamo al genere. Per altri la sensibilità coinvolge anche una questione politica quando si dice “leggo solo donne”, e cioè una “sorellanza”, la condivisione di uno struggle, di una sofferenza, di un esser vittime del patriarcato e del male gaze, e del mandare un messaggio, oltre che il piacere a sostenere economicamente un’artista donna. Da “Sorella io ti credo” a “Sorella io ti leggo”. Le donne che leggono donne diventano quindi anche combattenti. L’uomo bianco etero che prova a inserirsi in dei ranghi simili fallisce. Jonathan Franzen ha provato a intitolarsi una guerra – cioè quella contro i gatti che mangiano gli uccellini – risultando ridicolo.

Uno dei problemi è che di fronte a chi dice “leggo solo autrici donne” rispondere con “a me non importa, mi interessa solo che il libro sia scritto bene”, appare simile al “la destra e la sinistra sono idee superate” (che è una frase di destra). Così come “leggo solo autrici donne” è vista come una frase progressista, mentre “leggo solo autori uomini” (non conosco nessuno che l’abbia mai detto, se non con senso di colpa) è una frase che appare provocatoria. È il classico paradosso della minoranza, che si basa ovviamente su presupporti storici. Chi ha il potere, (o chi ce l’aveva) si sente in pericolo perché sta perdendo questo potere secolare, e si aggrappa ai brandelli di ciò che lo separa dagli altri e da chi lo caratterizza.

Ma torniamo – di nuovo – ai libri. Non è un caso che in risposta alle varie case editrici che pubblicano per scelta solo autrici donne, stia nascendo in Inghilterra una casa editrice che vuole pubblicare solo romanzieri uomini: Conduit Books, fondata dallo scrittore e critico Jude Cook, che non è un naziskin o un podcaster complottista novax o un fan di Andrew Tate. Cook dice che non vuole avere un atteggiamento antagonistico con la sua casa editrice, ma vuole «creare uno spazio in modo che gli autori maschi fioriscano». Nel clima editoriale di oggi, dice, la voce maschile è percepita come “problematica”, e spesso è “trascurata”, anche per via di una “scena letteraria occasionalmente tossica degli anni ’80 e ’90”.

Un correttivo, quindi. Anche perché secondo il World Economic Forum da qualche anno (2020) le donne pubblicano più libri dei maschi. Joyce Carol Oates nel 2022 scriveva su Twitter: «Un amico agente letterario mi ha detto che non riesce a far leggere agli editor gli esordi narrativi di giovani autori maschi bianchi, a prescindere da quanto siano validi». Il mercato si piega sempre. Non è un caso che esista una pagina di successo su Instagram come “Hot Dudes Reading”, come se i manzi che leggono in metropolitana fossero più rari di un canguro albino.

Il nuovo canone

Sally Rooney, Ottessa Moshfegh, Elena Ferrante, Donna Tartt, Rachel Cusk, Annie Ernaux, Hanya Yanagihara, Deborah Levy, Yasmina Reza. Ma anche Valérie Perrin e Muriel Barbery. E poi le ondate dal Giappone. Ogni autrice della lista, forse incompleta, ha avuto un momento di fandom simile a quella di una rockstar, più o meno duratura, con esplosioni e canonizzazioni, e numeri diversi di vendita, ma con un’attenzione che nessuno scrittore maschio sembra aver ricevuto nello stesso periodo storico con la narrativa. E a parte Ernaux e Levy e in parte Cusk, si tratta di romanzi duri e puri.

Il Guardian nel listone dei migliori romanzi del secolo ha messo Wolf Hall di Hilary Mantel (al secondo e terzo posto Marilynne Robinson e Svetlana Aleksievič), il New York Times ha incoronato invece L’amica geniale (secondo posto Isabel Wilkerson, terzo Mantel). E poi i ripescaggi, i revival, e le celebrazioni postume, i riconoscimenti ex post, con Goliarda Sapienza, e Natalia Ginzburg tradotta, etc etc. E poi gli immancabili book club, anche qui con grande focus femminile – pensiamo al gettonatissimo Miu Miu Literary Club (che permette agli squattrinati giornalisti culturali di sentirsi in una scena del grande Gatsby per due ore) dove si invitano solo autrici. Pensiamo alle booktoker e alle instagrammer, anche qui grande predominanza femminile. A parte con il giallo – Joël Dicker, uno tra tutti – casi maschili di esplosione simile alle autrici citate sopra ci sono stati solo con la saggistica: Yuval Noah Harari, David Quammen, Carlo Rovelli, e il precursore Jared Diamond.

Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere era il titolo di quel bestseller di John Gray. In effetti se guardiamo alla narrativa di casa nostra, i grandi casi recenti di successo extra-penisola riguarda M, cioè una biografona a puntate non tanto romanzata quanto scritta come fosse un romanzo (c’è differenza), tutto basato su ampia ricerca storica. Forse un trucco, che ha funzionato, per avvicinare entrambi gli emisferi, saggio travestito da romanzo, personaggificazione delle persone. E se si pensa al dibattito italiano nell’editoria, anche lì le romanziere sono sempre meno relegate al genere I leoni di Sicilia (altro caso di cui non esiste paragone maschile), e anche allo Strega sempre più spazio. E se una volta c’erano le polemiche intorno a Saviano, ora al centro, anche dopo l’addio, Michela Murgia è imbattuta.

Uomini nuovi

È interessante notare come Murgia, vincendo un premio come il Campiello con un romanzo, Accabadora, si sia poi dedicata, anche in virtù della loro natura più rapida e politica, alla saggistica – come se i nostri tempi accelerati non avessero più spazio per il romanzo come arma. Qui potrebbe esserci uno dei motivi del declino del romanzo maschile: non è più potente come un tempo. Tutto è troppo veloce per permettere alla narrativa di cambiare il mondo. Tra gli altri motivi della femminilizzazione del romanzo ci potrebbe essere del sano bovarismo di ritorno, certo, o mai sopito – si è passati dal feuilleton, dalle Liale, dagli Harmony fino al romance, ma quella è un’altra categoria di lettori. Oppure, come ha scritto una giovane giornalista sul Washington Post: gli uomini fanno schifo e quindi le donne si cercano dei “fidanzati” nei personaggi dei romanzi, che possono essere “perfetti”, a differenza di quelli reali. Il «book boyfriend è rispettoso e ti ascolta, e non devi pregarlo di buttare via la spazzatura».

Il New York Times la scorsa settimana ha pubblicato un pezzo con il titolo: “Perché sono scomparsi gli uomini che leggono i romanzi?”. Non si dà una riposta, ma si parla di gruppi di maschi che provano a mettere su un book club per tornare al romanzo, e di editori che dicono: il vero nemico sono i videogiochi e lo streaming. David J. Morris, professore dell’università del Nevada, l’anno scorso sempre sulle pagine del Times, azzardava una soluzione: c’è una regressione emotiva, culturale e di scolarizzazione del maschio americano. Preoccupato si chiedeva: «Cosa succederà alla letteratura, e quindi alla società, se gli uomini non sono più coinvolti nella lettura e nella scrittura? Le fortune di uomini e donne sono interconnesse».

Ad azzardare in un’ottica marxista la questione, si potrebbe pensare che uno dei motivi della fine del dominio maschile sul romanzo letterario e della supremazia femminile sia il fatto che da tempo si pensa solo in ottica iper-funzionale. Il nuovo uomo-tipo (non certo la bolla di giornalisti culturali e gente dell’editoria) è stato addestrato dai fondatori di start-up a dormire poco e a far fruttare ogni ora del giorno per fare il loro salterello di carriera (simile allo zuccherino dato ai cavalli da soma per non farli fuggire dalla stalla). Questa nuova piccola borghesia prevalentemente maschile, che un tempo leggeva, non lo fa più come i suoi antenati novecenteschi.

Si fa fatica a leggere, sempre di più – questo lo dicono i dati dopo dieci anni di uso degli smartphone – e l’intrattenimento è limitato a Netflix, che tra l’altro permette allo stesso tempo di scrollare o rispondere alle mail o ordinare su Deliveroo o comprare su Amazon usando un altro schermo. E così se proprio si deve leggere, con la fatica che si fa, che si leggano libri utili, funzionali, per la propria carriera. Libri dove si impara qualcosa, roba come Le 7 regole per avere successo, Il potere di adesso o Come trattare gli altri e farseli amici (non sapendo che tutto questo si può trovare in Bel Ami).

da il manifesto

Un percorso di saggi recenti ripercorre la vita e i testi della femminista autrice di “Sputiamo su Hegel”. A proposito dei volumi di Annarosa Buttarelli, Linda Bertelli, Marta Equi Pierazzini e Silvia Cucchi

«E su questo vuoto, che era me stessa, potevo finalmente ascoltare la mia voce interiore. Una volta respinte tutte quelle autorità da cui si può essere tentati di trarre la propria identità». In una intervista di Michèle Causse datata 1976, ora inserita in È già politica a cura di Maria Grazia Chinese, Carla Lonzi, Marta Lonzi e Anna Jaquinta (Rivolta Femminile, 1977), Carla Lonzi precisa cosa sia stato il pungolo all’origine del gruppo femminista di cui faceva parte: «allontanare tutte le suggestioni culturali, soprattutto quelle più insospettabili». Un passaggio ineludibile, perché chiarisce quanto quella laboriosa «tabula rasa» che alla fine degli anni Sessanta Lonzi allestisce e poi in seguito intraprende come elemento del suo metodo incarnato non sarebbe stata possibile senza la relazione con Rivolta Femminile, senza le relazioni con altre donne. In quegli anni Settanta della scoperta del femminismo, erano in molte: da Carla Accardi ed Elvira Banotti alla stessa Chinese e Laura Lepetit insieme alla sorella di Carla Lonzi, Marta.

Generazioni di donne, da un capo all’altro del mondo, studiose, attiviste, artiste e teoriche vengono ancora oggi interrogate da Carla Lonzi, là dove molto già abbiamo potuto scambiare del suo pensiero a cominciare proprio dalle edizioni originali di Rivolta Femminile, grazie alla Libreria delle Donne di Milano che, prima dei progetti editoriali di riedizione da parte di Et al. cominciati nel 2010 e quelli più recenti della Tartaruga, le ha rese disponibili alla distribuzione e alla vendita. Del resto, già Maria Luisa Boccia nel suo Lio in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi (La Tartaruga 1990) segnava un percorso inaggirabile interno alla storia del femminismo italiano, prova ne sono anche adesso numerosi lavori che intorno al profilo della teorica e femminista fiorentina (1931-1982) si sperimentano e diffondono.

I risultati sono ottimi e insieme a ormai ampi apparati bio-bibliografici abbiamo anche occasione di leggere saggi le cui autrici hanno avuto accesso alle preziose carte del Fondo Lonzi (avviato nel 2018 presso la Gnam di Roma e ora depositato alla Fondazione Lelio e Lisli Basso, consultabile da chi ne fa richiesta). Ne sono prova tre volumi: il primo è Carla Lonzi, di Annarosa Buttarelli (Feltrinelli, pp. 105, euro 16) che, nell’ambito della collana Eredi, mostra quanto sia cruciale osservare la parabola lonziana in una più ampia genealogia critica e appassionata di riferimento, ancora oggi trasformativa e rivoluzionaria. Il secondo volume è di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini e si intitola Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi (Moretti&Vitali, pp. 238, euro 18), un saggio di due ricercatrici che, come Buttarelli, si misurano da anni con i testi di Lonzi individuandone, in questo caso, un ordito articolato di spunti politici ed esperienziali. Il terzo è di Silvia Cucchi, Storia di unambivalenza. Sul diario di Carla Lonzi (Ets, pp. 208, euro 20) in uscita in questi giorni ed è l’esito approfondito, anche questo con anni di ricerche alle spalle, su quella straordinaria impresa che è stata (e ancora non ha eguali): Taci, anzi parla. Diario di una femminista.

«Scrivere, esprimermi per me, significava raccogliere tutti i brandelli che lasciavo qua e là e ricollegarli l’uno con l’altro, ritrovare un’articolazione di momenti, una specie di completezza». Il 3 ottobre del 1972, Carla Lonzi affida a una pagina del suo diario uno dei numerosi ragionamenti sullo scrivere che è stato anche l’avvio di un seminario a Livorno su progetto di Laura Fortini e organizzato dalla Società italiana delle Letterate insieme allassociazione Evelina De Magistris nel febbraio del 2017 dedicato proprio a Lonzi scrittrice, “Non può essere perduta questa parola”. Il rilievo è a quelli che vengono ora chiamati numerosi registri, soprattutto nel diario, e che segnano (poesie, lettere, frammenti, sogni, cronache) il modo intransigente e libero di fendere sé stessa fino a essere ancora viva e presente nel mondo. Cominciato nel 1972 e concluso nel 1977, Taci, anzi parla è uno degli oggetti più affascinanti, disturbanti e ancora aperti, del femminismo italiano e non a caso è al centro dei volumi dedicati all’autrice.

Come tutti i documenti ad alta densità, esperienziale e politica, è fucina di emersioni a tratti capaci di interrogare anche il presente, nonostante gli anni trascorsi, percorrendone nuove intersezioni, perimetrandone di ulteriori. Pensiamo solamente alla restituzione di cosa significhi oggi un’autocoscienza separatista, le sue conseguenze, o cosa indichi il fare ordine su una radicalità sovversiva che è stata, per Lonzi, la scommessa di una intera vita: la sua. Dalla differenza sessuale alla malattia, dalle relazioni con gli uomini a quelle con le sue compagne, tra cui non si può dimenticare di nominare Sara, ovvero la Tuuli Tarina che firma Una ragazza timida, del 1973, fino alla coscienza politica di non poter più tornare indietro da quel “fuori luogo” che aveva scelto di abitare.

Pubblicato per la prima volta per gli scritti di Rivolta Femminile nel 1978, la circolazione di Taci, anzi parla ritorna nel 2010, in due volumi, grazie al progetto di ripubblicazione voluto dalle edizioni Et al. (che dal 2010 al 2012 ha dato alle stampe cinque volumi, insieme al già citato diario: Sputiamo su Hegel e altri scritti, con una postfazione di Maria Luisa Boccia; Autoritratto con la prefazione di Laura Iamurri; Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra e il postumo Scritti sullarte, a cura di Lara Conte, Iamurri e Vanessa Martini). Ora Taci, anzi parla (di cui ha scritto su Alias D Michelina Borsarsi il 23/03/2025) è ancora una volta disponibile per La Tartaruga che da qualche anno, grazie a Claudia Durastanti, ha puntato sulla riedizione degli scritti di Lonzi a cura di Annarosa Buttarelli: Sputiamo su Hegel esce nel 2023, Autoritratto un anno dopo e, pochi mesi fa, il diario.

La domandache giace al fondo dei volumi recenti dedicati a Lonzi, come di quelli usciti in questi anni (tra tutti citiamo l’eccellente di Giovanna Zapperi, Carla Lonzi. Unarte della vita per DeriveApprodi nel 2017) sembra essere la stessa, basterebbe forse guardare la foto che la ritrae da bambina e che Bertelli ed Equi Pierazzini inseriscono nel loro magnifico volume: una giovanissima Carla appare frontale e gli occhi sono gli stessi, inquieti eppure fermi, di chi ancora non sa che morirà di cancro a cinquantun anni e che pure porta già con sé tutta la profondità spiazzante di un desiderio. È un innamoramento che leggiamo nel futuro al di là, un pegno d’amore come quello assicurato alla non sindacabile inclinazione delle “sue” mistiche fin dagli anni del collegio. Ed è una festa del cuore che le arriva dopo aver compreso quanto la critica d’arte non facesse per lei e di quanto il concetto di inferiorizzazione avesse oppresso le donne per millenni. Gli occhi non possono che essere già spalancati, in quel viso minuto che possiede il nocciolo di ciò che diventerà. E di tutta la fatica di una primogenita. Non solo nella sua famiglia di origine ma nel suo gruppo di autocoscienza.

Tra i primi fondati alla fine degli anni Sessanta insieme a Demau e Anabasi, Rivolta Femminile e l’esperienza di chi ne ha fatto parte è ben raccontata, a più riprese, senza inutili romanticismi. E senza indugiare troppo, sia pure dentro una esperienza che sì è ancora condivisibile. I volumi recenti dedicati a Carla Lonzi la rappresentano bene, in mezzo ai corpi e alle storie che dispiegano quanto ancora irreparabile sia la rammemorazione, la vita stessa, questa tela nel suo movimento del “fare e disfare”, come lo chiamerebbe Manuela Fraire. La forza incrollabile e sofferta per la verità di una parola che non può che essere in presenza, storicamente e materialmente non consumabile. Non è eterna eppure non può essere perduta, soprattutto in tempi infelici e di morte come questo che stiamo attraversando.

da Alias Domenica, l’inserto culturale del manifesto

Ho preso la pratica politica delle donne
come forma simbolica che mi permetteva la scrittura.
(Luisa Muraro)

Mi ha lasciato stupito, stupito e coinvolto, ciò che Luisa Muraro ha raccontato di sé in una lunga serrata conversazione con Clara Jourdan che risale al 2003 e solo ora è pubblicata integralmente nei Quaderni di Via Dogana (Esserci davvero, Libreria delle donne, Milano, pp. 244, euro 15,00). Lo stupore è venuto dal modo interrogativo con cui Muraro riferisce del suo itinerario intellettuale e delle scelte esistenziali attribuite a una sua disposizione ad affidarsi alle occasioni, agli incontri più che a una progettualità fermamente perseguita. Cosa che a prima vista contrasta con l’immagine pubblica di leader del femminismo, che negli anni sessanta e settanta ha impresso un segno profondo nella società italiana. «Per me – dice – è stato difficilissimo orientarmi, decidere, capire, risolvere i problemi dentro, risolvere quelli fuori». Si riferisce soprattutto agli anni giovani, difficili per tutti, in particolare per chi porta in sé un bisogno di capire e di esserci, ma avvertendo l’interlocutrice che ora vuol giocare a carte scoperte, che quel suo affidarsi a chi «ha l’aria di sapersi orientare» è costitutivo di sé, è il suo modo di stabilire la relazione non senza una buona dose di egocentrismo.

Né è solo questione di persone (di volta in volta Bontadini, Fachinelli, Grazia Cherchi, Lia Cigarini), ma anche di ciò che queste portavano con sé: la filosofia, la psicanalisi, la politica, infine il femminismo, usati come interfaccia tra sé e la realtà per pensare e scrivere, che per lei è da sempre un bisogno primario. Cosicché, «Era il cattolicesimo? Andava bene il cattolicesimo, a certe condizioni, che non si sono realizzate. Era il comunismo? Poteva essere il comunismo, a certe condizioni, che non si sono realizzate. Per finire è stato il femminismo, a certe condizioni che si sono realizzate. È questa la logica esistenziale mia. Cercare le condizioni entro cui io potessi pensare e scrivere». Una logica che ella stessa scopre come «il punto cieco» di una biografia che rischia un esito nichilistico (lasciare che sia l’altro a «portare il peso della cosa» garantendole l’indispensabile appoggio simbolico), se non si arriva a chiarirlo dipanando il filo lungo degli interessi, degli scritti, delle azioni, ma innanzitutto prendendo atto di un suo modo di esserci e di pensare che scopriva estraneo alla cultura dominante dell’oggettivazione.

Capire Luisa Muraro non è agevole; d’altronde a leggere questo tentativo autobiografico non lo è neppure per lei stessa, che ha la saggezza di non provarci. Non cerca di mettere in fila le cose, di stabilire un ordine a posteriori, di spiegarsi spiegando in prima persona l’enigma di un’esistenza. Preferisce parlare della sua passione dominante: «Io sono una che scrive sempre». Ne è testimonianza questo stesso volume che per più di metà è occupato da una Bibliografia che dà conto di un profluvio di libri, saggi, articoli, interviste, traduzioni e inediti. Su questa passione e le sue ambiguità lei ragiona (aveva puntato dapprima a «entrare nel mondo degli uomini», convinta che solo esso le avrebbe consentito di pensare e scrivere). Ne cerca il significato non solo in termini personali; fa del suo caso un esempio di strategia comune a molti di «tentare di rigiocare sul piano della cultura umana qualcosa che è andato male», lo si faccia con l’agire politico o con il lavoro culturale o col fare famiglia o, nel suo caso, con lo scrivere libri.

Libri che sono in gran parte scritture su donne vissute al confine di un altrove e ciò che questo ha significato e significa per il bene dell’umanità. Così è stato con La signora del gioco, quella prima occasione in cui le è riuscito di dare a una vicenda di caccia alle streghe la forma simbolica della pratica politica delle donne e, a seguire, con Guglielma e Maifreda, una «storia di grandezza femminile finita tragicamente», in cui l’autrice si è autorizzata a dare spazio all’immaginazione per supplire a quanto non è documentato, nel convincimento che sottoporre a tensione le regole del lavoro storiografico, dando spazio all’immaginario, a certe condizioni lo arricchisce. Libro che per lei ha segnato altresì l’inizio di un lungo viaggio nel territorio della mistica, sostenuta dal convincimento che la libera ricerca di Dio fosse «forma di libertà femminile nell’Europa premoderna, ma anche nella scrittura femminile moderna e contemporanea», culminato con lo studio dedicato alla «filosofia mistica» di Margherita Porete.

Un saggio, questo, che a suo tempo ebbi il torto di non capire a fondo per essermi arrestato di fronte all’evidenza della perdita nella modernità di quanto aveva sostenuto l’esperienza spirituale di Margherita Porete, e dunque il venir meno delle condizioni culturali perché a una siffatta esperienza sia ancora riconosciuto un valore per l’insieme della vita sociale. Mentre è pur vero che nel passaggio dall’universo medievale a quello moderno la letteratura mistica ha seguitato a informare sotterraneamente una scienza altra da quella dominante, per dire ancora l’indicibile seppure slegato dalla scienza teologica. Cosicché, come aveva ben mostrato Michel de Certeau, motivi mistici sommersi hanno seguitato a emergere nelle discipline psicologiche, filosofiche, psichiatriche, romanzesche contemporanee e, certo, particolarmente nel linguaggio delle donne, nutrendo ancora la capacità di accogliere ciò che eccede la pretesa di totalità dei saperi costituiti. Un «niente» che non è perciò meno reale. Quell’infinitamente piccolo che per Simone Weil fa la differenza nel modo di concepire la vita sociale a tutti i livelli e che ha condotto Muraro a tentare la difficile via di dire Dio in una lingua altra da quella del possesso, la lingua de «l’umanità che sa che l’essenziale non è nulla che possiamo produrre o conquistare o possedere, ma solo aspettare e ricevere». Una «teologia favolosa» che negli scritti di tante donne, ma non solo, ha trovato esiti sorprendenti quanto liberanti, coniugata con la fede o fiducia nella possibilità di dare forma al desiderio dell’impossibile, nel convincimento che «dire la verità ed essere buoni sono scommesse che siamo destinati a perdere, ma tali che, spinte fino in fondo, perdendo si guadagna».

In definitiva è alla ricerca di un altro pensiero teologico ed etico – attestato negli anni che hanno seguito l’intervista da Il Dio delle Donne e da Al mercato della felicità –, cioè di una scienza altra rispetto a quella praticata dalla cultura moderna, che Luisa Muraro si è mossa, provenendo, come lei ricorda, «da una formazione mista di religione patriarcale e di cultura agnostica». Una «teologia in lingua materna», portatrice di parole ed esperienze non più isolate nello specialismo; messe al riparo dall’universalismo astratto, affinché «possano stare nella nostra mente come il pane sulla tavola: preziose e comuni». E un’etica del desiderio impossibile, pari a quello della vecchia filatrice di lana che va al mercato per l’acquisto di quel che la pochezza dei mezzi non le consente, e che tuttavia non viene meno nel convincimento fermo che «c’è altro», su cui non ci si deve stancare di puntare.

Sono questi, mi sembra, gli scritti che consentono di misurare al meglio gli esiti a cui Luisa Muraro è pervenuta grazie a una capacità di movimento, di messa alla prova di sé nelle situazioni date, fino all’incontro con quel femminismo «sorgivo» che le ha permesso di scrivere. Ma non è stata questione di nichilismo, quanto di riconoscimento che il femminismo le consentiva finalmente di dar forma al desiderio di riuscire a pensare il rapporto tra l’io e l’altro, tra soggetto e oggetto, tra interiorità ed esteriorità, tra corpo e anima, cioè precisamente tutto quanto la «cultura alta» a cui aveva inizialmente ambito ignora per non rischiare di doversi misurare con l’impensato.

(*) Pubblicato su Alias Domenica, l’inserto culturale del manifesto con il titolo “Muraro, per un teologia in lingua madre”

da L’Altravoce il Quotidiano

Una donna è uno dei primi libri di Annie Ernaux, scritto dopo la morte della madre solo dopo aver superato il terrore di scrivere «mia madre è morta» e aver potuto guardare le sue fotografie. È sulla donna che era sua madre che vuole scrivere, sull’unica donna che abbia davvero contato per lei. Lo fa per sottrarla all’oblio e restituirle una storia, una vita, tornando con la scrittura a vivere con lei, insieme a lei, in un tempo e nei luoghi in cui era ancora viva, per restituirle “verità” e, a sua volta, “metterla al mondo”. «Vorrei cogliere la donna che è esistita fuori di me, la donna reale, nata in un quartiere contadino di una piccola città normanna, Yvetot, e morta nel reparto geriatrico di un ospedale dell’hinterland parigino». Ricompone la vita della madre attraverso ricordi, memorie, immagini, gesti, parole, fotografie, episodi dentro il tempo storico e i luoghi che l’hanno vista protagonista della sua storia, iniziata con sua madre nel 1906 e conclusa con la figlia nel 1986. Una storia lunga che parla anche della figlia e del suo desiderio di libertà, lontana dallo “sguardo” materno. Storia comune a molte donne della generazione mia e di mia madre. Una madre che la figlia identifica con l’ambiente in cui è cresciuta. Rifiutare quell’ ambiente, ribellarsi alle convenzioni sociali e alle pratiche religiose, averne “vergogna”, come fa la figlia da adolescente, vuol dire allontanarsi dalla madre, “vergognarsi” di lei e lasciare il “mondo dei dominati” per quello “dei dominatori”, grazie allo studio a cui l’ha introdotta la madre. «Con l’adolescenza mi sono allontanata da lei e tra noi c’è stato soltanto conflitto».

«Mi vergognavo della sua maniera brusca di parlare e di comportarsi». «Sognavo soltanto di andarmene […], lontana dal suo sguardo». Scrivere della madre, della “bambina di campagna” a cui «piaceva leggere tutto ciò che le capitava sottomano», riconoscere la grandezza e la bellezza della donna che è stata, è un modo per riscattare quella vergogna e pagare il debito di riconoscenza e gratitudine verso la madre, del cui amore non ha mai dubitato. «Mi chiedo se scrivere non sia una maniera di dare». La ragazza giovane, bella, dagli occhi grigi, a cui piaceva leggere tutto ciò che capitava sottomano, cantava e rideva, anche molto, cui piaceva truccarsi, uscire in gruppo per andare al cinema, a teatro, divenuta madre non ha nemmeno un momento per sé e riversa le sue aspettative e desideri sulla figlia, facendola studiare. «Il suo desiderio più profondo era darmi tutto ciò che non aveva avuto lei». «Pronta ad ogni sacrificio per farmi avere una vita migliore della sua». Non c’è rancore, né alcun rimprovero verso la madre nella scrittura della figlia, ma orgoglio e ammirazione per la donna forte, energica, generosa, vivace, col sogno di «prendere in gestione un negozio di alimentari», che realizzerà e ne farà un luogo di «piacere di parlare e ascoltare». «Quante vite si raccontavano in negozio». Non idealizza la madre. «Scrivendo, vedo ora la “buona” madre, ora la “cattiva”», quella per cui «ogni occasione era buona per regalarmi giocattoli e libri», e quella che «mi dava della cagna, della stracciona, mi picchiava con facilità e cinque minuti dopo mi stringeva forte e mi chiamava la sua “bambolina”». Cerca di dare un senso a quella violenza.

«Non considero la violenza, i rimproveri, gli eccessi di tenerezza come tratti del suo carattere ma li situo all’interno della sua storia e della sua condizione sociale». È la scrittura che infine le dà la possibilità di unire la «donna demente che è diventata con quella forte e luminosa che era stata».

Un libro bello che, come tutti gli altri di Annie Ernaux, fa pensare e apre la mente. Buona lettura sotto l’ombrellone.

da il manifesto

Torna in libreria per Casagrande Bambine, il romanzo della scrittrice di origini svizzere ora in nuova edizione. Uscito per Einaudi nel 1990, al centro due sorelle che crescono all’interno di una famiglia patriarcale

Due ragazzine crescono all’interno di un nucleo genitoriale formato da un padre e da una madre; è presente un terzo figlio che morirà presto. La cittadina disadorna ed essenziale in cui si svolgono i fatti è sconosciuta, mentre la casa in cui abitano queste creature ha mura domestiche riconoscibili: una comune famiglia in cui l’esercizio del potere patriarcale comincia con grossolane prevaricazioni per poi installarsi in precisi rituali preparatori. È un luogo specifico, politicamente situato e, per questo, inconfondibile, soprattutto perché a scriverne è Alice Ceresa. Nella storia che racconta, a essere protagoniste sono due sorelle che incontriamo dalla infanzia e che, ancor prima di essere figlie, sono corpi sessuati in germinazione. Bambine, pubblicato nel 1990 per Einaudi, quando Ceresa era ancora in vita, ritorna ora disponibile nelle edizioni Casagrande (pp. 142, euro 20) grazie alle attente cure di Tatiana Crivelli che, oltre alla postfazione, aggiunge in appendice al testo ceresiano una intervista che Francesco Guardiani ha fatto alla scrittrice (Basilea 1923-Roma 2001) per la “Review of Contemporary Fiction” nell’autunno del 1991.

Quando il romanzo di Alice Ceresa fa la sua prima comparsa editoriale, chi aveva già avuto modo di frequentare la sua scrittura, eccezionale ed eccentrica, ne riconosce subito il segno più esteso. Sarebbe sufficiente leggere la conversazione avuta con Maria Rosa Cutrufelli apparsa nella rivista “Tuttestorie” (n. 1, 1991) in cui, con la misura generosa del confronto di due femministe e scrittrici, viene esposto il passaggio attraverso cui da un capolavoro come La figlia prodiga (Einaudi, 1967) arriva, molti anni dopo, a Bambine. L’arco temporale è qui importante, non solo per segnare ciò che poi Ceresa licenzia per la pubblicazione, ma perché la categoria del tempo è fondamentale, sia in ragione della costruzione delle sue parabole che della descrizione dell’inizio di tutto (ovvero la famiglia) e della sua fine (ovvero il congedo dal patriarcato).

Esiste tuttavia un tempo incarnato anche in Bambine, come accade in La figlia prodiga (ora nuovamente disponibile grazie alla edizione critica che Laura Fortini ha curato con sapienza per La Tartaruga nel 2023) e in La morte del padre (“Nuovi Argomenti”, n. 62, 1979; poi edito da Et al. nel 2013 con una nota di Patrizia Zappa Mulas; infine per La Tartaruga nel 2022), che non ha connotazioni intimistiche bensì è la marca di ciò che per Ceresa indica la «vita» – alla voce dedicata nel suo postumo Dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo, 2007 e 2020, a cura di Crivelli): «lo spazio di tempo nel quale gli organismi deperibili svolgono le loro funzioni organiche». In altre parole, anche per le figlie, le madri al pari dei padri, i fratelli – tutte le funzioni senza nomi propri che Ceresa convoca nei suoi testi per confermare la famiglia come cellula amministrativa foriera di violenza e contraddizioni – «la vita serve pertanto per sopravvivere».

Quale sia il tempo storico per Alice Ceresa è questione altrettanto non eludibile, perché La figlia prodiga è un libro politico incardinato senza equivoci in quegli anni che in Italia, e a Roma in particolare, per Ceresa hanno rappresentato la scoperta del femminismo, dei movimenti e di tutto ciò che la scrittrice sceglie di non abbandonare mai. Le radici dell’albero dell’inuguaglianza, pervasive, difficili da svellere una volta per sempre, vanno dapprima osservate, poi esaminate e decostruite. Per finire l’impresa, ad Alice Ceresa mancava la parte relativa all’apprendimento che si acquisisce nell’infanzia. Sceglie di farlo nello specchio di due bambine che sono sorelle e che, a differenza di molte altre loro piccole simili nella letteratura, non vivono in solitudine. Se La figlia prodiga era il gesto rivoltoso – perché parlava da un «sé», e rivoluzionario – perché capace di rivolgersi a un «noi», di una donna che scopriva la complessità di una liberazione anzitutto dal dover aderire al dettato impostole, consapevole di pagarne un prezzo molto alto, in La morte del padre la fine biologica e concettuale di un patriarca non è pacificamente sovrapponibile alla perdita paterna.

In Bambine si assiste all’origine del processo che tuttavia, insieme alle due sorelline che diventeranno adulte, determina una serie di interrogazioni: sarà una “iniziazione”, o sarebbe meglio parlare di “apprendimento” o forse solo di “inventariazione”? Sono alcune parole che ritornano nei preziosi materiali preparatori della edizione del 1990 – ora nel Fondo Ceresa depositato all’Archivio svizzero di Letteratura di Berna che Tatiana Crivelli ha consultato e studiato, rintracciandone alcune traiettorie utili per comprendere al meglio l’officina gestazionale della scrittrice. Taccuini, lettere, elenchi, lacerti e parti di articoli che confermano la straordinaria ossessione verso la parola, per cui moltissimo Ceresa ha scritto e pochissimo ha concesso alla pubblicazione finale. Con la veggenza posseduta dalle grandi scrittrici, anche lei ha dei luoghi teorici in cui è possibile intravvedere una pionieristica visionarietà che tuttavia ha a che fare con la densità del suo pensiero, con la intersezione insita nel saper connettere i mondi, ecco perché rifuggiva le mode – comprese quelle letterarie. La libertà femminile per Alice Ceresa è una esperienza che non si baratta a buon mercato, è argomento scomodo, rimane tale in ogni sua riga, è taglio simbolico che determina spostamenti, fratture insanabili da cui non si torna indietro.

Sicuramente si può discutere di un certo grado di deperimento, come per tutte le forme che attengono qualcosa di vivente, e dunque di relativa rigenerazione sorgiva. Così anche capigliatura, denti, occhi, gesti minimi di riconoscimento reciproco, sono al centro di una prima corrispondenza indifferenziata con il corpo del padre e poi, più diretta, con quello della madre. La lezione di Ceresa sta anche in questo esercizio crudele, appreso in Bambine nella forma di un “addestramento”. Non importa chi diventeranno, sia pure il flusso dello scorrere sia anche qui soggetto al tempo del vivere. Certo è che «Ora – come scrive la stessa Ceresa a proposito del romanzo in uno dei suoi appunti – si capisce bene, immagino, il meccanismo».

dal Corriere della Sera

Mirella Serri indaga per Longanesi le fonti del pensiero meloniano

Se presero un abbaglio Gramsci e Croce liquidando il fascismo degli albori come una breve «parentesi senza fondamenti culturali e ideologici», immaginate in quali errori di interpretazione possono incorrere gli intellettuali di sinistra di oggi quando sostengono che «gli esponenti di questa destra di destra insediata a Palazzo Chigi sono solo una rozza espressione del sovranismo e del populismo». Così Mirella Serri, che in molti dei suoi libri ha scandagliato i rapporti tra fascismo e cultura, torna in libreria con un saggio sferzante nel quale sostiene che l’immagine dell’“underdog” tenuto sempre a distanza (che poi si dimostra più bravo degli altri) è solo una narrazione dietro alla quale «esiste un consistente bagaglio di ideologie e di ritualità elaborate per decenni dal movimentismo neofascista italiano». Prova allora con Nero indelebile. Le radici oscure della nuova destra italiana, Longanesi editore ad aprire gli armadi di famiglia dai quali emergono, oltre a cimeli del ventennio che fu, padri che negli anni della Repubblica hanno rielaborato in chiave «rivoluzionaria e sociale» il pensiero fascista.

Testo sacro della nuova destra sarebbe la monumentale Storia del fascismo in sei volumi, firmata da Pino Rauti e Rutilio Sermonti, dove tutto ruota intorno al «sentimento dell’onore». «Non siamo una forza conservatrice né un filone del socialismo – ammoniva Rauti –. Abbiamo una filosofia originale», che contempla sentimenti antiegualitari e antidemocratici «in nome di una visione eroica e spirituale della vita». Definirlo fascista di sinistra è però un azzardo, avendo attinto a piene mani alle dottrine di Julius Evola, teorico ultra-elitario e simpatizzante del nazismo, definito da Almirante «il nostro Marcuse».

Secondo Mirella Serri, Rauti diventa «il burattinaio del pensiero di destra più radicale» quando la sua visione del mondo si salda con quella dei «cattivi maestri» della Nouvelle Droite Française. All’epoca, Rauti lavorava a “Il Tempo” di Roma, giornale nato il giorno stesso in cui gli Alleati liberarono la capitale e quindi di forte impronta antifascista e anticomunista. Il connubio con la destra francese nacque per l’intenso rapporto con il corrispondente del giornale a Parigi, Giorgio Locchi, che pubblicamente si mostrava conservatore moderato «ma in manifestazioni semiclandestine celebrava il rito del solstizio d’inverno e una serie di altre carnevalate occultistiche». Locchi “allevò” Alain de Benoist, infondendogli la parola d’ordine: «Il mondo non sarà salvato da studiosi stanchi, ma da chi ha fatto, da sempre, leva sull’aspetto essenziale del pensiero che si fa azione».

Negli anni Ottanta, de Benoist frequentò l’Italia proponendo una «strategia metropolitana», seguendo le indicazioni di Gramsci, per la conquista dell’egemonia culturale. Insieme all’altro “cattivo maestro” francese Guillaume Faye, teorizzò la «convergenza delle due catastrofi»: da un lato la colonizzazione da parte dei popoli del Sud del mondo e dei Paesi islamici; dall’altro il declino economico a causa dell’invecchiamento della popolazione continentale e della denatalità. Unica strategia per salvarsi è sviluppare una «filosofia dell’identità», una critica radicale al multiculturalismo, al politicamente corretto, alla tendenza all’autocolpevolizzazione e alla retorica dell’alterità. Secondo Serri, quando la destra in Italia si è insediata al governo de Benoist è diventato l’astro del nuovo corso meloniano.

In anni più recenti, a Colle Oppio, fucina di elaborazione del pensiero di destra, la biblioteca si è arricchita di libri da cui attingere a piene mani citazioni a dir poco eclettiche. Così Jünger viene fatto convivere con Gramsci, il conservatore Roger Scruton con Bertolt Brecht e Pier Paolo Pasolini, Yukio Mishima con i Cantos di Pound e Saint-Exupéry con il Signore degli Anelli di Tolkien.

Infine i campi Hobbit. Fu sempre Rauti a ideare il primo, perché «la gioventù ha bisogno di idee-forza». E da lì Atreju, nome derivato dal «figlio di tutti» ne La storia infinita di Michael Ende, anche se Ende era un convinto antifascista costretto ad arruolarsi nella Gioventù hitleriana che disertò per raggiungere i gruppi di resistenza bavarese. Ma appropiarsi di personaggi che nulla hanno a che vedere con il loro progetto politico sembra lo sport prediletto delle nuove destre, sostiene Serri: Marine Le Pen si è appropriata di Olympe de Gouges, Simone de Beauvoir ed Élisabeth Badinter e Meloni, nel suo discorso di insediamento, ha evocato Nilde Iotti, Tina Anselmi e Rita Levi-Montalcini.

da il manifesto

Fra le figure più rare degli ultimi due secoli per acutezza e libertà praticata, Lou Salomé non si è mai riconosciuta in ruoli prestabiliti, in particolare per una donna, né si è votata a un solo sapere, al punto da muoversi con rigore fra filosofia, letteratura e psicoanalisi senza alcuna titubanza e riverenza di consorteria, tantomeno si è immolata a una causa, neppure a quella della condizione femminile, anche se ha avuto in sorte di essere considerata un’icona femminista. La sua storia dà conto di come l’esistere possa farsi opera spirituale e il conoscere sia unione di pensiero ed esperienza, personale e relazionale. Non a caso è proprio sul piano della reciprocità creativa, di ascendenza romantica, fra vita e spirito che Lou Salomé sfida chiunque voglia occuparsi di lei.

Una sfida accolta con passione da Susanna Mati, studiosa di Nietzsche e del suo mondo, in Lou Salomé – Amare la vita (Feltrinelli “Scintille”, pp. 352, euro 25,00). Si tratta di un volume ben riuscito per ricchezza di documentazione, anche fotografica, oltreché di analisi, in grado di far capire come Lou Salomé sia stata tutt’uno con la sua esperienza della vita. Un tutto aperto all’incontro e, al tempo stesso, in sé compiuto, visto che Salomé fu fedele sempre e solo a se stessa, libera da ogni dover essere, «mai di nessuno e sempre altrove, sia intellettualmente che emotivamente» (p. 110). Cosmopolita e individualista, preoccupata della propria personale liberazione e, per dirla con Mazzino Montinari, del culto della propria personalità (introduzione a S. Freud – L. Andreas-Salomé, Eros e conoscenza. Lettere 1912-1936, Bollati Boringhieri, 1983, p. VII), ebbe di certo una natura felice, priva di risentimento, anche grazie alla sua condizione privilegiata per censo e nascita, fino al punto davvero problematico, e per certi versi poco apprezzabile, di risultare incapace di pensare il politico, di considerare la collettività.

È questa personalità che Mati ricostruisce attraverso gli snodi cruciali del suo divenire, sullo sfondo oltretutto di un inquieto passaggio di secolo, cercando di sottrarsi al genere stilistico. Il suo libro, infatti, non è esattamente una biografia, anche se tiene per forza in conto molte notizie biografiche, né un romanzo e neppure un saggio accademico.

Il punto da cui muove è paradossalmente quello della fine, cioè il fatto che l’anziana Salomé, pochi anni prima della morte, avvenuta nel 1937, decise come dovesse essere consegnata ai posteri la sua esperienza della vita e proprio per questo selezionò e distrusse carte e lettere. Ciò che scelse di conservare sostenne la composizione del suo Lebensrückblick (pubblicato in italiano per la prima volta nel 1975 da Guaraldi con il titolo Il mito di una donna a cura di Ota Olivieri), quasi a sottintendere che la nostra biografia è unitaria solo cronologicamente e biologicamente, al punto che è il modo di metterla in parole e di scriverla a costituirne il senso, l’unica possibile verità. Un modo fra l’altro che non legittima l’immagine di Salomé femme fatale dai famosi amanti, tanto che l’unica relazione sentimentale che decide davvero di sottolineare è quella con Rilke, anche se certo riconosce l’importanza decisiva di Nietzsche e di Freud. In più va considerato che a questa radicale forma di autocensura si sono aggiunte le censure dettate ad esempio dall’ostilità nei suoi confronti, come quelle operate da Elisabeth Nietzsche e dall’Archivio Nietzsche, oppure da un eccesso di protezione, come nel caso di quelle decise da Ernst Pfeiffer, erede del suo lascito letterario.

Per tutto questo Mati può affermare che è la stessa Lou Salomé a orchestrare e scrivere la sua vita «interpretando, esaltando, correggendo, rimuovendo, passando accuratamente sotto silenzio: insomma creando» (p. 15) e costringendo chiunque decida di occuparsi di lei a stare alle sue regole. La pulizia finale sarebbe di conseguenza segno non tanto di riservatezza e discrezione, ma di poesia (Dichtung): una vera e propria creazione, inalterabile, dettata dalla consapevolezza che la vita, se spinozianamente la si ama, è di necessità scrittura, cioè «un tracciare segni attraverso i quali la vita diventa conscia di se stessa», come affermerà nell’articolo Allo specchio del 1911, che ordina amorosamente, sottraendosi cioè alla violenza della ratio, gli episodi capaci di mostrare l’essenziale che, nel caso di Salomé, può emergere in primo luogo nell’incontro con anime sorelle, vale a dire con anime che cerchino di essere, come lei, spiriti liberi e per questo tese verso la comunione, non il possesso. A loro, infatti, si lega, senza però mai darsi totalmente, sempre salvaguardando la propria autonomia pur nel vincolo della relazione. Ed è proprio attorno agli incontri decisivi di Salomé, gli stessi che si riverberano nei suoi scritti in tutta la loro polarità di emancipazione e subordinazione, che Mati sviluppa le tre parti del suo libro. Sono tre come i saperi a cui Salomé si è dedicata, cioè filosofia, letteratura e psicoanalisi, significativamente associabili alle tre grandi figure maschili della sua vita: Nietzsche, Rilke e Freud.

La prima parte, infatti, è dominata dalla figura di Nietzsche, quindi dal progetto e dall’esperienza scandalosa della Trinità, cioè la convivenza a tre con lo stesso Nietzsche e Paul Rée, cui Salomé giunge dopo l’innamoramento adolescenziale nei confronti del pastore Hendrik Gillot. È proprio la frequentazione di quest’ultimo ad alimentare il suo sviluppo intellettuale, che muove dal fare i conti con la perdita, avvertita quale tratto caratteristico della sua vita, che certo rinvia in primo luogo alla perdita determinata dalla nascita, intesa come distacco originario sul quale sono destinate a modellarsi le angosce a venire, quindi alla perdita del padre e della fede in Dio, che lascerà in lei una inesauribile vocazione religiosa. Il rapporto con Gillot, mantenuto da Salomé su un piano ideale, come molte delle sue relazioni, verrà di fatto meno nel momento in cui Gillot chiederà di sposare «la sua figlia spirituale», cioè nel momento in cui il loro incontro sarà negato dalla volontà di possesso. Uno schema destinato a ripetersi nella vita di Salomé, tanto che pure la Trinità con Nietzsche e Rée fallirà soprattutto a causa di analoghe proposte di matrimonio.

Nonostante ciò, la triangolazione resterà il modo privilegiato da Salomé di dare forma ai suoi incontri, forse la maniera che meglio le permise di fare esperienza, a un tempo, di conoscenza, amicizia e libertà. Questo accadde anche negli anni berlinesi del suo sodalizio con Rée, aperto ad amicizie importanti come quella con Tönnies, e nonostante il misterioso matrimonio bianco con Andreas, che non fu di alcun impedimento all’amore – forse davvero il più importante della sua esistenza – con il giovane Rilke, conosciuto nel 1897. È la stessa Salomé a definire romanticamente la sua storia con Rilke come Ergriffenheit, cioè una possessione, nella quale riescono a completarsi corpo e spirito, che tuttavia non può frenare il suo bisogno di tornare a se stessa e proprio tramite il congedo dall’amante. L’abbandono amoroso di Rilke pare poi inseparabile dall’apertura di Salomé all’altra sua grande passione, la psicoanalisi, quindi all’incontro con Freud frequentato inizialmente proprio insieme a Rilke, non più amante ma sempre amico.

È questo gioco mai pago di chiusure e dischiusure, in cui sono comprese anche importanti amicizie femminili come quelle con Frida von Bülow e Anna Freud, a scandire il ritmo dell’esistenza inesauribile di vita e di pensiero di Lou Salomé e anche gli scritti che l’accompagnano, fra tutti Nietzsche in Seinen Werken (trad. it. Vita di Nietzsche, a cura di E. Donaggio e D.M. Fazio, Editori Riuniti, 1998), uno dei saggi più convincenti sul pensiero del filosofo tedesco.

da il manifesto

A proposito del volume curato da Daniela Finocchi e Luisa Ricaldone per Iacobelli editore

In questi giorni scossi dalle tempeste dei padroni del mondo, che si fanno vanto delle guerre ai senza diritti e senza parola e impongono una nuova, scellerata corsa agli armamenti fino a parlare apertamente di scontri nucleari, è da accogliere con cura ogni gesto, ogni riflessione che si dedichi alla forza della pace contro la pace della forza, come Pagine di pace. Pensieri, scritti, pratiche di donne (Iacobelli editore, pp. 208, euro 17,50), ultimo esito della lunga collaborazione tra le femministe Luisa Ricaldone, già presidente della Società italiana delle letterate e Daniela Finocchi, ideatrice tra l’altro del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, dal cui Gruppo di studio trae origine proprio il volume, che raccoglie tredici interventi: Beate Baumann, Lorena Carbonara, Elisabetta Catamo, Adriana Chemello, Giuseppina Corrias, Daniela Finocchi, Valeria Gennero, Cristina Giudice, Claudiléia Lemes Dias, Natalia Marraffini, Rahma Nur, Elena Pineschi, Betina Lilián Prenz, Luisa Ricaldone.

È per certi aspetti paradigmatico della posizione delle letterate femministe, espressione della consapevolezza di quella cultura circa l’interconnessione dell’insieme sociale e naturale: «Uno sguardo al femminile sui conflitti – scrivono le due curatrici – sulla ferocia della guerra, sull’odio vendicatore coinvolge diverse dimensioni della vita, della società, dell’essere: dalla violenza del linguaggio alla nozione di libertà, dalla giustizia astratta alle responsabilità affettive, ai modi di salvaguardare la pace o crearne le premesse». Da qui la necessità teorica e pratica di attraversare gli specialismi: «L’importanza di interrogare le opere delle scrittrici, delle artiste, delle ribelli, delle visionarie riteniamo sia un’azione importante e necessaria, non certo per trovare risoluzioni definitive, ma per offrire spunti di riflessione altri. Ecco così che un gruppo di studiose e scrittrici italiane e (non più) straniere mettono a confronto prospettive letterarie e artistiche sull’esperienza delle donne nei conflitti e le possibili strategie per superarle. Letteratura, cinema, arte, politica, ambiente sono alcuni degli ambiti di riferimento in cui si muovono gli interventi».

Nella ricchezza dei materiali offerti dalle differenti “pagine”, almeno due sono gli elementi sorgivi che sotterraneamente li attraversano e alimentano.

Il costitutivo “partire da sé”, che in questo versante pratico-teorico è subito un sé “differente” e storicamente non sottomesso, è il nodo fondo su cui convergono i complessi e talvolta contraddittori legami privati e pubblici, individuali e collettivi, umano-sociali e naturali, i cui fili vanno risaliti, nominati, messi alla prova, rivoluzionati secondo una nuova logica antipatriarcale. L’altro motivo fondamentale è la messa a nudo di come la posizione patriarcale, non riconoscendo la differenza, ricorra costitutivamente alla forza per imporre ed espropriare e come, proprio per questo, se ne faccia motivo di vanto e di esaltazione. Maschilismo, diritto della forza, dominio dell’utile, disconoscimento dell’ambiente naturale, nazionalismo, colonialismo, militarismo, guerra sono esiti diversi di un’unica concezione. La società capitalistica si mostra ambiente ideale per lo sviluppo di tale logica.

Splendide, a tale riguardo, sono le parole scritte nel 1943 dalla non innocentemente dimenticata statunitense Pearl S. Buck, premio Nobel per la letteratura, attentamente commentate da Valeria Gennero: «Coloro che nutrono pregiudizi razziali sono portatori di germi di fascismo. Coloro che vorrebbero costruire un grande potere commerciale internazionale nelle mani di pochi a spese del popolo sono portatori di germi di fascismo. Coloro che sognano l’America come prossima grande potenza imperialista sono portatori di germi di fascismo. Tutti coloro che segretamente o apertamente disprezzano i diritti degli esseri umani sono portatori di germi di fascismo. Sono questi che dobbiamo scoprire e privare del loro potere».

L’irresistibile eco profetica che la lettura odierna dà loro è in realtà conseguenza del fatto che i padroni del mondo sono pronti a far affiorare la permanente natura profonda del capitalismo solo nelle congiunture di pericolo o, all’opposto, quando hanno vinto la loro guerra di classe.

Di grande interesse anche lo sguardo anti-antropocentrico di queste Pagine, attente al prendersi cura del vivente non umano, ricorrendo, magari, allo sguardo decentrato di civiltà periferiche, che smascherano la funzione predatoria anche di certa “buona coscienza” ecologica: «La giusta necessità di usare fonti rinnovabili diventa il pretesto per appropriarsi di luoghi considerati vuoti – osserva Cristina Giudice – per questo si sono progettati campi smisurati per l’energia eolica», ma, denuncia l’artista sami Matti Aikio, da lei commentata, sono invece luoghi di percorso delle migrazioni delle renne che così vengono disorientate con effetti spesso tragici, che si ripercuotono poi sull’intero equilibrio umano-ambientale.

da L’Altravoce Il Quotidiano

Annie Ernaux, Premio Nobel 2022, è una delle più grandi scrittrici del nostro tempo i cui libri in Italia sono stati tradotti e pubblicati solo a partire dal 2011 grazie a Lorenzo Flabbi e all’allora piccola casa editrice L’Orma. L’ultimo suo libro, “La scrittura come un coltello”, è una lunga intervista a lei dello scrittore franco-messicano Frédéric-Yves Jeannet, realizzata nel corso di un anno (2001-2002) via mail. Un dialogo a distanza sulla “pratica di scrittura”, sui libri pubblicati, sulla donna Ernaux, femminista di sinistra radicale, che non si pensa «mai come scrittrice, soltanto come qualcuno che scrive, che deve scrivere» perché ne sente la necessità e il desiderio. «Non aver fatto della scrittura il mio mestiere, non aver bisogno di pubblicare in fretta: posso prendermi il tempo di assecondare il mio desiderio». Scrivere a partire dal proprio desiderio la rende libera. «Molto presto mi sono resa conto che avrei potuto scrivere solo nella più completa libertà. Se ho potuto proseguire è perché ho conservato il mio lavoro di insegnante». L’interlocuzione con lo scrittore diventa un «esame di coscienza letteraria» che le dà la consapevolezza di «scrivere per incidere come la lama di un coltello nella realtà del mondo, per sovvertire con le parole le visioni dominanti» perché scrivere, per lei, è un’«attività politica», ossia «qualcosa che può contribuire al disvelamento e al cambiamento del mondo, oppure, al contrario, rafforzare l’ordine sociale e morale esistente». Una scrittura, la sua, tra «letteratura autobiografica, sociologia, storia» che fuoriesce dai canoni letterari della finzione e della ricerca del bello e fa della memoria «non quella ufficiale ma quella che ciascuna di noi costruisce semplicemente vivendo» un “documento storico” e delle sensazioni provate una fonte di realtà e verità. «Tutto – le persone, me stessa, le mie idee – mi appare, ed è, storia». «Il mio metodo di lavoro si basa essenzialmente sulla memoria che è “materiale”, mi riporta alla mente cose viste, udite, gesti, episodi con la massima precisione. Sono il materiale dei miei libri e le “prove” stesse della realtà. Cerco di produrre la sensazione di cui, per me, sono portatori l’episodio, il dettaglio, la frase. Questo vuol dire che la sensazione è un criterio di scrittura, un criterio di verità». Salvare dall’oblio «esseri e cose» di cui è stata «attrice, fulcro o testimone, in una società e in un tempo specifici» è la grande motivazione che la spinge a scrivere, un modo per salvare la sua stessa “esistenza”. Tutto ebbe inizio quando da bambina leggeva i romanzi a puntate sull’“Écho de la mode” e scriveva lettere a un’amica immaginaria, seduta sui gradini della scala, nella cucina stretta tra il bar e la drogheria dei suoi genitori. Il dialogo tra la scrittrice e il suo interlocutore procede immergendosi nei suoi libri pubblicati fino ad allora quali: “Gli armadi vuoti”, “Ciò che dicono o niente”, “La donna gelata”, “Il posto”, “Una donna”, “La vergogna”, “L’evento” “Non sono uscita dalla mia notte”, “Perdersi”, “Passioni semplici”, “L’occupazione”. Poi, ha continuato a scrivere e pubblicare senza essere «in rottura con i precedenti», ma esplorando «altri territori». “Gli anni” e “L’altra figlia” sono i due libri pubblicati dopo l’intervista e tradotti e pubblicati in Italia, a distanza di anni. È vero, come lei dice nell’intervista che «ci sono, e questo solo conta, libri che sconvolgono, aprono la mente, generano pensieri, sogni e desideri, ci accompagnano, e a volte fanno venire voglia di scrivere», come i suoi libri, che vanno letti e conosciuti. È questa la motivazione che mi ha spinta a decidere di riservare questa rubrica, a partire dalla prossima settimana e per tutta l’estate, ad alcuni dei suoi libri che mi/ci accompagneranno sotto l’ombrellone.

(L’Altravoce Il Quotidiano, rubrica “Io, donna”, 21 giugno 2025)

da L’Altravoce il Quotidiano

Non è usuale raccontare la Resistenza attraverso i libri delle scrittrici partigiane. È quello che fa Annachiara Biancardino nel suo libro Scritture partigiane – La Resistenza nella letteratura d’autrici, Stilo Editrice. Un libro originale, che invoglia a leggere o rileggere le scrittrici della Resistenza, di cui lei ci parla. Attraverso i romanzi quali L’Agnese va a morire di Renata Viganò, il Diario di Ada Prospero, Raccontiamoci com’è andata di Gina Lagorio, Tetto Murato di Lalla Romano e Dalla parte di lei di Alba de Céspedes, l’autrice analizza e interroga le forme di partecipazione delle donne alla Resistenza e i motivi che le hanno spinte a scegliere di unirsi alla lotta partigiana. Romanzi, che affondano le radici nella vita delle loro autrici, scritti tra «la grande stagione memorialistica partigiana» del dopoguerra, quando tra chi aveva partecipato alla lotta partigiana si diffonde l’«urgenza di raccontare la guerra civile» e «fissare sulla carta i propri ricordi», e «i tardi anni Cinquanta» quando «ciò che inizialmente era cronaca comincia a diventare letteratura» per «comunicare l’essenza ideologica di quella battaglia anche attraverso il ricordo delle vite che per essa si sono sacrificate». Le scrittrici partigiane ci insegnano che «la lotta partigiana non è solo una questione di eroismo militare, ma soprattutto di resistenza», «non glorificano il conflitto» ma scelgono di «descriverlo come un’esperienza umana» fatta di solidarietà tra donne, di «episodi bizzarri» come l’organizzazione di matrimoni tra partigiane e partigiani in un «clima di spensieratezza», di «scene di vita quotidiana», riunioni, conversazioni private, momenti di vita domestica come provvedere al cibo, cucinare e prendersi cura dell’altra/o, come fa Agnese, ribattezzata “mamma Agnese”. È la “Resistenza senza armi”, non violenta, comune a molte donne coraggiose che «mettono a disposizione la propria casa, accolgono e nascondono qualcuno, lo sfamano, gli prestano assistenza», esponendosi «al pericolo di una perquisizione, alla deportazione del capofamiglia e distruzione dell’abitazione». Atipico in questo panorama è il romanzo “introspettivo” di Lalla Romano. Tutte raccontano la Resistenza come “scuola di emancipazione” per le donne ed è Alba de Céspedes che narra la “frustrazione” sua e di molte donne, dopo la Liberazione, per «il mancato riconoscimento della partecipazione femminile alla Resistenza e la mancanza di una vera emancipazione». Protagoniste dei romanzi, spesso, sono le “staffette” o le “mater dolorose”, donne il cui antifascismo nasce «nel segno del lutto» dopo l’uccisione di un figlio, di un marito (come per Agnese), di un padre o di un fratello. In quanto donne vengono sospettate, più degli uomini, di tradimento col nemico, perché «ritenute più sensibili ai condizionamenti del cuore». Ed è il cuore che spinge Ada Prospero alla “pietas” verso i nemici che «restano comunque esseri umani», «perché sono anche loro dei figli di altri, ma pur figli». Scrivere per comunicare gli ideali della Resistenza alle generazioni successive è quello che spinge Prospero nel 1957 e Lagorio nel 2003, per preservare un ricordo che, per la prima, rischia di essere dimenticato e, per la seconda, distorto e cancellato dai «nuovi fascismi» che «si stagliano all’orizzonte».

Il libro si conclude con tre giovani scrittrici della letteratura “postmemoria”, nata nell’ultimo decennio del ’900. Simona Baldelli con il romanzo Evelina e le fate si ispira alla memoria della madre, Paola Soriga con Dove finisce Roma, storia di una staffetta adolescente, si ispira alle “antenate”, alle “scrittrici partigiane” e Nicoletta Verna con il suo romanzo storico I giorni di vetro. Tornare alle scrittrici partigiane, aiuta a pensare il presente.

da DoppioZero

Modernità esplosiva, sottotitolo: Il disagio della civiltà delle emozioni, è uno dei tre saggi che aprono la collana einaudiana dei nuovi Maverick: interessante novità di aprile 2025. In copertina guardiamo da vicino un occhio chiaro che a sua volta ci guarda. Il libro, tradotto molto bene da Valentina Palombi, l’ha scritto Eva Illouz, sociologa che da più di trent’anni si occupa di relazioni amorose, intimità e più in generale di emozioni. Ha iniziato a farlo con dei libri di nicchia, alcuni dei quali mai tradotti in italiano, come Consuming the Romantic Utopia: Love and the Cultural Contradictions of Capitalism, che è uscito nel 1997, quando pochi altri nel mondo prendevano sul serio le forme contemporanee del fenomeno amoroso o, se non altro, se ne occupavano. Dopo quel testo ne sono seguiti tanti altri, ma in particolare due degni di nota: Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi (che in italiano è uscito la prima volta nel 2007, per Feltrinelli) e Perché l’amore fa soffrire (2013, Il Mulino – parlo sempre della pubblicazione italiana numero uno). Per chi si appassioni ai temi e alla mente di Eva Illouz esistono svariati saggi da recuperare, ma vale la pena di chiamare in causa questi tre perché Modernità esplosiva ne costituisce l’ultimo atto. Tutte le domande che Illouz si è fatta in questi anni al riparo dell’accademia esplodono ora in una questione di dominio (felicemente) pubblico: il malessere che proviamo è una «conseguenza inevitabile della modernità»? O anche: «In quali modi la modernità – un concetto vago e complesso – si è manifestata nella nostra vita emozionale»?

La tesi di Illouz è che le emozioni non si formino «nel sé più di quanto il linguaggio risieda nel sé». In breve, le emozioni rappresentano raffinati codici di reazione all’ambiente che sono, però, meno istintivi di ciò che crediamo. Questi codici vengono di volta in volta ridiscussi e forgiati dai cambiamenti della società e sarebbe un errore interpretarli sempre nello stesso modo, privatamente, come identiche reazioni animali a uno stimolo esterno, senza adattare lo sguardo allo stile della civiltà in cui si stanno manifestando. Per questa ragione, delle emozioni non si devono occupare solo gli psicologi, ma pure e soprattutto i sociologi. Se stiamo male, oltre a lavorare su noi stessi, possiamo cercare di capire quello che non dipende da noi. Infatti, come scrive Illouz nelle sue pagine inaugurali: oggi «la nostra psiche soffre di un eccesso di auto-attenzione emozionale, come se il nostro obiettivo collettivo consistesse oramai semplicemente nel “sentirsi bene”. Se questo libro ha un’ambizione è quella, paradossale, di aiutarci a distogliere lo sguardo dai nostri sé emozionali».

In effetti, da Intimità fredde in avanti, Illouz è sempre più critica verso certe derive consumistiche della società terapeutica, ma il saggio va da un’altra parte, e quest’altra parte è precisamente guardare come le emozioni si sono trasformate nella società moderna fino ai giorni nostri.

Che cosa vogliono dire le emozioni adesso? E quali emozioni si nascondono sotto i dati?

Se la speranza, per esempio, ha dato luogo alla coloritura prevalente dei tempi moderni, ora non è più vero. Se siamo meno speranzosi è perché aumentano le disuguaglianze, le istituzioni democratiche sono in crisi, la tecnologia ci estrania della nostra vita quotidiana, e poi il lavoro è precario, così come sono inaffidabili relazioni sentimentali e matrimoni.

Può sembrare un cammino pessimistico e sconfortante, in realtà è l’opposto: Eva Illouz oppone ai «sé emozionali» dei “noi emozionali”. Che effetto fa? Alla fine della lettura ci si sente meno soli, perché le emozioni che siamo soliti introdurre con un: “io provo” o con un: “io sento”, sono invece diventate oggetti collettivi in qualche modo esterni alla psiche, oggetti di studio più interessanti che spaventosi. Leggendo il saggio si cambia prospettiva. Il «disagio delle emozioni» si rivela una mappa utile a indicare quali sono gli aspetti della società che potremmo voler trasformare, così da provare insieme emozioni migliori. È un po’ la differenza tra temere di avere una brutta malattia e mettersi a studiare cellule impazzite con la strumentazione più adeguata. Se ne ritrae un conforto di tipo intellettuale e non psicologico, unito alla curiosità rispetto a un oggetto che quando appariva generico ci metteva più ansia – sempre a proposito di stati d’animo.

Tra le tante cose che Eva Illouz ha messo a punto negli anni, affinando il suo stile, ce n’è una che nel saggio salta particolarmente all’occhio ed è l’utilizzo della letteratura come materiale sociologicamente rilevante, tanto più nello studio delle emozioni; quindi, le pagine sono una miniera di riferimenti e immagini prese dai romanzi, per lo più dai classici, ma non solo. La densità è elevata, il materiale infiammabile. Così come il titolo, che si spiega pensando alla mescolanza esplosiva di emozioni intense in confitto tra loro. Nelle pieghe degli esempi e dei ragionamenti, tipico dell’autrice è seminare delle definizioni particolarmente memorabili, come quella che dà dei romanzi, che sarebbero: «il luogo in cui la mente si aggiorna su chi sente una data cosa, dove e perché» o delle emozioni stesse che sarebbero: «momenti stilizzati di essere». Le emozioni sono diventate progressivamente più importanti perché, secondo la sociologa, nella contemporaneità sono sempre legate al lavoro di autodefinizione di sé che ciascuno porta avanti instancabilmente per misurare non solo come sta, ma anche se è un fallito oppure no. Se fino a qualche decennio fa le emozioni individuali erano schermate dall’educazione del carattere a certi valori morali, ora che questo apprendistato caratteriale è in declino, sono le emozioni a dire di noi quanto la nostra vita sia realizzata o mancata: se stiamo bene, siamo vincenti, se proviamo emozioni negative ecco che si misura un primo grado di fallimento da riparare con una cura. Per dirlo con le parole di Illouz: «La realtà diventa così intensamente emozionale, si trasforma in una serie di transazioni emotive che possono rivelarsi esplosive, proprio perché il contenuto della vita emozionale è diventato il principale fondamento della realtà e l’oggetto stesso di queste transazioni. Le emozioni sono diventate la realtà degli individui e il loro campo di battaglia, ciò che si sforzano di plasmare e controllare e ciò per cui lottano con gli altri».

Le emozioni che la sociologa scandaglia sono in particolare dieci, raccolte in tre sezioni che organizzano il libro: nella prima parte, che si concentra su luci e ombre del sogno americano, si prendono in esame speranza, delusione e invidia; nella seconda è la volta di ira, paura e nostalgia, che per Illouz sono le emozioni di riferimento se si parla di nazionalismo o democrazia; infine seguono le emozioni della sfera intima, cioè la coppia di vergogna e orgoglio, la gelosia, e in ultimo quel complesso conglomerato a cui diamo il nome riassuntivo di ‘amore’. In tutti i casi la linea del tempo non è mai il mancorrente che aiuta a seguire le scale del ragionamento, l’autrice si muove con disinvoltura e rapidità avanti e indietro. In ciascun caso, i quadri letterari aiutano a intendersi sul modo in cui si scatena l’emozione oppure a portare avanti la tesi.

Un caso particolarmente emblematico di come lavora Eva Illouz è rappresentato dall’ira.

Si parte tipicamente da Achille, ma poi si ragiona su come essere arrabbiati oggi non sia per forza una ragione di orgoglio sociale: dipende. L’ira non è sempre la difesa eroica da un oltraggio morale. Se a essere arrabbiato è qualcuno che non può permetterselo, perché non ha una voce abbastanza ferma da interpretare con successo il copione omerico, l’ira collassa in una forma di vergogna, nel risentimento. E, la maggior parte delle volte, l’ira sta al confine tra la virtù e l’affermazione spesso egoistica di un io frustrato. Per questo l’ira viene definita dalla sociologa un «enigma dell’anima», perché è molto ambigua, muta di valore da una situazione all’altra, da un agente all’altro, e pure quando erompe in difesa della giustizia può trasformarsi in una violenza peggiore di quella denunciata o subita.

Una sintesi altrettanto affilata riguarda l’invidia che viene detta: «l’emozione muta». Chi è invidioso, infatti, non può che tacere il suo sentimento, perché esplicitare l’invidia verso qualcuno sarebbe come ammettere la propria inferiorità, ma soprattutto vorrebbe dire oggettivare che la vita fortunata e migliore è quella dell’altro. Chi è invidioso, per il solo fatto di ammettere che lo è, viene considerato un perdente.

Queste considerazioni non sono vere in generale, soprattutto non sono sempre state vere: dal futuro o dal passato le nostre emozioni potrebbero essere difficili da comprendere così, nel significato che hanno per noi adesso.

Nel guardare a come si sono contorte le emozioni intorno alla società e ai suoi mutamenti, Eva Illouz risolve anche dei rebus che ci aiutano a mettere a fuoco alcuni meccanismi emozionali collettivi. Prendiamo l’orgoglio, per esempio. L’orgoglio va in coppia con la vergogna perché rappresenta il suo opposto, oppure la controffensiva che la psiche mette in campo quando l’imbarazzo è troppo grande e ingiustificato. Allora è lì che subentra l’orgoglio.

Su questa emozione la sociologa fa un rilievo importante: l’orgoglio è un’emozione positiva, talvolta nazionale, in grado di portare avanti miglioramenti sociali, a condizione però che sia provvisoria. Quando si radica nel tempo, l’orgoglio si svuota del suo significato reattivo e smette di essere «quieto», l’orgoglio diventa «un’identità autocompiacente» che non è più disposta a confrontarsi con le altre. Un mite orgoglio, al contrario, è un’arma intelligente da usare contro la discriminazione, così come è avvenuto col movimento pride in tutto il mondo.

Nelle parole di Illouz le emozioni si svuotano completamente del loro valore patetico: diventano lenti per leggere il contemporaneo e la cronaca, più volte usata per addentrarsi nello spettro emotivo. Un’ultimissima cosa da sottolineare è che le quaranta pagine di bibliografia, raccolte in trent’anni di studio, sono una miniera d’oro per chiunque voglia restare in tema. La voce autorevole di Eva Illouz fa venire una grande curiosità nei confronti dei futuri nuovi Maverick.

da il manifesto

Da Hannah Arendt a Audre Lorde. Un percorso di saggi, biografici e storici. «Il vostro silenzio non vi proteggerà», di Caterina Venturini (Solferino); «Eroine», di Kate Zambreno (Nottetempo); «Filosofe», di Francesca Romana Recchia Luciani (Ponte alle Grazie)

Esiste ormai un vero e proprio filone di scrittura saggistica e biografica dedicato alle artiste e pensatrici del passato. A volte vi si riscontra anche un gioco di rispecchiamenti e rimandi tra le istanze personali delle autrici contemporanee e quelle delle eroine protagoniste. Ne è un esempio Il vostro silenzio non vi proteggerà. Una storia di Audre Lorde di Caterina Venturini, edito da Solferino (pp. 160, euro 15.50), nato in seno al progetto di podcast di Inquiete festival di scrittrici a Roma: «Genealogie».

Venturini, seguendo una delle istanze tra le più liberatorie del femminismo, quella del partire da sé, inizia la sua analisi sulla scrittrice afroamericana, raccontando il frangente nel quale si trova quando le viene chiesto di partecipare al progetto. È stata operata alla gola per un esteso tumore alla tiroide e si trova completamente afona in ospedale. Si sa quanto il tema della voce, dell’espressione, sia fondamentale per Audre Lorde che in Sorella Outsider. Scritti politici (Meltemi, 2022) dichiara: «quello che è più importante per me deve essere detto, verbalizzato e condiviso, anche a rischio di vederlo ferito o equivocato».

E infatti Venturini sottolinea che: «leggere Lorde significa trovare incarnata la frase più bella del femminismo: il personale è politico». In questo gioco di specchi Venturini non dimentica però il dato di fatto del razzismo, che non può essere ignorato dalle donne bianche che non lo subiscono e che invece «devono considerarlo una differenza biografico-politica fondamentale e dirimente».

Anche Filosofe. Dieci donne che hanno ripensato il mondo di Francesca Romana Recchia Luciani, edito da Ponte alle Grazie (pp. 240, euro 18) ed Eroine di Kate Zambreno per Nottetempo (pp. 336, euro 19.90), con la traduzione di Federica Principi, si inseriscono a pieno titolo in questo nascente genere letterario. Si tratta di due testi molto diversi fra loro, uniti in qualche modo dal desiderio di rendere omaggio a pensatrici e figure cruciali, soprattutto del ’900, la cui importanza non è stata riconosciuta, o abbastanza sottolineata, a causa di discriminazioni maschiliste.

In particolare, l’istanza di riparazione domina nel libro di Kate Zambreno che deriva dal suo blog Francis Farmer is my sister. A un certo punto, in un momento di smarrimento personale dovuto a un trasferimento a seguito del marito, l’autrice statunitense trova conforto nella lettura e si rende conto che: «queste donne esistite nel chiuso del letto, della stanza, intrappolate in casa: ecco cosa ho bisogno di fare. Raccontare le loro storie».

In Eroine è predominante, infatti, il racconto di vicende accadute a diverse scrittrici che sono state dimenticate o fraintese. Nei brani da cui il libro è composto, e che sono quelli che Zambreno nel tempo pubblicava nel blog, ritorna spesso, per esempio, la figura di Zelda Fitzgerald, il racconto delle ingiustizie che ha subito a causa della sofferenza mentale, nonché di come il suo talento sia stato trascurato se non del tutto ignorato.

Tra le pagine di Zambreno troviamo inevitabilmente anche Virginia Woolf, la cui sofferenza viene qui comparata a quella di Gustave Flaubert, con la differenza che: «a lui non dissero mai di stare in guardia dal proprio genio. A lui non dissero mai che avrebbe finito per ammalarsi». La struttura del testo composto da brani di anche poche righe permette una lettura diluita nel tempo e rispecchia il costante lavoro di ricerca, nonché la sincera spinta politica che ha condotto Zambreno alla scrittura di questo libro che è anche frutto di un’esperienza collettiva femminista online.

Molto diverso il volume di Francesca Romana Recchia Luciani, intanto per l’impianto decisamente più classico. Il testo è infatti è diviso in capitoli tutti circa della stessa lunghezza, una ventina di pagine, dedicati a grandi filosofe del ’900: Simone Weil, Simone de Beauvoir, Hannah Arendt, ma anche Lou Salomé, María Zambrano, Audre Lorde, Carla Lonzi.

Il punto di vista che innerva ogni approfondimento è che: «teoria e biografia si co-appartengano e che la filosofia resti muta e vuota senza la vita vissuta di chi la produce e le relazioni interpersonali in cui va a incarnarsi». Per questo ogni parte analizza in una sintesi agile e allo stesso tempo accurata, non tanto le opere delle autrici, quanto il loro percorso filosofico inteso anche come percorso di vita, all’interno di uno specifico contesto storico. Si tratta di un approccio particolarmente interessante perché fa emergere come per queste pensatrici la pratica politica fosse un elemento cruciale, affatto secondario rispetto a quella della scrittura. Del resto, Hannah Arendt lo sapeva: «ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione».

da Il Fatto Quotidiano

«Il cromosoma Y impone regole precise alle quali si deve obbedire». Così si apre Cose che ai maschi nessuno dice. Baciare, fare, dire (Feltrinelli), l’ultimo libro di Alberto Pellai, psicoterapeuta e padre con introduzione di Gino Cecchettin. Ma le regole di cui parla non sono scritte nel DNA: sono incise nella cultura, trasmesse sottovoce, scolpite nei silenzi tra padri e figli. Regole che insegnano a non piangere, a non chiedere aiuto, a soffocare tutto ciò che può sembrare debole. Come se essere uomo volesse dire solo questo: trattenere, nascondere e resistere. Anche quando fa male.

Con il suo stile diretto e empatico, Pellai costruisce un libro che è un ponte tra padri e figli. Tra l’adulto e l’adolescente. Tra chi ha imparato a sopravvivere senza parole, e chi invece vorrebbe provare a vivere con più verità. Non è un manuale, né un saggio teorico. È un dialogo aperto, un invito alla vulnerabilità condivisa. E, forse soprattutto, è un modo per scardinare una società patriarcale. Perché raccontare le emozioni – e dare loro spazio, valore e dignità – in un mondo che le associa al “femminile” è già un modo per scardinare un potere maschilista.

Il cuore del libro è proprio la relazione padre-figlio: non solo come vincolo biologico, ma come occasione educativa. Pellai parte da conversazioni reali con suo figlio adolescente, le usa come input per esplorare temi scomodi e fondamentali: il dolore emotivo, la violenza, la pornografia, la sessualità, le dipendenze, il corpo e i social. Ogni capitolo è una lente puntata su un aspetto della crescita maschile che troppo spesso viene lasciato al buio, o peggio ancora distorto da modelli tossici. Il rischio, dice l’autore, è che i ragazzi, non potendo esprimere paura o tristezza, finiscano per comunicare solo rabbia e disgusto. Dietro l’aggressività, spesso per Pellai, c’è un dolore senza linguaggio.

Da questa assenza di alfabetizzazione emotiva, suggerisce l’autore, possono derivare conseguenze che vanno ben oltre la sfera personale. La difficoltà maschile nel riconoscere e comunicare ciò che si prova può contribuire a un clima relazionale fragile, segnato dal bisogno di controllo, dalla paura del confronto, dalla tendenza alla sopraffazione. Un’educazione sentimentale negata o distorta, dice Pellai, non resta senza effetti: può diventare rabbia, chiusura e violenza. E se oggi la cronaca racconta ogni giorno storie di femminicidio, forse è anche perché per troppo tempo ai maschi non è stato insegnato ad abitare le emozioni, ma solo a reagirvi con rabbia e violenza.

Ecco allora che il libro si fa strumento: per decostruire lo stereotipo del “vero uomo” – forte, dominante, inossidabile – e costruire invece uomini, capaci di ascoltarsi, di rispettarsi, di riconoscere la propria fragilità senza vergogna. Non si tratta di “femminilizzarsi”, come una parte della società vuole catalogare. Si tratta di umanizzarsi secondo l’autore. Di tornare al centro, alle emozioni primarie che ci abitano dalla nascita, indipendentemente dal genere.

Ciò che rende questo libro ancora più prezioso è il dialogo costante con i ragazzi. Pellai non parla ai giovani, parla con loro. Le loro voci sono riportate in ogni capitolo, come risposte, come controcanto, come specchio di una nuova generazione più consapevole. Raccontano come si sentono quando si innamorano, quando hanno paura, quando si confrontano col proprio corpo o con quello degli altri, quando si sentono forti o inadeguati. La scrittura di Pellai accoglie tutto questo con rispetto e senza paternalismi.

Il messaggio finale è chiaro: essere maschi è un dato biologico. Diventare uomini è una scelta. Una costruzione. Un progetto. Non più imposta da fuori, ma generata da dentro. E per farlo serve una guida. Non un comandante, ma un padre che sa raccontarsi. Che non ha paura di dire: «anch’io ho avuto paura».

Cose che ai maschi nessuno dice è un libro che sarebbe comodo archiviare tra gli scaffali dell’educazione genitoriale. Ma in realtà parla a tutti. Ai padri, certo. Ai figli. Ma anche a tutti gli uomini, che continuano a crescere in un sistema che li vuole divisi: emotivi o forti, sensibili o virili. Pellai ci ricorda che si può – e si deve – essere entrambe le cose. Anzi, che essere uomini veri significa proprio questo: non scegliere tra le emozioni, ma imparare a viverle tutte.

da Pangea

Si incontrarono nell’estate del 1900, a Worspswede, la comune di artisti fondata in Bassa Sassonia. Rilke era reduce dal viaggio in Russia: aveva conosciuto Tolstoj e fatto visita a Leonid Pasternak; il figlio, Boris, che aveva dieci anni, resterà folgorato dalle sue poesie, tempo dopo, «per l’insistenza di ciò che vi era detto, la sicurezza, il tono deciso, che andava dritto allo scopo». Paula Becker aveva ventitré anni, la bellezza di un usignolo: figlia di un ingegnere di Dresda, aveva studiato, compiacendo i genitori, per diventare istitutrice; voleva fare l’artista.

I due si piacquero, entrambi fatui al mondo, ma Rilke preferì la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, scultrice dal maschio fascino: si sposarono nel 1901. Cinque anni dopo, Paula realizza il più noto ritratto di Rilke: il pittore pare indemoniato, «barba da faraone, baffi da unno… sguardo esorbitante». Aveva da poco mollato Rodin, di cui era segretario, per un bisticcio. Paula si era trasferita a Parigi per vivere vertiginosamente d’arte: pochi soldi, talento selvatico e un marito pittore, Otto Modersohn, lasciato in Germania. Dipingeva tantissimo, con un genio che ricorda Cézanne e Gauguin; i suoi nudi, soprattutto, di una carnalità poetica e brutale, sono tra i più belli mai tracciati da mano di pittrice. Trent’anni dopo, l’era nazista dichiarerà “degenerata” l’opera di Paula, che dell’uomo ha mostrato la meraviglia e la sfiancata malinconia. Morirà troppo giovane, nel novembre del 1907, Paula, dopo aver partorito la prima figlia, Mathilde. A Brema le è dedicato un museo. Per lei, Rilke scrisse Requiem per un’amica: «Vieni qui al lume della candela. Non ho paura/ di contemplare i morti», scrive il poeta, abissale, come sempre – riuscì a non citare il nome dell’“amica”. Una raccolta di lettere – pubblicate da Insel, in Germania – dice della loro conturbante amicizia.

A Paula Becker, artista straordinaria, del tutto postuma, Marie Darrieussecq, l’autrice di Troismi, ha dedicato un romanzo biografico di cristallina potenza, Essere qui è uno splendore (Crocetti Editore, 2025), tra Plutarco e Marguerite Duras; uscito in origine per P.O.L., in Francia, nel 2016, piacque, tra gli altri, al Premio Nobel J.M. Coetzee. Insinuandosi tra gli spiragli di un’esistenza in picchiata, l’autrice scrive, in fondo, un elogio della vita votata all’arte, della vita nuda, della nudità, della sacralità della carne e del suo scandalo nell’epoca dei corpi digitalizzati e delle intelligenze artificiali. Resta il dilemma del titolo – splendido –, catafalco da bibliomani: è tratto dal «verso 38 della Quinta elegia di Rilke», mi dice l’autrice. Introvabile nell’edizione italiana. In questa sfasatura – o lapsus – sta il lampeggiare dell’angelo, sono i fantasmi al banchetto.

Fin nel titolo, il libro su Paula Becker è sotto l’orbita di Rilke, il quale, con lento candore, sembra un po’ “cannibalizzare” la pittrice. Che idea si è fatta di Rilke?

Paula e Rainer erano intimi, ottimi amici, probabilmente innamorati, durante quella meravigliosa estate del 1900 in cui si incontrarono. Rilke non è stato un buon amico. Né un buon marito, tanto meno un buon padre: ha deciso di sposare la migliore amica di Paula, Clara Westhoff, ha avuto da lei una figlia, per poi scappare da entrambe. Il poeta resta immenso, l’uomo non mi piace. Rilke ha descritto magnificamente Paula nel suo magnifico Requiem… senza nominarla. I nomi delle donne… anche questa è una bella storia, che racconta parte del mio libro.

Tre aggettivi che riassumano la vita di Paula Becker.

Libera, energica, interrotta.

Che cos’è la “libertà” per Paula; che cos’è la “libertà” per Marie, una scrittrice che vive nel 2025?

Per Paula libertà significa sottrarsi al lavoro salariato (il padre voleva che diventasse governante o istitutrice) per poter dipingere. L’unica soluzione concessa all’epoca: sposare un uomo che la mantenesse… restando maritata. Per me libertà è avere la straordinaria possibilità di vivere della mia scrittura – e di amare, liberamente.

Una curiosità bibliografica. Da quale passo delle Elegie duinesi ha tratto il titolo del libro?

Versetto 38 della Quinta elegia nella vecchia, bellissima traduzione di Joseph-François Angelloz.

Quali sono stati i “lari”, gli scrittori-totem che l’hanno accompagnata nella scrittura di questo libro, per forgiare questa lingua, al contempo intima, ma mai “confessionale”, precisa fino al diamante?

Georges Perec, Marguerite Duras, Natalia Ginzburg.

Qual è l’aspetto a suo dire più folgorante della biografia di Paula? Quale quello che ha scelto di tenere in ombra?

Forse la cosa più sorprendente la sorprendiamo nella sua ultima parola: ombra, oscurità. Morire così giovane, con un tale portento d’opera…

Quello che ho lasciato nell’ombra: non ho voluto infilarmi nel letto di Paula. Alcuni biografi hanno indicato delle amanti: non c’è nulla di certo. Non ho voluto inventare ciò che i diari e le lettere non dicono. Se Paula ha voluto nascondere alcune cose con cura, ho rispettato il suo segreto. Nessuno può dire perché non sia riuscita ad avere figli nei primi sei anni di matrimonio, se questa sia stata una scelta intenzionale o meno. Il rapporto di Paula con la maternità è ambiguo, affascinante.   

Esiste a suo avviso una diversità “genetica” tra opere d’arte femminili e maschili; esiste cioè, più che il talento singolare, un genio “di genere”?

Nulla di “genetico”, no, benché giochi con questo termine. Tuttavia, sociologicamente e culturalmente le donne sono state “seconde” per secoli. Questo ha creato una cultura femminile specifica: del ritiro, del nascondimento e dell’emarginazione, e una certa centralità domestica. Lo sguardo di Paula sulle bambine è unico al mondo e pionieristico per la sua epoca: la serietà che conferisce loro, la gravità, lontana da tutti i cliché di purezza o innocenza imposti da uno sguardo patriarcale.

Quando Rilke fa visita a Paula, in atelier, scrive: «Ci siamo guardati, con un brivido di stupore, come due esseri che si trovano all’improvviso davanti a una porta dietro la quale c’è Dio». I quadri di Paula emanano una sacralità frugale, che sa di paglia, di campo appena tagliato. Le domando: qual è il suo rapporto con il “sacro”, con l’invisibile?

Con il sacro: nessuno, credo. Con lo spirituale e l’invisibile: molto forte. L’invisibile è ciò che mi obbliga alla scrittura. Non ho bisogno di sacralizzarlo.

La “carne” è uno dei temi del libro, perfino nel quadro-totem di Paula Becker: un figlio appeso al seno della madre, nuda. La carne e l’eros. Eppure, siamo nell’epoca disincarnata, disincantata rispetto al corpo, oleografico, palestrato, liofilizzato. Siamo nell’era di PornHub e di Tinder, del “toccare” come gesto sacrilego – o pervaso da perversioni…

Tutti i miei libri dicono del toccare, da Troismi a quest’ultimo – e non ho ancora finito…

Diciamo che Paula è vissuta prima dell’Intelligenza Artificiale: possiamo sentire il tocco del suo pennello sulla tela. Grazie a questo gesto, scorgiamo le sue tracce. È presente, è qui, come indica il titolo che ho scelto, ed è uno splendore. Amava essere viva, amava vivere il presente. Da giovane donna, per le strade di Parigi, città che adorava, si sentiva “nuda” sotto lo sguardo insistente degli uomini, allora, con un certo candore, mostrava la fede nuziale, come fosse una sorta di talismano. È stata la prima donna a dipingersi nuda, e non credo lo sapesse: un gesto rivoluzionario dopo secoli in cui le donne erano state dipinte nude dagli uomini. Ma i modelli costavano troppo. Il dipinto di cui parla raffigura una donna italiana in posa con il suo bambino. All’epoca, gli immigrati in Francia erano italiani e le donne, spesso molto povere, accettavano di posare nude per pochi spiccioli.

Con autentico azzardo, lei è entrata in una vita altrui. Una vita vera, reale. Oggi si dice di libri scritti dall’Intelligenza Artificiale; oggi i ragazzi consultano l’Intelligenza Artificiale per consigli sentimentali e “morali”, si fanno scrivere le lettere dal bot. Riuscirà la letteratura a non soccombere all’IA?

Spesso pongo delle domande a ChatGPT (beh, non troppo spesso, visto che ogni volta consumiamo piscine d’acqua). La sua sistematica cortesia mi fa venire i brividi. Quando le domando di raccontarmi qualcosa di divertente o di poetico, non riesce. Per ora. Nella macchina non c’è alcun soggetto e lo si capisce. Il suo “io” è un’imitazione ancora un po’ patetica.   

Come può un’opera d’arte, un libro su un’artista vissuta un secolo fa diventare un gesto “politico”?

Non sapevo di scrivere di una donna “invisibile”; il tema non esisteva quando ho iniziato la mia ricerca su Paula M. Becker. Evidentemente, facevo parte di un movimento politico senza saperlo, portando alla conoscenza del pubblico un’opera obliata per troppe pessime ragioni: di genere, certo, ma anche di antigermanismo in seguito alle due guerre. Ma Paula è la pittrice meno “nazionalista” possibile: non ha mai fantasticato di una Germania territoriale, a differenza di molti suoi colleghi artisti della colonia di Worspwede, dove ha vissuto prima di fuggire a Parigi. La sua è in effetti una visione “politica”: dipinge una Germania universale, quella delle ragazze che sapevano che il mondo non apparteneva a loro e quella delle madri fiacche, non le Madonne che allattano il sacro bimbo, ma delle donne che hanno avuto troppe gravidanze, che allattano in posizioni mai viste prima in pittura, ma assai più comode di quelle della Vergine Maria!

da CarmillaOnline

L’autrice del libro recensito, Valentina Pisanty, ha partecipato come relatrice all’incontro “Verso il Giorno della memoria. Ricordare al tempo di Gaza”, organizzato da Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace il 19 gennaio 2025 presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli a Milano.

(La redazione del sito)

Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, Firenze-Milano 2025, pp. 176, € 13.30.

Antisemitismo non è un concetto come tanti altri. Divenuto sinonimo del Male Assoluto questo termine segna un confine tra chi appartiene al consesso civile e chi ne è escluso, tra chi ha diritto di parola e chi deve essere messo a tacere senza tanti complimenti. Non sorprende dunque che il potere di definire i suoi contenuti sia al centro di una battaglia senza esclusione di colpi. Proprio questa battaglia è il tema di Antisemita. Una parola in ostaggio, l’ultimo libro della semiologa Valentina Pisanty.

Contrariamente al senso comune, ci ricorda l’autrice, l’antisemitismo non acquisisce centralità nel discorso pubblico subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale quando si scopre l’orrore del genocidio nazista degli ebrei. E questo vale anche per lo Stato di Israele che, subito dopo la sua nascita, è impegnato a prendere le distanze dall’immagine dell’ebreo come vittima che nella Shoah aveva avuto la sua massima espressione. D’altronde, una parte consistente dell’opinione pubblica internazionale era stata favorevole allo stato israeliano nei suoi primi venti anni di vita. Ma le cose iniziano a cambiare con la guerra dei Sei Giorni del 1967 che porta Israele a occupare e a colonizzare Cisgiordania, Striscia di Gaza e alture del Golan. Cresce la solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi, fino a quel momento sostanzialmente ignorati, fino a che, nel 1975, su iniziativa dell’Unione Sovietica, l’Assemblea dell’Onu vota la Risoluzione 3379 nella quale si afferma che «il Sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale» (risoluzione che sarà abrogata nel 1991). L’ostilità nei confronti del sionismo cresce nel 1982 con l’invasione israeliana del Libano durante la quale vengono perpetrati i massacri di inermi civili palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila. Fioccano allora i paragoni tra Israele e il Terzo Reich invertendo la retorica della Shoah che, nel frattempo, si stava affermando come legittimazione dello Stato sionista per opera dei conservatori israeliani, andati per la prima volta al governo nel 1977 con il partito Likud.

Anche a seguito degli eventi storici brevemente tratteggiati, il governo israeliano inizia a interessarsi alla lotta contro l’antisemitismo nel mondo. Solo nel 1988 viene istituito l’Inter-Ministerial Forum for Monitoring Anti-Semitism, cui viene affiancato lo Stephen Roth Institute for the Study of Contemporary Antisemitism and Racism dell’Università di Tel Aviv. Il fatto è che la nuova centralità assunta dall’antisemitismo si afferma insieme al discorso sul nuovo antisemitismo, inizialmente riferito alla citata risoluzione dell’Onu. Il sionismo delle origini aveva rifiutato l’idea di un “eterno antisemitismo” quale fondamento dell’ostilità dei paesi arabi perché questo avrebbe portato a immaginare un futuro di guerra perpetua. In contrasto con questa visione «guadagnò terreno la narrazione mitica […] del destino di Israele come un ciclo ininterrotto di catastrofi e redenzioni», rafforzata dalla retorica delle leadership arabe, non sempre esenti dall’attingere all’archivio antiebraico importato dall’Europa.

Il passaggio dal nuovo antisemitismo all’antisionismo come forma per eccellenza dell’odio antiebraico necessita di un passaggio intermedio: l’idea, sostenuta dalla politica estera del Likud, di Israele come “ebreo collettivo”. Idea in base alla quale chi critica lo stato sionista vuole in realtà colpire tutti gli ebrei. In primo luogo bisogna notare il fatto paradossale che identificare Israele con tutte le persone di fede giudaica, attribuendo a tutti gli ebrei le responsabilità degli atti compiuti dal governo di Tel Aviv, è proprio uno di quegli atteggiamenti che è stato giustamente identificato come caratteristica di un antisemitismo mascherato da antisionismo. Insomma, l’idea di Israele come “ebreo collettivo” assomiglia molto a una forma di antisemitismo rovesciata di segno. Ma c’è di più. Parlare di “ebreo collettivo” significa personificare intere comunità nazionali o religiose (non solo Israele ovviamente) e immaginare questi “personaggi-sineddoche” come soggetti che si combattono nell’agone storico assumendo, attraverso grossolane semplificazioni, «tratti caratteriali semi-permanenti, biografie storiche, tradizioni ancestrali e motivazioni psicologiche profonde». In breve la figura dell’ebreo e quella dei suoi nemici vengono essenzializzate.

Ma è proprio questo tipo di operazione concettuale che costituisce uno dei nuclei fondanti dell’antisemitismo.

Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli antisemiti essenzializzano gli ebrei, riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo. Ma la naturalizzazione delle categorie socialmente costruite è tipica di ogni discorso razzista.

Chi invece aspira a liberarsi dalla narrazione antisemita, sostiene Pisanty, considera l’avversione contro gli ebrei come un fenomeno storicamente variabile interrogandosi sulle dinamiche che hanno di volta in volta reso possibile la sua insorgenza. Quando analizziamo queste dinamiche possiamo rilevare che l’antisionismo attinge allo stesso repertorio storico del pregiudizio antiebraico? Perché è proprio questo che bisognerebbe dimostrare, caso per caso, quando si cerca di identificare antisionismo e antisemitismo. Una dimostrazione tanto più necessaria alla luce del fatto che la storia ci dimostra come filosionismo e antisemitismo non siano mutuamente esclusivi. Il caso più clamoroso è probabilmente quello di Lord Arthur Balfour, il ministro degli esteri della Corona britannica che, con la sua famosa Dichiarazione del 1917, dà il via libera all’emigrazione ebraica della Palestina con l’obiettivo dichiarato di scongiurare il rischio di un’infiltrazione giudaico-bolscevica nel suo paese. Sta di fatto che la dimostrazione della suddetta identità, afferma l’autrice, non viene mai fornita. La coincidenza tra i due tipi di fenomeni viene semplicemente presupposta.

E allora chiediamoci chi è questo mitico ebreo bersaglio dell’odio antisemita.

Gli attributi antitetici di cui è portatore si ricompongono in un unico personaggio da feuilleton la cui caratteristica più saliente è per l’appunto la doppiezza. Come si fa a essere simultaneamente capitalisti e comunisti, apolidi e nazionalisti, prepotenti e servili, e chi più ne ha più ne metta? Basta immaginare che tutte le contraddizioni siano artifici di copertura. L’“Ebreo” non è mai colui che dice di essere. Dietro la maschera della povera vittima si nasconde il più perfido dei manipolatori.

Se la doppiezza è la caratteristica essenziale presa di mira dal classico odio antiebraico «il nemico immaginario degli antisemiti non ha gli stessi tratti del nemico degli antisionisti, che di Israele detestano l’arroganza, la belligeranza, la ruvidezza, la chutzpah».

Ma tutto ciò viene bellamente ignorato da chi, per comminare scomuniche o addirittura sanzioni legali, brandisce la Working definition dell’antisemitismo adottata nel 2016 dalla International Memorial Holocaust Alliance (Ihra). Questo atto ufficializza, di fatto, l’equivalenza tra antisionismo e antisemitismo. Abbiamo utilizzato l’espressione “di fatto” perché, come racconta dettagliatamente Pisanty, la Ihra in realtà accoglie soltanto la definizione generale della Working definition mentre, dopo un’aspra discussione tra i rappresentanti dei suoi trentacinque Stati suoi membri, esclude esplicitamente gli esempi che ne costituiscono la parte più cospicua, consapevole della loro problematicità soprattutto per la parte che riguarda l’assimilazione tra antisemitismo e antisionismo. Nel 2018, tuttavia, vari sostenitori della versione integrale cominciarono ad affermare che l’accordo raggiunto due anni prima riguardava l’intera definizione e chi affermava il contrario era un “antisionista antisemita”. Questa è la versione oramai comunemente accettata della storia tanto che l’Eumc, l’organismo indipendente che aveva originariamente ideato la definizione operativa come mero strumento per individuare possibili fenomeni di antisemitismo, finisce per rinnegare la sua stessa Working definition.

Insomma in questa vicenda i paradossi si accumulano. Tra questi uno dei più preoccupanti è quello che porta a sottovalutare le reali nuove insorgenze di odio antiebraico perché l’antisionismo non viene soltanto considerato come un equivalente dell’antisemitismo, ma soprattutto come l’unica forma realmente rilevante di antisemitismo. L’esempio più lampante di questa dinamica è il caso, evidenziato dall’autrice, dell’ungherese George Soros, individuato come nemico per eccellenza nella campagna elettorale del 2008 dal presidente magiaro Viktor Orbán. Si tratta di una trovata escogitata dai consulenti delle campagne elettorali di Netanyahu che, assoldati da Orbán sotto consiglio dello stesso premier israeliano, non si sono fatti scrupolo di mobilitare un intero arsenale di argomentazioni antisemite nei confronti del finanziere ebreo Soros. Argomentazioni riprese poi a piene mani da moltissimi leader politici di altri Paesi. Tra questi gli italiani Salvini e Meloni che hanno aggiunto a carico di Soros un altro classico della propaganda antiebraica: accusato di finanziare i flussi migratori verso l’Europa, il finanziere ungherese viene considerato l’architetto occulto di una nuova sostituzione etnica, secondo i dettami del famigerato piano Kalergi. Questa galleria degli orrori non può che finire con Netanyahu che accusa Soros di essere l’eminenza grigia dietro ai suoi guai giudiziari e con il figlio del premier che pubblica un meme, raffigurante il finanziere ungherese, dal tono inequivocabilmente antisemita.

La cosa più grave di tutta questa vicenda è che, nonostante il gran parlare del pericolo antisemita, «attraverso il mito di Soros, frammenti dell’archivio antiebraico siano stati riscattati dalla latenza e abbiano ricominciato a circolare non solo nei circuiti dell’estrema destra, ma anche nei settori della cultura mainstream». Ma c’è anche di peggio, sottolinea con dolore Pisanty: se si consolida l’idea che opporsi al massacro dei palestinesi significa essere antisemiti, l’antisemitismo stesso può, nel più tragico dei paradossi, acquisire un’accezione positiva per il senso comune.

Se questi sono i risultati, sembra proprio che la difesa dagli ebrei da nuove insorgenze di antisemitismo non sia la principale preoccupazione di chi ha imposto come dogma di fede, in molti casi giuridicamente vincolante, il nuovo antisemitismo. In effetti in gioco sembra esserci qualcosa di diverso. Pisanty accenna a questo ordine di problemi quando sostiene che la già citata International Memorial Holocaust Alliance «è l’organizzazione internazionale cui si deve il progetto di riempire il vuoto ideologico creato dal crollo del comunismo con la narrativa “cosmopolita” dell’Olocausto che ha plasmato l’immaginario politico occidentale dell’ultimo quarto di secolo». In questo immaginario, sottolinea l’autrice, hanno trovato comodamente posto i diversi partiti di estrema destra che negli anni duemila hanno acquisito sempre più consenso. Il vecchio antisemitismo, incistato nel loro DNA, è stato prontamente condonato in cambio del ripudio del nuovo antisemitismo, cioè dell’appoggio incondizionato alle politiche di Israele. Lo Stato sionista gli ha così conferito una patente di democratica rispettabilità, noncurante del razzismo di cui sono ancora i campioni. È sufficiente che questo non si eserciti, almeno esplicitamente, nei confronti delle persone di fede e cultura ebraica.

Nel nuovo immaginario, invece, non trovano spazio l’anticolonialismo, l’antimperialismo e l’antiamericanismo che vengono demonizzati in quanto correnti politiche ispiratrici di un antisionismo equiparato tout court all’antisemitismo. Insomma, ce n’è abbastanza per respingere senza indugio il nuovo dogma, come fa Pisanty nella conclusione del suo libro dove introduce, purtroppo solo di sfuggita, il tema del clima bellico in cui tutta questa vicenda sembra inscriversi.

Chiunque impieghi il termine antisemita nel senso imposto dalla definizione IHRA deve sapere in quale catena di prepotenze, non solo linguistiche, si sta collocando. A meno di non prendere atto che il mondo è entrato in una fase di guerra senza quartiere, o si vince o si muore, di cui la retorica della prevaricazione è il naturale corollario.

da Diotimafilosofe.it

Recensione ad Antonietta Potente, M. Milagros Rivera Garretas, Quando Lei viene. La scrittura ispirata, traduzione dallo spagnolo di Sara Bigardi e Paola Bellomi, Edizione indipendente, Pietra Ligure 2024

Ho letto il dialogo tra Antonietta Potente e Milagros Rivera sulla parola che ispira, la parola creatrice, poetica, e subito me ne sono innamorata, perché dice di un’esperienza della scrittura sulla quale mi sono tanto interrogata.

Quindi inizio a parlare di me, che non è la cosa più corretta volendo presentare un libro, però quel che ho capito e imparato nel mio percorso è il motivo che mi ha fatto entusiasmare del libro, proprio quello per cui ora lo presento. Del resto all’inizio di Quando Lei viene. La scrittura ispirata si legge espressamente che «Questo piccolo libro è stato scritto per essere letto con calma, contemplando ciò che si legge fino a sentirlo profondamente e aggiungere le proprie visioni o contributi». Ora, l’ho letto e riletto, ma senza calma, perché l’entusiasmo affretta la lettura e porta sui punti essenziali. Quelli più amati.

Il dialogo tra Antonietta e Milagros tocca qualcosa che mi sono trovata a vivere nella scrittura filosofica che è una delle esperienze più importanti della mia vita. Come dice soprattutto Antonietta, anch’io tante volte non ero soddisfatta di quel che scrivevo. Mancava il gusto, il piacere della scrittura. Sapevo scrivere sì, ma volevo qualche cosa d’altro. Ricordo una studentessa che scriveva la tesi portandomi un blocchetto di pagine solo ogni tanto. Riusciva a scrivere con rigore nel momento in cui il godimento della parola le permetteva di mettere a posto come in un disegno perfetto tutti i concetti. Altrimenti i concetti andavano ognuno per loro conto a caso. Così io. La possibilità di pensare aveva – ed ha – il bisogno di un godimento della scrittura. Mi sentivo fuori posto rispetto al contesto, ma il lavoro iniziato da Luisa Muraro sulla lingua materna, che poi in Diotima abbiamo ripreso e continuato, mi ha fatto scoprire ciò che in realtà già sapevo per esperienza: abbiamo a disposizione le potenzialità di una lingua affettiva corporea in cui le cose e le parole si rimandano. E per lo più, quando ora perdo il filo di questa partecipazione alla lingua nella sua genesi, leggo testi poetici che amo come quelli di Mariangela Gualtieri, di Marina Cvetaeva, Marguerite Duras, e questo mi rimette in sintonia con questa sorgente di parole, pensiero, cose, corpo, che si rimandano tra loro.

Proprio perciò, dato che ora so riconoscere quando agisco creativamente la scrittura – e sono i momenti in cui vado rischiando sui significati, procedendo senza garanzie – so apprezzare anche quello scrivere che è un fare chiarezza dentro di sé riguardo a certe idee già pensate per restituirle arricchite, intensificate e rese luminose.

Il dialogo di Antonietta Potente e di Milagros Rivera si concentra solo sulla pratica di scrittura creativa, poetica, che loro chiamano ispirata. È una bella parola “ispirata”. Rimanda a spirito, a soffio, a pneuma. Qualcosa ti soffia dentro la parola. Qualcosa di impersonale che possiamo accogliere oppure no. Ricorre la figura dell’Annunciazione nel loro testo. L’angelo annuncia a Maria il desiderio che il Signore ha nei suoi confronti e Maria accoglie ed accetta quel che le dice l’angelo. Pronuncia un sì a quelle parole impreviste, fuori dal già noto e conosciuto. La sua vita sarà trasformata da quell’annuire e far essere. Così è la parola ispirata nella scrittura. Avviene, è imprevedibile. È profondamente trasformativa. Avvia in un percorso di cui si sa come si inizia e non si sa dove si arriverà. Antonietta e Milagros lo ripetono: iniziare a scrivere in modo inspirato implica che non sappiamo che cosa diremo eppure procediamo in modo orientato. Del resto, è proprio così per ogni testo in cui si rischia e sentiamo creativo. Si trasforma con la scrittura e noi stessi ci trasformiamo con esso. Alla fine del testo saremo diverse da come abbiamo iniziato.

Ricorre nel dialogo l’idea che è la notte, quando si veglia, la culla della parola ispirata. Nel silenzio, quando tutto tace. Nella solitudine. Allora soffia lo spirito, prende forma un’idea, una parola, una frase che attendevano e non sapevano quale sarebbe stata. I sogni sono anche i luoghi in cui tante situazioni indeterminate trovano il soffio orientante a cui possiamo poi dare forma concreta.

È anche divertente e vero quel che dicono, che allora è tutto un appuntare, tenere foglietti a portata di mano, biglietti dell’autobus. Per non dimenticare. E questo avviene anche di giorno, ovviamente. Ma la notte è per loro il momento propizio. Come favorevole è la solitudine. Aggiungerei, perché così a me capita, una solitudine che si può vivere anche in mezzo agli altri.

Centrale nel dialogo è dunque il fatto che le idee non sono soggettive, né costruibili né tanto meno controllabili. Avvengono indipendentemente dalla nostra volontà. Di qui l’atteggiamento di umiltà rispetto ad esse, al pensare. Viene ripresa una figura che si incontra in tanti testi di donne medievali che segue la formula che potrei ricostruire in questo modo: «Io non sono nessuno, se non un’umile donna. Eppure, ho ricevuto la parola e ne parlo per obbedienza». In questo modo quelle donne medievali come quelle di oggi, che non costruiscono idee ma si pongono nella posizione di accoglierle, divengono mediatrici viventi. Mediatrici di qualcosa che non sanno, ma fanno essere via via nella scrittura.

Anche nel caso di Antonietta e Milagros, la loro autorità dipende dall’aver rinunciato alla centralità dell’io, al narcisismo, e dall’aver accettato che l’ispirazione venga da altrove e che solo così risulti lievito per una scrittura trasformativa.

Entrambe si pongono una domanda a questo punto fondamentale: da dove viene la parola ispirata? È una questione che nel loro testo non ha una risposta univoca, ma quel che ne dicono rimanda alla realtà, alla vita, all’enigma che essa è per noi. Dunque è la realtà vivente ad ispirare la parola. Per Antonietta in particolare Mistero e vita sono parole quasi equivalenti.

Ma cosa si intende allora per realtà e in che rapporto noi stiamo con essa? Ognuna può rispondere singolarmente a questa domanda in base alla propria esperienza, ma a me sembra che l’invito essenziale del testo sia di capire i nostri legami con la realtà, per cui, quando scriviamo in modo arrischiato, senza balaustre, poetico, rispondiamo alla realtà, esprimendola. È proprio allora che obbediamo ad essa e al suo enigma.

Alcune divergenze sulla questione della realtà tra Antonietta e Milagros sono interessanti da seguire. Sicuramente l’ispirazione non viene direttamente dal contesto; eppure, allo stesso tempo dipende da quello che la realtà ci sollecita a dire. Per Milagros le donne che le chiedono di parlare di certe questioni mettono in campo nella domanda il loro rapporto con il mondo. E Milagros, andando loro incontro, mette a sua volta in gioco il proprio legame ispirato con il reale, che non necessariamente coincide con il loro.

Più complesso quel che dice Antonietta. La vita è tessuta simbolica enigmatica, che si dischiude in visioni a chi ne è in attesa. Solo chi presta attenzione e si dispone all’ascolto ne verrà coinvolto. Cercare e desiderare il significato dell’esistenza sono la condizione perché la parola ispirata avvenga. Occorre pazienza orientata, apertura interiore. L’esistenza non è solo quella delle grandi, piccole o mediocri imprese umane, ma anche le grandi distese di acqua, di rocce, di deserti e di boschi. Storie umane e non umane dai tempi diversi, costantemente intrecciate. Tutto è scrigno di significati potenziali.

Come passare per la porta stretta, come trovare la piccola chiave d’oro perché un profilo del reale si distenda davanti e risuoni in noi? Certo, si interrogano le persone, la vita, le cose. Si desidera conoscere il mondo. A volte questo trova una risposta e la visione, la parola ispirata ci coinvolgono allora come se fossimo stati ascoltati ed esauditi.

Milagros pone una questione, ragionando su una impasse vissuta con donne di Duoda, il centro di ricerca delle donne dell’università di Barcellona. Sebbene abbiano più volte espresso il desiderio di scrivere, molte non sono riuscite, nonostante l’invito a farlo. Ha a che fare questa difficoltà con quello che Zambrano scrive in Verso un sapere dell’anima, quando dice che certe cose non possono essere dette, ma solo scritte? E che cosa impedisce loro di formulare quel segreto a cui solo la scrittura fa accedere? La risposta di Milagros è che la parola ispirata coinvolge in una verità che a volte può essere troppo grande per essere accolta. Il fatto è che il soffio ci pone in un rapporto con noi stesse a partire da qualcosa che sentiamo estraneo, come se fosse esterno a noi, ma che riconosciamo come vero per noi, così da invitarci ad un percorso di trasformazione. Questo può provocare l’attraversamento di strati di dolore e comunque di piani d’essere profondamente sconosciuti. Ci si può spaventare e ritrarsi. La verità apre un orizzonte a volte troppo grande rispetto a quello che possiamo soggettivamente sopportare.

Belle le parti del dialogo dedicate ai libri. Fa parte anche della mia esperienza il fatto che – come loro dicono – ci siano libri ispirati che ispirano. Per questo tornare ogni tanto a leggerli, citandoli a memoria, è costitutivo del processo di creazione, trasformazione, illuminazione. Sono libri che divengono così testi sacri nel nostro percorso esistenziale. Scrive Antonietta: «Di per sé i testi ispirati ti obbligano, ti obbligano, come quando Giacomo, un autore delle scritture cristiane, nella sua lettera scrive: “Tenere fisso lo sguardo sulle scritture per capirle”. Potrebbe anche voler dire che è una scrittura, ma ti darà la possibilità di una visione, perché si incarna nella tua vita». In sintonia con questo, per tanti anni all’università ho invitato le studentesse e gli studenti di filosofia a leggere e studiare i testi molto amati che davo in programma come fossero testi sacri, invitando a meditare la parola, perché si incarnasse nella loro vita. Diventasse esperienza vissuta.

Per concludere, vorrei parlare delle critiche che Antonietta Potente e Milagros Rivera portano al mondo universitario. Da una parte è verissimo che le norme accademiche di scrittura, di presa di parola, di standard di qualità proposti sono delle vere e proprie tecniche di disciplinamento e disegnano dei rapporti di potere precisi. Ne è esclusa qualsiasi pensabilità di idea ispirata. Porto un esempio. Se si pubblica un saggio in una rivista, è richiesto che ci siano dei lettori anonimi, che chi ha scritto non deve conoscere e viceversa. Questi portano osservazioni e proposte di cambiamento del saggio che occorre seguire per poter arrivare alla pubblicazione. È una precisa strategia di assoggettamento. Uno degli effetti più deleteri è che viene tagliato alla radice il legame di autorità tra una maestra o maestro e chi si è affidato a loro. Non si possono più avere consigli per cercare la via per andare all’essenziale di quel che si sente di esprimere, in fedeltà al soffio. Anche i legami di amicizia nello studio vengono distrutti. Ovviamente qualsiasi idea di parola ispirata sembrerebbe ai revisori anonimi dei testi un assurdo. Così anche ha ragione Milagros quando racconta che per avere fondi di ricerca occorre stilare un progetto in cui si dicano gli obiettivi e i risultati da perseguire. Il che è estraneo a qualsiasi pratica di ricerca di pensiero, che sa più o meno da dove parte – l’intuizione inziale, la parola ispirata – ma non sa cosa otterrà e quali saranno le scoperte e le trasformazioni. Solo alla fine infatti si può dire quel che il testo è diventato e noi che scriviamo con lui.

Se dunque da un lato la critica è giusta, dall’altro però è anche vero che l’università è un luogo dove si possono compiere azioni libere e ispirate, come invitare le, gli studenti a rapportarsi ai testi filosofici come testi sacri da incarnare e sperimentare, come ho fatto per anni. Oppure, come nel caso di Milagros, aver vissuto lezioni ispirate dove le studentesse e gli studenti smettono di prendere appunti e stanno ad ascoltarla perché si rendono conto che altro sta avvenendo in aula. La voce della docente apre ad un evento irriproducibile di cui loro si sentono partecipi.

Posso aggiungere che all’università sono nate esperienze come quella di Duoda e come quella di Diotima, dove donne autorevoli hanno saputo trasformare il gusto per la libertà in pratiche precise e fondative di un mondo. E questo in fedeltà a quello che sentivano.

da Diotimafilosofe.it

Il Quaderno di via Dogana Esserci davvero è composto dalla conversazione integrale tra Clara Jourdan e Luisa Muraro, svolta a Milano nel 2003, su richiesta di Cristina Segura Graíño della Universidad Complutense di Madrid per la “Biblioteca de Mujeres”. È stata pubblicata in una versione ridotta nel 2006, con il titolo Vida y obra. Conversando con Luisa Muraro, insieme a una cronologia e una piccola antologia di scritti. In questo volume invece il catalogo – che contiene libri, articoli, saggi, atti di convegni, seminari, dibattiti, interventi sul web e finanche articoli su giornali femminili – occupa i due terzi del testo, testimonianza del fervente impegno teorico-politico della Muraro, ma anche della perizia e accuratezza della Jourdan che ha catalogato e aggiornato il profilo di Luisa.

Ho ricevuto l’invito a recensire questo lavoro a ridosso dell’8 marzo, data simbolica per le donne, da Wanda Tommasi, con la quale ho mantenuto sempre vivo il mio rapporto che risale agli anni della fondazione di Diotima. La mia più che una recensione è una restituzione a Luisa di quel che mi ha dato e che le devo.

Il primo incontro

Con Luisa ho avuto un forte legame che precede, anche se di poco, quello con Wanda Tommasi e Chiara Zamboni. Risale a quando, insieme a Laura Capobianco e alla giovanissima Silvana Totaro, la incontrai per la prima volta a Verona. Era il 1984 e le portai il mio primo libro non ancora pubblicato, che era già un libro sul Pensiero della differenza e che, per condiscendenza verso la mia coautrice Clara Fiorillo, architetta, chiamai Pensiero Parallelo. Grazie a questo incontro sono stata partecipe fin dall’inizio del movimento del pensiero della differenza (anni ’80) che fece di Napoli uno dei poli più importanti insieme a Milano e a Roma.

Luisa ci parlò già allora del progetto di Diotima che era sul punto di essere varato. Non sapevo a quel tempo che ne avrei fatto parte insieme ad Angela Putino e che Luisa e Diotima divenissero tanto determinanti per la mia pratica politica e filosofica. Ci fu dopo quell’incontro un periodo fervido di seminari anche con donne importanti come Luce Irigaray, di cui Luisa già aveva tradotto i primi due testi. Iniziammo con un seminario a porte chiuse del 1985 presso l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli, non documentabile ma molto importante perché lì nacque in Italia, tra “lacrime e sangue” (ci furono scontri, conflitti e donne in lacrime) il Movimento femminista italiano della Differenza sessuale. Erano presenti Luisa Muraro con tutto il gruppo Diotima, Alessandra Bocchetti e Angela Putino che conoscemmo tutte in quella occasione. Provammo anche a fare una saldatura non molto riuscita con il femminismo degli anni Settanta, erano state, infatti, invitate Nadia Fusini, Carla Ravaioli e Anna Rossi Doria.

Il rapporto con le donne del PCI e la rottura con Luce Irigaray

In quegli anni si è tentata anche un’altra saldatura, quella tra Femminismo della differenza e donne del PCI ad opera principalmente di Franca Chiaromonte (PCI) e Alessandra Bocchetti (Virginia Woolf). Importante fu la manifestazione tra donne del PCI e del femminismo sui temi del lavoro a Napoli, nel dicembre 1987. Al comizio finale partecipò, sotto mio invito, Angela Putino, ma non Luisa Muraro. La cosa non mi sconvolse, avevo notato la freddezza con cui si rapportava alle donne del PCI, soprattutto quelle che ricoprivano ruoli apicali. Mi confessò, in una delle tante chiacchiere che si facevano a latere di importanti iniziative, che a lei del PCI piacevano donne come Giglia Tedesco, donne vere. Mi disse anche che aveva avuto incontri con Livia Turco e con altre, anche con Marisa Rodano, una “cariatide” del PCI, a Roma, a Milano, e che per lei questi incontri non avevano dato risultato e che erano cose che seguiva di più Lia Cigarini. A lei queste donne sembravano “non essere veramente lì presenti” materialmente, le trovava astratte. Non c’era nessun pregiudizio, ma erano incontri senza passione e coinvolgimento. D’altronde, come ribadisce nell’intervista, lei quando non viene coinvolta si chiude nella sua identità e diventa oppositiva.

Luisa è una donna apparentemente semplice, perché non usa maschere e manifesta le sue contraddizioni, i suoi alti e bassi, senza infingimenti. Ogni incontro è per lei un nuovo incontro, anche se si tratta della stessa persona. Luisa qui giustifica il suo comportamento altalenante, affermando che: «non sapevo affatto, e ancora non so bene, relazionarmi con qualcuna che è altro. Altro, lo riferisco anche a uomini, ma nel caso della donna è molto più problematico. Non so relazionarmi con una in cui non riesco a specchiarmi per cose molto importanti. Allora compare questo altro – lo dico al neutro perché lei perde un po’ quella dote che hanno per me tutte le donne, che è di essere mie simili – e in quel momento mi diventa estranea, e in una maniera molto disturbante perché è una donna. Se fosse un uomo, potrei mettere sul conto della differenza maschile quello su cui sono contraria».

Per tutti altri motivi, anche con Luce Irigaray, Luisa non è riuscita a trovare una corrispondenza emotiva. Ero stata presente con Alessandra Bocchetti, Angela Putino e altre, durante un pranzo in una trattoria di Campo de’ Fiori alla loro rottura. Questo rapporto si consumò proprio al cospetto della magnifica statua di Giordano Bruno. Avevo pensato che si trattasse di un dissapore contingente, ma ho capito alla luce di questa conversazione, quanto fosse stato difficile il suo rapporto con Luce Irigaray fin dall’inizio, perché Luisa cerca – come qui ci dice – nelle persone che ammira una misura, un equilibrio, che Luce non poteva darle, cosa che invece è avvenuto e avviene tuttora con Lia Cigarini.

La scrittura

Sapevo che Luisa amava scrivere e che ha anche insegnato scrittura femminile, ma non sapevo che fosse un desiderio precedente alla pratica e teoria del “simbolico”. Il cuore della conversazione tra le due autrici s’incentra proprio sulla scrittura che non s’identifica tout-court con la costruzione del “simbolico”. Fin da bambina Luisa si cimenta con la scrittura, impara quasi prima a scrivere che a leggere. Scrive, infatti, un romanzo, una storia tremenda in stile deamicisiano. Poi vince a dodici anni anche un premio di 5.000 lire con cui compra un’intera collana di libri della Bur. Cerca poi da adulta di trovarsi sempre in “situazioni” culturali dove le richiedono di scrivere. La rivista L’erba voglio è stata il suo trampolino di lancio e con il femminismo lei intuisce che troverà il terreno più fertile per farlo. Sono molte le filosofe, anche non femministe, che hanno trovato nella scrittura il loro essere al mondo, la loro esistenza sociale, addirittura anche il senso della sopravvivenza fisica per cui, esaurita la carica di creatività, hanno messo fine alla propria vita. Un esempio è la Bespaloff e ancora più eclatante il suicidio della Kofman. La scrittura per lei era come una necessità esistenziale. Si suicida proprio quando appura che la sua capacità di scrivere si è esaurita. Poi c’è l’esempio delle letterate, non solo delle filosofe. Letterate folli, come si evince dal bel libro di Wanda Tommasi, Le parole per scriverlo. La ferita e la Parola. Un esempio del fatto che non sempre la scrittura è pacificatrice è che molta scrittura femminile nasce da forme di dolore e da situazione-limite che non trovano consolazione. Agata Kristof è afflitta dallo sradicamento dell’esilio; Flannery O’Connor è affetta da un lupus che la porterà a una morte prematura; Anna Maria Ortese è ferita dalla morte del giovane fratello; Irène Némirovsky e Marie Cardinal sono prese dall’odio per le loro madri negative, addirittura in una sequenza genealogica (sono rispettivamente madre e figlia), perché non sono state capaci di imparare ad amare la madre. La scrittura di Luisa nasce dal desiderio e dal piacere di scrivere, ma anche dal fatto che la relazione materna sia stata un punto importante, sia della sua elaborazione politica-filosofica che della sua forza esistenziale. Non è stato così fin dalla nascita perché amare la madre non è una esperienza immediata, ma un sapere che si apprende, come ci dice Luisa ne L’ordine simbolico della madre. Il sapere amare la madre è stata per lei una conquista: amare la madre comporta la convinzione profonda non solo della necessità della potenza materna, ma del fatto che colei che ci ha dato la vita non è nemica della nostra indipendenza, anzi ne è la condizione. In questo è riposta la grande pacificazione con sé stesse. La madre è soprattutto la lingua: lei non ci ha dato solo la vita, ma anche la parola. Luisa scrive per il piacere di scrivere, e questo ha giovato anche alla pratica politica di costruzione del simbolico femminile, che è una pratica di messa in parola di esperienze ed eventi che non trova nella cultura maschile, ancora profondamente omosessuale, le parole per dirlo. La nostra realtà si costituisce nominandola, il nostro rovesciare il mondo non è qualcosa che avviene all’esterno di noi, ma noi cambiamo il mondo nel cambiare noi stesse.

Luisa ha imparato con Lia pratiche come l’affidamento e il partire da sé. Ma, a differenza di Lia, che prima pensa e poi scrive, Luisa articola le intuizioni che ha direttamente nella scrittura. Pensiero e scrittura si evolvono sincronicamente. Infatti, così dice:

«Ci sono persone che pensano indipendentemente dalla scrittura: Lia Cigarini, lei pensa, poi si mette a scrivere. Anche lei ha un momento di trattativa tra il suo pensare e la scrittura, ma la scrittura è piuttosto uno strumento. Mentre per me la scrittura – e della scrittura la sintassi – è una specie di stampo, in cui vado. Perché ci vado, con questo bisogno, quando ancora non ho niente da dire? Questa è una cosa che non so. Io so che c’è. È come se dovessi fare ordine simbolico dentro di me, oppure come se dovessi riprendere il processo di contrattazione con la madre, con mia madre, con tutto quello che è lo strato primario del mio vivere. Infatti, lo scrivere mi dà, quando la scrittura è riuscita, un senso di intimo, profondo, grande, star bene, vicino a uno stato di felicità, di beatitudine».

La mistica

Ma, oltre a questo piacere quasi fisiologico, cosa veramente distingue Luisa Muraro da Cigarini, da altre e dalla stessa Luce Irigaray? La mistica. Da qui Luisa trae il modello di scrittura ma anche la necessità di affidarsi alle pratiche.

«Dalla lettura delle scrittrici mistiche io ho affinato l’orecchio per captare il silenzio, la presenza di un silenzio. […] L’assenza si iscrive come una forma di presenza cava, una forma di cavità in questa scrittura che si arresta nell’ascolto di qualcosa che non può risuonare effettivamente. Questa capacità femminile di scrittura (mi si potrà dire: anche nei mistici; ma negli uomini non tiene, poi si trasforma sempre in un discorso compiuto), questa capacità di discorso sospeso, incompiuto, permette di scrivere quello che non è storia», ossia la storia scientifica. Per Luisa che ha appreso, come tutte noi della nostra generazione post-guerra, la storia da racconti familiari, è difficile accettare l’“oggettività” della storia.

Anche la “teologia favolosa”, rischia di divenire teologia scientifica e allontanarsi da quella teologia in lingua materna che inizia «quando si comincia a parlare di Dio in volgare, in lingua materna, e su questo passaggio sono le donne che si fiondano e hanno una loro letteratura fiorentissima». La teologia intesa come scienza, con tutte le classiche operazioni della cancellazione della differenza femminile e della presenza di donne, è esattamente come le altre discipline. Ma nella mistica, finché la mistica resta mistica, questo non avviene. C’è una letteratura mistica che non si trasforma in teologia scientifica. Per Luisa c’è un legame forte tra la mistica e la politica delle donne, perché in entrambe c’è il tema dell’alterità, del vuoto come rimando all’alterità; quindi, un divenire che non si colma ma che lascia aperto alla differenza sessuale. Un punto importante è quello del “c’è altro” che segna il senso della incompiutezza e della fragilità e che va salvaguardato. Non siamo in una visione nichilista, né al colmo della disperazione, anzi dalla mistica Luisa ha appreso che si può chiedere alla politica anche la felicità. Luisa qui ci sottolinea che il tema della politica e della felicità c’è già nella Costituzione degli Stati Uniti ma che si può trovare la felicità facendo anche ricerca scientifica. Michela Pereira «anche lei in chiave di polemica coi limiti della modernità e della scienza moderna, ha rivendicato alla tradizione alchemica di fare della felicità un tema centrale della ricerca scientifica stessa». Cosa che Luisa ritrova insieme alle pratiche in Margherita Porete. Il primato delle pratiche è una caratteristica di ogni tradizione mistica «perché l’iniziazione mistica deve avvenire secondo modalità che non sono capriccio personale: per uscire dal sé fasullo che la cultura e la società ti costruiscono è necessario farlo avendo un maestro, una guida. […] Il primato delle pratiche lo troviamo anche nel movimento politico delle donne; non nella sua componente solo accademica, perché le femministe solo accademiche hanno adottato le pratiche del mondo accademico necessarie per la ricerca scientifica». Su questo s’innesta un altro discorso molto importante per Luisa, il suo rapporto con l’istituzione universitaria che la porta insieme a Chiara Zamboni a proporre un progetto di autoriforma universitaria.

L’autoriforma

Apro qui una parentesi. Ci sono stati momenti di frizione tra me e Luisa, soprattutto quando nel 1998-99 Massimo D’Alema, primo Presidente del Consiglio dei ministri di sinistra, mandò truppe italiane nella guerra del Kosovo. Luisa s’aspettava da me non una semplice critica, ma un gesto di vera rottura che non feci. Mi accontentai delle solite giustificazioni correnti, ossia la difesa della popolazione, la democrazia etc. Tra l’altro minimizzai anche il suo dissenso che fu abbastanza duro, perché interruppe con me lo scambio di lettere allora scritte a mano, che io ancora conservo, e le sue venute a Napoli a eventi da me organizzati. Minimizzavo anzi, ci scherzavo su, per esorcizzare la sua disapprovazione, dicendo che Luisa, da vera “badessa” (così la chiamavamo scherzosamente nel riconoscerle Autorità femminile) mi aveva scomunicata. Una grande intesa con Luisa, invece, ci fu proprio sul progetto di autoriforma universitaria. Come lei, ho vissuto una profonda estraneità verso quel luogo, che da studentessa, durante la rivolta del ’68, era diventato la mia casa. Ma poi, dopo quegli anni fervidi di lotte e di speranze, l’Università ha subito un lento e forte processo di restaurazione, a colpi di riforme istituzionali che sembravano introdurre piccoli cambiamenti, ma che invece contenevano grandi disegni restauratori. Ne è un esempio l’introduzione dei crediti formativi: sembrava una cosa piccola, ma ha, soprattutto nelle facoltà umanistiche, rotto ogni possibilità di fare dell’Università una comunità di relazioni umane e culturali, che sono alla base di un “corretto” modo di fare ricerca scientifica e didattica.

L’autoriforma, che prese l’avvio da una lettera inviata da Luisa Muraro e Chiara Zamboni a tutte le università italiane, proponeva di avviare un mutamento visibile dell’Università, attivando comportamenti “anticonformistici” e “pratiche di relazione” invece di burocratiche riforme legislative. A questo appello risposero molte università italiane e risposi anche io con un documento che a Luisa piacque molto, intitolato “Lista di rinuncia al concorso” nel quale, invece di rivendicare il diritto di essere ammessi al Concorso, sancivo il diritto di rinunciarvi. Quel “concorsone” non serviva a fare una vera selezione, ma era un paravento di vecchi metodi baronali. Non era la mia solo una provocazione, ma era una denuncia verso una Lista (una vera lista d’attesa) in cui chi vinceva formalmente rimaneva iscritto finché non veniva “chiamato” da qualche università italiana, pena la decadenza se la cosa non si verificava entro tre anni. Il tal caso quindi poi si doveva ripetere tutto daccapo. Era una vera presa in giro, una riproposizione mistificatoria del modello della cooptazione universitaria, che perpetuava le relazioni di potere baronale. La rinuncia non fu solo una proposta, io la realizzai alla lettera non presentandomi mai al Concorso di associato. Ho dedicato le mie energie alla ricerca in un ambito come il Pensiero della differenza, non considerato scientifico dall’Accademica e quindi che non faceva titolo, ma che rispondeva al mio desiderio di fare filosofia in un certo modo e che mi ha dato molta felicità.

Mi accorgo che più di parlare del Quaderno ho parlato dei miei ricordi con Luisa. Partendo da me ho trasgredito “il canone” che governa le recensioni che le vuole neutre e oggettive e quindi ho immesso nella sua biografia ricordi autobiografici che riguardano la nostra relazione. Non è stato per puro egocentrismo ma non credo nell’oggettività della scienza, della storia e della scrittura e quindi non so fare recensioni canoniche.