da il manifesto
“Il femminismo della mia vicina”, di Ginevra Bompiani e Luciana Castellina
«Per un bel pezzo io mi sono vergognata di essere una donna». «Io no». Questo l’incipit del primo capitolo di “Il femminismo della mia vicina” da oggi in libreria per Manni editore (pp. 101, euro 14). A cominciare il dialogo è Luciana Castellina, a risponderle è Ginevra Bompiani. Che due personalità di tale levatura abbiano deciso di interrogarsi sul loro rapporto con il femminismo, inteso come vissuto storico e politico, è una buona notizia. Simile a un memoir in relazione (che non si sarebbe potuto realizzare se non in questa modalità del pensare appassionato e insieme) il volume va a illuminare un tratto di strada che ha radici e collocazioni precise, in primis vi è l’amicizia di Castellina e Bompiani iniziata circa sedici anni fa e coltivata con determinazione e scambio anche nelle divergenze. Volendosi bene, come accade e si rinnova tra di loro, i disaccordi sono dichiarati ma con ascolto reciproco: il primo è che Luciana Castellina si è mossa sempre in una dimensione collettiva e Ginevra Bompiani in una individuale. Questa “vicina” presente nel titolo è allora l’orlo affettivo in cui si trovano una e l’altra, nel sapersi stare accanto pure nella diversità. Seguiamo dunque lo schietto scambio di due magnifiche signore che si immaginano frontali a raccontarsi tra scena pubblica e vita privata.
Nella marca conviviale e mai nostalgica adottata da entrambe, apprendiamo numerosi aneddoti e altrettante tappe fondanti ciò che dal movimento delle donne conduce ai primi collettivi e ai primi guadagni della libertà femminile. Ancora prima da lunghe militanze – non femministe ma femminili – anzitutto nel Pci. Se Castellina affonda ancora più a ritroso citando la stessa relazione tra la Resistenza e ciò che ha rappresentato la nascita dell’Udi, Bompiani rammenta la sua adesione, seppur breve, al gruppo di Rivolta femminile. Dalle svolte di ciascuna, la prima all’interno di un partito e la seconda no, si iniziano a delineare i primi momenti – e ne descrivono diversi con discreta e godibile ironia – in cui hanno riconosciuto che essere donna non sarebbe stato esclusivamente un affare biologico o contingente bensì avrebbe comportato un mutamento dello sguardo, della posizione fino a quell’istante assunta. Per esempio, la coscienza di essere donne in un mondo organizzato dai maschi, in opposizione a una famiglia patriarcale (nel caso di Bompiani) o nelle contraddizioni interne al Pci (nel caso di Castellina).
Essere donne nel senso di una differenza sessuale consente a ciascuna di loro di scassinare lo sgabuzzino simbolico in cui per secoli il patriarcato ha creduto di rinchiuderci. Cosa ci sia dentro quel pertugio di sopraffazione, di violenza epistemica e storica, è un passaggio che spiegano con una certa dovizia a partire da loro stesse e da un punto di avvistamento non solo italiano ma internazionale. «Ci sono molti punti in comune tra il colonialismo e il patriarcato», scrive Castellina e mette in gioco l’identità, nominata più di una volta che tuttavia per Bompiani non esiste se non come invenzione o questione burocratica. Ci sono infine i corpi, le storie di tutte e tutti noi e i nodi più recenti che il femminismo ha affrontato, non tutti comprensibili, con alcune asperità insieme alle inquietudini sul futuro e sull’avanzare delle destre, nel frattempo.
da Il Corriere della Sera
Yasmina Reza è Yasmina Reza. Scrittrice, drammaturga, nessuna di queste. Definirla significherebbe circoscrivere l’esistenza. Cos’è Yasmina Reza? Per afferrare la portata della scrittrice parigina, autrice di una ventina di opere, dobbiamo smetterla di mentire. Ammettere chi siamo, a favore del mondo. Leggere Reza è estrarre la verità dalla retorica: riappropriarci di certi sguardi inconsueti, saper maledire il passare del tempo, imparare a goderci chi si arrabatta al posto nostro. Liberazioni.
I suoi libri sono questo. Questo, più qualcosa che sfugge, come succede a un grande autore finché non arriva un testo che lo contiene tutto. La vita normale è Yasmina Reza per intero. Un romanzo a più ritratti? Una raccolta di racconti? Chiarirlo è ridurre un dipinto di Rothko a uno sfondo colorato. O una partitura di Bach a un susseguirsi di note musicali. Si potrebbe banalizzare così: cinquantacinque spari narrativi tra Venezia e i tribunali francesi, con Reza a testimoniare il corso naturale delle cose. Di più non si può.
E se invece esistesse una parola, una sola parola, per catturare l’iridescenza di quest’opera?
«Se una parola simile esistesse – e non esiste – io sarei l’ultima a trovarla. Non ho uno sguardo critico né tantomeno speculativo sul mio lavoro. Lei adopera un termine che mi piace molto, l’iridescenza, una proprietà magica che dipende dall’angolo visuale. Intuitivamente lo approvo e ne sono commossa. Nel mio libro si affiancano, senza alcun ordine gerarchico, racconti apparentemente anodini o domestici e racconti di processi che sembrano esulare dall’ordinario. A seconda del modo in cui li osservo, assumono tutti i molteplici e sconcertanti colori della “vita normale”».
Forse dobbiamo scomodare Céline: la normalità è l’abisso. Quanto ha deciso questo libro e quanto è venuto naturale come la vita stessa?
«Sono anni che vado ad assistere a processi. All’inizio era per semplice curiosità e per il desiderio di sottrarmi alla specificità sociologica del mio ambiente professionale. Non avevo intenzione di farne un libro, e per un bel pezzo non ho neanche preso appunti. Finché poi ho cominciato a prenderne, e a scrivere brevi resoconti personali, come faccio da sempre in svariate situazioni. Così sono nati Hammerklavier e Nulle part. Fotografie soggettive della vita. Un giorno mi sono resa conto che quei testi si facevano eco e come da contrappunto gli uni con gli altri. La vita non è suddivisa in compartimenti stagni, è incasinata, e passa in un batter d’occhio dall’estremamente banale all’eccezionale».
È un libro che vince la morte, perché ne contrasta il patetico. Dopo averlo letto è più facile confrontarsi col destino. “Spoon River” mi fece lo stesso effetto.
«Oh, quanto mi piacerebbe! Lei è troppo generoso. La mia prima commedia si intitolava Conversazioni dopo un funerale. Ho cominciato a scrivere, per così dire, con lo sguardo rivolto a una tomba. E non ho mai smesso. Vedo ogni cosa alla luce del limite. Si ricorda qual era, per Epicuro, il rimedio alla morte? “Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi”. È vero, ma solo al livello dello stato di coscienza. Per il resto, la morte è onnipresente, come inclusa in noi stessi, e viene esperita, ahimè, quando si tratta degli altri».
“Spoon River” gioca con i rimpianti nella tomba. “La vita normale” lo fa con i rimpianti in corso, forse. Ma forse sotto sotto dà una possibilità ai suoi personaggi di invertire la rotta, avvicinandoli a una forma di tenerezza.
«La sua domanda mi ricorda, ammesso che sia necessario, a che punto un libro appartiene al lettore. Personalmente, non mi sembra che nella Vita normale si parli poi tanto di rimpianti, tranne forse in un paio di testi. In compenso, la vera costante, secondo me, è l’irreversibilità del tempo. Sono felice, tuttavia, che lei citi la tenerezza. Su questo sì che sono d’accordo».
Vorrei confidarle una cosa: leggendolo, mi è venuta in mente una riflessione di Goliarda Sapienza sugli effetti imprevedibili dei libri nei lettori. Diceva: quando un libro è stato scritto in libertà – la vera libertà – dopo farà quel che gli pare. C’è un sentimento (o un’urgenza), magari sottotraccia, di cui si è nutrito?
«Lei mi tortura, caro Marco! Ma la frase di Goliarda Sapienza è assolutamente giusta. Penso che qualsiasi scrittura dotata di un qualche valore scaturisca da una ricerca sotterranea e ostinata. Proprio in questa ricerca risiede la libertà. Le parole non dicono che una parte visibile, in realtà costruiscono un certo silenzio. Il silenzio è predominante, è ciò che resta, e ciascuno lo interpreta a modo suo. Per quanto riguarda la sua domanda, ho cercato invano una risposta. Forse è qualcosa di indicibile».
La questione del silenzio è capitale. Avevamo definito “acquari” gli spazi in cui i suoi personaggi si muovono, perimetri teatrali dove vanno in scena non-detti. “La vita normale” ha acquari e silenzi già nella struttura, brevi racconti dove le anime nuotano nell’esistenza. In questo, il capitolo su Roberto Calasso mi sembra esemplare. L’attendere il taxi di Calasso, il sospetto che si annoi e che tempo dopo la verità su questa noia venga a galla. Perché Calasso come scelta? Cosa trasforma una persona in qualcosa che valga la pena di essere raccontato?
«Se una persona si inscrive nel tuo universo sensibile te ne accorgi subito. Io ho un debole per quelle angosciate e quelle inclassificabili. Ero a conoscenza delle formidabili qualità intellettuali dell’uomo. Ma Roberto Calasso “dal vivo” mi è subito piaciuto enormemente. Il suo terrore di essere costretto a fare conversazione con un nuovo scrittore (terrore che capisco benissimo), la sua incapacità di fingere un’amabilità mondana, la sua immediata facilità alla noia (che si annoiasse non era un sospetto, per me, era un dato di fatto inequivocabile). Il cappotto abbottonato fino al collo come un bambino che aspetta che vengano a prenderlo! Tutto questo è materia preziosa».
Il cappotto abbottonato di Calasso, ma anche la postura «leggermente curva» di Bruno Ganz al tavolino. Mentre si legge il racconto che gli ha dedicato, la sensazione è di una malinconia luminosa (e a sorpresa) che ci sfugge. È come se questo libro l’avesse catturata, ma ho il sospetto che sia stato possibile perché il narratore ne è testimone a pelle viva. Una prima persona singolare normale e proprio per questo, totale.
«Le sue parole mi colpiscono. In quanto narratrice mi situo sempre esattamente alla stessa altezza delle persone che osservo. Non saprei che cosa aggiungere, dato che lei descrive alla perfezione ciò che tento di cogliere ogni volta, nell’aula di un tribunale come nella vita quotidiana».
Ma gli eventi giudiziari non la corrompono? Truman Capote disse che con i potenziali criminali rischiava di perdere la giusta distanza perché gli regalavano storie meravigliose.
«Truman Capote aveva stabilito un legame reale, fisico, con gli imputati. Si era addirittura affezionato a loro. Anch’io mi affeziono. Ho un debole per alcuni, ma resto a distanza, tra me e loro non esiste alcun rapporto. Nessuno mi ha raccontato storie meravigliose! Nella frase di Capote intravedo un lieve romanticismo. Ma capisco quello che dice, dal momento che appena ci si avvicina davvero alle persone le affinità umane alterano il giudizio morale».
E siamo arrivati a Venezia. La città di questo libro, una delle sue città. Che storia c’è tra Yasmina Reza e Venezia?
«Un amico mi aveva detto: è una città propizia all’ispirazione letteraria. Lui ci stava girando un film. Sono andata sul set ed è stato un colpo di fulmine. La bellezza, la storia incredibile, la libertà di movimento, i rumori notturni, la strana e incomprensibile laguna… Il mio attaccamento alla città non è mutato, ma Venezia non è quasi più una città reale. È ormai totalmente in balìa di quella calamità che è il turismo di massa, e si sta tragicamente spopolando. Da quando ci abito una parte dell’anno, il mercato si è ridotto della metà. I negozi chiudono l’uno dopo l’altro per diventare o ristoranti o assurde bottegucce di souvenir. Tutto ciò mi rattrista enormemente».
Sa cosa diceva W.G. Sebald? A un certo punto rischiamo di innamorarci di una città che rispecchia la nostra architettura di storie. Se penso a Venezia, e a libri come “Felici i felici”, “Babilonia”, “Serge”, gli scritti teatrali, “La vita normale”, ecco, mi appare che la sua pagina sia questa mappa: per le “isole” circoscritte che crea nelle strutture, la brevità, gli ambienti dove incontrarsi quasi per caso e svelarsi, il mondo della notte, l’invasione dei destini altri, una certa dose di disincanto rispetto al passato.
«Un’osservazione che mi sconcerta, la sua. Non ci avevo mai pensato – del resto, non rifletto mai sulla mia scrittura –, ma non posso negare che lei abbia ragione. Sì, certo, gli spazi circoscritti, le unità classiche di tempo e di luogo, un certo mondo conchiuso, il caso che governa gli incontri, gli eventi che si producono all’angolo di una calle e sono come catastrofi in miniatura. Anche la questione del tempo è onnipresente a Venezia. Il tempo che lascia un segno sui muri, la schiuma dei canali, l’abbandono in cui versano tante sue zone. Credo si possa trovare traccia di tutto ciò nelle emozioni che mi guidano e su cui si basano i miei testi. Ma lei l’ha detto meglio di me. Mi viene in mente un’altra cosa: in genere, i posti in cui agiscono i miei personaggi mi diverto a inventarli. Invento nomi di città, di strade. Venezia è la sola città di cui cito i veri toponimi».
Probabilmente perché è un teatro a cielo aperto. In questo Venezia unisce le sue arti capitali, la drammaturgia e la narrativa, attraverso il passare inesorabile del tempo, che forse è la sua più grande ossessione.
Quanto fa incazzare il passare inesorabile del tempo. Secondo lei i libri, la vita normale che scorre nei libri, ne sono antidoto?
«Sarebbe stupendo se fosse così! Direi, piuttosto, che i libri confermano la fuga inesorabile del tempo. La vita normale che scorre nei libri è ancora più effimera della vita normale che viviamo. È una vita che si è già svolta. Nel passato. Anche se la narrazione è al presente si tratta di un presente compiuto. In un certo senso, la letteratura è incapace di fissare il presente. Nel migliore dei casi illumina un presente universale che potrebbe riprodursi ma che ci ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, che la vita è fragile e breve. La lettura, in compenso, è un atto che, come la preghiera, consiste nel sottrarsi al tempo».
Da lettrice, ha libri – o autrici, autori – che l’hanno sottratto alla maledizione del tempo? Ne “La vita normale” cita “Tempo di seconda mano” di Svetlana Aleksievič.
«Non è una questione di autori: parlo del semplice fatto di leggere. Leggere ci separa dal contesto immediato. È un una pausa tecnica, se me lo consente. Il tema centrale di Tempo di seconda mano sono proprio le epoche, la nostalgia, il senso della perdita. Un capolavoro, questo, che non può in alcun modo strapparci alla percezione del tempo».
Una domanda da non fare mai a Yasmina Reza: a questo punto della sua esistenza, e del suo percorso artistico, e contro lo scorrere del tempo, cosa la rende felice?
«Anche ammesso, caro Marco, che io fossi disposta a rispondere a una simile domanda, non ci riuscirei! La gioia è inattesa, ci prende alla sprovvista. Anzi, non sono nemmeno sicura che dipenda dalle circostanze. In passato, quando ritenevo di star costruendo la mia esistenza, ero più eccitata, più nervosa, ma certo non più gioiosa. In definitiva, le cose che contano sono sempre le stesse. E sono infinitamente banali. Camminare nella natura, discutere dei massimi sistemi e ridere con i miei cari, con i miei amici».
Era un interrogativo che avrei voluto porre ai suoi personaggi. Soprattutto alle anime della Vita normale. Cosa li rende felici? Non sapevo immaginare una risposta e forse ho capito perché: perché la banalità della gioia è un atto straordinario. Normali i normali, ribaltando Borges.
«In Babilonia la narratrice, pur travolta da eventi tragici, accenna alcuni passettini di danza al centro del salotto di casa. Nella Vita normale il personaggio di N., dopo una serata in cui non ha fatto altro che lamentarsi, canta scendendo le scale. Sempre nello stesso libro, un assassino di donne ride nel sentire la frase di una delle sue vittime miracolosamente scampata alla morte. E anche la vittima ride, di cuore, e anche la corte. Niente a che vedere con la felicità, in tutto ciò: sono solo attimi di gioia. La gioia per effrazione. La gioia insolente che si intrufola nella vita, spesso controcorrente. Si trovano molti esempi di questo tipo di gioia nelle mie opere teatrali e nell’insieme dei miei testi. È una forma di frivolezza esistenziale. Ho sempre pensato che sia questa predisposizione a salvarci».
La gioia insolente, oltre la felicità. E la leggerezza, intesa come sostanza delle parole nella loro precisione e necessità. Il prossimo Salone del Libro di Torino avrà come tema proprio questo essere leggeri – attraverso la parola – nell’incontro con il mondo. Lei lo inaugurerà, e trovo la sua partecipazione puntualissima, vista la spinta che ha nel delineare la realtà.
«La leggerezza non si impone per decreto. È un’attitudine originaria, diciamo così. Nella vita come nella letteratura. Spesso la si confonde con un difetto di sostanza o di profondità. È un errore. Mi piace, inoltre, il nesso che lei stabilisce tra leggerezza e precisione. Sì, la leggerezza presuppone la precisione».
«Gli annegati parlano ai vivi». È l’incipit di uno dei tasselli de “La vita normale”. Potrebbe avere a che fare con l’intero suo percorso artistico. Una sorta di richiamo, che viene dall’abisso, e che tocca chi è su questa terra, avvertendolo che il destino nascosto nella normalità è sempre «prendere il mare e non tornare più in porto». Lo sente come filo conduttore dei suoi scritti?
«Sì, noi tutti prendiamo il largo, ci imbarchiamo, e non facciamo mai ritorno al porto da cui siamo salpati. Mi viene da citare un poeta francese che ammiro, Charles Pennequin: “Prima della notte del vivente c’è la notte del prima di vivere. La grande notte. E dopo, poi, c’è la grande notte del dopo. E a noi dicono di vivere proprio al centro”. Il che mi ricorda una frase di uno degli epitaffi di Spoon River: “Entrate nella stanza – ovverosia nascete;/ e poi dovete vivere – affaticarvi l’anima”. La letteratura fa eco alla letteratura. È una grande sfida mantenere il proprio posto di vivente quando la destinazione finale è opaca. Questo miscuglio di slancio vitale e incertezza non è forse il filo conduttore di tanti scrittori?».
da il manifesto
La verità – questo vincolo donato dai fatti alla libertà dell’opinare, e insieme quest’ultima barriera all’arbitrio del potere sul pensiero –, dunque la verità nella sua relazione con la libertà umana, l’autonomia personale e la democrazia: questo è il tema profondo e il filo non invisibile dei cinque scritti qui raccolti (Fascismo e democrazia, traduzione di Elena Cantoni, in libreria dal 24 di aprile per le edizioni Fuoriscena, pp. 96, euro 12, ndr). Furono pubblicati fra il 1940 e il 1945 da George Orwell, nom de plume di Eric Blair, nato nel 1903 a Motihari, nell’India britannica, e morto a Londra nel 1950. Sono interventi scritti quando l’autore aveva fra i trentasette e i quarantadue anni, dopo che aveva attraversato con il corpo e con l’anima l’Oriente colonizzato e l’Occidente sconvolto da totalitarismi e guerre.
Uno sguardo a volo sulla vita di Orwell ci aiuterà a mettere meglio a fuoco questa chiave di lettura. Transfuga del college di Eton, dove aveva appreso la lingua e la letteratura francesi da Aldous Huxley, a diciannove anni fu spedito nell’estremo avamposto orientale dell’Impero britannico, in Birmania, per divenirvi ufficiale della polizia imperiale, ma già a venticinque anni lasciò la carriera di funzionario coloniale per farsi esploratore e partecipe della miseria degli ultimi nelle metropoli europee, raccoglitore di luppolo nelle campagne del Kent, girovago e barbone per conoscere la vita delle prigioni britanniche. Ferito quasi a morte fra i combattenti del Poum (Partido Obrero de Unificación Marxista) nella Guerra civile spagnola del ’36, e sfuggito miracolosamente all’eccidio staliniano degli antistalinisti che concluse tragicamente la sconfitta della rivoluzione spagnola, quest’uomo sembra un discendente di Erodoto, con un’anima francescana e uno spirito critico sulfureo, ignaro di orizzonti celesti, una sorta di viandante cherubico intriso di humour britannico. Scrittore e pensatore fra i più lucidi dell’intero Novecento, capace di sopravvivere ai mestieri più umili della campagna e alle redazioni dei quotidiani metropolitani, voce che si levava inconfondibile e identica dalle pagine di prestigiose riviste accademiche, dai microfoni della Bbc, dalle colonne dell’Observer, di cui fu corrispondente di guerra, Orwell bruciò la sua breve vita come divorato da una passione di conoscenza esatta ed empirica delle leggi dell’anima nel suo rapporto con le società e le loro istituzioni: tradizionali, coloniali, liberali, democratiche, totalitarie. A proposito di verità, o della sua ricerca.
Gli scritti raccolti in questo libro furono pubblicati appena prima che il loro autore raggiungesse finalmente il successo mondiale con La fattoria degli animali (1945), la novella satirico-swiftiana che nel suo fiabesco humour inscena, con il nitore e la levità di un teatrino di marionette, l’involuzione di una società dell’eguaglianza verso una società totalitaria. Che avviene precisamente attraverso l’accettazione collettiva, più o meno impotente, più o meno corriva, di una manipolazione graduale e sistematica della verità da parte di pochi; la quale presto si fa manipolazione del linguaggio e della sua anima logica, fino al celeberrimo «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri», unico e nuovo comandamento rimasto al posto dei sette a cui si era ispirata la gloriosa rivoluzione degli animali di Manor Farm.
La manipolazione del linguaggio: passaggio obbligato perché si costituisca quel «rapporto obliquo con la verità» in cui si di sfa ogni vincolo di ragione e ogni limite all’arbitrio del potere, come si disfa ogni vincolo etico quando si dissolvono quelli logici. Nessuno più di Orwell ci aiuta a esplorare il senso della celebre frase di Musil: «Ciò che chiamiamo cultura non usa direttamente come proprio criterio il concetto di verità, e tuttavia nessuna cultura può fondarsi su un rapporto obliquo con la verità». Ed ecco, troneggiante sulle nostre città, la luccicante piramide bianca del ministero della Verità, con iscritti i Principi del bipensiero (doublethink): La guerra è pace, La libertà è schiavitù, L’ignoranza è forza.
Di lì a poco, nel 1949, uscirà 1984, il capolavoro che crea una nuova categoria dello spirito, o piuttosto dà nome a una nuova qualità del demoniaco: «orwelliano»; dove lo humour satirico della Fattoria degli animali vira al tragico e lo studio della decostruzione dell’identità personale attraverso la rinuncia alla distinzione fra il vero e il falso raggiunge livelli di profondità – e di attualità – da mozzare il fiato.
La verità nella sua relazione con la politica e con l’esercizio del potere, con l’etica e con il coraggio di pensare con la propria testa, addirittura con la costruzione della propria identità, con il pensiero critico e la democrazia, non costituisce certo un tema nuovo. Non dovrebbe stupire che un tema simile sopravviva al secolo passato, non sbiadisca in seguito al crollo dei totalitarismi novecenteschi e ridiventi tanto attuale in questo, se già lo era ai tempi di Socrate, che per primo lo portò alla luce del pensiero. Forse non è solo il filo rosso della meditazione saggistica e narrativa di Orwell, forse è il filo stesso della filosofia, ogni volta che si sfila dalla sofistica. Non aveva torto Simone Weil quando consigliava di scrivere di cose eterne per essere attuali. Ma ora dobbiamo vederle più da vicino, le due cose: il filo del pensiero di Orwell sulla verità, da un lato, e l’attualità di questo pensiero per noi dall’altro. Cominciamo dalla seconda. Proprio là dove sono stati istituiti, in «Oceania», la «libera ricerca della verità oggettiva e (il) libero scambio delle idee e delle cognizioni», che compongono il diritto umano fondamentale cui è dedicata la carta dell’Unesco, sono oggi di nuovo a rischio.
La ragione di questo pericolo più che incombente non è difficile da scoprire: quando la politica uccide la sua stessa ragion d’essere, che è quella di risolvere i conflitti senza guerra, essa diventa letteralmente una continuazione della guerra con altri mezzi. E la guerra è da sempre la più grande nemica della verità anche nello spazio pubblico delle democrazie, che è certamente lo spazio del confronto delle idee e delle ragioni, ma anche – e in modo più basilare – dell’informazione sui fatti. Anzi: sui fatti e sulle norme, per esempio quelle del diritto internazionale vigente, appunto. Anche se «nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra», secondo una pagina famosa di Hannah Arendt, questi rapporti cessano del tutto quando la politica si rovescia, suicidandosi, nella guerra. Oggi sull’arena internazionale tutte le potenze dominanti investono soltanto nella legge del più forte, calpestando e irridendo il diritto; ma per farlo su così vasta scala anche in «Oceania» occorre prima rimuovere la verità dei fatti dallo spazio dell’opinione pubblica. Peggio: non rimuoverla sempre, ma ora sì e ora no, secondo convenienza. È la bomba logica dei doppi standard, per cui se invadi, uccidi e deporti sei un criminale di guerra ed è giusto che ne sopporti le conseguenze anche giudiziarie, nel caso tu sia – poniamo – l’autocrate russo; ma se per caso sei il premier israeliano stai solo difendendo il diritto di Israele a esistere. «La cosiddetta oggettività» la stessa Arendt l’aveva definita, a mio parere del tutto infondatamente, «questa curiosa passione, sconosciuta al di fuori della civiltà occidentale».
Ma il fenomeno oggi più pervasivo – e insieme il più ignorato – è che la distruzione dell’oggettività sia più insidiosamente praticata, nei media e sulla stampa più influente, anche in «Oceania», dove, almeno per i media di grande tradizione democratica, non si può contare sul metodo «Pravda», che ha il suo antidoto (non credere a una sola parola). Ciò a cui assistiamo è invece che il verificabile, l’inverificabile, le omissioni, i doppi standard e l’attribuzione al destino delle più sciagurate pulsioni (l’illusione della pace è finita, la guerra è un male necessario) sono equamente distribuiti. Certo, tutto questo non accade per la prima volta. E ben lo sapeva Orwell, che nell’ultimo degli interventi qui raccolti ricorda il cumulo di menzogne che abitavano la stampa di entrambe le parti durante la Guerra civile spagnola nel ’36, e ricorda anche con quale sconcerto aveva «visto i giornali londinesi ripetere le stesse bugie, intellettuali volonterosi costruire intere sovrastrutture emotive su eventi che non avevano mai avuto luogo».
da Il Fatto Quotidiano
Cinquant’anni fa, il 20 novembre del 1975, il presidente del governo spagnolo Carlos Arias Navarro annunciò la morte del dittatore fascista Francisco Franco. Due giorni dopo, il re Juan Carlos di Borbone giurò come re di Spagna e nuovo capo dello Stato. Un anno dopo, le Cortes approvarono una legge che aprì le porte alla democrazia. Per ricordare la ricorrenza, l’editore Giunti ha pubblicato il romanzo La pasadora della scrittrice barcellonese Laia Perearnau. Si tratta di un omaggio vibrante al contributo dato dalle donne di Spagna, a lungo ignorato oppure rimosso, alla causa antifascista e antinazista. In particolare riporta alla luce quelle donne, soprattutto catalane, come Teresa Carbò, che militarono nelle reti di resistenza portando in salvo (come passadores, portatrici, appunto) dai tedeschi che occupavano la Francia partigiani del maquis, ufficiali delle missioni alleate, ebrei, sulle montagne dei Pirenei. Diverse di loro alimentarono poi anche la lotta clandestina contro il franchismo, che si attivò, principalmente per opera degli anarchici, dopo la sconfitta della Repubblica nel 1939.
In epigrafe al suo libro, peraltro molto ben costruito e appassionante, Laia Perearnau, classe 1972, giornalista televisiva e narratrice, ha voluto citare la frase di una di quelle donne straordinarie, Antonina Rodrigo, “Mujer y exilio”: «Gli uomini hanno partecipato alla guerra, alla Resistenza […] e sono passati alla storia ricevendo onorificenze e monumenti a loro dedicati. Anche le donne hanno fatto la guerra, hanno preso parte alla Resistenza […] eppure sono ancora assenti dai libri di storia, le loro battaglie non sono state registrate».
L’autrice de La pasadora ha spiegato che «nei libri di storia, nei documentari e in tutte le fonti scritte che ho consultato, nessuna testimonianza attestava il coinvolgimento attivo di donne nell’immane compito di aiutare migliaia di individui ad attraversare le montagne per poter sfuggire al Terzo Reich. Per questo ho deciso di mettere da parte i libri, tutti sostanzialmente scritti da uomini, e di addentrarmi nel mondo degli storici e delle storiche locali, delle testimonianze orali e della documentazione degli archivi storici». Nonostante «tale silenzio autoimposto, tuttavia, sono riuscita a trovare qualche nome e delle storie, alcune più epiche di altre ma tutte ugualmente degne di essere salvate dall’oblio».
Tre di quelle donne compaiono nel romanzo. Una di loro si chiama Conxita Grangé. Faceva «da intermediaria con i guerriglieri e i maquis di Tolosa. Lei e sua zia Elvira Ibarz furono consegnate alla Gestapo, imprigionate e torturate in quella stessa città francese, dalla quale in seguito furono deportate in Germania. Attraversarono la Francia da sud a nord insieme ad altri settecento detenuti nel cosiddetto “treno fantasma”, in un viaggio durato due mesi sotto i bombardamenti alleati e gli attacchi del movimento maquis. Il 9 settembre furono internate nel campo di concentramento di Ravensbrück. Conxita fu insignita dal governo francese della Legion d’Onore e della Medaglia della Resistenza, e dedicò buona parte della propria vita a raccontare la sua esperienza nelle scuole e a mantenere viva la memoria delle donne deportate».
da il manifesto
Da uno scherzoso componimento liceale a una strofa buttata giù alla vigilia della morte: le poesie «disperse» vengono ora raccolte da Andrea Ceccarelli sotto il titolo «Racconto antico», da Adelphi
Cimentandosi nel 1996 in quel particolarissimo genere letterario che è il discorso di accettazione del premio Nobel, Wisława Szymborska deplorava con la consueta ironia il carattere «nient’affatto fotogenico» del proprio mestiere. Nessun regista, a suo dire, si sarebbe mai arrischiato a girare un documentario sulla vita quotidiana di un individuo che «fissa con lo sguardo immobile la parete o il soffitto, di tanto in tanto scrive sette versi, dopo un quarto d’ora ne cancella uno, dopodiché passa un’ora in cui non accade nulla… Quale spettatore reggerebbe uno spettacolo simile?» Peggio ancora, questa sequenza soporifera si sarebbe verosimilmente conclusa con l’attimo in cui il poeta insoddisfatto, dopo tante tribolazioni, annienta i frutti imperfetti del proprio lavoro.
All’esercizio dell’auto da fé Szymborska si dedicava in effetti con una certa ostinazione – lo dimostra il fatto che al momento dell’attribuzione del Nobel fosse autrice di soli nove esili volumetti di poesie, di cui due (quelli degli esordi real-socialisti risalenti a mezzo secolo prima) disconosciuti e mai più ripubblicati.
Eppure nel suo caso il reiterato ricorso al cestino della carta straccia – da lei ritenuto lo strumento più prezioso per chi scrive – non era motivato esclusivamente da una spasmodica tendenza all’autocritica. Altrettanto stringente doveva sembrarle l’imperativo etico di utilizzare con morigeratezza quel potere quasi stregonesco che offre la scrittura: retrocedere al «paradiso perduto della probabilità», addentrarsi tra gli interstizi del possibile e fondare così, sulla base degli elementi trascelti, un ordine diverso da quello esistente. Se scrivere è innanzitutto «la vendetta di una mano mortale», ovvero la creazione di un mondo alternativo di cui l’autore stringe strettamente in pugno le «sorti indipendenti», è chiaro che di un simile dono non si dovrebbe abusare, pena l’incorrere in quei pericoli che Szymborska aborriva, e cioè nel chiacchiericcio o, peggio, nella falsità.
In un lungo arco temporale
Considerando la propensione dell’autrice verso questa sorta di ecologia della creazione, sembra tanto più straordinario che a tredici anni ormai dalla sua scomparsa escano ancora poesie inedite, non incluse in nessuna raccolta pubblicata in vita, ma nemmeno distrutte. Poesie che difficilmente potrebbero essere raggruppate sotto una rubrica diversa da quella di «disperse» scelta da Andrea Ceccherelli per il sottotitolo di Racconto antico, proposto ora da Adelphi a sua cura (pp. 140, € 13,00). L’ampiezza dell’arco temporale (si va da uno scherzoso componimento liceale a una strofa messa su carta alla vigilia della morte), nonché l’ovvia eterogeneità dell’intonazione, rendono infatti impossibile individuare fra questi versi un minimo comune denominatore. Al contempo, non è difficile intravedervi quell’interrogazione tenace e spesso stupita del reale che costituisce la cifra inconfondibile della poetessa polacca. Così come pressoché immutata nel tempo rimane la sua tendenza a procedere secondo una logica accumulativa, che ai risvolti concreti dell’essere affianca innumerevoli varianti irrealizzate.
Queste eventualità inopinatamente scartate dal destino talora restano, a volte, perfino implicite, consegnate a un pudico, quanto scherzoso non detto: «Se mai le cose potessero parlare – / ma se parlassero, potrebbero anche mentire. / Soprattutto quelle ordinarie e poco apprezzate, / per attirare finalmente l’attenzione. // Mi spaventa l’idea / di cosa mi direbbe il tuo bottone caduto, / e a te la mia chiave di casa, / vecchia mitomane».
Altrove, la vita potenziale degli oggetti si condensa in apologhi spassosi, invariabilmente conclusi da appelli edificanti alla gioventù comunista. È il caso di Favole sulla vita delle cose inanimate del 1949, dove la poetessa – allora ventiseienne – immagina le possibili sorti di un libro che, non essendo mai stato letto da nessuno, decida di leggersi da solo; inoltre, di una stufa intenzionata a cambiare quotidianamente nome, a seconda del santo o della santa celebrati quel giorno: e, ancora, di un letto pigro, convinto che non esista nulla di meglio del sonno.
L’alternativa del «se mai» assume tonalità affatto diverse in La dialettica e l’arte, forse una delle poesie più «dissenzienti» di Szymborska, uscita a Parigi sulla rivista dell’emigrazione polacca «Kultura» nel 1985 sotto pseudonimo, e significativamente non inclusa nella raccolta successiva, Gente sul ponte, uscita l’anno seguente. Qui l’autrice passa in rassegna le prevedibilissime conseguenze derivanti per un poeta dal sottomettersi supinamente alle direttive del potere politico o, al contrario, dall’ignorarle: «La tua opera, artista, è sulla bilancia della sorte / Se dirai Sì / subito acquisterà peso / Se dirai No / ne perderà all’istante / Se dirai Sì / diventerai finalmente / migliore dei peggiori / perché i peggiori saranno quelli che hanno detto No».
Quando tutto è bianco o nero
Umori non meno sediziosi trapelano da La tribuna, dissacrante ritratto di non meglio specificate autorità militari e civili, che evoca alla mente i Generali dipinti da Enrico Baj. Più malinconica è invece la riflessione metapoetica contenuta nel componimento dedicato a František Halas, poeta ceco che, malgrado la sua militanza di sinistra e il ruolo attivo svolto nella Resistenza, divenne oggetto di una sorta di damnatio memoriae in epoca staliniana. Irridendo il manicheismo propagandato dall’alto («Semplifichiamo il mondo. L’erba sappia / che anche il suo colore o è bianco o è nero»), la poetessa polacca osserva ironicamente come le «vie di un tempo, non perfettamente rette» non siano ormai più tollerate.
Forse ha origine proprio da questa constatazione la sua successiva tendenza a deviare dagli schemi precostituiti («Sono, ma non devo / esserlo, una figlia del secolo») per progettare «un mondo nuova edizione /, riveduta», che risponda unicamente alle regole della scrittura. È la prospettiva aperta in Racconto antico, forse la più bella tra le «poesie disperse», riemersa dall’archivio del marito dell’autrice Adam Włodek. Sancendo qui per la prima volta l’autonomia assoluta dell’universo letterario rispetto a quello reale, Szymborska afferma scherzosamente il carattere veridico di ogni narrazione, dal momento che chi scrive non può fare a meno di condividere, soprattutto nei momenti più lieti, le esistenze di carta dei suoi personaggi: «L’autore giura che era lì al banchetto / con gli sposi, a bere vino centenario, / che nel mondo non descritto è troppo caro».
da L’Altravoce il Quotidiano
Il 23 marzo 1944, in un pomeriggio di sole, nella Roma occupata dai nazifascisti, un gruppo di giovani partigiani dei Gap (Gruppi di azione patriottica), organizzazione clandestina armata del Partito Comunista, in via Rasella fa strage di tedeschi. Ritanna Armeni con il suo ultimo romanzo A Roma non ci sono le montagne edito da Ponte alle Grazie, ci catapulta in quel pomeriggio. Protagonisti sono giovani borghesi, colti, studenti, assistenti universitari o docenti, qualche operaio, che hanno scelto la lotta armata contro i tedeschi e i loro servi fascisti, in attesa dell’arrivo degli alleati (4 giugno 1944). Carla Capponi (nome di battaglia Elena), Sasà Bentivoglio (Paolo), Carlo Salinari (Spartaco), Franco Calamandrei (Cola), Maria Teresa Regard (Piera), Mario Fiorentino (Giovanni), Lucia Ottobrini (Maria): sono questi i loro nomi e quel pomeriggio ognuno/a è al proprio posto. Giorgio Amendola, dirigente del Partito comunista e componente del Cnl (Comitato di liberazione nazionale) e Spartaco, comandante del Gruppo, controllano che tutto vada secondo i piani. Tutto doveva avvenire entro le 14.00 quando il battaglione Bozen formato da 150 tedeschi, cantando e marciando, avrebbe attraversato via Rasella, secondo il racconto di Mario e Lucia che dalla loro finestra, ogni giorno, sentivano le voci e il rumore degli stivali. Tutti aspettano. Aspetta Sasà vestito da spazzino con il suo carretto pieno del tritolo portato da Carla, andando su e giù per le strade controllate dai tedeschi. Lei aspetta, con la borsa piena di bombe a mano, davanti al portone del “Messaggero” con un impermeabile al braccio che poi darà a Sasà. Tutti gli altri aspettano con pistole e bombe a mano costruite da Giulio, il giovane laureato in fisica. Perché i romani non prendono le armi, non si ribellano contro gli occupanti che in città seminano terrore e morte? «Perché – risponde l’autrice – a Roma non c’erano le montagne dove nascondersi come i partigiani del resto del Paese. Per nascondersi si poteva contare solo sui portici, sulle strade strette del centro, sui quartieri che in periferia si intrecciavano e si confondevano con le chiese o dei conventi. Le truppe naziste non si annunciavano, apparivano all’improvviso, sfilavano per le strade, perquisivano i cantieri, entravano nei portici. Toglievano il respiro […] sfinivano con la loro presenza». Terrore e odio seminava, insieme ai fascisti, Herbert Kappler, comandante della Gestapo, con arresti e torture. Aveva svuotato il Ghetto e deportato gli ebrei dopo averli ingannati facendosi consegnare 50 chili di oro in cambio della deportazione. Intanto a via Rasella il tempo passa ma dei tedeschi non c’è traccia. Sono alla festa nostalgica dei fascisti per l’anniversario della nascita del Partito (23 marzo 1919). Minuto dopo minuto l’autrice ci rivela i sentimenti contrastanti dei partigiani che stanno per annullare l’operazione militare quando alle 15.45 il battaglione arriva, marciando e cantando. L’esplosione è terribile, una strage (33 morti, un ragazzo lì per caso e molti feriti). I partigiani fuggono, i tedeschi sotto shock reagiscono subito, colpiscono le finestre, entrano nei portoni e nei negozi, fanno saltare le serrature, perquisiscono gli appartamenti, prendono i civili, compresi donne e bambini, separano gli uomini dalle donne. Da Berlino arrivano gli ordini di una rappresaglia esemplare che faccia “tremare il mondo”. Hitler vuole fucilati dai 30 ai 50 italiani per ogni tedesco ucciso, ma per paura di una insurrezione si decide 10. E fu l’eccidio delle Fosse Ardeatine (320 innocenti). Nella ricorrenza di quegli eventi come non pensare a Gaza dove, dopo il massacro del 7 ottobre, la rappresaglia è diventata genocidio di un popolo e le Fosse Ardeatine un abisso di odio, disumanità e morti tra cui migliaia di bambine/i innocenti?
(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 29 marzo 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)
da il manifesto
Per un comunismo della cura di Gian Andrea Franchi edito da DeriveApprodi (pp. 192, euro 18) è un testo fondamentale per chi voglia riflettere sul presente, il recente passato e avere una visione del futuro in cui i fenomeni migratori, per ragioni climatiche e scenari di guerra, sono destinati ad aumentare drasticamente. Franchi è uno dei fondatori di Linea d’Ombra, un’organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 che riunisce gli attivisti che accolgono i profughi della rotta balcanica, diretti soprattutto verso il nord Europa, nella piazza antistante la stazione di Trieste, ribattezzata Piazza del Mondo.
Si tratta di un’esperienza che nasce da un’azione spontanea di Lorena Fornasir che di fronte allo scenario di uomini e donne coi piedi martoriati dal cammino lungo e difficoltoso, decide di occuparsi di quelle ferite, per aiutarli a proseguire nel loro percorso. Del resto, scrive Franchi, «la cura si esprime efficacemente nel contatto fra i corpi».
La cura, come indica il titolo, è uno dei temi fondamentali di questo testo così denso e allo stesso tempo lucido: «la cura è politica o non è cura» chiarisce però Franchi. In un contesto quale quello neoliberista in cui viviamo, la cura viene rimossa perché non è funzionale al sistema capitalista che è, come già Marx indicava, mortifero più che votato alla salvaguardia della vita.
Del resto, come viene chiarito qui, quando a dominare è la produzione e quindi il tempo deve essere interamente votato al profitto, «il lavoro di riproduzione», cioè la cura, viene declassato o reso invisibile, nonostante sia ciò che garantisce la vita della specie umana, risaputamente vulnerabile. Gian Andrea Franchi sottolinea, poi, come la tanto millantata sicurezza, parola entrata nel discorso pubblico ormai da tempo e che sembra essere diventata l’unico obiettivo dei governi occidentali, abbia la sua etimologia nell’assenza di cura, derivando proprio da sine cura. C’è nel modo in cui l’autore descrive l’esperienza nella Piazza del Mondo qualcosa di miracoloso, non tanto per il valore etico evidente di quello che vi accade, ma per la lucidità con la quale analizza il posizionamento di Linea d’Ombra.
Significativamente in diversi punti del testo Franchi chiarisce che occuparsi degli altri significa prendersi cura di sé: «Chiunque si occupi, in qualsiasi chiave, umanitaria o politica di singoli, gruppi o popolazioni che subiscono gli effetti di situazioni tragiche, lo fa, prima di tutto, perché ne riceve senso per la sua esistenza». Linea d’Ombra affronta appunto la cura degli «esuli» scrive Franchi, utilizzando un’espressione che ha rimandi ben diversi da migranti o profughi: gli esuli sono persone che non possono più vivere nel loro paese per ragioni politiche, a loro volta conseguenze delle azioni colonialiste dei governi occidentali.
Per questo, nominandone la complessità e talvolta i risvolti fallimentari, definisce gli incontri con gli esuli un «furto di senso». Esiste, infatti, quella che Franchi chiama «la linea abissale» che separa noi discendenti dai colonizzatori da loro vittime del colonialismo, una differenza che descrive ulteriormente distinguendo la nostra condizione di «avere un corpo» da quella degli esuli di «essere un corpo». «Avere un corpo» comporta che il sistema capitalista lo voglia ingabbiare e controllare, «essere un corpo» impone di aderire al senso dell’esistenza che presuppone la morte, ma non in termini di castrazione estrema, bensì come parte della vita.
Non c’è un punto in questo testo in cui Franchi definisca il sistema neoliberista migliore o auspicabile rispetto al «game» dell’esilio e la sua visione sorge da un’osservazione diretta, dal «farne esperienza».
Nell’epoca contemporanea prevale, però, l’impedimento dell’esperienza, scrive Franchi, a causa di «quel radicale conformismo» dominante, cioè la normalizzazione imposta dal sistema capitalista. È da qui che deriva secondo lui l’indifferenza dilagante che è a sua volta origine del razzismo. Per un comunismo della cura è un testo in cui coesistono riflessioni a partire dall’esperienza, appunto, nella Piazza del Mondo, ma anche maturate dallo studio costante della filosofia, da Marx a Judith Butler. Infatti, Franchi non solo puntualizza come «l’inferiorizzazione razziale delle donne sia stata la prima e più radicale forma di razzismo», ma ribadisce spesso che il femminismo è l’espressione più efficace della politica di Re-esistenza che lui si auspica. «La tenacia nella durata è un’arte assai difficile» scrive ancora Franchi che la pratica nel suo impegno quotidiano con gli esuli a Trieste, nei suoi studi e nel tentativo indefesso e delicato di comprendere la realtà che ci circonda e che spesso ci curiamo di rimuovere.
(il manifesto, 29 marzo 2025, Trieste, la rotta balcanica e quella linea abissale | il manifesto)
da Minima&Moralia
“Se mai un giorno scrivessi un’autobiografia dovrebbe intitolarsi Troppo. Troppo povera, troppo malata, troppo grassa, troppo debole. Per tutta la vita c’è sempre stato qualcosa di me che era troppo poco. Oppure troppo”.
Sono estratti di una confessione tra le pagine di Bugie su mia madre (L’orma, trad. di Flavia Pantanella) di Daniela Dröscher. La scrittrice e drammaturga tedesca si interroga sulla possibilità che ciascuno abbia tre vite: una pubblica, una privata e una segreta, prendendo in prestito le parole di Gerald Martin in Vita di Gabriel García Márquez. Si muove tra passato e presente con continui flashback per narrare gli anni della sua infanzia, segnati dall’infelicità di sua madre, con cui oggi intesse un dialogo per cercare di dare risposte a drammi che le erano in parte incomprensibili da bambina.
L’autrice ripercorre i primi anni Ottanta sino al disastro nucleare di Chernobyl, isolando il periodo del trasferimento della sua famiglia da Monaco a un piccolo centro, Obach. La ristretta dimensione urbana contribuisce a enfatizzare alcuni aspetti affrontati nell’opera, come il peso del pregiudizio, la calunnia, la necessità di perpetuare una finzione continua per salvare le apparenze, la difficoltà a riconoscere le possibilità di emancipazione e l’indipendenza economica femminile (solo nel 1977 alle donne in Germania è riconosciuto il diritto all’autodeterminazione in ambito lavorativo). Dröscher indaga il corpo della madre, lo scarto tra l’armonia con cui la donna convive con la propria fisicità e l’effetto disturbante che quel corpo genera agli occhi del marito e della comunità.
Il corpo di mia madre rappresentava la visibilità in un mondo che puntava tutto sull’invisibilità.
L’atto politico della rivendicazione di sé attraverso il corpo reso nell’immagine di una donna irriverente, ironica, determinata e sicura di sé sul lavoro, che si piace e che avanza con gioia nell’esistenza, si scontra con i limiti di una visione patriarcale grassofobica che imputa a un aspetto fisico difforme rispetto a una presunta norma il motivo primario di imbarazzo e vergogna altrui. L’inesorabile condanna del dimagrimento forzato costringe la donna a una routine umiliante, come doversi pesare ogni sabato mattina davanti al marito (con vani stratagemmi come appoggiarsi al bastone lavapavimenti per alleggerire il peso). Le proibizioni subite sanciscono un’esclusione sociale e famigliare deleteria, come il divieto di partecipare alle vacanze estive al mare o alla cena natalizia di lavoro. Quel corpo diventa il simulacro di ogni fallimento, dalle cause processuali alla mancata promozione aziendale del marito, al faticoso avanzamento sociale nello scarso riconoscimento da parte della piccola comunità.
In un certo senso è come se mio padre, per tutta la vita, avesse confuso mia madre con una casa. Con la differenza che in una casa si possono fare degli interventi di valorizzazione senza chiedere il permesso, sul corpo di un’altra persona no.
Dröscher rintraccia nella dimensione domestica della sua infanzia il prisma attraverso cui osservare lo smarrimento dell’individuo e della società e dare forma a uno studio narrativo sulla scarsa attenzione verso la depressione, l’isolamento sociale, l’insicurezza emotiva; sull’esposizione infantile alla precarietà economica e affettiva con conseguente inversione di ruoli tra genitori e figli; sul mancato riconoscimento del sovraccarico emotivo e fisico di donne imprigionate nei doveri famigliari che trascorrono la maggior parte della vita a mettere da parte desideri e ambizioni in funzione delle responsabilità verso ruoli prestabiliti; sul velo tragico e triste che sovrasta esistenze condivise, trascorse permanendo in una condizione di estraneità reciproca.
Nel Kammerspiel che chiamiamo «famiglia» il bambino spesso finisce per diventare il parafulmine delle forze cui la donna è sottomessa nel patriarcato. Potrei stilare un lungo elenco dei gesti drammatici di mia madre. Il canovaccio scaraventato in cucina. La pentola sbattuta sulla tavola. Il cucchiaio di legno e il grembiule buttati via e lei che se ne va di punto in bianco lasciando ogni cosa sul fuoco. Lei che sale in macchina con lo sguardo inferocito e sfreccia via. Che all’improvviso smette di spazzare e getta la scopa in un angolo. Che si striglia i capelli lisci a colpi di spazzola. Anche mio padre possedeva questa drammaticità. È il linguaggio di tutta una generazione.
Bugie su mia madre si regge su ingrandimenti continui su scene del quotidiano che manifestano la complessità delle dinamiche relazionali, il significato della sorellanza, il ricatto della vacua armonia famigliare che sottende fratture tra accessi d’ira, silenzi e assoluta abnegazione, con miniature pervase di tristezza. Lei affacciata al balcone, che scruta il cielo con occhi nostalgici. Lei che inforna una torta con l’ultimo briciolo di forza che ha in corpo. Lei che sopporta stoicamente il dolore che le provoca ogni movimento. Ma la cosa peggiore era il suo sguardo. Ci brillava dentro una solitudine grave e grigia come il piombo.”
L’autrice si sofferma sul peso di condizionamenti culturali e sociali infestanti persino per il suo sguardo bambino, aggravati dalla diffidenza verso una donna considerata straniera perché figlia di tedeschi di Slesia immigrati nella provincia renana quando lei aveva sei anni. Tale aspetto è centrale nel comprendere la necessità della donna, in una comunità pervasa da stereotipi, di farsi largo anzitutto attraverso una cura estrema per il linguaggio e per la parola esatta, nella convinzione che la lingua sia la moneta in grado di definire l’appartenenza.
La storia personale si fa portatrice di una condizione condivisa per denunciare anche il paradosso esportato dagli Stati Uniti in particolare nel secondo Novecento in merito alla nuova attenzione riservata alla donna come consumatrice protagonista del mercato e al contempo vittima di canoni estetici irraggiungibili. Aspetti analizzati nell’opera attraverso un continuo rimando linguistico, a partire dalla riflessione sul momento in cui corpo e mente decidono di capitolare, rassegnandosi alla resa definitiva di fronte a un potere superiore.
L’opera è anche uno studio sulla figura del padre, su un patriarca non dominante ma insicuro, che vive un rapporto singolare con l’autorità, inesorabilmente assoggettato a una visione del lavoro con meccanismi proiettati sulla famiglia, e in linea con l’ideologia dilagante dal dopoguerra tedesco basata sulla ricostruzione, sul benessere e sul miracolo economico. Segnato dallo spauracchio del passato di povertà, nel desiderare il benessere finanziario l’uomo finisce per incarnare la figura del self-made man con contraddizioni come l’accettazione dello sbilanciamento salariare e dello sfruttamento di alcune tipologie di lavoratori. Nel profondo di tale visione si cela “la psicologia dell’uomo soldatesco, «corazzato», che traccia confini intorno a sé e li difende”.
Leggere Bugie su mia madre permette di interrogarsi sulla profonda attualità delle istanze sollevate dall’autrice nel porre implicitamente a confronto la società di quarant’anni fa e quella odierna a partire dal riconoscimento della necessità di una rivoluzione per contrastare la tendenza del patriarcato ad assoggettare le donne attraverso il controllo dei corpi, con una riflessione sul ruolo della scrittura come mezzo per indagare l’animo umano sulla soglia di menzogna e verità, sostanza e apparenza.
Scrivere non è una fuga. È fare un passo indietro. Fermarsi. Scrivendo posso abitare il confine tra fuggire e combattere. Senza paralizzarmi.
Alice Pisu, nata nel 1983, laureata in Lettere all’Università di Sassari, si è specializzata in Giornalismo e cultura editoriale a Parma dove vive. Collabora per diverse testate di approfondimento, tra cui L’Indice dei libri del mese, minima&moralia, il Tascabile. Libraia indipendente, fa parte della redazione del magazine letterario The FLR -The Florentine Literary Review.
(Minima&Moralia, 27 marzo 2025, https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/contro-lassedio-patriarcale-del-corpo-bugie-su-mia-madre-di-daniela-droscher/)
da il Corriere della Sera
Il libro che Viktorija Amelina voleva scrivere era il diario di un’investigatrice di crimini di guerra. Il libro che ha lasciato incompiuto è molto di più. La mattina del 24 febbraio 2022, quando è iniziata l’invasione su larga scala, quando i carri armati russi sono arrivati in un attimo alle porte di Kiev e gli elicotteri hanno cercato di conquistare l’aeroporto strategico di Hostomel’ (senza riuscirci), Viktorija Amelina stava rientrando da una vacanza in Egitto.
Ha scoperto che i voli per l’Ucraina erano stati cancellati, lo spazio aereo chiuso. Per alcune ore si è trovata in un non luogo. Non era nemmeno certo che l’Ucraina esistesse ancora. Da persone, gli ucraini erano «diventati la guerra». Amelina non poteva partire, non poteva restare. Alla fine, insieme ad altri, è riuscita a imbarcarsi su un volo per Praga. Solo dopo l’atterraggio si è messa a piangere. «“Mamma, perché piangi?” chiede mio figlio. “Perché siamo a casa” rispondo. “Ma qui non siamo in Ucraina” dice lui confuso. “Questa è Europa” rispondo».
Amelina lascia il figlio al sicuro in Polonia e prosegue il suo viaggio. Farà avanti e indietro molte volte, ma alla fine deciderà che il suo posto è l’Ucraina invasa, lontano dal figlio. Chiederà a un’altra poeta e autrice di libri per l’infanzia, Kateryna Mikhalitsyna, di aiutarla a trovare le parole giuste per spiegare al figlio quella scelta.
Nella prefazione a “Guardando le donne guardare la guerra” che esce per Guanda, Margaret Atwood parla di Viktorija Amelina come dell’Angelo Registratore, «che annota le buone e le cattive azioni». Definisce la sua scrittura «ispida, urgente, personale, dettagliata e sensuale». Io posso solo aggiungere che ho aspettato a lungo questo libro, ma leggendolo ho dovuto fermarmi più di una volta. Per lasciar depositare, per riprendere fiato.
Nella postfazione, invece, è Amelina stessa a spiegarsi: «Dal 24 febbraio 2022, da scrittrice sono diventata investigatrice di crimini di guerra, e poi ho dovuto imparare a fare entrambi i mestieri per raccontare a voi, al mondo, la storia della ricerca di giustizia da parte della società civile ucraina. Qui dovrebbe esserci anche la storia di come sto reimparando a essere madre per mio figlio di undici anni».
Amelina è cresciuta a Leopoli, accanto a una base militare, ma una parte della sua famiglia abitava a Lugansk, nel Donbass, quindi la sua infanzia si è svolta anche lì. Le zone ora occupate dai russi e che forse, chissà, verranno presto cedute in un negoziato ingiusto, rappresentavano per lei il luogo delle vacanze. L’invasione del 2014 le aveva rese irraggiungibili, aveva messo del filo spinato anche attorno alla memoria di Amelina: la linea di contatto, scrive, «mi separa dalla bambina russificata che sono stata in passato». Di quei luoghi irraggiungibili evoca le notti, l’Orsa Maggiore brillantissima in cielo. «Le stelle per me sono associate all’infanzia e a Lugansk. Sono cresciuta, Lugansk è stata occupata dai russi, il mondo è cambiato ma io non ho imparato a riconoscere nessun’altra costellazione».
Il libro incompiuto è pieno d’immagini così, dove la cronaca si fonde con il privato, la storia con la memoria, e cade ogni barriera fra testimonianza e diario intimo, fra scrittura giornalistica e romanzesca. «Tutto ciò che riguarda la guerra russo-ucraina è personale», ma solo una scrittrice di romanzi e una poeta poteva colmare la distanza residua fra attualità e sentimento che esiste ancora in molti di noi.
È per questo che “Guardando le donne guardare la guerra” sarà il libro sull’invasione dell’Ucraina. Anche fra vent’anni, quando ne saranno stati pubblicati molti altri, più compiuti, formalmente perfetti. Leggendolo, guardiamo una scrittrice guardare la guerra, ma non solo: la guardiamo abitarla, subirla e contrastarla, tentare di comprenderla con ogni strumento intellettuale a sua disposizione. «Ogni istante è pieno di significato e consapevolezza, o addirittura può essere cruciale».
Ci ricordiamo qual è il contributo insostituibile degli scrittori, cosa aggiungono alle migliaia di pagine di cronaca, ai filmati, alle analisi: i dettagli. I dettagli marginali, trascurabili eppure pieni di significato, memorabili. Come il momento in cui Amelina raggiunge la sua casa di Kiev, a pochi chilometri dal fronte, dopo il viaggio faticosissimo dall’Egitto attraverso la Repubblica Ceca e la Polonia, e nella dispensa trova «i biscotti comprati prima dell’invasione», che «non sono ancora andati a male».
Spesso le donne che Amelina intervista, tutte forti, determinate, crollano parlando degli animali. Il racconto ne è pieno. Cani, conigli, mucche e pecore uccise senza motivo, uno scarabeo portato in salvo nel mezzo di un bombardamento. È un tratto comune a molte guerre: le atrocità subite dagli esseri umani raggiungono presto un livello di saturazione emotiva, ma la violenza che si rovescia sugli animali innocenti scatena ancora delle reazioni. Il 12 marzo 2022 Amelina accoglie un’amica giornalista, Olena Stepanenko, alla stazione di Leopoli. Olena è riuscita a fuggire da Buča. Con un distacco raggelante le dice: «Ho visto cose terribili durante la fuga, ma non riesco a ricordarmele». Però si mette a piangere poco dopo, parlando del gatto che ha chiuso in casa nella speranza di tornare a nutrirlo. Olena si augura che i russi abbiano sfondato la porta e lui sia potuto fuggire. Strani, paradossali, i desideri che la guerra produce.
All’improvviso un appunto a pagina 109 ci fa sobbalzare. Amelina scrive: «Lo vedo, il futuro. Certo, possiamo essere colpiti da un Iskander da un momento all’altro, ma in qualche modo io vedo l’Ucraina dopo la guerra». È una premonizione. Un missile Iskander la ucciderà il 27 giugno 2023, mentre si trova nel ristorante Ria di Kramators’k. Un collaboratore dei russi verrà condannato per aver fornito le coordinate del bersaglio. Il resto della premonizione, vedere l’Ucraina dopo la guerra, rimarrà così una fantasia. Lo è ancora. Il tempo che è seguito all’assassinio di Amelina è bastato a finire il volume al suo posto, a tradurlo, a pubblicarlo anche qui, senza che la guerra di fermasse.
Proseguendo, la lettura diventa più difficile. Non solo perché il libro si frantuma in una raccolta di appunti, ma perché proprio la frantumazione lascia scaturire la violenza senza più mediazione, senza ritegno. Le torture, gli stupri, le detenzioni, le deportazioni, le mutilazioni. Le tre curatrici e il curatore di “Guardando le donne” hanno fatto bene a lasciare le frasi di Amelina interrotte, non sarebbe stato giusto confezionare una guerra ancora in corso, tentare di ripulirla. Solo Amelina avrebbe potuto farlo. Se ne avesse avuto il tempo avrebbe lavorato le sue note, levigandole, invece ci vengono consegnate crude, e anche per questo diventano all’istante una parte indispensabile della letteratura europea: «Abbiamo trovato Valya, ma non ne sapeva nulla. L’abbiamo abbracciata, perché ha perso suo figlio, e mi ha dato un sacchetto pieno di noci».
Nelle pagine si trovano molte considerazioni teoriche – su come istituire una nuova Norimberga, sul significato profondo della parola “genocidio” e sui limiti della definizione, sul proprio ruolo di scrittrice-investigatrice – ma non ci viene mai permesso di astrarre la guerra in considerazioni geopolitiche, in fantasie. Subito veniamo risbattuti a terra. Sono i dettagli a farlo, ancora una volta, i dettagli che Amelina raccoglie:
«Balaklija, giugno-agosto 2022: condizioni di detenzione disumane, minacce di essere usato come cavia per lo sminamento, tortura con pistola stordente, percosse con manganelli;
«Vesele: 2 persone, torture per annegamento in un secchio d’acqua… torture per impiccagione, percosse…;
«Husarivka: finte esecuzioni;
«Balaklija, aprile 2022: stupro».
Guardiamo Amelina guardare la guerra, perdere via via la capacità di trasfigurarla, aderire sempre di più al piano di realtà. Diventare in tutto e per tutto un’investigatrice di crimini, attenta al chi, al cosa, al come, al quando, perché la vera giustizia potrà iniziare solo così, da una documentazione meticolosa e ripetitiva, lontana dal sensazionalismo.
Il suo destino si salda a quello degli intellettuali ucraini uccisi in altre epoche. Il Rinascimento Giustiziato degli anni Trenta. Gli scrittori e gli artisti degli anni Sessanta. Vittime dei sovietici, della Russia che desidera più di ogni altra cosa eliminare ogni traccia della cultura ucraina, come se non esistesse. Ma ogni generazione indaga su quello che è accaduto alla precedente, evitando che accada.
In uno dei suoi viaggi di ricerca nelle zone liberate dalla controffensiva, Amelina ha fatto la scoperta più importante della sua vita. Sepolto nella terra del cortile della sua casa di Kapytolivka, ha trovato il diario di Volodymyr Vakulenko, uno scrittore come lei, sequestrato e ucciso dai russi. Ne ha curato la pubblicazione, lo ha mostrato al mondo. Un atto letterario che va oltre la letteratura, un atto civile che va oltre la civiltà.
Nell’ultima pagina di “Guardando le donne” Viktorija – “Vika” per tutti i suoi amici – è sul balcone della casa di Kiev e si accinge a scrivere la prefazione al diario di Vakulenko.
È cosciente che quello sarà il suo contributo alla storia dei massacri che proseguono nei secoli, ma non sa che non sarà il suo contributo più importante. Guardando i missili della contraerea levarsi in cielo annota queste frasi: «Non devo combattere alcuna paura. Non ho più paura di morire. Riesco perfino a immaginare quando tutte le donne che ho raccontato alla fine si incontreranno al mio funerale. Sono così prese a lottare per la giustizia che quella non sarà solo una buona occasione, bensì l’unica. Ma poi mi ricordo che devo ancora finire questo libro, guardare mio figlio crescere e forse, tra qualche anno, anche arruolarmi nell’esercito. Così lascio il mio balcone e questa magnifica seppure pericolosa vista e torno a scrivere».
Il volume
“Guardando le donne guardare la guerra. Diario di una scrittrice dal fronte ucraino”
di Viktorija Amelina (Leopoli, Urss, ora Ucraina, 1° gennaio 1986-Dnipro, Ucraina, 1° luglio 2023) esce il 18 aprile per Guanda (introduzione di Margaret Atwood, traduzione di Yaryna Grusha, pp. 330, euro 20). Viktorija Amelina è stata una scrittrice, saggista e poetessa. Si definiva una “investigatrice di crimini di guerra”. Nel 2021 Amelina aveva vinto il Joseph Conrad Literary Award per le opere in prosa ed era stata finalista allo European Union Prize for Literature e allo UN Women in Arts Award; nel 2024 le è stato assegnato postumo il Prix Voltaire Special Award. È morta quattro giorni dopo essere stata ferita da un attacco russo su Kramators’k.
da Doppiozero
«Anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori dal recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.» Primo Levi, I sommersi e i salvati
«Se la solidarietà del genere umano deve essere basata su qualcosa di più solido della giustificata paura riguardo alle demoniache capacità dell’uomo, se la nuova e universale vicinanza di tutte le nazioni deve avere come risultato qualcosa di più promettente del terrificante aumento di odio reciproco e di una alquanto generale irritabilità di tutti contro tutti, allora deve verificarsi su scala macroscopica un processo di reciproca conoscenza e di crescente comprensione di sé.» Hannah Arendt, Humanitas mundi
Un duplice esergo, che segue una dedica: «A PalFest e JVP, due fari», dove abbreviazione e acronimo stanno per Palestine Festival of Literature e Jewish Voice for Peace.
Si apre così Il mondo dopo Gaza (tr. it. di Tiziana Lo Porto, Guanda 2025), saggio storico e politico in tre parti più un prologo e un epilogo fulminanti, pubblicato simultaneamente negli Stati Uniti, in Inghilterra, Germania, Spagna, Italia. Ne è autore il saggista e narratore indiano Pankaj Mishra, noto in Italia per i romanzi I romantici (Guanda 2020) e Figli della nuova India (Guanda 2023) e per le sue collaborazioni con le principali testate angloamericane – “Guardian”, “London Review of Books”, “New York Times”, “New Yorker” – e il settimanale italiano “Internazionale”. Nonostante la sua densità e la sua multidisciplinare erudizione, lo si legge in un soffio, come se la passione e la magnifica penna narrativa di Mishra, il suo sguardo acuto e sghembo di “osservatore distante”, la sua dichiarata alterità culturale producessero nel lettore occidentale quel tipo di spaesamento fertile che si prova quando ci si scopre non più detentori assoluti della visione e dunque dell’interpretazione.
Pankaj Mishra conosce perfettamente la storia occidentale, l’ha studiata, letta, osservata, potremmo dire che l’ha vissuta sulla propria pelle come cittadino di un paese che è stato colonia dell’Impero britannico fino al 15 agosto del 1947, giorno in cui fu proclamata l’indipendenza e sancita la partizione del subcontinente indiano in due stati sovrani, il Pakistan (poi Repubblica islamica del Pakistan) e l’Unione dell’India (poi Repubblica dell’India).
La sua dunque è una “posizione eccentrica”, che gli permette di non impigliarsi nelle storie altrui, ma di riconoscersi in esse per via di comparazione, empatia e immaginazione. La sua prospettiva non è la nostra: è più ampia, meno locale. E tuttavia ciò che ha segnato il nostro orizzonte storico lo interpella al punto da farglielo sentire anche suo. Lo sapevamo, vero, che il Centro – troppo a lungo ritenuto coincidente con l’Occidente – è così autoriferito da essere cieco? È dai cosiddetti margini, la porzione più grande di mondo, che si vede con nitidezza. In questo particolare momento della storia ciò che da lì si vede deve essere assai simile a una mischia per vedere chi è il più forte.
Il mondo e Gaza, dunque. Da un lato, uno spazio geografico immenso e un’entità politica variegata, disomogenea, conflittuale; dall’altro, un’esile striscia di terra, 360 km² in tutto, oggi in via di rapido, progressivo restringimento. Una popolazione complessiva di oltre 8,2 miliardi di persone (dati aggiornati al 21 marzo 2025) contro una popolazione di 2 milioni e trecentomila persone (dati ottobre 2023), oggi falcidiata dall’operazione “Spade di ferro” condotta dalle forze armate israeliane a partire dall’ottobre del 2023 e dall’evacuazione in corso con il beneplacito dell’Occidente e dei paesi arabi.
Tra i due termini, l’autore ha scelto di collocare un avverbio di tempo: dopo. Come se Gaza non fosse un luogo, ma un evento periodizzante, uno spartiacque epocale che disegna una nuova, disastrosa cartografia. Trasformata in camera della morte, sottoposta a una radicale opera di sbancamento, la Striscia parla di un prima in via di cancellazione e di un dopo che alternativamente somiglia – per usare i termini adottati dal primo ministro di Israele e dal presidente degli Stati Uniti – a un “inferno” e a un gigantesco “cantiere”.
Per Pankaj Mishra tale scansione temporale non riguarda solo quel lembo di terra e il popolo che lo abita, bensì appunto il mondo e tutte e tutti noi. «Le mie origini indiane e il mio interesse per le società non occidentali», scrive, «mi hanno predisposto a guardare all’apocalisse razziale europea di metà Novecento insieme, piuttosto che separatamente, ad altre atrocità subite dalle minoranze e dai popoli colonizzati nell’era moderna». È questo che gli permette di individuare il «dispotismo intellettuale» che oggi governa il pensiero e le azioni delle istituzioni occidentali e di reagire scrivendo un libro il cui fine è «alleviare il mio sconcerto di fronte al degrado morale generalizzato e invitare i lettori ad approfondire, a cercare spiegazioni più urgenti che mai in questo periodo buio».
La sua è altresì una motivazione personale: non si può essere spettatori silenti e passivi della barbarie senza esserne corresponsabili. Movente e motore della scrittura sono dunque «il senso di colpa, una condizione umana diffusa dopo la distruzione in diretta di Gaza, e il dovere che i vivi hanno nei confronti dei morti innocenti».
Per capire bene la magnitudine e il coraggio dell’operazione compiuta da Mishra va detto che il suo saggio può essere letto come un romanzo di formazione: dall’originaria fascinazione per il nascente stato di Israele del 1947/48 e le sue successive imprese di conquista territoriale alla consapevolezza sempre più critica della natura coloniale del progetto sionista in terra di Palestina. «Crescendo in India negli anni Settanta», scrive Mishra, «avevo sulla parete una foto di Moshe Dayan, ministro della Difesa israeliano durante la Guerra dei sei giorni», aggiungendo subito dopo che quell’infatuazione per gli eroi israeliani «era irresistibile anche perché in India era fascinosamente illecita». Ed ecco il personale autobiografico intrecciarsi per contrapposizione all’allineamento politico dell’India di Nehru, che insieme all’Iran e alla Jugoslavia sostiene un piano per includere due stati autonomi, uno arabo e l’altro ebraico, in una Palestina federale unificata. Bocciato quel piano, l’India si unirà ai paesi asiatici e africani votando contro la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite, che il 27 novembre 1947 approvano il Piano di partizione della Palestina, e fino al 1992 resterà saldamente dalla parte dei palestinesi e dei loro diritti di popolo usurpato.
Nella prima parte del saggio, intitolata “L’aldilà della Shoah”, Mishra indica altresì un diverso intreccio, che potremmo definire generazionale e transculturale. La sua educazione sentimentale alla storia e alla geopolitica avviene sulle stesse opere che all’epoca facevano piangere e sognare gli adolescenti d’Europa e d’America: Exodus di Leon Uris, Dossier Odessa di Frederick Forsyth, 90 minuti a Entebbe di William Stevenson. Il “discorso” fortemente persuasivo e toccante in cui l’Olocausto si inquadra a livello globale ha finito per eclissare la storia e il ruolo modernizzante giocato dagli ebrei proprio là dove sono stati sterminati, cancellandoli due volte. «Di certo», commenta Mishra, «nessun gentile poteva competere in quanto a passione per l’uguaglianza con Karl Marx, Rosa Luxemburg e Lev Trockij. In tutto l’Occidente molti tra coloro che sostenevano i diritti uguali e inalienabili dell’uomo e i concetti di legge naturale universale e sovranità popolare erano ebrei. Ma questa identificazione con il cosmopolitismo liberale e l’universalismo sociale non fece altro che contribuire ulteriormente a identificare gli ebrei con tutti gli odiati turbamenti dell’umanità».
C’è, in questa prima parte del libro, una messe di citazioni che si propongono come una sorta di bibliografia ideale – da Einstein a Freud, Arendt, Zweig, Amery, Levi, Klemperer, Musil, Bauman – contro la tentazione nazionalistica. Nel 1919 Zweig, oppositore del sionismo immaginato da Herzl, scrive: «Politicamente vedo il compito degli ebrei nello sradicare il nazionalismo in tutti i paesi». E Victor Klemperer, autore di LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, nel 1934 annota nel suo diario: «Per me i sionisti, che vogliono tornare allo stato ebraico del 70 d. C. (distruzione di Gerusalemme da parte di Tito), sono offensivi tanto quanto i nazisti. Con il loro fiuto per il sangue, le loro antiche “radici culturali”, il loro in parte snob, in parte ottuso riavvolgere il mondo, sono assolutamente tali e quali ai nazionalsocialisti». E nel 1939 ribadisce: «Le comunità ebraiche in Germania oggi sono tutte fortemente inclini al sionismo, e a me sta bene quanto potrebbe starmi bene il nazionalsocialismo o il bolscevismo. Liberale e tedesco per sempre».
Nella seconda parte del saggio, intitolata “Ricordare per ricordare la Shoah”, Mishra affronta di petto due temi scomodissimi: da un lato, la mancata denazificazione della Germania e al contempo la sua non paradossale transizione «dall’antisemitismo al filosemitismo»; dall’altro, «l’americanizzazione dell’Olocausto». Quello che ci propone è un ragionamento sulla memoria e sulla sua strumentale manipolazione. Il nazismo, ci ricorda l’autore, oltre alla sua opera di sterminio, ha creato centinaia di migliaia di rifugiati. «Ma né il dipartimento di stato americano né il ministero degli Affari Esteri britannico desideravano salvarli. Al contrario: temevano costantemente, e lavoravano per evitarla, una situazione in cui la Germania e le potenze del suo schieramento avrebbero costretto decine di migliaia di ebrei a consegnarsi nelle mani degli Alleati.»
Ecco perché, oggi, è indispensabile indagare tanto l’aspetto morale e ideologico della simbiosi americano-israeliana quanto l’irrigidimento filoisraeliano della Germania. A che cosa e a chi giova quel patto, che non può essere solo frutto di un senso di colpa inestirpabile. Come si spiegherebbe, se no, che quei due paesi siano così ciechi e consenzienti, se non direttamente complici, del genocidio in atto a Gaza e del piano di espulsione e annessione che sta investendo la Cisgiordania? E se, si domanda Mishra, Israele facesse da testa di ponte ridisegnando la morale e indicando un futuro in cui le regole democratiche maturate nel secondo dopoguerra non valgono più? Che sia un caso che le tecniche di “contenimento” e repressione delle IDF siano migrate nelle strade dei quartieri neri e ispanici degli USA, nelle piazze della contestazione studentesca a fianco della resistenza palestinese, ai confini sempre più vigilati dell’Occidente?
Tenete d’occhio «la linea del colore», suggerisce l’indiano Mishra, e dal magma nebuloso del presente comincerete a vedere affiorare forme chiare e distinte: l’“altro”, il nemico interno ed esterno, lo straniero, l’immigrato, il richiedente asilo, colui/colei che attenta alla bianchezza e ai suoi privilegi.
Ed è su questo punto che il saggio si chiude, sull’incapacità di un Occidente sempre più inconsistente e inquieto di andare “Al di là della linea del colore”, di prendere in considerazione «che l’evento più importante del Ventesimo secolo potesse non essere la Prima o la Seconda guerra mondiale, la Shoah, la Guerra Fredda o, per estensione, il crollo del comunismo, bensì la decolonizzazione». Schematici, pigri o forse semplicemente autoriferiti, gli opinionisti occidentali della seconda metà del secolo scorso, cresciuti in «un mondo privo di scelte difficili, economiche o politiche» si sono assestati nella comoda riorganizzazione post-1945 in tre sfere geopolitiche: l’Occidente, l’Unione Sovietica e il Terzo Mondo. Attribuendo alle democrazie occidentali il ruolo di garanti della libertà e di rappresentanti della civiltà di contro a nemici totalitari o autoritari e, a partire dagli anni Novanta, irreversibilmente votati al terrorismo, parola passe-partout o chiave universale per indicare ogni forma di resistenza, insubordinazione, rivolta. Un mondo sempre più in bianco e nero, conclude Mishra, sempre più diviso in “noi” e “loro”.
Il confine tra etnie, religioni, razze è tuttavia del tutto artificiale, poroso e instabile. Per renderlo invalicabile è necessario fare un assillante lavoro di propaganda. Ed è qui, con un atto di omaggio tra i più commoventi del libro, che lo scrittore cede la parola all’autore di I sommersi e i salvati: «Primo Levi avvertiva nel suo ultimo libro che anche le testimonianze dei sopravvissuti, “al di là della pietà e dell’indignazione che suscitano”, dovrebbero essere lette con “occhio critico”», dal momento che la memoria tende a una stilizzazione e a una semplificazione eccessiva. Levi deplorava la «tendenza manichea» nei resoconti storici «che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro».
Eppure quella tendenza è di nuovo tra noi ed è particolarmente insidiosa, perché nasce dalla paura, da un vero e proprio panico da “sostituzione”, come se non ci fosse spazio per noi e loro insieme. Il paradigma di Gaza non illustra proprio questo? Una furia di annientamento, contagiosa perché – ove necessario – ogni Occidente è capace di crearsi il proprio irredimibile “altro” e di attrezzarsi per sterminarlo. A questa «psicosi di sopravvivenza», che ha prodotto «i crimini di Gaza e i numerosi atti di complicità e voluta indifferenza che li hanno resi possibili», stanno oggi rispondendo, proprio nel cuore dell’Occidente, i più giovani. Feriti nell’anima da un mondo che inscena con orgoglio lo sterminio “giustificato” di bambini, donne e uomini innocenti, i ragazzi e le ragazze – ed è su questa nota che conclude Mishra – non esitano a scendere in piazza. «Non hanno fatto, e probabilmente non faranno, cambiare idea all’indurita opinione pubblica occidentale. […] Ma le manifestazioni di indignazione e gli atti di solidarietà che hanno avuto luogo in questi mesi potrebbero avere in qualche modo alleviato la grande solitudine del popolo palestinese.»
Per approfondire
Segnalo, accanto all’imperdibile libro di Pankaj Mishra, il “dopo Gaza” delineato da una serie di altre preziose pubblicazioni degli ultimi mesi:
– Raja Shehadeh, Che cosa teme Israele dalla Palestina? (Einaudi, 2024)
– Samah Jabr, Il tempo del genocidio. Rendere testimonianza di un anno in Palestina (Sensibili alle foglie, 2024)
-Jean-Pierre Filiu, Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vinto (Einaudi, 2025)
– Lorenzo Kamel, Israele-Palestina in trentasei risposte (Einaudi, 2025)
– AA.VV., Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza (Fazi, 2025)
– Rashid Khalidi, Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza (Laterza, 2025)
da il manifesto
Nell’ancoraggio a sé Carla Lonzi trova il punto di partenza per affrancarsi dagli assunti oppressivi della metafisica patriarcale, e della psicoanalisi, rivale ombra della filosofia: “Taci, anzi parla”, 1972-1977
A due anni dal “Manifesto di Rivolta Femminile” (1970) e dai primi esplosivi scritti femministi, l’anima radicale di Carla Lonzi avverte la necessità di avanzare in prima persona. Incompleto sul piano delle domande, teso nelle relazioni fra donne, il passaggio storico di Rivolta l’aveva mantenuta “in incognito”, intenta a schivare o mimetizzare l’espressione diretta di sé: «rischiavo di continuare a cogliere in me stessa dati di coscienza generali per il femminismo, piuttosto che ricostruire i momenti che li avevano prodotti». Senza conoscere il movente di quei dati, i capisaldi di Rivolta le parevano un lessico di intuizioni senza collegamento con possibilità reali della sua vita. Restava sospesa nelle generalità anche «l’illuminazione improvvisa» che le aveva rivelato quel suo rifugio incognito e misconosciuto come «il nuovo campo di soggettività della donna».
Le proclamazioni teoriche di “Sputiamo su Hegel” (1970) e di “La donna clitoridea e la donna vaginale” (1971), dopo aver fornito il propellente ai gruppi separatisti di autocoscienza e all’avanzata del femminismo di seconda ondata, andavano esposte alla prova di fuoco dell’esperienza personale.
L’opera che ne esce è un diario, la diuturna scrittura in prima persona congeniale alle donne tacitate. Comparso nei libretti verdi di Rivolta nel 1978, “Taci, anzi parla – Diario di una femminista 1972-1977” viene ora riedito a cura di Annarosa Buttarelli come tappa imprescindibile dell’opera omnia, in corso di pubblicazione per La Tartaruga (ora nel catalogo di La Nave di Teseo, pp.1082, € 25,00).
«Questo lavoro mi ha assorbito anni, giorno dopo giorno», «mi teneva in uno stato di concentrazione fortissima», «immersa in un’impresa al limite delle mie forze». Preso congedo da ogni programma di emancipazione e dalle promesse dell’oggettività – trappole tutte del patriarcato – il diario di Lonzi attraversa la densità dell’esistenza tenendosi alla sola fune dell’autenticità e di una caparbia fedeltà a sé: «Mi sono incamminata senza seguire nessuno».
Una struttura ardita articola i resoconti quotidiani con sogni, lettere non spedite, citazioni, vecchi scritti, poesie – registrazioni sensibilissime tanto dei moti di coscienza quanto delle vibrazioni sotterranee dell’incoscienza.
Tutte le scritture sono riportate alla dimensione generativa del presente e qui si riattivano e si connettono fino a rendere leggibile il profilo di una vita intera. Nessuna identità personale vi compare come già data e neppure è conquistata una volta per tutte – «Mi sento come una pupilla al variare della luce, sono un continuo dilatarmi e restringermi»; al lavoro sono piuttosto le relazioni – oppressive o liberatorie, sempre condizionanti e cariche di illusioni – col padre e la madre, con l’uomo e le amiche.
Una lunga introspezione, condotta «all’apprendistato di ciò che vivevo» e affidata a lettere, diari di adolescenza, poesie, era rimasta chiusa nel baluardo della cittadella interiore fino alla prova di fiducia ricevuta da Ester (Carla Accardi), che aveva sgretolato la prima cerchia di difesa facendo prorompere il femminismo e i gruppi di autocoscienza.
Quasi epilogo e traguardo della fase di Rivolta, è il riconoscimento imprevisto di Sara – l’atto circolare per cui si diventa soggetti «reciprocamente, cioè di fatto e non solo nelle intenzioni» – che consente a Lonzi, ancora inceppata nell’autodifesa, di proiettarsi in una vita nuova «con tutta la freschezza di persona inespressa».
Risalire la corrente della messa in secondo piano – quella che lei chiama inferiorizzazione – richiede in realtà costosissimi sforzi di coerenza sul piano delle relazioni e gesti radicali di svuotamento dalle acquisizioni culturali interiorizzate. In primis dalla dialettica, che era stata il lasciapassare di Lonzi per entrare nel mondo della cultura e reggere il confronto con il «momento più alto raggiunto dall’uomo». Dopo la sicura confutazione di “Sputiamo su Hegel”, è ora la volta di «sputare questo Hegel che ho dentro di me».
Sparite come “assoluti” e sganciate da ogni meccanismo necessario, arti, religioni e filosofie compaiono nel diario come estrazioni impreviste dalla fucina del singolare presente, «atti vitali per superare la solitudine, il dubbio, la disperazione». Il braccio della filosofia in particolare cessa di essere armato di teorie per caricarsi di tonalità personali: «Adesso ogni filosofo che incontro mi sembra di ritrovarlo dentro di me». Leggendo Bergson: «vi ho trovato quello che sto facendo, cioè registrare tutti i mutamenti della coscienza, che sono infiniti»; quanto a Spinoza: «L’ho letto d’un fiato: come tutto è chiaro, comprensibile, quante riflessioni in comune», «è proprio uno che parla di sé, ha la certezza dall’avere trovato in sé. Certo, questo è il filosofo, cosa pensavo che fosse?».
Una a cui scappa da ridere
In questo ancoraggio a se stessi senza altre garanzie Lonzi trova il punto di partenza per la liberazione dagli assunti oppressivi non solo della metafisica patriarcale, ma anche della concezione psicanalitica, che crede a una normalità senza autocoscienza.
Anche la psicoanalisi – rivale ombra della filosofia e della filosofa Carla Lonzi – viene infatti superata d’un balzo assieme all’intero costrutto dei sensi di colpa: «Inconscio, tu e io andiamo alle Bahamas. Non mi metterai più bastoni tra le ruote, adesso ti colgo sul fatto, te e i tuoi simboli»; e, ancora, «Se ti affacci, in qualsiasi enigma tu sia travestito, mi butto su di te. Ti spoglio in quattro e quattr’otto».
Nella pulsazione tra discese fino alla perdita del senso di sé e risalite spensierate verso la leggerezza del proprio essere – «sono una a cui scappa da ridere» – affiora nell’animo di Lonzi una mancanza di unità mai saturata, anzi quasi salvaguardata come premessa autentica del sé.
Nessuna conciliazione armonica risolve le fratture della coscienza, che sono tenute insieme solo dal filo ininterrotto della scrittura.
Fra sdegno e dolore
Nelle poesie giovanili come nel procedere concentrato dei primi scritti femministi, Lonzi trova il grande piacere della corrispondenza a sé: «ci vedevo il riserbo, la lucidità, il tremito impercettibile che ha il mio modo di ragionare tra lo sdegno contenuto e la sofferenza risolta ma non dimenticata e il giro del pensiero che sdrammatizza il contenuto e raffredda l’urgenza espressiva».
Scrivere si rivela strumento necessario proprio nella sua funzione originaria di fermare i pensieri, precisarli e renderli comunicabili, immetterli nella relazione. Una modalità a un tempo espressiva e architettonica, che non richiede vocazioni e talenti eccezionali, né ambisce a inserirsi nelle forme della cultura maschile, ma è alla portata di tutte e di ciascuno, sulla via di una società «basata sui rapporti umani».
Proprio in virtù di una scrittura priva di movenze letterarie, che pare aderire direttamente ai moti del pensiero, pagina dopo pagina il diario trova l’eloquenza splendente di una lingua senza eguali e può apparire con la sua “montagna di parole” il romanzo avventuroso di una vita esaminata.
da L’Altravoce il Quotidiano
Guerre che ho (solo) visto è il titolo dell’ultimo libro della filosofa Rosella Prezzo edito da Moretti & Vitali. L’autrice ci fa riflettere sulle guerre che hanno “costellato” negli anni la vita di chi, come lei e me, è venuta/o dopo la seconda guerra mondiale/europea, dalla guerra in Vietnam passando per la guerra in Jugoslavia fino a quelle più vicine a noi. Guerre viste solo attraverso le immagini televisive che arrivano nelle nostre case e che lei da spettatrice vuole mettere “a fuoco” per capire e ragionare su come e perché, a partire dalla prima guerra nel Golfo, il linguaggio di guerra è cambiato, cambiata è la figura del soldato e delle vittime, cambiata è la guerra stessa con i progressi della tecnoscienza e l’avvento dell’intelligenza artificiale. È cambiato il linguaggio usato per giustificare la guerra agli occhi dell’opinione pubblica, si sono inventati termini come guerra “giusta”, “preventiva”, “difensiva”, “chirurgica”, “di bassa intensità”, “al terrore”, in nome del “diritto d’ingerenza”, “umanitaria”, “per la liberazione delle donne”. È scomparsa la figura del guerriero, del soldato che fronteggia la morte in battaglia, su cui gli uomini per secoli hanno costruito lo stereotipo della virtù virile e dell’identità del “vero uomo” e la retorica dei caduti in battaglia. Al reduce della prima guerra mondiale, al “sopravvissuto” dei lager della seconda, è subentrato il soldato tecnologico e burocratizzato che “sgancia l’ordigno sul bersaglio e va via”. Il suo corpo, vivo o morto, viene messo fuori scena, occupata questa dalle immagini di droni, missili, robot killer interconnessi, in grado di operare attraverso un algoritmo per individuare un bersaglio e attaccarlo, dando la “garanzia” di non mettere a rischio i propri uomini e di colpire i “corpi altrui” senza alcuna considerazione. «Come durante la guerra fredda furono alcuni scienziati a mettere in guardia rispetto ai pericoli di un conflitto nucleare spingendo i governi ai trattati di non proliferazione, anche oggi gli scienziati cercano di fare lo stesso per l’intelligenza artificiale applicata ai conflitti armati, al potere distruttivo della tecnoscienza.» Armi micidiali di una guerra “disumanizzata”, “spersonalizzata”, “postumana”, “vigliacca”. Quand’è che in Europa è iniziato il processo di “riabilitazione della guerra”, in antitesi al “ripudio” della guerra quale strumento di offesa e mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali? Quando è avvenuta la rottura del tabù della guerra sancita dalla carta di Helsinki del 1975, che prospettava un’Europa del dialogo e di pace, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale con i suoi 60 milioni di morti e il fungo atomico? È con la guerra nell’ex Jugoslavia, risponde l’autrice, con il coinvolgimento degli stati europei e la loro “operazione umanitaria”. Nella guerra delle armi micidiali della tecnoscienza emerge una nuova figura della “vittima”, la/il “profuga/o” che diventa la/il “rifugiata/o” e “richiedente asilo”. Pensare e dire la pace, oggi, significa «pensare l’impensato della pace» in quanto si tratta di uscire dal pensare la pace come assenza o conclusione della guerra. E per pensare l’impensato l’autrice convoca tre grandi scrittrici e pensatrici del novecento: Simone Weil, Virginia Woolf e Maria Zambrano, che «ci porgono un filo per uscire dal labirinto in cui sembriamo perderci, tra rinnovati massacri, stupidità guerrafondaia, svuotamento della democrazia». È il filo del «combattere con la mente» per fabbricare idee nuove e pensare «il destino del mondo», una «nuova costituente europea», «re-immaginare la democrazia», e combattere «contro le idee acquisite dal dominio patriarcale» come quella che la pace si crea con la forza delle armi. Il libro, molto intenso, si chiude con un’antologia di testi, scelti per ulteriori approfondimenti.
(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 15 marzo 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)
da Avvenire
Don Riccardo Mensuali (Pontificia Accademia per la vita) riflette sui riferimenti culturali per gli uomini del nostro tempo: abbiamo un modello antropologicamente sicuro, quello di Gesù nei Vangeli
Maschi contestati e processati, ai margini delle relazioni sociali e di quelle familiari. Ma maschi anche che hanno deciso di costruirsi una nuova identità, più presentabile e interessante. La traccia potrebbe essere rappresentata da quell’antropologia cristiana che sull’argomento offre, a chi li sa cercare, modelli spiazzanti proprio perché ispirati all’immagine maschile di Gesù nei Vangeli. È la lunga cavalcata alla ricerca del maschio, del padre, del marito presentata da don Riccardo Mensuali nel libro Pieno di grazia. La sfida cristiana per il maschio del nostro tempo (San Paolo, pagg,192, euro 18).
Le quotazioni della paternità non sono mai state così basse, ma le statistiche ci dicono che i ragazzi – più delle ragazze – raccontano che a loro piacerebbe avere molti figli, desiderio che poi nella maggior parte dei casi non viene realizzato. Perché questa contraddizione?
Si potrebbe banalmente dire che i ragazzi sono meno consapevoli di quanto “costi” una maternità. Invece credo che nel cuore di un giovane esista un vero desiderio di realizzarsi anche a partire dalla paternità, da un servizio che per forza ci porta a renderci più gentili, più attenti e pazienti, più impegnati nella cura. Come se tanti ragazzi avvertissero che l’antidoto a violenza, modi bruschi, durezza è far da padre ad un figlio. È un po’ quello che ha cantato a Sanremo Lucio Corsi: Non sono nato con la faccia da duro / Ho anche paura del buio.
Il maschio, programmato da secoli di vita sociale a usare la parola in pubblico, nella vita familiare sceglie spesso il mutismo, o al massimo i monosillabi. Perché imparare ad esprimere emozioni e sentimenti attraverso la parola può essere una via privilegiata per far crescere la qualità delle relazioni?
La scarsa loquacità maschile nelle relazioni è quasi proverbiale, come se dovessimo spendere le nostre energie solo davanti a un gran pubblico. Ma anche questo comincia a diventare uno stereotipo vecchio. Ai corsi matrimoniali ormai si parla moltissimo, anche di sé, e lo fanno volentieri anche i futuri mariti. Per noi cristiani, figli della Parola, è una grande occasione. Dare le giuste parole alle emozioni, descrivere con sobrietà e saggezza quel che si sente non è solo da lettino da psicologo. È da vero uomo. Ricco di interiorità.
Qualcuno ha ipotizzato che la crisi del maschio è andata in questi decenni di pari passo alla crescita di responsabilità e di ruoli della donna, come se la parità fosse il più grande problema dell’uomo. Traguardo, sotto sotto, inaccettabile. Quanto c’è di vero in questa posizione?
Bisogna stare attenti a come si parla. Perché si fa presto a dire che siccome l’uomo non accetta di buon grado l’emancipazione, fa fatica, allora la colpa è delle donne. Qualcuno non solo lo pensa, ma lo dice pure. Direi, più precisamente, che troppi maschi li troviamo arretrati, impreparati al nuovo mondo, più femminile, dove prevale la forza del cervello, dell’empatia, della ricchezza di capacità relazionali. In questa nuova e buona “gara” bisogna allenarsi. Se il maschio rimane indietro, è colpa sua. Come lo è reagire con l’istintiva e non curata violenza del frustrato.
Molto interessante, tra le tante riflessioni che lei propone, quella sull’ultima paternità, quella dei grandi anziani che spesso hanno figli prossimi alla pensione. Si tratta però di valorizzare il loro ruolo e rispettare la storia che c’è alle spalle di ciascuno di loro. Come riuscirci?
Spesso non ci si riflette molto su quanto non sia semplice invecchiare bene, con serenità e costituire buoni padri anche sugli ottanta, novant’anni. Si dà per scontato che sia tutto sorgivo. Non è così. Si impara anche a diventare vecchi. Lo spirito cristiano ci propone di essere figli e discepoli del Maestro sempre. Prepararsi bene e con cura a lasciare questo mondo per entrare nella vita eterna può costituire una testimonianza importante per figli ormai molto adulti, che ricorderanno di certo come il padre se n’è andato.
Perché ritiene che il modello di uomo, di maschio, di marito offerto dall’antropologia cristiana possa rappresentare una strada percorribile e auspicabile per “vivere da uomini”, oltre tutte le contraddizioni e i luoghi comuni?
Semplicemente perché noi uomini potremmo, con qualche scaltrezza, quasi “approfittare” del fatto che abbiamo già un vero modello d’uomo nella figura di Gesù, come emerge dai Vangeli. Lo sappiamo, non era sposato né aveva figli, ma chi più di lui è maestro d’amore, maestro privilegiato di relazioni umane? Sapeva avvicinare una donna come un uomo, sapeva parlare o ascoltare a seconda del momento, adirarsi o essere maschio dolce e diverso da tutti quando occorreva. Sapeva sbrigarsi ma anche fermarsi. Ha saputo far da padre agli Apostoli delegando loro poteri e responsabilità, li ha fatti scontrare coi loro limiti perché li superassero. E quando tutti volevano che rimanesse, se ne è andato per agire attraverso di loro, cioè di noi e della Chiesa. Non vedo, al mondo, modello di maschio più efficace ed attraente. Un uomo che conquista.
da Doppiozero
Una donna incinta, nuda, siede sul letto. Rivolge un sorriso complice e sereno al bambino dentro di lei, con una mano accarezza la pancia, mentre l’altra la sostiene dolcemente dal basso. In questo gesto semplice e potente c’è tutto il senso dell’attesa, della trasformazione, della vita che sta per nascere. È l’idea che percorre il volume Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta (Einaudi, 2024), con le fotografie di Paola Agosti e il commento di Benedetta Tobagi. Noi non eravamo artisti, noi eravamo dei reporter, eravamo dei testimoni del nostro tempo, l’arte c’entrava relativamente poco, noi facevamo quel lavoro per vivere, afferma la fotografa con asciutta schiettezza.
Eppure in “quel lavoro” c’è qualcosa che si spinge oltre la semplice testimonianza. Come la donna incinta accarezza il futuro che porta in sé, lo sguardo della Agosti dà vita a qualcosa che sta nascendo, un mondo femminile che si svela, si afferma e reclama il proprio spazio. Donne tra loro differenti, legate dalla forza con cui hanno cercato un destino diverso, dal coraggio con cui hanno sfidato le regole di un mondo che le voleva silenziose, sottomesse, chiuse fra le mura di casa. E grazie a loro, il cammino di chi è venuta dopo si è fatto più libero.
È questa determinazione che lega Paola Agosti alle donne, un filo teso tra lo sguardo e l’azione, tra chi racconta e chi si fa racconto. Determinare non è solo fissare un confine, dare un contorno netto alle cose, ma è anche un atto di volontà, una scelta precisa. Significa tracciare un sentiero là dove sembrava non esserci strada, prendere posizione accanto a chi è stato troppo a lungo escluso dalla narrazione ufficiale. È un gesto che incide, segna e restituisce dignità a chi, altrimenti, resterebbe nell’ombra. La Agosti non si limita a osservare, mette a fuoco. E nel farlo, si schiera.
Sono stata femminista come molte. Mi riconoscevo sicuramente nelle lotte che il movimento portava avanti. Grazie al lavoro mi consideravo una donna emancipata; tra l’altro venivo da una famiglia dove le donne erano tenute in grande considerazione e avevano studiato e lavorato.
Fra le fotografie del suo archivio, ben ventimila dedicate alle donne, ci sono le anziane militanti del Partito comunista, le donne dell’Udi, le avanguardie femministe radicali, le singole attiviste fra cui la linguista Alma Sabatini con un enorme cartello, la scrittrice Dacia Maraini che guida un corteo, la radicale Adele Faccio arrestata durante una conferenza internazionale sul divorzio, Gigliola Pierobon con l’avvocata ed ex-partigiana Bianca Guidetti Serra che la difendeva contro l’accusa di aver abortito a diciassette anni.
Se il personale è politico è il principio con cui le femministe mettono in discussione la società, per la Agosti è il filtro da porre sull’obiettivo, la sfumatura che dà una tonalità nuova al reale. La maternità al lavoro, la sessualità femminile, la violenza domestica, non sono semplici questioni private, ma riflettono strutture di potere e disuguaglianze radicate nella società. Compagni nella lotta, padroni nella vita, con questa ambiguità facciamola finita è il pensiero che anima sindacaliste, operaie, casalinghe, impiegate e studentesse, nella manifestazione organizzata a Roma dai metalmeccanici il 2 dicembre 1977.
Grazie al fatto di essere una donna, e di avere una fotocamera, la Agosti viene accolta all’interno dei collettivi e delle manifestazioni con una confidenza che difficilmente sarebbe stata concessa a chi non ne condivideva l’impegno. Le femministe, infatti, erano consapevoli del potere dell’immagine e della necessità di raccontarsi con un proprio sguardo, senza mediazioni esterne che potessero distorcere il loro messaggio. In un contesto in cui i media tradizionali banalizzavano o travisavano le istanze femministe, il lavoro della Agosti era visto come una forma di militanza.
Si aprono le porte dei consultori, quelle delle case dove le donne lavorano a domicilio e accudiscono i figli, quelle di Radio città futura,emittente romana legata alla sinistra extraparlamentare, che all’interno del palinsesto quotidiano concede due ore alle femministe, una delle quali è riservata alla trasmissione Le donne escono dalle cucine.
Si aprono le porte delle redazioni, EFFE, Quotidiano Donna, e poi quelle di Noi Donne,la rivista dell’Udi con cui la Agosti collabora per più di vent’anni. È stato un lavoro molto, molto bello… Ho girato l’Italia, e grazie a Noi donne sono entrata nelle case di chi faceva una vita ben diversa dalle ragazze che sfilavano a Roma nei cortei femministi: le operaie, le mondine, le vecchie partigiane […], per me rimane una tappa fondamentale della mia vita di fotografa e di donna.
Nel 1976 molte di quelle immagini confluiscono in Riprendiamoci la vita, un libro pubblicato dall’editore Savelli da cui sono germogliati altri progetti, nati quasi per necessità, per il bisogno di continuare a raccontare. Con Firmato Donna, Agosti ha dato un volto a cinquantasei tra le più grandi scrittrici italiane del Novecento, donne che con le parole hanno costruito nuovi spazi di libertà. Con La donna e la macchina (1983), è entrata nelle fabbriche del Nord-Ovest, mostrando le operaie nel loro quotidiano, rivelando la fatica di chi ha avuto un posto nel mondo del lavoro, ma quasi mai nel racconto ufficiale.
Nel 1977 Paola Agosti sente il bisogno di allontanarsi dalla frenesia della vita in città, dai tempi stretti della cronaca, dalla ressa dei fotografi. Chiede a Nuto Revelli, che conosceva sin da bambina perché era stato partigiano con suo padre, di poter ripercorrere con la sua macchina fotografica l’itinerario di Il Mondo dei vinti (1977) e di L’anello forte. La donna: storie di vita contadina (1985). Dai suoi numerosi viaggi nelle Langhe nascono Immagine del mondo dei vinti (1979) e Il destino era già lì (2015).
Se Riprendiamoci la vita era il grido di battaglia del femminismo, un’esortazione a spezzare vincoli e ridefinire il proprio cammino, Il destino era già lì evoca invece il peso di una storia già scritta, di un futuro tracciato ancor prima che si possa scegliere. Nate in famiglie contadine, spesso numerose, queste donne si trovavano fin da bambine immerse in una realtà di fatica e privazioni, il lavoro nei campi era l’unico orizzonte possibile ed i ruoli erano rigidamente definiti. Fotografarle non significa solo raccontare, ma riconoscere. Significa dare un volto e una voce a chi è stato relegato ai margini della storia, celebrare la forza silenziosa delle donne che, senza dichiararlo apertamente, hanno lottato per procurarsi un frammento di libertà.
Qui la sua determinazione di fotografa è anche un atto di resistenza, un modo per non lasciare che quelle storie svaniscano, una resistenza presente anche nel carattere delle donne ritratte, che con il loro radicamento alla terra e il lavoro manuale raccontano una lotta quotidiana per rimanere ancorate alla propria esistenza. Su quei visinon c’è traccia di autocommiserazione, mostrare la loro “solitudine” non veicola né rassegnazione né sconfitta, ma la volontà di sancire l’orgoglio umano di essere al mondo. L’anziana donna seduta come su un trono in mezzo alla sua cucina, le contadine, divertite e divertenti, ad onta della fatica e delle dure condizioni di lavoro, mentre giocano con i loro cani, esprimono una condivisione di sentimenti che crea solidarietà.
Riusciamo, oggi, a cogliere fino in fondo il valore che queste foto avevano quando comparvero per la prima volta sulla carta stampata? Allora non erano icone. Lo sono diventate nel tempo, perché hanno saputo parlare, emozionare, raccontare storie in cui un numero incalcolabile di donne si è riconosciuto. Il loro potere non sta solo nell’immagine, ma nel modo in cui sono state vissute, condivise, fatte proprie. Per raccontare davvero qualcosa, bisogna esserci dentro. Non basta osservare, bisogna immergersi, vivere la situazione. Le sue foto sono diventate simboli perché le donne le hanno diffuse, riprodotte, fatte circolare ovunque, manifesti, riviste, volantini, libri. Hanno smesso di essere semplici scatti per trasformarsi in pezzi di vita, tracce di un’esperienza collettiva. Davanti a una fotografia, ognuno di noi deve decidere se ignorarla o lasciarsene attraversare, se renderla parte della propria memoria e delle proprie lotte, se usarla per conoscere, per capire, per agire.
Alla fine del libro le autrici accostano due immagini. Nella prima alcune giovani donne appendono uno striscione con la scritta Le streghe son tornate, nella seconda, un’anziana, sola nella sua cucina, solleva un pentolino da cui si sprigiona un vapore denso. Il confronto svela due modi diversi di esistere, da un lato, giovani donne che gridano per rivendicare il diritto alla parola e all’autodeterminazione, dall’altro, un’anziana che, con un gesto silenzioso ma carico di significato, compie un rito di magia bianca. Le femministe si riappropriano di un passato simbolico attraverso la figura della strega non più vittima della persecuzione patriarcale, l’anziana rivela un sapere prezioso trasmesso di donna in donna; le une rivendicano il diritto a trasformare il proprio destino, l’altra lavora per dissolvere un destino avverso. Due modi diversi di agire, due forme di lotta che sembrano lontane e invece si parlano, le urla delle donne che vogliono cambiare il mondo ed i sussurri di chi lo ha sfidato in silenzio.
da Agenzia Cult
Una voce che continua a interrogare il presente
Ci sono voci che attraversano il tempo senza perdere urgenza, che sembrano disperdersi ma tornano con rinnovata intensità, capace di interrogare il presente, e Carla Lonzi ne è un esempio. Nata a Firenze nel 1931 e morta a Milano nel 1982, Lonzi ha attraversato il secondo Novecento con uno sguardo tagliente, sempre teso a mettere in discussione i codici della cultura dominante, facendo della scrittura un gesto radicale di autenticità. Fondatrice di Rivolta Femminile, nei primi anni Settanta ha dato vita a una casa editrice che è stata molto più di un marchio editoriale: uno spazio di elaborazione collettiva e un luogo di parola in cui il femminismo ha preso corpo e si è fatto linguaggio. I suoi libri – Sputiamo su Hegel (1970), il Manifesto di Rivolta Femminile e Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978) – hanno segnato generazioni di lettrici, aprendo possibilità di libertà e nuove forme di vita.
Negli ultimi anni l’interesse per la sua opera si è rinnovato grazie a un importante lavoro editoriale, prima con le ripubblicazioni di Et al. Edizioni, poi con La Tartaruga, che ha avviato la pubblicazione dell’opera completa sotto la cura di Annarosa Buttarelli. In questa direzione si inserisce anche Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, edito da Moretti & Vitali nella collana Pensiero e pratiche di trasformazione, che esplora il rapporto tra scrittura e soggettività nell’opera di Lonzi, restituendone la complessità e l’attualità.
La scrittura come pratica di trasformazione
Il corpo delle pagine è un libro prezioso sia per il valore introduttivo alla vicenda intellettuale e politica di Carla Lonzi, sia e soprattutto per il suo taglio inedito, che mette al centro la scrittura come pratica viva, processo in divenire, luogo di trasformazione. Per Carla Lonzi scrivere era un atto primario, un gesto continuo e necessario che ha accompagnato ogni giorno della sua vita sin dall’infanzia. Non un semplice strumento di espressione, ma il luogo stesso in cui la soggettività prende forma, in cui il pensiero si fa esperienza concreta, mai separato dalla vita. Il libro di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini esplora questa materia viva, arrivando al cuore della scrittura lonziana e restituendone tutta la forza trasformativa e il carattere radicale.
Questa ricerca si manifesta con particolare evidenza nell’ultimo capitolo, una conversazione tra le due autrici che non si limita a un confronto teorico, ma si fa pratica, esperimento, esposizione. Qui la riflessione su Carla Lonzi si traduce in un atto che richiama l’autocoscienza femminista, un dialogo che diventa esperienza di scrittura, in cui il pensiero si incarna nella relazione tra le due autrici. Raccontare Lonzi significa infatti misurarsi con un pensiero non separato dalla vita, una parola che nasce dal corpo e al corpo ritorna. Il libro diventa quindi un’esperienza di scrittura che si fa carico del suo senso più profondo, trasformandosi in un corpo a corpo l’eredità lonziana.
A confermare il valore del volume è anche la preziosa bibliografia conclusiva, che per la prima volta raccoglie in ordine cronologico tutte le sue pubblicazioni, comprese le edizioni successive, le traduzioni in lingua straniera e i testi apparsi su periodici e quotidiani. Si tratta di un repertorio inedito, che assume un’importanza fondamentale come strumento di consultazione e cometraccia del percorso di Carla Lonzi, un lavoro che rende questo libro ancora più prezioso nel panorama della riscoperta lonziana, offrendo finalmente una mappa per orientarsi nella sua opera.
Scrittura, autocoscienza, libertà
Il libro ripercorre i temi fondamentali del pensiero e della pratica di Carla Lonzi, restituendo la forza della sua critica alla cultura patriarcale. Il gesto di scrivere, per Lonzi, non è mai stato separato dalla vita, né concepito come un prodotto da offrire al consumo culturale, ma piuttosto come un atto politico e trasformativo, un processo continuo di autocoscienza attraverso il quale sottrarsi all’ordine simbolico maschile e costruire un linguaggio proprio, capace di esprimere un’esperienza femminile autonoma. Per questo la scrittura non è per lei un semplice strumento espressivo, ma il luogo della libertà, della rottura con le aspettative imposte e della costruzione di una soggettività non conforme ai modelli patriarcali della femminilità. La differenza femminile, in questa prospettiva, non è un dato biologico o un’identità predefinita, ma la possibilità di significare liberamente il proprio essere donna, sottraendosi alle strutture del dominio e ai modelli imposti.
Nel contesto degli anni Sessanta e Settanta, questa presa di parola prende forma nell’esperienza dei gruppi di autocoscienza, spazi in cui le donne iniziano a riconoscersi reciprocamente come soggetti autonomi ribaltando il paradigma della storia: da sempre raccontate da altri, le donne cominciano a trovare parole fedeli alla propria esperienza, fuori dalle categorie della cultura maschile. In questo quadro, Carla Lonzi sviluppa una riflessione che sposta l’attenzione dal prodotto finale della scrittura alla sua pratica, dove non è l’opera compiuta a essere imprescindibile, ma il processo, la relazione tra le donne, la parola che circola senza farsi sistema.
Scrittura, parlato e registrazione: un nuovo rapporto con il tempo
Proprio su questa tensione tra scrittura, parlato e presenza si innesta l’originalità del libro di Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, che esplora in profondità un aspetto ancora poco indagato nel pensiero lonziano: l’uso della registrazione come strumento di autocoscienza e di rifiuto della linearità del discorso. Carla Lonzi e il gruppo di Rivolta Femminile utilizzano la registrazione come pratica fondativa del loro processo creativo, non solo per documentare il confronto nei gruppi di autocoscienza, ma anche per sovvertire il rapporto tradizionale tra parlato e scritto, tra presenza e memoria. In questo libro, le autrici riprendono e analizzano questa pratica, mostrando come la registrazione introduca una frattura nel tempo lineare, interrompendo la logica della produttività e aprendo la possibilità di ritornare continuamente sulle parole e recuperare ciò che rischia di essere rimosso o scartato. «L’uso della registrazione spezza l’ordine cronologico, poiché consente di tornare continuamente su quanto avrebbe potuto essere scartato, rimosso ed è in grado in questo modo di aprire al nuovo, all’imprevisto». [1]
Questo slittamento temporale è fondamentale nel pensiero lonziano, poiché mette in discussione l’idea di storia come processo lineare e progressivo. Le donne, escluse dalla narrazione storica, possono far leva su questa assenza, evitando la trappola dell’integrazione in un sistema che le ha sempre relegate ai margini: «La differenza della donna sono millenni di assenza dalla storia. Approfittiamo della differenza: una volta riuscito l’inserimento della donna chi può dire quanti millenni occorrerebbero per scuotere questo nuovo giogo?» [2]
L’assenza femminile dalla storia non è una mancanza da colmare, ma un punto di partenza per costruire un altro modo di stare nel mondo, un’altra temporalità, che non risponda alle logiche del progresso e della produttività capitalista. In questo senso, la registrazione diventa uno strumento di attivazione del passato nel presente, un modo per riarticolare il rapporto tra sé e il tempo, sottraendosi alla fissità del già detto e del già scritto.
Nel loro dialogo le autrici mostrano come questa concezione del tempo sia ancora oggi politicamente necessaria. La possibilità di interrompere la linearità storica, di rifiutare l’integrazione in modelli prestabiliti, di rimanere fedeli a una ricerca di autenticità che non accetta compromessi è una questione ancora aperta, una pratica che riguarda tutte le soggettività non conformi.
Un libro che è anche esperienza
Ciò che rende Il corpo delle pagine un libro esemplare è la capacità di tenere insieme l’analisi teorica e l’esperienza vissuta e questa tensione trova la sua massima espressione nell’ultimo capitolo, che segna un punto di svolta nella lettura. Qui il testo abbandona la forma più tradizionale dell’analisi critica per farsi spazio di esperienza, mettendo in atto un confronto diretto tra le due autrici. Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, infatti, scelgono di pubblicare tre giorni di dialoghi tra loro. Il punto di partenza di questa conversazione è la mostra mai realizzata su Carla Lonzi, un progetto a cui la sorella Marta Lonzi ha lavorato dal 1997 al 2004. L’assenza di questo originale, il suo perenne differimento, diventa una chiave di lettura per l’intero libro e per il modo in cui il pensiero di Lonzi continua ad agire nel presente. Come scrivono le autrici: «A partire dallo studio dei materiali d’archivio e dall’immaginare una mostra mai realizzata, un originale assente, la nostra conversazione andava soprattutto tornando sugli aspetti del pensiero e della pratica di Lonzi non storicizzabili, quelli in grado di illuminare, ancora oggi, il nostro posizionarci, spesso con scomodità, rispetto alla cultura e alle sue istituzioni». [3]
Il confronto tra le due studiose è una riflessione sulla loro stessa esperienza politica e intellettuale, sulla possibilità di praticare oggi un pensiero non addomesticato, che non risponda alle logiche di efficienza e produttività che regolano il mondo accademico e culturale: «Il nostro tempo di scrittura, di pensiero e di progettazione è incontrovertibilmente incompatibile con i tempi e i modi attuali del lavoro intellettuale». [4]
Questa tensione è parte dell’eredità lonziana: il rifiuto di aderire a forme imposte di sapere, il privilegiare un rapporto tra soggettività che sia espressione di libertà e non di funzione. Il dialogo finale del libro è un corpo a corpo con i limiti e le contraddizioni del presente. Il differimento, quella continua sospensione tra il desiderio e la sua realizzazione diventa una forma di resistenza, non un fallimento: «Se si intende tenere legati il senso di sé e il proprio fare, pensando alle nostre esistenze come espressioni di questo legame […], non si può che esporci maggiormente al fallimento della mancata realizzazione». [5]
In questo libro, il pensiero di Carla Lonzi non è un archivio da esplorare ma una pratica da esperire, un modo di stare al mondo e di stare nella scrittura. Il dialogo tra le due autrici, proprio come le deregistrazioni di Rivolta Femminile, si fa gesto politico, abbandona la rigidità del saggio per restituire un movimento, un processo, un’apertura. Un esempio concreto di come la scrittura possa essere ancora oggi un atto radicale di autenticità.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini, Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi, Moretti&Vitali, Bergamo 2024, p. 85
[2] Ibid., p. 86 dove si riporta la citazione di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1974
[3] Ibid., p. 186
[4] Ibidem
[5] Ibid., p. 187
Abstract:
Il corpo delle pagine. Scrittura e vita in Carla Lonzi by Linda Bertelli and Marta Equi Pierazzini explores Lonzi’s writing as a political and transformative act. Founder of Rivolta Femminile, Lonzi saw writing not as a finished product but as an ongoing process of self-awareness and liberation from patriarchal structures. The book’s originality lies in its analysis of her use of recording as a tool for collective consciousness, breaking linear time and traditional discourse. The final chapter, a dialogue between the authors, embodies this method, merging theory and experience. With a comprehensive bibliography, the book is both an introduction and a critical engagement with Lonzi’s work, reaffirming her legacy and the radical power of writing as an act of resistance.
da il manifesto
Femministe di un unico mondo, un libro di Bianca Pomeranzi (per Fandango), e Il gruppo del mercoledì, un volume di Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Letizia Paolozzi e Stefania Vulterini (per Futura editrice). I volumi verranno presentati venerdì e sabato a Roma, nell’ambito dell’ottava edizione di “Feminism”, fiera della editoria delle donne
«Mai come ai giorni nostri il mondo ci è apparso così brutale. Un piccolo pianeta animato da sopraffazione e prepotenza, ma al tempo stesso luccicante “fiera” del possibile». Nel chiaroscuro di un tale passaggio, epocale e incerto, si apre il volume di Bianca Pomeranzi, Femministe di un unico mondo (pp. 247, euro 18.50) pubblicato postumo da Fandango per le cure di Carla Cotti (sabato 1° marzo ne discuterà a Roma nell’ambito di «Feminism» con Carla Pagano in Sala Zalib alle 17), che dà conto di una vita sovvertita dalla passione inaggirabile per la politica. Si comincia da un incontro, nel caso di Pomeranzi (1950 – 2023) carico di epifanie, foriero di un mondo sì terribile eppure dotato di innumerevoli strade, nel loro farsi e disfarsi, in cui la parola delle donne assume la potenza tellurica transnazionale di un percorso. Il femminismo, convocato e chiarito lungo le pagine del libro da Pomeranzi, è l’esperienza attraversata, trasformativa di quel «partire da sé» che si misura con il mondo diventando antidoto agli «inganni della memoria» – da cui in larga parte, e con dolo, questo presente è assediato.
Due i punti cruciali che collocano l’autrice in un orizzonte situato di presa di coscienza: il primo è il lesbismo, perché il «partire da sé» per Bianca Pomeranzi ha coinciso con la ricerca di un modo di vivere la sessualità allargandosi in uno sguardo sul mondo. La questione non ha riguardato solo quegli anni Settanta che l’hanno vista protagonista e interna al collettivo separatista di Pompeo Magno, eppure il suo primo nominarsi lesbica avviene pubblicamente proprio in un’assemblea romana. É il 1976 e l’iniziativa è stata una tappa fondamentale perché nel novembre dello stesso anno prende corpo la manifestazione contro la violenza sessuale «Riprendiamoci la notte». Convergenza, taglio vivente che rende il femminismo una esperienza generativa è riscontrabile anche nella costante dimensione transnazionale. Separatismo, violenza maschile, legge 194, insieme con le pratiche che andavano mutando e le lotte intraprese in Italia in quel decisivo torno di anni, davano il segno di un agire politico e di una libertà femminile che nel percorso di Pomeranzi erano presenti nello scenario internazionale. È il caso delle quattro Conferenze (convocate dalle Nazioni Unite) che, «spazio dell’apparire» non privo di contraddizioni, vengono descritte come occasioni di confronto su temi fino ad allora sfiorati o a cui perlomeno mancavano discussioni tra donne. Razzializzazione, differenze di classe, oppressione coloniale, materialità delle vite e non solo delle latitudini, molti sono gli episodi che emergono tra cui uno importante che avviene tra la prima conferenza mondiale a Città del Messico (1975) e quella di Copenaghen (1980) – cui seguiranno Nairobi, Pechino (di cui ha seguito la preparazione e l’attuazione), New York e Milano.
L’evento è l’arrivo di Kate Millett a Roma nel marzo del 1979, espulsa dall’Iran e accolta a via del Governo Vecchio dalla lungimiranza anzitutto di Alma Sabatini. La cooperazione internazionale era allora uno degli aspetti di cambiamento dell’immaginario che non potevano più ignorare la scena internazionale. Attivista e saggista, leggere Femministe di un unico mondo permette di solcare insieme a Bianca Pomeranzi le strade che lei stessa, e spesso per prima, ha spalancato. Componente dal 2013 al 2016 del Cedaw, ha diretto a lungo la cooperazione italiana in Senegal e in Africa Orientale, oltre ad aver fondato insieme ad altre l’ong Aidos e il Centro internazionale Alma Sabatini. Nel 2008, insieme a Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti (che aderirà presto ad altri progetti), Bia Sarasini, Rosetta Stella e Stefania Vulterini, Pomeranzi è stata anche tra le fondatrici del Gruppo del mercoledì.
Questa storia femminista, che continua ancora oggi, è un libro, mancava e la sua pubblicazione è da salutarsi con gioia e vivo interesse perché sono questi volumi che si fanno strumenti utili per la apertura di discussioni collettive, prestandosi inoltre alla ricostruzione di storie e comunità viventi assai preziose. Soprattutto in questo presente così fosco di guerre, morte e passioni tristi. Il gruppo del mercoledì (Futura editrice, collana «Sessismo e razzismo», pp. 119, euro 15) è a firma di Bandoli, Boccia, Paolozzi (che ha scritto anche l’introduzione) e Vulterini (le autrici ne discuteranno a Roma venerdì 28 febbraio nell’ambito di Feminism con Marina D’Amelia e Manuela Fraire in Sala Lonzi alle 19).
L’acuta e preziosa postfazione al volume, che si rivolge alle pratiche, è di Viola Lo Moro. Si tratta di una raccolta di testi e documenti – ricollocati e ulteriormente commentati in relazione al contemporaneo – che a iniziare dal primo, proprio del 2008, “Dire No… manifesto alla sinistra” fino all’ultimo, del 2022, “La cura maltrattata”, rammenta e tesse una discussione pubblica stagliata in oltre quindici anni di incontri prendendo parola su questioni e problemi a partire da sé. Ancora una volta è questo l’elemento non negoziabile ed è esattamente da ciò che avvia il lavorio dell’autenticità, per cui non sorprenderà leggere di percorsi biografici e politici diversi: l’operaismo, il pensiero della differenza sessuale; il giornalismo, il Pci e i modi diversi con cui ne hanno osservato la svolta, insieme alla Carta delle donne comuniste, e tanto altro.
Quelle donne però, d’accordo sul tramonto delle liturgie partitiche, mortifere e foraggiate da una politica maschile ormai inservibile oltre che disinteressata alla realtà, sono intervenute su parole e scommesse cruciali: dalla fine del corpo alla fine della sinistra (il testo è del 2009); la cura del vivere (pubblicato come supplemento al numero di settembre 2011 di “Leggendaria” e ancora adesso di grande e controversa attualità); c’è poi “Mamma non mamma” che nel 2017 interrogava l’esperienza delle donne a partire dai non pochi, e non pacificati, desideri. Il salto dalla espressione di questi desideri alla loro validità per tutte e tutti può essere spericolato, oltre che insensato. Ed è appunto una forza sorgiva ad abitare quei documenti, pungoli a un presente non ricomponibile. Il volume affronta infine i nodi della violenza, della pandemia, dei luoghi della nostra libertà e il movimento che dall’io arriva (o potrebbe arrivare) al noi, soprattutto parole importanti, perché dal limite vanno all’inconsumabile, ovvero quel che si sottrae al divoramento sfrenato. Che tiene vive alle proprie esperienze, alle pratiche politiche, alle relazioni.
SCHEDA. A Roma, da venerdì a lunedì, tavole rotonde e focus per interrogare l’oggi
Feminism, la fiera della editoria delle donne è arrivata alla ottava edizione e aprirà le danze venerdì 28 febbraio per concludersi lunedì 3 marzo negli spazi della Casa Internazionale delle Donne di Roma. Con oltre 70 case editrici coinvolte, le quattro giornate della fiera – realizzata da Archivia, dalla Casa internazionale delle donne, dalla rivista Leggendaria, dalla collana sessismo&razzismo di Futura editrice, della casa editrice Iacobelli – saranno anche l’occasione di ascoltare molte scrittrici, autrici e attiviste che interverranno in tavole rotonde e presentazioni su temi stringenti del presente. In gioco i nostri corpi, le pratiche, fino ai percorsi della interiorità. Già l’inaugurazione, alle 15 di venerdì in Sala Lonzi, offrirà la possibilità di ammirare due madrine d’eccezione: Manuela Fraire e Giulia Caminito. Sabato un focus sul fare rete tra micro-editrici e librerie indipendenti alla presenza di Marta Capesciotti, Cristina Anichini, Maria Corona Squitieri, Alessandra Barbero e Hanna Suni con il coordinamento di Silvia Di Tosti e Maria Palazzesi (tra le impareggiabili organizzatrici e ideatrici di Feminism). Domenica da non perdere Senka Maric (il suo Corpo Kintsugi è stato recensito su queste pagine); inoltre Giuliana Sgrena dialogherà, insieme a Chiara Cazzaniga di Femminicidi d’onore, con le curatrici Isabella Peretti e Ilaria Boiano; sempre domenica Luisa Passerini, Alessandra Chiricosta, Cecilia Dalla Negra, Linda Bertelli e Marta Equi Pierazzini saranno in dialogo con Fraire sull’autocoscienza. Tanti i libri importanti e gli scambi in presenza; interverranno tra le altre Nicoletta Dentico, Maria Rosa Cutrufelli, Daniela Finocchi, Gloria Zanardo, Donatella Franchi, Annarosa Buttarelli, Rosella Prezzo, Monica Pietrangeli, Amal Oursana, Claudiléia Lemes Dias. E ancora Paola Cavallari, Gabriella Caramore, Antonia Tronti, Luciana Percovich, Neria De Giovanni, Floriana Coppola, Gisella Modica, Elvira Federici, Nadia Tarantini, Maristella Lippolis, Silvia Neonato. La fiera ha il sostegno di ADEI – associazione degli editori indipendenti – della SIL – Società italiana delle letterate – del Concorso Nazionale Lingua Madre; con la collaborazione del Centro giovani del I Municipio e dell’associazione culturale Zalib.
Il programma completo qui: www.feminismfieraeditoriadelledonne.com
da L’Altravoce il Quotidiano
Ci sono libri di profonda sapienza femminile, come l’ultimo della teologa e suora domenicana Antonietta Potente In Amorosa Fedeltà – Leggere e trasmettere le Scritture, edito Paoline, che vanno letti lentamente, ascoltati, meditati prima di poterne scrivere qualcosa. Un libro scritto con affetto, a partire dalla propria esperienza, sulle Scritture ebraicocristiane – il termine è scritto volutamente tutto attaccato perché «le scritture ebraiche hanno fatto nascere quelle cristiane […], e il cristianesimo esiste grazie all’ebraismo». Un libro che non ha capitoli ma temi sparsi e che l’autrice non vuole venga classificato tra i libri esegetici, commentari e riflessivi su alcuni testi biblici. Il tema principale non sono le Scritture in quanto oggetto di studio, ma l’esperienza delle parole scritte e tramandate da secoli. Scrive non «per convincere qualcuno riguardo a una via da seguire» o per «difendere una trasmissione orale e scritta come l’unica tradizione possibile, e soprattutto, non per evangelizzare» ma perché in questo momento storico «c’è grande confusione su ciò che è tradizione e molta ignoranza sulle Scritture». Scritture che vanno schiodate dalle “pareti della storia” e le loro parole rese vive, prendendo ciò che serve per vivere (poesia, passione per la verità, bellezza, ispirazioni e visioni) e lasciando andare ciò che è contro la vita (guerre, violenza, patriarcato, esclusione). Esse appartengono a tutta l’umanità e se non si leggono è per l’errore delle religioni ebraica e cristiana che se ne sono appropriate «pensando di dire tutto di essi senza permettere che altre e altri li possano toccare». Come ricollocare questi testi […] nel mondo di oggi, come suscitare un interesse non per fare proselitismo, ma per il gusto della bellezza e del Mistero? Perché non fare delle Scritture un dono e una ricchezza della cultura universale? Perché chi fa studi classici dedica ore a studiare la letteratura della Grecia antica con tutti i suoi miti e non sa niente o poco dei testi biblici? «Nessuno è proprietario delle Scritture» e si possono comprendere solo «guardando la vita» e imparando a considerarli «non tanto come sacri e proprietà delle religioni» ma come «tradizione letteraria di differenti popoli», come «storia umana» con le sue contraddizioni e le «interpretazioni che talvolta facciamo di lei». A ogni pagina del libro, l’autrice ci esorta a leggere lentamente, ci chiede ascolto e ci lascia pagine in bianco per meditare e aggiungere ai suoi pensieri i nostri, perché «è così che la Scrittura “cresce” con chi legge o l’ascolta». La seguiamo nella volontà di trovare in quei testi «il filo del legame ancestrale con l’origine materna e allo stesso tempo divina» che con abilità i biblisti e coloro che li hanno seguiti nei secoli hanno cancellato, «instaurando un nuovo legame, quello con il padre e solo con il padre», come anche nel racconto della parabola del figliol prodigo «dove tutto gira attorno alla figura paterna e a quella di due figli maschi. La casa oltre che un luogo è un simbolico materno. Ma la madre non c’è». Tutto delle Scritture ha origine da una lunga tradizione orale che prima di essere scritta passa «di bocca in bocca», «di orecchio in orecchio». Fatti, esperienze, fiabe, visioni, detti, ascoltati e narrati «secondo punti di vista e modi di sentire la vita così diversi tra loro». Una tradizione simile a quella che «la gente comune crea di nonna in madre e figlia o figlio. La nonna ha detto qualcosa alla madre che lei, a sua volta, racconta alla figlia o al figlio», come certamente Maria che, per prima, racconta a Gesù le sue parabole, nate dalle leggende ebraiche. L’invito finale è di «restare in piedi» per respirare dalle Scritture la vita e il Mistero che la abita. Un libro profondo, da leggere più che raccontare.
(L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”, 22 febbraio 2025. L’Altravoce il Quotidiano è il Quotidiano del Sud che ha cambiato nome)
da Le parole e le cose
Nei suoi primi lavori si è occupata di Platone e Locke e la sua formazione filosofica è passata per la partecipazione al gruppo di ricerca sui concetti politici fondato dal professor Giuseppe Duso presso l’Università di Padova. In seguito è stata fondatrice, assieme a Luisa Muraro, della comunità filosofica Diotima di Verona. Ricostruirebbe questo passaggio dall’inizio della sua formazione filosofica a Padova all’apertura dell’orizzonte della differenza sessuale a Verona?
Cavarero: Padova per me è stata molto formativa come esperienza. Innanzitutto, perché ho imparato a leggere i classici con rigore, possibilmente in lingua originale. Mi sono formata con impegno, studiando sodo. Ho partecipato al gruppo di ricerca sui concetti politici con Duso ed altri, tra cui anche Pierangelo Schiera, che ci raggiungeva da Trento. Ho beneficiato particolarmente della sua presenza perché ci indicava testi fondamentali come quelli di Schmitt – ovviamente – ma anche di Hobbes, Locke, Rousseau, Hegel… Ma sin dall’inizio ciò che studiavo di più era Platone, sotto la guida di Franco Chiereghin. Ho conosciuto Hannah Arendt approcciandola come critica della filosofia platonica. Al tempo Arendt era davvero poco nota ma la profondità della sua lettura di Platone ha catturato da subito il mio interesse. Così ho scoperto la sua genialità, che mi ha spinto a leggere praticamente tutta la sua produzione. Alcuni testi non erano tradotti in italiano o erano difficili da reperire. Infatti, riuscii a trovare e leggere in italiano – se non ricordo male – solo Le origini del totalitarismo e Vita activa, il resto lo lessi in inglese. Da allora non l’ho più abbandonata poiché reputo che il suo pensiero offra una metodologia di indagine e di scrittura che è assolutamente originale. Per farsi un’idea, basti pensare che lei – in quell’epoca molto polarizzata tra tendenze marxiste e tendenze liberali (o cattoliche, soprattutto in Italia) – era stata in grado di elaborare una posizione autonoma e critica nei confronti di entrambe. Si tratta pertanto di un pensiero in grado di resistere alle polarizzazioni ideologiche. Al tempo trovai che quella di porre al centro della riflessione politica la categoria di nascita, così come la morte al centro della metafisica, fosse un’indicazione davvero preziosa. Mi sono poi trasferita a Verona semplicemente per comodità personale perché abitavo lì, avevo un bambino e quindi mi pesava molto questa pendolarità. A Verona ho incontrato Luisa Muraro, che era già una femminista di punta e aveva tradotto Irigaray del cui pensiero, perciò, aveva una buonissima conoscenza. Parlando con lei mi sono convinta che la differenza sessuale fosse un tema estremamente innovativo, se non eversivo. L’assunzione di questo problema centrale ha comportato, nella tradizione femminista, un lavoro di critica al patriarcato: la cosiddetta decostruzione. Questa operazione mi risultava abbastanza facile, perché se si conosce bene il testo della tradizione – non solo per sentito dire o di seconda mano, ma si frequentano direttamente i testi di Hegel, di Platone, di Aristotele – farne poi la decostruzione critica diventa molto più agevole. Sapevo come muovermi nei testi per individuare i punti deboli nella loro tessitura, riuscivo a comprendere dov’era celata una lacerazione o dove la logica conduceva ad un’aporia. Quindi abbiamo fondato Diotima che consisteva, da un lato, nella decostruzione del testo occidentale (ripeto, questa era la parte più facile) e, dall’altro, intendeva rispondere all’invito di Irigaray per cui la differenza sessuale è ciò che la nostra epoca ha da pensare. Così, si è cominciato a discutere in gruppo, a scrivere, e ne è nato il primo libro pubblicato per La tartaruga1, ovvero Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, nel quale il mio contributo era quello maggiormente teoretico.
Da cosa è scaturita l’idea della sua ultima pubblicazione, scritta con Olivia Guaraldo: Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa)?
Cavarero: L’idea nasce sulla base di una proposta di Mondadori. Mi hanno contattata chiedendomi di scrivere un libro sul femminismo in grado di fare chiarezza sul vocabolario che circola attualmente, spesso in modo molto confuso e concettualmente non fondato. Mi riferisco al linguaggio che ruota intorno a categorie come gender, transgender, intersex, fluidity, non–binary… La parola gender viene utilizzata in maniera completamente diversa, da un lato, da coloro che fanno studi di genere o dalla comunità LGBTQIA+ e, dall’altro, da coloro che contrastano ideologicamente questo tipo di impostazioni come le forze neocattoliche e conservatrici. Avendo altri lavori in corso, mi sono avvalsa della collaborazione di Olivia Guaraldo che è stata, diciamo, una mia allieva e ora è professoressa ordinaria di filosofia politica a Verona. Olivia, come me, ha sempre studiato il femminismo e Hannah Arendt, del cui pensiero è una specialista. È stata una grande scommessa perché lo abbiamo scritto veramente a quattro mani: io facevo un pezzo, lei faceva un pezzo, poi ce lo scambiavamo e ognuna correggeva lo scritto dell’altra, cancellava e aggiungeva. Questo processo è stato naturalmente accompagnato da molte discussioni e mi ritengo soddisfatta del risultato. Certo, come tutti i testi è imperfetto, però è la nostra proposta. Insomma, il fine del testo è fare chiarezza sul linguaggio che circola, sui concetti che lo organizzano, tentando anche di spiegare posizioni che spesso vengono fraintese come quella di Judith Butler. I fraintendimenti derivano dal fatto che i testi di Butler sono molto difficili, per cui mi sembra che molti e molte di quelli che citano Butler non l’abbiano compresa fino in fondo. La sua scrittura è molto complessa e bisogna fare la fatica di seguire il suo ragionamento che si sviluppa attraverso tutta una serie di interrogativi, servendosi di un linguaggio molto articolato, quasi contorto. Per queste ragioni, abbiamo fatto anche un capitolo su Butler, cercando di fare chiarezza. L’idea, dunque, è stata in primo luogo della casa editrice, anche se io, Olivia e altre studiose pensavamo da tempo fosse necessario un intervento di chiarificazione del lessico femminista contemporaneo e degli equivoci a cui si espone. A noi che abbiamo seguito tutta la vicenda fin dagli albori e che conosciamo il panorama americano, internazionale, europeo, italiano, risultava insopportabile il livello di confusione nell’uso del vocabolario inerente al genere. Si pensi a quando le forze neocattoliche conservatrici hanno inventato la fantomatica “teoria gender”. Non esiste alcuna “teoria gender”, esistono gli studi di genere. La teoria gender è un’invenzione polemica.
Quali punti di continuità e di discontinuità possono esserci fra il suo pensiero e la prospettiva di Judith Butler? Ha parlato di una “radice filosofica” del pensiero di Butler che sarebbe in qualche modo venuta meno nella circolazione contemporanea del pensiero dell’autrice. Che cosa intende?
Cavarero: Judith Butler ha ottenuto il dottorato di ricerca all’Università di Yale, terminandolo con una dissertazione su Hegel. Inoltre, durante il dottorato ha avuto l’opportunità di soggiornare per un anno ad Heidelberg in Germania, dove ha potuto approfondire maggiormente il pensiero dell’autore. Questo denso percorso di formazione filosofica si sente nella sua scrittura. Intanto dal punto di vista della complessità: voi sapete che il linguaggio di Hegel – basti pensare alla Fenomenologia dello Spirito – non è proprio un linguaggio semplice. Dopodiché sono da tenere in considerazione anche le altre sue due radici filosofiche principali: Michel Foucault, che tramite il suo insegnamento a Berkeley ha esercitato una forte influenza sul pensiero americano post-moderno, e J.L. Austin da cui Butler ha tratto la nozione di performatività, mutuandola dal celebre How to do things with words. Il pensiero di Butler riposa, pertanto, almeno su questi tre importanti fondamenti filosofici. Inoltre, lei procede per problematizzazioni, per domande su domande che si specificano in altre domande ancora. Questo è un carattere – per così dire – rabbinico della sua argomentazione, probabilmente derivato dalla sua educazione ebraica. Altro tratto stilistico che, insieme alla già menzionata complessità del linguaggio, rende lo sviluppo del suo pensiero molto interessante ma al contempo molto complesso da seguire. Questo riguarda in particolare le sue prime opere come Gender Trouble: feminism and the subversion of identity (1990) e Bodies That Matter (1993) che ho fatto tradurre io stessa per Feltrinelli con il titolo Corpi che contano, scrivendo l’introduzione. Infine, Butler condivide con pressoché tutte le studiose e gli studiosi americani suoi contemporanei il riferimento alla psicanalisi, che complica ulteriormente le cose. Per ciò che concerne il mio rapporto con Butler – a parte l’amicizia personale che risale al 1990 – l’affinità principale è stata, almeno all’inizio, la critica al patriarcato. Mi sono occupata di elaborare una critica decostruttiva del patriarcato – per esempio – in Nonostante Platone, traendo da essa l’occasione per la parte costruttiva. Relativamente a questa pars construens ho un metodo su cui insisto spesso e che consiste nel riprendere dei concetti o delle figure del macrotesto patriarcale tentando di decodificarli per risignificarli diversamente. In questo modo intendo elaborare concetti o categorie che possano offrire una prospettiva femminista sulla differenza sessuale. Judith non ha questo metodo, ha piuttosto quello che definirei un “metodo a carrarmato hegeliano-rabbinico” che opera non tanto una risignificazione quanto una parodizzazione. Butler prende quelli che sono ritenuti i fondamenti del sistema patriarcale sovvertendoli. Come fa, ad esempio, in Gender Trouble, dove valorizza il potenziale eversivo del drag. Per Butler, infatti, lo scambio di genere posto in atto attraverso il travestimento non è uno scambio a somma zero bensì uno scambio che destabilizza e mette in ridicolo. Secondo lei questa destabilizzazione è un’operazione sovversiva che può avere un forte impatto critico sulla saldezza del sistema patriarcale e sulla sua immaginazione. Dunque, le nostre proposte sono molto diverse anche se abbiamo sempre dialogato con grande amicizia. Lei mi ha introdotto negli Stati Uniti, facendo tradurre i miei libri in inglese e scrivendone i blurb. Nel 2005 ha pubblicato il testo Giving an account of oneself dove dedica un capitolo al mio libro sulla narrazione [n.d.r. Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione (1997)]. Lei stessa ha dichiarato pubblicamente più volte che le ho insegnato a leggere Lévinas, lo dice sempre: «Adriana Cavarero taught me how to read Lévinas». Dunque il nostro è sempre stato uno scambio intenso. Inoltre, ultimamente la parte più teoretica, prettamente filosofica, del nostro lavoro intellettuale si è sempre più avvicinata, convergendo sul pensiero di Hannah Arendt. Nella nostra ultima produzione, io e Butler siamo entrambe interessate a concetti arendtiani come quelli di vulnerabilità, esposizione e soggetto relazionale. Io la cito molto nei miei libri e lei mi cita molto nei suoi. Trovo interessante il fatto che per ambedue si sia un po’ sopito l’interesse per i problemi relativi a sesso e genere mentre è aumentato l’interesse strettamente politico relativo a violenza, non-violenza e comunità.
Il suo pensiero e quello di Butler interrogano in modo molto determinato il concetto di ordine simbolico. Potrebbe spiegare in che cosa si differenziano i vostri approcci in relazione a questa nozione?
Cavarero: Sostanzialmente usiamo la nozione di ordine simbolico in maniere molto diverse. Butler, come ho detto, frequenta la psicanalisi e Jacques Lacan. Il pensiero dello psicoanalista francese era molto diffuso in America. Al tempo non si poteva assistere ad un talk, anche di un giovane ricercatore o di una giovane ricercatrice, che non cominciasse chiamando in causa il mirror stage di Lacan. Stava diventando veramente un ritornello ripetuto. Oggi non è più così in voga, per fortuna. Ad ogni modo, per chi studia Lacan, il Simbolico ha un significato tecnico che si può comprendere solo se lo si colloca tra gli altri due registri dell’Immaginario e del Reale. Per quanto mi riguarda invece, utilizzo la nozione di ordine simbolico come la possono usare gli antropologi o gli storici delle religioni. Preferisco questo genere di riferimenti culturali al Lacan “americano” con cui si confronta Butler. Per me le parole ordine simbolico indicano semplicemente quell’insieme di interpretazioni e di valori che è predominante. Quindi, uso questo concetto in una maniera più ampia e meno specifica di Butler che invece lo adopera in un senso più vicino a quello lacaniano. Sinceramente il pensiero di Lacan mi interessa poco. Per ciò che concerne la psicoanalisi ho letto con piacere Freud, Jung, Klein… Naturalmente come studiosa sono informata di queste teorie. Tuttavia, non mi affascinano e detesto l’uso che spesso se ne fa. Mi sembra che ci sia una tendenza a ricondurre tutto all’inconscio e che questa esponga al rischio di semplificare un po’ troppo.
Nel testo Nonostante Platone: figure femminili della filosofia antica (1990), cui ha fatto cenno, lei opera una risemantizzazione in chiave femminista di varie figure appartenenti alla cultura patriarcale dei greci. Ricostruirebbe l’operazione che ha effettuato sulla figura di Penelope per fornire un esempio di ciò che lei intende con risignificazione?
Cavarero: Certo, la figura di Penelope è una di quelle su cui mi sono maggiormente concentrata in Nonostante Platone. A ottobre ho tenuto una conferenza su Penelope a Roma, è stata organizzata una mostra che prevede una serie di incontri su Penelope la tessitrice. Ho trovato la mostra molto interessante perché è anche un omaggio a Maria Lai, la grande artista italiana che faceva opere con la tessitura e la filatura. Nel suo paese natale, in Sardegna, metteva fili di lana che attraversavano tutta la città. Penelope è una figura ancora viva, che non appartiene solamente al passato. La mia tesi in Nonostante Platone è che accanto alla Penelope canonica, tradizionale – la moglie fedele che sta nella stanza dei telai a filare con le ancelle, dove è destinata dall’ordine simbolico e sociale dell’epoca – ce ne sia un’altra, ben più interessante, che si tratta di far emergere. Ci sono dei segni, degli strappi, dei sintomi nel testo omerico che divengono rivelatori di altre possibili interpretazioni, qualora se ne faccia una lettura attenta. Ad esempio, quando torna dal suo viaggio, Ulisse è riconosciuto da tutti tranne che da Penelope. Altro elemento che non torna è l’attesa dei Proci: si può presumere avessero una minima intelligenza; eppure, credono che ci vogliano dieci anni per tessere il sudario di Laerte, il padre di Ulisse. Questa storia ripetuta da sempre è attraversata da alcune stranezze. Approfittando di questi due punti ambigui del racconto omerico, ho ricostruito la figura di Penelope rendendola una donna che non aspetta il marito e che, quando Ulisse torna, capisce che ciò significa la fine della sua funziona politica ad Itaca. Con il suo trucco di tessere e disfare, Penelope teneva di fatto in scacco il potere sull’isola. Attraverso questa ricostruzione ho offerto un’immagine, un simbolo all’esperienza femminista del separatismo, perché lei sta separata nella stanza delle ancelle e con la loro complicità elabora il trucco del sudario. Come il marito, ha una metis che non si esaurisce in un solo campo. L’uomo è guerriero, la donna tessitrice, questi sono i doni di Atena. Ma la metis di Ulisse non è solo guerriera, come dimostrano l’invenzione del cavallo di legno e l’inganno teso ai troiani facendo leva astutamente sulle comuni credenze religiose. In maniera analoga Penelope non è solamente tessitrice: stando nella stanza del telaio ed elaborando il suo stratagemma, tiene in scacco la politica, ambito al quale non dovrebbe avere accesso. Anche se, quando si reca nelle stanze dove si tengono le discussioni tra uomini, Telemaco le intima di tornare nella stanza del telaio, da questa Penelope riesce nondimeno a gestire la politica della città. Questa figura dà fiducia alle donne, simboleggia il fatto che anche a partire dal confinamento domestico o dalla costrizione a farsi carico della maggior parte del lavoro riproduttivo, come Penelope si può trovare il coraggio di sfidare il patriarcato e costruire la propria autonomia. Ma Penelope è solo un esempio, io non rubo una sola figura, ne rubo molte. Possono esserci molte vie di risignificazione dell’esperienza femminile, molti percorsi generativi.
Un riferimento significativo in Donna si nasce è quello al noto saggio Il contratto sessuale di Carole Pateman nonché a due importanti figure femminili contemporanee ai fatti della Rivoluzione francese, quali Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft. Che ruolo svolgono queste autrici nell’economia complessiva del vostro libro?
Cavarero: Dovreste porre questa domanda ad Olivia Guaraldo perché questa parte è stata scritta da lei! Ad ogni modo, approvo e condivido le sue tesi, quindi credo di poter rispondere in questo modo. Il discorso di Pateman sul contratto sessuale è molto interessante perché si pone in dialogo con l’antropologia e con la struttura portante della teoria politica moderna, ovvero il giusnaturalismo. Pateman ha come riferimento autori che a me e Guaraldo sono molto noti: Hobbes, Rousseau, Locke. In poche parole, i pensatori del contratto sociale, che è una specialità tutta moderna. Nessuno aveva mai teorizzato prima nulla di simile, la dichiarazione di un’uguaglianza e una libertà come determinazioni di ogni individuo. De Gouges e Wollstonecraft, invece, sono proprio sul terreno in cui queste cose si realizzano concretamente. Sia chiaro, non si tratta di studiose, di filosofe che si occupavano della teoria giusnaturalista. Wollstonecraft era una scrittrice inglese che aveva seguito da vicino gli eventi immediatamente successivi alla Rivoluzione francese, così come de Gouges che aveva pubblicato proprio in quegli anni alcuni pamphlet rivendicando l’uguaglianza delle donne agli uomini. Queste autrici si trovano di fronte a queste novità straordinarie vedendole trasformarsi, da puri concetti astratti, in elementi costituzionali, temi di operatività politica. Le teorie di Hobbes e Locke, prima di allora non avevano ancora avuto un risvolto pratico effettivo. Circolavano come pure teorie, come quelle mie e di Butler. Con la Rivoluzione americana e, soprattutto, con la Rivoluzione francese, quelle teorie e quei concetti avevano fatto irruzione nella scena della storia. Queste donne agiscono e scrivono mentre questi fatti si stanno verificando. Si capisce dunque che l’idea che donne e uomini siano titolari degli stessi diritti è davvero molto avanzata al tempo. Wollstonecraft è forse ancor più interessante di De Gouges, perché si avvicina molto alla struttura teorica della differenza sessuale sostenendo che vi sia una specificità femminile, come una maschile, che non deve però essere utilizzata come base per una discriminazione e una subordinazione. Questa specificità non corrisponde, infatti, a quella imposta al femminile dall’ordine simbolico patriarcale, cioè al fatto che le donne, a differenza degli uomini, non possono studiare, sono relegate in casa, devono essere lavandaie – se povere – o bamboline in attesa di marito – se appartenenti a famiglie abbienti. Questo è il giogo imposto dagli uomini sulle donne. Le donne, in forza della loro libertà e dell’uguaglianza agli uomini, sul piano dell’estensione dei diritti, devono avere accesso all’istruzione e alla libertà di movimento. Ma questo, sottolineo, non significa per Wollstonecraft che esse debbano identificarsi con gli uomini. Secondo lei, le donne hanno una certa esperienza di cura, di riflessione, che possono essere valorizzate nella costruzione complessiva di una buona società. Il suo orizzonte è quello di una società giusta, costituita da uomini e donne con uguali diritti ma differenti specificità. Divengono, a questo punto, complementari. Certo, io da sempre contesto la teoria della complementarietà dei sessi, ma se la si contestualizza nell’epoca in cui scrive Wollstonecraft, se ne comprende la dirompenza.
Le chiediamo, in riferimento a quest’ultimo tema, per quale ragione la sua riflessione sulla maternità, sviluppata nell’ultima parte del testo, giunga alla conclusione che la gestazione per altri riproduca surrettiziamente il controllo patriarcale sul corpo della donna?
Cavarero: Io parlerei proprio di una riproduzione diretta, nemmeno surrettizia. Nel senso che il vecchio padre della famiglia tradizionale controllava quando le donne potevano accoppiarsi, quando potevano rimanere incinte. Si trattava di un controllo immediato, esplicito per così dire. Ora si profila un tipo di controllo della capacità generativa della donna che penso sia per alcuni aspetti peggiore perché si tratta di uno sfruttamento commerciale. Ciò che non finirà mai di stupirmi è che la sinistra istituzionale sostenga questo o quanto meno che non vi si opponga con durezza. Mi chiedo come la sinistra possa sostenere quella che è un’evidente operazione di mercato. Ci sono agenzie che si reclamizzano per sfruttare il corpo di donne povere al fine di produrre bambini che, a loro volta, diventano merci vendibili. Resta da chiedersi: come si è giunti a questo? Attraverso la “scienza”, certo. La scienza progredisce strutturalmente, pertanto, fare una critica della scienza dal punto di vista della tendenza allo sviluppo mi sembra del tutto deleterio. La scienza ha un intrinseco desiderio di conoscere ed esplora ogni campo possibile. Un nuovo campo possibile, ora, è diventato quello della fecondazione in vitro. All’inizio essa permetteva di ovviare a problemi organici a causa dei quali la fecondazione non poteva avvenire in utero. A partire da questa opportunità, il mercato ha assorbito la rilevanza e il profitto che potevano generarsi dalla fecondazione in vitro. Questo profitto è cospicuo perché il flusso di denaro che circola in questo settore è in crescita costante. Io non ho molto da dire, se non mettere in guardia rispetto alla falsità di alcune narrazioni nelle quali si sostiene che le donne lo facciano gratuitamente perché vogliono donare la vita. Si tratta di invenzioni di marketing. Sono ipocrite. Se persone istruite che conoscono le retoriche delle strategie di marketing accettano queste narrazioni come vere e genuine, allora io, personalmente, non posso che parlare di ipocrisia.
Nel testo ricorre più di una volta la sottolineatura di un rischio che è quello di spostare l’asse del riferimento dalla differenza sessuale a un’altra modalità di concepire la differenza, ovvero nei termini di pura diversità individuale. In particolare, questo scivolamento viene da voi attribuito alle tendenze interne ai movimenti transfemministi contemporanei, che dal punto di vista teorico appaiono essere influenzati dalle riflessioni di Butler. In cosa consiste questa distinzione? Secondo lei è possibile elaborare una critica significativa al sistema patriarcale prescindendo dal riferimento alla differenza sessuale?
Cavarero: A questa seconda domanda voglio rispondere immediatamente: no. Il patriarcato è quel sistema che gerarchizza i sessi, garantisce privilegi agli uomini e subordina le donne, in una molteplicità di modi che divergono notevolmente a seconda del contesto storico, dagli antichi alla modernità, passando per il cristianesimo. Dal mio punto di vista, se prescindiamo dalla differenza tra uomo e donna, cioè dal fatto che si tratta di due soggetti sessuati diversi, bisogna tenere in considerazione che il patriarcato – al contrario – non dimentica questa differenza. Un esempio concreto: nell’organizzazione del lavoro la relazione patriarcale è ancora in vigore sebbene sottaciuta e apparentemente oscurata dalle agende che impongono di non considerare la differenza tra uomo e donna. Questo vale solo teoricamente. Il mercato del lavoro, dal punto di vista del riconoscimento del sesso maschile e femminile, non si sbaglia. Non si può elaborare il concetto di patriarcato se non si mette in primo piano che i sessi sono due e sono disposti gerarchicamente. Per quanto riguarda la distinzione tra differenza sessuale e differenze singolari, voglio chiarire che, essendo una studiosa di Hannah Arendt, penso che scopo della politica sia garantire uno spazio di interazione alle singolarità, alle “unicità incarnate”. Su questo tema ho scritto anche un libro, Democrazia Sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt (2019). Tuttavia, la differenza sessuale è un dato strutturale che attraversa le singolarità. Chi nasce è sempre un’unicità incarnata, ma ha anche, sempre, un sesso o l’altro. Abbiamo, ciascuno, una storia di vita, un’esperienza soggettiva che è singolare e unica. Il modo di esprimere questa singolarità è l’interazione in uno spazio comune, la costruzione di movimenti politici di riconoscimento delle differenze articolate all’interno della pluralità. Sottolineo pluralità, da non confondere né con la molteplicità delle diversità individuali, il cui rovescio è la radicale indifferenza, né con la moltitudine di Toni Negri. Eppure tutti noi abbiamo due gambe. Questo, forse, ci rende uguali? Certamente no. Il problema delle due gambe si pone a molti livelli, anche a livello filosofico perché siamo animali che non corrono molto in fretta, mentre le pantere, che hanno quattro zampe disposte diversamente, corrono più veloci. Ciò significa che esse hanno una modalità di adattamento ecologico e noi ne abbiamo un’altra. Nelle cacce primitive erano le pantere a cacciare noi, non viceversa. Questo ha determinato che la civiltà umana si organizzasse diversamente. Tutti gli elementi corporei non sono secondari rispetto alla storia umana, se è la storia umana che ci interessa… Ovviamente la differenza sessuale rientra fra questi elementi, non è secondaria quanto piuttosto strutturale, esattamente come lo è possedere uno stomaco.
Adriana Cavarero è professoressa onoraria all’Università di Verona dal 2019 ed ha insegnato come Visiting Professor nelle seguenti università americane e inglesi: University of California (Berkeley e Santa Barbara), New York University, Harvard University, University of Warwick e University of Chicago. Nel 1971 si è laureata cum laude in filosofia all’Università di Padova, dove ha poi svolto il dottorato di ricerca conclusosi nel 1974 con la pubblicazione della sua tesi di dottorato: Dialettica e politica in Platone. Ha poi collaborato con il gruppo di ricerca sui concetti politici fondato dal professor Giuseppe Duso, occupandosi del pensiero politico di John Locke e David Hume. Nel 1983, insieme, tra le altre, a Luisa Muraro, ha fondato la comunità filosofica Diotima a Verona, dove è stata professoressa ordinaria. Cavarero è riconosciuta, in Italia e all’estero, come una figura decisiva del pensiero della differenza sessuale. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Nonostante Platone. Figure femminili della filosofia antica (1990), Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofie della narrazione (1997), Democrazia sorgiva. Note sul pensiero politico di Hannah Arendt (2019) e l’ultimo testo, scritto assieme ad Olivia Guaraldo e pubblicato nel 2024 per Mondadori: Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa).
Note
- N.d.r.: La Tartaruga è una casa editrice italiana fondata, nel 1975, da Laura Lepetit e Anna Maria Gregorietti Gandini. Si occupa di pubblicare libri di narrativa, critica letteraria, filosofia e politica scritti unicamente da donne. Legata a doppio filo con i movimenti femministi italiani, a partire dagli anni ’70 ha pubblicato – tra le altre – le opere di Virginia Woolf e Gertrude Stein oltre che la saggistica femminista prodotta da autrici appartenenti a Diotima come Adriana Cavarero, Luisa Muraro, Wanda Tommasi e Chiara Zamboni. Dal 2017, La Tartaruga fa parte del gruppo La Nave di Teseo e, dal 2021, è curata da Claudia Durastanti. Nel 2023 la casa editrice ha ripubblicato Sputiamo su Hegel (1970) e nel 2024 Taci, anzi parla (1978) di Carla Lonzi, nel contesto di un progetto editoriale che prevede una nuova pubblicazione dell’intera opera dell’autrice fiorentina. ↩︎
da Il Corriere della Sera
Alla palestinese nel 2023 alla Buchmesse fu assegnato ma poi non consegnato il LiBeraturpreis: «Non è questa la cosa che fa male…». In Italia torna il suo romanzo “Sensi”
Adania Shibli ama ascoltare storie, quelle che sua mamma – che non sapeva scrivere – invece sapeva raccontare così bene. L’ha spiegato qualche anno fa in un’intervista al «Guardian». E c’è una mamma che non legge, che resta esclusa dal mondo della bambina alla scoperta dei libri anche in Sensi, il piccolo capolavoro che Shibli ha scritto quasi vent’anni fa, all’esordio, e che, uscito in Italia per Argo nel 2007, torna ora con La nave di Teseo.
Nel frattempo, Adania Shibli, palestinese, è diventata un’autrice di culto. Ha pubblicato pochissimo: Sensi, Un dettaglio minore, alcuni racconti e ha completato un romanzo che sta per uscire in arabo. Su Un dettaglio minore – 128 pagine, sempre per La nave di Teseo – ha lavorato dodici anni. Eppure è tra i nomi più ammirati della letteratura mondiale, fu candidata con quest’ultima opera sia al Booker Prize che al National Book Award, i due più importanti premi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Il suo nome è diventato noto a un pubblico ampio quando nel 2023 alla Buchmesse di Francoforte le fu conferito il LiBeraturpreis ma la consegna venne sospesa per non urtare certe suscettibilità tedesche, subito dopo il 7 ottobre e l’inizio della guerra di Israele contro Hamas. Ne è nata una sollevazione internazionale, con premi Nobel come Olga Tokarczuk, Annie Ernaux e Abdulrazak Gurnah intervenuti in suo favore. Quando ci risponde, dice che non vuol parlare di politica. Nessuna intenzione di tirarla a forza in polemiche, precisiamo. «Ci mancherebbe, nessun problema, non me ne potrebbe importare di meno – dice – di finire in controversie politiche. È che mi piacerebbe parlare di letteratura».
Un dettaglio minore è la storia di uno stupro, compiuto da un ufficiale israeliano su una ragazza beduina nel 1949, e la ricerca molti decenni dopo da parte di un’impiegata palestinese per conoscere la verità della ragazza. Sensi potrebbe anche essere l’educazione (esistenziale, più che sentimentale) di una ragazzina palestinese – mentre la vita del suo popolo è letta attraverso le esperienze dei suoi famigliari – fino alle nozze che lei non vuole, o non vorrebbe.
Shibli vive tra Berlino, Bir Zeit (in Palestina, dove insegna) e Londra, dove ha ottenuto un dottorato in Studi culturali. Ed è estremamente colta, con una solida base teorica, dentro il dibattito contemporaneo: si potrebbe anche dire che sia una delle voci dell’antirazzismo mondiale. Ma quando scrive, la sua è una lingua pura, fatta di pochi elementi, scorre quasi come una poesia: non a caso l’ha notata e incoraggiata a scrivere il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish. Fluisce per immagini, quasi come un’installazione letteraria. E non la si dimentica più. «È un miracolo che la fiction che Shibli compone da un materiale abbondantemente politico sia così strettamente esistenziale», ha scritto di lei l’autore e critico inglese Adam Thirlwell. Difficile trovare parole più precise.
Lei sceglie spesso ragazze giovani come soggetto dei suoi libri, o adotta il loro punto di vista. In Sensi, la protagonista è una ragazza particolare: sente suoni, a poco a poco scopriamo che è molto intelligente. Perché?
«Non sono sicura che sia così, ma è certamente vero per Sensi, e forse per altre due storie brevi. In Sensi, la dimensione di essere una ragazzina suscita incontri con il mondo a molti livelli, e questo mondo è vissuto ogni volta per la prima volta. Man mano che la protagonista cresce, il modo in cui lo percepisce cambia. Infatti, è attraverso questi cambiamenti portati dai suoi sensi che vive la crescita, piuttosto che attraverso gli strumenti usuali per misurare il tempo, come contare i giorni e gli anni».
La morte del fratello, il suicidio di un vicino che si impicca in Sensi, l’uccisione della ragazza beduina in Un dettaglio minore. La morte sembra quasi una presenza naturale.
«Ma anche la vita. I personaggi in questi romanzi sono affascinati dalla vita che continua dopo la morte o la precede; da come la vita continua con le assenze degli altri. Forse i miei testi sono segnati da queste assenze, tormentati dalla domanda su come portiamo nelle nostre vite la presenza di coloro che non sono più con noi. O su come le morti stanno formando le nostre vite, talvolta deformandole».
Perché non dà nomi ai protagonisti?
«Finora non ho incontrato un personaggio che richiedesse un nome. I personaggi richiedono cose diverse in un testo: movimenti, passati, emozioni, amore, solitudine e a volte richiedono un nome, ma non sempre. Nel nostro rapporto intimo con noi stessi difficilmente abbiamo bisogno dei nostri nomi, per esempio».
L’ufficiale-assassino non prova empatia. E forse neppure la donna palestinese che indaga. Quant’è importante per lei esplorare come si partecipa alla vita degli altri, o l’impossibilità di farlo?
«La scrittura e la lettura, e l’arte in generale, ci permettono di fare spazio in noi per gli altri. Non soltanto condividiamo qualcosa con loro, piuttosto questi altri fittizi, attraverso la lettura o la scrittura, possono abitare in noi. Spesso possiamo dimenticarci di noi stessi quando leggiamo o scriviamo, a favore di ciò che stiamo leggendo e scrivendo. E questo è ciò che alcuni definiscono come l’effetto trasformativo della letteratura e dell’arte. Non è qualcosa che pianifichiamo, piuttosto qualcosa che ci accade. Non si tratta di identificarsi con un personaggio, ma di come i personaggi risvegliano qualcosa in noi che alla fine ci rende consapevoli di un luogo dentro di noi che non conoscevamo fino a quel momento, o che non avevamo notato. Una tale consapevolezza, per esempio, è la nostra capacità di causare dolore, che l’ufficiale potrebbe risvegliare quando stupra e uccide la ragazza».
Lei ha vinto premi importanti. La consegna del LiBeraturpreis alla Buchmesse, nel 2023, fu sospesa a causa delle controversie legate alla guerra israelo-palestinese. Si è sentita ferita?
«Innanzitutto, non chiamerei questo conflitto “guerra israelo-palestinese”. Lo definirei occupazione militare israeliana e colonizzazione della Palestina da decenni. Ed è questo che fa male, fa profondamente male, la distruzione che dura da decenni e che viene inflitta ai palestinesi e agli israeliani, ciascuno con il proprio ruolo e la propria posizione all’interno di tutto ciò. C’è stata una sottomissione continua dei palestinesi mediante l’oppressione militare e politica, attivata da un sistema di dominazione basato su una gerarchia etnica che è stata implementata in Palestina/Israele. Come questo sistema di gerarchia etnica continui a essere mantenuto e le sue conseguenze, che distruggono i palestinesi ma anche gli israeliani, ciascuno in modo diverso a seconda del proprio ruolo e delle proprie azioni in questo sistema, è ciò che fa male. Non la cancellazione del premio che era previsto».
È affascinata dalla storia come materiale di scrittura?
«Piuttosto, sono attratta e incuriosita da ciò che la storia non può narrare, o da ciò che la storia abbandona. La storia è stata la materia scolastica che ho odiato di più, perché già allora era evidente la moltitudine di assenze e esclusioni su cui si basa come disciplina».
Il dolore sembra centrale nei suoi libri. Rimane sospeso, osservato, spesso sembra indicibile.
«Fin dall’inizio la scrittura mi ha insegnato come esistere nel mondo causando il minor danno possibile, e permettendomi di vivere alcune esperienze che non possono essere vissute nella realtà in sé. Ciò che ha reso possibile tutto questo è la capacità della letteratura di orientare lo sguardo verso il dolore senza la necessità di praticarlo, e senza permettergli di diventare una forza distruttiva. In Sensi, per esempio, la bambina fatica a comprendere l’entità di un massacro come quello di Sabra e Shatila nel 1982, e ciò che potrebbe essere l’esperienza delle sue vittime, ma questo le consente di cercare di tentare di comprenderlo. In altre parole, di creare una consapevolezza che va oltre la questione dell’esperienza diretta».
Le sue storie sembrano dipinti: il deserto, le stelle, i fiori di mandorlo. È perché ama le arti visive?
«Se scrivo in questo modo, è probabilmente perché amo la lingua più di quanto ami le arti visive».
Perché è necessario raccontare storie?
«Sono più attratta dall’ascoltare storie che dal raccontarle. Qual è l’importanza di ascoltare storie? Suppongo sia un’espressione d’amore: permettere all’orecchio di essere presente e vicino agli altri, in ascolto».
Sabato 8 febbraio 2025 abbiamo ospitato alla Libreria delle donne Luciana Castellina, in una giornata che per lei è stata molto intensa visto che la mattina era a Roma al funerale laico di Aldo Tortorella, compagno di tante battaglie. A 95 anni, continua a portare con sé la passione e la voglia di discutere, raccontare, confrontarsi con un’energia meravigliosa.
Aldo Tortorella è stato una figura centrale nella storia della sinistra italiana, dirigente del PCI e intellettuale di primissimo piano. Ma, come ha scritto Luciana Castellina nel suo bel ricordo su “il manifesto”, per chi ha vissuto la politica come una scelta totalizzante, non era solo un compagno di partito: era parte di una comunità in cui la politica e la vita si intrecciavano completamente. “L’impegno politico non era a quei tempi un aspetto della propria vita, era la vita stessa.”
E in fondo, La scoperta del mondo, il libro presentato in Libreria nella sua nuova edizione, è proprio questo: il racconto di una generazione che ha vissuto la politica non come qualcosa di separato dalla vita, ma come una dimensione in cui tutto si mescolava, amicizie, passioni, amori, lotte.
Ci sono libri che raccontano il passato e libri che, pur narrando eventi di un’altra epoca, parlano direttamente al presente e al futuro. La scoperta del mondo di Luciana Castellina è uno di questi. Non è solo un’autobiografia, ma un invito, un racconto che attraversa generazioni, un ponte tra chi ha vissuto il Novecento e chi oggi si interroga su come cambiare il mondo.
Luciana Castellina, nella nota che accompagna questa nuova edizione, ci dice qualcosa di potente: i giovani di oggi non sono spoliticizzati, sono solo in cerca di uno sguardo più lungo, di una visione più ampia di quella che spesso la politica ufficiale offre loro. Castellina guarda avanti, osserva i giovani con curiosità e ottimismo, li riconosce come eredi di una voglia di cambiamento che non si è spenta. E allora questo libro diventa un ponte: tra chi ha vissuto anni di grandi trasformazioni e chi oggi cerca strumenti per affrontare il presente.
Il libro ripercorre i diari giovanili di Luciana Castellina, dal 25 luglio 1943, quando Luciana ha 14 anni e sente la notizia dell’arresto di Mussolini. In quel momento, inizia anche il suo percorso politico, lei che si affaccia al mondo in un contesto fascista e non vede una reale alternativa, il suo ambiente è antifascista e anticonformista ma non attivamente partecipe alla Resistenza e intorno a lei in molti sono presi dalla propria sopravvivenza personale, c’è paura, c’è la guerra. Lentamente, attraverso incontri, letture, esperienze, si apre una breccia oltre la propaganda e la paura. E Castellina descrive questo momento con una frase che colpisce “Finalmente, anziché occuparmi dell’onore perduto della patria, esprimo qualche preoccupazione per chi non può pagare l’olio a 2200 lire il fiasco e le uova a 22 l’una. Qualcuno mi ha detto che ci sarebbero stati persino assalti si forni nei quartieri popolari. E uno sciopero generale dei lavoratori dell’Atac, della Romana Gas, del Poligrafico. La ribellione – era ora! – cominciava a piacermi” (pag. 84).
Con la fine della guerra, l’orizzonte si allarga. C’è entusiasmo, c’è voglia di capire, di agire, di prendere parte alla costruzione di un mondo nuovo.
Ma avvicinarsi alla politica non è immediato. Luciana si sente inadeguata, ha una sete di sapere che non sa dove cominciare a colmare. È un sentimento che io ritrovo nei giovani di oggi, smarriti davanti alla complessità del mondo e privi di strumenti per decifrarlo. Inizia ad appassionarsi alla pittura, ma non in modo astratto: per lei, l’arte è uno strumento politico, un mezzo per leggere e raccontare la realtà. Confrontandosi con altri giovani pittori – quasi tutti comunisti – cresce anche la sua coscienza politica. Capisce che la politica è il contrario di guardarsi l’ombelico, è la scoperta dell’altro e del mondo: “È questa dimensione nuovamente collettiva che mi aiuta a uscire dall’autoreferenzialità, che mi fa persino ritrovare il senso di quella parola – patria – che prima scrivevo con la P maiuscola, poi avevo del tutto cancellata come inganno e retorica. La pietà che comincio a sentire per il mio prossimo più lontano dal mio ghetto sociale, per i senza privilegi, gli sfollati, i disoccupati, i reduci, i martiri, mi ridà una dimensione collettiva, solidale. E che a poco a poco mi apre alla curiosità della politica, che è, appunto, il contrario del proprio ombelico” (pag. 117).
Questi sono anni in cui la felicità e l’angoscia convivono. Da un lato, la sensazione esaltante di avere tutto il mondo davanti e volerlo scoprire, una sensazione di felicità che l’accompagna spesso, come scrive (pag. 121). Dall’altro, la paura di forze enormi e incontrollabili, come la bomba atomica (pag. 120).
Il vero punto di svolta arriva con un professore del liceo, Giuseppe Petronio, che le fa capire quello che non aveva mai compreso prima. Nel libro si trovano piccole perle di curiosità, umanità e intelligenza, disseminate tra le pagine. Per esempio, Luciana annota la fine della guerra il 26 aprile del 1945 e un paio di giorni dopo l’uscita del film di animazione Biancaneve (pagg. 98-99). Oppure nel 1947 registra i lavori dell’Assemblea Costituente, che tratta anche temi come il divorzio o i figli illegittimi, scoprendo che ciò che ha sempre considerato privato è in realtà profondamente politico (pag. 142). La sua vita cambia completamente. Viaggia, partecipa a un’esperienza di lavoro volontario in Jugoslavia, entra in contatto con coetanei da tutto il mondo. Scrive: “Dopo la lunga ghettizzazione del fascismo e della guerra, il mondo ci è letteralmente scoppiato in mano: variopinto, iperplurale, inaspettato” (pag. 177).
Entra nel PCI, dove scopre un rigore morale che non ha mai vissuto nella sua famiglia. Nel 1947, a Praga, capisce che il comunismo non è solo una scelta politica, ma la possibilità di un mondo alternativo. Praga diventerà anche il simbolo di un altro momento cruciale della sua vita: la rottura del 1968, la radiazione dal PCI, la nascita de il manifesto dopo l’invasione sovietica.
Fin dall’inizio, la sua idea di politica è chiara: non è la spartizione del potere, ma un impegno collettivo per il riscatto dell’umanità: “La politica sarebbe arrivata dopo, poco alla volta. Ma per noi, che venivamo dall’università, quella è una straordinaria lezione di politica. Oggi direi di ‘politica vera’, allora non avevo nemmeno idea che potesse essercene una diversa” (pag. 200). E ancora: “Figure umane straordinarie, che regalano ore e ore della loro giornata all’impegno collettivo, senza neppure porsi il problema di un risarcimento che non sia quello ideale del riscatto dell’umanità. Cariche elettive o nomine o prebende sono lontanissime dall’orizzonte. Per anni, credo di non aver incontrato deputati o consiglieri comunali o, se li ho incontrati, non li ho distinti dagli altri militanti” (pag. 201). E questo, oggi più che mai, resta un nodo fondamentale: come si può pensare la politica senza trasformarla in puro individualismo o in gestione di cariche e di potere?
Luciana Castellina, nella sua lunga vita di impegno politico e culturale, non ha mai smesso di interrogarsi sul presente e di dialogare con il futuro. Nel 2024 ha rilasciato un’intervista a un giovane studente del Liceo Manzoni di Milano, Giaime Nisivoccia, dove pone delle domande radicali: Vi piace il mondo così com’è? Vi sembra giusto? Se no, avete pensato a come cambiarlo? In fondo, sono le stesse che si poneva a 14 anni, quando iniziava a scoprire la realtà fuori dalla bolla del fascismo. In questa intervista pubblicata sul giornalino della scuola, Luciana Castellina dice che oggi come allora, molti giovani avvertono l’ingiustizia, il disagio di vivere in una società che non offre spazio e opportunità a tutti allo stesso modo. E aggiunge che il nemico più pericoloso non è solo l’ingiustizia, ma la rassegnazione. Proprio qui il suo libro diventa importante: perché racconta la scoperta della politica non come ideologia astratta, ma come qualcosa che riguarda la vita concreta, le relazioni, le scelte quotidiane. La politica come il contrario del ripiegamento su se stessi, come lo strumento per uscire dal proprio ombelico e scoprire il mondo.
Il passato serve se è capace di parlare al presente. Questo libro lo fa, e lo fa senza retorica, senza nostalgia. È un racconto di formazione che si apre al futuro, perché chi lo legge – giovane o meno giovane – possa farsi le domande giuste. E magari trovare le proprie risposte.