da il manifesto
Per Voland l’ultimo romanzo della scrittrice ungherese che descrive il presente
La foto alla parete che ritrae una scimmia cui è stata trapiantata la testa è l’immagine ricorrente dell’ultimo romanzo della scrittrice ungherese Krisztina Tóth, reso in italiano dalla chiara traduzione di Mariarosaria Sciglitano. Essa fa da filo conduttore a una storia distopica, che si intitola, appunto, Gli occhi della scimmia (Voland, pp. 314, euro 20), si inserisce nel solco tracciato da George Orwell, ci parla di potere, di sofferenza senza voce ed espressione e dipinge a tinte fosche un’umanità divenuta anaffettiva e succube, povera immagine di sé stessa.
Ci troviamo in un luogo non definito, in un paese reduce da una paurosa guerra civile che ha diviso la sua società creando in essa un fossato incolmabile fra gli ambienti agiati contigui al potere e i derelitti che vivono nelle zone di segregazione, là dove si esaurisce ogni speranza di riscatto e rinascita. In questo mondo distonico si muovono le figure di Giselle, insegnante universitaria ancora giovane, e del dottor Kreutzer, lo psichiatra al quale la donna si affida in preda a uno stress emotivo. La docente è stata seguita a lungo da un giovane sconosciuto, comparso e scomparso chissà in quali circostanze quasi senza una ragione apparente, che dice di essere suo figlio. A lei che non ha mai partorito.
Giselle e il dottor Kreutzer si incontrano nello studio di quest’ultimo per un percorso di analisi, le loro vite si intrecciano e vengono da essi ripercorse con uno sguardo incapace di capire appieno il senso di quanto vissuto. I due sono espressione di un’umanità stretta nelle pieghe del potere, della sua capacità di controllo e di annullamento delle volontà. La foto della scimmia dalla testa trapiantata è appesa dietro la scrivania di Kreutzer; l’animale rattoppato, ricomposto, che non è più sé stesso e non è altri, guarda quasi incredulo davanti a sé, fermo nella sua impotenza che è anche quella di chi lo fissa.
I personaggi che affiorano in questa storia sono anche un po’ vittime di loro stessi, e anche quando compiono azioni riprovevoli, come lo psichiatra che usa la sua professione per portarsi a letto le pazienti e annota amplessi e orgasmi in un diario aggiornato, suscitano quasi un senso di compassione per la miseria che li tiene prigionieri e dalla quale non sanno liberarsi. Kreutzer è un uomo disturbato ma anche solo, di una solitudine non condivisa, incapace di andare oltre sé stessa. Giselle viene da una sofferenza senza nome e senza volto e quindi ancora più subdola e sotterranea.
Scappa dal giovane che pretende di essere suo figlio, corre via in macchina sotto la pioggia per sfuggire all’incubo e prova a interrogarsi sulla sua vita. In essa si vede affiancata da un uomo anonimo, dall’alito pesante, insopportabile come ogni esistenza andata a male. È il suo compagno che affiora nel racconto in modo residuale per poi sparire così com’era apparso. Pagina dopo pagina, Gli occhi della scimmia scava nella fragilità dell’individuo, nella complessa realtà del rapporto fra uomo e donna, fra padre e figlia, fra madre e figlio, fruga nelle dinamiche familiari quasi impietoso.
La narrazione si snoda in un continuum fatto di oscurità e motivi a tratti grotteschi. Su tutto grava il macigno del potere che sa assumere diverse forme e riesce a non farsi riconoscere. Chi ne è manovrato non se ne accorge e finisce per muoversi lungo percorsi da esso inesorabilmente tracciati. Una storia del potere nel potere che vede anche Kreutzer, nel suo piccolo, usare quello che gli viene dall’autorità di psichiatra che gli è propria. Con essa fruga nella mente delle persone, le riduce a uno stato di subordinazione che nel caso delle donne assume una connotazione sessuale. Il suo, però, è un piccolo potere, marginale, inglobato in quello sovrastante di un sistema che ricorda il grande fratello orwelliano.
Scrittrice e poetessa, autrice di numerosi libri per l’infanzia e di Pixel (Edizioni ETS, 2020), nella versione italiana a cura della stessa Mariarosaria Sciglitano, nonché traduttrice dal francese, Tóth si muove con agilità nell’esporre i disagi dell’esistenza, di vite insufficienti, spolpate fino all’osso. La sua è una narrazione partecipata che passa in rassegna dolori e travagli muti ai quali dà voce non senza una punta di ironia, amara ma efficace come il ritmo che caratterizza questo romanzo.
Beniamina del recente Nobel ungherese per la letteratura, László Krasznahorkai, Tóth è originaria di un paese che da quindici anni vive sotto un sistema di potere che, dalla sua formazione, si è impegnato a realizzare un controllo sempre più stretto e capillare su tutte le manifestazioni della vita pubblica. Una situazione politica, quella in cui si trova l’Ungheria, che vede la scrittrice in prima linea nella critica al regime creato e tenuto in vita da Viktor Orbán e la trova nei panni di intellettuale non esattamente approvata dal governo per le sue posizioni.
È allora verosimile che l’autrice, per il romanzo, abbia tratto spunto dalla realtà che sta caratterizzando lo Stato danubiano in questo ciclo politico. Gli occhi della scimmia offrono uno sguardo smarrito ma forse anche indulgente nei confronti di tanta umanità vessata, impoverita, chiusa negli spazi asfittici predisposti dal potere e dotata di una volontà ridotta ai minimi termini. Una volontà magari non esaurita del tutto ma nascosta nei recessi di memorie e coscienze da riattivare.
(*) Due tappe sarde per Kristina Tóth, nell’ambito del festival letterario «Lèggere emozioni»: venerdì 31, a Villacidro (Aula consiliare, ore 17), Tóth parlerà del romanzo con la traduttrice Mariarosaria Sciglitano (introduce Gianni Usai). Sabato 1° novembre, a Nuoro (Fondazione Satta, ore 17), il dialogo tra la scrittrice e la traduttrice sarà introdotto da Bastiana Madau.
da il manifesto – Alias
L’estate del 1940 rappresenta il punto culminante di quel collasso della civiltà che travolge l’Europa con l’esplicarsi ormai senza più dissimulazioni della potenza distruttiva del regime nazista in Germania. Annessa l’Austria nel ’38, invasa la Polonia nel ’39, nel ’40 la Germania attacca il Belgio e i Paesi Bassi e poi la Francia con una manovra a falce che ne travolge le difese senza lasciare, parrebbe, possibilità di replica.
L’esodo di massa di apolidi (privati della cittadinanza dal regime tedesco), scrittori, intellettuali, attivisti, avversari politici, ebrei, cominciato in Germania già nel 1933, con il susseguirsi di questi eventi assume proporzioni apocalittiche: tutti coloro che si erano rifugiati in Francia, e in particolare a Parigi, per sfuggire alle persecuzioni della Gestapo e al rischio della deportazione nei campi di concentramento, da un giorno all’altro non sono più al sicuro e cercano scampo oltre la Loira, dove comincia la Francia cosiddetta libera (in realtà governata dal regime collaborazionista del maresciallo Pétain), e il regime nazionalsocialista ancora non ha il pieno controllo della situazione.
Soldati degli eserciti in rotta, disertori, profughi dai più diversi paesi confluiscono a Marsiglia nella speranza di riuscire a lasciare l’Europa su una qualche nave diretta negli Stati Uniti, in Messico, nelle colonie francesi d’oltremare. Sono molti coloro che in questa fuga trovano la morte, per mano dei tedeschi o volontariamente, come Carl Einstein, Ernst Weiss, Walter Hasenclever, Ernst Toller, Walter Benjamin.
Alla lunga lista di resoconti di questo traumatico momento storico, da qualche mese, grazie alla giovane casa editrice Palingenia e nella valida traduzione dal tedesco di Enrico Arosio, anche il lettore italiano può aggiungere Lo strappo del tempo nel mio cuore – Memorie, della pubblicista e agente editoriale austriaca Hertha Pauli, sorella del fisico quantistico Wolfgang Pauli, premio Nobel nel 1945 per la formulazione del principio di esclusione (Palingenia, Venezia, pp. 347, euro 33,00). Le memorie di Herta Pauli si affiancano infatti a Transito di Anna Seghers, a Hotel Baalbek di Fred Wanders, a Verlustanzeige [“Avviso di smarrimento”] di Karl Frucht, a Il diavolo in Francia di Lion Feuchtwanger e a Consegna su richiesta del Giusto tra le Nazioni Varian Fry, giornalista americano che con il suo Emergency Rescue Committee riuscì a salvare migliaia di profughi “eccellenti” (intellettuali, artisti, scienziati di fama mondiale) aiutandoli a raggiungere l’America.
Caratteristica di tutte queste opere è l’oscillazione tra il tenore letterario e quello testimoniale e cronachistico. E anzi, proprio in queste opere che respirano l’aria di una storia drammatica vissuta in prima persona prende forma particolarmente evidente la polarità, insita secondo Walter Benjamin in tutte le opere letterarie, tra «contenuto reale» e «contenuto di verità», tra «i ceppi pesanti del passato» e la «fiamma vivente» della verità che di questi si alimenta.
Per quanto narrata più e più volte, ripetuta in un certo senso, l’epopea di quello che Christa Wolf definì «spettrale corteo di milioni di profughi» in un’Europa sull’orlo di cadere in mano ai nazionalsocialisti non perde forza né valore testimoniale. Luoghi, persone, impressioni, dettagli anche minimi si ripresentano, uguali e ogni volta diversi, ogni volta con tutta l’autenticità dell’esperienza vissuta. Anche le memorie di Hertha Pauli restano, in questo, paragonabili a ciò che i fisici quantistici chiamano wormhole, un cunicolo spaziotemporale che collega immediatamente il nostro presente a un momento apparentemente distante nello spazio e nel tempo.
Nata nel signorile distretto viennese di Döbling, Hertha era figlia di un medico di origini praghesi ebreo convertito al cattolicesimo (che da Pascheles aveva cambiato il proprio cognome in Pauli) e di Berta Camilla Schütz, giornalista e attivista per i diritti delle donne. Trasferitasi ancora giovane a Berlino, attrice con Max Reinhardt, Hertha era tornata a rifugiarsi a Vienna nel 1933. Qui aveva creato assieme ad amici l’agenzia letteraria “Österreichische Korrespondenz”, che si occupava principalmente di trovare editori per gli autori di lingua tedesca invisi al regime nazionalsocialista. Queste sue memorie, scritte in America molto dopo i fatti a cui si riferiscono, scandiscono le tappe dei due anni dal 1938 al 1940, in cui da Vienna fu costretta a fuggire a Parigi e poi, nel giugno del ’40, in condizioni estreme, a piedi o sfruttando occasionali passaggi e qualche treno superstite, in direzione di Marsiglia, da dove Pauli riuscì fortunosamente a imbarcarsi per gli Stati Uniti (grazie appunto all’aiuto del Comitato di Fry).
La vicenda di Pauli non è individuale, ma collettiva: è la storia di tutto l’ambiente del quale Hertha si era messa al servizio con l’agenzia letteraria. In fuga assieme a lei, lungo traiettorie che sempre nuovamente e avventurosamente si intersecano, ci sono tutti i protagonisti del primo Novecento letterario e artistico, ciascuno con il suo carattere peculiare, le sue debolezze e i suoi punti di forza, le sue bizze e le sue genialità – e i suoi manoscritti o le sue opere sotto il braccio. Il cabarettista, poeta e scrittore satirico berlinese Walter Mehring, fisicamente esile, timoroso e facile al panico, deve essere quasi costretto uscire di casa per potersi alla fine imbarcare. Il drammaturgo ungherese Ödon von Horváth, superstizioso e convinto che un destino occulto agisca dietro alla superficie falsamente innocua dei fatti, muore assurdamente schiacciato dal ramo di un albero durante una tempesta a Parigi.
Joseph Roth è eternamente seduto al tavolo del Café Tournon a scrivere davanti a un bicchiere di Slivoviz, attorniato da un circolo fisso di emigrati, fino a quando l’alcol e una polmonite non hanno la meglio sul suo fisico ormai provato ed egli muore all’ospedale Necker di Parigi nel maggio del 1939. La coppia – quasi una macchietta – del poeta Franz Werfel e della carismatica seduttrice e regina dei salotti Alma Mahler, riesce a mantenere una certa grandeur anche nella fuga e viaggia con un bagaglio spropositato. Il medico e scrittore amico di Kafka Ernst Weiss, cupo e sfiduciato, al momento di lasciare Parigi non ha più la forza di rimanere attaccato alla vita. Diventerà la presenza fantasmatica che anima Transito di Anna Seghers, nella persona dello scrittore Weidel, in possesso di tutti i documenti necessari per imbarcarsi alla volta del Messico, ma in realtà già morto suicida. E assieme a loro tanti, innumerevoli altri.
Particolare anche il fatto che a pubblicare nel 1970 e poi a riproporre nel 2022 questo resoconto di prima mano degli anni in cui un’intera cultura rischiò di essere cancellata – quella del nostro Novecento più produttivo, che avrebbe gettato le basi del futuro oltre gli anni della barbarie nazista – sia stato un editore austriaco rinato dopo la guerra, ma che a suo tempo condivise il destino di Hertha Pauli e dei suoi sodali: la casa editrice viennese Zsolnay, punto di riferimento per le sperimentazioni letterarie del primo Novecento prima del ’33, poi arianizzata nel ’38 dopo anni di difficoltà dovute al boicottaggio dei suoi autori da parte della Germania nazionalsocialista e una serie di disperati tentativi di adattarsi per sopravvivere, della quale Joseph Roth scriveva, nel 1937 da Parigi: «Così si dà il caso grottesco che lo stato austriaco cattolico ospita quegli editori ebrei che obbediscono alle imposizioni pagane della camera degli scrittori del Reich».
da L’Altravoce il Quotidiano
Il libraio di Gaza, il libro di Rachid Benzine, scrittore marocchino, nasce dall’incontro del fotoreporter francese Julien Desmanges, inviato a Gaza nel 2014 durante la tregua seguita all’ennesima rappresaglia israeliana, e Nabil Al Jaber, libraio palestinese. Il vecchio Nabil, dalla «barba irregolare e brizzolata, con le spalle un po’ curve e gli occhiali posati a sghimbescio sul naso» se ne sta seduto davanti alla sua bottega a leggere, a due passi dalle macerie. Quando volta la pagina «la annusa, la accarezza, poi si immerge nuovamente nella lettura. Le sue dita toccano la carta come se coccolassero le parole». È come se volesse restare aggrappato alle parole per salvarsi «dal frastuono, dalla sofferenza, dalla morte lenta della città». La vetrina della sua bottega è circondata «da centinaia di libri, la porta aperta su migliaia d’altri. E altre centinaia posate direttamente sul marciapiede». È questa la scena straordinaria che cattura lo sguardo del fotoreporter che si avvicina a lui e gli chiede di poterlo fotografare. A quella richiesta Nabil, saggiamente, risponde: «Non crede che un ritratto fotografico riesca meglio se si conosce ciò che è nascosto? Dietro ad ogni sguardo non c’è forse una storia? Quella di una vita. Talora quella di un popolo intero. Non vorrebbe, signor fotografo, ascoltare la mia storia?». E lui inizia a raccontare la sua storia. Una storia soggettiva ma anche collettiva in cui ogni palestinese può ritrovarsi. Una storia che fa del ricordo e della memoria la fonte di verità e realtà. Storia che inizia con sua madre, la donna palestinese musulmana che lo mise al mondo nella notte tra il 31 dicembre 1947 e il primo gennaio 1948, qualche ora dopo essere stata gravemente ferita dai militari sionisti che avevano attaccato il loro villaggio, mentre tutti dormivano. Uccisero, terrorizzarono, cacciarono dalla propria casa e dalla propria terra migliaia di famiglie palestinesi, e fu la Nakba (la catastrofe). I nonni e i genitori, con lui appena nato e un altro figlio, «lasciarono il villaggio, quell’angolo di terra che avevano arato con fatica. Le loro radici, gli alberi che avevano piantato, quelle vigne millenarie che non avrebbero mai più rivisto. La casa che il nonno aveva costruito con le sue mani, pietra su pietra. Lì c’era tutta la loro vita e tutto ciò che le dava senso». Vite distrutte, sogni svaniti e ritorni agognati e proibiti. E fu l’esodo per intere famiglie che finirono nei campi profughi, dove Nabil crebbe. Ricordi narrati, anni dopo, dalla madre «attorno al fuoco». Per anni aveva taciuto, per salvaguardarlo dall’odio e dalla sete di vendetta. Ai ricordi e agli eventi narrati di un «dolore altrui» seguono, lungo il racconto, quelli del «proprio dolore». Nabil ha visto e vissuto le intifade, l’ascesa di Hamas, l’occupazione di Gaza, l’oppressione e l’umiliazione di un popolo. Ha visto schiacciati dai carrarmati israeliani i nonni, il fratello maggiore, il figlio undicenne e la moglie seppellita dalle macerie della casa nei bombardamenti del 2009. Ha conosciuto il carcere per vent’anni avendo come unica compagnia i libri. Al ricordo dei genitori morti mentre era in carcere «il lutto e la perdita affiorano sotto le sue palpebre». Tra tanto dolore racconta di essere riuscito a diventare professore all’università del Cairo e di aver deciso di aprire la sua libreria per «estraniarsi dal mondo ma senza lasciarlo». Per leggere e rileggere i romanzi della sua vita e «non aggiungere brutture» e dare il suo contributo con «i suoi libri». Nonostante tanta infelicità sorride, «un sorriso magico, luminoso». Sono i libri che lo hanno salvato dall’odio e dalla vendetta, come voleva sua madre. Dopo il 7 ottobre la sua libreria, come Gaza, è stata ridotta in polvere e la sua voce e il suo sorriso spenti per sempre. Un libro molto bello, scritto per amore della lettura, dei libri e del popolo palestinese.
Considerate “non pensanti” dai tempi di Aristotele, le donne sono rimaste fuori dalla “scena”, scrive la filosofa Annarosa Buttarelli nel suo nuovo libro. Di qui lo sviluppo di un altro punto di vista, femminile e legato all’esperienza. Ed estraneo alla logica della guerra
In un tempo in cui nel mondo sembra essere tornata a contare solo la forza e la guerra tocca anche l’Europa, c’è bisogno di riprendere a sentire una voce diversa, che si sottragga alla logica della violenza. In Pensiero osceno (Tlon, 2025), un libro nato dall’urgenza di rispondere alla minaccia della guerra, Annarosa Buttarelli – filosofa e studiosa del pensiero della differenza nel solco della femminista Carla Lonzi (di cui ha curato le opere) – spiega che questa voce non può che essere quella delle donne, da sempre estranee alla guerra e capaci di «pensare veramente», mettendo radici «in un terreno osceno, quello dell’esperienza nutrita dal sentire».
Qual è il “pensiero osceno”?
È quello – scandaloso – delle donne che pensano. Ho usato filologicamente la parola osceno, che viene dal greco ob (che significa “fuori”) e skenè (“scena”) e significa essere confinate fuori dalla scena illuminata del pensiero dominante, da cui ci ha espulse la misoginia millenaria. Fin dall’inizio della cultura europea, le donne sono identificate come animali non pensanti, secondo l’idea di differenza sessuale immaginata da Aristotele – che fu il vincitore nella costruzione della filosofia occidentale – e dagli altri filosofi.
Lei nel libro spiega che questo essere fuori scena ha permesso alle donne di sviluppare un pensiero alternativo.
Ha permesso di rimanere lontane dal potere istituito. Carla Lonzi, una delle madri del femminismo italiano, diceva: «Approfittiamo dell’assenza». Assenza delle donne dalla cultura maschile, dalle istituzioni maschili, dalla storia maschile, quelle che ancora oggi nelle università siamo abituate a considerare come cultura, istituzioni e storia in quanto tali.
Eppure, le donne pensatrici ci sono sempre state.
Lo hanno dimostrato gli studi femministi: fin dall’inizio della storia europea, nella Grecia classica, c’erano donne di pensiero che si sono poste in dialogo con gli uomini, in modo propositivo e conflittuale. Come Assiotea di Fliunte che nel IV secolo a.C. era riuscita a introdursi nell’accademia platonica, mascherandosi da uomo, per opporsi alla lezione aristotelica secondo cui la schiavitù era naturale. Assiotea ha lavorato, inascoltata, per decostruire la fallace logica aristotelica.
Perché fallace? Non è all’origine della logica occidentale?
Sì, lo è. Ma oggi sono sempre più evidenti gli errori logici, quindi la mancata scientificità, delle filosofie maschili. Ne ha scritto in un bel libro, L’errore di Aristotele (Carocci), Giulia Sissa. Uno dei suoi errori, per esempio, è stato definire l’umanità solo al maschile. Poi però anche Aristotele parlava delle donne come facenti parte dell’umanità e quindi si contraddiceva senza neanche rendersene conto: da qui la fallacia.
Nel libro lei spiega che il pensiero maschile si vuole astratto e universale, mentre quello delle donne è sempre radicato nell’esperienza. Cosa significa?
La grande filosofa María Zambrano diceva che si deve “pensare veramente”. Significa che il pensiero autentico è quello che mette le radici in un terreno considerato osceno dalla filosofia dominante, cioè quello dell’esperienza vivente che cresce sul sentire.
È questa esperienza vivente che permette alle donne di denunciare gli errori delle filosofie maschili?
Sì. Ne è un esempio eccellente il dialogo conflittuale tra la principessa Elisabetta del Palatinato e Cartesio, che già allora era un filosofo di grido. Cartesio stava scrivendo un trattato per “dominare” le passioni. In uno scambio di lettere Elisabetta, che pure aveva molta stima di lui come filosofo, gli obiettava, a partire dalla sua esperienza vivente, che sono proprio le passioni quelle che dominano la vita politica: una lezione molto importante anche per l’oggi. L’idea di Cartesio invece era che il corpo non dovesse avere nessun influsso sulla mente, considerata, in quanto pura razionalità libera, come la massima espressione dell’uomo. Ma Elisabetta gli opponeva che mente e corpo non sono così distinti, perché altrimenti non si spiegherebbero gli svenimenti.
E il grande filosofo cosa replicava?
Che lui di politica non sapeva niente perché faceva vita ritirata, da buon pensatore. Oggi sappiamo che aveva ragione lei, anche sul fatto che mente e corpo non sono separati. Eppure, Cartesio ha avuto un’enorme influenza sulla filosofia.
Crede che in questo periodo, in cui la forza e la violenza sembrano tornate arbitre dei rapporti tra i popoli, il pensiero osceno delle donne possa offrire un’alternativa?
Dietro la corsa al riarmo e dietro alla politica della forza c’è l’influenza del pensiero idealista che ha formato la cultura occidentale. Vige ancora l’idea di Hegel – su cui per fortuna noi femministe abbiamo sputato, per citare il titolo del libro di Carla Lonzi – secondo cui per arrivare a «un destino più alto», uno stadio superiore dell’umanità, «deve scoppiare il cuore del mondo». La sua idea era che per superare le vecchie strutture e consuetudini si dovesse distruggere l’organo vitale del mondo, stravolgere tutte le regole. Ora sembra che stia succedendo proprio questo: stanno facendo scoppiare il cuore del mondo, cioè il cuore di tutti e tutte noi che non facciamo la guerra. Il pensiero delle donne è esattamente un’alternativa a questa logica. Non è un caso che nel ’900 la presa di coscienza del pensiero osceno sia iniziata da Le tre ghinee di Virginia Woolf, in cui la scrittrice spiegava ai suoi amici pacifisti che per evitare la guerra l’unico modo era pensare da outsider. Fuori scena, appunto.
E oggi come possiamo fare?
Rifiutare la logica della violenza che chiama violenza. E ricordare quello che diceva proprio María Zambrano, un’altra delle pensatrici di cui parlo nel libro: che anche nella pace ci sono dei pericoli. Per esempio, vederla solo come l’assenza di guerra. È qualcosa di più, molto di più: è un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta, un modo di essere umanità… Zambrano ha scritto il testo I pericoli della pace nel 1990, la sua ultima testimonianza di fronte all’orrore della guerra del Golfo Persico. Non si guadagnerà mai uno “stato di pace” finché non ci sarà una rivoluzione della forma mentis generale. Ho imparato da lei che la pace va preparata e praticata.
Come?
Attraverso la giustizia, che è nata come pratica femminile. Pensiamo a ciò che è accaduto quando Salomone voleva squartare il bambino per darne una metà a ciascuna delle due donne che dichiaravano di esserne la madre. La vera madre ha rinunciato al bambino pur di non vederlo squartato. Questa è una pratica paradossale di giustizia. E poi si deve preparare la pace praticando il conflitto.
Il conflitto? Non è una contraddizione?
No, anche questo è un paradosso, perché le donne riescono a pensare e ad agire soprattutto paradossalmente. Continuiamo a sovrapporre in modo insopportabile “conflitto” a “guerra”. Ma la guerra è negazione dell’altro, il conflitto è una pratica di relazione. Che ci costringe a prendere atto delle nostre differenze ma anche a cercare un terreno comune. Le filosofe del pensiero osceno sono maestre in questo.
Annarosa Buttarelli, Pensiero osceno. Edizioni Tlon, 112 pagg, 13 €
Lo storico israeliano Ilan Pappé fu tra i primi, vent’anni fa, a parlare di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi di Tel Aviv. Nel suo ultimo libro appena uscito in Italia pronostica la fine dello “Stato dell’apartheid” e la costituzione, lenta, di un unico Paese antirazzista, plurale e democratico. «Non so quando ma so che accadrà». Lo abbiamo intervistato, riflettendo anche sul cessate il fuoco appena annunciato a Gaza.
«Il piano di Trump più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra». Non ha dubbi Ilan Pappé, lo storico israeliano che per primo, vent’anni fa, parlò di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi israeliani. Nel suo ultimo libro, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina (Fazi Editore), analizza il presente ma traccia anche un futuro possibile. «Quello che vorrei – dice – e che sono certo si realizzerà, anche se non so quando: uno Stato democratico, dal fiume al mare, dove ebrei e palestinesi vivranno insieme con gli stessi diritti». Lo abbiamo intervistato.
Pappé, in questo libro fa lo storico ma anche il veggente. Quali elementi l’hanno portata a prevedere la fine di Israele?
Innanzitutto i processi che sono in corso e che stanno portando al crollo dell’attuale Stato di Israele, l’attuale regime, che è più teocratico, razzista e aggressivo nei confronti dei suoi vicini. Sono processi molto lenti, non sempre facili da individuare ma credo che accelereranno e diventeranno più visibili. Sono abbastanza certo che stia accadendo, quello che non so è che cosa lo sostituirà. Quindi da un lato l’analisi è accademica, dall’altro ha a che fare con il desiderio e la speranza, quello che spero accadrà, cioè che lo Stato razzista, teocratico e dell’apartheid di Israele sarà sostituito da uno Stato democratico per tutti, dove i palestinesi per la prima volta dopo centovent’anni potranno avere una vita normale, i rifugiati potranno tornare e questo avrà un enorme impatto positivo su tutta la regione.
E a che punto siamo?
Siamo all’inizio della fine. Alcuni processi sono più visibili, come la mancanza di coesione sociale in Israele. Ebrei religiosi e laici non trovano più una lingua comune, non possono vivere insieme e gli ebrei più fanatici hanno il sopravvento perché sono più popolari. È già visibile l’isolamento di Israele nella società civile. Quello che non vediamo è come questo si traduca nella politica dall’alto, almeno per i governi. Vediamo ebrei in tutto il mondo che si dissociano dal sionismo. Vediamo una crisi economica in divenire, un esercito esausto, che si affida totalmente all’aeronautica e ai carri armati contro dei guerriglieri, il che è molto discutibile. Dall’altro lato non vediamo ancora un movimento di liberazione palestinese che sappia che cosa fare, ma questo credo accadrà perché parlo con i giovani palestinesi, che sono più uniti e impegnati a ricostruire tale movimento.
Ma come immagina il futuro?
Immagino uno Stato solo dal fiume al mare, in cui non importa quale sia la tua religione o nazionalità, in cui si rispettano le identità collettive e gli ebrei saranno una di queste, ma non la sola. Lo immagino molto più collegato al mondo arabo che all’Europa, uno Stato normale con problemi normali. Non so quando ma so che accadrà.
Pensa che la riconciliazione sia possibile dopo il 7 ottobre e il genocidio di Gaza?
No, ora non è possibile e Israele è nella sua fase più crudele. Ma se guardiamo la storia molti regimi ingiusti e criminali sono stati molto crudeli nelle ultime fasi. Il tempo è un fattore importante e non accadrà l’anno prossimo. Non credo, inoltre, che tutti gli ebrei rimarranno in Israele: molti se ne andranno – come i bianchi in Sudafrica che non volevano vivere in uno Stato di non-apartheid. Ma spero che ne rimangano abbastanza, perché i palestinesi hanno bisogno di loro per ricostruire un Paese diverso e migliore.
All’orizzonte però non ci sono alternative politiche forti né israeliane né palestinesi.
Sì, ma non è questo il punto. Piuttosto: il mondo capisce che il suo ruolo ora non è quello di mediare ma di proteggere i palestinesi? Gli israeliani non sono in pericolo. Le persone che rischiano di essere eliminate sono i palestinesi. Poi verrà il resto.
Che cosa pensano i bambini israeliani dei bambini palestinesi dopo il 7 ottobre, secondo lei?
Quello che pensavano prima: che i palestinesi non sono esseri umani adeguati, che sono come i nazisti, i barbari. Il sistema educativo israeliano è razzista e soprattutto negli ultimi venticinque anni ha prodotto laureati che non sono in grado di vedere i palestinesi come esseri umani. Gli ultimi due anni non hanno cambiato nulla.
E i bambini palestinesi?
Dipende da dove vivono. Quelli cresciuti a Gaza conoscono gli israeliani solo come carcerieri. Quelli nei Territori occupati vedono solo coloni, coloni violenti e soldati. Infine, i figli dei palestinesi in Israele hanno una visione molto complicata perché sanno che alcuni israeliani sono brave persone e con le loro famiglie hanno relazioni e amicizie. Quindi dipende dal posto. Invece gli ebrei israeliani hanno perlopiù una visione molto unificata dei palestinesi.
Com’è stato per lei crescere in Israele? Che idea aveva dei palestinesi?
Fino a vent’anni non sapevo molto di loro. Quando ho lasciato Israele per fare il dottorato, li ho incontrati in un contesto diverso, come persone uguali e ho sentito la loro storia e ho fatto ricerche. Ho capito che tutto quello che avevo imparato e sentito fino a quel momento era molto lontano dalla verità. Che c’era un’altra storia, che mi era nascosta e ho dovuto trovarla da solo.
Quanto hanno a che fare i palestinesi con la sua decisione di diventare uno storico?
Ho sempre amato la storia e volevo scrivere la storia del mio Paese, quindi non molto. Quello che ha avuto molta influenza su di me è stata la capacità di dire: anche se lo senti dai tuoi genitori e dai tuoi insegnanti, sii critico. Non accettare tutto ciò che ti viene detto. Questo è ciò che ho imparato da loro. E ovviamente era molto importante per me capire che la storia non è neutrale, che devi essere impegnato e mi ha aiutato a diventare un attivista, non solo uno storico.
Perché Israele gode o almeno ha goduto di tanta impunità? Qual è il fattore più rilevante: economico, ideologico, il “senso di colpa” europeo?
Penso sia una miscela di fattori. Israele gode dell’immunità prima di tutto per il rapporto bizzarro che lo lega all’Europa. L’Europa non voleva gli ebrei, quindi ha suggerito che ci fosse uno Stato ebraico al di fuori dell’Europa, ma considera Israele parte dell’Europa. In secondo luogo, c’è l’idea che se non diamo l’immunità a Israele dobbiamo ritornare sulla questione dell’antisemitismo e l’unica soluzione per l’antisemitismo è stata creare uno Stato ebraico in Palestina, invece che rendere l’Europa una società antirazzista. Al giorno d’oggi, poi, penso ci sia un altro problema che è il livello della politica. I politici oggi non sono molto interessati alla moralità, all’ideologia. È molto facile comprarli per sostenere Israele. Non hanno molto rispetto per sé stessi, sono molto egocentrici. Sto generalizzando, ovviamente ci sono delle eccezioni. Di certo, quando penseranno che sostenere Israele potrebbe essere un problema alle elezioni, cambieranno e improvvisamente vedremo un intero cambiamento nella politica europea.
Gaza alla fine diventerà una “Riviera”?
No. Gaza è completamente distrutta, la terra è intossicata e la maggior parte delle città sono devastate. Ci vorranno anni per ricostruirla. Non so che cosa diventerà perché dipende dalle sorti del resto della Palestina storica e prima, credo, farà parte dello Stato di apartheid di Israele. Speriamo che in futuro faccia parte di una Palestina decolonizzata. Ma una cosa è certa: rimarrà palestinese, anche se non sarà un posto facile in cui vivere, specialmente i primi anni. E rimarrà anche la più importante fonte di resistenza, come è sempre stata.
E la Cisgiordania?
È un problema diverso, Israele sta cercando di fare alla Cisgiordania quello che fa a Gaza, ma è molto più difficile lì. I numeri sono più grandi, ma ci sono 800mila coloni ebrei. Molto dipende dal mondo, se non farà nulla per Gaza, potrebbe non farlo anche per la Cisgiordania. Siamo in un brutto momento: Israele vuole imporre la sua realtà e questo tentativo causerà molto spargimento di sangue e sofferenza – e quindi si spera che il mondo interferisca – ma non avrà successo.
Che cosa significa fare ricerca al tempo delle fake news e dell’intelligenza artificiale?
Gli sviluppi tecnici ci sono da sempre e se sei uno storico esperto, se conosci bene l’argomento, puoi stare certo di non perdere di vista la verità. Non sono preoccupato per gli storici ma per il pubblico in generale, per quanto sia facile accettare notizie false e generate dall’Ia. Penso che la cosa più importante, anche per i giornalisti, sia capire e usare le parole giuste. Se non chiami Israele “l’unica democrazia del Medioriente”, ma “Stato di apartheid”, è già un buon inizio per permettere di capire quando ci sono notizie false e propaganda israeliana.
Sull’uso della parola “genocidio” in Italia c’è un gran dibattito. Anche in Israele?
Le persone in Perù e in Malesia sanno molto di più quello che succede a Gaza degli israeliani. Non hanno idea di cosa succede a Gaza.
Ancora adesso?
Sì, perché i media israeliani collaborano con il governo, non mostrano nessuna immagine di ciò che accade a Gaza. Parlano solo dell’esercito, dei soldati coraggiosi, degli ostaggi.
Ma ci sono i social media.
Viene detto loro che sono anti-israeliani e non li guardano. Israele non permette di vedere Al Jazeera e la gente non cerca media alternativi. Quindi sicuramente il genocidio sembra loro un’accusa antisemita. Non a tutti, ma a una stragrande maggioranza.
Come si sente da israeliano?
Mi vergognavo già di questo Paese molto prima di Gaza. Le mie idee su cosa siano il sionismo e Israele non sono cambiate. In effetti ho previsto quello che è successo. Non sapevo esattamente come, ma ero sicuro che questo non potesse andare avanti e che ci sarebbe stato uno scoppio di violenza. L’unica cosa che mi ha sorpreso è stata l’indifferenza europea. La gente ha reagito subito per l’Ucraina ma i governi non hanno usato la stessa lingua per Gaza. È abbastanza sorprendente.
Che cosa pensa di Trump e del suo piano di pace?
Penso che nel migliore dei casi possiamo sperare che porti a un lungo cessate il fuoco e allo scambio di prigionieri. Non è un piano di pace. Ha tutti i problemi dei precedenti, non cambierà nulla drasticamente. Più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra.
È anche la fine di Netanyahu?
Non sono mai in grado di prevedere quello che lo riguarda. Ha una base molto forte, ora è in calo, ma se ci sarà il rilascio degli ostaggi, si prenderà il merito e potrebbe rivincere le elezioni. Ma anche se perde, chiunque lo sostituirà avrà la stessa ideologia.
da Leggere Donne
Le guerre che ho (solo) visto, Moretti & Vitali, Bergamo 2025 pagine 152, € 14
«Si passa il tempo più a giustificare la guerra (le guerre) che a pensare e immaginare la pace». Questa constatazione, che attraversa Guerre che ho (solo) visto di Rosella Prezzo, è il punto di partenza per un lavoro intellettuale radicale, una narrazione attraversata da riflessioni teoriche, immagini artistiche, citazioni poetiche e memorie personali che interroga il nostro modo di vedere la guerra e la possibilità – tutt’altro che astratta – di immaginare la pace. Ad accompagnare la scrittura, una preziosa antologia conclusiva prosegue il lavoro di montaggio e disvelamento fatto dall’autrice.
Un posizionamento laterale. Prezzo adotta una prospettiva situata, femminista e non armata, rivendicando il suo essere spettatrice: una donna che ha “solo visto” la guerra attraverso schermi, notizie, film, immagini. Da questa posizione dichiaratamente laterale ma consapevole, il libro si muove: non verso la spiegazione dei conflitti, ma verso lo svelamento del modo in cui la guerra viene rappresentata e interiorizzata. È una soggettività incarnata, relazionale, che guarda per comprendere non solo “ciò che accade”, ma ciò che ci attraversa mentre guardiamo.
La smaterializzazione della guerra. Il primo grande nodo che il libro affronta è quello della smaterializzazione del conflitto. La guerra oggi si combatte da remoto, attraverso droni, visori notturni, algoritmi, si parla di “operazioni chirurgiche”. Ma questa apparente “pulizia” è una rimozione della morte e del dolore e l’autrice mostra, con grande rigore, come questa estetizzazione anestetizzi anche la nostra immaginazione politica. E ci mette di fronte al rischio di una nuova cecità, di una pace finta, costruita sul silenzio dei corpi. La guerra dentro le immagini. È a partire da questo scenario che prende forma una delle riflessioni più penetranti e necessarie sulla guerra contemporanea e sulle modalità con cui la percepiamo, filtrate quasi interamente da media, immagini, videogiochi di simulazione.
Rosella Prezzo interpreta questi materiali come vere e proprie “prove d’accusa” contro la narrazione bellica, mostrando anche come la guerra non si esaurisca nei luoghi di conflitto, ma abiti le immagini della nostra quotidianità. Per rendere visibili questi dispositivi, si serve di opere d’arte visiva e film – da Stanley Kubrick a Cristina Lucas, da Harun Farocki a Marina Abramović – trasformandoli in strumenti critici capaci di decostruire le retoriche dominanti e smascherare i meccanismi che le sostengono.
Così analizza il nesso tra addestramento bellico e maschilità (Stanley Kubrick), tra pornografia e guerra e rivela come il corpo del nemico viene ridotto a oggetto, a frammento, a carne esposta in chiave sadica o grottesca, mentre il corpo del soldato occidentale è sessualizzato, reso icona eroica; prende in esame la rimozione del dolore nella sfera pubblica e politica, come nel caso emblematico della copertura del dipinto Guernica all’ONU per il discorso di Colin Powell durante la guerra in Iraq; mette in luce come l’idea moderna di cittadinanza si sia fondata sulla fratellanza armata che ha escluso la sororità, con l’evidenza visiva offerta da La Liberté raisonnée di Cristina Lucas, in cui gli uomini del celebre quadro di Delacroix si rivoltano contro la figura femminile della Libertà, rivelando la violenza patriarcale celata dietro il mito democratico occidentale; palesa la post-umanità tecnologica che neutralizza il corpo ma non il trauma (Harun Farocki); infine evidenzia la nostra complicità di spettatrici/tori distanti attraverso la performance di Marina Abramović Balkan Baroque, in cui l’artista lava per ore ossa animali insanguinate evocando la memoria della guerra nei Balcani con un gesto di esposizione fisica e simbolica.
In ognuno di questi casi, ciò che Prezzo mette a fuoco non è solo la violenza, ma il nostro modo di vederla.
Ripensare la memoria: dal milite ignoto al civile ignoto. Una delle proposte più radicali del libro è simbolica e dirompente: sostituire il monumento al “milite ignoto” con quello al “civile ignoto”. Spostare il centro della memoria dalla figura eroica e maschile del soldato a quella delle vittime invisibili: donne, bambini, corpi senza onore né nome, ma segnati profondamente dalla guerra.
Questo gesto non è solo una provocazione. È un modo per interrogare l’intero impianto della cittadinanza moderna, costruita su logiche di sacrificio, forza e appartenenza armata. Ricordare il civile ignoto significa decostruire la retorica patriottica ed eroica e restituire dignità a chi subisce.
Una genealogia femminile del pensiero di pace. Nel capitolo “Pensare l’impensato della pace”, prende forma una riflessione radicale: se la guerra è stata costruita come fondamento dell’umano e del politico, pensare la pace è un gesto di rottura, una discontinuità simbolica e linguistica. Per compierla, Prezzo si affida alle parole di tre pensatrici che hanno immaginato un altro modo di abitare il mondo:
Simone Weil ci parla della sospensione della forza, di un’azione che si radica nella vulnerabilità e non nella sopraffazione. La sua idea di “attenzione” è una pratica di cura, di giustizia nonviolenta; Virginia Woolf, nel suo Le tre ghinee, decostruisce le genealogie patriarcali della guerra e propone di “combattere con la mente”: creare una civiltà che non si fondi su dominio, possesso, virilità; María Zambrano introduce la necessità di una rivoluzione interiore e culturale che significa un nuovo modo di vivere, una nuova grammatica dell’esistenza, un nuovo modo di abitare il mondo.
Queste filosofe non offrono modelli astratti. Mostrano che la pace si pensa da un’altra posizione: non neutra, non armata, non competitiva.
Una posizione che riconosce la forza delle parole, dei gesti, delle immagini nella costruzione del reale.
Immaginare la pace. Pensare la pace dunque non è un atto neutro: è un’operazione politica, etica, estetica. Richiede nuovi linguaggi, nuovi immaginari, nuove posture. Significa spostarsi da uno sguardo critico a uno sguardo generativo, capace di produrre visioni non belliche della realtà, di restituire voce ai corpi oscurati, di creare legami invece che confini.
Rosella Prezzo, con questo libro, ci invita a smascherare ciò che vediamo, ma anche a immaginare ciò che non c’è ancora: non la pace come utopia disarmata, ma come forma simbolica da abitare, mostrare, insegnare. Un esercizio necessario in un tempo che fatica a pensare il futuro senza la guerra.
da Cartavetro
Clara Jourdan cura questo Quaderno di via Dogana che accoglie la bibliografia completa di Luisa Muraro e soprattutto la conversazione del 2003, mai pubblicata, tra la filosofa e l’amica e curatrice, trascritta per la “Biblioteca de Mujeres” della Universidad Complutense di Madrid.
Chi ha seguito il pensiero di Luisa Muraro e si riconosce nel femminismo della differenza sessuale centellina questo libro e ne respira l’essenza piano, ritornando su passaggi complessi e fondamentali della storia propria e di tante altre.
Le domande di Clara Jourdan inducono Luisa a tracciare una storia personale, una biografia che intreccia passione culturale e politica e vicenda famigliare, con un preciso riferimento alla madre soprattutto e ai dieci tra sorelle e fratelli. Il clima del Veneto cattolico della sua infanzia e adolescenza la porta ad allontanarsi prima per un’esperienza di formazione a Lovanio e poi al collegio Marianum dell’Università Cattolica di Milano studentessa alla facoltà di filosofia.
Anni duri quelli della formazione universitaria, allieva del professor Bontadini, tuttavia anche fecondi per la ricerca culturale e per il modo di affrontare gli eventi, come le organizzazioni contro la guerra del Vietnam, il dissenso cattolico e la preparazione al Sessantotto. È il momento in cui conosce Elvio Facchinelli, nella facoltà occupata, e si avvicina a L’erba voglio, «un’aggregazione di donne e di uomini che avevano a che fare con le persone non adulte a vario titolo» e che riflettevano su antiautoritarismo, pedagogia, femminismo, psichiatria e antipsichiatria accanto ai temi dell’antimilitarismo e delle lotte operaie.
Ma il cuore del libro è nel racconto sulle ricerche a cui Luisa Muraro si dedica a partire dagli anni settanta, da quello che chiama “il femminismo sorgivo”, dal suo incontro con Lia Cigarini e dalla traduzione di Speculum di Luce Irigaray. Lì si incammina sul pensiero della differenza e comincia la scelta di trasformare donne anonime e vittime in soggetti parlanti della storia. Esce La Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, da Feltrinelli nel 1976, poi Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia e Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, nel 1985 quando si è appena costituita la comunità filosofica Diotima, a Verona, dove Luisa nel frattempo è diventata ricercatrice. La Libreria delle donne, che ha contribuito a fondare in via Dogana 2, a Milano, compie dieci anni ed è un luogo di scambio, di attività varie, di artiste, di teatro, di cinema. È anche il luogo in cui nasce, nel sottoscala, il libro collettivo Non credere di avere dei diritti a cui fa seguito il primo libro di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, perché, prendendo spunto da Irigaray, la differenza è pensiero.
Dalle due esperienze nasce L’ordine simbolico della madre, un libro della cui importanza Muraro si accorge grazie alle lettrici e al valore che esse attribuiscono alla sua scrittura.
Erano intanto cominciati, dopo Guglielma e Maifreda, l’interesse per le mistiche e la relazione con Romana Guarnieri che aveva portato alla luce l’opera di Margherita Porete, una beghina medievale, morta sul rogo come eretica. «Scopro questa cosa che si chiama convenzionalmente mistica femminile, questo nome divino della libertà femminile e questo nome femminile di Dio che è la libertà femminile». Il Dio delle donne, che esce per Mondadori nel 2003, insiste sulla differenza femminile e sullo spirito di libertà che le è proprio: saper rinunciare alle sicurezze delle dottrine perché «Dio possa capitare a questo mondo».
da lucysullacultura
«Quando un uomo si dichiara femminista, tirati su le mutande» dice Natalia Aspesi. Questo è il primo impulso di qualunque donna avvertita davanti a un uomo che si dichiara femminista. Se questa è anche la vostra paura di fronte al nuovo libro di Francesco Pacifico, La voce del padrone (add editore), potete rilassarvi. Pacifico, a differenza dei molti autori maschi che ormai affollano mestamente le sezioni “femministe” delle librerie, femminista non si dichiara mai. Anzi, fin dal principio premette ciò che tutte sappiamo: un uomo non può essere femminista, perché il femminismo realizzato presuppone che l’uomo abbia meno privilegi materiali di un tempo – ed è ovvio che qui non ci siamo ancora arrivati. Pacifico suddivide dunque gli uomini in “conservatori” e “progressisti-capibara”. I primi lo sappiamo cosa professano, mentre i secondi sono più subdoli. Si dichiarano entusiasti del femminismo, come se le loro vite non fossero intaccate dal movimento.
Pacifico si avvicina al femminismo grazie a sua moglie. Lavorano nello stesso ambito, e in appena una decina d’anni lui sostiene che lei sia diventata più ambita, più “amata” di lui. Qualcosa è successo negli ultimi dieci anni, complice anche il MeToo, qualcosa che in realtà si stava preparando da molto più tempo, con le donne che sono più brave negli studi, più determinate, più indipendenti economicamente e quindi meno disposte a sopportare gli uomini. Parallelamente a questa maggiore libertà e assertività femminile, monta la frustrazione maschile per gli antichi privilegi sbeccati; sebbene questo scenario riguardi tutti, per molto tempo si è creduto che questa frustrazione appartenesse solo a uomini abietti e ai margini. Incel, estremisti, lubrici vecchi che postano foto delle loro mogli online quando non le offrono direttamente al… primo che passa, ovvero a un uomo qualunque. E infatti, dice Pacifico – così come Francesco Piccolo, un altro scrittore che si è spesso occupato di questi temi – gli stessi sentimenti che abitano questi uomini abitano anche tutti gli altri. Paura di perdere il posto, paura di rimanere soli, paura dell’abbandono, paura di essere visti per ciò che si è e non per ciò che si vuole far credere di essere. Questo è un libro che dovrebbero leggere gli uomini, scrive Pacifico, ma temo che lo leggeranno soprattutto le donne, dico io, e che lo troveranno più o meno ingenuo, più o meno tenero, più o meno sincero, più o meno intelligente. Io ho trovato che fosse più o meno tutte queste cose, ben scritto come tutto ciò che scrive Pacifico. Il tentativo riuscito di un uomo di fare autocoscienza – anche se non può dirlo – dopo aver letto e frequentato donne liberate, e che arriva a cinquant’anni alla conclusione a cui tutte noi siamo arrivate a dodici: più se ne parla, meglio si sta. Così ne abbiamo parlato.
[…]
Nel libro tu dici di avere paura. Paura che non ci sia più posto per te nel momento in cui la concorrenza raddoppia a causa delle donne. Ho chiesto ai miei amici se per loro era lo stesso. Mi hanno risposto di sì, con qualche esitazione. Mi ha stupito perché spesso si dice che gli uomini hanno paura delle donne, ma a dirlo sono le donne, cosa che mi è sempre sembrata arrogante. D’altro canto, quando ho posto la stessa domanda alle donne, cioè se avessero paura della concorrenza maschile o femminile sul lavoro, mi è stato risposto di no. Anzi, molte di loro mi hanno detto che non ci hanno mai pensato troppo perché sono in generale contente di lavorare e stupite dai buoni risultati e tendono a non vedersi sostituibili come individui da altri o altre.
Secondo me l’elemento che spiega la differenza di visioni è la gerarchia. Noi siamo stati talmente educati all’idea della gerarchia da sapere sempre chi è sotto di te e chi è sopra di te. Sicché tutto fa paura, perché tutto è in continuo movimento. La vita lavorativa non si armonizza con la propria identità, ma si concentra solo su dove stai piazzato te nella gerarchia. La gerarchia è un elemento chiave nella nostra percezione di lavoro e competizione. Per questo si è sostituibili, perché si occupa una casella in una piramide.
Poi c’è il tema della paura degli uomini davanti a questi argomenti. Ieri ho fatto un incontro al festival di Tlon a Piacenza, Conversazioni sul futuro. A un certo punto il compagno di una femminista mi ha chiesto: «Secondo te c’è un modo per far capire alle donne che alcuni uomini vogliono impegnarsi e non sono come gli altri?». C’è stata una pausa molto densa e poi ho risposto «No». Lui aveva una faccia molto aperta, molto buona. Abbiamo sentito le risate delle donne. Non si possono convincere le donne della propria bontà. Dopo questi anni passati a discutere con le femministe mi pare che la questione sia l’attitudine, la disposizione. Forse la postura […]. Ma gli uomini non vogliono mai essere colti in castagna, pensano di doversi mostrare zelanti o dover spiegare fino allo sfinimento di essere “bravi”.
Tu scrivi che “l’autocoscienza di genere” esiste nel momento in cui si fa parte di una categoria marginalizzata. Sto semplificando naturalmente, ma diciamo che nel potere che gli uomini hanno detenuto così a lungo risiederebbe la ragione dell’assenza di autocoscienza. Se niente ti mette in discussione, non ti frammenti mai e non puoi riflettere su te stesso. E questo avviene perfino quando la tua vita non ti soddisfa poi così tanto, perché come scrivi tu neanche all’uomo andava di tornare a casa, avere una moglie che gli rompeva le palle, i figli che magari non voleva avere, essere l’unico a lavorare, per non parlare dell’andare a morire in guerra.
Qui hai toccato il punto fondamentale. Non potendo essere femminista, perché sono uomo, l’ho scritto dal nostro punto di vista, cercando di capire cosa la struttura patriarcale ci ha portato via. E io credo che il genere maschile sia oppresso dalla gerarchia. Basta pensare a Cristiano Ronaldo, che malgrado sia un giocatore stratosferico sembra sempre che debba convincerti di esserlo, perché ha avuto la sfortuna di essere della stessa generazione di Messi che ha vinto più palloni d’oro.
Carla Lonzi dice una cosa bellissima, ovvero che sia la religione sia l’arte come ambiti dell’espressione umana sono stati ridotti dalla cultura patriarcale (traduco a parole mie) a una serie di gerarchie, tassonomie, elenchi di cose da fare, classifiche. La religione e l’arte sono state due componenti fondamentali della mia biografia, e ha ragione Lonzi: lo spirito quando cerca l’arte e la religione scivola spesso in secondo piano perché queste due frequenze della vita sono usate a fini gerarchici. Chi è più buono, chi è più bravo.
Quindi il punto è che secondo me gli uomini sono oppressi da se stessi e anche dalle bugie in cui credono. Lonzi dice che la donna è oppressa dall’aver creduto al mito dell’uomo.
Sì, mia madre dice che gli uomini sono tutti Maghi di Oz, ombre enormi e potentissime proiettate da uomini minuscoli e privi di incanto dietro una tenda verde.
Sì. Ma a quel mito ci hanno creduto pure gli uomini! Quando ti accorgi che non vuoi partecipare a quella gerarchia ti rendi conto che magari tecnicamente è difficile, ma dal punto di vista spirituale lo è un po’ meno. Disinteressarsi alla gerarchia è il punto di partenza secondo me per capire anche i grandi vantaggi della vita femminista. C’è un’immagine che io cito sempre: una volta ho letto che nel Medioevo le vedove a volte costruivano delle case attaccate ai conventi per vivere con qualcuno, perché ovviamente a quel punto non valevano più niente in quanto vedove, e volevano appoggiarsi ai monaci. Io immagino la stessa cosa, case di uomini orfani della gerarchia che si appoggiano ai monasteri di femministe.
(Non so come suonerà questa cosa una volta trascritta).
Senti, ma questa ferita gerarchica maschile secondo te è biologica o culturale?
La cosa che mi ha più scioccato leggendo Il secondo sesso di Simone de Beauvoir è che lei passa un sacco di tempo a spiegare la biologia della femmina del mammifero umano dicendo mamma mia che mammifero sfortunato ma poi rovescia tutto dicendo: «noi siamo esistenzialiste, noi crediamo che l’esistenza sia il compimento della natura umana e quindi trascendiamo la biologia». Io ispirandomi a lei dico la stessa cosa sul maschio: mettiamo pure che certe cose vengano dalla natura; che il maschio alfa esista nel branco – comunque lo scopo della nostra vita è trascendere la biologia.
La stessa cosa che Simone de Beauvoir ha scoperto sulla biologia, io la penso di tutto ciò che di violento, di gerarchico possediamo in quanto uomini e che magari è insito nella nostra natura: si può trascendere.
Mio nonno diceva: «Quando sono nato io, avevo quattro serve: mia figlia, mia madre, mia moglie e la serva vera e propria, perché al tempo se avevi un po’ di soldi ne avevi una fissa. Ora che sono vecchio non ne ho manco una. Ho divorziato, mia figlia non c’è più, mia madre è morta e non ho più soldi per avere una serva fissa. La qualità della mia vita è peggiorata notevolmente».
Bene, hai praticamente fatto un ritratto della crisi del maschio. Questo è un punto fondamentale anche per me perché la crisi del maschio ha due facce e ovviamente questa è la faccia ridicola – anche se è bene tenere presente che quando un popolo decade diventa violento. E poi l’altra faccia è invece quella che riguarda la gerarchia: l’uomo è oppresso dalla gerarchia che ha creato e quindi si deve sfogare su questo essere – la donna – che lui stesso ha dichiarato inferiore e che gli serve per tollerare la propria oppressione.
Ho dovuto molto sforzarmi per scrivere degnamente di queste cose perché suoniamo molto ridicoli – il vero problema è quello che ha detto tuo nonno. Io nel libro cerco di dare una dignità narrativa al fatto che se vado al festival femminista organizzato da mia moglie penso mia moglie mi sta levando il lavoro. Mia moglie è l’esercito di riserva… Questo è il livello. La teoria della sostituzione etnica siete voi donne. Capito? E questi sono pensieri che dobbiamo reclamare, dobbiamo dire cosa sentiamo, anche se sono cose brutte, meschine, perché quella pancia spaventata non la usino solo i reazionari. Tutto l’umorismo di destra recente (Pepe the Frog…) è brutale perché dice che la realtà è più brutale di quanto non si dica a sinistra. Allora voglio essere io a dire che la realtà è brutale. La realtà è che se io sono stato abituato a vincere sempre su una donna e mi viene tolta questa vittoria sarò uno stronzo che sta male. E questo però ci porta a un fatto fondamentale: dobbiamo fare i conti con un soggetto politico che non ha più a disposizione una cosa che pensava che gli fosse dovuta.
Nel libro c’è un capitolo sull’adolescenza. Tu incredibilmente hai tenuto dei diari, cosa che ti invidio molto. Pagherei oro per aver tenuto dei diari in adolescenza. Dai tuoi emerge il ritratto di un ragazzo che sta vivendo secondo dei falsi desideri che gli sono stati forniti dalla famiglia, dalla società, dalla scuola, da tutto quello che ha intorno. Così non riesce neanche a individuare qual è il suo desiderio più autentico, soprattutto nei confronti delle donne. Questa cosa l’ho trovata interessante. Tu dici: «Questi sentimenti adolescenziali sono molto simili ai discorsi degli Incel». E in effetti queste ragazze nel tuo diario sono sempre una proiezione della tua onnipotenza o della tua frustrazione, no? Però mi chiedo se questo vissuto non sia un prodotto dell’adolescenza più che del genere. Cioè che tanti adolescenti, maschi e femmine, abbiano questo tipo di impulsi, di pensieri. Se potessi leggere i miei pensieri dell’adolescenza credo troverei delle cose analoghe alle tue.
A volte infatti mi chiedo se non esistano due tipi di evoluzione per quanto riguarda le dinamiche di genere. Una filogenetica, cioè della specie umana, che ora si trova a fare i conti, in Occidente, con questo grande cambiamento. L’altra invece è ontogenetica, cioè si dispiega durante la vita dell’individuo. E mi pare che questa seconda faccia sì che fino ai venti, venticinque anni le dinamiche tra generi siano più “primitive”, e quindi patriarcali. Poi all’improvviso cambia proprio il panorama valoriale, le femmine scoprono il femminismo, si scoprono brave a studiare e via dicendo. Mi chiedo se la prima dinamica, quella più classica rispetto ai ruoli di genere che vediamo in adolescenza sia influenzabile da una diversa educazione o cultura.
Nei libri di psicologia ho letto che una crescita psicologica sana consiste nel vivere anche un periodo in cui sei sottomesso all’ideologia degli adulti che hai intorno. Poi te ne distanzi. Essere completamente sganciati dall’influsso degli adulti è praticamente un disturbo psichico. Io però ho visto figli con disturbi simili ai miei trovarsi davanti genitori che si sono messi a studiare come capirli meglio, e quei disturbi sono passati. L’ho visto sia in bambini figli di donne molto interessate dall’educazione, sia in bambini figli di femministe, che quindi applicano una loro cornice educativa.
E ho visto nei maschi una varietà di espressione emotiva – in quelle famiglie – che mi fa pensare che il maschio becero tredicenne sia il prodotto del mancato ascolto da parte dei genitori della sua parte emotiva. Nel concreto, a un certo punto una mia cara amica ha iniziato a incoraggiare e ascoltare le emozioni del figlio, perché lo aveva visto un po’ sfasato. Il figlio è improvvisamente diventato una creatura molto più articolata, che non rimaneva intrappolato nelle solite due reazioni in croce.
Io vedo figli di femministe molto forastici, ma al tempo stesso con aspetti che noi da piccoli avremmo definito “da femmina”. Poi certo, magari sei parte di una famiglia tradizionale, borghese o meno, frequenti una scuola pubblica italiana, ci sta che tu sia incasinato e contraddittorio, però quella parte dell’espressione secondo me è fondamentale e infatti io penso di non aver avuto l’infanzia giusta per me. Ero troppo delicato per diventare un maschio etero che aspettava il primo bacio e imparava a giocare a pallone.
Se avessi espresso cos’ero da piccolo mi avrebbero massacrato. Agli scout dovevo sempre dominare le situazioni perché quando non lo facevo venivo subito trattato come un freak.
Mi sembra sia stata Ferrante a far notare che l’Arturo di Elsa Morante è in realtà una femmina, perché fino ai dodici anni gli uomini non sono ancora uomini. È una cosa che io mi sto chiedendo molto davanti a mio figlio maschio appena nato, perché penso che adesso lui è femmina, ma prima o poi diventerà maschio.
Ti dico solo che agli scout mi resi conto che dovevo cambiare il modo in cui mi sedevo, cioè con le gambe ripiegate da una parte, un po’ a sirena. Ai maschi viene detto di nascondere le proprie parti da sirena, e di imparare a dominare.
Mi sorprende sempre quanto gli uomini accettino di essere soli… Non so quanto tu segua TikTok, però mi fanno molto ridere i video delle fidanzate che danno al fidanzato le liste di cose da chiedere agli amici. Tipo se un amico di lui si lascia, le fidanzate gli danno una lista per sapere perché, chi ha tradito chi, chi ha detto cosa. A prima vista sembra solo un modo per fare pettegolezzo – un termine malvisto, associato al mondo femminile ma che, se ben fatto, è letteratura, è psicologia, è introspezione – ma che in realtà è un modo per conoscere meglio l’altro. Tutt’ora io ho amici maschi che non parlano tra di loro delle cose che gli capitano. E questo non può che generare malessere. I sentimenti violenti, brutali, negativi si esorcizzano anche rivelandoli a una persona fidata.
L’altro giorno a Milano Francesca Coin a una presentazione mi ha detto: «Sono contenta che esista questo libro perché almeno ho saputo un po’ cosa pensano gli uomini». C’è un mistero dato dal fatto che neanche tra di noi (non io personalmente) ci chiediamo le cose importanti.
Io non frequento gruppi di soli uomini. L’ultimo è stato il calciotto, è finita molto male. C’è questo movimento molto più vario che sento nei gruppi di donne, che si costruisce anche sul parlare, sul gossip, sul raccontarsi i vari fatti, gli amanti, i litigi. Ovviamente ci sono uomini che mi piacciono molto. Certi baristi del quartiere, certi musicisti. Però se dovessi descrivere in maniera puntuale com’è sedersi a chiacchierare con un uomo… Abbiamo gli attacchi panico, ci vogliamo suicidare, andiamo dallo psichiatra, ma non possiamo sederci e dire «Ciao, mi sento così e cosà». Il mio migliore amico, che invece è un uomo meraviglioso, una volta, mentre eravamo seduti a un tavolino mi fa: «Guarda quelle tre». Erano delle donne sulla trentina. Una stava raccontando un fatto alle altre due, e lui mi disse: «Guarda l’attenzione con cui loro due stanno ascoltando quella che sta parlando, guarda come sono protese in avanti, hanno questi occhi tutti trasparenti, e stanno reagendo alle cose che sta dicendo l’altra. Guarda che bello».
Che poi sono le cose che ho imparato da Francesca, mia moglie. Come si sta ad ascoltare qualcuno.
[…]
L’articolo originale in versione integrale può essere letto qui: https://lucysullacultura.com/e-la-gerarchia-che-frega-gli-uomini-non-il-femminismo-intervista-a-francesco-pacifico/
da Doppiozero
Insegno da diversi anni e negli ultimi tempi sento, davanti alle nuove classi, un po’ di imbarazzo nel presentare questa colossale istituzione, la scuola, che non muta. Ho come l’impressione di dover giustificare gli anacronismi e difendere quel che resiste e ha valore. Molte cose hanno valore, smetterei di insegnare se non lo pensassi, e tuttavia quest’anno, con non poco disagio, ho messo a tema il “vietato” con cui ci siamo ritrovati a settembre.
Una mia alunna, in Canada per il quarto anno di liceo, mi ha mandato qualche giorno fa un video con cui si candida per il ruolo di ambassador dell’agenzia con cui è partita: montato con sapienza, contenuti interessanti, foto ricercate, ammiccamenti alla camera, lipgloss e un inglese che mi sogno. Non sarei in grado di creare un prodotto del genere e la mia idea di aprire le pagina Instagram dei filosofi, con cui avevo conquistato una quinta di ormai troppi anni fa, è un poco ridicola e di certo invecchiata. Davanti a questo scarto tra loro e me, spegnere il cellulare rassicura, così come stabilire norme sull’abbigliamento: sanzionare e punire. Perché interrogare, perché implicarmi, perché studiare per aprirmi a delle trasformazioni che fuori da queste mura procedono a vele spiegate senza intoppi né divieti? Perché mettere in discussione il fuori, i comandamenti della società che ci divora. Cambiamo la scuola, è più semplice; insegniamo lì un altro alfabeto e lasciamo immutato, fuori, l’alfabeto del mondo, continuando in questa evoluzione rapida che priva homo sapiens delle mani libere, condannato come è a stringere tra le dita lo scettro che lo rende potente e connesso. Tra le competenze richieste da acquisire durante un triennio ci sono le competenze di cittadinanza – sì, anche di cittadinanza digitale: dovremmo essere in grado, noi adulti, di mostrare come ci si confronta con le differenze e le novità, con sufficiente fiducia in quello che si propone e nelle contaminazioni che si renderanno necessarie. Non è questa una competenza di cittadinanza?
Insegnare significa, oggi più di prima, costruire ponti tra un mondo, quello scolastico, che percepiscono come alieno, e l’universo in cui vivono, rispetto a cui mi pare abbiano fame di istruzioni per l’uso, molto più delle generazioni precedenti. Non credo ci siano mai stati adolescenti così sensibili allo sguardo adulto, e anche così capaci di intercettare chi non è disponibile a relazionarsi con loro.
Non possediamo risposte e forse, per la prima volta – e per fortuna – non ci illudiamo di averle; ma possiamo vederli, questi ragazzi e ragazze. Cosa voglia dire questo vederli è ben mostrato in Non siamo capolavori(Laterza, 2025) di Marco Rovelli, libro che non è un manuale di istruzioni – lo abbiamo detto, istruzioni universali non esistono – né una classificazione con intenzioni esaustive: il tentativo in atto in queste pagine è dare spazio a una pratica che sarebbe bene si diffondesse come un contagio. Al di là dell’istituzione scuola, dunque, con le sue malattie e le sue trasformazioni, con il suo conservatorismo e le sue paure, c’è una dimensione del “cosa significa insegnare veramente oggi”, per riprendere le parole di Enrico Manera, che riguarda l’imparare a leggere, decifrare, stare, con quel che non si può catalogare né spiegare; un “lavorare per limitare il peggio del nostro tempo inquieto e ferito”.
Che esagerati gli adolescenti! Scena muta per un esame così semplice. Che esagerati, che fragilità esagerata. Lo detesto il termine “esagerata”: sì, sono esagerate le scenate, i pianti, il corpo. Esagerato è uno dei nomi dell’alterità, del femminile; esagerato è quello che non sta nei confini imposti dal discorso sociale e chiede di trovare una via per poter esistere. Esagerato è un gesto che scuote, che dice di no, che fa rumore. Sono esagerati gli adolescenti. Sì. Esagerato è spesso il loro silenzio.
Non siamo capolavori si fa carico del dissenso e del disagio di una generazione. E si apre con un assunto: la sofferenza è politica. È necessario leggerla e mettere in discussione il discorso sociale che la determina: “l’ipermodernità dunque, per far fronte alla propria crisi, strappa a se stessa la vulnerabilità, la piega alla logica dell’individualizzazione, ne fa veicolo per un ulteriore ripiegamento su un Sé individuale e isolato”; eppure, continua Rovelli, “fragilità e vulnerabilità, se rivendicate collettivamente, possono essere strumenti di cambiamento sociale, perché quando due fragilità si incontrano e si riconoscono producono una nuova situazione, un nuovo concatenamento che permette di guardare alle cose e di agire in esse da una nuova prospettiva, e in termini trasformativi”. Non ho mai visto una generazione così preparata ai termini psichici; conoscono il linguaggio medico, apprendono informazioni in rete, si diagnosticano disturbi ossessivi e anoressie che diventano etichette con le quali definiscono la propria identità: “se conosco la mia diagnosi, divento uguale a tutti gli altri che hanno la stessa diagnosi: vengo omologato e questo mi rende parte di un meccanismo”. Rovelli insiste sulla necessità che sia il contesto, collettivamente, a farsi carico di rompere tale meccanismo, mettendo in comune il disagio, creando spazi che consentano di aggiungere parole alle etichette, articolare vissuti, portare a visibilità il legame tra le condizioni materiali di vita e la sofferenza, magari facendo anche dei sintomi occasione di legame sociale: non la diagnosi che chiude, ma il luogo dove tutto possa essere interrogato, dove sia possibile scriversi in una comunanza, un ritmo condiviso che rimetta in moto la potenza vitale di ognuno.
La scuola, oggi, non sembra in grado di essere il luogo di quel “processo di intensificazione del desiderio che è il cuore di ogni crescita personale”. Cosa possiamo dunque fare nel tempo della catastrofe? Il pessimismo è un lusso che non possiamo permetterci: per aprire il presente, le sue possibilità, e rendere meno minaccioso il futuro, Marco Rovelli interpella voci e competenze diverse. Non siamo capolavori è un libro plurale: un dialogo tra saperi, tra persone, con adolescenti, psichiatre, psicoanalisti, filosofe, insegnanti, professioniste. Rovelli riporta le opinioni, discute le teorie. Questa modalità di scrittura – in debito e in relazione – mi pare una prima lezione politica. Se vogliamo immergerci nella scuola, se vogliamo provare ad ascoltare gli adolescenti, dobbiamo procedere con quelle due arti che qualsiasi studente al terzo anno scopre, addirittura con incanto, se ha un buon insegnante di filosofia: dialogo e epoché. Dialogare, chiedere suggerimenti, fidarci di altri saperi; sospendere il “già pensato”, le convinzioni e i luoghi comuni. Provare a capire la dose di sofferenza che vediamo a scuola significa imparare a tenere conto dei fattori politici, economici e sociali; del discorso in cui gli adolescenti sono immersi; di come tutto questo venga elaborato nell’uno a uno della loro differenza singolare. E questo singolare mi consente di esplicitare un’ulteriore ragione per cui ritengo questo un libro politico: non c’è determinismo. Rovelli lo ripete in più occasioni, le spiegazioni causali lineari non tengono conto della complessità, dell’individualità, dei rapporti: questa è la ragione per cui è necessario, per leggere le forme del dissenso, porsi in ascolto e dotarsi di un dizionario sempre in divenire. Dissenso che può essere esplicito o tacito, che può sfociare in una rabbia autodiretta o eterodiretta, in un “non poter stare” che si fa inquietudine o in un silenzio che problematizziamo troppo poco, visto che non disturba le nostre lezioni e non sporca la bella immagine di una macchina funzionante.
Soffrire è dissentire: “dobbiamo vedere le forme di sofferenza come un non sentirsi accordati al mondo: dove il soggetto di questo non sentirsi accordati al mondo è il corpo”. Il corpo, o meglio, i corpi espostiche siamo. Il corpo non è solo quello sottoposto allo sguardo, quello che deve essere in forma, che deve funzionare, che deve essere plasmato e perfezionato, oggetto di desiderio e di giudizio. Leggere i corpi e quel che vogliono dirci significa recuperare il corpo carne, per dirla con linguaggio fenomenologico, il corpo vivo, l’essere-nel-mondo, il corpo vissuto dall’interno e non visto dall’esterno: “ogni corpo è un campo di battaglia” e i sintomi parlano. Il corpo è la questione dell’adolescenza: “che fare con il mio corpo (che sono io)? Che fare con gli altri corpi? Sono le questioni più proprie dell’adolescenza, che diventano tanto più pressanti quando si vive sempre meno nella relazione con l’altro perché l’altro è lo specchio che guarda e giudica”. Il corpo sono gli ammiccamenti della mia studentessa in America, il suo lipgloss, le unghie vietate dai dress code (ebbene sì, sono riusciti a farmi difendere quell’orrore di artigli); il corpo è Tik Tok e lo stile creativo che hanno bisogno di trovare; il corpo è quel che parla anche se si prova a negare il dolore: “nella pratica dell’autolesionismo, nel ritiro sociale dell’hikikomori, nei disturbi del comportamento alimentare, nell’attacco di panico, nella sintomatologia ansioso-depressiva, è sempre il corpo che sta sulla scena come il soggetto che resiste attraverso la sua sofferenza”. Che fare davanti a questi corpi? La dimensione virtuale può essere certamente un vettore di isolamento, colma un vuoto, così come l’acquisto compulsivo di oggetti, ma davvero la scuola è impotente rispetto a questo vuoto? Non è il nostro compito di insegnanti quello di fornire loro competenze emotive e affettive necessarie per trovare altre vie? Non è la scuola il luogo in cui la grammatica identitaria si articola e si modella nel confronto con la differenza, con l’alterità, con l’istituzione e con le sue regole?
Possiamo insegnare il limite se insegniamo il senso del limite; e se questo senso, e il suo valore, li ritroviamo anche al di fuori delle aule scolastiche.
Insegnare oggi è “creare possibili”, lasciandosi toccare dai corpi degli adolescenti e dai corpi che siamo. Erich Fromm, nel 1953, quando tiene le sue quattro lezioni sul tema della salute psichica presso la New School for Social Research di New York (I cosiddetti sani, Mimesis, 2025) racconta di Toro Ferdinando, personaggio di un libro per l’infanzia: toro anomalo, che ama i fiori del pascolo e odia la corrida; scomodo in una società di guerrieri, costruita per combattere. Cosa accadrebbe allora se questo Toro Ferdinando ci infettasse con la sua differenza, sconvolgendo la struttura della nostra società? Una società ha bisogno di una certa dose di conformità; e però non può non subire, ogni tanto, scarti che rappresentano i passaggi di paradigma. Si va avanti così, alternando momenti di progresso e altri di riconfigurazione del mondo; e, in uno di questi ultimi, un Toro Ferdinando potrebbe averla vinta. Certo, poi si ripresenterà l’esigenza di tornare a istituire norme che regolano il gioco della vita. E tuttavia la società moderna soffre di una strana immobilità. Cosa infatti la caratterizza? Certo, l’individualismo; sicuramente la paura che l’uomo ha della libertà e una situazione in cui l’uomo è dominato dalle macchine che ha creato per controllare la natura. Ma c’è di più: un’idolatria scientifica che ha smarrito l’approccio scientifico. Manca, cioè, la disponibilità a modificare i risultati del nostro pensiero con la scoperta di nuovi dati. Così oggi – e lo diceva Fromm nel 1953 – siamo giunti al punto in cui il fondamento della nostra vita e della nostra società coincide con ciò che da un punto di vista oggettivo è da considerarsi normale e sano: insomma, a questo benedetto migliore dei mondi possibili ci crediamo davvero, e abbiamo fatto di quel che è, quel che deve essere.
In questo quadro la distinzione tra salute e malattia psichica viene operata con una tale sicurezza, ed è così perfettamente rispondente al far prosperare il tipo di società in cui siamo immersi, che, in fondo, ad ammalarsi sono le persone più sensibili alla questione del senso della vita. Chissà che tra gli adolescenti non ci sia un Toro Ferdinando, chissà che non possiamo provare a lasciarci contagiare dalle sue battaglie, da un amore per i fiori, economicamente poco seducente, che non capiamo.
Mi è capitato, negli anni, di scrivere a Luisa Muraro. E di ricevere risposta. Con le scuse per il ritardo!! «Cara Luisa – la rassicurai quella volta – a me dà una grande libertà questa circolazione epistolare, che non è a stretto giro di posta, ma a largo giro di vita. Non c’è ritardo e non c’è fretta…» La data era 30-XII-13.
E il 12-5-25 mi è arrivato un pacchettino che conteneva Esserci davvero.
Non era una lettera, non me l’aveva spedito lei, era un Quaderno di Via Dogana appena pubblicato conteneva una intervista datata 2003. Eppure l’ho letto come fosse una lettera indirizzata a me, con la curiosità, la partecipazione e la sorpresa di conoscere aspetti nuovi e vicende personali di una donna, di una filosofa, che considero mia maestra non solo di pensiero… Non c’è ritardo e non c’è fretta… La memoria torna, il tempo si snoda, ricompare la gratitudine per la vicinanza che Luisa Muraro ha manifestato per l’Ordine della Sororità dopo la morte di Ivana Ceresa, che ne è stata la fondatrice, in forza anche della stima e dell’amicizia che ha avuto per lei.
È che in Esserci davvero si intrecciano molti fili e si incrociano molti specchi e si squadernano le molte relazioni costruite negli anni e si fa fatica a metterne in evidenza solo alcune.
Mi piacerebbe partire – e non sembri stonato o irriverente – da una parentesi aperta e chiusa a pag. 57, a proposito delle discussioni che precedettero la stesura di Non credere di avere dei diritti. «Allora – scrive Muraro – ci trovavamo nel sottoscala della Libreria, in via Dogana 2, sottoscala che all’epoca aveva più correnti d’aria, ma eravamo comunque molte riunite in un posto così… (io sono claustrofobica), e si discuteva. Si discuteva e io prendevo appunti».
Ho trovato, in quella dichiarazione tra parentesi, una richiesta – non solo fisica – d’aria: non volersi chiudere in spazi angusti, polemizzare anche confliggendo per aprirsi varchi o vie di fuga, fino a raggiungere l’aperto – dove l’aperto è anchel’Aperto – così che spostarsi diventa non essere dove gli altri credono che tu sia, fare la schivata, non coincidere con quello che era previsto, prescritto, promesso pensato di te, praticare un nomadismo di pensiero che è la condizione per non farsi intrappolare dall’ideologia perché c’è altro o Altro.
In un testo – che abbiamo considerato prezioso così da chiederle di poterlo inserire negli Atti del Convegno su Romana Guarnieri dell’ottobre 2022 a Bologna – intitolato Come quando si accende la luce, Luisa Muraro riprende nelle ultime battute la domanda «Che cosa ci sarebbe da fare? Una schivata, come gli animali inseguiti dai predatori, uscire di colpo dalle traiettorie del potere e saltare nella mancanza: di organizzazione, di successo, di prestigio, di dottrine, di nomi propri… in una parola, mancanza di tutti i surrogati. Così che ci nasca dentro e ci venga incontro da fuori la rispondenza tra le cose che viviamo e le parole che diciamo, dalla quale si accresce l’essere di ogni cosa che è […]».
E da qui nasce anche la scrittura: si vede bene nello scambio teso e vivace – riportato con felice complicità a pag. 45 – tra la filosofa e Clara Jourdan, l’intervistatrice, che le chiede «È come nella pratica politica delle donne di rigiocare al presente cose che sembravano chiuse nel passato? Tu fai questo nella scrittura, cioè è la scrittura che ti fa questo?» Risposta: «Sì, ma non è solo la scrittura, perché può esaurirsi la possibilità di scrivere… Ho preso la pratica politica delle donne come forma simbolica che mi permetteva la scrittura… Comunque non si scrive mai lo stesso: solo gli scrittori standardizzati, non certo io che scrivo per salvarmi l’anima. Io scrivo per salvare qualcosa che ha il valore dell’anima per le civiltà religiose, scrivo per non essere dannata. Chi scrive per salvarsi l’anima è chiaro che ogni volta ne va di tutta la faccenda, ogni volta».
Si tocca qui, se pure da lontano, quello che in altri termini e in altri libri lei chiama mediazione vivente, che le mistiche di ieri come di oggi hanno insegnato «[…] aprendo il passaggio al pensiero di altro… ma non basta dire che fanno nascere pensiero. Nel vuoto di una mancanza incolmabile e accettata, esse ospitano l’incontro fra le cose che capitano a caso e per forza, con la loro possibilità di libertà e di gioia, e quello che rendono pensabile comincia già a essere» (da Il Dio delle donne pag. 157).
La “mia” lettera, quella che pretendevo indirizzata a me, che è questo quaderno rosso che tengo tra le mani, si è rivelata così ramificata da toccare la storia del femminismo italiano, e non solo, degli ultimi cinquant’anni, da interessare le tante lettrici e lettori che hanno condiviso gli stessi passaggi storici e culturali, da spostare continuamente l’orizzonte e fare intravedere paesaggi ancora sconosciuti, da rivelare connessioni imprevedibili con l’oggi.
Il quaderno – nella prima metà, che precede l’amplissima bibliografia – si va ora configurando ai miei occhi come una mappa: una mappa – e ancora Muraro mi addita il lavoro delle Preziose – che non può che essere la Carte du Tendre. Una mappa, dove anche i sentimenti hanno una geografia, dove il paese di partenza si chiama Nuova amicizia; lo attraversa un fiume di nome Inclinazione e verso la foce si aggiungono altri due fiumi, Riconoscenza e Stima, si attraversano villaggi piacevoli e non (bontà, sincerità, orgoglio, oblio…) in un percorso comunque verso l’amore.
da Camilla
Francesca Albanese, Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina, Rizzoli, Milano 2025, pp. 288, euro 18.
Relatrice speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato, Francesca Albanese condivide le sue esperienze. Ne esce un libro palpitante, che freme di sostanza.
Se ne valesse la pena, si potrebbe dar conto delle offese, delle insinuazioni sulla professionalità, dei sabotaggi che hanno colpito l’autrice anche in privato. Ma chi legge è consapevole che l’impegno si paga, e sa già che ci sono conseguenze prevedibili per chi, specialmente in posti di rilievo, si schiera secondo giustizia. La protesta sterile è appena tollerata; quella costruttiva se la vede brutta; per il posizionamento giusto di chi ha responsabilità ufficiali, poi, non ci sono riguardi.
Questa giurista tenace è innamorata della vita, anche quella degli altri; si aggrappa al lavoro, compresi i problemi che comporta, e va per la sua strada. Quel lavoro, grazie a un’energia vulcanica, riesce a proseguirlo «e, in modo controintuitivo, a continuare ad amarlo». Solo se si tiene presente questo, si apprezza sino in fondo un libro che segue le persone e che alle persone si rivolge.
Persone, tante persone. Alcune non sono più, tutte hanno qualcosa da dirci, in un volume che persino nella divisione in capitoli segue il filo delle loro storie. Chi conosce il peso soporifero dei soliti scritti biografici dei giuristi e del notabilato, qui riceve una sorpresa a colori. Una giurista che non annoia? una relatrice dell’Onu che fa capire a caldo problemi complessi? Deve aver pagato un prezzo, per conquistare questa chiarezza, ma non lo fa pesare, perché ha dalla sua una scelta di campo. Una scelta convinta, sempre argomentata. La scelta dei fatti.
Il quadro generale è esplicito; il sistema che schiaccia i palestinesi ci riguarda tutti:
È il sistema che decide al posto nostro su questioni determinanti della vita di tutti noi, senza necessariamente ascoltarci e rappresentarci; quello che trasforma il lavoro in precariato e i diritti in privilegi, che fa in modo di alienarci gli uni dagli altri, rendendoci tutti più fragili e insicuri; che considera la solidarietà un atto sovversivo e l’empatia una forma di disfunzione mentale e sociale[1].
Se l’oppressione non ha confini, anche la liberazione o è di tutti o non funziona: «Nella liberazione del popolo palestinese dall’oppressione dell’apartheid c’è la chiave per la liberazione degli stessi israeliani»[2].
Nessuno può chiamarsi fuori, perché una linea del colore, diseguale ed esclusivista, colonizza l’umanità su scala mondiale. Anche l’operazione securitaria in atto in Italia, con la stretta sulle libertà e i lacci alle mobilitazioni sociali, realizza una discriminazione che controlla i rapporti di lavoro, lo spazio, la cultura. Nei metodi militari e polizieschi, poi, la sperimentazione sui palestinesi collauda tecniche applicabili dappertutto.
Albanese spiega: «La sicurezza in quella terra – e non solo, purtroppo – è a senso unico; se sei palestinese, viene invocata solo per reprimere la tua libertà. Per punirti». Evidentemente esiste una sicurezza unilaterale: può presentarsi in grado estremizzato ed eliminazionista, oppure può essere quella che si vuole imporre in Europa da molti anni. Ma lei ha visto la violenza in una forma radicale, fatta di negazione e squalifica profonda: Israele i palestinesi non li vede, non li ascolta e, cosa ancor più grave, non li «sente». Per la maggior parte degli israeliani che intervengono pubblicamente, ma anche per molti esponenti della diaspora ebraica, esiste una sola prospettiva: quella di Israele[3].
Chi è cosciente di questa situazione parla una lingua dal suono inconfondibile: «Nessuno è libero finché non sono liberi tutti»[4]. Non si arriva a queste consapevolezze senza una buona dose di autocritica. Per forza: i giuristi migliori sono quelli che decostruiscono il diritto, che ne mettono a nudo i pregiudizi, le stratificazioni prevaricanti. Non è un caso se quest’anno, nelle irruzioni dell’esercito all’Educational Bookshop, a Gerusalemme, fra i testi sequestrati c’era un libro di diritto scritto anche da lei[5]. Ma bastano, cultura e introspezione?
Proprio no. Bisogna incontrare la realtà faccia a faccia, sbatterci contro il muso, magari in un caffè con gli odori pesanti e i camerieri che sono ragazzi usciti dalle mani dei carcerieri israeliani. L’autrice discute con un palestinese, sottolinea il suo ruolo nell’Onu, e quello la smonta senza complimenti: «Non si è scomposto più di tanto; guardandomi dritto negli occhi, si è limitato a chiedermi: “Ma tu, che vuoi fare?”. Una domanda alla quale, a distanza di tanti anni, forse sto ancora cercando di rispondere»[6]. Evviva! Una giurista che si mette in discussione, che non sbandiera successi immaginari, che non si pavoneggia citando commi e paragrafi.
Quando si fanno queste sane docce fredde, si capisce molto di sé e dei colleghi. Anche l’impegno dalla parte degli oppressi può contribuire all’oppressione: è il «paradosso umanitario». Credi di aiutare e, senza saperlo o senza poterlo evitare, ogni cosa che fai sta già in un modello che lascia le cose come stanno, che consolida lo stato di fatto. Allo stesso tempo ti senti un benefattore, un bianco buono, mentre sei parte del problema che vuoi risolvere. Anche su questo, il modello praticato sui palestinesi estremizza la violenza. Ma il contributo funzionariale alla linea del colore è simile ovunque, anche in Italia: il giurista, il benefattore, l’attivista, il militante possono diventare parti del circuito che credono di spezzare.
E allora arriva l’impegno di Albanese in ogni direzione, per sfuggire ai pregiudizi e ai condizionamenti, per dare il meglio. Frequenta il popolo e gli intellettuali, legge e si documenta, entra in contatto con studiosi di mezzo mondo, approfondisce teorie d’avanguardia: ci mette di fronte alla politica verticale, allo spaziocidio, alla trasmissione intergenerazionale dei traumi.
Ma non trascura i dettagli, le cose. In quel caffè palestinese con gli odori forti torna sempre, per attingere alla fonte che ogni essere umano – il giurista più degli altri, con la sua tendenza automatica alle categorie e alle astrazioni – non deve abbandonare: la realtà. Lei la riassume così: Israele e Palestina, uno è l’occupante e l’altro l’occupato, uno è il colonizzatore e l’altro il colonizzato, posto in una situazione di strutturale subalternità e vittima di un sistema di controllo e segregazione. No, questo non è un conflitto: al massimo può essere visto come un conflitto con l’umanità[7].
È bene, oltre alle persone, frequentare i luoghi: ma se fai le escursioni organizzate, vedi cosa ti fanno vedere e devi sorbirti versioni addomesticate della storia e dell’archeologia del Medio Oriente; invece località e rovine, anche quelle che le guide turistiche definiscono senza un margine di dubbio, sono interpretabili in vari modi. Tutto va approfondito: il Muro del pianto, per esempio, potrebbe non essere un muro del Secondo tempio di Gerusalemme; per alcuni, anzi, il Secondo tempio non sarebbe stato lì o non sarebbe mai esistito[8]. Così, lei supera il suo anticlericalismo e si affida a un prete, oltre che a un palestinese, per sentire l’altra campana e non solo le narrazioni che piacciono a Tel Aviv.
Instancabile, affamata di esperienze e di vita, Albanese ha capito che se in Palestina si vede un «conflitto» si inizia a leggere un libro da metà delle pagine, ignorando cosa c’è prima. Ecco, Quando il mondo dorme ci aiuta a cercare lì, è un libro che si porta dietro i capitoli mancanti nelle letture degli altri. Perché stupirsi? Nasce da un’idea che le ronzava in testa da anni: scrivere Polaroid da Gerusalemme, presentando la Palestina come l’ha vissuta, con curiosità culturale e attenzione giuridica insieme.
Pensiamoci: un libro che porta con sé l’altra metà della storia, cioè i mezzi libri che il mondo non legge, perché non può contenere l’ombra di se stesso, il libro non scritto? Forse è questo, il segreto di un lavoro riuscito.
Note:
[1] Francesca Albanese, Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina, Rizzoli, Milano 2025, p. 16.
[2] Ivi, p. 19.
[3] Ivi, p. 207.
[4] Ivi, pp. 240-241.
[5] Ivi, pp. 104-105. Si tratta di Francesca Albanese, Lex Takkenberg, Palestinian Refugees in International Law, Oxford University Press, Oxford, New York 2020.
[6] Albanese, Quando il mondo dorme, cit., p. 63.
[7] Ivi, p. 76.
[8] Ivi, p. 87.
da La Balena Bianca
Livia Massaccesi, Indossare la battaglia: Rosa Genoni, Milano, Electa 2023, € 12, pp. 96.
Difficile resistere alla collana di libri che prende il nome dal ritornello di una canzone amata da bambina. “Oilà” è una raccolta Electa di mini-tascabili contenente pillole di vite scandite al ritmo di un canto di lotta che segna la storia delle battaglie e dell’emancipazione femminile: “La lega”. Per me è anche un ripescaggio nell’infanzia: nel mio ricordo la melodia risuona di vacanze estive, di viaggi in macchina verso mete marine, insieme agli altri canti politici intonati da mio padre. “Se ben che siamo donne” (questo il titolo col quale avanzavo la richiesta per “La lega”), era la mia preferita e ci emozionavamo a cantare il ritornello nelle diverse versioni con cui aveva preso vita e fatto la storia:
Oilì oilì oilà e la lega crescerà
e noialtre lavoratrici (socialiste), e noialtre lavoratrici (socialiste)
a oilì oilì oilà e la lega crescerà
e noialtre lavoratrici vogliam la libertà
Indossare la battaglia. Rosa Genoni, di Livia Massaccesi (2023) è il mio testo di accesso alla collezione: la “sarta” socialista sulla quale mi sono sempre ripromessa di sapere di più.
Intraprendo dunque la lettura ad “alta leggibilità”, sintagma che rimanda non solo al mio livello di interesse, di certo alto, ma a una scelta grafica, anch’essa democratica, che rende i contenuti accessibili ai più. Il testo infatti è sbandierato, non allineato a destra (di nome e di fatto), il vento fischia tra le pagine e le parole arrivano dritte al cuore di chi legge. Ben presto scopro che Rosa Genoni, classe 1867, prima di diciotto figli di un’umile coppia (ciabattino il padre, sarta la madre) che vive in un borgo alpino ai confini con la Svizzera, è stata ben più che una sarta, ma anche molto meno potremmo dire, se prendiamo in considerazione tutta, ma proprio tutta la sua vita. Stilista, attivista, militante socialista, “sarta artista” (stando all’appellativo coniato dalla giornalista coeva Paola Lombroso), Rosa inizia a dieci anni come “piscinina” (piccolina in dialetto milanese), una di quelle bambine che lavorano nelle sartorie per quattordici ore al giorno e pochi centesimi. «Sono aiutanti e raccattaspilli [che] spesso neanche imparano il mestiere di sarta, hanno l’incarico di consegnare gli abiti alle clienti e portano sulle spalle pesi non indifferenti», racconta Livia Massaccesi, anche lei nipote di sarta.
Così, come in un gioco di specchi, il ritmo della macchina da cucire riecheggia nelle battute del testo e nella biografia dell’autrice, cresciuta tra le stoffe, gli aghi e i fili del laboratorio di sartoria della nonna, dove «il rumore della macchina da cucire è stato il sottofondo accogliente dei pomeriggi passati da lei, nel fumo delle sue mille sigarette, tra i fogli a quadretti pieni di figurini che lei disegnava e io coloravo». Un ambiente vitale e colorato in cui la nonna incantava la piccola Livia – scrittrice e visual designer specializzata in grafica editoriale – con quella «sua capacità di rendere semplice la trasformazione di un’idea in oggetto».
Le idee e la trasformazione – nella sua accezione profonda e rivoluzionaria – sono dunque alla base della lettura del testo, nel quale l’alternarsi tra la prima e la terza persona crea una rifrazione viva tra l’io della scrittrice e la biografia della protagonista: «Quando per la prima volta ho incontrato la storia di Rosa Genoni – ero molto giovane e studiavo storia del costume – ne sono rimasta folgorata […] mi ha fatto capire una cosa di me stessa: per me progettare è prima di tutto un’attitudine, poi un mestiere. Non c’è un aspetto della sua storia in cui non trovi elementi di modernità, spirito critico e desiderio di miglioramento, tutte caratteristiche necessarie in un buon designer».
Effettivamente quella di Rosa Genoni è una vita di progetti creativi, politici e sociali: lavoratrice precoce, entra presto in contatto con il lavoro sfruttato e sottopagato, in un ambiente tutto al femminile, ma non è tipa da scoraggiarsi. Ha fame e sete di conoscenza e, una volta mosso il primo passo (dal piccolo paese alla grande città), comincia a tessere i fili e la trama della sua vita: i progressi nel mestiere, i primi contatti con il socialismo attraverso il cugino, la lingua d’oltralpe (lingua indiscussa della moda) imparata da autodidatta, l’incontro con Anna Kuliscioff, le battaglie per il movimento operaio, il primo viaggio in Francia – siamo nel 1884 e lei è stata scelta come interprete per accompagnare la delegazione del movimento operaio al “Congresso internazionale sulle condizioni dei lavoratori di Parigi”. A Parigi comincia anche il suo percorso individuale, la sua indipendenza, che nella moda si traduce in una battaglia per liberare l’Italia dal modello (anzi, dai modelli) francesi. Artefice – così amava essere definita – farà di questa campagna uno strumento di lotta per l’emancipazione della donna a partire dalla sua libertà di movimento: celebri i suoi modelli che affrancano le donne da quegli stretti corpetti ai limiti della tortura. Maestra del “made in Italy” – la locuzione compare per la prima volta in una sua intervista – non le verrà mai riconosciuta la maternità di un’intuizione così lungimirante da prestarsi ai successivi usi strumentali e di propaganda.
Del resto, siamo negli anni dell’industria, verso la quale la sua apertura al cambiamento permette a Rosa Genoni di intravederne il potenziale, un’opportunità in grado di alleggerire il lavoro (migliorandone le condizioni) e velocizzare la produzione. Per Rosa la macchina «si presterà a democratizzare, anche presso i meno ricchi, quelle bellezze di opere che la mano dell’uomo, una volta, produceva a prezzi tanto elevati, da essere riservati solo a pochi privilegiati».
La grande storia intarsia il racconto, non soltanto nei suoi “movimenti” – il socialismo, l’avvento del fascismo, l’industrializzazione – con cui fa i conti la protagonista, ma anche con singoli eventi che ne fanno da cornice. L’eccidio delle Fosse Ardeatine irrompe in prima pagina come una sorta di avvertimento: siamo nel marzo del 1944, c’è la guerra e se la nonna dell’autrice non fosse scampata al rastrellamento che la coglie gravida di due gemelli, questa storia «che ha a che fare con lei e con me [Livia Massaccesi] non ci sarebbe». In chiusura invece incontriamo il riferimento a un gesto di Rosa, grande al punto da arrivare con la sua eco sino ai nostri giorni. Siamo nel 1948, la sarta-artista ormai conduce una vita ritirata, ma il suo fermo impegno civico la porta a scrivere una lettera all’ONU, nella quale «afflitta dal conflitto israelo-palestinese ne auspica una soluzione pacifica».
Una vita dalla gittata ampia, il cui arco sembra proiettato ben oltre le condizioni ambientali della sua epoca. Un esempio che è anche un monito e un tarlo che sta lì per dirci – così come titolava il giornale organo del suo partito – Avanti!

da il manifesto
Mani guantate che sorreggono una stella, un paio di occhiali, una scatoletta posata su un cuscino, la figura di un uomo con un cappello scuro e un lungo soprabito su cui si arrampica un enorme scarafaggio, un libro sulla cui copertina si legge El cuarto de atrás, e, in alto, una frase scritta a mano: «Ho conosciuto Todorov e sono quasi sicura che fosse l’uomo col cappello nero». Il collage, composto sulla pagina di un quaderno a righe, figura tra quelli che una madre, residente per qualche tempo negli Stati Uniti degli anni Ottanta, si è divertita a creare per raccontare New York alla figlia rimasta a Madrid.
Manca la firma, ma anche senza aver mai visto il volume in cui quel quaderno si è trasformato (Visión de Nueva York, Siruela 2005), si può facilmente indovinare che la sua autrice è Carmen Martín Gaite, una delle più grandi scrittrici di lingua spagnola del Novecento, più che esplicita nel concentrare in una sola pagina le figure di un suo libro del 1978 (per l’appunto El cuarto de atrás) pubblicato in Italia per la prima volta nel 1995 presso La Tartaruga, casa editrice del cui catalogo non si può non avere nostalgia. Presentato allora come La stanza dei giochi, il libro torna oggi con un titolo più fedele, La stanza in fondo (Mondadori, «Oscar», pp.216, € 14,00), nella stessa traduzione di Michela Finassi Parolo – che per l’occasione l’ha rivista a fondo – e con la prefazione di Maria Vittoria Calvi, in coincidenza con il centenario della nascita di Martín Gaite a Salamanca, che si celebrerà il prossimo 8 dicembre.
Inserito nella ricca introduzione di Calvi, il bizzarro collage sembra riassumere la fragile trama di un testo impossibile da classificare: quasi un memoir, quasi un saggio, quasi un romanzo, insomma un esempio di sperimentazione e di ibridazione tra generi diversi in linea con il rinnovamento della narrativa spagnola, che negli anni Settanta si staccò dal rigore del realismo sociale (cui il primo romanzo di Martín Gaite, Entre visillos, sostanzialmente aderiva) per avvicinarsi ad altre forme e ai toni di un’accentuata soggettività.
Spazio intertestuale in cui convergono i precedenti romanzi dell’autrice, i presagi di suoi saggi futuri come Usos amorosos de la posguerra española (1981), El cuento de nunca acabar (1983) e Desde la ventana (1987), oltre a riferimenti e citazioni di ogni genere – dal Barbablù di Perrault all’Alice di Carroll, da Rubén Darío a Kafka, da Defoe ai romanzi rosa – La stanza in fondo proietta immediatamente il lettore in una dimensione onirica e ambigua, imprigionandolo nelle seduzioni di un «ricamo» che intreccia ai fili del ricordo le riflessioni sul mestiere di scrivere, sul ruolo della letteratura, sul senso e sull’importanza del fantastico, tentazione davanti alla quale, in passato, la Martín Gaite esordiente si era sentita costretta ad arretrare, rinnegando le meravigliose incursioni infantili in paesi immaginari.
La protagonista è una scrittrice cinquantenne che, dopo essere inciampata nell’Introduzione alla letteratura fantastica di Tzvetan Todorov (libro da tempo disperso nel caos del suo soggiorno), riceve a tarda notte la telefonata di uno sconosciuto che rivendica un appuntamento per un’intervista, e il cui arrivo è preceduto dall’apparizione di un inquietante scarafaggio kafkiano, immobile al centro del corridoio.
Tutto vestito di nero e con occhi neri che brillano «come scarafaggi», l’uomo posa il suo nero cappello a larghe tese accanto alla macchina da scrivere e si accomoda sul divano, dando inizio a un dialogo che occuperà la notte intera e l’intero spazio di una narrazione intensamente autobiografica e metaletteraria, condotta in uno stile apertamente colloquiale, che molto deve a un’oralità restituita con mimetica naturalezza.
Lenta e piena di pause, la conversazione sollecita e porta alla luce immagini e sensazioni sepolte, concedendo ampi spazi ai monologhi interiori e ai brevi sdoppiamenti della protagonista che, guardandosi nello specchio (uno dei simboli onnipresenti nei testi di Martín Gaite, insieme alla finestra, alla notte, a cunicoli e sotterranei, al taglia e cuci sartoriale) si rivede bambina e adolescente.
La struttura dialogica e i lunghi intervalli introspettivi erano già presenti, sia pure con minore audacia, in Retahílas, romanzo del 1974 (Tutta la notte svegli, Giunti 2003) e riaffioreranno in titoli successivi, a testimoniare la costante ricerca di un interlocutore ideale, qualcuno che sappia non solo ascoltare, ma anche addentrarsi in uno scambio rispettoso e fecondo (e qui viene in mente la lunga corrispondenza amicale e letteraria di Martín Gaite con Juan Benet, poi evaporata nel silenzio finale dello scrittore). L’uomo in nero sembra essere, a tutti gli effetti, l’interlocutore sognato: curioso, non convenzionale, a tratti pungente, pronto ad offrire pastiglie per la memoria racchiuse in una scatoletta dorata, che richiama quella in cui la Alice di Carroll trova un magico biscottino. Un personaggio misterioso, dunque, identificato via via con un abile psicoanalista, o con un alter ego che fa da specchio all’autrice, o con l’uomo-musa che, secondo Martín Gaite, risponde all’esigenza di un «tu» tipica del discorso femminile, come suggerisce in Desde la ventana, ipotizzando una trasposizione del concetto di musa «a quello dell’uomo sconosciuto e inquietante come motore che sprona l’immaginazione femminile, proiettandola verso orizzonti più vasti». O forse l’uomo in nero è un’incarnazione del daimon, che restituisce il desiderio di narrare a chi credeva di averlo smarrito, riconducendo l’autrice alla «stanza in fondo» della casa d’infanzia, dove tutto era permesso e si poteva giocare, inventare, creare, prima che le necessità della guerra la riconvertissero in un deposito di provviste.
Le domande e le suggestioni dell’uomo in nero spingono Carmen (nel libro, semplicemente C.) verso un passato minuziosamente ricostruito: il suo; ma anche quello della Spagna della guerra e del dopoguerra, prigioniera del tempo immobile di una dittatura eterna: un’evocazione libera e disordinata che allinea stanze, case, strade, amicizie, la presenza assoluta di Franco (i suoi ritratti ovunque, su ogni parete, su ogni muro cittadino), la forzata euforia dei vincitori, le ribellioni al controllo esercitato dalla Sección Femenina, creata per “formare” le donne, costringendole nell’unico ruolo di spose e madri.
Un quadro che potrebbe essere di un solo colore (il grigio del silenzio e della repressione) ma che prende, invece, anche le tinte vivaci della cultura popolare: canzoni, romanzi sentimentali, riviste, figurine con le immagini degli attori americani, la moda ricreata dalle sartine, il cinema, i segreti casalinghi per farsi i riccioli, i giochi e i giocattoli. La Storia ufficiale, smontata dall’interno, si trasforma in microstorie di resistenza quotidiana, che tornano a ondate proprio nel giorno del funerale di Franco, quando il tempo sembra rimettersi in movimento.
A poco a poco, di domanda in ricordo, il libro sembra farsi da sé, scriversi da solo. E quando C. si addormenta e l’uomo in nero svanisce, la luce del mattino rivela un testo completo e concluso: le pagine sono andate crescendo durante la notte, sotto il cappello nero posato sul tavolo (un altro oggetto magico, dopo la scatolina dorata), al ritmo della conversazione. E nella prima pagina si legge lo stesso incipit del non-romanzo perfettamente circolare che il lettore ha appena finito di leggere e che si riflette in sé stesso, pronto ad essere pubblicato, come per incantesimo, proprio nell’anno in cui la Spagna inaugura una nuova Costituzione.
Anticonformismo di una testimone: José Teruel sulle tracce di Martín Gaite
«L’unico romanzo in cui parlo un po’ di me è La stanza in fondo», ha detto Carmen Martín Gaite in una vecchia intervista, anche se in buona parte della sua narrativa si possono individuare tracce autobiografiche sapientemente occultate. A raccontare la sua vita, apertamente e per intero ha pensato José Teruel, che dopo la scomparsa della scrittrice, nel 2000, è divenuto il curatore della sua opera e dei suoi archivi. Nelle oltre cinquecento pagine di un testo che si propone come definitivo, il minuzioso biografo allinea, compone e collega fatti, testimonianze, documenti, note, appunti personali e lettere, evocando con singolare vivezza una figura femminile capace di aprire, in un mondo fatto per gli uomini, nuove strade per sé e per le altre donne, e di trovare infine nei suoi innumerevoli lettori l’interlocutore ideale che da sempre cercava.
A partire da materiali in gran parte inediti e sconosciuti, in Carmen Martín Gaite. Una biografía (Tusquets, 2025) Teruel ha ricostruito sia la formazione intellettuale e il percorso creativo di un’autrice-chiave della letteratura di lingua spagnola, sia l’esistenza libera e anticonformista di una donna che ha affrontato molte battaglie e grandi dolori, come la morte precoce di entrambi i figli nati dal matrimonio con un altro famoso scrittore, Rafael Sánchez Ferlosio (a lui, dopo la separazione, dedicò nel 1972 Usos amorosos del dieciocho en España con queste parole: «Per Rafael, che mi ha insegnato ad abitare la solitudine e a non essere una signora»).
Grandi sono stati anche i riconoscimenti: i principali premi letterari spagnoli, un ampio e solido successo di pubblico e l’attenzione degli studiosi di due continenti (in Italia si sono occupate di lei, in particolare, Maria Vittoria Calvi e Elide Pittarello), che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta hanno elaborato un immenso materiale critico intorno alla sua vasta produzione di narrativa, saggistica, poesia, testi teatrali, più un paio di bellissimi romanzi per l’infanzia e per qualsiasi lettore amante del meraviglioso.
Finalmente La Tartaruga di Laura Lepetit citata con onore.
(La redazione del sito)
Esserci davvero, un volume a cura di Clara Jourdan edito dalla Libreria delle donne di Milano
«Il femminismo era una correzione di un esserci facendo carte false: è stato un esserci in prima persona in qualcosa che accade. Che certo ha una sua importanza […] ma era un esserci davvero, è stata la cifra più importante». A dirlo è Luisa Muraro nella lunga conversazione (quasi cento pagine) con Clara Jourdan depositata nelle pagine di Esserci davvero (Libreria delle donne, Quaderni di Via Dogana, pp. 245, euro 15). Comparsa in versione ridotta nel 2006 e registrata tra maggio e luglio del 2003, l’intervista è ora pubblicata in forma integrale e inedita.
Grazie a Clara Jourdan, nella seconda parte del libro, interamente a sua cura, c’è la bibliografia che va dal 1963 al 2024, un lavoro che Jourdan ha iniziato nel 1998 insieme a Franca Cleis, e che dà conto cronologicamente di una poderosa quantità di scritti, monografici, in riviste, collettanee, giornali (tra cui non manca il manifesto); tutti luoghi e occasioni di un impegno attivo e infaticabile che nasce già in relazione e che, nel caso di Muraro, si è profuso anche nell’ambito della traduzione (basterebbe forse citare la prima traduzione italiana di Speculum, di Luce Irigaray, nel 1976 per Feltrinelli).
La prima parte dialogante consegna allora il percorso, qui intimamente umano e politico, della filosofa che indica quanto grande sia stato quell’esserci davvero quando le è stato chiaro che se il cattolicesimo e il comunismo erano «a certe condizioni che non si sono realizzate», è stato l’incontro con il femminismo a fornirle delle condizioni «che si sono realizzate». La chiama, questa, la sua «logica esistenziale» ed è forse il primo dei numerosi fili del procedere, nel confronto con Jourdan, che le consentono di indicare alcuni dei termini del suo apprendistato, mai solitario ma sempre con altre donne accanto, con alcuni nomi (e nel libro ce ne sono davvero tanti) che brillano dal primo incrocio restando con lei tutta la vita, come Lia Cigarini dalla fine degli anni Sessanta.
Il movimento delle donne, il separatismo, l’autocoscienza, la scommessa del femminismo che era a quell’altezza, anche in Italia, un accadere, con diverse pratiche e gruppi, e che diventa spazio collettivo e di libertà femminile, oltre che di elaborazione teorica in cui, nel 1975, nasce la Libreria delle donne di Milano segnando un’attenzione, già inaugurata, a quella parte del femminismo francese che arrivava da Psychanalyse et Politique.
C’è in un tale fervore sorgivo, che in quel momento non può più essere di mera partecipazione alla cosiddetta società degli uomini colti, un modo che ha Muraro di farsi leggere (o di farsi ascoltare, poiché la sua produzione ha seguito in questi anni scambi pubblici, mai pacificati e per questo ancora più preziosi, in presenza) facendoci attraversare, insieme a lei, la sostanza di una donna che pensa, che riconosce di questo suo procedere la circostanza imperfetta di una ricerca a partire da sé.
Sempre ha scritto per la lettrice anonima, per una donna che non sa chi sia, dice a Jourdan in uno dei molti momenti della conversazione, perché «il lavoro della scrittura mi portava e mi porta in una vicinanza, nel confine tra simbolico e fisiologico».
Già nel 1976, con La Signora del gioco, assume la qualità di un inaggirabile posizionamento, facendone affondare i prodromi nell’autocoscienza: «ho preso la pratica politica delle donne come forma simbolica che mi permetteva la scrittura». Del resto, anche nella esperienza della lettura «il libro diventa una macchina pensante dentro di me».
Quell’oggetto che non resta mai fermo, che «non è mai se stesso» le consente di consegnarci la passione autentica di una relazione: è infatti l’oggetto dentro di lei che, racconta, si muove e la muove. Succede però altro perché l’oggetto, in questo caso un libro, le permette di contrattare la sua libertà, «perché do ammirazione e dopo delle strattonate per significare la mia libertà». In questo alternarsi, movimento nei riguardi di ciò che ha scritto e di come sia stata letta anche lei stessa, ha ripetuto spesso che «tutto è storia ma la storia non è tutto». Elemento utile perché «c’è qualcosa che eccede e questo qualcosa è vuoto, non è nominabile, non è dicibile, è un niente, è un niente che però io considero un passaggio all’essere». Vengono forse qui a chiarirsi parte delle critiche che le sono state mosse riguardo l’approdo metafisico soprattutto del suo L’ordine simbolico della madre (1991, varrebbe la pena conoscerne l’origine tutta interna, e plurale, al movimento delle donne e di cui lei stessa dice: «il libro che mi fa più problemi, ancora oggi»).
Ma anche per capire ciò che è stata la modificazione della sua esperienza nella conoscenza delle scrittrici mistiche (il primo articolo su Margherita Porete è del 1988, stesso anno in cui scrive di Clarice Lispector). Ad esempio nel raffinare l’ascolto per «captare il silenzio, la presenza di un silenzio». Qui il legame può essere rintracciato per un verso nello strabismo di aver confuso, strumentalmente ma anche storicamente, l’assenza delle donne con uno statuto di inesistenza, per un altro verso vi è l’apertura a una cavità della stessa storia che «permette di scrivere quello che non è storia».
La mistica, libera ricerca di Dio «come forma della libertà femminile», rispondente politicamente al «primato delle pratiche» in cui il posto delle cose non viene occupato dalle costruzioni intellettuali, astratte e neutralizzanti, in cui i corpi scompaiono o non hanno udienza, porge una connessione alla «necessità del metonimico», di cui Muraro ha scritto nel suo libro forse meno letto e più sorprendente: Maglia o uncinetto (1981, se ne segnala la ristampa per manifestolibri del 1998 con la postfazione, splendente, di Ida Dominijanni).
Un procedere tra i libri, dunque, pensando nel frattempo con le altre: è il caso almeno di Guglielma e Maifreda (1985) e di Non credere di avere dei diritti (1987, nel 1990 viene tradotto negli Stati Uniti grazie alla mediazione di Teresa De Lauretis), cui segue Il pensiero della differenza sessuale (1987), primo volume della comunità filosofica femminile di Diotima in cui affiora il «taglio simbolico», perché «facendo un taglio si forma pensiero», sono – prosegue Muraro – «operazioni di ordinamento di un campo».
SCHEDA. Alla Cattolica il convegno “Come quando si accende la luce”
Promosso dai Dipartimenti di Sociologia e di Storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica, la Libreria delle donne di Milano e la comunità filosofica femminile Diotima (Università di Verona), il 20 settembre 2025 all’Università Cattolica di Milano si è tenuto il convegno internazionale «Come quando si accende la luce», dedicato al pensiero di Luisa Muraro.
Dopo l’introduzione di Raffaella Iafrate, con il coordinamento della prima sessione di Carla Lunghi, interventi di Vita Cosentino, Diana Sartori, Ida Dominijanni, Cesare Casarino e Riccardo Fanciullacci. A seguire, dalle 15, con il coordinamento di Maria Livia Alga, interventi di Wanda Tommasi, Carla Lunghi, María-Milagros Rivera Garretas, Annarosa Buttarelli e Paolo Gomarasca.
il manifesto
Il secondo volume dei «Meridiani» curati da Liliana Rampello raccoglie i romanzi composti da Jane Austen a Chawton: di Persuasione (concluso nel 1816) propone un capitolo cancellato e completamente riscritto, che mostra un indizio rivelatore…
Si può pensare che ai lettori di “Nuovi Argomenti” l’idea non fosse dispiaciuta, se nella primavera del 1959 il direttore Alberto Moravia decide di riproporre la stessa formula sperimentata tre anni prima: nove domande rivolte a dieci intellettuali. Invece che politico in questo caso l’argomento è letterario, non si parla dello «stalinismo» ma del «romanzo». Risponde per primo Giorgio Bassani, il secondo è Italo Calvino. La guerra tra neorealismo e neoavanguardia si direbbe lontana; il caso della stagione è Il Gattopardo. In autunno Calvino conclude con Il cavaliere inesistente la sua araldica e massimamente fantastica trilogia I nostri antenati. Il questionario finisce con questa domanda: «Quali sono i romanzieri che preferite e perché?».
Calvino è generoso, ne indica più di venti. Trova per ognuno motivazioni brillanti, spesso fulminee; le stringe con un’anafora che imprime alla sua risposta il ritmo di una filastrocca. Tra tanti scrittori le scrittrici non sono che due e anzi una, maestra assoluta nell’arte del racconto, di romanzi non ne ha mai pubblicati: «Amo la Mansfield perché è intelligente». Cosa vuole dirci Calvino? Che di solito le scrittrici proprio intelligenti non sono? Oppure che lei è solo intelligente? Si tratta di un elogio o del suo opposto? Il lettore è perplesso, si sente anche un po’ sciocco, indeciso se l’affermazione sia più o meno lusinghiera di quella che la precede: «Amo Jane Austen perché non la leggo mai ma sono contento che ci sia». Qui il gioco diventa più provocatorio e ambiguo. Calvino intende dire che non ha mai letto Jane Austen o che ritiene inutile rileggerla? E perché allora è contento che «ci sia»? Lo rassicura pensare che oltre a chi ha narrato battaglie e viaggi per mare esista una signorina capace di raccontare balli e cestini da lavoro e tazze di tè? Il pregiudizio, più che l’orgoglio, è un sostantivo ostinato e non solo in letteratura.
La più perfetta artista tra le donne
«Che genio, che integrità bisognava avere davanti a tutta quella critica, in mezzo a quella società puramente patriarcale, per insistere coraggiosamente nella realtà così come la vedevano gli occhi di una donna!» aveva scritto esattamente trent’anni prima Virginia Woolf a proposito di Jane Austen, secondo lei «la più perfetta artista tra le donne». Talmente «perfetta», inafferrabile nel mistero della sua cristallina profondità e della sua affilata leggerezza, nella sua imperturbabile lucidità di sguardo, nella sua irridente modernità che spiace pensare a quanto si è perso Calvino. Se esiste una delizia, anzi una gioia più grande di leggere Jane Austen è la possibilità di rileggerla, una seconda volta e ancora e ancora. Io non sono solo contenta che «ci sia»: mi sembra che il mondo sarebbe intollerabile, più difficile il destino femminile, se non ci fossero i suoi libri. Per avvicinarli o ritrovarli, in questo duecentocinquantesimo anniversario della nascita, il lettore italiano può cogliere la magnifica occasione offerta dall’uscita nei Meridiani del secondo e ultimo volume di Romanzi e altri scritti (Mondadori, pp. LVIII-1616, € 80,00), curato come il primo (2022) da Liliana Rampello e ugualmente affidato per la traduzione dei romanzi alla mano di Susanna Basso.
Se la rilettura si addice a Jane Austen, e se un’esperienza immersiva come quella proposta dai Meridiani non potrà non rivelarsi prodiga di scoperte inattese, la traversata del secondo volume regala forse a chi vi si avventuri una felicità più intensa. La cesura tra i due volumi, naturale poiché allo stesso tempo letteraria e biografica, coincide tanto con l’abbandono nel 1801 della casa di Steventon dove Austen era nata, quanto con la morte del padre, avvenuta quattro anni dopo. I tre romanzi raccolti nel primo volume, qui disposti secondo l’ordine della loro stesura, furono composti prima che il reverendo Austen decidesse di cedere la canonica al primogenito James per stabilirsi con le due figlie e la moglie a Bath. Malgrado un paio di tentativi, a quell’altezza l’autrice non era però riuscita a pubblicare nessuno dei tre: li riscriverà tutti e tre dopo il 1809, quando troverà con la madre e la sorella un’abitazione definitiva a Chawton, nel cottage offerto alle tre donne dal fratello Edward.
A distanza di molti anni e molti cambiamenti Jane Austen ultima dunque in una redazione completamente nuova prima Ragione e sentimento (1811) e poi Orgoglio e pregiudizio (’13), pubblicandoli entrambi anonimi con il solo appellativo “a Lady”. Tornerà più tardi a lavorare anche su Northanger Abbey, venduto a un editore nel 1803 con il titolo Susan, rimasto inedito e da lei riacquistato nel ’16. Dell’ultima revisione di quel libro, in cui muta anche il nome della protagonista, non si sentirà tuttavia mai soddisfatta, tanto che nel ’17 confiderà all’amata nipote Fanny di averlo messo «in un cassetto» senza sapere se lo avrebbe tirato «più fuori»: uscirà infatti solo dopo la sua morte a cura del fratello Henry insieme a Persuasione (1818). Il primo Meridiano, al cui centro sta incastonata l’opera più celebre di Austen, riunisce dunque tre romanzi su cui l’autrice ha esercitato per un periodo davvero lungo la pratica della rilettura. Genesi e stampa si collocano dentro spazi anche interiori distanti tra di loro, i tempi della storia non solo letteraria si evolvono; mentre lei stessa cambiava con il secolo, Jane Austen ha potuto indugiare sulla pagina e ancora ripensare. Il titolo di Northanger Abbey è congetturale così come il suo testo rispecchia uno stadio non definitivo di revisione; né stupisce il riverbero che il molto citato dialogo sulla narrativa irradia verso le pagine iniziali dell’incompiuto Sanditon, cui Austen dedicò nel 1817 gli ultimi mesi in cui la malattia le consentì di continuare a scrivere.
Fanny, Emma, Anne: coscienza di sé
Oltre a Sanditon, il secondo volume raccoglie i tre romanzi composti a Chawton in tempi molto ravvicinati: Mansfield Park (’14), Emma (’15) e Persuasione, concluso nel ’16. Per quanto l’universo narrativo di Jane Austen sia compatto, la rilettura degli ultimi libri svela un’opera non granitica ma elastica, attraversata da variazioni tonali e mutamenti atmosferici, sottoposta a un’inesausta ricerca espressiva. Veramente, come sosteneva Woolf, se l’artista «perfetta» non fosse morta a quarantadue anni «avrebbe inventato un nuovo metodo, chiaro e misurato come sempre, ma più profondo e più suggestivo, per esprimere ciò che la gente dice, ma anche ciò che non dice: non soltanto ciò che la gente è, ma ciò che la vita è». Tutte le protagoniste sono chiamate a rivedere i loro giudizi, emendare i loro comportamenti, rileggere le loro aspirazioni. Non fanno eccezione Marianne e nemmeno Elinor, non certo Elizabeth né Catherine: è del resto il senso di ciò che Liliana Rampello ha definito il «romanzo di formazione femminile» inventato da Jane Austen. Ma la differenza climatica tra la turbolenza primaverile dei due primi romanzi – il temporalesco Ragione e sentimento come il lussureggiante Orgoglio e pregiudizio – e la quiete degli ultimi tre – la bruma invernale di Mansfield Park o il fulgore estivo di Emma o il crepuscolo autunnale di Persuasione – suggerisce una trasformazione in atto, una diversa postura espressiva e una nuova tensione stilistica, una più ardimentosa creatività. Ha senso che tanto le pagine di Mansfield Park quanto quelle di Persuasione siano percorse dall’aria del mare e imbevute di salsedine.
Benché tra loro molto dissimili, Fanny, Emma, Anne condividono una coscienza di sé ignota alle prime due protagoniste: «io sono diversa dagli altri» dice Fanny, «la mia è una mente piena di risorse indipendenti» dice Emma, «devo credere di aver avuto ragione» dice Anne. Con l’eccezione di Emma – capace tuttavia di riconoscere per prima la propria «cecità» e di vedere benissimo se frena la fantasia – le tre ragazze rileggono se stesse trovando una conferma invece di smentirsi. Soprattutto non si rileggono mai in funzione esclusiva dell’amore (il matrimonio diventa una fine sempre più accessoria nella trama di Jane Austen), ma di un equilibrio interiore in cui oltre alla felicità delle relazioni contano la soddisfazione di sé e la serenità della coscienza. Sono tutte capaci di plasmare il loro destino leggendo da sole dentro il proprio cuore: sanno rivolgere gli occhi al passato e guardare attraverso la memoria.
Più o meno a metà di Mansfield Park la ragazza Fanny parla del tempo che fa crescere le siepi e le fa diventare boschi e parla anche della memoria che fa dimenticare che i boschi prima di essere boschi erano siepi. «È stupefacente, davvero stupefacente il lavoro del tempo, il mutare del pensiero umano!» dice aggiungendo dopo una pausa: «Se una delle nostre facoltà naturali può essere definita più stupefacente delle altre, io penso che sia la memoria». È davvero «stupefacente» che Jane Austen offra qui a una «figlia della cenere», come l’ha definita Antonia Byatt, frasi che descrivono il percorso delle sue protagoniste dentro i loro libri e anche la qualità più propria della sua scrittura. Nei tre romanzi il ripensamento del passato e l’esercizio della memoria conducono non solo alla rassicurazione dei sentimenti e alla salvezza dalle insidie che la vita dissemina sul percorso di ogni ragazza, ma alla conferma di sé, all’autonomia, alla valorizzazione di una personale diversità. Mentre aspetta l’amica Harriet fuori da un negozio Emma guarda la strada: «Una mente attiva e serena può accontentarsi di non vedere nulla, e non vede nulla che non la soddisfi» chiosa l’autrice, che attraverso gli occhi della sua protagonista più dotata di «immaginazione creativa» e per questo più «pericolosa», come sostiene Penelope Fitzgerald, torna ancora una volta a parlare del proprio mestiere.
Il dialogo tra Anne e il capitano
Non esistono manoscritti dei sei romanzi canonici di Jane Austen. Si conservano però alla British Library, insieme al suo scrittoio portatile, gli autografi degli ultimi due capitoli di Persuasione. Numerati 10 e 11 (secondo l’originale suddivisione in due volumi), disseminati di interventi riconducibili a uno stadio di revisione addossato alla stesura, sono datati tra l’8 e il 18 luglio 1816. La redazione non coincide con quella a stampa: dopo avere scritto, cassato e riscritto la parola «Finis» interpolando un intero capoverso, Austen rivede minutamente il capitolo 11 (che diventerà il 12) e ripensa da cima a fondo il 10.
Ne modifica gli eventi, lo amplia fino a sdoppiarlo, assembla dentro una struttura completamente rinnovata le battute principali del dialogo tra Anne e il capitano Wentworth. In appendice al secondo Meridiano il lettore troverà in traduzione anche il vecchio capitolo 10, la cui trascrizione fu resa nota per la prima volta dal nipote James Edward Austen-Leigh. Si tratta di una vera sorpresa. A proposito della «scena straordinaria» che si svolge al White Hart, osserva Elizabeth Bowen: «nel suo genere, la suspense costruita in Persuasione è la più intensa possibile in narrativa». Di quella scena però non c’è traccia nel capitolo manoscritto. Aggiungendo un giorno intero alla trama, collocando il colloquio decisivo tra Anne e Wentworth non durante una cena ma nel corso di una passeggiata, Austen fabbrica lo spazio per inserire nel testo l’intera sequenza della locanda che consente a entrambi i protagonisti di avere più tempo per decifrare le loro emozioni e scrutare dentro il passato.
Permette in particolare ad Anne di prendere la parola e affermare che gli «uomini hanno avuto ogni vantaggio» rispetto alle donne nel raccontare la loro storia poiché «la penna è da sempre nelle loro mani», ma che le donne hanno il privilegio «di amare più a lungo, anche quando la vita o la speranza sono finite».
In tre settimane Austen ripensa l’intera zona conclusiva di Persuasione e compone una scena inedita offrendo alla sua protagonista tanto il coraggio di afferrare il proprio destino quanto la lucidità di scolpire frasi definitive sulla vita e la scrittura femminile. Vediamo l’autrice assumere una posizione differente nei confronti del suo romanzo: lo rilegge da un punto prospettico nuovo. Dopo la scena al White Hart il dialogo tra Anne e Wentworth lungo la strada verso Camden Place non è in sostanza troppo diverso da quello stabilito nella redazione precedente. Austen aggiunge però un dettaglio di valore solo in apparenza neutro. Il complimento rivolto dal capitano ad Anne sul suo aspetto fisico, immutato malgrado il passare degli anni, figura già nel vecchio capitolo 10: però in questo caso l’autrice sembra avere dimenticato che all’inizio del romanzo Wentworth si era espresso in modo opposto, per lui Anne era «talmente cambiata che non l’avrebbe riconosciuta». Riscrivendo l’attuale capitolo 11 l’autrice al contrario ricorda e non solo inserisce l’indispensabile richiamo, ma aggiunge un commento pieno di echi: «il valore di quell’omaggio era indicibilmente accresciuto dal confronto con le affermazioni precedenti, perché capiva che era l’effetto e non la causa del riaccendersi in lui dell’amore». Eccola qui la mente della scrittrice che si rilegge, ne percepiamo il fervore mentre guarda all’indietro il testo appena finito. Trasforma la “gaffe” in una riflessione sottile, acquerella per Anne un’emozione delicata, crea un’intercapedine in cui dispiega con abilità vera di miniaturista la sua straordinaria comprensione del cuore umano. Ha detto Woolf che «di tutti i grandi scrittori lei è la più difficile da cogliere nel momento della grandezza»: ora però quella grandezza possiamo toccarla, se ne sta sigillata dentro una variante.
«La sera saremmo disperati se non fosse per Jane Austen» scriveva dalla Svizzera più o meno un anno prima di morire l’“intelligente” Katherine Mansfield a sua cugina Elizabeth von Arnim. «La stiamo rileggendo tutta. È una di quegli scrittori che andando avanti sembrano non solo migliorare ma rivelare deliziose qualità del tutto nuove». Possiamo sentirla sospirare mentre aggiunge: «che rara creatura!». Lei e il marito John Middleton Murry avevano cominciato da Emma, ma da qualunque romanzo il lettore decida di cominciare la sua felicità sarà esattamente la stessa. Ci sentiremo “disperati” solo quando arriveremo alla pagina in cui il testo di Sanditon si interrompe; là dove la “rara creatura” ci ha congedato lasciandoci orfani.
da il manifesto
Sono trascorsi cinquant’anni dalla prima apparizione di Le rire de la Méduse (nella rivista «L’Arc», n. 61) di Hélène Cixous, segnando in quel 1975 uno spartiacque, non solo nel femminismo francese che nel 1972 conosceva Il corpo lesbico di Monique Wittig e nel 1974 Speculum, di Luce Irigaray – autrici, insieme ad altre, per Cixous più che presenti. L’occasione di leggere oggi in italiano – per la prima volta in volume, seguendo l’edizione Gallimard apparsa in Francia pochi mesi fa – Il riso della Medusa (Feltrinelli, pp. 80, euro10), è un evento. Grazie alla traduzione e alla cura critica e sapiente di Francesca Maffioli*, raffinata studiosa dell’opera di Cixous (anche sulle pagine di questo giornale).
Intorno a una parola intera e sessuata si è concentrata l’autrice fin dagli anni Settanta, consegnandoci, nel tempo, decine di libri: saggi di teoria letteraria, di critica femminista, conversazioni e testi teatrali di una poetica segnata da una rara ricerca tra parola e linguaggio. Il risultato è una scrittura politicamente insorta, da pronunciare a voce alta. A Hélène Cixous, il primo ottobre a Madrid, sarà riconosciuto il Premio Formentor. E il 25 alla Maison Heinrich Heine – Fondation de l’Allemagne della Cité Universitaire di Parigi, avrà luogo una tavola rotonda sulla traduzione di Le Rire de la Méduse, in cui si celebrerà l’anniversario (1975-2025) dalla sua prima pubblicazione. La giornata sarà animata dalla professoressa Marta Segarra.
Nel suo libro, lei squaderna ciò che Freud racconta della Gorgone. Non è mortale, Medusa, e non ha alcun interesse né a farsi decapitare né a pietrificare alcunché. L’invito è a guardarla, la si scoprirebbe talmente vitale da illuminare una strada di liberazione imprevista.
«Secondo il mito quando guardiamo Medusa siamo pietrificati, e Medusa rappresenta una minaccia. La guardi e sei punito. Ne Il riso della Medusa ho cercato di non essere schiava del mito perché affermo effettivamente che è proprio guardandola che si comprende essere una leggenda quella della pietrificazione, dell’irrigidimento mortale.
È guardando che si ribaltano le sorti delle donne. Essendo viste. Intendo dire che il destino delle donne è sembrato essere irrimediabilmente quello di essere cancellate, l’effacement insomma, ed è invece propriamente guardandole che le loro e le nostre sorti cambiano. Le esistenze delle donne sono state annullate dal cliché per cui si passava dall’essere immaginate come ignoranti, a puttane, a megere e molto altro, ma senza guardare le donne per quello che sono, nella loro luminosa complessità. Scrivere questo libro ha significato a suo tempo anche fare dichiarazione di solidarietà nei confronti delle donne, perché negli anni Settanta, quando scrissi il testo, la scena dell’invisibilizzazione delle donne mi era parsa talmente generalizzata. Anche nel milieu della ricerca. Venendo dal Nord Africa mi domandavo: anche in Francia dunque non vogliono vedere che le donne esistono?
Il riso detta il ritmo di una irriverenza, sia per disallineare alcune delle ingiunzioni della psicoanalisi (almeno fino a Lacan) che per abbattere altre mitologie su cui si è costruita una donna a uso e consumo dello sguardo scotomizzante maschile. Tra le buone notizie, c’è però che «nulla ci obbliga a depositare le nostre vite nelle loro banche della mancanza». Dopo cinquant’anni, si potrebbe rispondere che sì, la Medusa ride ancora, soprattutto di questa sua abbondanza.
Al tempo della pubblicazione de Il riso della Medusa si parlava molto della “Mancanza”, e di Penisneid, dell’invidia del pene e dell’angoscia di castrazione. Al di là dei concetti psicoanalitici teorizzati da Freud si leggevano e si rileggevano i suoi testi, anche per scandagliare le ipotesi freudiane. Sì, è una buona notizia ed è vero, la Medusa ride ancora, certamente. All’epoca rideva e irrideva, trovando grottesca l’ipotesi per cui le donne avrebbero avuto invidia e fossero state vittime di questa “Mancanza”. Tuttavia dopo cinquant’anni la relazione delle donne con questa “mancanza” che era stata loro attribuita è cambiata, nel senso che dalla sola e necessaria ridicolizzazione di questa ipotesi siamo passate a redouter, a temere, e a cercare di difenderci. Penso al movimento femminista #metoo e alle modalità di reazione degli uomini coinvolti, perché in questo movimento contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne ho visto un vero e proprio tentativo d’insurrezione contro gli aggressori».
«Bisogna che la donna si metta al testo – come al mondo, e alla storia – di sua iniziativa». Il suo «manifesto femminista» si apre nella esortazione alla scrittura, che parte dal corpo e che è essa stessa corpo sessuato. Una tale esposizione, che genera forza e al contempo è tremante, è spazio di libertà e parola in cui chi scrive e chi legge si incontra?
«Questa domanda è molto importante perché mi pone un interrogativo a proposito della potenza della scrittura: un’arma davvero potente che si accorda al bisogno inesauribile di libertà. Non si tratta di un’arma assassina però, ma che illumina, anzi che rischiara. Non c’è bisogno di un’industria militare, bastano carta e penna. Anche il computer volendo, ma io preferisco dire ancora carta e penna. Con la scrittura si dispone di un sistema apparentemente più fragile, ma di una forza straordinaria perché essa penetra nell’inconscio dell’avversario. Alle donne è stata attribuita un’incapacità essenziale e quelle che, per ragioni diverse, hanno potuto scavalcare tale opprimente attribuzione hanno potuto anche manifestare uno sguardo pertinente e talmente acuto sul mondo. Intendo dire che ad esempio hanno saputo abbozzare un ritratto sociale del mondo e del posto occupato da ogni essere vivente e l’hanno fatto in maniera ardita e necessaria. In Francia se penso al XVII secolo, il Secolo Grande, il mio pensiero va agli scritti di Madame de la Fayette, o a quelli di Madame de Sévigné. In particolare quest’ultima, quando ritrae la corte di Luigi XIV, lo fa indirizzandosi alla figlia e attraverso di lei a tutte le donne lettrici. Per i secoli a venire penso a Georges Sand, e spostandomi nel Regno Unito a Emily Brontë, che sola, nella sua desolazione solitaria e desertica, scrive dei capolavori, e scrive per se stessa – e per le altre. Come lei anche noi siamo liberate dal testo. Nel senso che il testo ci libera e la scrittura (ci) permette di agire una libertà assoluta, perché di ciò sono convinta: non c’è più grande libertà che quella della parola».
Fin dagli anni Settanta, lei sostiene che l’immaginario delle donne, e delle scrittrici, sia inesauribile. Si aggiunga delocalizzato, poiché fluisce e “soffia”, quando va via per riemergere trasformato da un’altra parte insospettabile. Cosa ha significato il suo incontro con Clarice Lispector?
«Sì, l’immaginario delle scrittrici è inesauribile, a condizione che il suo soffio e il suo respiro siano liberati. E allora esso si apre all’inatteso. L’incontro con la scrittura di Clarice Lispector è avvenuto precocemente, nel 1975, quando in Francia era un’autrice poco conosciuta nonostante alcuni dei suoi testi fossero già stati tradotti. Una delle mie studentesse mi propose di scrivere una tesi sull’opera di Lispector e prima di accettare le chiesi di tradurmene qualche pagina. Ne fui folgorata. Capii senza esitazione che mi trovavo di fronte a qualcosa di straordinario. Spinsi affinché le Éditions Des Femmes la pubblicassero in francese e chiesi a Regina Prado di tradurre dei passaggi dei suoi libri per i miei Séminaires. Mi risolsi a imparare il portoghese brasiliano, non potevo non farlo. In quegli anni la scrittura di Clarice Lispector mi salvò. Mi sentivo incredibilmente sola, anche se certo mi sono sempre sentita accompagnata da Kafka, tuttavia la scrittura mi sembrava un luogo troppo pieno di uomini. Dopo Lispector fu il tempo di Ingeborg Bachmann a riconfortarmi. Insomma avevo bisogno che fossero delle scrittrici mie contemporanee o quasi a farlo, e accadde».
Nei suoi testi c’è una capacità di creare mondi, anche da brevi espressioni, parole o sillabe. Istanti o visioni, tra il sogno e la visitazione, che arrivano e si fanno presto carne sconfinata. Uno di questi esempi è «La nuotatrice aerea, l’involata». Del termine «voler», Francesca Maffioli spiega nella postfazione il doppio significato di volare e rubare e che poi sceglie di tradurre come «involare», ovvero «piombar sopra volando».
«L’omonimia, cioè la coincidenza sonora di parole diverse, è una delle grandi ricchezze della lingua francese. Derrida l’ha detto bene. Tuttavia l’omonimia è più o meno possibile, dipende dagli idiomi. La lingua e il linguaggio ci fanno costantemente dei doni, nel senso che ci dicono più di quello che noi abbiamo l’impressione ci dicano. Il linguaggio ha più di una portée. Ecco qui un’altra bella parola! Che indica ora la distanza percorsa, ora una cucciolata o uno stuolo di pulcini, ma che troviamo anche nel solfeggio musicale e pure altrove. Il significante, è lui che ci porta e il francese è una lingua portatrice. In effetti “voler” è anche lei una parola portatrice e generatrice di senso. Da una parte contiene il volare, il decollare nell’aria e dall’altra il rubare nel senso di appropriarsi ad esempio di un gesto altrui. La scelta in italiano di “involare” riesce a rendere questa polisemia e in particolar modo la rapidità del gesto, quello del volo in picchiata di un rapace. Tutti i traduttori e tutte le traduttrici de Il riso della Medusa si sono trovati di fronte al dilemma e alla difficoltà di rendere tale omonimia. Come Maffioli anche Eric Prenowitz, che sta curando la nuova traduzione in inglese del testo, ha cercato a lungo una parola che rendesse il doppio significato di voler, e ad esempio ha trovato “to lift”. Ecco allora, “La nuotatrice aerea, l’involata” contiene tutto ciò, perché è ora una fuorilegge, ora un essere capace di librarsi, libera, e di diventare una praticante dello spazio, una sua abitatrice».
(*) Grazie della collaborazione a Francesca Maffioli.
SCHEDA. In Italia, brevi cenni bibliografici
Nel 1997 Catia Rizzati traduce «Il riso della Medusa» in «Critiche femministe e teorie letterarie» (Clueb), a cura di Raffaella Baccolini, M. Giulia Fabi, Vita Fortunati, Rita Monticelli. Nel 1977, Luisa Muraro traduce «Ritratto di Dora» (Feltrinelli). Nel 2000, a cura di Paola Bono, esce per Sossella «Scritture del corpo. Hélène Cixous variazioni sul tema». Nel 2002, con traduzione e cura di Silvana Carotenuto e postfazione di Nadia Setti, esce per Bulzoni «Tre passi sulla scala della scrittura». Riguardo Setti su Cixous: si veda almeno «L’approccio di Clarice Lispector» (Dwf, 7, 1988); «Il teatro del cuore» (1992, Pratiche); «La mia Algeriance» (Dwf, 41, 1999); «Lettera a Zohra Drif» (Leggendaria, 14, 1999); «La scrittura in movimento di Hélène Cixous» (Diotima, 4, 2005). Nel 2001, a cura di Adriano Marchetti, postfazione di Monica Fiorini, per Il Capitello del Sole, «Esordi della scrittura». Nel 2012 Fiorini cura il libro di Derrida, «Hélène Cixous, per la vita» (Marietti)
da Letterate Magazine
La giornata di studi “Come quando si accende la luce. Il pensiero di Luisa Muraro” si terrà il 20 settembre a Milano all’Università Cattolica per mettere a fuoco il nesso tra vita, esperienza e pensiero, cifra distintiva della sua ricerca che spazia dalla centralità della madre, alle mistiche al dibattito teorico femminista. “Esserci davvero” è il libro in cui la filosofa colloquia con Clara Jourdan e ripercorre la sua vita
I generi letterari vanno stretti alle donne che desiderano esprimersi con autenticità e in relazione. Questo non restare in schemi dati può spingere chi legge a seguire il percorso inaspettato delle autrici coinvolgendosi in un confronto con la propria esperienza. Così mi è successo leggendo Esserci davvero, la conversazione tra Luisa Muraro e Clara Jourdan, che nella sua stesura scritta mantiene, grazie al lavoro editoriale di Marina Santini, la vivacità dello scambio in presenza; una conversazione che nel dispiegarsi diventa un’autobiografia di Muraro e un disvelamento, anche a lei stessa, dei legami più profondi che hanno mosso le sue scelte esistenziali e intellettuali.
Innanzitutto mi ha interrogato il suo rapporto con la scrittura come bisogno vitale per articolare il pensiero, per riuscire così a fare ordine simbolico dentro di sé, a riprendere la contrattazione con la madre e dunque con lo strato primario del suo vivere, e l’esperienza di provare, «quando la scrittura è riuscita, un senso di intimo, profondo, grande star bene, vicino a uno stato di felicità, di beatitudine» (p. 53). Ma anche la necessità per poter scrivere di avere a disposizione una domanda che motivi e autorizzi, una domanda che nasce da relazioni concrete all’inizio soprattutto con uomini e col femminismo con donne. E poi il lavoro sulla scrittura altrui che parte dal «passaggio da una cosa che è abbozzata, semipensata, ma vissuta, alla sua forma scritta» (p.13), pratica che le fa nascere l’idea di una “scuola di scrittura politica”, che dal 2006 Muraro porterà avanti, insieme a Clara Jourdan, per oltre dieci anni col nome di Scuola di scrittura pensante, a cui anch’io ho partecipato come allieva.
Partendo dalla concezione relazionale della persona, in questo dialogo biografico si delinea un percorso storico soggettivo dai primi anni quaranta del secolo scorso fino al 2003, anno in cui si è svolta la conversazione, dove pubblico e privato sono sempre connessi, dove Muraro si mette in gioco perché anche questa è per lei, come sempre, un’occasione di cercare senso a ciò che accade, un senso mai chiuso, consapevole di una parte di mistero che è la spinta stessa del cercare.
Tante sono le situazioni che emergono come illuminate da lampi di luce dallo scambio tra le due interlocutrici in cui si avverte fiducia, conoscenza reciproca e desiderio di scoperta. Impossibile accennarle a tutte. Alcune le ho sentite vicine alla mia esperienza perché me ne hanno mostrato sfaccettature nuove: l’infanzia nel Veneto cattolico con l’importanza del rapporto tra fratelli e sorelle all’ombra della potenza materna, la formazione del rapporto con la storia che entra nella quotidianità della cucina, l’inquietudine delle giovani dell’Università cattolica che anch’io ho frequentato, il sentirsi partecipe della storia nel Sessantotto a Milano, le riflessioni sull’educazione antiautoritaria de L’Erba Voglio e quelle più politiche della fucina dei Quaderni piacentini, e soprattutto il femminismo con la possibilità di esserci in prima persona in ciò che accade, «un esserci davvero». Nel libro ne ho potuto ripercorrere con le protagoniste momenti fondativi e di svolta, mai presentati in una piatta narrazione celebrativa: dal Demau alla Libreria delle donne di Milano, dalla scrittura di Non credere di avere dei diritti alla creazione della Comunità filosofica Diotima, dal rapporto con Irigaray a quelli con le femministe spagnole e all’insegnamento nel master di Duoda, dalla redazione della rivista “Via Dogana” alla genesi dei libri di Muraro, che in me hanno suscitato visioni e stimolato pratiche più felici. E la felicità che possono dare le relazioni tra donne nel femminismo traspare dalle fotografie in cui Muraro è ritratta sola, con altre o in gruppo.
All’enorme lavoro di creazione di senso attraverso la lingua nella seconda parte del libro è dedicata la ricchissima Bibliografia 1963-2024, che raccoglie non solo libri, articoli, saggi, atti di convegni, seminari, dibattiti ma anche interventi sul web, registrazioni audio e video, traduzioni e persino dattiloscritti inediti.
Mi soffermo inoltre sulla storia perché dovendola insegnare nella scuola media ne avvertivo la violenza ermeneutica, che escludeva o immiseriva le donne, e per questo mi sono dedicata anche alla ricerca storica. Muraro ha aperto strade: in La signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, ha saputo dai documenti dei processi per stregoneria far emergere la soggettività delle donne, facendone non solo delle vittime ma delle protagoniste come accadeva nei gruppi di autocoscienza, dove il dolore vissuto nell’oscurità di una non veniva cancellato ma risuonava nell’ascolto delle altre. E poi in Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista ha offerto un racconto storico in cui la storia di due donne della seconda metà del Duecento, di cui una aveva assunto grande importanza e l’altra ne aveva raccolto l’eredità, viene mostrata come «una storia di grandezza femminile, anche se finisce tragicamente» (p. 54), grazie a una narrazione a partire da testi storici, che dà spazio all’immaginario, senza violare le regole di correttezza storica, offrendo una delle possibili scritture storiografiche.
Un altro punto a me caro è il lavoro sulle mistiche, in cui Muraro delinea «la libera ricerca di Dio come forma di libertà femminile nell’Europa premoderna, ma anche nella scrittura femminile moderna e contemporanea» (p.82), mostrando, anche a me, la possibilità di sapere che c’è altro, che ogni impresa umana è caratterizzata da incompiutezza e che l’esaustività dei saperi costituiti è dunque una falsa pretesa. Inoltre le mistiche attribuivano, come accade nel femminismo, un primato alle pratiche, «che ha la preziosità che il posto delle cose non viene mai occupato dalle costruzioni intellettuali» (p.89). «Ciò fa sì che l’esperienza mistica femminile dia luogo a racconti, in Margherita (Porete) anche a speculazioni, ma non si trasformi mai in un concetto di Dio e in una teologia scientifica; resta sempre un discorso incompiuto, un discorso scandito da un indicibile, da quello che può capitare» (p.89). Una strada quella mistica in cui vi sono veri legami tra uomini e donne e spesso «uomini che si mettono alla scuola di donne» (p.87). Una riflessione pubblicata in diversi libri e che l’ha portata alla scrittura de Il dio delle donne, un dio detto in lingua materna, che rompe la convenzionalità teatrale di molti discorsi religiosi.
Infine sottolineo che l’intuizione della centralità della relazione con la madre, sviluppata ne L’ordine simbolico della madre, libro tradotto in diverse lingue e soprattutto sentito da molte come liberatorio del nostro amore per lei, mi ha permesso di rendermi conto dell’origine del mio modo di stare al mondo fuori dalle pretese universalistiche del patriarcato.
Molti altri sono gli aspetti messi in luce in questa conversazione che ha anche offerto una traccia preziosa quando, per i cinquant’anni dall’apertura della Libreria delle donne di Milano, si è pensato a realizzare un convegno sul pensiero di Luisa Muraro all’Università Cattolica di Milano, dove si è era laureata in filosofia della scienza e aveva iniziato a lavorare.
La giornata di studi, Come quando si accende la luce. Il pensiero di Luisa Muraro si terrà il 20 settembre. Promossa dal Dipartimento di Sociologia e da quello di Storia moderna e contemporanea dell’Università Cattolica, dalla Libreria delle donne di Milano e dalla Comunità filosofica femminile Diotima dell’Università di Verona intende rilanciare l’opera e la voce di Muraro, mettendo a fuoco il nesso tra vita, esperienza e pensiero, cifra distintiva della sua ricerca. Gli interventi rifletteranno sui suoi contributi alla filosofia del linguaggio, alla ricerca storica, agli studi sulla mistica e al dibattito teorico femminista per metterne in luce l’attualità politica. Anche solo dal loro elenco e dai nomi e provenienze di relatrici e relatori, che trascrivo sotto, si può cogliere l’interesse, anche internazionale, che Muraro suscita in ambiti diversi perché nell’ esserci davvero ha saputo uscire dagli schemi, aprendo squarci di luce sul sapere e sulle nostre vite.
Luisa per noi Vita Cosentino della Libreria delle donne di Milano
Saper amare la madre inizia alla filosofia Diana Sartori, Comunità filosofica Diotima
Madre, intuizione, senso Cesare Casarino, Minnesota University
Nell’interno muto e taciuto del moderno Ida Dominijanni, Centro per la Riforma dello Stato
Quello che lei pensa è pensiero per tutti. Il dialogo tra Muraro e Bontadini Riccardo Fanciullacci, Università degli Studi di Bergamo
Il femminismo milanese cattolico e la Libreria delle donne di Milano Carla Lunghi, Università Cattolica di Milano
Ciò che mi manca è il mio meglio. Libertà femminile e sapienza mistica Wanda Tommasi, Comunità filosofica Diotima
Nell’archivio femminile della storia María-Milagros Rivera Garretas, Università di Barcellona
La folla nel cuore Annarosa Buttarelli, Comunità filosofica Diotima
Dire e fare fuori sesto. L’attualità politica di Luisa Muraro Paolo Gomarasca, Università Cattolica di Milano
Queste due iniziative offrono dunque, con diverse modalità, la possibilità di avvicinarci o di approfondire il percorso intellettuale e umano di una grande pensatrice vivente e di attraversare con lei le vicende di un intenso periodo di cambiamenti epocali.
Il libro: Luisa Muraro e Clara Jourdan, Esserci davvero, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne 2025, pp. 264 – € 15,00
Il Convegno: Come quando si accende la luce. Il pensiero di Luisa Muraro
20 settembre 2025 – 10:30-18:30
Aula Sant’Agostino, Università Cattolica del Sacro Cuore di Gesù, Largo Gemelli 1, 20123 Milano
Il Convegno è rivolto a tutte e tutti, in particolare a docenti, ricercatori e ricercatrici, studentesse e studenti, donne del movimento femminista.
È prevista un’iscrizione gratuita attraverso il sito della Libreria delle donne di Milano: https://www.libreriadelledonne.it/
Per informazioni si può scrivere a: info@libreriadelledonne.it
da Il Sole 24Ore
Il libro qui recensito da Diego Marani è uscito in edizione italiana il 5 settembre 2025 con il titolo Un altro genere di potere per Baldini + Castoldi – collana I Fenicotteri, pp. 512
In un tempo in cui la politica sembra aver smarrito ogni vocazione al servizio, A Different Kind of Power, il libro con cui Jacinda Ardern riflette sulla propria esperienza di leadership, si impone come un testo controcorrente che rivela un modo dimenticato di impegno pubblico. Ex prima ministra della Nuova Zelanda divenuta simbolo globale di una leadership empatica e risoluta, Ardern racconta in queste pagine cosa significhi esercitare il potere senza cadere nella tentazione del culto di sé e soprattutto senza perdere la propria umanità.
Non è un’autobiografia né un pamphlet ideologico ma piuttosto una meditazione civile, in cui vita personale e responsabilità pubblica si intrecciano. Ardern racconta gli eventi epocali che ha vissuto, dall’attentato di Christchurch all’eruzione del vulcano Whakaari, fino alla gestione della pandemia, ma lo fa evitando ogni trionfalismo e celebrazione dei propri successi. A colpire è il tono: composto, essenziale, sempre rivolto al “noi” più che all’“io”. L’esempio dell’attentato di Christchurch è emblematico: la premier non tuonò contro il nemico che aveva vilmente colpito il suo pacifico Paese, non invocò repressione o vendetta. Indossò il velo in segno di rispetto, abbracciò le famiglie delle vittime, scelse parole di compassione e di vicinanza. Il Parlamento neozelandese in pochi giorni approvò una stretta durissima sulla vendita di armi. Un gesto politico deciso ma radicato in un’etica dell’ascolto.
Nel panorama occidentale e ancor più in quello italiano questo stile è l’opposto della logica politica dominante dove prevalgono l’invettiva, il marketing dell’ego e la costruzione permanente di nemici. La Ardern invece propone un’etica della responsabilità e della misura. Le sue decisioni, anche le più complesse, sono sempre ispirate all’interesse collettivo, mai al proprio tornaconto politico.
Il libro è attraversato da un altro filo conduttore: la maternità. Ardern è stata la seconda leader al mondo a partorire durante il mandato (la prima fu Benazir Bhutto) e nel raccontare questa esperienza non si sottrae alla complessità. Racconta un episodio illuminante: durante una riunione diplomatica fu costretta a interrompere i lavori per allattare la figlia. Lo fece senza esibizionismi né giustificazioni, con il senso tranquillo di una normalità che ancora oggi fatica a farsi spazio nella vita pubblica. In Italia, dove la leadership femminile è spesso costretta a mimetizzarsi sotto il codice maschile della “donna con le palle” – durezza, decisionismo, presunta infallibilità – Ardern offre un modello diverso. Non rivendica una “diversità femminile” astratta: dimostra, piuttosto, che si può essere leader senza sacrificare la propria interezza di donna, madre, persona.
Ma il gesto forse più potente di Jacinda Ardern è quello che conclude il libro: la rinuncia. Nel gennaio 2023 annunciò le sue dimissioni con una motivazione tanto semplice quanto rivoluzionaria: «Non ho più abbastanza energia per fare bene questo lavoro». Nessuna crisi, nessuno scandalo. Solo il riconoscimento dei propri limiti. Un atto inaudito nel nostro tempo dove i potenti proiettano nel potere tutto il loro narcisismo. Mentre da noi leader di ogni schieramento si aggrappano ad ogni carica in una occupazione ad oltranza di posti e poltrone che spesso sfocia nel logoramento delle istituzioni stesse, Ardern, al contrario, ha scelto di lasciare quando ha sentito che non poteva più dare il meglio di sé. Il libro non contiene mai toni moralistici, eppure muove indirettamente una critica durissima a questo modo di intendere la politica che vive di polarizzazione, semplificazione, esibizionismo. La sua risposta non è una “contro-narrazione” ma una prassi alternativa: concreta, silenziosa, composta.
A Different Kind of Power non è un manuale, e non pretende di offrire formule replicabili. È piuttosto una testimonianza, capace però di sollevare domande profonde: cosa cerchiamo davvero in chi ci governa? È possibile immaginare una politica che non sia guerra, ma cura? E soprattutto: siamo pronti a riconoscere il potere come responsabilità e non come possesso?
Nell’epoca delle leadership tossiche, Ardern ci ricorda che un altro modo di fare politica è possibile. Servono visione, coraggio e anche la forza di farsi da parte quando è giunto il momento.
dal Corriere della Sera
Trasporta le storie bibliche nella «brughiera lombarda», con una lingua che attinge ampiamente al dialetto. Qui Eva trascende sé stessa e si fa memoria, e memoria «vuol dire imparare oggi e domani da ieri»
Mi ha riportato al maggio 1993 Primamà di Laura Pariani: ai racconti del suo esordio con Di corno o d’oro e in particolare alla «ronda dei ricordi» del Carle’n, ambientati nella brughiera di quel territorio tra il Ticino e Magnago, e in quel dialetto milanes furestee (a dirla con il poeta Delio Tessa in trasferta da Milano) che tornano anche qui e con il consueto impasto linguistico-sintattico nel quale la parola scivola di continuo dall’italiano a quel dialetto, alla sua italianizzazione o alla deformazione dialettal-litanica, alla proverbialità contadina. E, però, con la significativa variante di i dónn che lasciano posto a le dónn, per un testo che ha a protagonista la primamà. Ossia Eva; e, con lei e attraverso lei, «il volto di tutte le donne», e «inevitabilmente il volto di tutte le nonnàve che ho conosciuto, la loro competenza in fatto di disgrazie, la sapienza nel contare le storie-belòrie della brughiera lombarda, nonché la fede antica nella Mamagrànda della Préa Krüa che conforta le donne che si rivolgono a lei nel bisogno». Un’Eva raggiunta attraverso un lungo giro di lune, grazie alla «ronda del ricordo» che ha quali tramiti «Nonna Giuàna, la paziente», «Biszia Marién, l’audace» e la «mapuche» «doña Rosa, la sapiente». Un viaggio nel quale Laura stessa si fa personaggio direttamente interrogante anagrammandosi in «Ràula-storta», per «infine con tutti quei dubbiosi suoni di memoria» comporre questa «storia-belòria per conservare alle generazioni future l’immagine di Primamà».
Un approdo, quello a Primamà nel quale «rivive dall’interno» le storie bibliche, che ne fa il vertice della sua storia di narratrice. E ne viene un’Eva letteralmente strepitosa, rivisitata «con l’esperienza di millànta inverni sul gobbo», sino all’incontro col Tristo Trappoliere, e proprio mentre la Famiglia intera decide per l’abbandono di quel paese Senzanome, fatto di «cabáne nere e mute», e «dove sotto il peso degli inverni crudi le cabáne si sfasciano e le febbri strozzano i bambini, e rende taciturne».
Una Eva che nel raccontare le sue «storie-belòrie» ai piccoli, al tempo stesso si racconta: da quella nascita nel paese Senzapaura della quale ha il solo vago ricordo «di una grande mano che la rivoltolava nella polvere e un acre odore di fango»; alla cacciata di lei e Adam da quel «Onnipòssio-di-lassù infastidito dalla frégola di carnalità da cui loro due erano stati presi nei prati argentati». Quell’Adam Primopà dalla «mania soffocante di controllare tutto» impiccatosi a quasi mille anni poco tempo prima «al grande nùs, quella pianta che per tutta la vita gli ha dato noci e olio e ombra».
E i tanti figli: a partire da Kaìn che, «suggestionato dalle raccontazioni di Eva», ha scelto di occuparsi di piante, arbusti, semenze; e Abel, dal «carattere malmostoso e tuttonervi», tutto dedito alla caccia, come il padre; e l’omicidio: non per gelosia e qualità dei doni offerti a Dio, ma, assai più umanamente, come reazione di Kaìn al bullismo gratuito e sempre più pesante di Abel. E poi l’allora «giovane Matusalèm – un gambecorte malmostoso» che decide di invertire «l’antica legge, da sempre osservata, secondo la quale le persone più deboli vanno protette» reclamata a gran voce da Eva, in nome dei «tempi che kambiano» e impongono l’obbedienza «alle decisioni della Ragunànza degli òmm!», per i quali «ogni disastro che accade nel paese Senzanome sta nella volontà dell’Onnipòssio-di-lassù che comanda con un rigore smisurato contro cui non c’è difesa».
Una legge maschile alla quale Eva e le «primefiòle» oppongono «i suggerimenti di Mamagrànda-di-laggiù, che viveva nelle profondità della terra e dell’acqua», da lei generate. Una Guardiana del mondo-di-sotto che riceve «le maloròse» «in una radura di brughi e lischi nel folto della brughiera», presso la Préa Krüa verdazzurra, e che quando appare loro «sembra una forma nebbiosa che fluttua nel fogliame» (capovolgendo al femminile Esodo, come avverrà pure con Matteo per le Beatitudini e Giovanni per la «veste» cinta da «qualcun altro» da vecchi).
Una Eva dalla «vista gùzza, passo silenzioso e sapienza di segreti» che «ne ha viste tante di dónn maltrattate; e sempre ha cercato di intervenire, separare, far ragionare», e che «quando apre la bocca, tutti tacciono fascinati, sentendosi risvegliare nel cuore un fondo di insospettate memorie». E ne vengono storie che incrociano miti, realtà terrene di violenza proprie di ieri e di oggi, sogni e desideri, nelle quali serpeggiano le domande di sempre su bene e male (le morti di bambini), colpa e giudizio, «pietà» e «klemenza»; e l’interrogazione su quella verità che «è difficile dire cosa sia, niente è fisso, tutto muta senza alcun preavviso», tanto da convincersi «che non si possa dire la verità delle cose».
Che è quanto fa di Eva ben più che un personaggio. Perché Eva è la Memoria. Memoria che «vuol dire imparare oggi e domani da ieri». Ed «è una vera grazia che la memoria custodisca le immagini di chi non c’è più. E non solo l’immagine, ma anche il suono delle loro parole e risate, il soffio tiepido del loro alito, l’odore forte di resina e fumo che ha sempre impregnato l’affollata cabána delle dónn, il profumo lattoso che emanava dalla pelle dei piscinèl».
da L’Altravoce il Quotidiano, rubrica “Io Donna”
Il libro di Annie Ernaux Gli anni, considerato il suo capolavoro, è il magistrale racconto di una storia soggettiva e di una intera generazione di donne in cammino verso la propria libertà nella cornice di fatti ed eventi storici lungo un arco di tempo che va dal dopoguerra alla metà del primo decennio del nuovo millennio. Un libro pensato e preparato per molti anni, che decide di scrivere quando in lei si fa viva l’impressione che «più aumenta la distanza che la separa dalla perdita dei genitori, più si avvicina a loro» e «la paura che invecchiando la memoria torni ad essere nebulosa e muta come nei primi anni dell’infanzia – anni di cui non si ricorderà più». Scrive per salvare «qualcosa del tempo in cui non ci saremo mai più». «Tutto si cancellerà. Sarà il silenzio. Nelle conversazioni saremo soltanto un nome, sempre più senza volto, finché scompariremo nella massa anonima di una generazione lontana.» Ciò che conta per lei «è afferrare la durata che costituisce il suo passaggio sulla terra in una determinata epoca, il tempo che l’ha attraversata, il mondo che ha registrato in sé semplicemente vivendo». E così si immerge con la memoria dentro un lungo percorso di cambiamento di sé e delle donne della sua (mia) generazione che cambiando se stesse hanno cambiato la società patriarcale in cui sono nate e cresciute, le idee, i comportamenti, le credenze, le sensibilità, il rapporto tra i sessi, consegnando alla generazione “venuta dopo” un mondo più libero, per donne e uomini. Ricostruisce con la memoria soggettiva una memoria collettiva di «un tempo comune, quello che è trascorso da un’epoca lontana sino ad oggi, per restituire […] la dimensione vissuta della Storia», ciò che ha conosciuto e vissuto. Man mano che ci si allontana dagli anni del dopoguerra si perdono i racconti a tavola della guerra e dei bombardamenti, di chi li aveva vissuti e visti. «Nei tempi andati di cui si narrava c’erano soltanto guerre e fame.» Torna la memoria di lei negli anni Cinquanta, anni di speranza, quando «le persone potevano contare su un’esistenza migliore» e le madri riponevano le loro speranze per le figlie nello studio e nel lavoro. «Quella gioventù sana di figli e figlie della Francia avrebbe dato il cambio alla generazione precedente, uscita dalla Resistenza.» Centinaia gli eventi e i fatti di cronaca ricordati e di cui è stata testimone e a volte protagonista come le elezioni presidenziali, l’ascesa al governo della sinistra, la delusione e l’avanzata della destra, il Maggio francese del ’68, le manifestazioni contro la guerra, da quella in Algeria, colonia francese, al Vietnam fino all’Afganistan dopo l’11 settembre, la caduta del muro di Berlino, la dissoluzione dell’Urss e l’ascesa di Putin. Intanto le donne si liberano del controllo maschile sui loro corpi e sulle loro vite, a cui Ernaux negli anni si era ribellata, pena la disapprovazione sociale. La rivoluzione femminista mette tutto in discussione: i rapporti sessuali fuori dal matrimonio non fanno più scandalo come anche una ragazza madre, il matrimonio per le donne diventa una scelta e non più un destino, la convivenza non è più proibita, così il divorzio, la pillola anticoncezionale e l’aborto, arrivare vergini al matrimonio non è più una virtù. «Per la prima volta ci figuravamo la nostra stessa vita come una marcia verso la libertà.» Le ragazze studiano più dei ragazzi, si laureano e lavorano, vanno ovunque, nel mentre viene avanti la “società dei consumi”, nascono i centri commerciali e la Tv si impone come fonte di verità. «La generazione successiva alla nostra, le ragazze in prima linea insieme ai ragazzi» manifestano contro il razzismo, la guerra e per salvare il pianeta. Storia del (nostro) passato e del (nostro) presente che il libro Gli anni, con cui mi congedo da Annie Ernaux, ci restituisce in tutta la sua complessità.