Da La Stampa – Tuttolibri – La ricercatrice indipendente Vanessa Roghi, nata nei primi anni Settanta, ha seguito l’impulso di rintracciare nella propria biografia La Parola Femminista, titolo scelto per il suo ultimo libro (Mondadori). Ha trovato nostalgia e grazia, ha dedicato pagine adorabili alla sua famiglia, alla sua infanzia, alla mamma Irma. Roghi è una di quelle figlie e figli di femministe che hanno passato ore a colorare nelle Case delle Donne, tenute per mano o nei passeggini alle manifestazioni, addormentate sui divani durante riunioni appassionate, assorbendo anche ciò che non capivano. Oggi alcuni di loro sono immediatamente riconoscibili, nutrono un rispetto guardingo verso quelle madri e le loro amiche, e hanno un intuito eccezionale nel circumnavigare asperità e suscettibilità femministe. E il femminismo ha talvolta depositato in loro fantasie meravigliose, tanto che nel libro di Roghi, oltre ai ricordi dell’autrice, si trovano le testimonianze delle sue coetanee, tipo quella di Barbara, nata nel 1973 a Viareggio, che dice: «Io volevo essere femminista, ma anche elettricista», siccome ha una grande ammirazione per i compagni che allestiscono la festa dell’Unità. Roghi ha genitori irregolari e bizzarri, nonni accudenti, cresce in provincia, a Grosseto, ed è iscritta alla Fgci. Si stupisce perché nel Vocabolario delle ragazze comuniste del 1988 la parola “femminista” non si trova. Non c’era del resto traccia, nel Pci di fine anni Ottanta, di nessuna delle istanze rivoluzionarie che avevano cambiato la storia del nostro Paese, e della sinistra di classe le cui macerie ancora fumavano al centro della scena, macerie di cui ben presto anche il comunismo, e il Pci, avrebbero fatto parte.

Per maneggiare questo oggetto imprevisto, il femminismo, Roghi fruga nella memoria e nei libri altrui. Il sondaggio di argomenti disparati è il suo mestiere, attraverso fonti e letture vuole ricostruire una storia femminista eppure, nella sostanza, le rimane misteriosa, non ha pratica concreta dello sprofondare e riemergere, del coltivare pensiero e relazione insieme. Restare a lungo appartate, andare e venire dall’estraneità è ritmo essenziale della politica delle donne; la parola femminista può nascondersi ma resta infrangibile, non si piega al conformismo dei tempi, non è affatto «tornata sulla bocca di tutti anche grazie all’attivismo di persone non binarie e di identità queer che hanno dato nuova linfa a un movimento che era scomparso dall’orizzonte politico». Al contrario, quella parola indica un’esperienza di tante che non smettono di desiderare e creare, salvando le vite pure di quelle che non lo sanno. La fine del patriarcato dura secoli, non è un pranzo di gala, scriveva Luisa Muraro su Sottosopra nel ’95, quando per Roghi eravamo in letargo, in attesa del messianico “queer”. Sempre Muraro: «Se qualcuno o qualcuna vi dice che questi sono tempi brutti, chiedetevi di chi è questo pensiero […]. Da anni, anzi da secoli e forse da millenni, vi sono state donne che hanno desiderato la fine del controllo maschile sul corpo femminile fecondo. E che hanno agito e parlato di conseguenza, pronte a cogliere o inventare ogni occasione per avanzare in questo senso».

Da Morel voci dall’isola

Trame di nascita. Tra miti, filosofie, immagini e raccontidi Rosella Prezzo propone di “ricominciare dall’inizio” e riflettere sull’esperienza della gestazione e del parto/nascita facendo di questa origine il luogo relazionale e trasformativo della vita singolare e comunitaria.

La cancellazione della nascita, dell’inizio che è relazione, ha condotto a una cultura che si è illusa di poter affermare la vita negando la fragilità e la dipendenza reciproca.

Il testo, ricco di riferimenti filosofici e artistici, guarda alla nascita come la prima forma di trasformazione esistenziale e indica un altro modello di con-vivenza e azione in ambito etico e politico in cui è la relazione, non la soggettività individuale a essere al centro. Se partiamo dalla relazione e dal corpo, partiamo da un concetto che si individua e diviene sé stesso grazie alla relazione. […]

Comincerei col chiederti del titolo Trame di nascita, dove la nascita lungi dall’essere un fatto singolare viene già inserita all’interno di una pluralità, le trame, sottolineando in questo modo la portata relazionale e “politica” di questo evento originario. Scrivi: «Interveniamo in una storia già iniziata, come entrando in un teatro, a sipario già levato, cercando nella semioscurità il nostro posto e sforzandoci di afferrare la trama che si sta svolgendo». E ancora: «La nascita come evento è un agire trasformativo e trasfigurante, in cui si con-viene al mondo, nella originaria e comune non-autoctonia e non-autosufficienza». Che ruolo ha la dimensione dell’attesa e dell’essere attesi nel nascere?

Premetto che, più che un libro sulla maternità, ho voluto scrivere un libro sulla nascita. Sull’evento cioè che riguarda ciascun essere umano, ci riguarda tutti/e: un duplice evento attraverso cui si è messi al mondo (passività) nel momento in cui si viene al mondo (azione attiva).

L’attenzione portata all’evento inaugurale (nella sua concretezza) della comune condizione umana mi ha permesso di formulare significati di senso e valori simbolici mai elaborati prima dal pensiero, che ha sempre privilegiato invece la morte come oggetto di meditazione, di senso e simbolo (già presente nella definizione stessa di “umani” = “i mortali”). Da qui:

1) l’origine umana è relazionale (non si nasce mai da soli);

2) nessuno possiede la propria origine, perché bisogna passare per un corpo altro (di una donna) per esistere (è perciò del tutto infondata e assurda l’idea che ci sia prima un Io autoctono);

3) Non siamo gettati-nel-mondo, come ha affermato l’esistenzialismo heideggeriano, ma siamo sempre figli di un’attesa;

4) quindi, l’ospitalità precede la proprietà;

5) il/la nato/a è un ospite atteso, che però disattende l’attesa, perché chi arriva non è mai quello/a che ci si aspettava, che ci si immaginava che fosse;

6) il primo riconoscimento della madre verso il figlio è un riconoscimento di amore («voglio che tu sia»).

Tutte questi aspetti ridefiniscono la condizione umana sotto un’altra luce e indicano un altro modello di con-vivenza (hanno quindi una valenza anche etico-politica).

Il termine ‘concetto’, nell’etimo latino, ha infatti una costellazione semantica diversa dal tedesco Begriff che è prevalso a partire dalla filosofia classica tedesca. Se l’etimo di Begriff rinvia all’afferrare (greifen), il latino conceptus rimanda anzitutto a una forma concava che è capace di raccogliere e quindi al corrispettivo verbo concipio, che ha come significato originario quello di “rimanere gravida” e poi anche quello di “accogliere qualcosa nell’animo, nel pensiero, nel sentimento”. Da qui il significato di un concetto che anziché all’“afferrare”,“assoggettare”, rimanda piuttosto all’“accogliere”, “ospitare”. In questo senso, concepire non vuol dire appropriarsi di qualcosa, ma fare spazio a esso. Trovo questa riflessione all’interno del saggio assai preziosa per il discorso che svolgi. Mi piacerebbe una tua considerazione in merito.

Mi sembra già implicito in quanto dicevo prima.

Nel 1976 Adrienne Rich con Nato di donna tematizza il dato corporeo affermando che si nasce inevitabilmente da un corpo di donna. Rich mette tuttavia in guardia dalla maternità intesa come modello ideale fungente da esempio di altruismo e sacrificio, che fa scomparire l’esperienza della maternità nella sua complessità e contraddittorietà. La madre sublimata cancella la donna reale. Questo è un nodo centrale anche per gli innesti di pensiero e azione che porta con sé. Qual è la tua posizione alla luce dei dibattiti attuali? C’è una convergenza tra le considerazioni del tuo testo e quanto affermato da Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo nel loro Donnasinasce(e qualche volta lo si diventa)?

È proprio indagando l’esperienza reale della nascita e della maternità che ne ho estratto significati differenti rispetto a quelli che la società patriarcale ha attribuito per secoli alla maternità come “destino” delle donne e loro confinamento nella vita privata, ma anche rispetto a certi miti regressivi della Grande Madre.

Per quanto riguarda il dibattito attuale, non mi piace l’atteggiamento diffuso per cui prima ci si schiera (come nel tifo calcistico) e poi si cercano argomenti a proprio favore. Compito del pensiero è cogliere i cambiamenti, fornire una lettura critica della realtà e certo, prendere anche una posizione di conseguenza. Uno dei temi oggetto di questi schieramenti è la presunta dicotomia tra il biologico e il culturale. Credo che nell’umano non ci sia niente di puramente biologico né, all’inverso, credo che siamo solo delle costruzioni culturali. Per es., il nutrirsi è qualcosa che riguarda il corpo ma quanti modi ci sono che danno al cibo e al consumare un pasto significati e ritualità simboliche differenti?

Sulla Gpa ho espresso le mie critiche perché penso che non abbia tanto a che fare con una libertà femminile conquistata ma che sia l’espressione di un sistema economico e di profitto in cui la produzione ha inglobato anche la riproduzione umana. Di conseguenza, ritengo che l’attuale dibattito sulla gravidanza per altri (soprattutto per altra, bisognerebbe sottolineare) sarà presto superato da una questione ben più grossa: l’utero artificiale. Nei processi “lavorativi”, infatti, come mostra la storia, a un certo punto le macchine sostituiscono il lavoro umano (anche quello che è diventato il “lavoro riproduttivo”). Non ho motivi per non pensare che sarà così anche in questo caso. Dovremmo perciò cominciare a rifletterci per non ritrovarci di fronte a situazione di fatto, da cui poi è difficile tornare indietro. Anche perché ciò andrebbe a intaccare quella differenza fondamentale per cui si diventa madre “all’interno” del proprio corpo, e padri “al di fuori” del proprio corpo.

Proseguendo il gioco di Cavarero e Guaraldo, potrei dire aggiungere «madre non si nasce, si diventa (e non sempre)», e sulla base non solo della differenza di cui parlavo prima, ma anche sul fatto che per qualsiasi donna arriva sempre il momento della scelta di diventare o meno madre. Una scelta che per fortuna, grazie anche alle lotte delle donne, è una libera scelta (sappiamo pure che è sempre minacciata e quindi va difesa).

«La scena era occupata soprattutto da figlie in rivolta, che comprensibilmente non volevano essere come le loro madri oppure volevano dare all’autonomia femminile una legittimazione teorica attraverso una figurazione astratta della madre. Essa veniva allora scelta nella ricostruzione di una genealogia culturale e di pensiero (“le madri di tutte noi”), che si rivelava peraltro ricca ed entusiasmante, al fine di riscattare il proprio genere dal silenzio della Storia». Trovo che questa rivolta delle figlie, per quanto comprensibile e importante, sia anche una ferita o forse meglio una cicatrice che ha impedito ad alcune di sperimentare le potenzialità plurali e sfaccettate della relazione con la madre, occultata talvolta anche dall’imperativo egualitario della sorellanza.

La lotta delle donne nata da un movimento di liberazione da stereotipi, ruoli codificati e differenze gerarchiche derivanti da un sistema di privilegio e dominio maschili, comprendeva necessariamente la profonda critica al modello di donna-madre come unica meta da raggiungere per essere una “vera donna”. Certo questo ha fatto passare in secondo piano il fatto di ripensare in altro modo la maternità ma soprattutto l’elemento comune agli esseri umani (uomini e donne) di venire al mondo attraverso un corpo di donna. Il richiamo alla “sorellanza” credo sia invece un elemento fondamentale, e ancora di più oggi, in una società dall’individualismo sfrenato e dove cui si ammantano dell’aggettivo femminista donne che hanno semplicemente acquisito potere, ma solo per sé. Hanno cioè sostituito un uomo nella medesima posizione di potere. Credo infine che ogni nuova generazione deve portare qualcosa di nuovo e di suo nel mondo in cui si trova a vivere e a pensare.

Da Leggendaria

Il volume del 2024 dei Quaderni di Via Dogana raccoglie in forma stampata quarantotto interventi, frutto di un dibattito aperto sulle pratiche femministe e la loro evoluzione svolto per mesi in presenza e online

Ci sono libri che aprono prospettive e permettono a donne e uomini di agire in modo imprevisto nel mondo. Lo fanno perché sono frutto del pensiero dell’esperienza che scaturisce da relazioni di stima coltivate nel tempo e di apertura attenta a sempre nuovi incontri. È quello che accade con Femminismo mon amour. Pratiche femministe per donne e uomini, nato nella Libreria delle donne di Milano, che nel 2025 compirà 50 anni.

Trentanove autrici e autori compongono un mosaico di quarantotto interventi, rivisti, ampliati e altri inediti, legati alla rivista Via Dogana 3. Via Dogana è la storica rivista della Libreria delle donne di Milano, che dal 2001 si è spostata dalla centralissima via Dogana 2 a via Pietro Calvi 29. Col numero 111, dal significativo titolo Le donne sono ovunque, la rivista cartacea ha chiuso e nel 2015 è diventata on line ad accesso libero nel sito della Libreria delle donne col nome di Via Dogana 3.

Oggi ogni numero nasce da una proposta, elaborata da una dozzina di donne della redazione ristretta che individua un tema e invita di volta in volta un paio di interlocutrici o interlocutori, i cui interventi iniziali avviano un libero confronto in presenza e in collegamento on line coinvolgendo più di un centinaio persone. L’invito alla redazione aperta è pubblicato sul sito e chiunque può partecipare, anche dall’estero. Al termine del confronto di circa tre ore viene richiesta la scrittura di alcune riflessioni che, vagliate dalla redazione ristretta, verranno via via pubblicate fino a quando il numero della rivista verrà chiuso con l’invito per la redazione successiva. La rivista da quest’anno ha una nuova veste grafica più leggibile che permette anche di consultarne l’archivio. (https://puntodivista.libreriadelledonne.it/via-dogana-3/).

La storica pratica femminista del partire da sé riconosce e scarta forme ideologiche precostituite e ripetizioni di formule che cancellano la singolarità e livellano lo sguardo: è fondamentale per questa impresa. Del resto la Libreria è un luogo di relazioni in cui, fin dalla sua nascita, si riflette sulle pratiche che le donne hanno inventato e inventano per stare nel mondo.

Nei quattro capitoli del libro si mettono appunto in luce pratiche politiche femminili con uno sguardo che rivisita quelle storiche, mostrandone alcune continuità e variazioni nel presente; si testimoniano pratiche messe in atto da giovani donne; si riconosce dove l’azione politica conta sulla potenza trasformatrice dell’esserci e dell’agire in relazione con altre e altri, come, ad esempio, quella della popolazione di Crotone dopo il tremendo naufragio del febbraio 2023 a Cutro.

Perché pubblicare un libro se gran parte dei testi sono consultabili in rete?

Esiste una politica che trasforma il mondo a partire dalla soggettività con innegabili risultati. Infatti la rivoluzione femminista continua ed è stata l’unica vincente e non cruenta del Novecento. Comunemente si intende per politica quella che coincide col potere e la lotta per la sua conquista, la politica di partiti, sindacati, elezioni, ecc., non basata sull’invenzione di pratiche ma su un’organizzazione gerarchica e sulla rappresentanza. Come scrive Vita Cosentino: «In questo momento non circola abbastanza, soprattutto tra le persone giovani, l’idea che le pratiche sono la strada maestra per fuoruscire da un regime simbolico e anche dalle forme politiche maschili. […] Quando ne abbiamo discusso nella nostra redazione ristretta, una giovane ha detto: “Solo ora con questa discussione ho capito cos’è una pratica”» (p. 65).

La scommessa del libro è quella di offrire uno strumento per aprire confronti pubblici che permettano di riconoscere la politicità delle pratiche già esistenti.

Nella prima parte Autocoscienza ancora, dopo lo sguardo di Linda Bertelli e Marta Equi, su cos’è l’autocoscienza per Carla Lonzi e Rivolta femminile, si mostrano attraverso racconti di esperienze personali gli elementi di continuità e di modificazione di questa pratica oggi, riconoscendoli, ad esempio, nel #MeToo, nei nuovi gruppi promossi da Daniela Pellegrini, nelle modalità del podcast A day in a Female Life-Racconti di ordinaria violenza, creato da Angelica Pirro e Silvia Protino, nel blog de Le Compromesse, nelle Comunità di storia vivente. Non vengono proposti modelli o tecniche, ma le pratiche femministe offrono l’opportunità di un’inestinguibile ricerca di senso e si modificano nel tempo.

Nella seconda parte Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche si vedono i limiti sempre più evidenti della politica istituzionale, come dimostra il forte tasso di astensionismo e il diffuso senso di impotenza che genera la società della prestazione con la spinta a un individualistico autosfruttamento. Ma, come nota Lia Cigarini, la politica sta cambiando e, se i partiti, come li abbiamo conosciuti, mostrano uno scenario desolante, invece il movimento delle donne, quelli ecologisti, l’associazionismo attivo, il volontariato sono la nuova politica che trasforma e crea civiltà, a partire dai desideri, dalla messa in gioco soggettiva e dalla forza delle relazioni. Nel confronto/conflitto col potere se viene concesso uno spazio per attività come flash mob, manifestazioni, eventi culturali, è invece difficile contendere lo stesso spazio, lo stesso oggetto del desiderio di chi ha potere. Tuttavia, come suggerisce Maria Castiglioni delle Giardiniere di Milano riprendendo le figure di Antigone e Ismene, il potere non è un monolite, è possibile accerchiarlo, aprendo relazioni senza preconcetti, oltre gli schieramenti tradizionali, «un lavoro continuo di dilatazione e di esplorazione di reti, relazioni, prospettive […] che implica un di più di pensiero quando dall’altra parte c’è una donna» (p.74). Oppure, cogliendo le suggestioni di Sarah Polley nel film Women Talking, a volte occorre avere la forza e il coraggio di andare via insieme alle altre per non sprecare preziose energie «quando il contesto di vita e di lavoro si presenta refrattario a ogni ragione femminile» (p.70), come scrive Annarosa Buttarelli. Sono alcune tra le tante indicazioni che emergono dal libro.

Nella terza parte Orientarsi con l’amore si valorizzano pensieri ed esperienze presenti nel femminismo della differenza grazie soprattutto a Luisa Muraro, di cui è pubblicato Intelligenza dell’amore, un inedito in italiano, dove si mette in luce la condizione umana universale, segnata dalla mancanza, la cui accettazione ci apre agli scambi con l’altro, secondo un’economia centrata sulla relazione e sull’amore: «l’amore non teme di essere trovato mancante, poiché è la mancanza che gli dà nuova energia» (p. 108). Molte sono le indicazioni sull’amore come forza in grado di trasformare la dimensione politica. Indico solo le illuminanti riflessioni di Chiara Zamboni sulle differenze tra amicizia, amicizia politica e relazione politica, riprese anche in altri interventi, e l’importanza politica dell’amore di sé, proposta da Jennifer Guerra attraverso il racconto della sua esperienza.

Il libro si conclude con È ora di cambiare uno spazio rivolto soprattutto agli uomini in cui alcuni, in dialogo con le donne presenti, riflettono in modo sincero e profondo sulle difficoltà che molti incontrano nel dissociarsi dalla violenza. Una presa di parola suscitata dal momento aperto da Elena Cecchettin e suo padre, dopo l’uccisione di Giulia, momento di svolta nella consapevolezza che la struttura patriarcale, anche interiorizzata, sostiene i femminicidi.

Ad esempio, Marco Deriu sottolinea il legame fra le varie forme distruttive della cultura maschile e dell’idea di potenza e virilità, come l’invasione russa dell’Ucraina e la guerra di posizione, l’attacco di Hamas e l’invasione/distruzione israeliana di Gaza, i femminicidi. Si interroga su che cosa significa oggi per gli uomini stare di fronte alla libertà delle donne, come non sentirsi sminuiti o minacciati, ma «fare di questa libertà un’esperienza di apprendimento, […] anche per il proprio modo di amare, sentire, stare nel mondo» (p.132). E testimonia come nella sua vita la libertà femminile sia libertà per tutti. Massimo Lizzi riflette, a partire dalla propria interiorità e dall’osservazione di comportamenti di altri uomini, su Gli ostacoli interiori ed esteriori della dissociazione maschile dalla violenza, come dice il titolo del suo intervento.

Tra i molti contributi, segnalo l’inedito Domande per il presente in cui Ida Dominijanni argomenta con la sua consueta precisione come la violenza misogina, il virilismo bellico, le politiche di attacco alla libertà femminile «sono sintomatiche non di un rinnovato vigore ma di una destabilizzazione del patriarcato, che reagisce violentemente alla ferita che gli è stata inferta dalla libertà e dall’indipendenza simbolica femminile» (p.167).

È questo un libro indispensabile per donne e uomini in cerca di parole e forme politiche fuori dalle narrazioni e dalle modalità correnti per trovare energia e invenzioni trasformatrici del presente.

Redazione di Via Dogana 3 (a cura di), Femminismo mon amour. Pratiche femministe per donne e uomini, Quaderni di Via Dogana,Libreria delle donne di Milano, 2024, 173 pagine, 12,00 euro.

(Leggendaria n.167, settembre 2024)

Voilà qui je suis.

(Barbara Pravi)

Anche a me è capitato di recente di trovarmi nella parte scomoda di chi viene frainteso e guardato con sospetto. Eravamo con le mie bambine in una libreria e ragionavamo attorno ad una storia illustrata per bambini che avevano tirato fuori dallo scaffale delle letture consigliatissime, del perché il principe era una principessa; dell’aspetto volutamente ambiguo di una delle due principesse, né troppo femminile né troppo maschile, ma piuttosto un po’ maschile e un po’ femminile; del perché fosse poi sempre la solita storia di riscatto di una principessa, anche se stavolta ad aiutarla era un’altra principessa. Della vergogna che nessuno dovrebbe mai farti provare, del destino che non dovrebbe essere una pagina scritta, dell’amore e delle sue multiple forme e del rispetto che dovrebbe informare ogni amore. Soprattutto ragionavamo della confusione, sì, la gran confusione a cui una storia così esponeva loro e tutti gli altri ragazzi. Ma non è stato tutto questo ad attirare l’attenzione della coppia forse omosessuale, forse no che era seduta proprio accanto a noi; una di quelle coincidenze assurde, anche perché erano italiani come noi in un caffè libreria in cui tutti gli altri parlavano francese. Mi sono girata e li ho distinti solo quando ho captato quelle parole sdegnate che provenivano dalla loro direzione: «una di destra». Parole seguite alle mie con cui spiegavo alle ragazze proprio con le parole della filosofa Adriana Cavarero che esiste un dato biologico, che per nascita i sessi sono due, che ci sono casi di intersessualità, eccetera, eccetera. Giusto per fare un po’ di chiarezza nello sguardo sperduto e interrogativo delle bambine. Perché dire queste cose oggi è politicamente scorretto, peggio, è reazionario. Se gli avessi detto che sono piuttosto di sinistra, da una vita, non mi avrebbero creduto; se gli avessi detto che sono femminista, da una vita, mi avrebbero dato della “TERF”, femminista bacchettona e omofoba… meglio rimanere zitta, non dire niente. Del resto a me le etichette, le sovraidentità, gli schieramenti che ti collocano nettamente di qua o di là, non sono mai piaciuti. Situazione grottesca, piccolo fastidio per non aver dato sfogo alla mia impulsività, libro riposto nello scaffale e siamo andate via con una storia di fantasmi. Erano “i morti”, meglio conosciuti nel colonialismo linguistico angloamericano come Halloween.

Nel 2019 la filosofa e attivista americana Judith Butler scriveva tra le altre cose un articolo intitolato “Sex and Gender in Simone de Beauvoir’s Second Sex”. Il saggio di Cavarero e Guaraldo, Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) è anche una risposta alla posizione di Butler, distante da quella di Cavarero ma in dialogo serrato. Al rileggere il testo di Butler mi sento di affermare che in fondo il punto di partenza di Butler e Cavarero è lo stesso. Perché quel punto di partenza è insormontabile. Anche per la pensatrice americana, Beauvoir distingue chiaramente il “sesso” femminile, dato incontrovertibile, e quello che poi dopo di lei è stato chiamato “gender”, concetto introdotto dal pensiero anglosassone, dai gender studies, e usato oggi à tort et à travers [a proposito e a sproposito]. Il sesso è il dato anatomico, mentre il gender è il significato culturale che sesso e corpo femminile acquisiscono o piuttosto subiscono nel sistema androcentrico. Butler lo riassume con una espressione felice in cui c’è il corpo e quello che viene dopo: body’s acculturation [‘acculturazione del corpo’]. Il sesso anatomico (femmina/maschio) è il locus, il corpo in cui ci costruiamo come individui e in cui avviene anche la costruzione del genere che è un processo costante, discontinuo, casuale e volitivo di appropriazione, riappropriazione, interpretazione e reinterpretazione del nostro corpo e delle possibilità culturali (spesso limitanti, veri e propri tabù e restrizioni) che riceviamo. Il femminile, la femminilità (vergine, moglie, madre, ma con corpo ammiccante e desiderabile, puttana, traditrice, ecc.) è una manipolazione culturale del nostro corpo di donna; non esiste un comportamento “naturalmente” femminile (debole, instabile, bisognosa di protezione, ecc). Being female and being a woman are two different sorts of things1, scrive Butler. Come tale il genere o identità sessuale è innaturale, acquisito, immaginato, percepito (all gender is by definition unnatural2). Possiamo anche concedere a Butler che per divenire un certo genere non è necessario essere di un certo sesso.

Butler scrive: one is one’s body from the start, end only thereafter becomes one’s gender3! La stessa Butler scrive nero su bianco che the masculine pursuit of disembodiment is necessarily deceived because the body can never really be denied4! Il corpo sessuato sta lì, dall’inizio, anche per Butler. L’anatomia è un limite (o piuttosto una possibilità), una restrizione ma è anche il punto di partenza, inevitabile, semplice e necessario. Subito dopo però Butler si mangia la coda e continuare dicendo che questo punto di partenza sarebbe fittizio perché è anch’esso il frutto di quella attività volitiva costante di crearci e generarci, rinnovarci incessantemente. Né uovo né gallina.

Il sé è un’unità fragile che si proietta e desidera incessantemente ma a un certo punto di quello che è un difficile processo di accettazione bisogna però anche scegliere: quello che siamo sarà anche la somma degli atti che abbiamo compiuto. Sarà come ogni narrazione, anche la più “disordinata”: qualcosa di compatto. Che lo vogliamo oppure no, il divenire, la vita implica una progressione nelle scelte e nei ripensamenti, una sintesi, il capitolo successivo, perché il dinamismo continuo implica anche dispersione e instabilità; perché se stessimo a compiere sempre la stessa scelta rimarremmo impantanati, fermi nella coazione a ripetere sempre la scelta del nostro genere, della nostra identità sessuale (altro che fluidità!). Quanto possiamo divenire nella costruzione della nostra identità come persona sessuata? Forse è questa la domanda. Ma i limiti sono fuori moda.

Per Cavarero il sé alla nascita è un’unicità incarnata dunque sessuata, assolutamente irripetibile: l’insostituibile che permane nel tempo («ogni essere umano è chi nacque e vive finché muore») piuttosto che la molteplicità dei nostri frammenti. L’identità che si costruisce sul chi è anche desiderio e promessa. E la parola porta e veicola il desiderio di identità e di unità. A differenza della visione del post-strutturalismo e del post-femminismo in cui l’identità è una chimera, si confonde e si perde nel linguaggio, non esiste senza il linguaggio, un linguaggio che sta finendo per censurare piuttosto che portare il nostro desiderio di unicità.

Poi, sappiamo, Butler (e con lei il femminismo post-strutturalista) compiono un salto logico da quella premessa che è l’interpretazione legittima dell’affermazione di Beauvoir ad una conclusione che resta la legittima ipotesi di Butler. E la dislocazione di genere (quando il genere non coincide con il sesso anatomico, in caso di disforia) diventa una specie di regola, di percorso necessario per ognuno di noi, per ognuna di noi (In these moments of gender dislocation in which we realize that it is hardly necessary that we be the genders we have become, we confront the burden of choice intrinsic to living as a man or as a woman or some other gender identity, a freedom made burdensome trough social constraints5).

Beauvoir non affronta il problema del genere che vogliamo divenire (in uno spettro fluido di possibilità non binarie) in caso di “gender dislocation”. Ma solo quello essenziale per il femminismo di allora e di oggi dell’alienazione e frustrazione che la femminilità, intesa come quel modo di essere donna confezionato dalla cultura patriarcale, impone alle donne. A lei interessa che le donne possano trascendere non il loro corpo sessuato, ma la lettura che di quel corpo è stata data dal patriarcato come l’altro, come il secondo sesso, come quel corpo “naturalmente” limitato e contingente. Che l’anatomia possa non essere un limite alle possibilità del genere, che il corpo non sia un fenomeno naturale, ma solo occasionale, che il corpo puro e semplice non potrà mai essere trovato, è solo l’ipotesi di Butler, non di Beauvoir. Beauvoir si muove nell’idea che i sessi sono due e in nessun momento suggerisce la possibilità di altri generi, oltre al maschile e femminile.

Cavarero e Guaraldo restituiscono al dato anatomico il suo peso, la sua realtà e necessità. Nulla toglie che dopo il dato anatomico (due sessi, uno femminile e uno maschile, oltre ai casi di intersessualità e transessualità), il corpo femminile o maschile diventino anche il luogo della costruzione del genere e delle altre identità attraverso cui il sé (il “chi”) transita (facendosi “che cosa”). In fondo Cavarero già sosteneva nel suo saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti, che siamo identità narrabili, quindi interpretabili, relazionali, quindi esposte allo sguardo altrui e al racconto altrui, perciò sempre diverse, costantemente dislocate. L’unità della nostra identità non è una realtà sostanziale ma appartiene solo alla sfera del desiderio. Eppure, seguendo il pensiero assolutamente originale di Hannah Arendt, siamo «questo e non altro». Laddove Butler attribuisce una varietà incommensurabile al fittizio essere un genere e insiste sul dinamismo nel campo delle infinite interpretazioni culturali, Beauvoir vedeva invece proprio nell’interpretazione culturale dell’essere donna una specie di prigione, fissa, bloccata, confinata in una sola interpretazione. Quello che diventiamo, che diventa la donna, è proprio ciò che la limita quando quella costruzione identitaria passa attraverso il colino della cultura patriarcale e fallologocentrica.

In “Donna si nasce” c’è un grande desiderio di riportare il femminismo a casa, in una sua dimensione, di ridare a questo femminismo, inglobato quasi dal movimento LGBTQ+ e che questa dispersività e l’aggressività del transfemminismo sembrano rendere “obsoleto”, una sua autonomia, un suo senso proprio. Oggi ancora più necessario.

Ma soprattutto c’è un gesto, sicuramente filosofico, che è forse ancora più importante della tesi portata avanti dalle autrici. Cavarero e Guaraldo si rivolgono alle lettrici e identificano quella lettrice con: tu ragazza dei nostri giorni. Non è un vezzo stilistico, un trucco o un artificio. Ma il gesto filosofico e politico del dialogo. Un capitolo ulteriore di quel percorso filosofico che passa per Tu che mi guardi, tu che mi racconti, di una teoria empatica. Quell’idea forte di reciprocità secondo la quale il sé sarà narrato dall’altro, quell’altra necessaria. In cui l’io (che è quasi più individualista e onnipotente che nell’etica androcentrica, sganciato dalla natura, che tutto può fare e rifare) si aprirà finalmente al tu.

“Tu ragazza” è un gesto potente di responsabilità, che smette di fingere che le cose siano risolte (tanto per dirne una, la storia di Gisèle Pelicot è dei nostri giorni). “Tu ragazza” si rivolge alle nostre figlie. Per tutte le volte in cui tua figlia, i tuoi figli sono trascinati nel “gioco” dei ruoli, per tutte le volte in cui hanno visto la loro madre mal sopportare un retaggio di autorità e paternalismo. Per tutte le volte in cui l’hanno vista perdere il terreno sotto i piedi. Per tutte le volte in cui quella ragazza si identificherà con sua madre. Per tutte le volte in cui sarà esposta a messaggi contraddittori e spesso superficiali sul suo corpo.

Tu ragazza non omologarti, sii politicamente scorretta. Tu l’unica capace di un rovesciamento radicale di prospettiva, oltre la cultura e la controcultura, oltre il bianco e il nero. Tu, smarginati!

1«Essere una femmina ed essere una donna sono due cose diverse.»

2«Tutti i generi sono innaturali per definizione.»

3«Una all’inizio è il proprio corpo, solo dopo diventa il proprio genere.»

4La ricerca maschile i disincarnazione viene necessariamente delusa perché il corpo non può mai essere veramente negato.»

5«In quei momenti di “dislocazione” in cui realizziamo che difficilmente ci serve essere il genere che siamo diventati, ci confrontiamo con il peso della scelta intrinseco al vivere come uomo o come donna o come qualsiasi altra identità di genere; una libertà resa gravosa dai vincoli sociali.»

Da il manifesto

«Più in là sugli scogli ricoperti di alghe che con la bassa marea sembravano animali dal pelo ispido che s’erano avvicinati all’acqua per bere, la luce del sole pareva facesse le piroette come una moneta d’argento buttata nelle diverse piccole pozze»: il mare ondeggia pigro mentre leggiamo righe di puro incanto, una scrittura che palpita tutta di una lingua lieve e precisa ad illuminare la natura di parole trasparenti.

È Katherine Mansfield, straordinaria scrittrice, la cui parabola intensa e troppo rapida ha occupato la scena del primo Novecento con l’inquietudine della sua enigmatica figura e con i suoi racconti, brevi e brevissimi, lievi e tragici, musicali e visivi, festa completa di ogni minima sensazione, di cui arriva ora in libreria una nuova raccolta, dal titolo perfetto: Pura felicità (Feltrinelli, pp. 336, euro 14). A restituire quel bliss inglese che è diverso da felicità e si fa parola di suono e colore: stringe a sé tutti i sensi, come raccontano in una loro nota Sara De Simone, che cura e introduce il libro, e Nadia Fusini che con lei traduce e ci accompagna nella lettura con un saggio che svela, in un mirabile arco, il cuore mitico e antico che questi racconti percorrono, da Freud fin dentro la modernità. Scrivere è «un’avventura dell’anima» dice KM. Ma lo è anche leggere, tradurre, commentare, e ne abbiamo prova nel lavoro appassionato e appassionante che ha legato di desideri due donne e la loro entusiasta editor, Anita Pietra, «in una fredda mattina d’autunno di due anni fa», intorno a lei, la scrittrice «nomade», quarta necessaria presenza d’amore per la scrittura del mondo, la sua rappresentazione artistica. «Tre donne intorno al cor mi son venute» ha cantato il poeta e non si può che essere felici che ora si tratti di tutte donne.

Nuove traduzioni di un classico, dunque, che non dimentica la qualità di altre traduzioni, come quella di Franca Cavagnoli, ma che ora propone nel suo indice una leggibilità che, saltando l’abituale cronologia, si dà subito come forma dell’interpretazione, guida nel labirinto affollato di «evocazioni visive» di una «incomparabile bambina», una «scrittrice eccezionalmente istintiva, fiorita» secondo Anna Banti, «una mente terribilmente ricettiva», secondo Virginia Woolf. La raccolta ora in libreria accoglie e va ben oltre queste parole, per i lunghi e diversi studi che entrambe le nostre autrici hanno alle spalle (per Fusini ricordo La figlia del sole: vita ardente di Katherine Mansfield, e Viaggio in Urewera, per De Simone la curatela di La vita della vita. Diari 1903-1923 e Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf: storia di un’amicizia) e permettono loro di presentare diversamente questa «prosa speciale», scarna e asciutta.

I racconti sono qui raggruppati in quattro sezioni, Il romanzo familiare; Amanti, amiche, sorelle; Donne sole; La vita, la morte: non «sovrastrutture tematiche» «ma tracce», che però indicano uno scenario in cui possiamo vedere meglio, o vedere differentemente. Sara De Simone nella sua introduzione ci fa conoscere l’essenziale della vita di KM, ne tratteggia un ritratto intenso, mai banale, ne disegna il coraggio nella ricerca della «vita nella vita», ci insegna a decifrare una poetica che vuole creare e non «rappresentare», fino al punto che «scrivere la cosa» sia «diventare la cosa», questo il «fremito di libertà» che KM assapora guardando i postimpressionisti, in particolare Van Gogh, e che la porterà a scrivere non del «bambino che giocava, ma la sua mano roteante nell’aria della sera», non di un albero, ma del «palpitare degli uccelli dentro la sua chioma». È con queste notazioni fra le dita che possiamo avvicinarci con più chiara consapevolezza a tutte le pagine di questi racconti, che stupiscono non per qualche effetto ricercato ma, al contrario, per quanto naturale appare, di colpo, l’inaspettato.

Nadia Fusini ci accompagna invece, con traduzione sapiente, nella lettura della prima sezione, legando tre racconti (scritti fra il 1917 e il 1922, Preludio, Alla baia e La casa delle bambole) a quel «romanzo familiare» che muove da Freud per dire della «delusione», del «trauma» che ne sono «il cuore», ma dire poi, ed è questa l’essenziale originalità trovata, di come la capacità «di stare nella lingua, di giocare con le parole, di usare la fantasia», rendono sopportabile il dolore, fino ad oltrepassarlo in creazioni meravigliose, che rielaborano la realtà in «mito». Tutto è trasformato in emozione estetica, emozione universale e catartica, è questo il miracolo che si compie nei racconti di KM., per questo ci scuotono e sorprendono e inquietano.

Ora abbiamo dunque due guide per inoltrarci nell’universo di Mansfield e affrontare, ad esempio, la potenza vertiginosa dei suoi finali, in cui precipita sempre il delicato e complesso montaggio di un insieme trasparente di dettagli, invisibili e numerosi, così che questa scrittrice sembra conoscere i segreti più nascosti della realtà, che riesca a bucare in una riga la ragnatela dell’apparenza dentro la quale siamo tutti catturati.

I suoi personaggi sono spesso voce, questo sono spesso le sue donne, ombre leggere ma potenti, «voce fioca dal pozzo profondo» di Linda con Stanley, il marito, o «voce speciale» se parla con la madre, o voce «che le donne usano tra di loro di notte», o ancora «voci calde e amorevoli come se condividessero un segreto» quando non c’è un uomo per casa, o sussurri spaventati, ammutoliti, dalla semplice ombra paterna. Le sue donne sono sguardo che tutto così racconta, come lo sguardo «fisso e scialbo» di Constantia, o quello della bambina Else, che vede «la piccola lampada» prima di sorridere tacendo, e straordinari sono bambine e bambini ogni volta che attraversano la pagina con grazia raramente raggiunta in altre scritture.

Si potrebbero ritagliare intarsi che raccontano di madri che non amano i loro figli, di nonne che lavorano a maglia e insegnano tranquille la vita e la morte a una piccola nipote, Kezia, che le si aggrappa al collo e la bacia «sotto il mento e dietro l’orecchio e a soffiarle sul collo».

Ogni donna da lei creata è differente, non dagli uomini, il che è ovvio, ma dalle tante rappresentazioni che affollano la nostra mente, la occupano, spesso la colonizzano con il già pensato, e KM, sottovoce, come è la sua scrittura, fa vedere quanto altro è reale e vero e bello, per lei che insegue bellezza e verità per vocazione.

Si sente ovunque in questa scrittura veloce, a volte febbrile, un temperamento letterario di raro valore, sempre bruciante, a volte quasi noncurante, come se a guidarlo fosse una stella polare che abita il cielo solo per lei, che lei segue da un margine che non possiamo vedere e che la rende unica. Unica nel creare una natura selvaggia che è solo ricordo di fiori e alberi che non vede più, ma nomina insistente a renderli sempre presenti, come l’eucalipto che appare «immenso: un enorme gigante con i capelli dritti in testa e le braccia spalancate», o nel colorare di rosa un cielo con «grandi masse di nuvole accartocciate» mentre in alto «l’azzurro sbiadiva; diventava oro pallido». Unica nella descrizione della morte per crudeltà di una mosca, che si batte, misera, contro una goccia d’inchiostro, o del gelo che accompagna l’affrettata simpatia di una signora verso il parrucchiere che ha perso la sua bambina, o della crudeltà di classe verso due bambine, le figlie di una lavandaia. Unica a farci intuire quello che della vita, di ciò che è o non è la vita, in un rapido balbettio possono comprendere un fratello e una sorella alla fine di una festa.

Nel non detto, nell’ellissi, KM mostra il meraviglioso nel quotidiano, che sia una festa in giardino, un canarino perfetto compagno di vita, la ritrovata giovinezza nella passione fra due donne, in un movimento incessante che cuce l’essere con il non essere, e travolge una ragazza e i suoi sogni di libertà, o «una donna raggiante, con le labbra frementi, sorridenti, e grandi occhi neri e l’aria di chi è in ascolto, in attesa di qualcosa di… divino che accada… che sapeva sarebbe accaduto… immancabilmente»: pura felicità. Pura e indimenticabile, come ogni pagina di questa maestra del racconto.

Rielaborazione dell’introduzione all’incontro con Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo, in Libreria sabato 30 novembre 2024.


Il libro Donna si nasce, di Adreana Cavarero e Olivia Guaraldo, recentemente pubblicato da Mondadori è un contributo importante al dibattito contemporaneo nel pensiero femminista. Offre molteplici livelli di lettura e, lasciandomi attraversare dai diversi temi posti, l’ho intrecciato con la mia esperienza di madre e femminista.

Parto dalla mia esperienza di madre di una figlia adolescente che, come tutte le giovani donne della sua età, si confronta con la complessità del proprio essere donna e con la ricerca del suo desiderio. La ricerca di sé, tipica dell’adolescenza, si colloca oggi in un contesto nuovo, segnato dall’avvento della libertà femminile, che ha scompaginato un ordine simbolico apparentemente immutabile, rimasto invariato per millenni. Le femministe hanno messo al mondo libertà, come ben evidenziano Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo in Donna si nasce, complicando ulteriormente le cose, ma soprattutto aprendo nuovi orizzonti.
Quando ero bambina sono stata cresciuta da una madre che, pur avendo l’età per essere femminista, non ha preso parte al movimento delle donne; ho sentito il retaggio di un’educazione che ancora attribuiva ruoli e regole rigidamente differenziati tra bambine e bambini. Per me bambina, queste norme diventavano più stringenti man mano che crescevo. Il desiderio di sfuggire a quel destino si configurava confusamente come desiderio di essere un maschio.
Crescendo ho incontrato il femminismo (ho cercato e trovato ciò di cui avevo bisogno) e ho scoperto la libertà femminile, che Luisa Muraro, in La sapienza di partire da sé, definisce come “la libertà di essere e agire in quanto donne, non secondo modelli maschili o neutri”. Questa libertà ha prodotto una trasformazione profonda nella relazione madre-figlia. Parlo a partire da me, riconoscendo tuttavia tratti comuni nelle relazioni madre figlia che vedo: il femminismo ha permesso alle figlie di vedere la madre come mediatrice di libertà, ovvero la madre è una figura dello scambio che non limita, ma media il rapporto della figlia con il mondo, come emerge nell’Ordine simbolico della madre di Luisa Muraro. È quindi una figura che offre senso e significato all’esperienza, permettendo alla figlia di radicarsi nella propria identità femminile.
Questa trasformazione è qualcosa che vedo incarnata nella relazione con mia figlia: il passaggio da un rapporto gerarchico a uno di riconoscimento reciproco, in cui la madre è un punto di riferimento e una guida verso la libertà. Fin da piccola mia figlia ha vissuto la consapevolezza del suo essere nata di sesso femminile e ne vedeva il valore attraverso i miei occhi. Si è anche scontrata con un contesto sociale che, ancora oggi, nega e omette il femminile. Ricordo, ad esempio, le sue decise proteste quando frequentavamo quella che allora si chiamava “Libreria dei ragazzi”: il maschile sovraesteso le faceva patire un’esclusione che non riusciva a comprendere. Mi piace pensare che la voce di dissenso di tante bambine come lei abbia contribuito a trasformare quel nome in “La libreria delle ragazze e dei ragazzi”, come è ora. È una piccola storia che riflette un cambiamento più grande, quello di una libertà femminile che si radica nella genealogia femminile e si misura con il mondo.
Racconto un altro aneddoto. Durante gli anni delle medie, mia figlia e un gruppo di sue coetanee appassionate di lettura hanno creato un blog in cui narravano le loro esperienze di lettrici. Ricordo una discussione che ebbero in una riunione su Zoom, in pieno periodo pandemico. Una di loro propose di presentarsi sul blog con la frase: “Siamo ragazz* che amano i libri e scriviamo per ragazz* che amano i libri”. Mia figlia fece notare l’incongruenza della formula. La proposta era motivata dalla volontà di non escludere nessuno.
Col passare degli anni, queste ragazzine sono diventate giovani donne attente e impegnate, soprattutto nei movimenti contro la violenza sessista e per i diritti delle persone LGBTQI+. Gli asterischi, che inizialmente erano stati oggetto di discussione, sono riapparsi nel loro linguaggio. Ritengo che non si tratti di un semplice esercizio del politicamente corretto, ma dell’espressione di questioni profonde: da un lato, la ricerca personale e spesso mobile del desiderio sessuale, che in questa fase della vita può essere indefinito o fluttuante; dall’altro, un profondo e personale senso di giustizia che i movimenti per i diritti civili hanno intercettato, essendo capillarmente presenti sui social tanto frequentati dalle giovani generazioni.

Tuttavia, come sottolinea Adriana Cavarero in una recente intervista con Jennifer Guerra, le teorie queer sono spesso state assimilate in modo quasi ideologico attraverso slogan, senza un adeguato approfondimento. Quindi il senso di giustizia arriva all’esito paradossale del ritorno al neutro, alla neutralizzazione della differenza sessuale. Quel senso di giustizia rischia di tradursi in un’ingiustizia verso loro stesse, negando la differenza femminile. È una dinamica che il libro di Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo affrontano i modo approfondito, essendo il ritorno al neutro non solo un dato linguistico, ma una questione simbolica e politica centrale.

Il libro Donne si nasce offre strumenti preziosi per posizionarsi nel disorientamento contemporaneo, rafforzando una posizione di apertura e ascolto senza rinunciare a ciò che considero fondamentale: il femminismo della differenza. Ed ecco la seconda prospettiva di lettura cui accennavo. Oggi, il femminismo della differenza è sotto un duplice attacco che ne mina la portata politica e simbolica.
Da un lato, i tradizionalisti neocattolici e la destra neofascista si appropriano del linguaggio della differenza per restaurare un ordine morale rigido e gerarchico. In questo utilizzo strumentale e reazionario, la differenza sessuale viene piegata a giustificare ruoli tradizionali per la donna ed eteronormatività, negando così la libertà femminile. Dall’altro lato, una gran parte dei movimenti LGBTQI+ critica il femminismo della differenza accusandolo di complicità con quel tradizionalismo, poiché considera l’esistenza dei due sessi una condizione fondamentale dell’umano, ed è interpretata da loro come una divisione binaria rigida.
Questa duplice pressione è frustrante. Il femminismo della differenza non è né una nostalgia di ruoli tradizionali né un’ideologia escludente: è una risorsa simbolica e incarnata che sta alla base della libertà di donne, uomini e altre soggettività. Non si limita a riconoscere la differenza sessuale, la assume come chiave interpretativa per ripensare le relazioni tra i sessi e costruire un ordine simbolico che offra alle donne senso, radicamento e libertà, una libertà sessuata, non neutrale, pienamente incarnata.
Il libro Donne si nasce ci offre un’importante riflessione su come riconoscere il valore della differenza senza cadere nelle semplificazioni del dibattito contemporaneo. Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo mostrano infatti con grande chiarezza come questa polarizzazione rappresenti una trappola ideologica. Il femminismo della differenza non ha mai difeso la “famiglia tradizionale”; al contrario, ha da sempre lavorato per sovvertire l’ordine patriarcale e costruire un nuovo ordine simbolico che riconosce la differenza sessuale come condizione di relazione e libertà, non di subordinazione.

Il libro si rivolge idealmente alle ragazze, accompagnandole con generosità attraverso la storia e i concetti del femminismo della differenza. Con un linguaggio chiaro e mai semplificatorio, offre strumenti per comprendere e interrogare il presente. Leggendolo, ragazze e ragazzi possono esplorare le molteplici fonti e approfondire i testi citati nei vari capitoli, proseguendo autonomamente il percorso di lettura e riflessione.
Ma Donne si nasce non si limita a parlare alle ragazze: è un testo prezioso anche per madri e padri che vogliono comprendere meglio il presente e trovare strumenti per dialogare con le figlie, imparando ad ascoltare e a pensare insieme a loro. È una lettura fondamentale per insegnanti e per chi è a contatto con i giovani, poiché aiuta a riflettere sulle sfide poste dal presente. È un libro destinato a tutte e tutti, per pensare al significato della differenza sessuale come dato storico, culturale e materiale, sfidando sia il determinismo biologico sia la dissoluzione nelle categorie identitarie. È uno strumento vivo, capace di orientare il pensiero e l’azione nel mondo complesso in cui ci troviamo a vivere.

Da l’Unità – Un’iniziativa, riscoperta dal romanzo di Viola Ardone, che portò migliaia di bambini dalle zone più colpite dalla guerra a famiglie più al sicuro. «Non esiste Nord e Sud, esiste l’Italia», recitava uno degli slogan.

Come se fosse un Erasmus per bambini, un progetto di scambio e solidarietà per riparare alla devastazione della II Guerra Mondiale. Li chiamavano “treni della felicità” quei vagoni che portarono migliaia di bambini dalle zone più colpite dalle bombe a famiglie che dal conflitto erano state meno danneggiate. Un’esperienza riscoperta grazie al romanzo di Viola Ardone, Il treno dei bambini, un grande successo tradotto in decine di lingue diventato un film presentato al Festival del Cinema di Roma in uscita il 4 dicembre sulla piattaforma Netflix, diretto dalla regista Cristina Comencini e interpretato da Serena Rossi, Christian Cervone, Barbara Ronchi e Stefano Accorsi.

Il progetto dei “treni della felicità” fu assemblato dall’Unione Donne Italiane (Udi) e dal Partito Comunista Italiano, partì alla fine della II Guerra Mondiale e andò avanti fino al 1952. Dalle città più colpite come Milano, Napoli o Roma, o da zone come Puglia, Sicilia, Polesine e Cassinate, bambini di famiglie poco abbienti o molto colpite dalla guerra e dalle sue conseguenze venivano assegnate ad altre famiglie in minore difficoltà, presso le quali restavano per il tempo di un anno scolastico o più. A offrire ospitalità non erano soltanto militanti del Pci o famiglie abbienti, spesso erano famiglie di contadini che figli già ne avevano. Di solito le destinazioni erano Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Liguria.

Il progetto di Pci e Udi: l’idea di Teresa Noce

Ideatrice del progetto fu Teresa Noce, partigiana che aveva preso parte alla Guerra Civile in Spagna con il nome di battaglia Estella, imprigionata dai nazisti, tra le fondatrici dell’Unione Donne Italiane, organizzazione nata a Napoli di donne antifasciste che avevano partecipato alla Resistenza con l’obiettivo di inserire i diritti delle donne nella Costituzione Italiana. Il progetto partì con le famiglie di “compagni” tra Bologna, Modena e Parma. Si trattava di sfamare, curare, vaccinare, pulire, educare, formare, istruire migliaia di bambini in condizioni di disagio. Molti erano figli di operai e contadini arrestati nelle manifestazioni represse con violenza dal ministro dell’Interno Scelba all’inizio degli anni ’50.

Se a partire erano fratelli, poteva capitare che venissero divisi tra più famiglie: un altro shock dopo l’iniziale separazione dalle famiglie di origine che poteva essere anche drammatico. «Non esiste Nord e Sud, esiste l’Italia», recitava uno degli slogan dell’iniziativa. Il divario era già evidente e cominciava ad allargarsi. Se decenni prima l’Italia si era unita nelle trincee, con i soldati fianco a fianco in guerra, quelli della Sicilia come quelli della Lombardia, i “treni della felicità” unirono l’Italia nella solidarietà.

Non mancava la propaganda dei partiti di destra o della Democrazia Cristiana che spaventava piccoli e grandi con la puntuale e immancabile leggenda dei comunisti che mangiano i bambini o con la minaccia della spedizione dritti dritti in Unione Sovietica. Quando arrivavano a destinazione e sentivano parlare nei dialetti del nord, alcuni davvero pensavano di essere arrivati a Mosca o in Siberia. E si rifiutavano perfino di scendere dal treno. Alcuni di quei bambini, orfani della loro famiglia, arrivati con i treni della felicità non tornarono mai più indietro. Altri tornarono per continuare il percorso scolastico.

Ardone ha preso questa esperienza dimenticata ed emozionante della storia della Repubblica e ne ha fatto un romanzo di grande successo, tradotto in decine di Paesi. Il protagonista è Amerigo, il bambino che parte da Napoli, lascia la madre nei Quartieri Spagnoli per il Nord, è lui a dare il punto di vista alla narrazione, l’io narrante. Circa 20mila bambini partirono da Napoli.

Pubblicato nel 2019 da Einaudi, 200mila copie vendute, tradotto in 35 lingue, Il treno dei bambini è stato un successo enorme che ha riportato alla luce un capitolo bellissimo, struggente ed emozionante, oltre che dimenticato, della storia italiana del dopoguerra. «A volte dobbiamo rinunciare a tutto, persino all’amore di una madre, per scoprire il nostro destino. Nessun romanzo lo aveva mai raccontato con tanto ostinato candore», recitava la quarta di copertina del libro alla sua uscita, un caso editoriale.

(unita.it 4 dicembre 2024, con il titolo: Il treno dei bambini: che cos’erano i “treni della felicità”, la storia vera del film, l’idea di Pci e Unione delle Donne nel dopoguerra)

Da il manifesto – Alias

La singolare concezione dell’attività letteraria di Annie Ernaux è esplicitata fin dal titolo del breve e intenso La scrittura come un coltello (L’orma, pp. 168, € 18,00), raccolta di una serie di interviste realizzate via mail, e concesse da Ernaux a Frédéric-Yves Jeannet – scrittore messicano di origine francese – tra il 2002 e il 2003, nelle quali l’autrice si sofferma con analisi dettagliate e appassionanti sulle motivazioni che stanno dietro la sua opera: i due interlocutori si riconoscono molto distanti l’uno dall’altra, con punti di vista lontani, quasi opposti, che paradossalmente – riconosce Ernaux – hanno permesso una grande libertà di espressione in obbedienza a un «duplice mandato di sincerità e precisione».

L’approdo a se stessa

Con grande lucidità e chiarezza, l’autrice ripercorre le tappe della sua vita e della sua scrittura, legate tra loro indissolubilmente. La conquista della propria voce, dichiara la scrittrice francese, si compie nel 1983 con Il posto: «In quel libro ho inaugurato una postura di scrittura, che mantengo tuttora: un’esplorazione della realtà esterna o interna, dell’intimo e del sociale in un unico movimento che si colloca al di fuori della finzione».

La sua presa di coscienza politica, a partire dalla posizione di “transfuga” che approda a una classe sociale più agiata di quella d’origine, fa maturare via via in lei il desiderio di voler realizzare con la letteratura «non più qualcosa di bello, ma innanzitutto qualcosa di reale». Da qui, la sua «scrittura piatta» che in una rastremata economia verbale intende restituire una realtà personale e collettiva, «perché in fondo di universale non esiste nulla». È in questo senso che la sua scrittura si fa «coltello», vera e propria arma e «atto politico», in grado di operare uno «svelamento e un cambiamento del mondo». Scrivere è nella concezione di Ernaux l’intrapresa di un’esplorazione rischiosa, che deve muoversi sempre “tra”: tra la letteratura, e la sociologia, tra la sociologia e la storia, allo scopo di giungere a quella che la scrittrice chiama «transustanziazione», ossia una «trasformazione di ciò che avviene al vissuto, a “me”, in qualcosa che esiste completamente al di fuori della mia persona». Questo passaggio si può compiere proprio grazie a quella lama affilata, la scrittura, che, abbandonata la funzione di specchio dell’Io, si fa ricerca di una verità al di fuori di sé.

Tutt’altro che narcisistica, la prosa di Annie Ernaux si investe della missione di salvare dall’oblio persone e cose. Eppure questo salvataggio della memoria non è mai scindibile dalla funzione della letteratura come scoperta: «Se dovessi dare una definizione di ciò che è la scrittura, sarebbe questa: scoprire scrivendo quel che è impossibile scoprire in altro modo, attraverso le conversazioni, i viaggi, gli spettacoli eccetera. O anche solo attraverso la riflessione pura e semplice. Scoprire qualcosa che non esiste prima della scrittura. E questa è la gioia – e la paura – della scrittura: non sapere cosa farà ergere, cosa farà accadere».

La lunga intervista è seguita da un «Aggiornamento» scritto da Ernaux dieci anni dopo, in un contesto generale profondamente mutato, e vale come dimostrazione di quanto siano rimasti fedeli a se stessi i principi estetici della scrittrice normanna nel corso del tempo, pur nella varietà dei territori narrativi esplorati.

Impietosa precisione

In chiusura, una nota del traduttore e editore, Lorenzo Flabbi, ripercorre la storia dell’incontro con l’opera di Annie Ernaux e l’approdo all’Orma fin dall’anno della sua fondazione. Le sue note alla traduzione del primo testo pubblicato, Il posto, sono preziose proprio perché illustrano le difficoltà nel rendere la precisione della “scrittura piatta” di Annie Ernaux e ne fanno comprendere la particolarissima fisionomia: «L’esattezza… La sua impietosa precisione priva di fronzoli, uno stile inconfondibile e anche, proprio in virtù della sua ricercatissima semplicità, massimamente fraintendibile».

Da la Repubblica

Osservatele bene, queste donne. Sorridono quasi sempre, anche quando invocano la rabbia. Sfidano l’obiettivo guardando dritte in camera, a volte sembra che lo vogliano sbeffeggiare, caricate a mille da secoli di sottomissione. Sono diverse le une dalle altre, alte e slanciate, piccole e tarchiate, ricce e lisce, giovani e vecchie, borghesi e proletarie, non c’è una estetica comune se non l’esibita noncuranza con cui indossano gonnellone, ponchos e maglioni peruviani. Possono alzare la voce e picchiare sui tamburelli ma generalmente danno l’impressione di essere serene, anche orgogliose di sé stesse, capaci di suggerire ricette su qualsiasi cosa, «dalla poesia al pollo arrosto», come scrisse Lidia Menapace, «le mani affondate nell’impasto del mondo per farlo diverso e migliore». Guardatele bene queste ragazze degli anni Settanta perché tra un girotondo, un concerto, una manifestazione e centinaia di slogan hanno cambiato l’Italia, uniche rivoluzionarie in un Paese che non conosce rivoluzioni.

Bisogna sfogliare il bellissimo album “Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta” per capire perché le ragazze di quella stagione non invecchiano mai. Oggi potranno pure essere vegliarde e piene di acciacchi, ma lo sguardo resta irriverente, la postura mai arresa, e integra negli occhi la luce di chi sa captare a distanza la coda violenta di un patriarcato che non muore.

A raccontarcele attraverso le immagini è una di loro, Paola Agosti, fotografa del movimento femminista negli anni più tumultuosi, figlia del partigiano Giorgio e pioniera in un terreno ancora monopolizzato dai maschi. E ad accompagnare questi scatti d’autrice con esemplari didascalie narrative è una ragazza che potrebbe essere loro figlia, Benedetta Tobagi, nata nello stesso anno in cui Paola fermava in una celebre foto-manifesto un gruppo di donne molto divertite nel lanciare in alto le loro mani in forma di rombo davanti ai poliziotti in assetto di guerra (era il 1977). «Quale migliore risposta alla P38?», commenta laconica Tobagi, che ripropone in queste pagine una felice formula già sperimentata con successo nel libro sulle partigiane.

Al tema dell’uso legittimo della violenza cedette anche una parte delle femministe, ma la cifra che accomuna queste immagini è l’allegria di chi fa la cosa giusta, abbattendo muri di silenzio e di subalternità. Le donne prendono la parola e insieme scoprono l’autocoscienza, partendo da sé stesse, dalle storie personali, da storie di ingiustizia e anche umiliazione.

Una liberazione collettiva che è una corsa ad ostacoli, ovunque sono le resistenze maschili, a casa con il compagno di vita, in fabbrica tra operai e sindacati diffidenti verso un’imprevista e contagiosa “isteria”, anche tra i movimenti dell’estrema sinistra perché va bene fare la rivoluzione, ma questa storia del separatismo femminista si fa fatica a digerirla, che vi siete messe in testa, non vi basta fare gli angeli del ciclostile? E se poi non ci stai, allora sei frigida o repressa.

E non fu certo un caso che Lotta Continua – dove le donne venivano chiamate con il genitivo dell’appartenenza maschile, Maria di Gigino o Lorenza di Gigetto – fu sciolta grazie alla protesta delle compagne contro l’autoritarismo dell’organizzazione. E i ragazzi di Potere Operaio arrivarono a interrompere nel 1972 una seduta di femministe a Roma lanciando preservativi pieni d’acqua. Il Manifesto s’affrettò a stigmatizzare, ovviamente, ma con un’interessante postilla: «Non c’è niente di serio nel trattenersi in assemblee unisessuali».

Ci si accapiglia tra maschi e femmine, ma anche tra le donne è una discussione senza fine, di qua le emancipazioniste del Pci e dell’Udi – eguali diritti per tutti – di là le teoriche della differenza e del separatismo, che mettono più radicalmente in discussione il patriarcato, accusando le prime di connivenza con il nemico e venendo a loro volta accusate di mettere i bastoni tra le ruote della rivolta sociale.

Ma poi alla fine si trovò una intesa, anche tra le madri partigiane e le irrequiete figlie del Sessantotto, perché il femminismo di quella stagione fu proprio la scoperta di tutte le altre: soltanto unite, tenendosi per mano, in una solidarietà che andava oltre sé stesse, si potevano conquistare nuove frontiere, la legge sul divorzio, i consultori, poi la legalizzazione dell’aborto, i processi collettivi per stupro, per la prima volta a porte aperte. E non importa se difetti e incompiutezze segnavano i comuni traguardi perché comunque andava cambiando il corso della storia.

Una rivoluzione affettuosa, che passa attraverso gesti di sorellanza, sorrisi e sguardi incrociati, carezze tra chi per la prima volta condivideva «un’esperienza fondativa e totalizzante», anche la scoperta del corpo e della sessualità. Mossa da empatia, la macchina fotografica di Agosti riesce a cogliere la fisicità complice delle ragazze che indicava un nuovo modo di stare al mondo. Una complicità estesa anche ai bambini, portati nelle piazze con allegria, quasi a rivendicare l’orgoglio di una maternità felice contro l’immagine luttuosa proiettata sulle donne che si battevano per legalizzare l’aborto, assassine allora e infanticide ancora oggi nella propaganda dei cosiddetti comitati che si dichiarano “pro-vita”, come se tutte le altre fossero pro-morte e non per una gravidanza voluta e consapevole.

La domanda che attraversa questo straordinario viaggio per immagini è se realmente sia stata una rivoluzione, anche perché mezzo secolo dopo il panorama è tra i più sconfortanti, con il patriarcato che appare più agguerrito che mai – nonostante il ministro dell’Istruzione Valditara lo ritenga una bizzarra invenzione ideologica –, con le istanze antiabortiste che trovano sponda nei nuovi padroni politici e con le donne di nuovo in tribunale non in veste di vittima ma in quella di imputata se fanno i figli con una compagna. Ma la parola rivoluzione riferita al femminismo serve a rimarcare il valore assoluto dei diritti conquistati, come a dire che indietro non si deve tornare.

E ancora oggi le spavalde protagoniste degli anni Settanta ci dicono che non bisogna abbassare la guardia, che la solidarietà femminile deve andare oltre «uno sguardo maschile che continua a dividere tra belle e brutte, giovani e vecchie, accondiscendenti e riottose» (copyright Silvia Vegetti Finzi), che non esiste una liberazione personale se non ci si impegna in un cambiamento della società per renderla più giusta e aperta. Tra tutte – conclude Tobagi – è forse questa l’eredità più importante per le donne del XXI secolo. Anche la più impegnativa, in un mondo sempre meno umano.

Covando un mondo nuovo, di Paola Agosti e Benedetta Tobagi (Einaudi, pagg. 152, euro 35). 

Da Maremosso

Il 14 dicembre 2024 sarà presentata in Libreria delle donne di Milano la graphic novel di Francesca Bellino e Lidia Aceto Matilde Serao. La voce di Napoli, edizioni BeccoGiallo (Ndr).

«Donna Matilde ha il giornalismo nel sangue» scrive Anna Banti nella sua biografia. «Passa la Signora» bisbigliano i napoletani quando, nei pressi del Mattino, appare la sua carrozza trainata da un cavallo bianco. Qualcuno allunga anche il collo per spiarne la figura goffa eppure carismatica, sempre vestita di scuro e con lunghe collane di perle, con la segreta speranza di essere notato da lei.

Lei, la Signora col giornalismo nel sangue è Matilde Serao (ne abbiamo già scritto qui), pioniera del genere in Italia e scrittrice da Nobel (mancato nel 1926 solo perché antifascista).

Al tempo della carrozza e del cavallo bianco è già una personalità nota e influente: tutti sanno, a Napoli, che La Signora ha occhi per vedere sia lo splendore della città, sia la sofferenza della sua gente, e che in più ha quel “supplemento d’anima” indispensabile, secondo Henri Bergson, per comunicare quello che ha visto e che ha capito.

Greca per nascita ma napoletana per temperamento, Matilde Serao è una donna appassionata, scaltra e intelligente tanto da inventarsi un destino eccezionale per una donna di fine Ottocento. È arrivata a Napoli subito dopo l’Unità, quando il padre, giornalista antiborbonico in esilio, ha potuto farvi ritorno e, ancora molto giovane, è stata costretta a contribuire al bilancio di casa con un lavoro da ausiliaria presso le Poste e Telegrafi della città.

È andata a scuola tardi, ma a quindici anni ha già un diploma da maestra di cui peraltro non si servirà mai, e legge, legge di tutto e voracemente, a cominciare dall’opera completa di Shakespeare e di Balzac, dal quale erediterà anche la fragorosa risata con cui taglia corto i giudizi e le lungaggini che non le garbano.

Oltre a leggere, Matilde scrive instancabilmente, con identica passione. «Io appartengo alla gente da tavolino» afferma in un’intervista e in una lettera alla figlia (rinvenuta da poco) arriverà a dire: «Sono grafomane e la carta, la penna e il calamaio sono le sole cose che mi avvincono, fra tutti gli oggetti di questa terra». Forse esagera, anzi esagera di certo, se si può chiamare esagerazione quella che è una vera, esigente vocazione a cui Matilde si concede senza risparmio, per tutta la vita.

Anche per l’influenza del padre, Matilde si misura fin da subito con il giornalismo, mondo in prevalenza maschile, dove può mettere a frutto la particolare combinazione di intelligenza e sensibilità femminile verso i temi della vita quotidiana, dal cibo alla moda allo sport, inquadrati nel contesto storico dell’epoca.

Con prorompente creatività, inventa supplementi letterari e la Piccola Posta dei lettori; scrive per la neonata pubblicità e per il cinema; fonda quotidiani locali e infine imprime per sempre il suo nome nella storia del giornalismo italiano con la fondazione del Mattino di Napoli e del Giorno.

Come stregata dalla sua stessa abilità, e dal bisogno incessante di esprimersi, Matilde si dedica contemporaneamente alla narrativa con racconti spesso incentrati su figure femminili che, oppresse da miseria e pregiudizi, lei guarda e valuta con una empatia di stampo quasi materno.

«Il femminismo non esiste», scrive, ma non dimentica di aggiungere: «Esistono solo delle questioni economiche e morali che si scioglieranno quando saranno migliorate le condizioni generali della donna e si sarà assicurato alla donna il diritto di vivere».

Due i romanzi che, tra gli altri, segneranno la vicenda esistenziale e la fama di Matilde Serao: il primo è Fantasia che, pubblicato nel 1883, narra la storia avventurosa e patetica di due amiche ed è molto apprezzato dal pubblico, non così dalla critica. «Ha uno stile tutto suo, aspro, rotto», scrive infatti Edoardo Scarfoglio, il giornalista sulla cresta dell’onda, bello e ammirato dalle donne che quando poi incontra l’autrice ne è tanto colpito da innamorarsene e sposarla. «Mi piace troppo, troppo, troppo», scrive a un amico, anticipando in qualche modo l’ammirazione che di lì a poco Matilde riscuoterà ovunque, dai salotti aristocratici ai circoli culturali più esclusivi, a Napoli e a Roma, come a Londra o a Parigi.

A dispetto della sua figura tutt’altro che aggraziata, Matilde è magnetica, vulcanica, fuori da ogni canone (anche stilistico), capace di imporsi per intelligenza e libertà di pensiero all’ammirazione di personalità di indiscusso valore intellettuale, come Henry James o Edith Warton che, in un memoir del 1934, scrive: «La viva immaginazione della narratrice (due o tre dei suoi romanzi sono magistrali) era alimentata da vaste letture e da una varia esperienza di classi e di tipi che le veniva dalla sua carriera giornalistica; e la cultura e l’esperienza si fondevano nello splendore della sua poderosa intelligenza».

Non sappiamo a quali romanzi si riferisca Edith Wharton, ma di certo non può mancare il secondo dei romanzi di cui si diceva, ossia Il ventre di Napoli, analisi minuziosa, commossa, scandalizzata, delle reali condizioni di Napoli dopo che il colera del 1884 aveva causato 6000 morti e la fuga di molti tra gli abitanti più abbienti.

E mentre da Roma il ministro tuonava «Bisogna sventrare Napoli» Matilde ne visita di persona i bassifondi più bui e miseri dove la povera gente si accalca e muore in condizioni disumane, e dopo averla ancora una volta guardata, osservata, compatita, scrive: «Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve sapere tutto», dando inizio a un’opera tuttora insuperata per realismo e forza morale.

Gli stessi caratteri che poi ritroveremo in molti aspetti della vicenda esistenziale di Matilde Serao, come: l’accoglienza materna che riserva alla bambina che, in un giorno di agosto del 1894, l’amante respinta da Edoardo Scarfoglio aveva depositato sulla sua soglia prima di suicidarsi; o il viaggio in Palestina, sola e sempre con una pistola a portata di mano, sulle tracce di una spiritualità solo all’apparenza in contrasto con la disinvoltura con cui Matilde ha conquistato il mondo dei salotti più esclusivi dell’epoca, o il nuovo patto sentimentale e professionale che dopo la separazione da Scarfoglio la lega a Giuseppe Natale, giovane giornalista romano col quale fonda Il Giornoe, a quarantotto anni, dà alla luce Eleonora, la quinta figlia così chiamata in omaggio all’amicizia che la lega alla Duse.

Impareggiabile fino all’ultimo istante di vita, Matilde muore il 25 luglio del 1927 per un infarto mentre, al tavolino, è intenta a scrivere l’ennesima opera. «Amabile», pare sia l’ultima parola digitata sulla macchina da scrivere.

Da L’Osservatore Romano – Desta un brivido di inquietudine la lettera che Virginia Woolf scrive a Vanessa Bell nel marzo del 1941. «Ora sono certa — confessa — che sto nuovamente impazzendo. Come la prima volta, sento in continuazione le voci, e ora so che non ce la farò. Ho lottato, ma non ce la faccio più». È questa la missiva che chiude il prezioso libro Vanessa Bell, Virginia Woolf. Se vedi una luce danzare sull’acqua. Lettere tra sorelle. 1904-1941, a cura di Liliana Rampello (Milano, il Saggiatore, 2024, pagine 410, euro 35, traduzioni di Andrea Cane, Silvia Gariglio, Silvia Gianetti, Camillo Pennati e Sara Sullam). La corrispondenza, in gran parte inedita in Italia, abbraccia circa quarant’anni di vita di due donne che, in virtù di un sentito legame di sangue, condividono con slancio e senza diaframmi o comode circonlocuzioni fervide passioni e brucianti delusioni, successi letterari e tragedie private. Sullo sfondo di questo dramma umano, venato talora di tratti di commedia, si proietta l’eco delle due guerre mondiali, come a ricordare che il macrocosmo di queste sorelle non è un universo conchiuso, ma si innerva delle dinamiche, tumultuanti e complesse, di un mondo ben più vasto.

Virginia, scrittrice, è sempre stata cagionevole di salute: i suoi nervi sono labili e la dispongono a una depressione logorante e crescente. Ne è consapevole Vanessa, pittrice, che non si risparmia nel cercare di aiutare la sorella. Lo scambio di missive ha inizio quando le due donne hanno poco più di vent’anni. Quel terribile biglietto d’addio Virginia lo firmerà sulla soglia dei sessant’anni. «Le loro — rileva Rampello, la curatrice — sono lettere spontanee, ironiche, disinibite, scritte in una lingua scintillante da cui affiora tutta la grandezza e la fragilità di due personalità irripetibili, ma anche il brusio spregiudicato della cerchia di Bloomsbury». Si tratta, in sostanza, di un epistolario che si configura come la biografia di un rapporto umano indissolubile, come «qualcosa che è più della somma di due vite». È qualcosa che «sta tra due vite». In quel “tra” si specchia tutto il vulcanico fluire di pensieri e sentimenti che contribuisce a definire e a forgiare la personalità delle due sorelle.

Sia per Virginia che per Vanessa risulta inafferrabile la natura dell’esistere, la vita che palpita nel mondo umano, vegetale, animale. Ma se i quadri di Vanessa sono silenziosi, muti — e devono essere tali perché «la tela appesa al muro continua comunque a dire qualcosa di suo» —, Virginia ha invece bisogno delle parole, sebbene possano essere inadeguate. «Oh potersene restare in silenzio! Oh essere un artista!» lamenta.

La corrispondenza rivela anche un assiduo scavo interiore, alla ricerca di un’identità che sia stereotipata e data una volta per tutte. «Ormai — scrive Vanessa —, da quando ho capito che basta cambiare l’idea che si ha di sé trasformandosi in una specie di donna delle pulizie o in un barbone, per camminare indisturbati e vestiti di stracci o a piedi nudi, non ho più vergogna». E quindi, con lo spirito bizzarro e un po’ ribelle che le era proprio, aggiunge: «Non capisco perché si debba sempre ritenere necessaria la decenza, per non parlare dell’intelligenza, quando in effetti non si ha nessuna voglia di bazzicare persone decenti o intelligenti».

A proposito di una delle sue opere più note, Gita al faro, Virginia osserva che con questo romanzo non ha voluto dire «niente». Occorre «una linea centrale» che percorra il libro per tenere insieme il disegno. «Mi sono accorta che sentimenti di ogni genere si sarebbero accumulati lì dentro, ma ho evitato di elaborarli e ho confidato che la gente ne facesse il deposito delle proprie emozioni. E così è stato, e uno pensa che significhi una cosa, e un altro un’altra cosa. Non riesco a trattare il simbolismo se non in questo modo vago, generico. Se sia giusto o sbagliato non lo so, ma non appena mi spiegano il significato di una cosa, mi diventa odiosa». Parole, queste, illuminanti riguardo alla sua concezione della vita e al suo ideale di letteratura che, della vita, ambiva ad essere dignitosa e rispettosa espressione.

Un’espressione che si fa visione nell’ultima riga del romanzo, quando Lily Briscoe, spossata, nel mettere giù il pennello, si trova a pensare — mirabile epifania — che ha avuto una visione. Di conseguenza la pittrice, nello spazio di un fulmineo istante, traccia «una linea lì nel centro» della tela. Ma non è il quadro a essere descritto: a imporsi è l’esperienza visiva di una composizione che ha una sua specifica dimensione cognitiva e non ha un equivalente verbale. Ciò che la scrittrice ha scoperto — grazie alla pittura — è come scrivere la propria visione. Anche entro questa prospettiva di carattere narrativo s’inserisce il valore del reciproco rapporto fra le due sorelle sul piano professionale: c’è la scrittrice che dalla pittura mutua un linguaggio che le risulta funzionale alla manifestazione del suo sentire, e c’è la pittrice che riconosce nell’arte letteraria (come sottolineato da ella stessa in alcune missive) lo strumento cui attingere per «far parlare» la tela. Si consacra così la felice simbiosi tra penna e pennello.

Da kobo.com

Da studioso, non accademico, di simboli e archetipi, nei miei anni di ricerca mi sono obbligatoriamente imbattuto nella necessità di frequentare l’ambito archeologico. Non posso accampare competenze tecniche, mi limito a riportare, da appassionato, la testimonianza dell’influenza di determinate figure ed incontri sul percorso intellettuale del sottoscritto (e di molti altri).

Per il mio percorso intellettuale e spirituale, legato in particolar modo allo studio della devozione degli aspetti femminili del divino, non ho potuto non imbattermi nella lettura dei saggi di Marija Gimbutas. Parliamo di una figura fondamentale nello studio della preistoria europea, in particolare per il suo approccio ai culti della Grande Madre. Le sue ricerche, condotte principalmente tra il ’46 e il ’71, hanno messo in luce l’importanza delle società matriarcali e dei culti legati alla fertilità, proponendo una reinterpretazione della storia antica.

Gimbutas ha identificato e analizzato numerosi reperti archeologici, come statuette di donna e simboli associati alla fertilità, provenienti da culture neolitiche dell’Europa, suggerendo che queste culture avessero un forte legame con la venerazione della Dea Madre, simbolo di fertilità, vita e rigenerazione.

A differenza della visione più largamente storico-culturale del matriarcato di Bachofen, per alcuni versi simili a livello concettuale ma che sorgeva da una combinazione di fonti mitologiche e storiche, l’archeologa (nata lituana, poi naturalizzata americana) basava le proprie tesi sullo studio di dati archeologici concreti.

Gimbutas interpreta molte delle divinità femminili ritrovate nei reperti archeologici in un modo per molti versi convergente alla visione dell’archetipo junghiano della Grande Madre; chiaramente, la sua interpretazione pertiene più all’aspetto simbolico-religioso che strettamente psicanalitico (soprattutto se pensiamo al saggio di Erich Neumann La grande madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, che sottolinea anche il ruolo potenzialmente oppressivo di una potenza inconscia così “ingombrante”).

L’opera di Gimbutas ha influenzato non solo la ricerca archeologica, ma anche i movimenti femministi e ha contribuito a plasmare una nuova visione della spiritualità, che, nel calderone fertile quanto confuso della New Age, si è sposata facilmente con la riscoperta di massa della filosofia orientale, alimentando un rinnovato interesse per il sacro femminile e le pratiche cultuali legate alla Dea.

Il saggio più importante di Marija Gimbutas è probabilmente The Language of the Goddess, pubblicato nel 1989 [trad. it. Il linguaggio della Dea, Venexia 2008, Ndr]. In quest’opera, Gimbutas riassunse la sua tesi fondamentale ovvero, appunto, l’idea che le antiche civiltà europee neolitiche fossero fondate su una struttura sociale matriarcale e una forte venerazione per il divino femminile, come testimoniato da una vasta e variegata iconografia di dee.

A Gimbutas si deve anche la famosa “ipotesi kurganica”, pubblicata nel 1956 all’interno del saggio The Prehistory of Eastern Europe: una delle teorie più affascinanti e influenti sull’origine delle popolazioni indoeuropee e sul cambiamento culturale che ha trasformato il volto dell’Europa antica. Secondo questa ipotesi, le popolazioni indoeuropee, portatrici di una cultura guerriera e patriarcale, ebbero origine nelle steppe a nord del Mar Nero, in un’area che oggi si estende tra Ucraina, Russia e Kazakistan, circa tra il V e il III millennio a.C. Queste popolazioni, conosciute come “kurgan” (termine che in russo significa ‘tumulo funerario’ e si riferisce alle sepolture monumentali caratteristiche di questi gruppi), si sarebbero espanse verso l’Europa e l’Asia, portando con sé una cultura, una lingua e un sistema di valori nuovi, che gradualmente sostituiranno quelli delle popolazioni autoctone.

Gimbutas, come detto, sostiene che prima dell’arrivo dei Kurgan, l’Europa fosse abitata da comunità agricole e matrilineari, pacifiche e basate su un culto della fertilità e su una venerazione della Dea Madre. Queste società, incentrate su valori di cooperazione e armonia con la natura, svilupparono un simbolismo complesso che celebrava il ciclo della vita e la rigenerazione. Con le ondate migratorie delle popolazioni Kurgan, Gimbutas ipotizza l’arrivo di una società patriarcale e gerarchica, basata sul potere militare e sul dominio maschile. La spiritualità della Dea Madre e della natura cedette il passo a divinità maschili e a un simbolismo centrato sul potere e sulla guerra.

Come spiegò lei stessa in un’intervista del 1992: «Il sistema da cui proveniva la cultura di matrice materna antecedente agli Indoeuropei era molto diverso. Dico di matrice materna e non matriarcale perché quest’ultima desta sempre idee di dominio, ed è semanticamente contrapposta al patriarcato. Quella era una società equilibrata, non è vero che le donne fossero talmente potenti da usurpare tutto ciò che fosse maschile. Gli uomini occupavano le loro legittime posizioni, facevano il proprio lavoro, avevano i loro compiti e avevano anche il loro potere».

Del resto, come spiega Eva Cantarella (nella voce “matriarcato” da lei curata nell’Enciclopedia delle Scienze Sociali), Gimbutas non amava il termine “matriarcale”: «nella ricostruzione di Gimbutas questa dominanza delle donne non sarebbe stata sopraffazione e sottomissione degli uomini. Nel periodo al quale risale il complesso di simboli di cui sopra, infatti, non vi sarebbe stato né matriarcato né patriarcato bensì “gilania”, parola coniata da Gimbutas utilizzando le radici greche gy (donna) e an (uomo), unite da una l centrale, quasi a simbolizzare il legame tra le due componenti sessuali dell’umanità».

Com’è noto, gli studi della Gimbutas hanno ricevuto diverse critiche: dal punto di vista strettamente storico-archeologico, si considerano le sue conclusioni troppo speculative e orientate ideologicamente al fine di enfatizzare il ruolo (financo per alcuni l’esistenza) delle società matriarcali, in assenza di evidenze testuali. D’altro canto, uno studioso come Joseph Campbell, discepolo di Jung, definì il suo contributo in termini epocali come la scoperta della Stele di Rosetta.

Rimane, per chi scrive, comunque l’importanza determinante della sua opera, nel tentativo coraggioso e illuminante di “riscrivere” la storia dell’archeologia (dunque, la storia della civiltà), da un’altra prospettiva.

In anni più recenti un impatto simile, se non superiore almeno come clamore mediatico, è stato causato dalla scoperta archeologica di Göbekli Tepe, nella zona della Turchia prossima al confine della Siria. Si tratta di uno sito archeologico dalla rocambolesca scoperta: prima scambiato nel ’63 per un sito funebre, fu riscoperto casualmente nel ’95 da un pastore; a quel punto partì una missione guidata da Karl Schmidt, a guida di un doppio team (del vicino museo di Şanlıurfa e dell’Istituto archeologico germanico), successivamente passata alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.

La scoperta è stata veramente sorprendente: un’imponente costruzione megalitica, formata da recinti circolari formati principalmente da enormi pietre calcaree a forma di T, decorati con rilievi animali e motivi astratti, alcune delle quali con tracce antropomorfe (ad esempio delle mani allungate lungo i fianchi della struttura), ribattezzate per questo da Schmidt “i vigilanti”.

La scoperta ha rivoluzionato la linea fino ad allora supposta dello sviluppo della civiltà umana, predatandola e capovolgendone l’interpretazione: sintetizzando in maniera brutalmente provocatoria, non sarebbero i culti sciamanico-devozionali a derivare dalla scoperta dell’agricoltura nella mezzaluna fertile, al contrario sarebbe stata proprio la spinta comunitaria alla devozione in luoghi sacri a indurre il processo di sedentarizzazione.

Parliamo di circa diecimila anni fa.

Un’ipotesi vertiginosa che riporterebbe il Sacro al centro dell’esperienza umana, come motore dello sviluppo sociale, non come sovrastruttura successiva allo sviluppo delle attività umane.

Anche in questo caso, per correttezza, devo riportare come una serie di ultime ipotesi derivate dagli ultimi scavi (secondo l’opinione di Lee Clare) facciano tramontare lo scenario del “tempio” come unico ruolo del sito, propendendo per una sorta di ampio rifugio per una comunità di cacciatori e raccoglitori.

Ma al di là del dibattito, chiaramente ancora in fieri, questa scoperta, e le speculazioni derivatene, ha ispirato una serie di intriganti suggestioni romanzesche: personalmente, confesso di essermi appassionato al tema durante la visione della serie turca The Gift (ingenua quanto suggestiva), fino a visitare il sito con degli amici archeologi; l’effetto dal vivo non può non far pensare, rimanendo su un piano di suggestioni da archeologia misteriosa, a uno scenario stile X-Files.

Ancor più impressionante è il sito “gemello”, i Karahan Tepe (“tepe” in turco vuol dire “collina”, “cima”), sempre nella provincia di Şanlıurfa, a circa 40 km dal più noto, ancora anteriore (circa 12mila anni fa), ma attualmente ancora in fase di studio, dunque meno promosso mediaticamente.

Posso testimoniare l’emozione “primordiale”, se mi consentite un’espressione così vaga e ingenua, nel vedere dal vivo statue antropomorfe, dal volto impressionante per intensità espressiva, che ci guarda con fissità ieratica dalla Preistoria.

Da qualche settimana a Roma, nel Parco Archeologico del Colosseo, è aperta una mostra, “L’enigma di un luogo sacro”, dedicata proprio alla sconvolgente scoperta archeologica di Göbekli Tepe.

Personalmente, ho avuto la possibilità di visitare il Museo Archeologico di Şanlıurfa, che ricostruisce su scala 1:1 il sito archeologico e consente quindi di visitarlo “virtualmente” con una capacità di dettaglio molto realistica (il sito dal vivo è chiaramente visitabile solo da una distanza di sicurezza), ma credo che sia comunque una possibilità interessante per scoprire un vero e proprio “evento” della storia dell’archeologia.

In un periodo in cui le masse sono preda di un’accelerazione tecnologica inversamente proporzionale alla ricerca interiore, riscoprire l’archè può essere una fonte di salvezza.

Credo che sia più saggio cercare di ritrovare il senso dell’esistenza seguendo le indicazioni contenute nei frammenti di Eraclito o nel Prologo di Giovanni, piuttosto che nei tweet di Elon Musk o nelle risposte di Chat Gpt.

Da Il Quotidiano del Sud – Riportare in vita una madre, strapparla all’oblio della morte, raccontare di lei in onore della figlia, è un gesto di amore femminile per la madre. È quello che ha fatto la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli col suo libro Maria Giudice. Vita folle e generosa di una pasionaria socialista (Neri Pozza 2024), scritto in onore della figlia Goliarda Sapienza, sua amica e compagna di scrittura, in ricorrenza quest’anno del centenario della nascita. È dal ricordo del gruppo di scrittrici femministe, tra cui Adele Cambria e Elena Gianini Belotti, di cui facevano parte entrambe, che l’autrice parte per introdurci nel racconto della vita straordinaria di Maria Giudice, vissuta tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Una vita segnata dalla militanza politica, sindacale e giornalistica, dal carcere e dall’esilio. Una militanza vissuta a fianco degli operai e dei contadini, in particolare delle operaie e delle contadine, da segretaria della Camera del Lavoro di Voghera, Torino e Catania. Il racconto della sua vita si intreccia col contesto storico del suo/nostro tempo. Per Maria la politica non è «mestiere» o «voglia di comando», ma una visione del mondo e un accesso alla «sua personale libertà». Il partito, a cui si iscrive giovanissima, per lei non è solo una tessera, ma un modo di essere e «di agire in ciascuna circostanza della propria esistenza». E il giornale è «uno strumento politico» che unisce «i lavoratori dei campi, delle officine e quelli della penna» ma è convinta che è il socialismo «l’unica vera scuola». È una brava oratrice e le donne affollano i suoi incontri e conferenze per lo più clandestine. Non autorizzate. Nei rapporti delle prefetture è definita una «socialista intransigente». In carcere incontra Umberto Terracini e con Gramsci, compagno di partito, dirige il giornale “Grido del popolo”, organo dei socialisti piemontesi. Donna determinata, fiera, appassionata e anticonformista, Maria eredita la passione politica dal padre Ernesto che da ragazzo si arruolò nelle truppe di Garibaldi, e dal nonno che fu seguace di Mazzini e affiliato alla Carboneria. Dalla madre, Ernesta, eredita l’amore per la scrittura e per i poeti, classici e moderni, amore che trasmette alla figlia Goliarda. La madre la fa studiare e diventa maestra elementare. Insegna, ma per poco. Viene licenziata per condotta immorale, in quanto unita in “libera unione” con Carlo Civardi, prima, e Peppino Sapienza, poi, suoi compagni di vita e di lotta, perché madre di figlie/i fuori dal matrimonio e per le sue idee politiche e religiose. Motivi per cui sotto il fascismo la sua domanda di insegnare viene respinta. «L’amore è cosa così intima, così assoluta che il farne un atto pubblico, peggio ancora, ufficiale, è un profanarlo», scrive. Accetta come necessità, ma non per sé, il matrimonio civile perché «questa società, ingiusta e imprevidente, ancora non si crede in obbligo di provvedere ai nati di donna». Tiene comizi e conferenze non autorizzate contro la guerra e viene arrestata. «Prendi il fucile, gettalo per terra, vogliamo la pace, mai più la guerra» è il suo grido pacifista. La dittatura fascista la condanna all’isolamento con lo scioglimento dei partiti, dei sindacati e dei giornali d’opposizione. Il suo corpo si ribella, si ammala e finisce in una clinica per malattie mentali. Il compagno Sapienza entra nella Resistenza e la figlia Goliarda fa la staffetta. Con la fine della guerra Maria ritrova se stessa e con l’antica compagna Angelina Balabanoff riprende l’attività politica. Muore nella notte del 5 febbraio 1953, tra le braccia della figlia Goliarda. Al suo funerale Terracini, Saragat e Pertini e «un mare di garofani e compagni di ieri e di oggi». Dopo, per la figlia comincia «il lutto interminabile».

Da Il Quotidiano del Sud – Il parto di che mondo e mondo è un’esperienza solo delle donne che per secoli hanno partorito in casa aiutate da levatrici, poi ostetriche, mammane, vicine di casa, donne anziane esperte. Donne custodi di saperi, competenze e relazioni cancellate dall’ospedalizzazione e medicalizzazione del parto, ritenuto dalla medicina ufficiale più sicuro. Un “Gruppo di ostetriche” di Mestre, sulla spinta del movimento politico delle donne, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha tenuto in vita la pratica del parto in casa, rendendo onore al «sapere scientifico femminile» e ponendo al centro la relazione tra madre ed ostetrica. Un’esperienza la loro che Franca Marcomin, fondatrice del gruppo, racconta nel libro Parti in casa a Venezia. Storia di un’ostetrica femminista e delle sue colleghe, edito da Il Poligrafo. Ciò che spinge l’autrice è il desiderio di lasciare memoria e testimonianza di quarant’anni di straordinaria esperienza sua e delle sue colleghe, di formazione e trasmissione di memoria che hanno cambiato la concezione di questa antica professione. Destinatarie del libro sono le giovani ostetriche neolaureate o in procinto di laurearsi perché «sappiano che non partono da zero. C’è una genealogia femminile a cui riferirsi, che costituisce un precedente di forza» e perché traggano orientamento «dall’elaborazione e dal pensiero delle donne sul parto». Al racconto diretto dell’autrice si unisce la voce delle colleghe attraverso interviste e quella di alcune delle madri aiutate in questi anni a partorire in casa in modo naturale, restituendo «autorità ai saperi, alle pratiche e alle relazioni femminili presenti sulla scena della nascita». Racconti e testimonianze che ci dicono come la casa «si è rivelato il luogo più vicino a una nascita naturale e non violenta», senza traumi e ferite, di cui le madri sono protagoniste attive e non passive, e le ostetriche si riappropriano di quella autonomia di cui hanno goduto per secoli le loro ave e che negli ospedali è stata loro tolta da medici, ginecologi e primari. Le donne hanno sempre saputo come fare nascere le loro creature, le ostetriche sanno come aiutarle a partorire in modo “naturale”. È pur vero che «non tutte le donne possono partorire a casa propria», allora perché non «rendere l’ospedale il più possibile simile a una casa?». Trasformare le strutture ospedaliere per «fare del momento della nascita un’esperienza soddisfacente per la madre, il padre e il neonato o neonata», come nel parto in casa, è stato l’obiettivo dell’autrice e delle sue colleghe che hanno continuato a lavorare anche in ospedale, qualcuna, invece, si è licenziata. Si sono impegnate per avere ovunque «forme pubbliche di assistenza per il parto in casa e l’assistenza a domicilio dopo la dimissione precoce dall’ospedale dopo il parto». Qualcosa in molti ospedali è cambiato, grazie a loro e a tante altre: c’è di nuovo l’autonomia nell’assistenza al parto fisiologico e l’ostetrica può far intervenire il medico solo quando ne ravvisa la necessità clinica. Alcune regioni nei loro piani sanitari hanno inserito la possibilità di scelta dei luoghi del parto e/o il rimborso delle spese dei parti a domicilio. Molto deve ancora cambiare: il parto in casa è solo l’1%, non è offerto dal Servizio sanitario e nessuna legge nazionale in tal senso è stata mai approvata, anche se presentata. «Credo sia giusto che ogni donna possa scegliere di partorire nel modo che lei sente più sicuro e giusto per sé», dice una madre con esperienza di parto sia in casa che in ospedale. In un tempo in cui si cerca di cancellare la madre attraverso l’utero in affitto non ci si deve dimenticare «che comunque il luogo del parto è il corpo sessuato» di donna. Un corpo che si vuole cancellare come le levatrici, che le figlie, loro eredi, onorano con il loro racconto.

Da Il Fatto Quotodiano – Facile da qui: provateci voi, mentre vi tirano le bombe in testa in un campo profughi, mentre qualche manciata di proiettili vi rende orfani, mentre soffrite la fame e non avete acqua, mentre non potete andare all’ospedale se state male, provateci voi, mentre vi dovete nascondere in un armadio (col fiato mozzato) perché hanno fatto irruzione a casa vostra, mentre vi rinchiudete in un bunker perché le sirene vi fanno scoppiare la testa e il cuore, mentre vi sparano contro mentre ballate a un concerto. Facile da qui: provateci voi a parlare di pace da lì, dalla Striscia di Gaza e da Israele, in questo momento pieno di dolore e di rabbia in cui il Medio Oriente è sprofondato in un vortice nero, senza fondo e senza cielo, senza più parole. Non sarà facile come da qui, forse, ma chissà se può stupire – in questa epoca che rende un po’ assuefatti dall’indigestione di informazioni – sapere che dal centro di quel vortice nero c’è ancora chi non smette di provare a parlare di pace, nemmeno da lì, nemmeno dopo il crinale del 7 ottobre. Rabbini, suore cristiane, politologi, agricoltori, ex ufficiali dell’esercito diventati attori, attivisti, psicologhe, giovani renitenti alla leva, tour operator. Chiara Zappa, giornalista di Mondo e Missione che da anni racconta storie da quell’area del mondo, li ha definiti Gli irriducibili della pace (Ts Edizioni, 208 pp., 18 euro, prefazione di Noa). Il titolo inquadra con una parola la linea editoriale del libro: il ribaltamento del linguaggio a cui siamo abituati – gli irriducibili come quelli che si battono “all’ultimo sangue”, “fino alla morte” – per neutralizzare un immaginario stratificato negli anni per il quale le figure che non si arrendono sono i “forti” che fanno la guerra e coloro che fanno la pace invece sono disegnati come quelli che cedono, i “deboli”.

In questo libro, invece, l’ostinato è proprio chi solleva la bandiera bianca più in alto, e ancora di più in questi mesi in cui infuria il conflitto, fischiano i missili e il paesaggio è uno sterminato cumulo di macerie. Non tra israeliani e palestinesi, “la lotta dovrebbe essere tra gli estremisti e i moderati che vogliono condividere la terra fianco a fianco come uguali”. Può apparire una frase ingenua, al limite del fanciullesco, eppure a pronunciarla nel libro di Zappa è Mohammed Dajani Daoudi, 78 anni, politologo, professore all’università Al Quds di Gerusalemme, che discende da una delle storiche famiglie arabe della città tre volte santa e ha un passato giovanile ai vertici di Al-Fatah, il partito che fu di Yasser Arafat e combatteva per la liberazione della Palestina. “Al-thawra ḥattā al-nāṣir” c’è scritto nel suo simbolo: rivoluzione fino alla vittoria.

“Dicevamo no alla pace, no ai negoziati e no al riconoscimento dello Stato di Israele – racconta a Chiara Zappa nel libro. – Ricevetti un addestramento militare e mi radicalizzai sempre di più”. Finì bandito da Libano, Israele e Giordania e studiò negli Stati Uniti: “Questo mi permise di muovere i primi passi fuori dalla caverna dell’ignoranza e dell’estremismo e di assumere una nuova prospettiva”. Un grande sogno o una piccola speranza? è stata la domanda che ha fatto da crocevia della sua storia: è diventato il nome del suo modello di risoluzione del conflitto. Bisogna passare – è il ragionamento – dalla contrapposizione ebrei-arabi alle categorie di “coloro che, da entrambe le parti, accettano un compromesso in nome della pace oppure vi si oppongono”. In una parola wasatia che letteralmente significa via di mezzo e nel Corano – spiega Daoudi nel libro – indica l’equilibrio, la giustizia, la tolleranza”.

Sembrano parole cadute da un altro mondo eppure sono la copertina del lavoro di Chiara Zappa. “Dai margini del discorso pubblico a cui si è cercato di relegarli – sottolinea l’autrice nell’introduzione – gli ‘irriducibili della pace’ stanno provando a tornare al centro, per proporre la loro alternativa. Spesso sono liquidati come folli, ingenui, illusi. Ma l’utopia che inseguono è in realtà la forma più chiara di pragmatismo” perché “la forza, anche la più soverchiante, non potrà mai garantire incolumità e benessere a nessuna di queste due comunità talmente vicine da essere inseparabili”. Per rompere il muro del suono che investe tutto il mondo con la incessante descrizione di attacchi e vendette, raid e rappresaglie puntualmente giustificati dalle classi dirigenti di tutto punto armate, Zappa alza il volume della voce di 15 cittadini “comuni”: tra loro c’è chi ha perso dei parenti negli attacchi di Hamas del 7 ottobre e c’è chi ha pianto un figlio di 6 mesi perché dopo aver respirato i gas lacrimogeni lanciati dai militari israeliani nel villaggio di Battir (vicino a Betlemme) innumerevoli posti di blocco non permisero di arrivare in tempo a un ospedale.

Lo stile asciutto e l’esposizione britannica di Chiara Zappa permettono al libro di avere più livelli di lettura. Grazie alle informazioni di contesto e alle note esaurienti, per esempio, diventa una mappa per chi vuole riannodare i fili di una vicenda che si consuma da decenni, un equipaggiato che rimette in ordine gli elementi in un tornado di titoli strillati. Nello stesso momento riesce a svuotare il serbatoio dell’abituale racconto dei mass media declinata solo su un vocabolario bellico, attraversando le storie di chi è immerso – suo malgrado – nella tragedia di quelle terre. Layla Alsheikh è la mamma di quel bimbo di 6 mesi morto perché non soccorso in tempo. Oggi è un membro di Parents’ Circle che mette insieme 700 famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso parenti stretti. Dice Layla: “Non possiamo sederci ad aspettare che i nostri leader facciano qualcosa: abbiamo aspettato per più di 75 anni. E loro non ci hanno mai chiesto il permesso quando hanno fatto scoppiare l’ennesimo conflitto. È vero, sono i governanti ad avere in mano le scelte politiche, solo loro possono firmare un accordo di pace. Ma solo noi, cittadini comuni, abbiamo il potere di fare la riconciliazione”.

I leader fomentano la polarizzazione tossica, chiarisce a Zappa Sofia Orr. Ha 18 anni ed è la prima obiettrice di coscienza donna dopo il 7 ottobre (“ingenua, egoista, traditrice, persino ebrea antisemita” gli insulti che ha ricevuto). Ha passato 85 giorni in carcere su decisione della corte militare. È una refusenik, come si chiamano i renitenti alla leva: una circostanza sempre più rara. I giovani sono il bersaglio grosso di questa onda dell’odio e della guerra che si autoalimenta. “L’intera sfera politica – dice Sofia nel libro – si è spostata più a destra ed è diventata molto più violenta e aggressiva”. E le nuove generazioni, si spiega ancora, non hanno mai avuto neanche l’opportunità di vedere tentativi di colloqui di pace come invece i loro genitori. Così riconoscere le rivendicazioni degli “altri” non è nel novero delle opzioni. Quando ha spiegato all’opinione pubblica perché si è rifiutata di indossare la divisa dell’esercito, Orr ha messo giù concetti che appaiono indicibili in queste settimane: “Il presente e il futuro dei cittadini palestinesi e israeliani sono inseparabili. Non siamo ‘noi’ contro ‘loro’. La sicurezza e l’incolumità saranno raggiunte solo quando entrambe le parti vivranno con dignità: o perderemo tutti in guerra o vinceremo tutti in pace”. Nessuno può dire quanto tempo sarà necessario. Eppure è proprio dal centro di questi giorni di sconforto che questa israeliana del futuro lancia il suo messaggio verso l’avvenire: “Mi rifiuto di arruolarmi perché voglio creare una realtà in cui tutti i bambini tra il fiume e il mare possano sognare, senza gabbie”.

(Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2024, titolo originale: Ex ufficiali, renitenti alla leva, prof: la buona battaglia di palestinesi e israeliani per la pace in Medio Oriente (anche dopo il 7 ottobre): “La lotta non può essere tra i nostri popoli, ma tra estremisti e moderati”)

Da il manifesto – Alias

Oltrepassare, come Alice, lo schermo del mondo… Un numero di «Riga» su Giulia Niccolai (1934-2021), singolare artista dalle molte esperienze: fotografa, scrittrice sperimentale, monaca buddista

Se si apre la pagina Wikipedia dedicata alla poetessa, scrittrice, fotografa e traduttrice Giulia Niccolai, la voce Biografia si chiude con una curiosità: la fine della relazione intrattenuta con Adriano Spatola, col quale Niccolai ha convissuto per nove anni nel Mulino di Bazzano, la cosiddetta «Repubblica dei poeti», ispirerebbe il testo di una canzone di Guccini, Scirocco (lo segnala Alessandro Giammei su «Engramma», 145, 2017). La nota è succosa e in linea con il contesto divulgativo in cui è inserita, ma non rischia anche di suggerire, posta com’è a conclusione della (breve) scheda biografica dedicata all’autrice, una marginalizzazione della sua esperienza artistica, da misurarsi magari «in appendice» a quella della Neoavanguardia o, in questo caso, del compagno co-fondatore della rivista «Tam Tam»?

Chi conosce l’opera di Niccolai non ha dubbi riguardo alla sua autonomia e originalità, e sa che la vita della scrittrice potrebbe diventare il canovaccio di una sceneggiatura: italo-americana bilingue, esplora giovanissima il mondo come fotografa (immortalando, fra gli altri, Kennedy, Kubrick, Fidel Castro, Fellini…) per poi abbandonare, delusa, il reportage; a Roma, vive a casa di Giosetta Fioroni e si lega al Gruppo 63, come segretaria di redazione di «Quindici». Nel ’69 l’avanguardia chiude i battenti e Niccolai si trasferisce al Mulino con Spatola – ha stretto amicizia con Corrado Costa e Giorgio Manganelli, il suo «primo lettore» – per poi fuggire nel 1978 a Milano («feci una vigliaccata, […] scrissi una lettera e scappai»).

Ha già all’attivo un romanzo, numerose raccolte sperimentali, il libro d’artista Poema&Oggetto. Poi, l’ictus cerebrale, che la rende momentaneamente afasica (ecco una prima, strana coincidenza: lo stesso era capitato a Baudelaire, col cui nome gli amici pare chiamassero proprio l’ex compagno, Spatola), e la conversione al buddismo, il viaggio in India nel 1989 e la sua ordinazione a monaca. Continua a scrivere, accumulando riconoscimenti (nel 2006, l’onorificenza di Grande Ufficiale della Presidenza della Repubblica Italiana) e, quando viene intervistata da Sara Pagani nel 2018, ha più di ottant’anni e pensa alla morte senza paura, perché «è come decidere di cambiare vestito», «nasco dove voglio io la prossima volta».

Commemorandone la scomparsa, Andrea Cortellessa ricordava sul «manifesto» del 24 giugno 2021 la molteplicità delle vite che Niccolai sembra aver vissuto; si possono ripercorrere, oggi, sfogliando il ricco volume che «Riga 45» ha dedicato a Giulia Niccolai, a cura di Alessandro Giammei, Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti (Quodlibet, pp. 495, € 26,00), attraverso interviste, una raccolta antologica e di interventi critici, saggi, scritti autobiografici. La numerosità dei contributi fa sì che queste disparate vite si ricompongano come in un mosaico, e tuttavia permane la sensazione che il ritratto definitivo di Niccolai, l’unico completamente «a fuoco», sia sempre imprendibile e rimanga «sul retro» della composizione, in un negativo pur così ben sviluppato.

Il che è, a ben vedere, una sorta di rovello per la stessa artista, nel corpo a corpo costante con la decifrazione della realtà che la circonda, dalla fotografia alla poesia al romanzo – che si intitola proprio Il grande angolo, rimarcando l’ulteriore prova dello sguardo dell’autrice sul mondo, recensita nel ’66 da Walter Pedullà e commentata per «Riga» da Graziella Pulce.

Basti prendere gli esperimenti prospettici di Facsimile, che giocano deformando, tramite rappresentazione, la realtà – una lattina e la fotografia di un barattolo, ritratti frontalmente, sembrano solidi e tridimensionali, ma spostando l’angolo dello scatto si svela la verità, ché «un oggetto fotografato si trasforma in un oggetto fotografato, e tale rimane» (si contempla, insomma, «la differenza tra apparenze fenomenologiche e stati ontologici», Taylor Yoonji Kang). O ancora, si pensi allo scavo linguistico della poetessa, al «lavoro di costruzione e decostruzione su significante […] e significato» di Greenwich – «Riga» ne accoglie l’introduzione di Manganelli, del ’71 – e al suo celebre calembour topografico «Como è trieste Venezia…», che ricerca una nuova correspondance tra senso e nonsenso nella deformazione del significante, un po’ come accadeva nei Facsimile.

Ciò significa che gli strumenti dell’indagine derivano dalla neoavanguardia, ma il loro impiego è orientato in una direzione privata, ironica e giocosa, non politicizzata (l’allontanamento da Roma è dovuto alla sensazione che «lì era impossibile fare una rivista di poesia perché tutti erano concentrati su altri scenari», afferma Niccolai nell’intervista di Massimo Rizza). La sua ricerca ruota, piuttosto, intorno alla discrasia fra le cose «come appaiono» e le cose come «effettivamente sono» (Beppe Sebaste), in una specie di tentativo di superare, come Alice attraverso lo specchio, lo schermo del mondo come rappresentazione. Non è un caso che Carroll rappresenti il feticcio della poetessa esordiente in Humpty Dumpty (1969), un «vampirico omaggio» di giochi di parole «trasgressivi» (Belpoliti), descritto qui da Milli Graffi, che prepara il terreno alle acrobazie verbali successive, da Substitution (’75) alle varie declinazioni dei famosi Frisbees, le «poesie da lanciare», alle ballate composte come «un’insalata russa» di lingue delle Russky Salad Ballads – fra cui la celebre Harry’s Bar Ballad, in cui l’autrice dichiara, come imprimendo un marchio a fuoco sul testo, la propria identità: «voglio del gin perché sono G. N. / Giulia Niccolai»; a mancare, nell’acrostico, è la I inglese di «io» prestata però, sub specie di passaporto identitario, alla chiusa della prima raccolta, «And Lewis I Carrol End», also known as A.L.I.C.E.

Emerge sempre, anche a partire dalle interviste a Giulia e dai contributi critici (Raffaele Manica, Rossana Campo, Cecilia Bello Minciacchi, Roberto Galaverni e molti altri) questo refrain della ricerca della corrispondenza fra la «parola» e la «cosa», la rappresentazione e la realtà, indagata facendo deflagrare le apparenze, semantiche o dell’oggetto, scrutate come attraverso un obiettivo fotografico mai dismesso. Ecco allora la seconda e ultima coincidenza: è proprio il testo che si citava all’inizio, Scirocco, che sembra inquadrare questa predisposizione, descrivendo non solo (o non tanto) la fine di una storia d’amore ma anzi suggerendo l’inizio di un altro rapporto, quello di Niccolai col mondo, per la propensione dell’artista a spingersi «a guardare dietro alla faccia abusata delle cose, / […], dietro allo specchio segreto d’ogni viso».

Se i tentativi – condotti tramite il medium fotografico e, poi, poetico – di attraversare lo specchio e incidere il velo schopenhaueriano finiscono per coincidere, è comunque la fede buddista a dare a Niccolai una risposta, perché è grazie a quest’ultima che la tensione irrisolta a ricomporre la realtà si placa e la poesia si rende inessenziale: «quando si riesce a squarciare anche solo momentaneamente il velo di Maya il senso di compiutezza è tale che la scrittura e la necessità di esprimersi per dare un senso alla vita non sussistono più».

E «adesso», si chiede Niccolai nel Diario del 2009, «come mi sento? Libera». A renderla inafferrabile è la libertà che ne contraddistingue l’esperienza artistica, nella capacità di cambiare percorso, di rileggersi – e personale – di donna che negli anni cinquanta brucia il motore della 600 «guidando in una sola notte da Milano a Lagonegro» (Palmieri). È forse proprio per questo che Silvia Mazzucchelli, che negli ultimi anni ha lavorato con Niccolai al suo archivio fotografico, immagina che l’amica si sarebbe stupita di questa pubblicazione: «Chi l’avrebbe mai detto che un giorno qualcuno mi avrebbe messo in Riga?».

Da Il Quotidiano del Sud – «Quello che succede oggi in Medio Oriente è per Israele un vero e proprio suicidio. Un suicidio guidato dal suo governo, contro cui – è vero – molti israeliani lottano con tutte le loro forze, senza riuscire a fermarlo. E senza nessun aiuto, o quasi, da parte degli ebrei della diaspora» scrive la storica Anna Foa nel suo libro di recente pubblicazione Il suicidio di Israele edito da Laterza. Ebrea della diaspora, l’autrice si rivolge a tutte/i le/gli ebree/i del mondo, in particolare a quelle/i dell’Italia, affinché prendano coscienza della necessità e dell’urgenza di agire per riappropriarsi dell’ebraismo e della memoria della Shoah, separandoli dallo Stato d’Israele e dai sionisti al governo, per fermare, prima che sia troppo tardi, l’antisemitismo insorgente.

«Gli ebrei – scrive – sono assimilati tout-court agli israeliani, ai sionisti e la guerra di Gaza alimenta ovunque l’antisemitismo» che «non è mai morto del tutto nel mondo, nemmeno nell’Europa i cui ebrei sono stati completamente distrutti nella Shoah». «Come fermare il suicidio di Israele se non attraverso una sollevazione dell’intera società? E come possono partecipare gli ebrei della diaspora?», visto che «quanto avviene si delinea come una catastrofe non solo per lo Stato ma anche per il resto del mondo ebraico?». Come spiegare quella identificazione? Per farlo, l’autrice ripercorre la storia del sionismo, anzi dei sionismi, e quella dello Stato d’Israele, nato come Stato ebraico, di tutti gli ebrei del mondo, cancellando «quella parte del sionismo che avrebbe voluto ebrei e palestinesi insieme in un solo Stato». Tale identificazione si completò col processo a Gerusalemme ad Eichmann con cui «lo Stato d’Israele si poneva come l’erede dei sei milioni di ebrei assassinati nella Shoah e si assumeva il ruolo di mantenerne la memoria». Poi nel 1974, con l’occupazione di Gaza e Cisgiordania, arrivarono i coloni, i sionisti religiosi messianici, oggi al potere, sostenitori della «terra d’Israele data loro da Dio e loro compito era colonizzarla e mantenerla ebraica». «Essi chiamavano – e ancora oggi chiamano – i territori occupati coi loro nomi biblici, Giudea e Samaria, a significare la volontà di considerarli parte integrante di Israele».

Il libro è un crescendo di domande. Come possono gli ebrei della diaspora non reagire di fronte ai morti di Gaza che sono opera di uno Stato che si dice democratico, ma che non esita a colpire vecchi e bambini per uccidere un solo capo di Hamas? Come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare a ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza? Come respingere l’assimilazione fra israeliani ed ebrei quando nella diaspora le voci contro Netanyahu sono flebili e accusate troppo spesso di antisemitismo? Come possiamo oggi limitarci a condannare l’antisemitismo che cresce, estendendo il termine “antisemitismo” ad ogni condanna della guerra di Gaza?

«Occorre una definizione dell’antisemitismo – è la sua risposta – che consente di distinguere nettamente ciò che è antisemitismo e ciò che non lo è». Certo, aggiunge, «è ingiustificabile l’atroce massacro del 7 ottobre ma altrettanto ingiustificabile però è chiudere gli occhi di fronte al massacro di Gaza, alle parole di pulizia etnica dei ministri di Israele, alla politica di Netanyahu che sta trascinando Israele nell’abisso» e rischia di trascinare con sé anche gli ebrei della Shoah vanificando l’insegnamento di tutti questi anni dei testimoni «mai più a nessuno». Conclude il libro con la consapevolezza che «non si può dare per scontato» che l’odio scatenato da entrambe le parti un giorno cesserà. Ma non ci sono altre strade. Un libro di una ebrea coraggiosa.

Da Doppiozero – La necessità di contribuire alla fuoriuscita dal caos cognitivo in cui tutto il mondo è precipitato, ha suggerito a due filosofe femministe, del calibro di Adriana Cavarero e di Olivia Guaraldo, di portare un contributo imprescindibile alla chiarezza e all’assunzione di responsabilità soggettiva nel momento in cui si sceglie per quale causa lottare. La causa per cui, nel travaglio contemporaneo, si impone il loro libro Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa), (Mondadori, Milano 2024) ha molti motivi. Tra i più urgenti quelli che occupano il dibattito pubblico, non solo italiano, e che riguardano soprattutto i rapporti tra i sessi, i generi, la maternità, le famiglie, le richieste delle minoranze sessuali, le neolingue, il linguaggio impreciso che, ad esempio, inventa “persona che mestrua” per evitare di dire donna. Parecchie recensioni hanno messo a fuoco l’importanza del libro nell’affrontare temi cruciali come il femminicidio e la violenza contro le donne.

Oppure l’intersessualità che contesta il cosiddetto binarismo maschio-femmina, come fanno anche le identità trans-sessuali. È molto importante l’affondo sull’equivoco prodotto dall’uso eccessivo di gender, tradotto come “genere”, una parola che prende la scena in ogni contesto senza che si sappia veramente cosa significa: «(per il pensiero della differenza) la distinzione tra genere e sesso è secondaria, anche perché ciò che si intende per genere è spesso sostituibile con la categoria di stereotipo culturale» (p.11). Il lavoro di chiarificazione espande il testo delle autrici fino a coprire tutto il campo dell’aspra discussione contemporanea: ad esempio, nel capitolo intitolato “Sesso e genere”, Cavarero e Guaraldo hanno la possibilità di dare ampia voce a Judith Butler, la più famosa teorica del gender, che imposta le sue proposte a livello di «regimi discorsivi che intendono produrre la verità sui sessi e sulle loro differenze» (p. 120). Butler, scrivono le autrici, non lavora sui dettami misogini del patriarcato, ma propone di concentrarsi sulle «ingiunzioni di quella che, riprendendo Adrienne Rich, Butler chiama matrice eterosessuale o eterosessualità obbligatoria […] stabilendo quindi ciò che è normale e ciò che non lo è» (p. 124).

Nel cruciale capitolo “Maternità surrogata. Corpi in vendita?”, si può vedere come sia questo il campo in cui infuria maggiormente la “lotta per il linguaggio”, e nel quale, ancora una volta, si provi a cancellare l’esistenza delle madri proponendo di chiamarle portatrici gestazionali: «È questo forse il sintomo più mostruoso di una terminologia che deve fare i conti con uno stravolgimento del concetto stesso di maternità, ora frammentata in più corpi di donna, dall’assemblaggio delle cui funzioni organiche nasce un bambino che è figlio di terzi (p. 165)».

Dal mio punto di vista di filosofa femminista coinvolta, trovo decisivo assumere l’impegno del libro riportato in quarta di copertina: «Il femminismo della differenza sessuale non intende affatto definire in maniera rigida e stereotipata il femminile, anzi, ne vuole liberare le potenzialità espressive, esaltandone la libertà». Bisogna rendersi conto dell’urgenza con cui è presentato il compito dal libro, un’urgenza che deve farsi largo tra le più drammatiche del nostro tempo non certo privo di pericoli radicali: la divenuta precaria presenza nell’agonica cultura del presente dell’autorevolezza del femminismo, sostengono le autrici. Il femminismo si è certamente diffuso tanto da moltiplicare le sue declinazioni e da obbligare a dire che ormai esistono parecchi femminismi.

La diffusione, da un lato, è un bene, poiché significa l’irreversibilità della rivoluzione mondiale delle donne che fa accedere a un senso comune della libertà femminile; dall’altro lato può anche significare perdita di qualità e di pensiero profondo, significato come “espressività” dalle autrici, cosicché la “libertà” può declinarsi facilmente in una generica richiesta di diritti o, ancor peggio, può indurre a rendersi complici dei consumi culturali che il neoliberismo propone di continuo, sfruttamento dell’ondata queer compresa. In un momento storico in cui si gioca quasi tutto sulla scena mediatica, in cui l’appello ai diritti è sostenuto dall’individualismo identitario che ha forgiato la cultura europea-occidentale, in cui la scientificità ha abbandonato l’insegnamento, la formazione, la cultura umanistica stessa, il confronto tra posizioni, il moltiplicarsi dei femminismi, e la conseguente difficoltà a unirsi in lotte comuni urgentissime, tutto questo sta producendo quasi una rimozione della presenza vivificante del pensiero e delle pratiche della differenza sessuale.

«Il (vocabolario pubblico) è in perpetuo accrescimento strutturalmente equivoco, e i singoli termini, assumono un significato diverso a seconda dello schieramento politico e culturale di chi li usa (p. 7)». Non è solo per questo che si è persa la scientificità del pensare e dell’agire (una perdita incalcolabile nel campo dell’istruzione e della formazione delle giovani generazioni), ma si è persa generalmente anche nel compito fondamentale di un filoso-fare degno di questo nome: saper leggere la realtà per come è, «le cose per ciò che esse sono». E non è stata solo la fenomenologia di inizio ’900 e reindirizzare così la ricerca filosofica, lo è stata ancor di più e differentemente la ricerca filosofica delle pensatrici del secolo scorso (Weil, Murdoch, Arendt, Lonzi, Zambrano, Lispector, Irigaray…) che hanno forgiato la loro offerta di discernimento, di coraggio di fronte alla realtà, di rivoluzione filosofica improntata dal segno differente del loro pensiero di donne. Oggi sarebbe il momento di ripristinare quella che un tempo si chiamava “onestà intellettuale”, e di ribadire che c’è ignoranza nel mondo della cultura e dell’insegnamento dove si è installata una certa mancanza di scientificità. Le letture della realtà che prescindono pervicacemente dalla differenza sessuale sono astratte e troppo imprecise.

Le rimozioni del materno, quindi delle origini concrete di ogni essere umano, e del fatto che anche le donne fanno filosofia eccellente, ribadiscono le autrici, hanno creato all’interno della filosofia stessa, che ha a sua volta creato la cultura occidentale dicotomica, la differenza sessuale negativa «tradotta in inferiorità femminile», dunque hanno imposto la caduta verticale della capacità scientifica di presentare letture aderenti alla realtà così com’è raccontata, almeno, dalla Rivoluzione francese in poi, come pervasa dall’utile metafora dell’uguaglianza. Tanto che le autrici si interrogano sulla probabile incompatibilità tra democrazia moderna ugualitaria e esistenza concreta della differenza femminile, genealogicamente capace di praticare politicamente la «soggettività relazionale e anti-individualista» (p. 136).

A questo punto, come ringraziare adeguatamente Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo per il contributo che stanno dando al cambio di civiltà in corso, nel quale, se lo vogliamo accompagnare, non si potrà più ignorare l’autorità del pensiero della differenza sessuale?

Da la Repubblica – Scrittrice sassarese, di sé lascia pochissime tracce biografiche, muovendosi sempre ai limiti del canone. Collabora con il cinema di Fellini e Zavattini e consegna alla storia del costume indimenticabili istantanee di personaggi letterari e no. E due romanzi che hanno per protagoniste donne, amiche, sorelle.

Nel discorso sempre molto frequentato sul canone letterario, il crinale più interessante negli ultimi tempi non è tanto la distinzione tra ciò che è canone (o lo è stato o forse lo sarà) e ciò che non lo è, ma la galassia scivolosa e multiforme di quegli autori che vivono un’esistenza indifferente e parallela ai parametri, e in quella zona, solo in apparenza opaca, trovano a volte un’originale forma di fortuna. Appartiene a questa genìa Leila Baiardo, scrittrice sarda di cui si rintracciano poche notizie biografiche e ancor meno fotografie, che la ritraggono quasi tutte da anziana, negli ultimi anni della sua lunga vita conclusasi qualche anno fa. On line è difficile scoprirne la data di nascita, le bandelle dei suoi romanzi la omettono (un vezzo adorabile) e il canone l’ha ignorata: le scarne notizie su di lei riportano perlopiù informazioni filtrate da lei stessa.

Nata a Castelsardo, vicino Sassari, dopo la maturità classica si sposta a Roma, dove inizia a collaborare con le maggiori riviste letterarie della sua epoca, tra cui Noi donne e Nuovi Argomenti, occupandosi di interviste e recensioni. Nel 1976 pubblica con Bompiani L’inseguimento, proposto all’editore da Cesare Zavattini, con il quale all’epoca l’autrice collaborava nella stesura di soggetti per il cinema. Il romanzo ha un buon riscontro di critica, Leila Baiardo è piuttosto conosciuta nell’ambiente letterario e cinematografico, lavora con i fratelli Taviani e, sette anni dopo il suo esordio, vince il Premio Noi Donne con il romanzo Sogno d’amore. Risalgono a quegli anni i suoi ritratti di poeti e scrittori oggi raccolti nell’antologia Incontri, pubblicata per la prima volta in formato elettronico nel 2010 da La Recherche e oggi disponibile in cartaceo nel catalogo delle Commari, piccola e attivissima casa editrice indipendente che di Baiardo sta curando l’opera omnia e la riscoperta. Incontri è un libro fresco e spigolosamente sincero, ideale per fare la conoscenza del personaggio, prima ancora che dell’autrice: in queste pagine gli intellettuali vengono fotografati con una libertà che può apparire disarmante nell’eccesso di sussiego al quale oggi siamo abituati. «Devo dirlo subito e poi spararmi. Era una donna antipaticissima» scrive Baiardo di Elsa Morante. E di Jolanda Insana: «Un’altra antipaticona (quasi quanto la Morante) ma una buona poetessa». Amelia Rosselli «era intelligentissima e contemporaneamente stupida e pazza. Forse più pazza che stupida. Ma non è un giudizio e tantomeno una diagnosi. Anch’io sono pazza. E a volte anche stupida». Leila Baiardo ricorda poi le lunghe quasi oniriche conversazioni con Sandro Penna e i suoi guai con i ragazzini di cui si invaghiva e che portava nella casa dove viveva con la madre, l’affabilità affettuosa di Federico Fellini, il dialogo fulmineo e ricco di presagi con Anna Proclemer.

Sempre, la notizia delle morti di questi conoscenti la coglie anni dopo, quando è già lontana dai loro mondi e appartata, quasi isolata, tanto che si ritrova a fare le condoglianze a sé stessa, celebrando a ogni addio un altro pezzo della fine del suo mondo. In questo librino irresistibile l’autrice mette insieme con audace disinvoltura Antonio Delfini e Mike Bongiorno, Topazia Alliata e Fred Buscaglione, il tutto introdotto da un’accorata prefazione di Elio Pecora, che per Leila Baiardo, «donna molto singolare e con un’esperienza di vita assai varia », si augura un destino preciso: «Vorrei tanto che toccasse a Leila, anche se con troppo ritardo, l’attenzione che merita dalla famiglia ampia e composita di chi cerca nella narrativa la qualità e il piacere, la complessità del reale e la leggerezza del sogno».

Il lavoro della casa editrice Le Commari raccoglie questo augurio.

La santa e Dies Illa, i due romanzi in catalogo, giocano sulla stessa schiettezza di scrittura, sulla stessa fresca ironia, ma qui il registro è alto, non più di costume si tratta ma di opere di valore letterario, che rielaborano ritagli di vissuto dell’infanzia e dell’adolescenza per restituirli in forma narrativa. In Dies Illa, esplicitamente ambientato a Castelsardo, le protagoniste sono Ela e Mira, al secolo Electa e Mirìce, sorelle adolescenti, molto diverse fra loro: attraverso le loro vite possiamo leggere il cambiamento epocale della Sardegna negli anni Cinquanta e Sessanta, quando l’isola fu travolta dall’arrivo del turismo e i sogni di tutti offuscati dal miraggio del benessere. Anche La santa ha per protagoniste una coppia di ragazze, stavolta cugine: una delle due, la più capricciosa e stupida, ma forse invece la più illuminata, costruirà intorno a sé un’aura mistica, raccontando di avere delle visioni e ritirandosi sempre più a una vita mortificata: il filo esile che tiene insieme egocentrismo e santità viene tenuto magistralmente dall’autrice fino alle ultime pagine.

Abbiamo iniziato la conoscenza di Leila Baiardo premettendo una sua estraneità al canone, è vero. Eppure, di Dies Illa Toni Maraini ha scritto: «C’è qualcosa di antico in questo libro, un pathos che evoca i grandi romanzi del Novecento». Inoltre, Baiardo figura tra le cinquanta scrittrici della mitica antologia Il pozzo segreto, pubblicata da Giunti nel 1993, accanto a nomi come Natalia Ginzburg, Goliarda Sapienza e Maria Bellonci. Forse il canone è più imprevedibile di quanto pensiamo. Forse l’augurio di Elio Pecora si sta segretamente avverando. Forse possiamo solo godere di una scrittura interessante e disinteressata a vendite e promozioni, lasciando ad altri la costruzione dei totem editoriali.

Da il Corriere della Sera – Capita che a un incontro pubblico, in qualche titolo di giornale, in una discussione privata, ci sia qualcuno che a un certo punto dica: ci sono anche donne che uccidono uomini però non se ne parla mai. A parte il fatto che non è vero; le rare volte che succede se ne parla eccome. Ma quello che risulta fastidioso è la tracotanza di chi accende un faro sulle (pochissime) storie di violenza femminile convinto che sia giusto dare a quella violenza la stessa rilevanza che meritano – tutti assieme – i casi di uomini che si accaniscono contro le donne. Che poi: quando parliamo di violenza contro le donne spesso evochiamo unicamente il femminicidio ma come sappiamo c’è molto altro. C’è la violenza economica, con la quale si alzano muri per tenere prigioniera una donna in una relazione, soprattutto quando ci sono di mezzo dei figli. C’è la violenza psicologia, sottile e tagliente come lama di coltello. E ci sono moltissime donne che portano i segni della brutalità del partner: lividi, fratture, lesioni di vario genere non di rado gravi o gravissime.

Nel libro “Il futuro mi aspetta” (Feltrinelli Up) scritto a quattro mani con Daniela Palumbo, Lucia Annibali racconta del suo “dopo”. Dopo l’acido in faccia ordinato per lei dal suo ex e dopo il tempo della sofferenza fisica, del processo. In quel dopo ci sono anche gli incontri con i ragazzi nelle scuole e le domande più frequenti che le rivolgono. Una, definita «ricorrente» e «inquietante», e che in genere viene dalla voce di un ragazzo, è proprio quel «perché si parla sempre di violenza sulle donne e mai viceversa?». Lucia scrive che «è un quesito terribile che svilisce la cura e la fatica del mio racconto». E aggiunge che «è anche capitato che a questa domanda seguissero applausi di gruppi di studenti presenti… Quando succede ci resto male. Mi sembra una provocazione e dunque un’occasione sprecata».

Per quanto scoraggiante sia la domanda, la risposta è facile ed è nei dati. Donna uccisa = movente da cercare in una relazione intima, quasi sempre. Uomo ucciso = moventi vari, quasi mai legati a una relazione intima. Certo, poi sarebbe necessario andare alla radice del problema, e cioè alla domanda – questa sì – che bisognerebbe farsi: da dove arriva l’incapacità di accettare un abbandono che fa scegliere ai più violenti la morte di lei piuttosto che la vita senza di lei?