da il manifesto

Anatomia di una separazione o documento politico sulla relazione tra i sessi, rileggere oggi Vai pure è di una certa attualità. Si tratta del volume che Carla Lonzi prepara e pubblica nel 1980 riportando la sua conversazione in quattro giornate con Pietro Consagra, facendoci entrare dentro il rapporto tra una donna e un uomo. Si erano conosciuti alla metà degli anni Sessanta, Lonzi e Consagra, e a unirli era stata l’arte, ambiente da cui lei decide presto di congedarsi perché non corrispondente alla sua radicalità, ma soprattutto un legame d’amore. Forte, importante, fatto di alleanza e desiderio, soprattutto nei primi anni, non sempre facili, poi di conflitti insuperabili. Uscito per la prima volta nei «Prototipi» delle edizioni di Rivolta Femminile, viene ripubblicato nel 2011 dalle edizioni et.al e ora è nuovamente disponibile per La Tartaruga (pp. 168, euro 19), a cura di Annarosa Buttarelli che ne firma una puntuale postfazione.

A casa di Carla, luogo indicato in quelle 4 giornate del 1980 dal 25 aprile al 9 maggio, registrano ciò che si dicono riportando su carta l’analisi incarnata di una resa dei conti. Per comprendere come arrivano a quel punto si può intanto leggere il diario di Lonzi, Taci, anzi parla (1978, poi 2010 e 2024), in cui «Simone» (cioè Pietro) è tra le sue interlocuzioni significative, se ne possono osservare le mutazioni via via che la scoperta del femminismo diviene inaggirabile indagine di sé, quando l’autocoscienza prosegue e rompe le illusioni, una per una, smantellando inganni, sistemi di potere e inferiorizzazione.

Nel 1973, Lonzi appunta diverse cose proprio nel suo diario rivolgendosi al suo compagno di allora: «Avevo diversi amici, personalità di cui subivo l’influenza, però sono stata saggia e oculata: il cuore, proprio il cuore l’ho dato a te, e era la parte più veritiera. Con te ero più me stessa, tu mi amavi più come ero, gli altri mi mitizzavano di più; o meglio, vedevano solo una parte». Dopo sette anni, la frontalità ormai ineludibile è di due esseri umani nella tensione di osservare l’esaurimento di una esperienza, tra disincanto e allarme.

C’È UNA FOTO, nella copertina di Vai pure, in cui sono seduti ai lati di una scrivania, lui concentrato a leggere qualcosa mentre lei lo guarda. È scomparso il sole caldo di quella volta in cui, nel 1968, è proprio Consagra a fotografare Lonzi. Sono in Texas, a San Antonio, il ritratto di lei ha dietro una costruzione illuminata di una fiera internazionale che le faceva da aureola. Anche questo lo racconta nel diario, quando descrive l’esperienza del suo cancro e della sua operazione proprio negli Stati Uniti.

Cosa accade allora in quel 1980? Anno interessante – ad esempio Adrienne Rich svela i gangli dell’eterosessualità obbligatoria assunta come sistema di potere e sulla scena artistica mondiale, Marina Abramovic e Ulay sperimentano Rest Energy, che li vede in equilibrio precario mentre tendono un arco, sbilanciati sui talloni. Lui tiene la freccia tesa sul petto di lei, basterebbe una frazione di secondo a spaccarle il cuore e in quella eventualità c’è un affidarsi ma pure una disparità di potere maschile su una donna spalancata ed esposta che non cede. Se della performance dei due artisti ricordiamo i suoni dei loro battiti cardiaci, per 4 minuti, di Carla Lonzi e Pietro Consagra l’impressione delle loro 4 giornate è la capacità di sapersi salutare, come accaduto già transitoriamente.

Ora però il clima è definitivo, perché tutto è accaduto, lei davvero gli dice che può andare dopo che si è compresa l’insostenibilità di due mondi opposti, due lingue agli antipodi. Quella di Lonzi, libera, dice, ad esempio, che non è possibile il perdurare di un incontro di due soggetti senza che uno riconosca l’altro interamente e non come presenza accessoria. Anche questa reciprocità, da non confondere con una richiesta di autorizzazione per esistere, è il sottofondo di Vai pure.

Il confronto serrato è su quanto abbiano scelto per le loro esistenze: in Vita mia, l’autobiografia che Pietro Consagra pubblica nel 1980 con Feltrinelli, Lonzi nota quanto lo scultore scambi i processi, i passaggi con le «tappe» mentre lei nel suo Taci, anzi parla, edito la prima volta nel 1978, «si vede cosa è stata per me la tua presenza in quegli anni, dal tuo libro non si vede cosa è stata la mia presenza per te, non c’è proprio».

DUE ORIZZONTI che potrebbero ascriversi nell’ordine di una differenza sessuale al lavoro e in effetti c’è una fatica, un discreto impegno ma infine una irraggiungibilità non più rimediabile. Consagra si lambicca, è a tratti sinceramente incline ma non sostiene l’intransigenza, il nocciolo della questione: le domanda, quindi, perché lei continui a parlare di «un rubacchiamento» mentre quel che solleva Lonzi è ancora una volta, e con semplicità, di un’altra portata. Il tema è che, dice Lonzi, «io trovo astratto, cioè non vero, irreale, tutto questo costruirsi della personalità maschile come un produrre da sé.

Questo produrre da sé non è vero, non esiste. Esiste sempre un rapporto, un dialogo». E fintanto che un dialogo non si pone tra due coscienze, una delle due crede di essere «assoluta», e anche – si potrebbe aggiungere – irrelata. Il diario fa vedere quanto a uno «scatto di coscienza corrisponde un processo che non è prestigioso come lo scatto di coscienza» per segnalare come questo momento «non prestigioso» venga sempre nascosto «ed è quello in cui la donna è presente».

Diversamente, l’uomo di questo salto di coscienza ne fa un salto di cultura, gestendone il profitto. Ancora una volta il meccanismo è della appropriazione, Lonzi lo chiama qui «assorbimento», e del disconoscimento che ne consegue a fronte di un protagonismo maschile.

Sono argomenti che, a quell’altezza, avevano già circolato ampiamente negli scritti di Lonzi e con il gruppo di Rivolta era già intervenuta in più contesti, ad esempio in un documento del 1971, «Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile», o anche quello del 1972 «Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi» (riuniti in Sputiamo su Hegel nel 1974, poi 2010 e 2023). Da un lato dunque c’è il protagonista, monologante ed estroflesso nei suoi rapporti sociali e di mantenimento della sua posizione, che non è più l’uomo «in crisi» della metà degli anni Sessanta, dall’altro lato c’è la «massima dilatazione» il cui sfondo, quando Lonzi scrive il diario, è il femminismo e che le ha consentito di porsi «come mito di nessun genere» piuttosto invece come «un’istanza di autenticità e l’altro capisce che o risponde sullo stesso piano o è meglio che stia zitto».

IN «VAI PURE», prima che Carla e Pietro concludano questo loro apprendistato che ha seguito l’amore, la ferita, la fragilità, fanno capolino la sessualità come l’abbraccio. Colpisce inoltre quanto nessuno dei due sia mai grato all’altra bensì vi sia «una esasperazione continua delle posizioni» che diventa, ineluttabilmente, impraticabile. Cruciale il passaggio in cui, parlando della dialettica servo-padrone segnandone la prospettiva marxiana, Carla Lonzi centra un punto piuttosto attuale nei rapporti cosiddetti emancipati (Consagra non sembra ostile alla sua pratica femminista); oggi lo chiameremmo un percorso denso, condiviso nella libertà di una visione del mondo. Ebbene, peccato che: «qui, siccome il rapporto è privato, a due, senza testimoni, bisogna che siano proprio i due interlocutori a mettere giù i punti di coscienza. L’uomo finora ha usufruito di un profitto senza accorgersene, adesso se ne accorge, perché se ne è accorta l’altra. Me ne sono accorta io quindi ti ho portato a dover ammettere che la cosa è così, siccome siamo sul piano della coscienza, e la coscienza vuol dire la verità».

La pubblicazione nell’ultimo dei Quaderni di Via Dogana della conversazione integrale inedita di Luisa Muraro con Clara Jourdan svoltasi nel 2003 (Esserci davvero, Libreria delle donne, Milano 2025) ha anzitutto il pregio di farci scoprire gli aspetti meno scontati e più sorprendenti della personalità della ben nota filosofa della differenza sessuale. Sollecitata con garbata finezza da Clara Jourdan che non si limita a formulare domande ed esporre le proprie osservazioni, ma contestualizza, mette a punto, sottolinea rimandi a vita e opere, Luisa Muraro coglie e accoglie suggestioni, schizza una sorta di autoritratto enunciando i propri pensieri con audacia e nondimeno con sobrietà, si sofferma con franchezza sui tratti spinosi del proprio percorso esistenziale-politico sino ad affievolire l’alone di una certa baldanza caratteriale e a tentare di svelarne il punto cieco.

Esserci davvero si apre con il riferimento di Luisa Muraro alla madre che ogni due mesi «sentiva l’esigenza interiore di andare al Santuario di Monte Berico» edificato sui colli di Vicenza e dedicato alla Madonna: un pellegrinaggio in forma di «divertimento autorizzato delle donne»; «una specie di allungamento religioso del cristianesimo, ma, sappiamo, era la religione precristiana della grande dea», data la presenza della Madonna sotto il cui manto trovano rifugio tutti; un viaggio verso un luogo di devozione mantenuto in vita dal sentimento religioso dell’umanità femminile. Ma non c’è traccia di una rappresentazione idealizzata della madre, giacché Luisa Muraro puntualizza: «[…] l’importanza di mia madre nella mia vita e per me è anche problematica e oscura. Io non sono una donna che ha avuto un rapporto buono con sua madre, nel senso di un rapporto felice. Ho avuto un rapporto buono nel senso di un rapporto che c’era effettivamente».

Poche pagine più avanti le sue risposte acquisiscono una tonalità sempre più confidenziale: confessa che i suoi studi, in particolare nella giovinezza, sono stati orientati da qualcosa di instabile, nondimeno presente dentro di lei «in una maniera molto segreta»; invece, «per esserci concretamente in carne e ossa», dichiara di aver avuto bisogno di appoggiarsi a delle persone in una relazione, nella quale gioca «una parte non piccola di egocentrismo. Cioè, sono io che ho bisogno, e l’altro, l’altra, sono l’appoggio simbolico. Non è tanto una relazione di scambio. Certo che la relazione si stabilisce, e lo scambio si stabilisce, ma è uno scambio dispari». Così di volta in volta le è capitato di appoggiarsi «a chi ha l’aria di sapersi orientare» (Bontadini, Rosetta Infelise, Fachinelli, Lia Cigarini) e via via di sganciarsene, tranne nel caso dell’incontro con il femminismo della Cigarini, ovvero «una pratica di relazione, il partire da sé e l’efficacia che ha la modificazione di sé, della propria relazione con le cose». Grazie a questo incontro Luisa Muraro è infatti uscita dall’esserci «truccando i dadi», «facendo carte false», e ha avvertito finalmente con felicità un «esserci in prima persona in qualcosa che accade», un esserci davvero.

Il desiderio fisiologico di scrittura che caratterizza il suo itinerario esistenziale, o meglio la sua strategia esistenziale, finisce dunque con il trovare casa e dimora nella pratica politica delle donne assunta come forma simbolica che le avrebbe permesso di scrivere. È ciò che le accadde con La Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe (Feltrinelli, 1976), il libro che segna un cambiamento di rotta nella rappresentazione storiografica delle donne: «Avevo un materiale, perché la caccia alle streghe mi interessava da tempo; avevo un materiale emotivo e anche contenutistico, culturale, gli ho dato la forma di una pratica politica che ha reso possibile la scrittura». È ciò che accadrà con le opere che più risolutamente aderiscono a questa strategia esistenziale, ne dà conferma la stessa autrice non senza cercare di snidare un altro suo aspetto radicato in profondità: «Certo, non è solo la scrittura, è l’avere a disposizione una domanda di scrittura – Luisa, scrivi! – che motiva e autorizza che io possa dedicarmi a questa attività che probabilmente fa dentro di me un ordine simbolico. Qualcosa che ha a che vedere con il dare forma, a me».

Dopo essere stata sviata dalla ricerca su Della Porta (Giambattista Della Porta mago e scienziato, Feltrinelli 1978) e dopo la virata sulla linguistica che le ha ispirato quel piccolo grande libro che s’intitola Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia (Feltrinelli 1981), Luisa Muraro racconta come è andata con Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista (La Tartaruga 1985), «una storia di grandezza femminile». Commuove leggere delle relazioni intrattenute con altri studiosi/e, va dritta al cuore la straordinaria    passione che ha accompagnato il suo lavoro alla Biblioteca Ambrosiana: «… ero come in perenne estasi, perché ero tutta presa da questa ricerca, proprio in una maniera che dice qualcosa di questo rapporto che ho, quando la materia della storia, o della mia vita, o della vita degli altri, si può trasformare in scrittura». Ammaliata dagli sprazzi narrativi e dai brevi inserti speculativi – un’alternanza-commistione che è la cifra della scrittura di Muraro – vengo così a conoscenza anche del prezioso lavorìo di tessitura che sta dietro la sua composizione di Non credere di avere dei diritti (Rosenberg & Sellier, 1987), una messa in parole di una pratica politica, «una narrazione libera di donne che vogliono raccontare la loro storia», quella vissuta fra il 1966 e il 1986 a Milano e non solo.

E questo vale altresì per l’impresa di Diotima, la comunità filosofica femminile nata tra il 1984 e il 1985 all’Università di Verona, e per il primo testo di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale (La Tartaruga, 1987) come per quelli successivi. E ovviamente in Esserci davvero non può mancare il riferimento all’apporto fondamentale dato da Luisa Muraro fin dal primo numero, del giugno 1991, a Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano che era stata inaugurata nel lontano 1975 e di cui ricorre quest’anno il cinquantenario. Una rivista di politica delle donne, vale a dire una politica che non mira alla spartizione del potere, perché quando è in gioco la libertà femminile il cambiamento «si sviluppa con la presa di coscienza e questa ha la stessa natura del fuoco, si accende, si alimenta e non diventa possesso» – come si legge sul sito https://www.libreriadelledonne.it/categorie_pubblicazioni/viadogana/.

A proposito del libro coevo alla pubblicazione del primo numero di Via Dogana, L’ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, 1991), che segna un taglio nella storia del pensiero, Luisa Muraro ne espone la genesi e riconosce che pur essendo autentico è per lei un libro oscuro: «l’ho scritto in condizioni che me lo rendono non uno specchio per me, e d’altra parte io sono una che non si specchia volentieri. Però le altre donne, non tutte, ma molte altre donne si sono specchiate nel libro e me lo hanno detto, diventando loro lo specchio per me. E allora ho capito. Più che nei miei prodotti io confido nelle lettrici. […] i lettori, le lettrici sono fondamentali per l’esistenza di un’opera – questo viene sempre più riconosciuto – ma possono essere fondamentali anche per la sopravvivenza degli autori».

L’ultima tappa di questa conversazione così variegata e piroettante che è Esserci davvero riguarda la decisione di Luisa Muraro di dedicarsi allo studio di Margherita Porete (si veda Lingua materna scienza divina. La filosofia mistica di Margherita Porete, D’Auria M. 1995) e la sua dedizione alla scrittura mistica di donne. Sono pagine nelle quali si percepisce l’intensità del fervore che connota la scoperta della «libertà delle donne [che] diventa proprio un’apertura d’infinito», la scoperta di una teologia in lingua materna – e il pensiero corre a Le amiche di Dio. Scritti di mistica femminile (D’Auria M. 2001) e soprattutto a Il Dio delle donne (Mondadori 2003).

La più bella intuizione che grazie a questo suo attraversamento delle mistiche mi/ci viene donata è che «tutto è storia ma la storia non è tutto. C’è qualcosa che eccede e questo qualcosa è vuoto, non è nominabile, non è dicibile, è un niente, è un niente che però io considero un passaggio all’essere». C’è altro, sostiene Muraro, ovvero c’è «il senso della incompiutezza di ogni impresa umana. Non è che vada sanata con la dimensione religiosa che per noi è perduta, ma la consapevolezza del c’è altro, il senso della incompiutezza e della fragilità, va salvaguardato, e senza cadere nel nichilismo e nella disperazione: come nella mistica, è nell’attesa che questo altro venga a noi».

Si tratta di disfare la maglia di questo mondo per fare posto ad altro: «Altro, che cosa?». Luisa Muraro ha cercato la risposta nei testi delle scrittrici beghine e delle poetesse preferite e ha trovato, «come risposta, che questo “altro” è l’impossibile: la teologia in lingua materna insegna in pratica (e, entro certi limiti, anche in teoria) a stare al mondo con la certezza che in esso ha luogo, o può trovarlo, anche l’impossibile» (Il Dio delle donne, 2003, p. 84). In tempi di apparente agonia dell’umano imposta dai potenti di turno il tesoro di Luisa Muraro si racchiude in definitiva nella potenza del c’è altro, che tradotto nella nostra quotidianità consiste per l’appunto nella salvaguardia della fragilità e dell’incompiutezza e prepara ogni singolo/a a un altro ordine di rapporti ora, qui, su questa Terra.   

Palermo, 20 giugno 2025

da RivistaStudio

Qualche anno fa ho preso una gatta e l’ho chiamata Olivia. «Non l’hai ancora superata, eh», ha commentato mia madre con l’aria di chi la sa lunga. «È solo un nome», ho ribattuto stizzita. Mia madre alludeva a quella che, per quattro anni, era stata la mia migliore amica, e che avevo trovato seduta accanto a me in prima media, fra i banchi dell’ultima fila. Sono lenta ad affezionarmi alle persone e i colpi di fulmine rappresentano un’eccezione all’interno della mia grammatica emotiva, eppure non trovo altra categoria per descrivere la fascinazione che mi calamitò verso di lei appena la conobbi. Ascoltavamo la stessa musica, eravamo alte uguali e, scoprimmo presto, nate lo stesso giorno – tanto bastò per sentirci destinate a un’amicizia che, ne eravamo sicure, sarebbe durata per sempre, e che per un po’ ha avuto i tratti idilliaci, vagamente simbiotici, delle storie d’amore ai loro inizi. Io ero timida, lei esuberante; lei sboccata, io in punta di forchetta; io piuttosto distaccata, lei piena di entusiasmo; lei disobbediva all’autorità con piacere e disinvoltura, io volevo solo sentirmi dire “brava”. Olivia corrispondeva perfettamente allo stereotipo della cattiva compagnia, e i miei genitori provavano sentimenti ambigui nei suoi confronti: un po’ la trovavano divertente, un po’ temevano che avrebbe distrutto anni di educazione borghese per condurmi sulla cattiva strada. A distanza di venticinque anni da quell’incontro mi rendo conto che, se non l’avessi mai conosciuta, oggi sarei una persona diversa – e sicuramente più noiosa.

Buone amiche, cattive influenze

«Queste cattive influenze aiutano le eroine a sfuggire ai mondi domestici che le soffocano e non hanno nessuna aspettativa per il loro futuro. Le conducono nel territorio oscuro e pericoloso dell’aldilà. Le aiutano a dimenticare le prudenti lezioni che sono state loro impartite. Questi rischi sono essenziali. In quale altro modo l’eroina potrà mai scoprire chi è e chi dovrebbe diventare?», scrive Tiffany Watt Smith in Pessima amica (pubblicato da UTET con traduzione di Chiara Baffa), un saggio dove l’autrice, storica della cultura, esplora l’amicizia femminile intrecciando l’analisi di aneddoti personali e storiografici a fonti teoriche. Queste ultime, a eccezione delle filosofie femministe, hanno sempre espresso notevole scetticismo nei confronti dei rapporti fra donne. A partire da Aristotele passando da Montaigne, che elogiava le relazioni amicali sopra tutte le altre ma credeva che le donne non fossero in grado di instaurare rapporti paritari di affetto e cura, fino ad arrivare ai numerosi luoghi comuni che screditano sistematicamente la possibilità di una complicità fra donne, le comunità femminili non hanno mai goduto di buona fama.

Quando, una decina d’anni fa, cominciai a scrivere per una piccola agenzia di comunicazione dove lavoravano solo donne, tutti mi dissero “sarà tosta”, e quasi mi sorpresi quando mi accorsi che il clima era invece collaborativo e rilassato, a tratti giocoso, niente affatto attraversato dalle invidie e dai pettegolezzi che sempre si ascrivono ai rapporti femminili. Sebbene lavorassimo parecchio e a ritmi sostenuti, l’atmosfera era amichevole, come in ogni altro gineceo di cui abbia fatto parte – quando fanno le cose insieme, le donne diventano subito amiche, e se è vero che «non dobbiamo per forza diventare amiche per essere alleate», bisogna riconoscere che «anche la storia dell’attivismo femminile degli anni Sessanta è impossibile da raccontare senza parlare di amicizia».

Watt Smith rintraccia numerosi esempi storici a sostegno di questa tesi, dalle beghine che, nel nord dell’Europa, formavano comunità autonome, solidali e svincolate dall’egida ecclesiastica, ai gruppi di donne non sposate, impiegate nell’industria della seta, che nella Parigi del XIII secolo si stringevano in nuclei di sostegno economico e abitativo, assimilabili a vere e proprie famiglie, fino ai gruppi di amiche che, in epoca più recente, decidono di andare a vivere insieme per garantirsi supporto reciproco e compagnia durante la vecchiaia. In ogni fase della vita le amiche rappresentano sì un luogo di conforto, svago e sostegno, ma anche uno specchio che ci aiuta, niccianamente, a diventare quello che siamo, a corrispondere alla versione più autentica di noi stesse – una versione che non si dà una volta per tutte ma che si costruisce nello scambio con le altre, e che va incontro a una evoluzione continua. È in questa dimensione dialettica e formativa che si annidano, però, anche i rischi maggiori.

Un confronto continuo

Non posso sapere con esattezza cosa significhi, per un maschio, essere amico di un altro maschio, ma so che da femmina, durante l’adolescenza e non solo, è pressoché impossibile non fissarsi, con un filo di inquietudine, su quello che fa la nostra amica. Sul suo corpo, che già da ragazzine ci insegnano a misurare per valutarne l’attrattività, sul modo in cui parla, ride, gesticola e si rapporta ai ragazzi, sulla popolarità di cui gode e che a noi magari manca, sul suo riflesso che può nobilitarci o farci crollare, sul matrimonio che ha appena contratto o su quello che ha deciso di mandare a monte. Sulla sua vita, il suo lavoro e il suo carattere che, se da un lato possono esserci d’ispirazione, dall’altro rischiano di sembrarci sempre, e tristemente, migliori dei nostri. Serve una lunga pratica di decostruzione per smetterla di osservare le nostre amiche solo per paragonarci a loro, e cominciare invece a farlo per il puro piacere di guardarle. È in questo rimando di riflessi continuo, a tratti sfiancante, che si costruisce il delicato equilibrio fra rivalità e complicità, fra confronto e sorellanza. È su questo terreno che molti rapporti capitolano, esasperati dall’emulazione o scossi da scelte di vita che vengono vissute come veri e propri tradimenti. Come scrive la psicoterapeuta Susie Orbach, la cosa più difficile è legarsi senza cercare di clonarsi.

In Pessima amica torna spesso una domanda: se, da un lato, sono piuttosto chiari i tratti di una sodale mediocre, come si fa a essere una buona amica? A partire dal Novecento l’amicizia femminile è stata parzialmente riabilitata, si è diffusa l’idea che le donne siano naturalmente brave a stringere e mantenere rapporti – forse perché si crede che siano naturalmente portate al lavoro di cura, o che abbiano una sensibilità più spiccata e attenta rispetto ai maschi – e con essa anche nuove aspettative sulla forma che questi legami dovrebbero assumere per essere giudicati sani, utili, felici. Per ciascuna fase della vita si cerca di codificare quali siano le responsabilità e i limiti di una buona amica, che cosa è lecito aspettarsi e che cosa no, e tutto ciò che esula da questa definizione va incontro a un generico biasimo sociale: non è auspicabile, per esempio, scegliere di vivere vicino alle amiche piuttosto che accanto alla propria famiglia, e confessare a un’amica una certa perplessità nei confronti dell’uomo che ha scelto come sposo potrebbe sembrare un’indebita invasione di campo.

Simone Weil ha scritto che l’amicizia «non la si cerca, non la si sogna, non la si desidera; la si esercita», ed è piuttosto condivisibile: al pari dei nostri rapporti amorosi, ha bisogno di tempo, cura e impegno per essere mantenuta. Forse, però, Weil voleva dire anche qualcosa in più, ovvero che l’amicizia è una relazione che non si può mai dare in forma teorica e per cui è forse ozioso cercare di stabilire regole a priori, perché ha senso solo nel momento in cui si pratica, in cui diventa realtà. Ogni tentativo rappresenta un pezzo unico: segue le proprie leggi e ha una traiettoria tutta sua.

Avevo quindici anni quando Olivia cambiò scuola senza farmene parola e, da un giorno all’altro, scomparve dalla mia vita. Per un po’ smisi di mangiare, e a lungo le ho portato rancore per quella che ricordo come una delle rotture più dolorose della mia vita. Per molto tempo non l’ho più rivista, ogni tanto mi arrivavano sue notizie che però non cercavo mai di approfondire – non volevo sapere cosa facesse, né chi le stirasse i capelli ora che non ero più io a pettinarglieli, o chi chiamasse ogni sera per confidarsi. Qualche anno fa sono andata a cena in quello che, nel frattempo, era diventato il suo ristorante. Ci siamo abbracciate e ho pensato che il suo corpo era più o meno sempre lo stesso di quando lo vivevo come un’estensione del mio, abbiamo bevuto e fumato, siamo rimaste a parlare fino all’alba, ubriache ed entusiaste della fortuna che avevamo avuto a conoscerci e a godere, per qualche anno, di un’amicizia così. Per alcune settimane, dopo quell’incontro, fantasticai pigramente che il secondo atto della nostra amicizia stesse per cominciare, ma poi non tornai mai al suo ristorante, non le chiesi di vederci, né lei a me, e infine smisi di pensarci. Le quattro di Sex and The City esistono solo grazie a Hbo e anche le Spice Girls dopo due album si sono sciolte: come per gli amori, ci sono amiche fatte per restare e costruire un mondo insieme, e altre, non meno importanti, che ti intercettano a un bivio, ti sconvolgono un po’ la vita, ti fanno capire qualcosa di quello che sei, e poi vanno via.

da il manifesto

Nella contemplazione di un paesaggio urbano a lei straniero, la narratrice del “Libro bianco” trova i moventi per tornare a ricordi luttuosi: da Adelphi, un racconto del 2016 in cui la prosa esibisce una manifesta tensione verso la lirica

I lettori di Han Kang sanno già che la neve, fenomeno atmosferico per il quale questa misteriosa paesaggista dell’animo umano esibisce una predilezione quasi ossessiva, si posa sullo sfondo delle sue narrazioni con una frequenza insolita. E se in letteratura le coincidenze non esistono, allora non è forse un caso che un intero suo libro si sia cristallizzato sotto i cieli (per lei) remoti di Varsavia – dove la scrittrice coreana aveva preso temporaneamente residenza alcuni anni fa – le cui strade innevate riecheggiano tanti grandi versi “invernali”, da quelli di Wisława Szymborska (per esempio nella vividissima “Nel sonno”, che comincia con «Ho sognato che cercavo una cosa» e prosegue più avanti: «Correvo trafelata/per ansie e stanze/mie e non mie./Mi impantanavo in gallerie/di neve e nell’oblio») alle liriche del sommo Czesław Miłosz, nelle quali spesso la neve appare recando con sé un ambiguo sentimento di sospensione del tempo – velo di oblìo ma anche preziosa occasione meditativa.

Il risultato di questo spaesamento è Il libro bianco (ora nella traduzione di Lia Iovenitti da Adelphi, con una nota finale dell’autrice, pp. 163, € 19,00), titolo che è innanzitutto un’ottima descrizione del contenuto: in esso il bianco della carta è infatti predominante rispetto al nero dell’inchiostro, disteso con calibratissima parsimonia tra le pagine. La densità estrema della prosa, oltre a una peculiare spaziatura del foglio, lavorano a un processo di intensificazione della scrittura che rende manifesta quella tensione verso la poesia già presente altrove, dai bellissimi “Non dico addio” e “L’ora di greco” a “Convalescenza”, fino alla “Vegetarian” (la versione inglese di “The White Book”, che ha avuto grande risonanza nel mondo anglosassone, valorizza questa tensione attraverso una disposizione del testo più spregiudicata, nella quale le righe di alcuni brani vengono interrotte da armoniosi accapo che fanno assomigliare l’opera a un vero e proprio prosimetro).

Che il luogo dal quale prende la parola la narratrice del racconto sia Varsavia, peraltro, non è specificato, anche se, da dettagli topografici e storici, per il lettore europeo non è difficile riconoscere la capitale della Polonia, martoriata da guerre e occupazioni, dalle cui finestre esala un’aria triste evidentemente affine alla sensibilità della straniera che, appena arrivata, si chiede «Perché in questa città sconosciuta mi riaffiorano alla mente vecchi ricordi?».

Rispetto agli altri libri di Han, che restavano fedeli a un impianto romanzesco, Il libro bianco è, da un punto di vista formale, un testo atipico, e persino eccentrico, in cui compaiono elenchi di oggetti, e una manciata di fotografie d’arte a dialogare con la scrittura. Bianche, naturalmente, sono tanto le cose che vengono descritte quanto quelle che vengono ritratte. Da principio vaga, questa “necessità” cromatica va precisandosi via via nei suoi moventi, mentre emerge al proscenio, già nella prima delle tre parti in cui è diviso il testo, la vicenda di una sorella maggiore nata prematura e morta dopo sole due ore di vita (il suo volto di neonata era, come tutto il resto, bianco).

Il desiderio – tramato, nella prosa della scrittrice coreana, da richiami alla metafisica buddhista – di incarnarsi nello sguardo dell’altro, di sentirne la sofferenza attraverso una compenetrazione che ha qualcosa di mistico, si materializza qui nel modesto miracolo che solo la letteratura può compiere: nella seconda parte la scrittura restituisce alla vita la sorella mai vissuta, espande quelle due ore – in cui sua madre la implorava di non morire – in un esserci, nel quale lei può correre tra le betulle (bianche), avvolgersi voluttuosamente fra lenzuola (bianche), scrutare il volo dei gabbiani (bianchi), raccogliere sassi bianchi e curare una magnolia yulan (dai fiori bianchi).

Un temerario, quasi anacronistico ricorso alla metafora rende Han una autrice che non somiglia a nessun’altra, oggi. Man mano che scorrono le istantanee di una esistenza ipotetica, il colore bianco assume il compito di fare da reagente per renderle visibili. “Bianco”, riflette la narratrice, è una parola dentro la cui radice, nelle lingue indoeuropee, convivono blanc, il colore, ma anche blank, il vuoto. Bianco può essere dunque l’indicatore di una soglia, quella da varcare per i vivi che cercano il dialogo con l’altra parte: bianco è il colore delle tenebre serene, non luogo ostile di cui avere paura, ma ponte gettato in cerca di senso.

Tornano i motivi del corpo come ambiente estraneo, del tempo diacronico come apparenza, della risignificazione del patimento. Sarebbe congeniale a una certa sensibilità dei nostri tempi, spedire Han Kang zaino in spalla nella terra incognita del dolore psichico, sperando che ne faccia ritorno con una cura ai mali invisibili dell’anima, ciò che a ben vedere la ridurrebbe a una versione letteraria delle profilassi del bio, del fitness, e di tutte le pratiche volte a rimuovere il terrore dell’insensato e della morte. Nelle pagine dei suoi libri, però, non ci sono ricette mediche, né consigli per il buon vivere. Via via che i suoi personaggi si addentrano come speleologi “nel bianco”, diventa sempre più esplicito che faranno ritorno a mani vuote, e che la cura sospirata non esiste. Le sue voci si dissolvono progressivamente nel paesaggio, bianco su bianco: «Quando grossi fiocchi di neve si posano sulla manica di un cappotto nero, i cristalli più grandi sono visibili anche a occhio nudo. Ci vogliono appena uno o due secondi perché quelle misteriose forme esagonali si dissolvano. È a quel breve istante di contemplazione silenziosa che lei sta pensando. Nell’attimo in cui inizia a cadere la neve, la gente si ferma, qualunque cosa stia facendo, e rimane a guardarla per un po’. I passeggeri sugli autobus alzano la testa e fissano fuori dal finestrino. E quando i fiocchi si disperdono senza rumore, senza gioia né tristezza, e poco dopo migliaia di altri cancellano silenziosamente le strade, alcuni smettono di osservare volgendo lo sguardo altrove». Alcuni smettono di guardare. Non tutti. Senza paura, altri continuano ostinatamente, «senza gioia né tristezza», a tenere gli occhi fissi sulla neve che si dissolve, sull’impermanenza di tutte le cose che però non è un vuoto: blanc, blank.

da la Repubblica

Ricordo la sagoma di Patti in un café vicino casa sua, di profilo. I capelli avvolti nel vapore di una tazza bianca tenuta in mano come un talismano. Ero incerto se interrompere quel momento magico e vuoto. Che cosa desidera «uno scrittore in un caffè alle prime ore del mattino, nel salone vuoto di un albergo, o quando scrive su un taccuino nel banco di una cattedrale silenziosa»? È la domanda di Patti Smith sulla soglia dei suoi ottant’anni. Ed era quello che mi ero chiesto quando l’ho incontrata per colazione nel café. La risposta l’ho trovata ora, leggendo il suo libro autobiografico Il pane degli angeli (Bompiani). Ecco cosa cerca: «un improvviso raggio di luce che contiene la vibrazione di un preciso momento». Da bambina – Patti racconta – ha «spaccato sassi alla ricerca dei loro cuori segreti». Rompere la materia per vedere la luce che vi è imprigionata è gesto da mistico allo stato selvaggio, come lo è stato il suo amatissimo Arthur Rimbaud.

Panis angelicus è un verso di san Tommaso d’Aquino che celebra il pane spezzato dell’Eucarestia come pane degli angeli che diventa pane degli uomini (fit panis hominum), fatti di carne e ossa. Infatti, la scrittura di Patti non evapora né è lussuosamente rarefatta e metafisica. Al contrario, è gesto fisico e ritmo cardiaco: «La penna graffia sulla pagina gobba ribelle gobba ribelle gobba ribelle». Il linguaggio si muove come una partitura musicale – pieno di ripetizioni, ritorni, risonanze – fino a far pensare alla pittura di Pollock o ai sax di Coltrane. È insieme infantile e sapiente. In certi momenti sembra che scriva una bambina che ha letto Virginia Woolf, in altri un’anziana mistica che ha conservato lo stupore dell’infanzia, che per lei è uno stato permanente dell’anima. 

Patti non ricostruisce la sua vita, ma la fa risorgere. Ogni cosa – il pianoforte perduto della nonna, il divano verde che diventa arca familiare, il piccolo braccio staccato di una bambola, i “rifiuti scintillanti” recuperati dai bidoni della spazzatura – è il mistero che gli angeli servono alla tavola della sua immaginazione: «una goccia d’acqua esplode come un’equazione», e la caduta del suo pupazzo di Bugs Bunny diventa quella di «una nave vichinga precipitata oltre il bordo del mondo». La realtà è abitata da presenze. Giunge a percepire che «Dio sussurra da una piega della carta da parati». I confetti coloratissimi M&M’s, rossi, gialli e verdi diventano «rubini, topazi e smeraldi illuminati rivelati da un raggio di sole».

Il pane degli angeli è un atto di resistenza contro la cultura della dimenticanza. La memoria, qui, non è archivio ma organismo vivente: Patti la riporta al corpo, alla materia pulsante del vivere. In un’epoca in cui tutto viene archiviato in server digitali, lei afferma che ricordare è un atto fisico, che per questo è spirituale. Come quando descrive l’incontro con la tartaruga azzannatrice, che le appare come una divinità antica: l’incontro è un’esperienza teofanica. Suo padre diventa il discepolo che tace davanti al mistero. Come parlarne alla madre? «Le dirò che stavi sognando a occhi aperti…», dice alla figlia. È una delle scene più belle del libro.

«Cercavo il proibito», scrive. Non si tratta del proibito morale, ma di ciò che è impari, strano, eccedente, eccellente: accendere da bambina una sigaretta per «produrre una graziosa fiamma» da un accendino d’argento e bruciarsi le dita. E così il gusto per la trasgressione la spingeva a esplorare il mondo come dentro un perimetro mistico privo di qualsivoglia «riferimento cartografico». Quando le si chiedeva: «dove sei stata?» non poteva che rispondere «da nessuna parte, perché sarebbe stato impossibile da spiegare».

«Cos’è l’anima? Di che colore è?», chiede Patti bambina, che tempestava la madre di «interminabili domande metafisiche su Gesù, gli angeli e i meccanismi dei corpi celesti». Lei appartiene a quella stirpe di mistiche senza convento che attraversa la letteratura americana da Emily Dickinson – la wayward nun – a Flannery O’Connor – la hillbilly thomist.

Patti racconta il padre, la madre, i fratelli, i traslochi infiniti. Nel cuore del racconto, la malattia infantile e la febbre diventano esperienze di trance. Il corpo malato è quello di «un’infanzia proustiana, fatta di quarantene e convalescenze intermittenti». Patti osserva sé stessa a letto, la madre che le rinfresca la fronte, la siringa che luccica come un talismano. Quando racconta della febbre, delle cure improvvisate con infusi di tarassaco e aceto di mele, la bambina scopre che la sofferenza le apre un varco verso la realtà invisibile. Ma coincide con quella capacità di visione che le fa capire perfettamente la differenza tra le immagini di un catalogo di vendita per corrispondenza e quelle di Vogue e Harper’s Bazaar. O che le fa amare perdutamente Puccini. Scopre così l’arte.

La madre, figura centrale, è una madonna proletaria: fuma, lavora, non si arrende mai. È lei che le regala Silver Pennies, un piccolo libro di poesie che diventa per Patti un testo “sacro”. È un’iniziazione alla parola poetica: ogni poesia è una moneta d’argento, una chiave che apre il mondo invisibile. 

Da quel momento la vita della bambina diventa la ricerca del penny perduto. Non importa la corrispondenza oggettiva tra parola e fatto: «mia madre ha scritto che ero incline alle bugie», ricorda. Ma non si tratta di falsità: è la nascita della poesia, la scoperta che la parola può creare realtà: «se la verità non mi interessava, presentavo una realtà alternativa».

Il libro è pervaso da un senso sacro di fedeltà alle persone. Tutti i ritratti – da quelli di familiari e amiche a quelli degli artisti della sua generazione (Dylan, Ginsberg, Burroughs, Springsteen…) – sono epifanici. Lo è quello del marito Fred. Con lui sperimenta che l’amore è un mistero «che ci allontana da tutto ciò che conosciamo». Negli altri amatissimi è sopraffatta dalla loro straziante dualità, l’impossibilità di una definizione netta: il fratello Toddy, Robert Mapplethorpe… ma anche scoprendo in sé stessa il «maschiaccio che disprezzava le cose femminili, ma che segretamente aveva desiderato un abito da Prima Comunione e un velo». Alla fine del libro scopriamo un capovolgimento che riguarda le sue origini, una scoperta che però non altera il senso profondo dei legami.

«Il mio prossimo libro è la storia della mia vocazione come artista – mi aveva detto Patti a colazione nel café, anticipandomi Il pane degli angeli. – A volte mi chiedo se abbia senso, mentre la gente soffre nel mondo, stare seduta otto ore al giorno a scrivere. Ma questa è la mia responsabilità ora, la mia possibilità: la poesia». La sua è una consegna profetica: scrivere come gesto di responsabilità verso chi verrà dopo. Il libro trasuda di consapevolezza storica e politica dei tempi vissuti, consapevole però del fatto che le sue preghiere da bambina sono state in grado di sconvolgere «l’ecosistema del destino».

da la Repubblica

Carla Lonzi non è mai stata così letta. Un’attenzione che in vita Lonzi non ha avuto: «Tutte noi che l’abbiamo letta da giovani ci siamo imbattute in lei per caso», dice Durastanti. L’ha celebrata Elena Ferrante nella sua tetralogia L’amica geniale, facendola leggere a Lenù, un capitolo diventato una scena della serie televisiva: «Com’è possibile, Lonzi, scomoda, irriverente, fuori da qualsiasi schema; Lonzi che è stata a lungo un segreto da sussurrarsi all’orecchio; Lonzi che oggi, mentre il femminismo finisce al centro di polemiche spinose, vedi le chat dell’attivista Carlotta Vagnoli sotto indagine per stalking con Valeria Fonte e Benedetta Sabene, chissà cosa avrebbe da dirle».

Durastanti, però, sul caso delle ultime settimane, vuole intervenire interpretando il pensiero della saggista e attivista animatrice di Rivolta femminile: «Riguardo agli episodi di recente attualità, devo pensare che Carla Lonzi, per quanto fosse anti-ideologica e non volesse trasformarsi lei stessa in un megafono, guardando con enorme sospetto quello che oggi definiremmo femminismo della presenza, ci ha proposto sia anticorpi sia antidoti per far sì che un femminismo radicale e separatista non discendesse nell’esercizio della violenza – dice. – Leggendo i suoi diari (chiaramente si tratta di qualcosa su cui aveva il controllo e voleva rendere pubblico, la precisazione qui è indispensabile) si trova tanta rabbia e conflitto quanto amore e tenerezza, era tutt’altro che pacificata o risolta nei rapporti di amicizia all’interno del femminismo stesso, ha scritto cose molto dure su figure come Dacia Maraini o Natalia Ginzburg per esempio. Ma sempre con una postura rigorosa, leale, profondamente critica, a costo della solitudine e dell’isolamento».

E aggiunge: «Lo studio, la pratica e la competenza, soprattutto se avulsi dal discorso pubblico mainstream sul femminismo, hanno un costo. Il costo può essere la solitudine e l’isolamento, come dimostra la stessa vita di Lonzi, e non tutte sono interessate o obbligate a tenerlo presente. Ma dinanzi a simili degenerazioni e superficialità, non posso fare a meno di pensare alla fatica e al lavoro che il femminismo chiede e a rivolgere un pensiero grato a tutte le donne che sono disposte a farlo. Sono la maggioranza, sia chiaro».

L’ultimo volume appena uscito per La Tartaruga è “Vai pure”, il suo straordinario dialogo con Pietro Consagra: una radiografia senza sconti delle relazioni di coppia, dell’incomunicabilità nonostante la volontà di capirsi, nonostante l’amore. Prima erano stati pubblicati “Sputiamo su Hegel”, “Taci, anzi parla. Diario di una femminista”, “Autoritratto”, e altri volumi seguiranno.

La filosofa Annarosa Buttarelli sta curando l’intera riedizione delle opere di Lonzi, che erano state pubblicate dalla casa editrice di Rivolta Femminile. Ed è lei a spiegare come leggere Carla Lonzi oggi. E perché: «Consiglio di leggere i testi di Lonzi come testi di trasformazione che nascono dall’esperienza. Anche se all’inizio sembra di non riuscire a capire, bisogna continuare a leggere fiduciosamente. I testi di trasformazione sono eterni, in un certo senso, ed è importante lasciarsi guidare. Ci si accorgerà, a un certo punto, che la nostra mente sta trasformandosi».

In un momento in cui un nuovo dibattito sulle relazioni uomo-donna è più che mai urgente, sulla scia di sangue dell’emergenza femminicidi, per Buttarelli i testi di Lonzi “sono necessari”: «Accompagnano a un livello di comprensione della realtà dei rapporti uomo-donna a cui oggi pochi e poche arrivano. Ma sono necessari anche perché producono energia per ritrovare la forza di lotte creative e costruttive che vediamo sparire, sostituite oggi da rabbia e disperazione». Ma perché è rimasta così a lungo nell’ombra? «Ha viaggiato sempre sottotraccia, in molte tesi di laurea in tutto il mondo, e nelle elaborazioni del femminismo filosofico della differenza sessuale. Se non ci fosse stata Carla Lonzi non ci sarebbe stata la ricchezza di lavoro della mia Comunità filosofica Diotima dell’Università di Verona. È vero però che in Italia per parecchi anni non è stata nominata e studiata come si sarebbe dovuto sempre fare. Per fortuna, sono riuscita a costruire il Fondo Carla Lonzi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, grazie al sostegno dell’allora direttrice Cristiana Collu. E poi con Claudia Durastanti siamo riuscite ad avviare le riedizioni dei testi fondamentali con La Tartaruga».

Buttarelli invita a rileggere anche i suoi testi più scomodi, come le riflessioni sull’aborto: «Carla Lonzi ci fa capire che l’aborto non deve essere considerato come un diritto tra i diritti, perché non lo è. Questa è la sua posizione. Quello da difendere è un altro diritto, questo sì reale: il diritto delle donne all’accesso gratuito alle strutture ospedaliere per la propria salute».

Ma cosa ci dice del femminismo oggi? «Questa parola è un presidio di civiltà ovunque venga pronunciata e testimoniata: si chiama femminismo ogni azione e comportamento che si spendano a favore e a sostegno delle cause delle donne, intese come strada verso la libertà femminile. Dovremmo onorare questa parola per la lunga storia che ha creato e che sta continuando a creare nel mondo. La femminista radicale Carla Lonzi avrebbe voluto alzare i rapporti umani allo stato d’amore, come scriveva nel suo “Diario di una femminista”».

Durastanti rivendica la scelta di riportare l’opera di Lonzi in libreria: «Carla Lonzi – dice – è un motivo di ispirazione su cosa si può fare con la scrittura. Lei si è confrontata con generi veramente diversi, dalla saggistica d’arte al pamphlet filosofico, dal dialogo con Consagra ai diari. Forse non si è mai confrontata con il romanzo, però in un certo senso tutti questi scritti vanno a costruire un grande romanzo sulla vita di una donna nel Novecento italiano, nel momento in cui si prende di petto la questione del femminismo e del femminismo radicale. Lonzi poi scriveva poesie. C’è anche questo aspetto della sua scrittura, forse non il più maturo, il più riuscito, ma per lei molto importante».

Il primo libro pubblicato dalla casa editrice è il suo testo più famoso, “Sputiamo su Hegel”: «Uno scritto nato dall’esperienza collettiva del gruppo di Rivolta femminile. Ma soprattutto un testo che si rinnova e si rigenera sempre nel tempo. Credo sia veramente una riflessione filosofica, oltre che politica: si parla di violenza di genere, di strutture patriarcali, di aborto. Lo leggi con la consapevolezza che ha segnato un prima e un dopo nella storia del femminismo italiano e allo stesso tempo come un’opera che c’è sempre stata e sempre ci sarà. Perché ti dice tutto della tua esperienza e sul tempo che stai vivendo. La sua è una scrittura immanente».

Durastanti consiglia di cominciare dai diari nei quali c’è qualcosa «di lancinante e implacabile: sono un’esperienza che non si può attraversare senza esserne profondamente trasformati». Mentre in “Vai pure” suggerisce quello che di fatto inizia a pensare a un certo punto, e cioè che l’autocoscienza femminista richiede un lavoro collettivo: deve essere autocoscienza di tutti, travalicando il genere». Questo è proprio il momento di Carla Lonzi.

Nel panorama degli studi su differenza sessuale e potere, il neuroscienziato e studioso della pace Piero P. Giorgi propone una prospettiva che va ben oltre l’analisi delle disuguaglianze. Nel capitolo The Centrality of Women in the Human Adventure del volume collettivo Gender and Power: Towards Equality and Democratic Governance*, avanza una tesi che può sembrare audace: le donne non sono state una “parte” della storia umana, ma il suo asse portante, biologico, culturale e morale.

La tesi, sostenuta con un approccio interdisciplinare che intreccia biologia, antropologia, neuroscienze e studi sulla pace, ribalta la narrazione dominante dell’evoluzione e della storia umana, mostrando come la marginalizzazione femminile sia un fenomeno recente e, soprattutto, culturale. La nostra specie non è nata violenta, è divenuta violenta quando ha perso il suo equilibrio naturale, quello che vedeva nelle donne la misura della cooperazione e della sopravvivenza collettiva.

L’autore parte dai dati biologici: l’ovulo materno non è un semplice contenitore passivo del DNA, ma il vero motore dell’origine della vita; determina la struttura dell’embrione, fornisce energia (i mitocondri) e orienta lo sviluppo iniziale. Tutti gli esseri umani, spiega, sono programmati per essere femmine, e solo l’intervento del cromosoma Y altera questo percorso. La femminilità, quindi, non è un’eccezione, ma la regola biologica originaria; un punto di partenza simbolico e scientifico per ridefinire la narrazione sul ruolo delle donne nell’evoluzione.

Dalla biologia Giorgi passa all’etologia e alle neuroscienze. La madre, nei mammiferi e ancor più negli esseri umani, è la prima fonte di empatia, cura e cooperazione. L’esperienza dell’allattamento e del contatto fisico plasma lo sviluppo cerebrale e affettivo del bambino: è qui che si radicano i comportamenti cooperativi che permettono la vita sociale. Come sottolinea l’autore, la madre non educa soltanto: costruisce letteralmente la mente umana, trasmettendo linguaggio, affetto e valori morali. In questa prospettiva, la cultura della cura non è un’attività privata o accessoria, ma il fondamento evolutivo della civiltà umana.

Il punto di rottura arriva con il Neolitico. Per decine di migliaia di anni, gli esseri umani vissero in società egualitarie di cacciatori-raccoglitori, dove le donne avevano un ruolo centrale seppur non gerarchico. Le celebri “Veneri” paleolitiche, spesso interpretate come divinità della fertilità, rappresenterebbero invece un riconoscimento simbolico della donna come principio vitale della comunità, non come oggetto di culto. Con l’avvento dell’agricoltura, della proprietà e dei villaggi, questa armonia si incrina: nascono la stratificazione sociale, le gerarchie e i sistemi patriarcali. Il potere si concentra, la cooperazione lascia spazio alla competizione e la violenza diventa strutturale. Giorgi osserva che quando la produzione sostituì la condivisione la solidarietà cessò di essere necessaria e divenne sospetta. L’umanità ha così abbandonato la propria natura cooperativa per un modello di dominio che ancora oggi segna le nostre istituzioni e i nostri rapporti sociali.

Il saggio si chiude con una riflessione di grande attualità: serve un nuovo paradigma politico. Giorgi distingue due modelli: la politica di potere, che difende e riproduce la gerarchia, e la politica di servizio, che nasce dal bisogno e non dall’ambizione. Le donne, secondo l’autore, sono protagoniste naturali della seconda, non per essenza biologica, ma perché hanno mantenuto viva, più degli uomini, la cultura della cura e della solidarietà. La transizione verso società più giuste e pacifiche, afferma Giorgi, non potrà essere violenta né imposta, ma lenta, legale e locale, un cambiamento che parte dalle comunità, dall’educazione e dalle pratiche di cittadinanza attiva e partecipativa.

Il saggio non è privo di rischi interpretativi. Alcune generalizzazioni storiche, come l’idea di un Paleolitico completamente egualitario, possono apparire discutibili, e il riferimento a qualità “femminili” rischia talvolta di scivolare verso un certo essenzialismo di genere. L’autore stesso, tuttavia, invita alla cautela, proponendo non un nuovo dogma ma un punto di partenza diverso per comprendere chi siamo diventati e chi potremmo ancora essere. E ritiene il suo testo basato su dati scientifici disponibili su testi universitari, dati che dovrebbero essere discussi ed eventualmente confutati sulla base di altri dati scientifici.

La forza del saggio sta nella sua visione unificante: quella di una scienza che non separa corpo e cultura, ma li riconcilia in una prospettiva etica e politica. Nel tempo delle polarizzazioni e della crisi delle istituzioni democratiche, The Centrality of Women in the Human Adventure offre un messaggio chiaro: riconoscere la centralità femminile non è una questione di rappresentanza o di potere, ma di sopravvivenza per la nostra specie.

Rimettere le donne, e i valori che incarnano, al centro dell’avventura umana significa recuperare la parte cooperativa, empatica e nonviolenta della nostra specie. La rivoluzione più urgente non è quella che conquista, ma quella che ricompone. E in questo senso, la centralità delle donne non è solo una tesi scientifica: è una proposta di futuro.

(*) M. Vianello, M. Hawkesworth (a cura di), Gender and power: Towards equality and democratic governance, Chapter 9, pp.154-170, Macmillan, New York, 2015

da eredibibliotecadonne

Già nel titolo del libro le autrici, Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo (Mondadori 2024), rivelano l’intendimento di rovesciare il celebre motto “donna si diventa” assurto a principio cardine delle politiche di emancipazione della seconda metà del ’900 a seguito del successo planetario riscosso da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Secondo la celebre scrittrice francese il divenire donna era la risultante di un processo di ruolizzazione oppressiva esercitata dal patriarcato per rendere le donne, il secondo sesso, funzionale al primo e per tenerle ai margini se non escluse dalla vita pubblica.

L’idea che l’identità femminile sia un prodotto della cultura patriarcale è stata di ispirazione per le lotte di liberazione individuali e collettive di almeno tre generazioni di donne – sostengono le autrici – ma è altresì all’origine delle variegate teorie alla moda, in base alle quali il sesso biologico rappresenterebbe un accidente trascurabile mentre nel “genere” si sostanzierebbe interamente la percezione di sé che sta alla base dell’interpretazione individuale dei ruoli sociali. Teorie circolanti nelle università, fatte proprie dal mainstream progressista, portate avanti dai movimenti LGBTQ+, in base alle quali il binarismo sessuale e in particolare la nozione e il termine “donna” devono scomparire dal discorso pubblico, per essere sostituiti da locuzioni prive di declinazione e riferimenti al sesso.

Le autrici chiariscono come in realtà l’affermazione di Simone de Beauvoir abbia subito una sorta di slittamento risoltosi poi in travisamento ad opera del femminismo post-strutturalista e del transfemminismo, a partire dall’elaborazione della filosofa americana Judith Butler. La critica alla costruzione culturale del destino femminile sulla base del nascere in corpo di donna non comporta infatti per la scrittrice francese negazione dell’essere donna, dell’appartenere al sesso femminile; anzi il fatto biologico della differenza femminile e proprio causa e luogo dell’azione fallocentrica della cultura dominante. Il termine “genere” è entrato inizialmente nel linguaggio femminista per significare proprio il complesso delle prescrizioni comportamentali connesse a ruolo e funzione assegnati alle donne, solo successivamente è stato “assorbito” nella nozione di gender, che ha praticamente finito per sostituire quella di sesso nel linguaggio accademico, politico e persino in quello comune.

Cavarero e Guaraldo, immaginando di parlare alla generazione delle nipoti delle donne che hanno messo al mondo il pensiero e praticato la politica della differenza sessuale, compiono un lavoro quasi “scolastico” di decostruzione del dispositivo in base al quale si ricorre al genere in luogo del sesso analizzandone sia le radici che le aberrazioni che conseguono.

L’idea che sostenere l’esistenza di due sessi sia discriminatorio nei confronti delle persone non binarie intanto sta portando di fatto alla cancellazione della donna dal discorso pubblico, ovvero del soggetto che con le sue lotte ha creato spazi di libertà per sé ma anche per le nuove istanze emergenti sul tema della sessualità, cioè della protagonista di una rivoluzione e di una nuova storia. Cancellare la ‘donna’ non rappresenta una mera operazione grammaticale, significa bensì negare il soggetto che genera, colei che dà la vita, senza la cui opera non ci sarebbe dato il mondo. Le autrici spiegano quindi con la massima chiarezza come sia fuorviante e infondato classificare differenza sessuale e maternità quali mere costruzioni patriarcali e come al lavoro del patriarcato siano invece ascrivibili i ruoli sociali e il sistema degli obblighi connessi al sesso e alla riproduzione.

L’uso di sostituire la parola “donna” con locuzioni del tipo “persona con utero” o “soggetto che mestrua” per non discriminare identità fluide o chi si riconosce in altri generi, come anche quello di inibire la declinazione al femminile dei plurali in nome dell’inclusività di tutti i soggetti reali e potenziali, nonostante venga adottato per testimoniare la rivendicazione di riconoscimenti e uguaglianza di diritti e opportunità per “tutti”, non si accompagna ad una fase di avanzamento e maggiori guadagni di libertà per le donne, ma al contrario di nuove e moderne schiavitù a loro carico. Basti pensare alle sofisticate quanto invasive tecniche riproduttive e alla gestazione per altri o allo sdoganamento del lavoro sessuale e della pornografia per renderci conto dei gravi rischi che corre la condizione femminile a causa di tali forme di sfruttamento e mercificazione del corpo; per non parlare della recrudescenza della violenza nei confronti delle donne e dei femminicidi. Pare infatti che la moltiplicazione di diritti identitari disgiunti dal riferimento ai corpi sessuati e dal primario “diritto della madre” abbia finito per rivitalizzare l’antica prerogativa patriarcale dell’appropriazione del corpo e della capacità riproduttiva delle donne.

Per le due filosofe occorre ritornare a trasmettere, soprattutto alle giovani, l’idea che la differenza femminile non è un handicap ma è invece una grande opportunità, che appartenere al sesso che genera non è un limite ma un punto di forza; di conseguenza necessita tornare a ribadire che la libertà vera e autentica, quella che le donne possono esprimere in piena fedeltà a se stesse, non può che essere radicata nella propria differenza sessuale.

Il libro offre in modo chiaro e sintetico il punto di arrivo del pensiero di una generazione di filosofe, ma grazie all’attento lavoro di riattualizzazione delle autrici presenta al contempo un possibile punto di partenza per nuove istanze di trasformazione della condizione femminile. È un libro che, a parere di chi scrive, meriterebbe in particolare l’attenzione di insegnanti e di chi è impegnata/o in processi educativi e potrebbe essere proposto nell’ambito di progetti multidisciplinari nelle scuole superiori, come anche per corsi di educazione sentimentale, semmai verranno attivati.

Adriana Cavarero. Già ordinaria di filosofia politica all’Università di Verona, è stata una delle teoriche della differenza sessuale, autrice di numerosi libri tradotti in più lingue, tra questi Nonostante Platone, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, A più voci, Donne che allattano cuccioli di lupo.

Olivia Guaraldo. Ordinaria di filosofia politica all’Università di Verona, dirige il Centro Studi Politici Hannah Arendt. Studiosa del pensiero femminista, ha curato e introdotto in Italia i testi di Judith Butler. Tra le sue pubblicazioni, Comunità e vulnerabilità e Hannah Arendt.

da il manifesto

Per Voland l’ultimo romanzo della scrittrice ungherese che descrive il presente

La foto alla parete che ritrae una scimmia cui è stata trapiantata la testa è l’immagine ricorrente dell’ultimo romanzo della scrittrice ungherese Krisztina Tóth, reso in italiano dalla chiara traduzione di Mariarosaria Sciglitano. Essa fa da filo conduttore a una storia distopica, che si intitola, appunto, Gli occhi della scimmia (Voland, pp. 314, euro 20), si inserisce nel solco tracciato da George Orwell, ci parla di potere, di sofferenza senza voce ed espressione e dipinge a tinte fosche un’umanità divenuta anaffettiva e succube, povera immagine di sé stessa.

Ci troviamo in un luogo non definito, in un paese reduce da una paurosa guerra civile che ha diviso la sua società creando in essa un fossato incolmabile fra gli ambienti agiati contigui al potere e i derelitti che vivono nelle zone di segregazione, là dove si esaurisce ogni speranza di riscatto e rinascita. In questo mondo distonico si muovono le figure di Giselle, insegnante universitaria ancora giovane, e del dottor Kreutzer, lo psichiatra al quale la donna si affida in preda a uno stress emotivo. La docente è stata seguita a lungo da un giovane sconosciuto, comparso e scomparso chissà in quali circostanze quasi senza una ragione apparente, che dice di essere suo figlio. A lei che non ha mai partorito.

Giselle e il dottor Kreutzer si incontrano nello studio di quest’ultimo per un percorso di analisi, le loro vite si intrecciano e vengono da essi ripercorse con uno sguardo incapace di capire appieno il senso di quanto vissuto. I due sono espressione di un’umanità stretta nelle pieghe del potere, della sua capacità di controllo e di annullamento delle volontà. La foto della scimmia dalla testa trapiantata è appesa dietro la scrivania di Kreutzer; l’animale rattoppato, ricomposto, che non è più sé stesso e non è altri, guarda quasi incredulo davanti a sé, fermo nella sua impotenza che è anche quella di chi lo fissa.

I personaggi che affiorano in questa storia sono anche un po’ vittime di loro stessi, e anche quando compiono azioni riprovevoli, come lo psichiatra che usa la sua professione per portarsi a letto le pazienti e annota amplessi e orgasmi in un diario aggiornato, suscitano quasi un senso di compassione per la miseria che li tiene prigionieri e dalla quale non sanno liberarsi. Kreutzer è un uomo disturbato ma anche solo, di una solitudine non condivisa, incapace di andare oltre sé stessa. Giselle viene da una sofferenza senza nome e senza volto e quindi ancora più subdola e sotterranea.

Scappa dal giovane che pretende di essere suo figlio, corre via in macchina sotto la pioggia per sfuggire all’incubo e prova a interrogarsi sulla sua vita. In essa si vede affiancata da un uomo anonimo, dall’alito pesante, insopportabile come ogni esistenza andata a male. È il suo compagno che affiora nel racconto in modo residuale per poi sparire così com’era apparso. Pagina dopo pagina, Gli occhi della scimmia scava nella fragilità dell’individuo, nella complessa realtà del rapporto fra uomo e donna, fra padre e figlia, fra madre e figlio, fruga nelle dinamiche familiari quasi impietoso.

La narrazione si snoda in un continuum fatto di oscurità e motivi a tratti grotteschi. Su tutto grava il macigno del potere che sa assumere diverse forme e riesce a non farsi riconoscere. Chi ne è manovrato non se ne accorge e finisce per muoversi lungo percorsi da esso inesorabilmente tracciati. Una storia del potere nel potere che vede anche Kreutzer, nel suo piccolo, usare quello che gli viene dall’autorità di psichiatra che gli è propria. Con essa fruga nella mente delle persone, le riduce a uno stato di subordinazione che nel caso delle donne assume una connotazione sessuale. Il suo, però, è un piccolo potere, marginale, inglobato in quello sovrastante di un sistema che ricorda il grande fratello orwelliano.

Scrittrice e poetessa, autrice di numerosi libri per l’infanzia e di Pixel (Edizioni ETS, 2020), nella versione italiana a cura della stessa Mariarosaria Sciglitano, nonché traduttrice dal francese, Tóth si muove con agilità nell’esporre i disagi dell’esistenza, di vite insufficienti, spolpate fino all’osso. La sua è una narrazione partecipata che passa in rassegna dolori e travagli muti ai quali dà voce non senza una punta di ironia, amara ma efficace come il ritmo che caratterizza questo romanzo.

Beniamina del recente Nobel ungherese per la letteratura, László Krasznahorkai, Tóth è originaria di un paese che da quindici anni vive sotto un sistema di potere che, dalla sua formazione, si è impegnato a realizzare un controllo sempre più stretto e capillare su tutte le manifestazioni della vita pubblica. Una situazione politica, quella in cui si trova l’Ungheria, che vede la scrittrice in prima linea nella critica al regime creato e tenuto in vita da Viktor Orbán e la trova nei panni di intellettuale non esattamente approvata dal governo per le sue posizioni.

È allora verosimile che l’autrice, per il romanzo, abbia tratto spunto dalla realtà che sta caratterizzando lo Stato danubiano in questo ciclo politico. Gli occhi della scimmia offrono uno sguardo smarrito ma forse anche indulgente nei confronti di tanta umanità vessata, impoverita, chiusa negli spazi asfittici predisposti dal potere e dotata di una volontà ridotta ai minimi termini. Una volontà magari non esaurita del tutto ma nascosta nei recessi di memorie e coscienze da riattivare.

(*) Due tappe sarde per Kristina Tóth, nell’ambito del festival letterario «Lèggere emozioni»: venerdì 31, a Villacidro (Aula consiliare, ore 17), Tóth parlerà del romanzo con la traduttrice Mariarosaria Sciglitano (introduce Gianni Usai). Sabato 1° novembre, a Nuoro (Fondazione Satta, ore 17), il dialogo tra la scrittrice e la traduttrice sarà introdotto da Bastiana Madau.

da il manifesto – Alias

L’estate del 1940 rappresenta il punto culminante di quel collasso della civiltà che travolge l’Europa con l’esplicarsi ormai senza più dissimulazioni della potenza distruttiva del regime nazista in Germania. Annessa l’Austria nel ’38, invasa la Polonia nel ’39, nel ’40 la Germania attacca il Belgio e i Paesi Bassi e poi la Francia con una manovra a falce che ne travolge le difese senza lasciare, parrebbe, possibilità di replica.

L’esodo di massa di apolidi (privati della cittadinanza dal regime tedesco), scrittori, intellettuali, attivisti, avversari politici, ebrei, cominciato in Germania già nel 1933, con il susseguirsi di questi eventi assume proporzioni apocalittiche: tutti coloro che si erano rifugiati in Francia, e in particolare a Parigi, per sfuggire alle persecuzioni della Gestapo e al rischio della deportazione nei campi di concentramento, da un giorno all’altro non sono più al sicuro e cercano scampo oltre la Loira, dove comincia la Francia cosiddetta libera (in realtà governata dal regime collaborazionista del maresciallo Pétain), e il regime nazionalsocialista ancora non ha il pieno controllo della situazione.

Soldati degli eserciti in rotta, disertori, profughi dai più diversi paesi confluiscono a Marsiglia nella speranza di riuscire a lasciare l’Europa su una qualche nave diretta negli Stati Uniti, in Messico, nelle colonie francesi d’oltremare. Sono molti coloro che in questa fuga trovano la morte, per mano dei tedeschi o volontariamente, come Carl Einstein, Ernst Weiss, Walter Hasenclever, Ernst Toller, Walter Benjamin.

Alla lunga lista di resoconti di questo traumatico momento storico, da qualche mese, grazie alla giovane casa editrice Palingenia e nella valida traduzione dal tedesco di Enrico Arosio, anche il lettore italiano può aggiungere Lo strappo del tempo nel mio cuore – Memorie, della pubblicista e agente editoriale austriaca Hertha Pauli, sorella del fisico quantistico Wolfgang Pauli, premio Nobel nel 1945 per la formulazione del principio di esclusione (Palingenia, Venezia, pp. 347, euro 33,00). Le memorie di Herta Pauli si affiancano infatti a Transito di Anna Seghers, a Hotel Baalbek di Fred Wanders, a Verlustanzeige [“Avviso di smarrimento”] di Karl Frucht, a Il diavolo in Francia di Lion Feuchtwanger e a Consegna su richiesta del Giusto tra le Nazioni Varian Fry, giornalista americano che con il suo Emergency Rescue Committee riuscì a salvare migliaia di profughi “eccellenti” (intellettuali, artisti, scienziati di fama mondiale) aiutandoli a raggiungere l’America.

Caratteristica di tutte queste opere è l’oscillazione tra il tenore letterario e quello testimoniale e cronachistico. E anzi, proprio in queste opere che respirano l’aria di una storia drammatica vissuta in prima persona prende forma particolarmente evidente la polarità, insita secondo Walter Benjamin in tutte le opere letterarie, tra «contenuto reale» e «contenuto di verità», tra «i ceppi pesanti del passato» e la «fiamma vivente» della verità che di questi si alimenta.

Per quanto narrata più e più volte, ripetuta in un certo senso, l’epopea di quello che Christa Wolf definì «spettrale corteo di milioni di profughi» in un’Europa sull’orlo di cadere in mano ai nazionalsocialisti non perde forza né valore testimoniale. Luoghi, persone, impressioni, dettagli anche minimi si ripresentano, uguali e ogni volta diversi, ogni volta con tutta l’autenticità dell’esperienza vissuta. Anche le memorie di Hertha Pauli restano, in questo, paragonabili a ciò che i fisici quantistici chiamano wormhole, un cunicolo spaziotemporale che collega immediatamente il nostro presente a un momento apparentemente distante nello spazio e nel tempo.

Nata nel signorile distretto viennese di Döbling, Hertha era figlia di un medico di origini praghesi ebreo convertito al cattolicesimo (che da Pascheles aveva cambiato il proprio cognome in Pauli) e di Berta Camilla Schütz, giornalista e attivista per i diritti delle donne. Trasferitasi ancora giovane a Berlino, attrice con Max Reinhardt, Hertha era tornata a rifugiarsi a Vienna nel 1933. Qui aveva creato assieme ad amici l’agenzia letteraria “Österreichische Korrespondenz”, che si occupava principalmente di trovare editori per gli autori di lingua tedesca invisi al regime nazionalsocialista. Queste sue memorie, scritte in America molto dopo i fatti a cui si riferiscono, scandiscono le tappe dei due anni dal 1938 al 1940, in cui da Vienna fu costretta a fuggire a Parigi e poi, nel giugno del ’40, in condizioni estreme, a piedi o sfruttando occasionali passaggi e qualche treno superstite, in direzione di Marsiglia, da dove Pauli riuscì fortunosamente a imbarcarsi per gli Stati Uniti (grazie appunto all’aiuto del Comitato di Fry).

La vicenda di Pauli non è individuale, ma collettiva: è la storia di tutto l’ambiente del quale Hertha si era messa al servizio con l’agenzia letteraria. In fuga assieme a lei, lungo traiettorie che sempre nuovamente e avventurosamente si intersecano, ci sono tutti i protagonisti del primo Novecento letterario e artistico, ciascuno con il suo carattere peculiare, le sue debolezze e i suoi punti di forza, le sue bizze e le sue genialità – e i suoi manoscritti o le sue opere sotto il braccio. Il cabarettista, poeta e scrittore satirico berlinese Walter Mehring, fisicamente esile, timoroso e facile al panico, deve essere quasi costretto uscire di casa per potersi alla fine imbarcare. Il drammaturgo ungherese Ödon von Horváth, superstizioso e convinto che un destino occulto agisca dietro alla superficie falsamente innocua dei fatti, muore assurdamente schiacciato dal ramo di un albero durante una tempesta a Parigi.

Joseph Roth è eternamente seduto al tavolo del Café Tournon a scrivere davanti a un bicchiere di Slivoviz, attorniato da un circolo fisso di emigrati, fino a quando l’alcol e una polmonite non hanno la meglio sul suo fisico ormai provato ed egli muore all’ospedale Necker di Parigi nel maggio del 1939. La coppia – quasi una macchietta – del poeta Franz Werfel e della carismatica seduttrice e regina dei salotti Alma Mahler, riesce a mantenere una certa grandeur anche nella fuga e viaggia con un bagaglio spropositato. Il medico e scrittore amico di Kafka Ernst Weiss, cupo e sfiduciato, al momento di lasciare Parigi non ha più la forza di rimanere attaccato alla vita. Diventerà la presenza fantasmatica che anima Transito di Anna Seghers, nella persona dello scrittore Weidel, in possesso di tutti i documenti necessari per imbarcarsi alla volta del Messico, ma in realtà già morto suicida. E assieme a loro tanti, innumerevoli altri.

Particolare anche il fatto che a pubblicare nel 1970 e poi a riproporre nel 2022 questo resoconto di prima mano degli anni in cui un’intera cultura rischiò di essere cancellata – quella del nostro Novecento più produttivo, che avrebbe gettato le basi del futuro oltre gli anni della barbarie nazista – sia stato un editore austriaco rinato dopo la guerra, ma che a suo tempo condivise il destino di Hertha Pauli e dei suoi sodali: la casa editrice viennese Zsolnay, punto di riferimento per le sperimentazioni letterarie del primo Novecento prima del ’33, poi arianizzata nel ’38 dopo anni di difficoltà dovute al boicottaggio dei suoi autori da parte della Germania nazionalsocialista e una serie di disperati tentativi di adattarsi per sopravvivere, della quale Joseph Roth scriveva, nel 1937 da Parigi: «Così si dà il caso grottesco che lo stato austriaco cattolico ospita quegli editori ebrei che obbediscono alle imposizioni pagane della camera degli scrittori del Reich».

da L’Altravoce il Quotidiano

Il libraio di Gaza, il libro di Rachid Benzine, scrittore marocchino, nasce dall’incontro del fotoreporter francese Julien Desmanges, inviato a Gaza nel 2014 durante la tregua seguita all’ennesima rappresaglia israeliana, e Nabil Al Jaber, libraio palestinese. Il vecchio Nabil, dalla «barba irregolare e brizzolata, con le spalle un po’ curve e gli occhiali posati a sghimbescio sul naso» se ne sta seduto davanti alla sua bottega a leggere, a due passi dalle macerie. Quando volta la pagina «la annusa, la accarezza, poi si immerge nuovamente nella lettura. Le sue dita toccano la carta come se coccolassero le parole». È come se volesse restare aggrappato alle parole per salvarsi «dal frastuono, dalla sofferenza, dalla morte lenta della città». La vetrina della sua bottega è circondata «da centinaia di libri, la porta aperta su migliaia d’altri. E altre centinaia posate direttamente sul marciapiede». È questa la scena straordinaria che cattura lo sguardo del fotoreporter che si avvicina a lui e gli chiede di poterlo fotografare. A quella richiesta Nabil, saggiamente, risponde: «Non crede che un ritratto fotografico riesca meglio se si conosce ciò che è nascosto? Dietro ad ogni sguardo non c’è forse una storia? Quella di una vita. Talora quella di un popolo intero. Non vorrebbe, signor fotografo, ascoltare la mia storia?». E lui inizia a raccontare la sua storia. Una storia soggettiva ma anche collettiva in cui ogni palestinese può ritrovarsi. Una storia che fa del ricordo e della memoria la fonte di verità e realtà. Storia che inizia con sua madre, la donna palestinese musulmana che lo mise al mondo nella notte tra il 31 dicembre 1947 e il primo gennaio 1948, qualche ora dopo essere stata gravemente ferita dai militari sionisti che avevano attaccato il loro villaggio, mentre tutti dormivano. Uccisero, terrorizzarono, cacciarono dalla propria casa e dalla propria terra migliaia di famiglie palestinesi, e fu la Nakba (la catastrofe). I nonni e i genitori, con lui appena nato e un altro figlio, «lasciarono il villaggio, quell’angolo di terra che avevano arato con fatica. Le loro radici, gli alberi che avevano piantato, quelle vigne millenarie che non avrebbero mai più rivisto. La casa che il nonno aveva costruito con le sue mani, pietra su pietra. Lì c’era tutta la loro vita e tutto ciò che le dava senso». Vite distrutte, sogni svaniti e ritorni agognati e proibiti. E fu l’esodo per intere famiglie che finirono nei campi profughi, dove Nabil crebbe. Ricordi narrati, anni dopo, dalla madre «attorno al fuoco». Per anni aveva taciuto, per salvaguardarlo dall’odio e dalla sete di vendetta. Ai ricordi e agli eventi narrati di un «dolore altrui» seguono, lungo il racconto, quelli del «proprio dolore». Nabil ha visto e vissuto le intifade, l’ascesa di Hamas, l’occupazione di Gaza, l’oppressione e l’umiliazione di un popolo. Ha visto schiacciati dai carrarmati israeliani i nonni, il fratello maggiore, il figlio undicenne e la moglie seppellita dalle macerie della casa nei bombardamenti del 2009. Ha conosciuto il carcere per vent’anni avendo come unica compagnia i libri. Al ricordo dei genitori morti mentre era in carcere «il lutto e la perdita affiorano sotto le sue palpebre». Tra tanto dolore racconta di essere riuscito a diventare professore all’università del Cairo e di aver deciso di aprire la sua libreria per «estraniarsi dal mondo ma senza lasciarlo». Per leggere e rileggere i romanzi della sua vita e «non aggiungere brutture» e dare il suo contributo con «i suoi libri». Nonostante tanta infelicità sorride, «un sorriso magico, luminoso». Sono i libri che lo hanno salvato dall’odio e dalla vendetta, come voleva sua madre. Dopo il 7 ottobre la sua libreria, come Gaza, è stata ridotta in polvere e la sua voce e il suo sorriso spenti per sempre. Un libro molto bello, scritto per amore della lettura, dei libri e del popolo palestinese.

Considerate “non pensanti” dai tempi di Aristotele, le donne sono rimaste fuori dalla “scena”, scrive la filosofa Annarosa Buttarelli nel suo nuovo libro. Di qui lo sviluppo di un altro punto di vista, femminile e legato all’esperienza. Ed estraneo alla logica della guerra

In un tempo in cui nel mondo sembra essere tornata a contare solo la forza e la guerra tocca anche l’Europa, c’è bisogno di riprendere a sentire una voce diversa, che si sottragga alla logica della violenza. In Pensiero osceno (Tlon, 2025), un libro nato dall’urgenza di rispondere alla minaccia della guerra, Annarosa Buttarelli – filosofa e studiosa del pensiero della differenza nel solco della femminista Carla Lonzi (di cui ha curato le opere) – spiega che questa voce non può che essere quella delle donne, da sempre estranee alla guerra e capaci di «pensare veramente», mettendo radici «in un terreno osceno, quello dell’esperienza nutrita dal sentire».

Qual è il “pensiero osceno”?

È quello – scandaloso – delle donne che pensano. Ho usato filologicamente la parola osceno, che viene dal greco ob (che significa “fuori”) e skenè (“scena”) e significa essere confinate fuori dalla scena illuminata del pensiero dominante, da cui ci ha espulse la misoginia millenaria. Fin dall’inizio della cultura europea, le donne sono identificate come animali non pensanti, secondo l’idea di differenza sessuale immaginata da Aristotele – che fu il vincitore nella costruzione della filosofia occidentale – e dagli altri filosofi.

Lei nel libro spiega che questo essere fuori scena ha permesso alle donne di sviluppare un pensiero alternativo.

Ha permesso di rimanere lontane dal potere istituito. Carla Lonzi, una delle madri del femminismo italiano, diceva: «Approfittiamo dell’assenza». Assenza delle donne dalla cultura maschile, dalle istituzioni maschili, dalla storia maschile, quelle che ancora oggi nelle università siamo abituate a considerare come cultura, istituzioni e storia in quanto tali.

Eppure, le donne pensatrici ci sono sempre state.

Lo hanno dimostrato gli studi femministi: fin dall’inizio della storia europea, nella Grecia classica, c’erano donne di pensiero che si sono poste in dialogo con gli uomini, in modo propositivo e conflittuale. Come Assiotea di Fliunte che nel IV secolo a.C. era riuscita a introdursi nell’accademia platonica, mascherandosi da uomo, per opporsi alla lezione aristotelica secondo cui la schiavitù era naturale. Assiotea ha lavorato, inascoltata, per decostruire la fallace logica aristotelica.

Perché fallace? Non è all’origine della logica occidentale?

Sì, lo è. Ma oggi sono sempre più evidenti gli errori logici, quindi la mancata scientificità, delle filosofie maschili. Ne ha scritto in un bel libro, L’errore di Aristotele (Carocci), Giulia Sissa. Uno dei suoi errori, per esempio, è stato definire l’umanità solo al maschile. Poi però anche Aristotele parlava delle donne come facenti parte dell’umanità e quindi si contraddiceva senza neanche rendersene conto: da qui la fallacia.

Nel libro lei spiega che il pensiero maschile si vuole astratto e universale, mentre quello delle donne è sempre radicato nell’esperienza. Cosa significa?

La grande filosofa María Zambrano diceva che si deve “pensare veramente”. Significa che il pensiero autentico è quello che mette le radici in un terreno considerato osceno dalla filosofia dominante, cioè quello dell’esperienza vivente che cresce sul sentire.

È questa esperienza vivente che permette alle donne di denunciare gli errori delle filosofie maschili?

Sì. Ne è un esempio eccellente il dialogo conflittuale tra la principessa Elisabetta del Palatinato e Cartesio, che già allora era un filosofo di grido. Cartesio stava scrivendo un trattato per “dominare” le passioni. In uno scambio di lettere Elisabetta, che pure aveva molta stima di lui come filosofo, gli obiettava, a partire dalla sua esperienza vivente, che sono proprio le passioni quelle che dominano la vita politica: una lezione molto importante anche per l’oggi. L’idea di Cartesio invece era che il corpo non dovesse avere nessun influsso sulla mente, considerata, in quanto pura razionalità libera, come la massima espressione dell’uomo. Ma Elisabetta gli opponeva che mente e corpo non sono così distinti, perché altrimenti non si spiegherebbero gli svenimenti.

E il grande filosofo cosa replicava?

Che lui di politica non sapeva niente perché faceva vita ritirata, da buon pensatore. Oggi sappiamo che aveva ragione lei, anche sul fatto che mente e corpo non sono separati. Eppure, Cartesio ha avuto un’enorme influenza sulla filosofia.

Crede che in questo periodo, in cui la forza e la violenza sembrano tornate arbitre dei rapporti tra i popoli, il pensiero osceno delle donne possa offrire un’alternativa?

Dietro la corsa al riarmo e dietro alla politica della forza c’è l’influenza del pensiero idealista che ha formato la cultura occidentale. Vige ancora l’idea di Hegel – su cui per fortuna noi femministe abbiamo sputato, per citare il titolo del libro di Carla Lonzi – secondo cui per arrivare a «un destino più alto», uno stadio superiore dell’umanità, «deve scoppiare il cuore del mondo». La sua idea era che per superare le vecchie strutture e consuetudini si dovesse distruggere l’organo vitale del mondo, stravolgere tutte le regole. Ora sembra che stia succedendo proprio questo: stanno facendo scoppiare il cuore del mondo, cioè il cuore di tutti e tutte noi che non facciamo la guerra. Il pensiero delle donne è esattamente un’alternativa a questa logica. Non è un caso che nel ’900 la presa di coscienza del pensiero osceno sia iniziata da Le tre ghinee di Virginia Woolf, in cui la scrittrice spiegava ai suoi amici pacifisti che per evitare la guerra l’unico modo era pensare da outsider. Fuori scena, appunto.

E oggi come possiamo fare?

Rifiutare la logica della violenza che chiama violenza. E ricordare quello che diceva proprio María Zambrano, un’altra delle pensatrici di cui parlo nel libro: che anche nella pace ci sono dei pericoli. Per esempio, vederla solo come l’assenza di guerra. È qualcosa di più, molto di più: è un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta, un modo di essere umanità… Zambrano ha scritto il testo I pericoli della pace nel 1990, la sua ultima testimonianza di fronte all’orrore della guerra del Golfo Persico. Non si guadagnerà mai uno “stato di pace” finché non ci sarà una rivoluzione della forma mentis generale. Ho imparato da lei che la pace va preparata e praticata.

Come?

Attraverso la giustizia, che è nata come pratica femminile. Pensiamo a ciò che è accaduto quando Salomone voleva squartare il bambino per darne una metà a ciascuna delle due donne che dichiaravano di esserne la madre. La vera madre ha rinunciato al bambino pur di non vederlo squartato. Questa è una pratica paradossale di giustizia. E poi si deve preparare la pace praticando il conflitto.

Il conflitto? Non è una contraddizione?

No, anche questo è un paradosso, perché le donne riescono a pensare e ad agire soprattutto paradossalmente. Continuiamo a sovrapporre in modo insopportabile “conflitto” a “guerra”. Ma la guerra è negazione dell’altro, il conflitto è una pratica di relazione. Che ci costringe a prendere atto delle nostre differenze ma anche a cercare un terreno comune. Le filosofe del pensiero osceno sono maestre in questo.

Annarosa Buttarelli, Pensiero osceno. Edizioni Tlon, 112 pagg, 13 €

Lo storico israeliano Ilan Pappé fu tra i primi, vent’anni fa, a parlare di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi di Tel Aviv. Nel suo ultimo libro appena uscito in Italia pronostica la fine dello “Stato dell’apartheid” e la costituzione, lenta, di un unico Paese antirazzista, plurale e democratico. «Non so quando ma so che accadrà». Lo abbiamo intervistato, riflettendo anche sul cessate il fuoco appena annunciato a Gaza.

«Il piano di Trump più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra». Non ha dubbi Ilan Pappé, lo storico israeliano che per primo, vent’anni fa, parlò di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi israeliani. Nel suo ultimo libro, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina (Fazi Editore), analizza il presente ma traccia anche un futuro possibile. «Quello che vorrei – dice – e che sono certo si realizzerà, anche se non so quando: uno Stato democratico, dal fiume al mare, dove ebrei e palestinesi vivranno insieme con gli stessi diritti». Lo abbiamo intervistato.

Pappé, in questo libro fa lo storico ma anche il veggente. Quali elementi l’hanno portata a prevedere la fine di Israele?

Innanzitutto i processi che sono in corso e che stanno portando al crollo dell’attuale Stato di Israele, l’attuale regime, che è più teocratico, razzista e aggressivo nei confronti dei suoi vicini. Sono processi molto lenti, non sempre facili da individuare ma credo che accelereranno e diventeranno più visibili. Sono abbastanza certo che stia accadendo, quello che non so è che cosa lo sostituirà. Quindi da un lato l’analisi è accademica, dall’altro ha a che fare con il desiderio e la speranza, quello che spero accadrà, cioè che lo Stato razzista, teocratico e dell’apartheid di Israele sarà sostituito da uno Stato democratico per tutti, dove i palestinesi per la prima volta dopo centovent’anni potranno avere una vita normale, i rifugiati potranno tornare e questo avrà un enorme impatto positivo su tutta la regione.

E a che punto siamo?

Siamo all’inizio della fine. Alcuni processi sono più visibili, come la mancanza di coesione sociale in Israele. Ebrei religiosi e laici non trovano più una lingua comune, non possono vivere insieme e gli ebrei più fanatici hanno il sopravvento perché sono più popolari. È già visibile l’isolamento di Israele nella società civile. Quello che non vediamo è come questo si traduca nella politica dall’alto, almeno per i governi. Vediamo ebrei in tutto il mondo che si dissociano dal sionismo. Vediamo una crisi economica in divenire, un esercito esausto, che si affida totalmente all’aeronautica e ai carri armati contro dei guerriglieri, il che è molto discutibile. Dall’altro lato non vediamo ancora un movimento di liberazione palestinese che sappia che cosa fare, ma questo credo accadrà perché parlo con i giovani palestinesi, che sono più uniti e impegnati a ricostruire tale movimento.

Ma come immagina il futuro?

Immagino uno Stato solo dal fiume al mare, in cui non importa quale sia la tua religione o nazionalità, in cui si rispettano le identità collettive e gli ebrei saranno una di queste, ma non la sola. Lo immagino molto più collegato al mondo arabo che all’Europa, uno Stato normale con problemi normali. Non so quando ma so che accadrà.

Pensa che la riconciliazione sia possibile dopo il 7 ottobre e il genocidio di Gaza?

No, ora non è possibile e Israele è nella sua fase più crudele. Ma se guardiamo la storia molti regimi ingiusti e criminali sono stati molto crudeli nelle ultime fasi. Il tempo è un fattore importante e non accadrà l’anno prossimo. Non credo, inoltre, che tutti gli ebrei rimarranno in Israele: molti se ne andranno – come i bianchi in Sudafrica che non volevano vivere in uno Stato di non-apartheid. Ma spero che ne rimangano abbastanza, perché i palestinesi hanno bisogno di loro per ricostruire un Paese diverso e migliore.

All’orizzonte però non ci sono alternative politiche forti né israeliane né palestinesi.

Sì, ma non è questo il punto. Piuttosto: il mondo capisce che il suo ruolo ora non è quello di mediare ma di proteggere i palestinesi? Gli israeliani non sono in pericolo. Le persone che rischiano di essere eliminate sono i palestinesi. Poi verrà il resto.

Che cosa pensano i bambini israeliani dei bambini palestinesi dopo il 7 ottobre, secondo lei?

Quello che pensavano prima: che i palestinesi non sono esseri umani adeguati, che sono come i nazisti, i barbari. Il sistema educativo israeliano è razzista e soprattutto negli ultimi venticinque anni ha prodotto laureati che non sono in grado di vedere i palestinesi come esseri umani. Gli ultimi due anni non hanno cambiato nulla.

E i bambini palestinesi?

Dipende da dove vivono. Quelli cresciuti a Gaza conoscono gli israeliani solo come carcerieri. Quelli nei Territori occupati vedono solo coloni, coloni violenti e soldati. Infine, i figli dei palestinesi in Israele hanno una visione molto complicata perché sanno che alcuni israeliani sono brave persone e con le loro famiglie hanno relazioni e amicizie. Quindi dipende dal posto. Invece gli ebrei israeliani hanno perlopiù una visione molto unificata dei palestinesi.

Com’è stato per lei crescere in Israele? Che idea aveva dei palestinesi?

Fino a vent’anni non sapevo molto di loro. Quando ho lasciato Israele per fare il dottorato, li ho incontrati in un contesto diverso, come persone uguali e ho sentito la loro storia e ho fatto ricerche. Ho capito che tutto quello che avevo imparato e sentito fino a quel momento era molto lontano dalla verità. Che c’era un’altra storia, che mi era nascosta e ho dovuto trovarla da solo.

Quanto hanno a che fare i palestinesi con la sua decisione di diventare uno storico?

Ho sempre amato la storia e volevo scrivere la storia del mio Paese, quindi non molto. Quello che ha avuto molta influenza su di me è stata la capacità di dire: anche se lo senti dai tuoi genitori e dai tuoi insegnanti, sii critico. Non accettare tutto ciò che ti viene detto. Questo è ciò che ho imparato da loro. E ovviamente era molto importante per me capire che la storia non è neutrale, che devi essere impegnato e mi ha aiutato a diventare un attivista, non solo uno storico.

Perché Israele gode o almeno ha goduto di tanta impunità? Qual è il fattore più rilevante: economico, ideologico, il “senso di colpa” europeo?

Penso sia una miscela di fattori. Israele gode dell’immunità prima di tutto per il rapporto bizzarro che lo lega all’Europa. L’Europa non voleva gli ebrei, quindi ha suggerito che ci fosse uno Stato ebraico al di fuori dell’Europa, ma considera Israele parte dell’Europa. In secondo luogo, c’è l’idea che se non diamo l’immunità a Israele dobbiamo ritornare sulla questione dell’antisemitismo e l’unica soluzione per l’antisemitismo è stata creare uno Stato ebraico in Palestina, invece che rendere l’Europa una società antirazzista. Al giorno d’oggi, poi, penso ci sia un altro problema che è il livello della politica. I politici oggi non sono molto interessati alla moralità, all’ideologia. È molto facile comprarli per sostenere Israele. Non hanno molto rispetto per sé stessi, sono molto egocentrici. Sto generalizzando, ovviamente ci sono delle eccezioni. Di certo, quando penseranno che sostenere Israele potrebbe essere un problema alle elezioni, cambieranno e improvvisamente vedremo un intero cambiamento nella politica europea.

Gaza alla fine diventerà una “Riviera”?

No. Gaza è completamente distrutta, la terra è intossicata e la maggior parte delle città sono devastate. Ci vorranno anni per ricostruirla. Non so che cosa diventerà perché dipende dalle sorti del resto della Palestina storica e prima, credo, farà parte dello Stato di apartheid di Israele. Speriamo che in futuro faccia parte di una Palestina decolonizzata. Ma una cosa è certa: rimarrà palestinese, anche se non sarà un posto facile in cui vivere, specialmente i primi anni. E rimarrà anche la più importante fonte di resistenza, come è sempre stata.

E la Cisgiordania?

È un problema diverso, Israele sta cercando di fare alla Cisgiordania quello che fa a Gaza, ma è molto più difficile lì. I numeri sono più grandi, ma ci sono 800mila coloni ebrei. Molto dipende dal mondo, se non farà nulla per Gaza, potrebbe non farlo anche per la Cisgiordania. Siamo in un brutto momento: Israele vuole imporre la sua realtà e questo tentativo causerà molto spargimento di sangue e sofferenza – e quindi si spera che il mondo interferisca – ma non avrà successo.

Che cosa significa fare ricerca al tempo delle fake news e dell’intelligenza artificiale?

Gli sviluppi tecnici ci sono da sempre e se sei uno storico esperto, se conosci bene l’argomento, puoi stare certo di non perdere di vista la verità. Non sono preoccupato per gli storici ma per il pubblico in generale, per quanto sia facile accettare notizie false e generate dall’Ia. Penso che la cosa più importante, anche per i giornalisti, sia capire e usare le parole giuste. Se non chiami Israele “l’unica democrazia del Medioriente”, ma “Stato di apartheid”, è già un buon inizio per permettere di capire quando ci sono notizie false e propaganda israeliana.

Sull’uso della parola “genocidio” in Italia c’è un gran dibattito. Anche in Israele?

Le persone in Perù e in Malesia sanno molto di più quello che succede a Gaza degli israeliani. Non hanno idea di cosa succede a Gaza.

Ancora adesso?

Sì, perché i media israeliani collaborano con il governo, non mostrano nessuna immagine di ciò che accade a Gaza. Parlano solo dell’esercito, dei soldati coraggiosi, degli ostaggi.

Ma ci sono i social media.

Viene detto loro che sono anti-israeliani e non li guardano. Israele non permette di vedere Al Jazeera e la gente non cerca media alternativi. Quindi sicuramente il genocidio sembra loro un’accusa antisemita. Non a tutti, ma a una stragrande maggioranza.

Come si sente da israeliano?

Mi vergognavo già di questo Paese molto prima di Gaza. Le mie idee su cosa siano il sionismo e Israele non sono cambiate. In effetti ho previsto quello che è successo. Non sapevo esattamente come, ma ero sicuro che questo non potesse andare avanti e che ci sarebbe stato uno scoppio di violenza. L’unica cosa che mi ha sorpreso è stata l’indifferenza europea. La gente ha reagito subito per l’Ucraina ma i governi non hanno usato la stessa lingua per Gaza. È abbastanza sorprendente.

Che cosa pensa di Trump e del suo piano di pace?

Penso che nel migliore dei casi possiamo sperare che porti a un lungo cessate il fuoco e allo scambio di prigionieri. Non è un piano di pace. Ha tutti i problemi dei precedenti, non cambierà nulla drasticamente. Più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra.

È anche la fine di Netanyahu?

Non sono mai in grado di prevedere quello che lo riguarda. Ha una base molto forte, ora è in calo, ma se ci sarà il rilascio degli ostaggi, si prenderà il merito e potrebbe rivincere le elezioni. Ma anche se perde, chiunque lo sostituirà avrà la stessa ideologia.

da Leggere Donne

Le guerre che ho (solo) visto, Moretti & Vitali, Bergamo 2025 pagine 152, € 14

«Si passa il tempo più a giustificare la guerra (le guerre) che a pensare e immaginare la pace». Questa constatazione, che attraversa Guerre che ho (solo) visto di Rosella Prezzo, è il punto di partenza per un lavoro intellettuale radicale, una narrazione attraversata da riflessioni teoriche, immagini artistiche, citazioni poetiche e memorie personali che interroga il nostro modo di vedere la guerra e la possibilità – tutt’altro che astratta – di immaginare la pace. Ad accompagnare la scrittura, una preziosa antologia conclusiva prosegue il lavoro di montaggio e disvelamento fatto dall’autrice.

Un posizionamento laterale. Prezzo adotta una prospettiva situata, femminista e non armata, rivendicando il suo essere spettatrice: una donna che ha “solo visto” la guerra attraverso schermi, notizie, film, immagini. Da questa posizione dichiaratamente laterale ma consapevole, il libro si muove: non verso la spiegazione dei conflitti, ma verso lo svelamento del modo in cui la guerra viene rappresentata e interiorizzata. È una soggettività incarnata, relazionale, che guarda per comprendere non solo “ciò che accade”, ma ciò che ci attraversa mentre guardiamo.

La smaterializzazione della guerra. Il primo grande nodo che il libro affronta è quello della smaterializzazione del conflitto. La guerra oggi si combatte da remoto, attraverso droni, visori notturni, algoritmi, si parla di “operazioni chirurgiche”. Ma questa apparente “pulizia” è una rimozione della morte e del dolore e l’autrice mostra, con grande rigore, come questa estetizzazione anestetizzi anche la nostra immaginazione politica. E ci mette di fronte al rischio di una nuova cecità, di una pace finta, costruita sul silenzio dei corpi. La guerra dentro le immagini. È a partire da questo scenario che prende forma una delle riflessioni più penetranti e necessarie sulla guerra contemporanea e sulle modalità con cui la percepiamo, filtrate quasi interamente da media, immagini, videogiochi di simulazione.

Rosella Prezzo interpreta questi materiali come vere e proprie “prove d’accusa” contro la narrazione bellica, mostrando anche come la guerra non si esaurisca nei luoghi di conflitto, ma abiti le immagini della nostra quotidianità. Per rendere visibili questi dispositivi, si serve di opere d’arte visiva e film – da Stanley Kubrick a Cristina Lucas, da Harun Farocki a Marina Abramović – trasformandoli in strumenti critici capaci di decostruire le retoriche dominanti e smascherare i meccanismi che le sostengono.

Così analizza il nesso tra addestramento bellico e maschilità (Stanley Kubrick), tra pornografia e guerra e rivela come il corpo del nemico viene ridotto a oggetto, a frammento, a carne esposta in chiave sadica o grottesca, mentre il corpo del soldato occidentale è sessualizzato, reso icona eroica; prende in esame la rimozione del dolore nella sfera pubblica e politica, come nel caso emblematico della copertura del dipinto Guernica all’ONU per il discorso di Colin Powell durante la guerra in Iraq; mette in luce come l’idea moderna di cittadinanza si sia fondata sulla fratellanza armata che ha escluso la sororità, con l’evidenza visiva offerta da La Liberté raisonnée di Cristina Lucas, in cui gli uomini del celebre quadro di Delacroix si rivoltano contro la figura femminile della Libertà, rivelando la violenza patriarcale celata dietro il mito democratico occidentale; palesa la post-umanità tecnologica che neutralizza il corpo ma non il trauma (Harun Farocki); infine evidenzia la nostra complicità di spettatrici/tori distanti attraverso la performance di Marina Abramović Balkan Baroque, in cui l’artista lava per ore ossa animali insanguinate evocando la memoria della guerra nei Balcani con un gesto di esposizione fisica e simbolica.

In ognuno di questi casi, ciò che Prezzo mette a fuoco non è solo la violenza, ma il nostro modo di vederla.

Ripensare la memoria: dal milite ignoto al civile ignoto. Una delle proposte più radicali del libro è simbolica e dirompente: sostituire il monumento al “milite ignoto” con quello al “civile ignoto”. Spostare il centro della memoria dalla figura eroica e maschile del soldato a quella delle vittime invisibili: donne, bambini, corpi senza onore né nome, ma segnati profondamente dalla guerra.

Questo gesto non è solo una provocazione. È un modo per interrogare l’intero impianto della cittadinanza moderna, costruita su logiche di sacrificio, forza e appartenenza armata. Ricordare il civile ignoto significa decostruire la retorica patriottica ed eroica e restituire dignità a chi subisce.

Una genealogia femminile del pensiero di pace. Nel capitolo “Pensare l’impensato della pace”, prende forma una riflessione radicale: se la guerra è stata costruita come fondamento dell’umano e del politico, pensare la pace è un gesto di rottura, una discontinuità simbolica e linguistica. Per compierla, Prezzo si affida alle parole di tre pensatrici che hanno immaginato un altro modo di abitare il mondo:

Simone Weil ci parla della sospensione della forza, di un’azione che si radica nella vulnerabilità e non nella sopraffazione. La sua idea di “attenzione” è una pratica di cura, di giustizia nonviolenta; Virginia Woolf, nel suo Le tre ghinee, decostruisce le genealogie patriarcali della guerra e propone di “combattere con la mente”: creare una civiltà che non si fondi su dominio, possesso, virilità; María Zambrano introduce la necessità di una rivoluzione interiore e culturale che significa un nuovo modo di vivere, una nuova grammatica dell’esistenza, un nuovo modo di abitare il mondo.

Queste filosofe non offrono modelli astratti. Mostrano che la pace si pensa da un’altra posizione: non neutra, non armata, non competitiva.

Una posizione che riconosce la forza delle parole, dei gesti, delle immagini nella costruzione del reale.

Immaginare la pace. Pensare la pace dunque non è un atto neutro: è un’operazione politica, etica, estetica. Richiede nuovi linguaggi, nuovi immaginari, nuove posture. Significa spostarsi da uno sguardo critico a uno sguardo generativo, capace di produrre visioni non belliche della realtà, di restituire voce ai corpi oscurati, di creare legami invece che confini.

Rosella Prezzo, con questo libro, ci invita a smascherare ciò che vediamo, ma anche a immaginare ciò che non c’è ancora: non la pace come utopia disarmata, ma come forma simbolica da abitare, mostrare, insegnare. Un esercizio necessario in un tempo che fatica a pensare il futuro senza la guerra.

da Cartavetro

Clara Jourdan cura questo Quaderno di via Dogana che accoglie la bibliografia completa di Luisa Muraro e soprattutto la conversazione del 2003, mai pubblicata, tra la filosofa e l’amica e curatrice, trascritta per la “Biblioteca de Mujeres” della Universidad Complutense di Madrid.

Chi ha seguito il pensiero di Luisa Muraro e si riconosce nel femminismo della differenza sessuale centellina questo libro e ne respira l’essenza piano, ritornando su passaggi complessi e fondamentali della storia propria e di tante altre.

Le domande di Clara Jourdan inducono Luisa a tracciare una storia personale, una biografia che intreccia passione culturale e politica e vicenda famigliare, con un preciso riferimento alla madre soprattutto e ai dieci tra sorelle e fratelli. Il clima del Veneto cattolico della sua infanzia e adolescenza la porta ad allontanarsi prima per un’esperienza di formazione a Lovanio e poi al collegio Marianum dell’Università Cattolica di Milano studentessa alla facoltà di filosofia.

Anni duri quelli della formazione universitaria, allieva del professor Bontadini, tuttavia anche fecondi per la ricerca culturale e per il modo di affrontare gli eventi, come le organizzazioni contro la guerra del Vietnam, il dissenso cattolico e la preparazione al Sessantotto. È il momento in cui conosce Elvio Facchinelli, nella facoltà occupata, e si avvicina a L’erba voglio, «un’aggregazione di donne e di uomini che avevano a che fare con le persone non adulte a vario titolo» e che riflettevano su antiautoritarismo, pedagogia, femminismo, psichiatria e antipsichiatria accanto ai temi dell’antimilitarismo e delle lotte operaie.

Ma il cuore del libro è nel racconto sulle ricerche a cui Luisa Muraro si dedica a partire dagli anni settanta, da quello che chiama “il femminismo sorgivo”, dal suo incontro con Lia Cigarini e dalla traduzione di Speculum di Luce Irigaray. Lì si incammina sul pensiero della differenza e comincia la scelta di trasformare donne anonime e vittime in soggetti parlanti della storia. Esce La Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, da Feltrinelli nel 1976, poi Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia e Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, nel 1985 quando si è appena costituita la comunità filosofica Diotima, a Verona, dove Luisa nel frattempo è diventata ricercatrice. La Libreria delle donne, che ha contribuito a fondare in via Dogana 2, a Milano, compie dieci anni ed è un luogo di scambio, di attività varie, di artiste, di teatro, di cinema. È anche il luogo in cui nasce, nel sottoscala, il libro collettivo Non credere di avere dei diritti a cui fa seguito il primo libro di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, perché, prendendo spunto da Irigaray, la differenza è pensiero.

Dalle due esperienze nasce L’ordine simbolico della madre, un libro della cui importanza Muraro si accorge grazie alle lettrici e al valore che esse attribuiscono alla sua scrittura.

Erano intanto cominciati, dopo Guglielma e Maifreda, l’interesse per le mistiche e la relazione con Romana Guarnieri che aveva portato alla luce l’opera di Margherita Porete, una beghina medievale, morta sul rogo come eretica. «Scopro questa cosa che si chiama convenzionalmente mistica femminile, questo nome divino della libertà femminile e questo nome femminile di Dio che è la libertà femminile». Il Dio delle donne, che esce per Mondadori nel 2003, insiste sulla differenza femminile e sullo spirito di libertà che le è proprio: saper rinunciare alle sicurezze delle dottrine perché «Dio possa capitare a questo mondo».

da lucysullacultura

«Quando un uomo si dichiara femminista, tirati su le mutande» dice Natalia Aspesi. Questo è il primo impulso di qualunque donna avvertita davanti a un uomo che si dichiara femminista. Se questa è anche la vostra paura di fronte al nuovo libro di Francesco Pacifico, La voce del padrone (add editore), potete rilassarvi. Pacifico, a differenza dei molti autori maschi che ormai affollano mestamente le sezioni “femministe” delle librerie, femminista non si dichiara mai. Anzi, fin dal principio premette ciò che tutte sappiamo: un uomo non può essere femminista, perché il femminismo realizzato presuppone che l’uomo abbia meno privilegi materiali di un tempo – ed è ovvio che qui non ci siamo ancora arrivati. Pacifico suddivide dunque gli uomini in “conservatori” e “progressisti-capibara”. I primi lo sappiamo cosa professano, mentre i secondi sono più subdoli. Si dichiarano entusiasti del femminismo, come se le loro vite non fossero intaccate dal movimento.

Pacifico si avvicina al femminismo grazie a sua moglie. Lavorano nello stesso ambito, e in appena una decina d’anni lui sostiene che lei sia diventata più ambita, più “amata” di lui. Qualcosa è successo negli ultimi dieci anni, complice anche il MeToo, qualcosa che in realtà si stava preparando da molto più tempo, con le donne che sono più brave negli studi, più determinate, più indipendenti economicamente e quindi meno disposte a sopportare gli uomini. Parallelamente a questa maggiore libertà e assertività femminile, monta la frustrazione maschile per gli antichi privilegi sbeccati; sebbene questo scenario riguardi tutti, per molto tempo si è creduto che questa frustrazione appartenesse solo a uomini abietti e ai margini. Incel, estremisti, lubrici vecchi che postano foto delle loro mogli online quando non le offrono direttamente al… primo che passa, ovvero a un uomo qualunque. E infatti, dice Pacifico – così come Francesco Piccolo, un altro scrittore che si è spesso occupato di questi temi – gli stessi sentimenti che abitano questi uomini abitano anche tutti gli altri. Paura di perdere il posto, paura di rimanere soli, paura dell’abbandono, paura di essere visti per ciò che si è e non per ciò che si vuole far credere di essere. Questo è un libro che dovrebbero leggere gli uomini, scrive Pacifico, ma temo che lo leggeranno soprattutto le donne, dico io, e che lo troveranno più o meno ingenuo, più o meno tenero, più o meno sincero, più o meno intelligente. Io ho trovato che fosse più o meno tutte queste cose, ben scritto come tutto ciò che scrive Pacifico. Il tentativo riuscito di un uomo di fare autocoscienza – anche se non può dirlo – dopo aver letto e frequentato donne liberate, e che arriva a cinquant’anni alla conclusione a cui tutte noi siamo arrivate a dodici: più se ne parla, meglio si sta. Così ne abbiamo parlato.

[…]

Nel libro tu dici di avere paura. Paura che non ci sia più posto per te nel momento in cui la concorrenza raddoppia a causa delle donne. Ho chiesto ai miei amici se per loro era lo stesso. Mi hanno risposto di sì, con qualche esitazione. Mi ha stupito perché spesso si dice che gli uomini hanno paura delle donne, ma a dirlo sono le donne, cosa che mi è sempre sembrata arrogante. D’altro canto, quando ho posto la stessa domanda alle donne, cioè se avessero paura della concorrenza maschile o femminile sul lavoro, mi è stato risposto di no. Anzi, molte di loro mi hanno detto che non ci hanno mai pensato troppo perché sono in generale contente di lavorare e stupite dai buoni risultati e tendono a non vedersi sostituibili come individui da altri o altre.

Secondo me l’elemento che spiega la differenza di visioni è la gerarchia. Noi siamo stati talmente educati all’idea della gerarchia da sapere sempre chi è sotto di te e chi è sopra di te. Sicché tutto fa paura, perché tutto è in continuo movimento. La vita lavorativa non si armonizza con la propria identità, ma si concentra solo su dove stai piazzato te nella gerarchia. La gerarchia è un elemento chiave nella nostra percezione di lavoro e competizione. Per questo si è sostituibili, perché si occupa una casella in una piramide.

Poi c’è il tema della paura degli uomini davanti a questi argomenti. Ieri ho fatto un incontro al festival di Tlon a Piacenza, Conversazioni sul futuro. A un certo punto il compagno di una femminista mi ha chiesto: «Secondo te c’è un modo per far capire alle donne che alcuni uomini vogliono impegnarsi e non sono come gli altri?». C’è stata una pausa molto densa e poi ho risposto «No». Lui aveva una faccia molto aperta, molto buona. Abbiamo sentito le risate delle donne. Non si possono convincere le donne della propria bontà. Dopo questi anni passati a discutere con le femministe mi pare che la questione sia l’attitudine, la disposizione. Forse la postura […]. Ma gli uomini non vogliono mai essere colti in castagna, pensano di doversi mostrare zelanti o dover spiegare fino allo sfinimento di essere “bravi”.

Tu scrivi che “l’autocoscienza di genere” esiste nel momento in cui si fa parte di una categoria marginalizzata. Sto semplificando naturalmente, ma diciamo che nel potere che gli uomini hanno detenuto così a lungo risiederebbe la ragione dell’assenza di autocoscienza. Se niente ti mette in discussione, non ti frammenti mai e non puoi riflettere su te stesso. E questo avviene perfino quando la tua vita non ti soddisfa poi così tanto, perché come scrivi tu neanche all’uomo andava di tornare a casa, avere una moglie che gli rompeva le palle, i figli che magari non voleva avere, essere l’unico a lavorare, per non parlare dell’andare a morire in guerra.

Qui hai toccato il punto fondamentale. Non potendo essere femminista, perché sono uomo, l’ho scritto dal nostro punto di vista, cercando di capire cosa la struttura patriarcale ci ha portato via. E io credo che il genere maschile sia oppresso dalla gerarchia. Basta pensare a Cristiano Ronaldo, che malgrado sia un giocatore stratosferico sembra sempre che debba convincerti di esserlo, perché ha avuto la sfortuna di essere della stessa generazione di Messi che ha vinto più palloni d’oro.

Carla Lonzi dice una cosa bellissima, ovvero che sia la religione sia l’arte come ambiti dell’espressione umana sono stati ridotti dalla cultura patriarcale (traduco a parole mie) a una serie di gerarchie, tassonomie, elenchi di cose da fare, classifiche. La religione e l’arte sono state due componenti fondamentali della mia biografia, e ha ragione Lonzi: lo spirito quando cerca l’arte e la religione scivola spesso in secondo piano perché queste due frequenze della vita sono usate a fini gerarchici. Chi è più buono, chi è più bravo.

Quindi il punto è che secondo me gli uomini sono oppressi da se stessi e anche dalle bugie in cui credono. Lonzi dice che la donna è oppressa dall’aver creduto al mito dell’uomo.

Sì, mia madre dice che gli uomini sono tutti Maghi di Oz, ombre enormi e potentissime proiettate da uomini minuscoli e privi di incanto dietro una tenda verde.

Sì. Ma a quel mito ci hanno creduto pure gli uomini! Quando ti accorgi che non vuoi partecipare a quella gerarchia ti rendi conto che magari tecnicamente è difficile, ma dal punto di vista spirituale lo è un po’ meno. Disinteressarsi alla gerarchia è il punto di partenza secondo me per capire anche i grandi vantaggi della vita femminista. C’è un’immagine che io cito sempre: una volta ho letto che nel Medioevo le vedove a volte costruivano delle case attaccate ai conventi per vivere con qualcuno, perché ovviamente a quel punto non valevano più niente in quanto vedove, e volevano appoggiarsi ai monaci. Io immagino la stessa cosa, case di uomini orfani della gerarchia che si appoggiano ai monasteri di femministe.

(Non so come suonerà questa cosa una volta trascritta).

Senti, ma questa ferita gerarchica maschile secondo te è biologica o culturale?

La cosa che mi ha più scioccato leggendo Il secondo sesso di Simone de Beauvoir è che lei passa un sacco di tempo a spiegare la biologia della femmina del mammifero umano dicendo mamma mia che mammifero sfortunato ma poi rovescia tutto dicendo: «noi siamo esistenzialiste, noi crediamo che l’esistenza sia il compimento della natura umana e quindi trascendiamo la biologia». Io ispirandomi a lei dico la stessa cosa sul maschio: mettiamo pure che certe cose vengano dalla natura; che il maschio alfa esista nel branco – comunque lo scopo della nostra vita è trascendere la biologia.

La stessa cosa che Simone de Beauvoir ha scoperto sulla biologia, io la penso di tutto ciò che di violento, di gerarchico possediamo in quanto uomini e che magari è insito nella nostra natura: si può trascendere.

Mio nonno diceva: «Quando sono nato io, avevo quattro serve: mia figlia, mia madre, mia moglie e la serva vera e propria, perché al tempo se avevi un po’ di soldi ne avevi una fissa. Ora che sono vecchio non ne ho manco una. Ho divorziato, mia figlia non c’è più, mia madre è morta e non ho più soldi per avere una serva fissa. La qualità della mia vita è peggiorata notevolmente».

Bene, hai praticamente fatto un ritratto della crisi del maschio. Questo è un punto fondamentale anche per me perché la crisi del maschio ha due facce e ovviamente questa è la faccia ridicola – anche se è bene tenere presente che quando un popolo decade diventa violento. E poi l’altra faccia è invece quella che riguarda la gerarchia: l’uomo è oppresso dalla gerarchia che ha creato e quindi si deve sfogare su questo essere – la donna – che lui stesso ha dichiarato inferiore e che gli serve per tollerare la propria oppressione.

Ho dovuto molto sforzarmi per scrivere degnamente di queste cose perché suoniamo molto ridicoli – il vero problema è quello che ha detto tuo nonno. Io nel libro cerco di dare una dignità narrativa al fatto che se vado al festival femminista organizzato da mia moglie penso mia moglie mi sta levando il lavoro. Mia moglie è l’esercito di riserva… Questo è il livello. La teoria della sostituzione etnica siete voi donne. Capito? E questi sono pensieri che dobbiamo reclamare, dobbiamo dire cosa sentiamo, anche se sono cose brutte, meschine, perché quella pancia spaventata non la usino solo i reazionari. Tutto l’umorismo di destra recente (Pepe the Frog…) è brutale perché dice che la realtà è più brutale di quanto non si dica a sinistra. Allora voglio essere io a dire che la realtà è brutale. La realtà è che se io sono stato abituato a vincere sempre su una donna e mi viene tolta questa vittoria sarò uno stronzo che sta male. E questo però ci porta a un fatto fondamentale: dobbiamo fare i conti con un soggetto politico che non ha più a disposizione una cosa che pensava che gli fosse dovuta.

Nel libro c’è un capitolo sull’adolescenza. Tu incredibilmente hai tenuto dei diari, cosa che ti invidio molto. Pagherei oro per aver tenuto dei diari in adolescenza. Dai tuoi emerge il ritratto di un ragazzo che sta vivendo secondo dei falsi desideri che gli sono stati forniti dalla famiglia, dalla società, dalla scuola, da tutto quello che ha intorno. Così non riesce neanche a individuare qual è il suo desiderio più autentico, soprattutto nei confronti delle donne. Questa cosa l’ho trovata interessante. Tu dici: «Questi sentimenti adolescenziali sono molto simili ai discorsi degli Incel». E in effetti queste ragazze nel tuo diario sono sempre una proiezione della tua onnipotenza o della tua frustrazione, no? Però mi chiedo se questo vissuto non sia un prodotto dell’adolescenza più che del genere. Cioè che tanti adolescenti, maschi e femmine, abbiano questo tipo di impulsi, di pensieri. Se potessi leggere i miei pensieri dell’adolescenza credo troverei delle cose analoghe alle tue.

A volte infatti mi chiedo se non esistano due tipi di evoluzione per quanto riguarda le dinamiche di genere. Una filogenetica, cioè della specie umana, che ora si trova a fare i conti, in Occidente, con questo grande cambiamento. L’altra invece è ontogenetica, cioè si dispiega durante la vita dell’individuo. E mi pare che questa seconda faccia sì che fino ai venti, venticinque anni le dinamiche tra generi siano più “primitive”, e quindi patriarcali. Poi all’improvviso cambia proprio il panorama valoriale, le femmine scoprono il femminismo, si scoprono brave a studiare e via dicendo. Mi chiedo se la prima dinamica, quella più classica rispetto ai ruoli di genere che vediamo in adolescenza sia influenzabile da una diversa educazione o cultura.

Nei libri di psicologia ho letto che una crescita psicologica sana consiste nel vivere anche un periodo in cui sei sottomesso all’ideologia degli adulti che hai intorno. Poi te ne distanzi. Essere completamente sganciati dall’influsso degli adulti è praticamente un disturbo psichico. Io però ho visto figli con disturbi simili ai miei trovarsi davanti genitori che si sono messi a studiare come capirli meglio, e quei disturbi sono passati. L’ho visto sia in bambini figli di donne molto interessate dall’educazione, sia in bambini figli di femministe, che quindi applicano una loro cornice educativa.

E ho visto nei maschi una varietà di espressione emotiva – in quelle famiglie – che mi fa pensare che il maschio becero tredicenne sia il prodotto del mancato ascolto da parte dei genitori della sua parte emotiva. Nel concreto, a un certo punto una mia cara amica ha iniziato a incoraggiare e ascoltare le emozioni del figlio, perché lo aveva visto un po’ sfasato. Il figlio è improvvisamente diventato una creatura molto più articolata, che non rimaneva intrappolato nelle solite due reazioni in croce.

Io vedo figli di femministe molto forastici, ma al tempo stesso con aspetti che noi da piccoli avremmo definito “da femmina”. Poi certo, magari sei parte di una famiglia tradizionale, borghese o meno, frequenti una scuola pubblica italiana, ci sta che tu sia incasinato e contraddittorio, però quella parte dell’espressione secondo me è fondamentale e infatti io penso di non aver avuto l’infanzia giusta per me. Ero troppo delicato per diventare un maschio etero che aspettava il primo bacio e imparava a giocare a pallone.

Se avessi espresso cos’ero da piccolo mi avrebbero massacrato. Agli scout dovevo sempre dominare le situazioni perché quando non lo facevo venivo subito trattato come un freak.

Mi sembra sia stata Ferrante a far notare che l’Arturo di Elsa Morante è in realtà una femmina, perché fino ai dodici anni gli uomini non sono ancora uomini. È una cosa che io mi sto chiedendo molto davanti a mio figlio maschio appena nato, perché penso che adesso lui è femmina, ma prima o poi diventerà maschio.

Ti dico solo che agli scout mi resi conto che dovevo cambiare il modo in cui mi sedevo, cioè con le gambe ripiegate da una parte, un po’ a sirena. Ai maschi viene detto di nascondere le proprie parti da sirena, e di imparare a dominare.

Mi sorprende sempre quanto gli uomini accettino di essere soli… Non so quanto tu segua TikTok, però mi fanno molto ridere i video delle fidanzate che danno al fidanzato le liste di cose da chiedere agli amici. Tipo se un amico di lui si lascia, le fidanzate gli danno una lista per sapere perché, chi ha tradito chi, chi ha detto cosa. A prima vista sembra solo un modo per fare pettegolezzo – un termine malvisto, associato al mondo femminile ma che, se ben fatto, è letteratura, è psicologia, è introspezione – ma che in realtà è un modo per conoscere meglio l’altro. Tutt’ora io ho amici maschi che non parlano tra di loro delle cose che gli capitano. E questo non può che generare malessere. I sentimenti violenti, brutali, negativi si esorcizzano anche rivelandoli a una persona fidata.

L’altro giorno a Milano Francesca Coin a una presentazione mi ha detto: «Sono contenta che esista questo libro perché almeno ho saputo un po’ cosa pensano gli uomini». C’è un mistero dato dal fatto che neanche tra di noi (non io personalmente) ci chiediamo le cose importanti.

Io non frequento gruppi di soli uomini. L’ultimo è stato il calciotto, è finita molto male. C’è questo movimento molto più vario che sento nei gruppi di donne, che si costruisce anche sul parlare, sul gossip, sul raccontarsi i vari fatti, gli amanti, i litigi. Ovviamente ci sono uomini che mi piacciono molto. Certi baristi del quartiere, certi musicisti. Però se dovessi descrivere in maniera puntuale com’è sedersi a chiacchierare con un uomo… Abbiamo gli attacchi panico, ci vogliamo suicidare, andiamo dallo psichiatra, ma non possiamo sederci e dire «Ciao, mi sento così e cosà». Il mio migliore amico, che invece è un uomo meraviglioso, una volta, mentre eravamo seduti a un tavolino mi fa: «Guarda quelle tre». Erano delle donne sulla trentina. Una stava raccontando un fatto alle altre due, e lui mi disse: «Guarda l’attenzione con cui loro due stanno ascoltando quella che sta parlando, guarda come sono protese in avanti, hanno questi occhi tutti trasparenti, e stanno reagendo alle cose che sta dicendo l’altra. Guarda che bello».

Che poi sono le cose che ho imparato da Francesca, mia moglie. Come si sta ad ascoltare qualcuno.

[…]

L’articolo originale in versione integrale può essere letto qui: https://lucysullacultura.com/e-la-gerarchia-che-frega-gli-uomini-non-il-femminismo-intervista-a-francesco-pacifico/

da Doppiozero

Insegno da diversi anni e negli ultimi tempi sento, davanti alle nuove classi, un po’ di imbarazzo nel presentare questa colossale istituzione, la scuola, che non muta. Ho come l’impressione di dover giustificare gli anacronismi e difendere quel che resiste e ha valore. Molte cose hanno valore, smetterei di insegnare se non lo pensassi, e tuttavia quest’anno, con non poco disagio, ho messo a tema il “vietato” con cui ci siamo ritrovati a settembre.

Una mia alunna, in Canada per il quarto anno di liceo, mi ha mandato qualche giorno fa un video con cui si candida per il ruolo di ambassador dell’agenzia con cui è partita: montato con sapienza, contenuti interessanti, foto ricercate, ammiccamenti alla camera, lipgloss e un inglese che mi sogno. Non sarei in grado di creare un prodotto del genere e la mia idea di aprire le pagina Instagram dei filosofi, con cui avevo conquistato una quinta di ormai troppi anni fa, è un poco ridicola e di certo invecchiata. Davanti a questo scarto tra loro e me, spegnere il cellulare rassicura, così come stabilire norme sull’abbigliamento: sanzionare e punire. Perché interrogare, perché implicarmi, perché studiare per aprirmi a delle trasformazioni che fuori da queste mura procedono a vele spiegate senza intoppi né divieti? Perché mettere in discussione il fuori, i comandamenti della società che ci divora. Cambiamo la scuola, è più semplice; insegniamo lì un altro alfabeto e lasciamo immutato, fuori, l’alfabeto del mondo, continuando in questa evoluzione rapida che priva homo sapiens delle mani libere, condannato come è a stringere tra le dita lo scettro che lo rende potente e connesso. Tra le competenze richieste da acquisire durante un triennio ci sono le competenze di cittadinanza – sì, anche di cittadinanza digitale: dovremmo essere in grado, noi adulti, di mostrare come ci si confronta con le differenze e le novità, con sufficiente fiducia in quello che si propone e nelle contaminazioni che si renderanno necessarie. Non è questa una competenza di cittadinanza?

Insegnare significa, oggi più di prima, costruire ponti tra un mondo, quello scolastico, che percepiscono come alieno, e l’universo in cui vivono, rispetto a cui mi pare abbiano fame di istruzioni per l’uso, molto più delle generazioni precedenti. Non credo ci siano mai stati adolescenti così sensibili allo sguardo adulto, e anche così capaci di intercettare chi non è disponibile a relazionarsi con loro.

Non possediamo risposte e forse, per la prima volta – e per fortuna – non ci illudiamo di averle; ma possiamo vederli, questi ragazzi e ragazze. Cosa voglia dire questo vederli è ben mostrato in Non siamo capolavori(Laterza, 2025) di Marco Rovelli, libro che non è un manuale di istruzioni – lo abbiamo detto, istruzioni universali non esistono – né una classificazione con intenzioni esaustive: il tentativo in atto in queste pagine è dare spazio a una pratica che sarebbe bene si diffondesse come un contagio. Al di là dell’istituzione scuola, dunque, con le sue malattie e le sue trasformazioni, con il suo conservatorismo e le sue paure, c’è una dimensione del “cosa significa insegnare veramente oggi”, per riprendere le parole di Enrico Manera, che riguarda l’imparare a leggere, decifrare, stare, con quel che non si può catalogare né spiegare; un “lavorare per limitare il peggio del nostro tempo inquieto e ferito”.

Che esagerati gli adolescenti! Scena muta per un esame così semplice. Che esagerati, che fragilità esagerata. Lo detesto il termine “esagerata”: sì, sono esagerate le scenate, i pianti, il corpo. Esagerato è uno dei nomi dell’alterità, del femminile; esagerato è quello che non sta nei confini imposti dal discorso sociale e chiede di trovare una via per poter esistere. Esagerato è un gesto che scuote, che dice di no, che fa rumore. Sono esagerati gli adolescenti. Sì. Esagerato è spesso il loro silenzio.

Non siamo capolavori si fa carico del dissenso e del disagio di una generazione. E si apre con un assunto: la sofferenza è politica. È necessario leggerla e mettere in discussione il discorso sociale che la determina: “l’ipermodernità dunque, per far fronte alla propria crisi, strappa a se stessa la vulnerabilità, la piega alla logica dell’individualizzazione, ne fa veicolo per un ulteriore ripiegamento su un Sé individuale e isolato”; eppure, continua Rovelli, “fragilità e vulnerabilità, se rivendicate collettivamente, possono essere strumenti di cambiamento sociale, perché quando due fragilità si incontrano e si riconoscono producono una nuova situazione, un nuovo concatenamento che permette di guardare alle cose e di agire in esse da una nuova prospettiva, e in termini trasformativi”. Non ho mai visto una generazione così preparata ai termini psichici; conoscono il linguaggio medico, apprendono informazioni in rete, si diagnosticano disturbi ossessivi e anoressie che diventano etichette con le quali definiscono la propria identità: “se conosco la mia diagnosi, divento uguale a tutti gli altri che hanno la stessa diagnosi: vengo omologato e questo mi rende parte di un meccanismo”. Rovelli insiste sulla necessità che sia il contesto, collettivamente, a farsi carico di rompere tale meccanismo, mettendo in comune il disagio, creando spazi che consentano di aggiungere parole alle etichette, articolare vissuti, portare a visibilità il legame tra le condizioni materiali di vita e la sofferenza, magari facendo anche dei sintomi occasione di legame sociale: non la diagnosi che chiude, ma il luogo dove tutto possa essere interrogato, dove sia possibile scriversi in una comunanza, un ritmo condiviso che rimetta in moto la potenza vitale di ognuno.

La scuola, oggi, non sembra in grado di essere il luogo di quel “processo di intensificazione del desiderio che è il cuore di ogni crescita personale”. Cosa possiamo dunque fare nel tempo della catastrofe? Il pessimismo è un lusso che non possiamo permetterci: per aprire il presente, le sue possibilità, e rendere meno minaccioso il futuro, Marco Rovelli interpella voci e competenze diverse. Non siamo capolavori è un libro plurale: un dialogo tra saperi, tra persone, con adolescenti, psichiatre, psicoanalisti, filosofe, insegnanti, professioniste. Rovelli riporta le opinioni, discute le teorie. Questa modalità di scrittura – in debito e in relazione – mi pare una prima lezione politica. Se vogliamo immergerci nella scuola, se vogliamo provare ad ascoltare gli adolescenti, dobbiamo procedere con quelle due arti che qualsiasi studente al terzo anno scopre, addirittura con incanto, se ha un buon insegnante di filosofia: dialogo e epoché. Dialogare, chiedere suggerimenti, fidarci di altri saperi; sospendere il “già pensato”, le convinzioni e i luoghi comuni. Provare a capire la dose di sofferenza che vediamo a scuola significa imparare a tenere conto dei fattori politici, economici e sociali; del discorso in cui gli adolescenti sono immersi; di come tutto questo venga elaborato nell’uno a uno della loro differenza singolare. E questo singolare mi consente di esplicitare un’ulteriore ragione per cui ritengo questo un libro politico: non c’è determinismo. Rovelli lo ripete in più occasioni, le spiegazioni causali lineari non tengono conto della complessità, dell’individualità, dei rapporti: questa è la ragione per cui è necessario, per leggere le forme del dissenso, porsi in ascolto e dotarsi di un dizionario sempre in divenire. Dissenso che può essere esplicito o tacito, che può sfociare in una rabbia autodiretta o eterodiretta, in un “non poter stare” che si fa inquietudine o in un silenzio che problematizziamo troppo poco, visto che non disturba le nostre lezioni e non sporca la bella immagine di una macchina funzionante.

Soffrire è dissentire: “dobbiamo vedere le forme di sofferenza come un non sentirsi accordati al mondo: dove il soggetto di questo non sentirsi accordati al mondo è il corpo”. Il corpo, o meglio, i corpi espostiche siamo. Il corpo non è solo quello sottoposto allo sguardo, quello che deve essere in forma, che deve funzionare, che deve essere plasmato e perfezionato, oggetto di desiderio e di giudizio. Leggere i corpi e quel che vogliono dirci significa recuperare il corpo carne, per dirla con linguaggio fenomenologico, il corpo vivo, l’essere-nel-mondo, il corpo vissuto dall’interno e non visto dall’esterno: “ogni corpo è un campo di battaglia” e i sintomi parlano. Il corpo è la questione dell’adolescenza: “che fare con il mio corpo (che sono io)? Che fare con gli altri corpi? Sono le questioni più proprie dell’adolescenza, che diventano tanto più pressanti quando si vive sempre meno nella relazione con l’altro perché l’altro è lo specchio che guarda e giudica”. Il corpo sono gli ammiccamenti della mia studentessa in America, il suo lipgloss, le unghie vietate dai dress code (ebbene sì, sono riusciti a farmi difendere quell’orrore di artigli); il corpo è Tik Tok e lo stile creativo che hanno bisogno di trovare; il corpo è quel che parla anche se si prova a negare il dolore: “nella pratica dell’autolesionismo, nel ritiro sociale dell’hikikomori, nei disturbi del comportamento alimentare, nell’attacco di panico, nella sintomatologia ansioso-depressiva, è sempre il corpo che sta sulla scena come il soggetto che resiste attraverso la sua sofferenza”. Che fare davanti a questi corpi? La dimensione virtuale può essere certamente un vettore di isolamento, colma un vuoto, così come l’acquisto compulsivo di oggetti, ma davvero la scuola è impotente rispetto a questo vuoto? Non è il nostro compito di insegnanti quello di fornire loro competenze emotive e affettive necessarie per trovare altre vie? Non è la scuola il luogo in cui la grammatica identitaria si articola e si modella nel confronto con la differenza, con l’alterità, con l’istituzione e con le sue regole?

Possiamo insegnare il limite se insegniamo il senso del limite; e se questo senso, e il suo valore, li ritroviamo anche al di fuori delle aule scolastiche.

Insegnare oggi è “creare possibili”, lasciandosi toccare dai corpi degli adolescenti e dai corpi che siamo. Erich Fromm, nel 1953, quando tiene le sue quattro lezioni sul tema della salute psichica presso la New School for Social Research di New York (I cosiddetti sani, Mimesis, 2025) racconta di Toro Ferdinando, personaggio di un libro per l’infanzia: toro anomalo, che ama i fiori del pascolo e odia la corrida; scomodo in una società di guerrieri, costruita per combattere. Cosa accadrebbe allora se questo Toro Ferdinando ci infettasse con la sua differenza, sconvolgendo la struttura della nostra società? Una società ha bisogno di una certa dose di conformità; e però non può non subire, ogni tanto, scarti che rappresentano i passaggi di paradigma. Si va avanti così, alternando momenti di progresso e altri di riconfigurazione del mondo; e, in uno di questi ultimi, un Toro Ferdinando potrebbe averla vinta. Certo, poi si ripresenterà l’esigenza di tornare a istituire norme che regolano il gioco della vita. E tuttavia la società moderna soffre di una strana immobilità. Cosa infatti la caratterizza? Certo, l’individualismo; sicuramente la paura che l’uomo ha della libertà e una situazione in cui l’uomo è dominato dalle macchine che ha creato per controllare la natura. Ma c’è di più: un’idolatria scientifica che ha smarrito l’approccio scientifico. Manca, cioè, la disponibilità a modificare i risultati del nostro pensiero con la scoperta di nuovi dati. Così oggi – e lo diceva Fromm nel 1953 – siamo giunti al punto in cui il fondamento della nostra vita e della nostra società coincide con ciò che da un punto di vista oggettivo è da considerarsi normale e sano: insomma, a questo benedetto migliore dei mondi possibili ci crediamo davvero, e abbiamo fatto di quel che è, quel che deve essere.

In questo quadro la distinzione tra salute e malattia psichica viene operata con una tale sicurezza, ed è così perfettamente rispondente al far prosperare il tipo di società in cui siamo immersi, che, in fondo, ad ammalarsi sono le persone più sensibili alla questione del senso della vita. Chissà che tra gli adolescenti non ci sia un Toro Ferdinando, chissà che non possiamo provare a lasciarci contagiare dalle sue battaglie, da un amore per i fiori, economicamente poco seducente, che non capiamo.

Mi è capitato, negli anni, di scrivere a Luisa Muraro. E di ricevere risposta. Con le scuse per il ritardo!! «Cara Luisa – la rassicurai quella volta – a me dà una grande libertà questa circolazione epistolare, che non è a stretto giro di posta, ma a largo giro di vita. Non c’è ritardo e non c’è fretta…» La data era 30-XII-13.

E il 12-5-25 mi è arrivato un pacchettino che conteneva Esserci davvero.

Non era una lettera, non me l’aveva spedito lei, era un Quaderno di Via Dogana appena pubblicato conteneva una intervista datata 2003. Eppure l’ho letto come fosse una lettera indirizzata a me, con la curiosità, la partecipazione e la sorpresa di conoscere aspetti nuovi e vicende personali di una donna, di una filosofa, che considero mia maestra non solo di pensiero… Non c’è ritardo e non c’è fretta… La memoria torna, il tempo si snoda, ricompare la gratitudine per la vicinanza che Luisa Muraro ha manifestato per l’Ordine della Sororità dopo la morte di Ivana Ceresa, che ne è stata la fondatrice, in forza anche della stima e dell’amicizia che ha avuto per lei.

È che in Esserci davvero si intrecciano molti fili e si incrociano molti specchi e si squadernano le molte relazioni costruite negli anni e si fa fatica a metterne in evidenza solo alcune.

Mi piacerebbe partire – e non sembri stonato o irriverente – da una parentesi aperta e chiusa a pag. 57, a proposito delle discussioni che precedettero la stesura di Non credere di avere dei diritti. «Allora – scrive Muraro – ci trovavamo nel sottoscala della Libreria, in via Dogana 2, sottoscala che all’epoca aveva più correnti d’aria, ma eravamo comunque molte riunite in un posto così… (io sono claustrofobica), e si discuteva. Si discuteva e io prendevo appunti».

Ho trovato, in quella dichiarazione tra parentesi, una richiesta – non solo fisica – d’aria: non volersi chiudere in spazi angusti, polemizzare anche confliggendo per aprirsi varchi o vie di fuga, fino a raggiungere l’aperto – dove l’aperto è anchel’Aperto – così che spostarsi diventa non essere dove gli altri credono che tu sia, fare la schivata, non coincidere con quello che era previsto, prescritto, promesso pensato di te, praticare un nomadismo di pensiero che è la condizione per non farsi intrappolare dall’ideologia perché c’è altro o Altro.

In un testo – che abbiamo considerato prezioso così da chiederle di poterlo inserire negli Atti del Convegno su Romana Guarnieri dell’ottobre 2022 a Bologna – intitolato Come quando si accende la luce, Luisa Muraro riprende nelle ultime battute la domanda «Che cosa ci sarebbe da fare? Una schivata, come gli animali inseguiti dai predatori, uscire di colpo dalle traiettorie del potere e saltare nella mancanza: di organizzazione, di successo, di prestigio, di dottrine, di nomi propri… in una parola, mancanza di tutti i surrogati. Così che ci nasca dentro e ci venga incontro da fuori la rispondenza tra le cose che viviamo e le parole che diciamo, dalla quale si accresce l’essere di ogni cosa che è […]».

E da qui nasce anche la scrittura: si vede bene nello scambio teso e vivace – riportato con felice complicità a pag. 45 – tra la filosofa e Clara Jourdan, l’intervistatrice, che le chiede «È come nella pratica politica delle donne di rigiocare al presente cose che sembravano chiuse nel passato? Tu fai questo nella scrittura, cioè è la scrittura che ti fa questo?» Risposta: «Sì, ma non è solo la scrittura, perché può esaurirsi la possibilità di scrivere… Ho preso la pratica politica delle donne come forma simbolica che mi permetteva la scrittura… Comunque non si scrive mai lo stesso: solo gli scrittori standardizzati, non certo io che scrivo per salvarmi l’anima. Io scrivo per salvare qualcosa che ha il valore dell’anima per le civiltà religiose, scrivo per non essere dannata. Chi scrive per salvarsi l’anima è chiaro che ogni volta ne va di tutta la faccenda, ogni volta».

Si tocca qui, se pure da lontano, quello che in altri termini e in altri libri lei chiama mediazione vivente, che le mistiche di ieri come di oggi hanno insegnato «[…] aprendo il passaggio al pensiero di altro… ma non basta dire che fanno nascere pensiero. Nel vuoto di una mancanza incolmabile e accettata, esse ospitano l’incontro fra le cose che capitano a caso e per forza, con la loro possibilità di libertà e di gioia, e quello che rendono pensabile comincia già a essere» (da Il Dio delle donne pag. 157).

La “mia” lettera, quella che pretendevo indirizzata a me, che è questo quaderno rosso che tengo tra le mani, si è rivelata così ramificata da toccare la storia del femminismo italiano, e non solo, degli ultimi cinquant’anni, da interessare le tante lettrici e lettori che hanno condiviso gli stessi passaggi storici e culturali, da spostare continuamente l’orizzonte e fare intravedere paesaggi ancora sconosciuti, da rivelare connessioni imprevedibili con l’oggi.

Il quaderno – nella prima metà, che precede l’amplissima bibliografia – si va ora configurando ai miei occhi come una mappa: una mappa – e ancora Muraro mi addita il lavoro delle Preziose – che non può che essere la Carte du Tendre. Una mappa, dove anche i sentimenti hanno una geografia, dove il paese di partenza si chiama Nuova amicizia; lo attraversa un fiume di nome Inclinazione e verso la foce si aggiungono altri due fiumi, Riconoscenza e Stima, si attraversano villaggi piacevoli e non (bontà, sincerità, orgoglio, oblio…) in un percorso comunque verso l’amore.

da Camilla

Francesca Albanese, Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina, Rizzoli, Milano 2025, pp. 288, euro 18.

Relatrice speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato, Francesca Albanese condivide le sue esperienze. Ne esce un libro palpitante, che freme di sostanza.

Se ne valesse la pena, si potrebbe dar conto delle offese, delle insinuazioni sulla professionalità, dei sabotaggi che hanno colpito l’autrice anche in privato. Ma chi legge è consapevole che l’impegno si paga, e sa già che ci sono conseguenze prevedibili per chi, specialmente in posti di rilievo, si schiera secondo giustizia. La protesta sterile è appena tollerata; quella costruttiva se la vede brutta; per il posizionamento giusto di chi ha responsabilità ufficiali, poi, non ci sono riguardi.

Questa giurista tenace è innamorata della vita, anche quella degli altri; si aggrappa al lavoro, compresi i problemi che comporta, e va per la sua strada. Quel lavoro, grazie a un’energia vulcanica, riesce a proseguirlo «e, in modo controintuitivo, a continuare ad amarlo». Solo se si tiene presente questo, si apprezza sino in fondo un libro che segue le persone e che alle persone si rivolge.

Persone, tante persone. Alcune non sono più, tutte hanno qualcosa da dirci, in un volume che persino nella divisione in capitoli segue il filo delle loro storie. Chi conosce il peso soporifero dei soliti scritti biografici dei giuristi e del notabilato, qui riceve una sorpresa a colori. Una giurista che non annoia? una relatrice dell’Onu che fa capire a caldo problemi complessi? Deve aver pagato un prezzo, per conquistare questa chiarezza, ma non lo fa pesare, perché ha dalla sua una scelta di campo. Una scelta convinta, sempre argomentata. La scelta dei fatti.

Il quadro generale è esplicito; il sistema che schiaccia i palestinesi ci riguarda tutti:

È il sistema che decide al posto nostro su questioni determinanti della vita di tutti noi, senza necessariamente ascoltarci e rappresentarci; quello che trasforma il lavoro in precariato e i diritti in privilegi, che fa in modo di alienarci gli uni dagli altri, rendendoci tutti più fragili e insicuri; che considera la solidarietà un atto sovversivo e l’empatia una forma di disfunzione mentale e sociale[1].

Se l’oppressione non ha confini, anche la liberazione o è di tutti o non funziona: «Nella liberazione del popolo palestinese dall’oppressione dell’apartheid c’è la chiave per la liberazione degli stessi israeliani»[2].

Nessuno può chiamarsi fuori, perché una linea del colore, diseguale ed esclusivista, colonizza l’umanità su scala mondiale. Anche l’operazione securitaria in atto in Italia, con la stretta sulle libertà e i lacci alle mobilitazioni sociali, realizza una discriminazione che controlla i rapporti di lavoro, lo spazio, la cultura. Nei metodi militari e polizieschi, poi, la sperimentazione sui palestinesi collauda tecniche applicabili dappertutto.

Albanese spiega: «La sicurezza in quella terra – e non solo, purtroppo – è a senso unico; se sei palestinese, viene invocata solo per reprimere la tua libertà. Per punirti». Evidentemente esiste una sicurezza unilaterale: può presentarsi in grado estremizzato ed eliminazionista, oppure può essere quella che si vuole imporre in Europa da molti anni. Ma lei ha visto la violenza in una forma radicale, fatta di negazione e squalifica profonda: Israele i palestinesi non li vede, non li ascolta e, cosa ancor più grave, non li «sente». Per la maggior parte degli israeliani che intervengono pubblicamente, ma anche per molti esponenti della diaspora ebraica, esiste una sola prospettiva: quella di Israele[3].

Chi è cosciente di questa situazione parla una lingua dal suono inconfondibile: «Nessuno è libero finché non sono liberi tutti»[4]. Non si arriva a queste consapevolezze senza una buona dose di autocritica. Per forza: i giuristi migliori sono quelli che decostruiscono il diritto, che ne mettono a nudo i pregiudizi, le stratificazioni prevaricanti. Non è un caso se quest’anno, nelle irruzioni dell’esercito all’Educational Bookshop, a Gerusalemme, fra i testi sequestrati c’era un libro di diritto scritto anche da lei[5]. Ma bastano, cultura e introspezione?

Proprio no. Bisogna incontrare la realtà faccia a faccia, sbatterci contro il muso, magari in un caffè con gli odori pesanti e i camerieri che sono ragazzi usciti dalle mani dei carcerieri israeliani. L’autrice discute con un palestinese, sottolinea il suo ruolo nell’Onu, e quello la smonta senza complimenti: «Non si è scomposto più di tanto; guardandomi dritto negli occhi, si è limitato a chiedermi: “Ma tu, che vuoi fare?”. Una domanda alla quale, a distanza di tanti anni, forse sto ancora cercando di rispondere»[6]. Evviva! Una giurista che si mette in discussione, che non sbandiera successi immaginari, che non si pavoneggia citando commi e paragrafi.

Quando si fanno queste sane docce fredde, si capisce molto di sé e dei colleghi. Anche l’impegno dalla parte degli oppressi può contribuire all’oppressione: è il «paradosso umanitario». Credi di aiutare e, senza saperlo o senza poterlo evitare, ogni cosa che fai sta già in un modello che lascia le cose come stanno, che consolida lo stato di fatto. Allo stesso tempo ti senti un benefattore, un bianco buono, mentre sei parte del problema che vuoi risolvere. Anche su questo, il modello praticato sui palestinesi estremizza la violenza. Ma il contributo funzionariale alla linea del colore è simile ovunque, anche in Italia: il giurista, il benefattore, l’attivista, il militante possono diventare parti del circuito che credono di spezzare.

E allora arriva l’impegno di Albanese in ogni direzione, per sfuggire ai pregiudizi e ai condizionamenti, per dare il meglio. Frequenta il popolo e gli intellettuali, legge e si documenta, entra in contatto con studiosi di mezzo mondo, approfondisce teorie d’avanguardia: ci mette di fronte alla politica verticale, allo spaziocidio, alla trasmissione intergenerazionale dei traumi.

Ma non trascura i dettagli, le cose. In quel caffè palestinese con gli odori forti torna sempre, per attingere alla fonte che ogni essere umano – il giurista più degli altri, con la sua tendenza automatica alle categorie e alle astrazioni – non deve abbandonare: la realtà. Lei la riassume così: Israele e Palestina, uno è l’occupante e l’altro l’occupato, uno è il colonizzatore e l’altro il colonizzato, posto in una situazione di strutturale subalternità e vittima di un sistema di controllo e segregazione. No, questo non è un conflitto: al massimo può essere visto come un conflitto con l’umanità[7].

È bene, oltre alle persone, frequentare i luoghi: ma se fai le escursioni organizzate, vedi cosa ti fanno vedere e devi sorbirti versioni addomesticate della storia e dell’archeologia del Medio Oriente; invece località e rovine, anche quelle che le guide turistiche definiscono senza un margine di dubbio, sono interpretabili in vari modi. Tutto va approfondito: il Muro del pianto, per esempio, potrebbe non essere un muro del Secondo tempio di Gerusalemme; per alcuni, anzi, il Secondo tempio non sarebbe stato lì o non sarebbe mai esistito[8]. Così, lei supera il suo anticlericalismo e si affida a un prete, oltre che a un palestinese, per sentire l’altra campana e non solo le narrazioni che piacciono a Tel Aviv.

Instancabile, affamata di esperienze e di vita, Albanese ha capito che se in Palestina si vede un «conflitto» si inizia a leggere un libro da metà delle pagine, ignorando cosa c’è prima. Ecco, Quando il mondo dorme ci aiuta a cercare lì, è un libro che si porta dietro i capitoli mancanti nelle letture degli altri. Perché stupirsi? Nasce da un’idea che le ronzava in testa da anni: scrivere Polaroid da Gerusalemme, presentando la Palestina come l’ha vissuta, con curiosità culturale e attenzione giuridica insieme.

Pensiamoci: un libro che porta con sé l’altra metà della storia, cioè i mezzi libri che il mondo non legge, perché non può contenere l’ombra di se stesso, il libro non scritto? Forse è questo, il segreto di un lavoro riuscito.

Note:

[1] Francesca Albanese, Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite della Palestina, Rizzoli, Milano 2025, p. 16.

[2] Ivi, p. 19.

[3] Ivi, p. 207.

[4] Ivi, pp. 240-241.

[5] Ivi, pp. 104-105. Si tratta di Francesca Albanese, Lex Takkenberg, Palestinian Refugees in International Law, Oxford University Press, Oxford, New York 2020.

[6] Albanese, Quando il mondo dorme, cit., p. 63.

[7] Ivi, p. 76.

[8] Ivi, p. 87.

da La Balena Bianca

Livia Massaccesi, Indossare la battaglia: Rosa Genoni, Milano, Electa 2023, € 12, pp. 96.

Difficile resistere alla collana di libri che prende il nome dal ritornello di una canzone amata da bambina. “Oilà” è una raccolta Electa di mini-tascabili contenente pillole di vite scandite al ritmo di un canto di lotta che segna la storia delle battaglie e dell’emancipazione femminile: “La lega”. Per me è anche un ripescaggio nell’infanzia: nel mio ricordo la melodia risuona di vacanze estive, di viaggi in macchina verso mete marine, insieme agli altri canti politici intonati da mio padre. “Se ben che siamo donne” (questo il titolo col quale avanzavo la richiesta per “La lega”), era la mia preferita e ci emozionavamo a cantare il ritornello nelle diverse versioni con cui aveva preso vita e fatto la storia:

Oilì oilì oilà e la lega crescerà

e noialtre lavoratrici (socialiste), e noialtre lavoratrici (socialiste)

a oilì oilì oilà e la lega crescerà

e noialtre lavoratrici vogliam la libertà

Indossare la battaglia. Rosa Genoni, di Livia Massaccesi (2023) è il mio testo di accesso alla collezione: la “sarta” socialista sulla quale mi sono sempre ripromessa di sapere di più.

Intraprendo dunque la lettura ad “alta leggibilità”, sintagma che rimanda non solo al mio livello di interesse, di certo alto, ma a una scelta grafica, anch’essa democratica, che rende i contenuti accessibili ai più. Il testo infatti è sbandierato, non allineato a destra (di nome e di fatto), il vento fischia tra le pagine e le parole arrivano dritte al cuore di chi legge. Ben presto scopro che Rosa Genoni, classe 1867, prima di diciotto figli di un’umile coppia (ciabattino il padre, sarta la madre) che vive in un borgo alpino ai confini con la Svizzera, è stata ben più che una sarta, ma anche molto meno potremmo dire, se prendiamo in considerazione tutta, ma proprio tutta la sua vita. Stilista, attivista, militante socialista, “sarta artista” (stando all’appellativo coniato dalla giornalista coeva Paola Lombroso), Rosa inizia a dieci anni come “piscinina” (piccolina in dialetto milanese), una di quelle bambine che lavorano nelle sartorie per quattordici ore al giorno e pochi centesimi. «Sono aiutanti e raccattaspilli [che] spesso neanche imparano il mestiere di sarta, hanno l’incarico di consegnare gli abiti alle clienti e portano sulle spalle pesi non indifferenti», racconta Livia Massaccesi, anche lei nipote di sarta.

Così, come in un gioco di specchi, il ritmo della macchina da cucire riecheggia nelle battute del testo e nella biografia dell’autrice, cresciuta tra le stoffe, gli aghi e i fili del laboratorio di sartoria della nonna, dove «il rumore della macchina da cucire è stato il sottofondo accogliente dei pomeriggi passati da lei, nel fumo delle sue mille sigarette, tra i fogli a quadretti pieni di figurini che lei disegnava e io coloravo». Un ambiente vitale e colorato in cui la nonna incantava la piccola Livia – scrittrice e visual designer specializzata in grafica editoriale – con quella «sua capacità di rendere semplice la trasformazione di un’idea in oggetto».

Le idee e la trasformazione – nella sua accezione profonda e rivoluzionaria – sono dunque alla base della lettura del testo, nel quale l’alternarsi tra la prima e la terza persona crea una rifrazione viva tra l’io della scrittrice e la biografia della protagonista: «Quando per la prima volta ho incontrato la storia di Rosa Genoni – ero molto giovane e studiavo storia del costume – ne sono rimasta folgorata […] mi ha fatto capire una cosa di me stessa: per me progettare è prima di tutto un’attitudine, poi un mestiere. Non c’è un aspetto della sua storia in cui non trovi elementi di modernità, spirito critico e desiderio di miglioramento, tutte caratteristiche necessarie in un buon designer».

Effettivamente quella di Rosa Genoni è una vita di progetti creativi, politici e sociali: lavoratrice precoce, entra presto in contatto con il lavoro sfruttato e sottopagato, in un ambiente tutto al femminile, ma non è tipa da scoraggiarsi. Ha fame e sete di conoscenza e, una volta mosso il primo passo (dal piccolo paese alla grande città), comincia a tessere i fili e la trama della sua vita: i progressi nel mestiere, i primi contatti con il socialismo attraverso il cugino, la lingua d’oltralpe (lingua indiscussa della moda) imparata da autodidatta, l’incontro con Anna Kuliscioff, le battaglie per il movimento operaio, il primo viaggio in Francia – siamo nel 1884 e lei è stata scelta come interprete per accompagnare la delegazione del movimento operaio al “Congresso internazionale sulle condizioni dei lavoratori di Parigi”. A Parigi comincia anche il suo percorso individuale, la sua indipendenza, che nella moda si traduce in una battaglia per liberare l’Italia dal modello (anzi, dai modelli) francesi. Artefice – così amava essere definita – farà di questa campagna uno strumento di lotta per l’emancipazione della donna a partire dalla sua libertà di movimento: celebri i suoi modelli che affrancano le donne da quegli stretti corpetti ai limiti della tortura. Maestra del “made in Italy” – la locuzione compare per la prima volta in una sua intervista – non le verrà mai riconosciuta la maternità di un’intuizione così lungimirante da prestarsi ai successivi usi strumentali e di propaganda.

Del resto, siamo negli anni dell’industria, verso la quale la sua apertura al cambiamento permette a Rosa Genoni di intravederne il potenziale, un’opportunità in grado di alleggerire il lavoro (migliorandone le condizioni) e velocizzare la produzione. Per Rosa la macchina «si presterà a democratizzare, anche presso i meno ricchi, quelle bellezze di opere che la mano dell’uomo, una volta, produceva a prezzi tanto elevati, da essere riservati solo a pochi privilegiati».

La grande storia intarsia il racconto, non soltanto nei suoi “movimenti” – il socialismo, l’avvento del fascismo, l’industrializzazione – con cui fa i conti la protagonista, ma anche con singoli eventi che ne fanno da cornice. L’eccidio delle Fosse Ardeatine irrompe in prima pagina come una sorta di avvertimento: siamo nel marzo del 1944, c’è la guerra e se la nonna dell’autrice non fosse scampata al rastrellamento che la coglie gravida di due gemelli, questa storia «che ha a che fare con lei e con me [Livia Massaccesi] non ci sarebbe». In chiusura invece incontriamo il riferimento a un gesto di Rosa, grande al punto da arrivare con la sua eco sino ai nostri giorni. Siamo nel 1948, la sarta-artista ormai conduce una vita ritirata, ma il suo fermo impegno civico la porta a scrivere una lettera all’ONU, nella quale «afflitta dal conflitto israelo-palestinese ne auspica una soluzione pacifica».

Una vita dalla gittata ampia, il cui arco sembra proiettato ben oltre le condizioni ambientali della sua epoca. Un esempio che è anche un monito e un tarlo che sta lì per dirci – così come titolava il giornale organo del suo partito – Avanti!

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Fotografia del Congresso internazionale delle donne per la pace del 1915. Rosa Genoni è la quarta a partire da destra. L’immagine è di pubblico dominio su Wikimedia Commons.