Giovanna Giorgetti della Segreteria regionale Filtea Lombardia
Le donne sono portate a mettere tanta cura e qualità nel lavoro che svolgono, anche in quello costrittivo delle fabbriche; lo osserviamo nella nostra pratica quotidiana di relazione con lavoratrici e delegate. Risulta anche dallo scritto di Nedda Bonaretti su Via Dogana n. 13 (“Ritratto di operaie con psicologa”): le lavoratrici desiderano fare bene il lavoro perché lo sentono parte della propria vita di donne.
Ciò è molto evidente a chi di noi opera nel settore tessile, dove la volontà delle lavoratrici di dare qualità significa anche farsi carico dei bisogni e desideri di altre donne, le consumatrici, che non solo potranno esprimere attraverso il bene prodotto parte della propria soggettività di donne, ma si occuperanno anche della sua cura e manutenzione. Non si tratta dunque di identificazione con gli obiettivi aziendali di vendita, ma di attenzione alla relazione con le destinatarie del prodotto del proprio lavoro, che sono consumatrici o consumatori piú che clienti. E’ interesse per il consumo, non per il consumismo.
Quasi sempre questo desiderio – di “far bene” è vissuto con grande sofferenza nei confronti di norme e gerarchie. La sofferenza che le lavoratrici ci comunicano, riguarda, oltre al non riconoscimento della loro qualità nella scala parametrale e salariale (quasi tutte sono inqua-
drate ai livelli piú bassi), anche il rapporto con una organizzazione del lavoro che impone carichi e ritmi crescenti, rigidi, in cui l’obiettivo della quantità cozza con quello della qualità che comunque le aziende pretendono.
La ricerca della produttività, oltre ad aumentare i carichi e le forme di standarizzazione, ha portato spesso le aziende a regolamentare in modo restrittivo il lavoro, riducendo spazi di libertà delle lavoratrici. In una indagine fatta nelle fabbriche del lecchese, ci ha impressionato l’elenco di divieti espressi con norme e anche fisicamente con cartelli come VIETATO CHIACCHIERARE, turni rigidi per il caffè, divieti di allontanarsi dalla macchina … ; cosí il ruolo dei capi diviene sempre piú quello di controllo del rispetto dei divieti. Anche le esperienze di qualità totale hanno cercato piú di coinvolgere le lavoratrici sugli obiettivi aziendali che di occuparsi del loro benessere e quindi della qualità del loro lavoro.
Eppure anche dentro le norme e i controlli le donne hanno spesso ricercato e trovato spazi di libertà e di cura del proprio lavoro, attraverso una serie di azioni informali, di comunicazione con altre lavoratrici, di superamento delle prescrizioni, di adattamenti, di “farsi carico” al di là delle regole e del mansionario contrattuale. Questa pratica l’abbiamo verificata nella ricerca fatta a Brescia con una delegata, Mafi Acerbis (v. “Giacca fallata” su questo numero di Via Dogana).
Lavorare bene, esprimersi nella relazione con altre donne – lavoratrici e consumatrici – preservando cosí la propria interezza, è un valore molto forte che opera al di là di riconoscimenti monetari o di potere, che le donne non chiedono (ma questo rimane nella società un fattore di debolezza). Certo le lavoratrici rivendicano anche un diverso inquadramento salariale, ma ciò che vogliono mettere in campo non è il riconoscimento di ruolo, è molto di piú.
Lo possiamo verificare nel rapporto con i ruoli gerarchici aziendali, in genere rifiutati dalle donne, in particolare come esercizio di potere, disprezzati fortemente se ricoperti da altre donne (le maestre-ruffiane), accettati solo se esercitati con autorevolezza professionale nel saper fare o nel saper risolvere i problemi. Abbastanza forte è il rimpianto delle lavoratrici piú anziane per i vecchi capi che conoscevano il lavoro, e il rifiuto e disprezzo per i moderni capi-controllori.
Per questo sentiamo il bisogno di non andare avanti con slogans sulla valorizzazione del lavoro delle donne o peggio ancora con la pratica delle azioni positive, ma di fare ordine, di comprendere questa qualità del lavoro delle donne, anche per capire perché non produce norma nell’azione sindacale dominata ancora dall’ordine simbolico maschile.
Possiamo tentare di porre tre questioni, su cui riflettere per la nostra pratica sindacale: 1) la cura, la voglia di qualità delle lavoratrici è desiderio di riconoscimento di autorità che si esprime nella relazione con altre donne nel luogo di lavoro; 2) la ricerca di autorità e relazione si esprime anche attraverso il bene che si produce, oggetto della relazione con donne consumatrici e della propria interezza di donne. Le donne vogliono produrre per il consumo-relazione e non per il consumismo; 3) la ricerca di qualità è anche pratica di libertà, in cui le donne agiscono spesso informalmente, senza scontro apparente, ma con un processo di “riadattare su di sé”, anche nelle organizzazioni aziendali piú rigide e nel rapporto con le sue forme di controllo.
Stiamo, e alcune lavoratrici stanno, prendendo consapevolezza di questo nuovo ordine e della sua forza per donne e uomini; c’è bisogno di dargli voce pubblica. Anche per dare piú corpo e concretezza a elaborazioni che stanno emergendo su cosa produrre, sull’utilità sociale, sull’ambiente.
Nedda Bonaretti
Negli ultimi due anni ho avuto modo di vivere un’esperienza con alcune centinaia di donne operaie appartenenti a grandi aziende milanesi.
Il lavoro mirava a far acquistare ad ogni lavoratrice maggior consapevolezza delle proprie capacità e potenzialità personali, affinché ognuna potesse riorganizzare il proprio progetto di vita in modo a sé conveniente. L’obiettivo era di utilizzare positivamente un momento di crisi e di cambiamento, provocato dalla mobilità interna ed esterna che le aziende avevano messo in atto per esubero di personale.
All’interno del personale in mobilità le operaie costituivano la grande maggioranza ed erano le piú colpite, perché quasi tutte, essendo collocate a livelli piú bassi degli uomini, avevano qualifiche sempre meno richieste dal mercato.
Che cosa pensano e sentono queste donne, assai poco gratificate dal contesto sociale, l’abbiamo saputo attraverso molte risposte, osservazioni, emozioni, sospiri e lacrime, alcune volte sussurrando le parole o smorzando il tono, ma sempre nella direzione di ciò che ritenevano vero e valutavano giusto.
In una delle aziende dove lo sfruttamento era al limite della sopportazione, le partecipanti, nonostante la sofferenza, la rabbia e a volte anche la resa per troppa stanchezza, quando si sentirono piú forti perché protette dalla privatezza del gruppo e gratificate per avere contribuito alla riflessione su se stesse e sul contesto, cominciarono col dire: “sono contenta di essere qui”, “ho capito meglio chi sono, Prima non mi conoscevo”, “abbiamo tanto sofferto, che almeno potessimo servire a qualcosa di buono”, “sono contenta di aver capito che fra noi donne abbiamo tante cose in comune”, “stare insieme aiuta noi donne ma anche gli altri, se volessero ascoltare”, “sono contenta perché qui abbiamo potuto dire la verità. La menzogna ci uccide”. E poi: “siamo qui per fare, anche noi abbiamo delle idee”, “non buttiamo via quello che è stato fatto!”.
Dire la verità
In un’azienda è stata eclatante la capacità delle operaie di individuare i valori dell’organizzazione. Hanno saputo evidenziare tutti i punti forti che possono far grande e funzionale un sistema di produzione, gli stessi punti indicati da illustri esperti internazionali di management e organizzazione – ad esempio Edvin Deming, Chester Bernard, Rosabeth Moss Kanter, Chris Argjris, Luciano Gallino – che hanno ampiamente scritto sul modo di poter far sopravvivere un’unità produttiva nella complessità sociale e commerciale odierna.
Confrontando i punti forti proposti dagli esperti e quelli dichiarati dalle operaie; possiamo schematizzare qualche esempio di correlazione:
Esperti
Al cliente vanno date risposte anticipatorie e di qualità (Deming).
Le risorse umane oggi sono considerate poten- ziali fonti di valore (MossKanter).
La qualità dei prodotto è correlata alla qualità del lavoro e questa è tantopiú alta quanto piú ampio è lo spazio delle decisioni che il lavoratore assume in proprio e contribuisce personalmente a formulare (Gallino).
Il futuro dell’organizzazione sta nello sviluppo potenziale individuale di tutti I dipendenti secondo un modello partecipativo.(Argjris).
Lavoratrici
Bisogna contentare i clienti, non bidonarli.
Siamo numeri’ e, non persone, le macchine ricevono maggior rispetto.
Bisognerebbe lavorare con piú testa e piú qua lità. Sono costretta a fare del lavoro di bassa qualità perché qui quello che conta è la quantità.
Vorrei fare meglio, lavorare bene, dare piú contributo. Il senso di responsabilità vuol dire fare il lavoro bene.
Come spiegare una sintonìa cosí precisa fra l’interpretazione della realtà aziendale descritta dalle donne, che vivono in prima persona l’organizzazione stessa ma non hanno uso e familiarità con analisi teoriche, e le proposte degli esperti, che invece misurano i fenomeni attraverso sofisticatissimi sistemi astratti?
Un secondo interrogativo sta nel perché le considerazioni delle lavoratrici assumono immediatezza, verità e forza con la chiarezza dell’ovvio, solo quando queste donne vivono la condizione del privato, della fiducia di non essere giudicate. Perché dunque tanta forza nel descrivere ciò che può dare funzionalità alle cose, e tanta debolezza nel pretendere che ciò avvenga davvero?
Un codice femminile
Il dire delle donne mostra una propria logicità, ricchezza di intonazione morale, intuizioni, che fanno parte di un codice femminile. Nel caso di queste donne, il loro codice si è mosso su cinque contrapposizioni: l’appartenenza contro l’indifferenza, la cura contro lo spreco e l’abbandono, la gratitudine contro l’invidia e, non ultimo, il benessere contro la sofferenza. Questi atteggiamenti li troviamo in molti passi: quando parlano dei genitori, dei figli, dell’amicizia, dei colleghi, dell’azienda e della società in generale.
I valori della relazione sono sentiti fortemente, perché espressi con evidenza, attraverso parole e mimiche intensamente comunicative che marcano bisogni, desideri, sentimenti e volontà di fare; valori differenti dal codice maschile tutto ancorato sulla ragione, come dice Victor J. Seidler nel suo libro Riscoprire la mascolinità (Editori Riuniti 1992). Secondo la tradizione kantiana, riporta l’autore, solo la ragione è affidabile, tanto da negare i bisogni del proprio corpo e i propri desideri per concentrare le proprie energie su obiettivi individuati attraverso l’esercizio indipendente della ragione. Il codice femminile, viceversa, fa gran conto dei suggerimenti che provengono da un profondo senso morale. Invece di affidarsi al sistema dei diritti che, come dice Elisabeth Wolgast (La grammatica della giustizia, Editori Riuniti 1991), semplificando oltre misura il nostro ragionamento può portare a rimedi grotteschi, le donne si sentono responsabili di una giustizia distributiva sostenuta dalla compassione e dalla cura, e sono motivate dal riconoscimento della diversità dei bisogni. Un atteggiamento tanto evidente da far dire a Carol Gilligan (Con voce di donna, Feltrinelli 1987) che il metro della sofferenza con il quale le donne misurano la realtà crea e mantiene in vita la comunità.
Questo è il codice femminile che dà risposta al primo quesito, perché cosí forte nelle donne la sintonia con i bisogni della realtà e l’immediatezza delle risposte-soluzione.
Forza e debolezza
Per il secondo quesito – perché tanta forza di esprimere un proprio codice verso la costruttività, l’aiuto e la riparazione in sedi protette e private, e tanta debolezza nel sostenere il proprio pensiero in sedi pubbliche? – la risposta non mi fu di facile intuizione. Non riuscivo a vedere il rapporto fra l’essere positivo e forte delle donne e il senso che questa forza, tutta raggomitolata in se stessa, aveva. La risposta convincente me l’ha data Luisa Muraro, leggendo il suo libro L’ordine simbolico della madre (Editori Riuniti 1991). La Muraro mi offrì quel tassello che mancava per coniugare essere e senso, o meglio per capire perché oggi non si possono
ancora coniugare nell’agire di queste donne operaie nei confronti del cambiamento.
Dove sta dunque lo iato che non permette all’essere e al senso di coincidere e di mostrarsi insieme? “Abbiamo perso -dice Luisa Muraro – il legame fra il senso dell’essere e l’esperienza di relazione con la matrice della vita: l’avvento della legge del padre che si sovrappone alla positività dell’opera della madre, scinde la logica dall’essere ed è causa del perdere il senso dell’essere”. “Le opposizioni e analogie fra la vita naturale e culturale hanno la conseguenza di mettere fuori gioco quello che fanno di assoluto e non appropriabile le madri, a cominciare dal fatto che esse, oltre a fare ciò per cui l’anagrafe le chiama madri, di solito insegnano anche a parlare e parecchie altre cose che stanno a fondamento della civiltà umana”. Il bisogno simbolico della madre, che ha un luogo fortissimo nell’infanzia, viene automoderato, afferma ancora Luisa Muraro. L’automoderazione fa tacere desideri e paure, e l’autorità delle donne viene in tal modo insabbiata. Esse si sentono, come dicono le partecipanti, “una che non può”.
Queste donne operaie e anche una grande quantità di altre donne, non sanno che il loro forte codice morale proviene da quella madre della quale hanno conservato sí il codice, ma hanno perduto l’ordine simbolico, quell’ordine che ha fornito loro la cultura originaria che viene dopo il caos. Ecco dunque il motivo della spaccatura tra essere e senso.
Ora appare chiaro qual è la fonte culturale comune da cui esperti e operaie, cosí lontani fra loro, hanno attinto per arrivare alle medesime conclusioni. Queste radici comuni le donne le sentono, e hanno anche fatto capire che non desiderano che ci sia chi sta sotto e chi invece sta sopra, affermando che “se vogliamo affrontare la situazione, dobbiamo starle di fronte, non di sotto”.
Qualcuna di loro ha preso consapevolezza della forza del proprio codice e desidererebbe dargli voce pubblica. Anche gli uomini stanno cercando qualche cosa che hanno perduto da tempo. Forse è possibile che ci stiamo avviando verso il recupero di quell’autorità che universalmente la madre ha dato a tutto il genere umano.
Gabriella Garatti Villasanta (Milano)
Leggendo “Politiche femminili: il capitale le fa meglio” la prima cosa che ho pensato è che l’articolo dà per scontato che non siano state le donne della delegazione sindacale a richiedere l’autogoverno dell’orario, magari in cambio di un maggiore utilizzo degli impianti o una riduzione dei tempi di produzione. Le sindacaliste metalmeccanìche hanno da tempo deciso di intervenire sull’orario di lavoro con rivendicazioni in termini di tempi scelti, elasticità degli orari, job sharing (lavoro condiviso), e l’ultima piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale è stata caratterizzata da queste richieste. Certo il sindacato in quell’occasione non ha fatto leva sull’amore femminile per la libertà per raggiungere un buon accordo, se ha puntato sulle molestie sessuali.
Riflettendo insieme ad altre, mi sono accorta di come spesso, seguendo il normale modo di lavorare al sindacato, io sia arrivata a proporre alle lavoratrici scelte rivendicative prima ancora di chiedere loro cosa desiderassero. Mi affidavo piú agli studi sulle donne che non alla relazione politica con le dirette interessate. Spiegavo loro che cosa dovevano rivendicare trattandole da minorenni che non riconoscevano ciò di cui avevano bisogno. Nel tempo ho imparato ad avere fiducia nella capacità di mediazione con la realtà che le lavoratrici sanno esprimere, e che esprimono anche rifiutando le politiche femminili intese come tutela. Ciò che va pensato è che il cambiamento lo produce chi è presente costantemente in un luogo, senza bisogno di delegare a professioniste della rappresentanza il compito di realizzare i propri desideri. Questo non significa che debba sparire il sindacato e con esso le sindacaliste, ma che il loro lavoro deve cambiare. Non devono sostituirsi alle donne che lavorano in fabbrica ma aiutarle ad agire in prima persona, utilizzando spazi che già ci sono e restituendo senso ai comportamenti che le lavoratrici mettono in atto. C’è bisogno di pratiche di libertà.
Dopo dieci anni di assenza per attività sindacale sono ritomata a lavorare nell’azienda elettronica che avevo lasciato per seguire la mia passione politica (ma la mia passione non si è esaurita). Osservando e discutendo con alcune compagne di lavoro, ho potuto constatare dei cambiamenti introdotti dalle donne. Per esempio, che la maternità viene vissuta come una scelta da far convivere con il lavoro contrattando -individualmente orari particolari: senza cioè cercare ulteriori tutele, ma determinando delle situazioni che, se conosciute, possono essere utili per altre (come me, nella mia nuova matemità).
Perciò sono portata a pensare che, se il capitale per i suoi scopi fa leva sull’amore femminile per la libertà, anche le donne sanno trame profitto. Le resistenze si incontrano nella struttura dell’azienda, a causa della mentalità industriale e dei valori simbolici cui fa riferimento, come la competizione al posto della collaborazione. Le politiche che il capitale vuole affermare sono contraddittorie.
Gabriella Garatti Villasanta (Milano)
Marisa Guarnieri, Milano
Carissima Clara, vorrei ritornare sulla questione del lavoro di cura e dello Stato sociale.
Le mie valutazioni si basano sull’esperienza che da molti anni vivo nella progettazione e poi nella realizzazione della Casa di Accoglienza delle donne maltrattate di Milano. In questo lavoro il rapporto con i Servizi sociali, una delle forme in cui si è realizzato lo “Stato sociale” – è diventato costante. In un primo tempo vissuti soltanto come strutture ostili alle donne, in un secondo tempo come possibili risorse da utilizzare a vantaggio delle donne. In questo senso il ragionamento sui lavori sociali e in particolare sul lavoro di cura mi interessa. Il problema è valorizzare, ma cosa? E’ difficile valorizzare l’oggetto, cioè i lavori, è piú utile valorizzare il soggetto. Nel nostro caso il “servizio offerto” (l’accoglienza in caso di maltrattamento e violenza) è la conseguenza non della solidarietà con il bisogno o la sofferenza, ma del valore che si dà alle donne in difficoltà, anche nel massimo della loro difficoltà. Nella pratica quotidiana della Casa, il servizio segue o accompagna la relazione con ogni singola donna.
Questo “prendersi cura”, o meglio dare occasioni per potersi prendere cura di se stesse, entra nel “pubblico” nel momento in cui si inserisce nella ragnatela dei Servizi sociali e modifica regole, regolamenti, procedure. lo credo che non ci debbano essere corsie privilegiate in cui di volta in volta sono piú importanti gli anziani, i bambini, i tossicodipendenti, le donne maltrattate, ecc.
Ma i soldi, le strutture per consolidare queste esperienze di privatosociale? E’ stata lunga la trattativa che abbiamo condotto con l’Assessorato ai Servizi sociali per finanziare attività che sono sicuramente “servizi di vantaggio sociale”: il Centro di Accoglienza e la Casa segreta di ospitalità. Le fasi della trattativa hanno seguito canali “normali”, cioè non con la mediazione di Commissioni pari opportunità o del Centro Azione Milano Donne, ma con il sostegno politico di molte donne, anche nelle istituzioni. Era evidentissimo l’imbarazzo e la difficoltà dei funzionari a discutere a partire dai soggetti e non dai bisogni codificati. 1 risultati sono stati buoni (anche se migliorabili dal punto di vista economico) e hanno creato un precedente utile. Nel momento in cui si definiscono accordi, convenzioni, delibere, si determinano conseguenze economiche e normative che già modificano le regole del settore in cui si opera. Ciò che abbiamo realizzato acquista valore per tutti.
Da questa esperienza io traggo gli elementi per giudicare le proposte di legge nazionali o regionali su questioni che riguardano specificamente problemi delle donne. Legiferare sul corpo delle donne, sia che si tratti di aborto o di violenza, si è dimostrato simbolicamente pericoloso. E’ invece possibile trovare forme e modi di finanziamento che utilizzino quanto di generale esiste nel settore che ci interessa e lo finalizzino al vantaggio delle donne e dei loro progetti.
Marisa Guarnieri, Milano
Lele Galbiati Barlassina (Milano)
Clara Jourdan nell’articolo “Donne e aborigeni contro i burosauri” (Via Dogana n. 12) lancia una sfida allettantissima: la pratica dell’illegalità responsabile. Questa pratica consiste nell’agire per un bene comune che, invece di essere qualificato dalle regole, richiede autorità, responsabilità, obiettivi stabiliti dalla ragione.
Lavoro in un ente pubblico, cuore della burocrazia; credo di praticare questa politica e sono rimasto felicemente sorpreso di sapere che, in questa società, altre e altri come me hanno pensato di agire in questo modo: nell’illegalità responsabile.
Ma per chi volesse cimentarsi, attenzione: è necessario partire in sordina, perché in questi casi non sono i buoni propositi che contano, bensí le azioni, i risultati.
Sono consigliere comunale di Seveso e, in questa veste, mi è giunta una lettera di protesta di alcuni dipendenti del Comune che lamentano la scarsa manutenzione del loro ufficio. La loro lettera controfirmata ere allegata di foto con: lampadina bruciata, baffi sul muro soprastante i termosifoni, ecc.
Appena l’ho letta mi sono chiesto: ma perché queste persone non si comprano un pennello e una lampadina (magari spendendo il proprio denaro) e migliorano da subito le loro condizioni di lavoro facendo in prima persona quello che sanno fare? Chi di noi non ha mai verniciato una finestra, i muri di casa? Perché non fare nel “pubblico” quello che regolarmente facciamo nel “privato”?
Ci sono persone che non conoscono la pratica dell’illegalità responsabile che comincia anche dalle piccole cose che muovono le cose piú grandi: basta che ciascuno di noi cominci da dove può. Buona fortuna.
Lele Galbiati Barlassina (Milano)
Luisa Muraro
Il giorno 19 giugno di quest’anno (1993 n.d.r.) la giornalista Antonella Baccaro ha conquistato la prima pagina del Corriere della sera con la notizia di un accordo sindacato-azienda che interessa la Zanussi (elettrodomestici) di Susegana (Treviso). Fatto quanto mai sorprendente, considerando che l’accordo riguarda poche centinaia di persone appartenenti ad una categoria umana, gli operai, che per fare notizia devono seppellirsi vivi o darsi in pasto ai leoni e cose del genere. C’è una spiegazione? Sì, se guardiamo i titoli della notizia: ALLA ZANUSSI AUTOGOVERNO FEMMINILE E NUMERO VERDE CONTRO LE MOLESTIE SESSUALI. RIVOLUZIONE IN FABBRICA, LA DONNA SI SCEGLIE L’ORARIO. La prima cosa evidente è che si tratta non di operai ma di operaie, cioè di donne. In effetti, alla Zanussi di Susegana le donne sono in stragrande maggioranza, l’ottantacinque per cento. Si tratta di donne e di orario di lavoro, che diventa “flessibile”. La parola è importante: la “flessibilità del mercato del lavoro” è “al primo posto”, ha detto Ciampi, il nostro capo del governo, commentando le decisioni del Consiglio europeo di Copenaghen per superare la crisi. Dunque, orario di lavoro flessibile. E autogestito: si tratta cioè di donne e di autonomia femminile. In pratica, funziona così: ogni unità lavorativa, composta da tre persone, deve assicurare diciotto ore di lavoro al giorno, che le tre si suddividono tra loro come credono meglio. La giornalista spiega il concetto in maniera semplice e graziosa, pare di leggere la vispa Teresa: “Tre donne (così inizia l’articolo) davanti un frigorifero. Potrebbero programmare una dieta, invece inventano il loro orario di lavoro. Marina deve andare dal parrucchiere? Allora entra a mezzogiorno. Enza deve accompagnare il bambino in piscina? Ha il pomeriggio libero. Rita invece vuole mettere da parte un po’ di denaro: allora farà due turni”. Una favola, è il commento della vispa Teresa (si fa per dire: in realtà è un’abile giornalista). “E le novità non finiscono qui” aggiunge con entusiasmo crescente, e cita le parole di un dirigente Zanussi: “Nella nostra fabbrica vogliamo sperimentare un autogoverno femminile al cento per cento, perciò faremo in modo che tutti i capisquadra siano dorme”. E gli uomini? domanda la vispa Teresa. “Per una volta staranno a guardare”, risponde il dirigente che ha nome, guarda caso, Maurizio Castro. Fine dell’articolo. Maurizio Castro, occorre sapere, è il direttore delle relazioni industriali, altra parola chiave. Ciampi, commentando Copenaghen, si è soffermato in maniera significativa su questo punto: “pensate quale sarebbe l’effetto, in termini di credibilità e di fiducia per l’Italia sul piano internazionale, se questo nostro Paese in difficoltà fosse il primo a proporre una soluzione accettabile al problema che angoscia tutti: la definizione di un nuovo modello di relazioni industriali” (Corriere della sera, 23 giugno). Adesso abbiamo tutti i pezzi del puzzle: Ciampi, l’Italia, l’Europa, la competizione economica, la Zanussi, il responsabile delle relazioni industriali, gli operai che in realtà sono operaie. E, non dimentichiamo, la giornalista che conquista la prima pagina con un articolo scritto nel tipico linguaggio dei rotocalchi femminili. Cosa risulta? Risulta che il capitale fa politica femminile e che sa farla in grande. Per i suoi scopi, certo, che molti giudicano tutt’altro che grandi. E’ il profitto, sappiamo. Però dovremmo anche sapere, come insegna Simone Weil, che, diversamente dall’antico detto, sono i mezzi che giustificano il fine. E il mezzo, nel caso in questione, è veramente grande: è l’amore femminile della libertà. Strumentalizzato, fuorviato, ingannato? Probabilmente sì, però almeno tenuto presente, chiamato in causa a proprio rischio e pericolo. Rischio e pericolo che, mi dispiace dire, non sono grandi per il capitale in un contesto come quello attuale di politiche femminili modeste, automoderate, decisamente contrarie ad ogni ipotesi di grandezza femminile. Un segno di questa modestia viene dalle sindacaliste che, sul tavolo delle trattative che cosa hanno portato? una richiesta di tutela aziendale delle lavoratrici dalle molestie sessuali dei lavoratori. L’azienda ha acconsentito: la Zanussi di Susegana ha infatti attivato una linea telefonica per la denuncia delle suddette molestie. Cosa ridicola: non sono capaci, quell’ottantacinque per cento di donne, di tenere al suo posto il quindici per cento maschile? Se non sono minoranza, cosa sono: minorenni, minorate? Ma così vuole la politica femminile dei sindacato, in linea con la tradizione della sinistra che ha sempre interpretato la differenza femminile in termini di bisogno e di tutela. Il capitale, invece, per i suoi scopi, oggi fa leva sull’amore femminile della libertà. Non è difficile prevedere chi vincerà.
Maria Marangelli, della formazione Fiom Lombardia
Dalla pratica del movimento delle donne e dalla nostra abbiamo imparato che riusciamo a trasmettere alle altre la libertà che siamo in grado di produrre per noi.
La nostra e una storia di presa di coscienza di sé, di presa di parola in prima persona per
produrre forza femminile, per produrre rapporti di forza a noi favorevoli nel conflitto tra i sessi.
E’ solo così ne riusciamo a risparmiare le energie che altrimenti ci assorbirebbe il permanere nei meccanismi imitativi o di adattamento alle regole degli uomini. E’ la nostra storia sindacale. In fabbrica la contrattazione dipende dalla forza che si riesce a mettere in campo, dalla coscienza di sé, del proprio lavoro, dei propri desideri. Sono queste le qualità che vengono riconosciute quando si eleggono le delegate e i delegati in fabbrica. La contrattazione esiste – spesso non la sappiamo vedere – anche in assenza delle strutture sindacali. Secondo le informazioni, le sensazioni personali il/la sindacalista può pensare che non esistono più margini di trattativa. Poi si va in assemblea e la gente rifiuta l’ipotesi di accordo; si pensa che siano matti e poi, guarda caso, tornando a trattare con la direzione aziendale, capita di riuscire a spostare a favore dei lavoratori la mediazione ultima.
Nel guardare alla crisi di rappresentanza, il vantaggio di cui disponiamo consiste proprio nella critica che le donne hanno prodotto della rappresentanza e nella accresciuta libertà femminile (nonostante la scarsa presenza di donne nei luoghi della rappresentanza politica e sindacale).
L’accordo del 31 luglio fra sindacati e governo, è stato criticato diffusamente da tutti nel merito e nel metodo. Eppure il Congresso della Cgil aveva iscritto nell’ambito dello Statuto regole che avrebbero dovuto metterci al riparo da quanto invece poi è avvenuto.
All’indomani del 31 luglio, un sindacalista disse: “Le regole ci sono, ci mancano solo i caschi blu a farle rispettare”. Lo stesso sindacalista, dopo qualche giorno, affermava: “Occorrono nuove regole democratiche che tutelino i rappresentati dai loro rappresentanti”. Un doppio paradosso, detto da lui che è un rappresentante. In realtà, non stava parlando di sé. Rivolgeva le proprie critiche alle segreterie nazionali, ma nel contempo sottolineava i rischi impliciti nel sistema della rappresentanza. Sono rischi legati all’esercizio del potere derivante dal “trattare in nome e per conto di”.
Le segreterie nazionali trattano e firmano accordi senza che lavoratori e lavoratrici ne conoscano, né quindi ne condividano, il merito.
Piú si opera la semplificazione di identificare il sindacato con il sistema della rappresentanza sindacale, piú aumentano i ri schi di allontanare dalla gente la possibilità di decidere di sé. La stessa confusione deriva dal ridurre la politica alla rappresentanza politica. E’ un’idea riduttiva se non distruttiva della politica.
Il rischio implicito nella rappresentanza è di sostituirsi ai soggetti titolari della contrattazione.
E’ quindi necessario non solo chiedersi come eventi tipo 31 luglio si possano evitare in futuro, ma anche soprattutto perché siamo diventati un’organizzazione in cui si fa capo a pochi che decidono sulle condizioni di vita di molti. A questo si trova risposta indagando la pratica, la propria pratica innanzitutto, piú che le regole. E’ nell’ambito della pratica che si produce anche la capacità e la forza di attivare certe regole (ricordo, per esempio, quelle dello Statuto della Cgil).
Richiedere al parlamento che faccia una legge sulla rappresentanza e sulla democrazia per restituire il voto a lavoratori e lavoratrici, forse è necessario ma sancisce la debolezza del movimento sindacale nel produrre mediazioni per sé e pratiche tese a limitare abusi nell’esercizio del potere insito nella politica rappresentativa. Questi problemi rimangono oltre la legge o l’abolizione dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori.
Il problema non è l’esclusione o l’inclusione dei soggetti nel sistema della rappresentanza, ma quale pratica sindacale favorisca uno sviluppo del fare sindacato in prima persona perché non siano pochi dirigenti sindacali a decidere sui molti. E’ qui che si gioca anche la produzione di forza simbolica della classe operaia e lavoratrice nella società.
Piera Moretti
Questo testo è la versione abbreviata di un intervento presentato a un seminario sul lavoro – “La vi ta attiva”, Mestre, marzo 1993 organizzato dall’associazione ione politica La rete della differenza.
Di professione faccio la domestica. In passato ho avuto un atteggiamento negativo, reattivo di fronte a questo lavoro, oggi è per me una cura, un amore verso il mio genere. Nelle case in cui lavoro offro una presenza positiva per favorire i legami tra donne (tra zie e nipoti, tra madri e figlie e nonne), legami in cui io c’entro indirettamente, senza eccessivo coinvolgimento emotivo, affettivo. Il mio luogo di lavoro è un luogo privato, una casa, una famiglia, i miei rapporti sono con persone che vivono una dimensione di vita intima. Ho sviluppato un atteggiamento distaccato, una capacità di capire il momento in cui parlare, quello in cui tacere. Silenzio e delicatezza sono condizioni del mio lavoro. Però se un padre si intromette violentemente tra le figlie, allora decido di íntervenire.
Attraverso il mio lavoro ho cambiato continuamente situazione, sono venuta a contatto con tradizioni, modi di vita, culture diverse, stili, dialetti diversi. E’ stato un attraversamento, un percorso di conoscenza che ha allargato il mio orizzonte mentale. Donne diverse mi hanno insegnato a lavorare, ad entrare in rapporto con le cose, la realtà. Certamente l’origine di questa genealogia sono le suore con le quali ho vissuto dai 3 ai 14 anni. 1 primi criteri da me utilizzati provengono da una comunità religiosa femminile. Ho imparato a cucire, stirare, fare attenzione, restare in silenzio, curare i fiori, gli animali ‘ ricamare, cantare, recitare, rendere allegre le altre.
Di mia madre, che era stata costretta ad affidarmi piccolissima alle suore perché non poteva provvedere al mio mantenimento, ricordo la capacità di ricavare da uno straccio un fazzoletto da naso, sul quale poi faceva gli orli a mano. Mia madre non buttava via niente, riutilizzava ogni cosa, quel poco che aveva lo sapeva conservare a lungo.
Questo criterio, di recuperare ciò che al momento sembra non servire, è valido anche in politica e lo interpreto cosí: non vanno buttate via energie preziose, ma è bene imparare a riutilizzare ciò che è a nostra disposizione, reinvestire i guadagni, fare leva sulle risorse reali.
Oltre al saper mettere cose da parte c’è anche l’arte di far durare a lungo le cose. Donne per le quali ho lavorato in passato avevano quest’arte, anche se erano economicamente più favorite di me. Essa non è infatti legata alla povertà ma al forte senso della possibilità, alla capacità di previsione. E’ un risparmio per il futuro, un tener aperto il futuro. Anche nella politica va bene questo criterio.
Attualmente ho scelto di lavorare per una signora che ha fatto della conduzione della casa una sua preziosità. 1 suoi criteri di conduzione coincidono con i miei, e ho potuto far affiorare in me un desiderio di ricerca sulla preziosità del lavoro di cura. La civiltà della casa sorge dal saper fare i conti con il tempo a propria disposizione. Guadagnare tempo, risparmiare energia e soldi è un criterio fondamentale del lavoro di cura. Governare, in fondo, vuol dire capire come mettere insieme cose diverse, come farle stare dentro un’armonia, un orizzonte più grande.
Il mio lavoro è considerato servile. Ma ho servito donne ricche che servili lo erano veramente. Esse mi chiedevano di servire i loro mariti, i loro figli. Sentivo l’impossibilità di ricevere da queste donne rassegnate quel l’autorizzazione a stare al mondo che sempre ho chiesto alle mie simili. Voglio però ricordare una donna per la quale ho lavorato, che ha fatto nei miei confronti un gesto di valorizzazione. Invece che abiti smessi e oggetti vecchi, mi regalava libri e oro. Questo gesto mi ha fatto fare uno scatto, mi ha aperto la mente. Avevo 23 anni, e dopo avere ricevuto questa valorizzazione ho pensato in maniera diversa. Da lí inizia il mio percorso verso la preziosità.
Paola Piva consigliera comunale di Roma
L’inchiesta di Roberta Tatafiore (Via Dogana n. 3 e 4) racconta di donne che sperimentano il lavoro di cura non come ripiegamento su compiti tanto necessari quanto modesti, bensí come scoperta di sé e un modo per dare spessore ai rapporti familiari. “Un’opera ben ,fatta”, “un castello di solidarietà”, energie ritrovate che permettono allefiglie di accudire il padre negli ultimi anni di vita. Tra le intervistate circola un clima di euforia che proviene dalle difficoltà superate e vinte. Lo può ben capire qualunque donna abbia accolto in casa un’anziana o anziano senza autonomia o un bambino difficile, chi sappia accompagnare allafine un amico o un’amica morente o cerchi difare questo senza sconvolgere altri equilibri, senza rinunciare a se stessa. Oggi sono tante le donne che possono trarre vanto di queste imprese e anche di altre piú limitate, quotidiane, per le quali – scherzando – a volte diciamo: “Il Comune dovrebbe passarmi uno stipendio per il lavoro sociale gratuito chefaccio giornalmente”. Ma questo è il punto: come dare valore al lavoro di cura? Chi può riconoscerlo? Come premiarlo?
Ho davanti agli occhi due situazioni che ancora non comunicano, ma che in futuro potrebbero convergere.
Prima situazione: la nostra generazione di donne e di uomini non può permettersi di ignorare il prezzo del lavoro di cura. Per la prima volta nella storia sta diventando a tutti evidente che chi lo fa – non importa se informa gratuita o retribuita – assume una veste preziosa. Chi offre aiuto alle nostrefragilità, chifa giocare il nostro bambino, chi veglia di notte i nostri vecchi, chi ci solleva dai pesanti sensi di colpa per le inadempienze inevitabili, merita tutta la nostra consìderazione. Certo non tutti i lavori di cura sono ben pagati ma poti-ebbero diventarlo, a fronte di una domanda di mercato sicuramente in crescita.
Seconda situazione le donne che lavorano professionalmente nei servizi alle persone (sanità, servizi sociali, servizi psico-educativi, ecc.) stanno scoprendo, solo di recente, le attività di (*ara come un contenuto pregiato. Per almeno vent’anni (questo è l’arco storico in cui si sono diffusi in Italia questi sei-vizi) le “opera trici sociali” hanno cercato di valorizzarsi inseguendo un modello maschile: appropriandosi di tecnologie terapeutiche piú sofisticate, adottando uno stile di lavoro piú neutro (chi ha inventato il termine “utente” per distinguerlo dal “paziente” dei medici, evitando in ogni caso di personalizzarlo?), assumendo ruoli gestionali (la programmazione, il coordinamento, la verifica, la supervisione). Tutti modi per stare dietro le quinte, distanziare, sopprimere il rapporto di aiuto minuto e quotidiano che sembrava deprimente, banale, senza valore.
Oggi le cose stanno cambiando. Ci sono stati degli incontri, uno l’ho organizzato io stessa con il Labos (un istituto di ricerca e formazione per le politiche sociali) a Roma nel novembre scorso, sono stati scritti dei libri (cfr. C. Capello, M.T. Fenoglio, Perché mai mi curo di te?, Rosenberg & Sellier, Torino, 1992) in cui alcune donne si sono dette orgogliose di svolgere proprio quel lavoro che la cultura professionale dominante tendeva a sottovalutare.
Una psichiatra di Torino, Clara Battaglino, che sta seguendo una .cooperativa di assistenza quotidiana ai malati dimessi dagli ospedali psichiatrici, si è accorta come la “nuova ” psichiatria si sia dimenticata -fin dalle impostazioni della riforma – di prevedere tanti lavori, piccoli ma indispensabili, senza i quali un malato non può vivere fuori dalle mura manicomiali.
Una sociologa di Milano, Grazia Colombo, riflettendo con le donne che in ospedale lavorano nei reparti Il nascita”, ha visto i pregi di un aiuto passivo, empatico, “dolce”, offerto dall’ostetrica quando riesce a non farsi condizionare dal prqfessionismo spinto del ginecologo.
Sono piccoli segnali di crescita verso un’autonomia culturale tanto piú apprezzabile se si tiene conto che il lavoro professionale di cura è stato a lungo colonizzato da paradigmi maschili. Da un lato, dunque, può aumentare il “prezzo” socialmente riconosciuto (e, forse, retribuito) del lavoro di aiuto, dall’altro le donne che lo svolgono (come professioniste o volontarie) cominciano a valutarlo.
Per molto tempo ho pensato che la vera ricompensa è quella che ci riconosciamo da sole; ora lo penso un po’ meno. Ci vuole un agire politico che faciliti l’apprendimento collettivo. Mi colpisce il fatto che cambiamo prospettiva sul lavoro di cura solo quando ci capita un evento personale che ce lo rende prezioso. Solo in questo caso esso perde i connotati di un prodotto Il naturale e noi siamo in grado di dargli senso. Prima di quel momento (fatidico, illuminante), ne parliamo in modo inconsapevole. Apprendimento collettivo vuol dire sapere la cosa anche quando non la sisperimenta in proprio. Solo un vero cambiamento culturale può trasformare anche l’agire istituzionale, le politiche pubbliche dei servizi, i modelli amministrativi. E questo è un altro passo in piú, complicato ma essenziale.
Luisa Muraro nella sede della Mag(Mutua per l’autogestione) di Verona, presenti Loredana Aldegheri presidente della Mag, Maria Teresa Giacomazzi della Mag, Idria Zappulla coordinatrice e presidente dell’associazione Davas (servizi), Giovanna Zago coordinatrice di una coop. Cpl (servizi sul disagio), Antonella Bianchi della Mag, Paola Tosi della Mag, Grazia Marchi tirocinante alla Mag, Antonietta Ciancia presidente coop.”Le tre ghinee” (assistenza anziani).
Del comunismo io voglio salvare che il lavoro delle persone abbia un riconoscimento, una dignità, e che sia fonte di libertà. – Sí, privilegiare il mondo del lavoro. Non mi sta bene l’impostazione economica di questa società. Quello che si vedeva nel comunismo era una proposta alternativa. Allora, cerchiamo di capire che cosa si può recuperare, perché sono molte le cose che devono essere recuperate. – Per esempio? Una qualità della vita diversa. – Per me, non dovrebbe perdersi almeno la speranza. Per me il comunismo è stato un sogno. – Io voglio salvare la centralità dell’uomo (e della donna) e l’internazionalità. E anche la giustizia sociale: non è casuale che faccio il lavoro che faccio. Qui mescolo probabilmente le mie esperienze attoliche e comuniste. – Io, la libertà. Anche il Vangelo ha alcuni valori – solidarietà, uguaglianza – che si avvicinano a quelli del comunismo, ma manca la libertà di espressione. – Un cambiamento soprattutto per gli ultimi. E’ un concetto cristiano ma lo ho sempre sentito questa opzione nel comunismo: stare da una parte e non in tutte le classi sociali. Ma, soprattutto, non vorrei che si perdesse, perché io non l’ho persa e come me molte, l’attesa di cambiamento che si traduce nelle azioni, questo senso delle cose che faccio tutti i giorni in funzione di un qualcosa di nuovo. – Cominciamo da subito a renderli centrali, questi ultimi! Questo non possiamo lasciar perdere del comunismo: il tentativo di realizzare qui e ora delle modalità di condurre l’economia, d’impostare l’ordine sociale, dove sia consentito a tutti (e a tutte) di esprimersi nel pieno di tutte le potenzialità. – Chiaramente, molte cose che abbiamo visto del comunismo, dovevano essere corrette, ma bisognava lavorare con quell’idea. – Perché usi il passato? – Adesso mi pare che tutto sia omologato.
Il comunismo-ricordo
Avevo quattordici anni, mio padre era un operaio comunista iscritto alla Cgil in un paesino dove la Dc aveva l’80% dei voti, c’era in televisione un dibattito su problemi del lavoro e qualcuno, forse mia madre, aveva fatto dell’antisindacalismo; allora mio padre si è alzato in piedi e ha gridato: “ma voi non capite niente, senza sindacalisti comunisti, noi oggi si lavorerebbe ancora quattordici ore al giorno”. Ricordo che avevo un nodo alla gola, perché si trattava di dare valore al lavoro e questo me lo sono sentito dentro sempre. La mia scelta della cooperazione, credo, è il mio modo di portare avanti, in forma rielaborata, attuale, quelle radici. – Anche nel mio caso il comunismo è stata una scoperta fatta nell’adolescenza, con la grande presunzione che si ha a quell’età di essere onnipotenti e di cambiare il mondo. Ma la convinzione che io in prima persona, nelle cose che faccio, posso cambiare qualcosa, mi è rimasta. Questo si contrappone all’ideologia cattolica, per la quale è importante l’aldilà: beati i poveri, beati gli ultimi, perché avranno la vita eterna, dato che non possono avere quella terrena. Invece il comunismo era una
possibilità concreta di gettare i semi per cambiare qua su questa terra. – Anche tu parli al assato. – A questo io non ho rinunciato: se tutti i giorni, con altre e altri, rifletto su quello che succede e
cerco di cambiarlo, qualcosa cambierà. – Io da piccola del comunismo avevo l’idea che avevano i preti, perché vengo da una famiglia borghese cattolica del Sud. Poi mi sono documentata, ho letto e ho sempre sognato: non potevo avere appartenenze politiche esplicite, perché vivevo in una città di provincia. Quando mi sono liberata da queste pastoie, il comunismo non c’era piú. Sono molto sgomenta, perché, secondo me, il comunismo non è mai stato attuato. – Io, invece, vengo da un’esperienza cattolica attiva, anche nel sociale. Nel ’68 insegnavo la dottrina (cattolica) agli adolescenti e mi dicevo: loro sono in piazza
per la libertà, io sono qua, a cosa serve? La scelta comunista l’ho fatta poco dopo, insieme ad altri; eravamo un gruppo per la pace che lavorava all’interno della comunità parrocchiale. – Avevo una nonna che secondo me era comunista: andava a messa come tutti ma votava il sindaco comunista. Era un marchio per la nostra famiglia; quando il sacerdote diceva che chi ha questi ideali va all’inferno, io pensavo “povera la mia nonna”. A un certo punto ho deciso di non andare più in chiesa. Essere libera di ragionare con la mia testa mi sembrava una cosa giusta. Al comunismo sono arrivata per essermi trovata bene in un gruppo. Avevamo letto il libro di Marx. Siccome lavoravo in fabbrica, a me sembrava una cosa bellissima che ci fosse qualcuno che prendesse le parti di chi lavora in fabbrica, di chi è sfruttato. E’ stato il primo passo che ho fatto.
Adesso
– Non ho mai sentito il senso di perdita per il crollo dei paesi e dei partiti comunisti, perché nel mio lavoro lo ho il luogo dove quell’idea di comunismo esiste ancora, dove io la incarno. Anche quando siamo passate dall’autogestione anarcoide a quella di adesso, dove si riconoscono i ruoli, le responsabilità e le autorità, sento che è una rielaborazione, non una rottura. Cioè, il nostro lavoro è proprio il modo nel quale esprimersi il piú compiutamente possibile, è creare le condizioni perché questo sia possibile. Non dico la cooperazione in genere, ma questa cooperazione. – Alle donne che lavorano nella nostra associazione, cosí come alle persone che vengono a contatto con noi, cerchiamo di dare una qualità diversa della vita, diversa rispetto all’edonismo e al rampantismo di questa società, anche se devo dire che, in fondo, sono piena di contraddizioni per la mia appartenenza borghese. – Per esempio? – Per esempio, mi piacciono cose belle che ritengo superflue, come i gioielli, e cerco di averle. – I valori del comunismo io li trovo tutti nell’autogestione della cooperativa, fatta da un gruppo, alla pari. – L’uguaglianza a me ha creato problemi nella mia posizione di presidente della cooperativa: ho delle responsabilità diverse dalle mie colleghe di lavoro, non siamo alla pari, non dico come persone ma in quanto ruolo. – Io non vivo male il mio ruolo di presidente, anzi. Sento che mi sono forgiata, nella cooperativa, un metodo di lavoro e di assunzione di responsabilità per cui vivo bene la dimensione dell’ascolto e della tolleranza, che sento fondanti l’ispirazione comunista: saper vedere in ogni cosa, in ogni espressione di una persona, di una realtà, di un gruppo, di un progetto, qualcosa di significativo, e saperlo cogliere con il mio ruolo, farlo emergere. E quindi metterci del mio, della autorevolezza mia, dell’autorità mia, perché prenda corpo.
E la politica delle donne?
– Sento un’assonanza tra comunismo e femminismo dell’emancipazione, nel dire: togliamo gli ostacoli sociali, economici per avere piú opportunità. Mentre, il discorso della differenza, è un’evoluzione piú mia, piú intima, assieme ad altre, e faccio fatica a legare la differenza al comunismo, se non come un terreno favorevole. C’è somiglianza, invece, con quello che io vorrei salvare del comunismo, nel senso che anche dalla politica delle donne mi aspetto che qui e ora si realizzino cose che mi consentano di esprimermi totalmente. Non c’è unità in me, mi sento come su due livelli diversi, che a volte si confliggono: uno più profondo, piú alle radici, l’altro che sta piú sull’esterno. – Solo una certa politica delle donne – per esempio, questa politica – può salvare qualcosa che va salvato del comunismo. Il di piú di questa politica femminile (la Libreria delle donne, in relazione con noi della Mag e le cooperative, ecc.) è capace di non lasciare che tutto precipiti nelle tombe e nelle catacombe, ma di rimettere in circolo quell’esperienza. La scissione che dici di avere, la ricomponiamo noi, come soggetto e come relazione. – Il pensiero della differenza ha aperto una finestra nuova nella mia vita e lo ìdentifico fortemente con quella voglia di cambiare la vita su questa terra, che dicevo prima. Ma non sento altro rapporto tra comunismo e pensiero della differenza. Questo non è apparmaggio dei comunismo, anzi! La rigidità di un’ideologia ha molto ostacolato il pensiero della differenza, e altri: le innovazioni a livello di pensiero e di prassì, non ho mai sentito che nascano all’intemo di organizzazioni politiche.
Rinalda Carati presso la Filtea (Federazione italiana lavoratrici tessili e abbigliamento), Camera del lavoro di Brescia, presenti operaie, delegate e sindacaliste.
ROSA: L’interrogativo mi sembra importantissimo, e lo sto pensando dentro di me. A casa mia di comunismo si parlava. Era qualcosa di molto importante, ma molto lontano. A volte mio padre parlava con i suoi amici, e io ascoltavo magari dall’altra stanza. Al comunismo mi sono avvicinata quando sono entrata in fabbrica. Era il ’67’68, allora si discuteva di politica. Abbiamo formato un gruppo giovanile di base, come punto di riferimento avevamo Lotta Continua. Andavamo giù in cantina (ride), ma era bello trovarsi. Quei momenti mi hanno fatto crescere, però non riuscivo a trasmettere le cose capite, in fabbrica. Sentivo questo distacco tra quello che noi dicevamo, perché piú che il fare era il dire, con la mia vita dentro la fabbrica. In questo mi ha aiutato invece il sindacato che parte dalla realtà della fabbrica e ti dà la possibilità di riunirti lí. Ma a me è servito sapere che in fabbrica venivo sfruttata. Il capitalismo non può essere una società che rispetta la persona, dove puoi far valere la tua dignità, anche se molti, anche del mio antico gruppo, oggi considerano il capitalismo come un fatto quasi naturale. Allora lo dico: il comunismo è un’idea, è una teoria di come si vorrebbe il rapporto tra le persone. Non so individuare però il comunismo come una pratica politica: ho avuto difficoltà a discutere con i lavoratori sui concetti che avevo acquisito, eppure non ero mica solo io sfruttata in fabbrica. Per me era diventato un fatto di coscienza sapere perché avveniva lo sfruttamento, e per gli altri no? Si può dire che c’è una pratica quando accade di comunicare, di trasmettere: questo non c’è stato. Le cose sono maturate sul piano concreto della fabbrica, non sull’idea. Quando io parlavo con i lavoratori di Marx, di che cos’è il plusvalore, mi guardavano e pensavano: cosa ci viene a raccontare questa. La cosa che mi ha fatto riflettere molto è che in quegli anni si voleva far credere che non c’era differenza tra uomini e donne. Allora penso che è chiaro perché poi, nella
fabbrica, non riuscivo a cogliere le cose. Non solo perché erano tutte donne in fabbrica, ma quello che io acquisivo nel gruppo era solo ciò che mi trasmettevano, ma io non trasmettevo niente di me. Sapevo che stavo male ma non sapevo perché. Mi ha fatto crescere il tenere rapporti con le compagne. E’ questo che mi ha fatto mantenere viva la convinzione che questo non è l’unico mondo possibile. Quando è caduto’il muro di Berlino, ed è successo tutto quel che è successo in Russia e il Pci ha deciso di trasformarsi, si può dire che tutto mi sia crollato addosso: non perché poi non sia più riuscita a tiranni su, ma è stata una cosa molto sbagliata. lo criticavo la società come è concepita in Russia, ma non era tutta, negativa, come del resto non riesco a dire che è tutto negativo, neanche il capitalismo.
ORIELLA: Mio padre era profondamente anticomunista, i comunisti erano i diavoli. Mio padre era anche quello che faceva differenze tra me e mio fratello, allora io sin da piccola ho sempre detto che da grande avrei fatto la comunista. Mia madre ha dato sostanza a questo, perché in alcuni messaggi molto elementari mi ha aperto una possibilità diversa: per esempio quando andavo a scuola la maestra diceva che ero molto brava a scrivere, ma poi il voto migliore lo dava alla figlia del dottore, del sindaco, del dentista, e mia madre mi diceva: vedi, non è giusto, in questo mondo uno non vale per quello che è e che fa, ma per i soldi che ha. lo non sono mai riuscita a entrare in un gruppo, Oggi ritenendomi comunista, penso che debba assolutamente perdersi l’idea che entrando in un gruppo si deve seguire la linea. Anche per me vale la cosa di essermi misurata concretamente all’interno della fabbrica: l’oggetto della discussione negli anni ’70 era il lavoro, come modificarlo concretamente, come stare meglio in fabbrica. Del comunismo non voglio pìú il pensare gli uomini e le donne divisi per classi, cioè il fatto di contare solo come massa, per cui il gesto individuale non ha valore, non conta nulla. Questo modo di pensare ha fatto disastri: anche oggi la lavoratrice in fabbrica mi dice: ma gli altri dove sono? ma il sindacato per me non fa nulla? Sbaglia: il concetto della delega parte da lí, dal mettere al centro questa idea di
massa, per cui tu conti se sei massa e il tuo gesto individuale non determina nulla. La mia maggior fatica nel lavoro che faccio è trasmettere che anche un gesto individuale concreto può determinare uno spostamento, una modifica e che comunque anche un percorso collettivo dipende dal gesto individuale.
MILENA: Anch’io come Oriella vengo da una famiglia anticomunista, molto religiosa: quindi il comunismo l’ho conosciuto molto tardi. Ho iniziato a fare la delegata in fabbrica, per questo bisogno di modificare qualcosa per me e per quelle come me: il discorso padrone/operaia doveva essere modificato, ognuno doveva avere una propria dignità. Questo è un desiderio che ho sentito sempre. Piano piano mi sono avvicinata, e per un certo periodo ho anche avuto la tessera del Pci, pensavo: condivido gli ideali e gli obiettivi. Poi invece mi sono sentita tirare dentro, c’era la richiesta di seguire la linea. Poi c’è stato il cambiamento di nome, e ho deciso di non fare piú nessuna tessera. Non ho condannato il cambiamento, ma quasi quasi mi sembrava che si lasciasse perdere la realtà, e quello per cui si era lottato fino a poco tempo prima. Adesso mi sento piú libera. La cosa che del comunismo mi ha sempre dato fast-idio è quell’idea di superiorità, di poca disponibilità verso chi è diverso da te, chi non ha la tua stessa idea. Vorrei piú umiltà nell’atteggiamento, ci deve essere un’apertura.
SONIA: Anch’io devo far riferimento alla famiglia, mio padre era della Federbraccianti, un capolega, iscritto alla Cgil. Sono entrata in fabbrica, e la prima cosa che mio padre mi ha detto è stata: se entri lí, guarda che lí c’è la Cgil, devi fare la tessera. Quindi io -ho fatto la tessera della Cgil, poi averla tenuta è stata una mia scelta ma all’inizio è stato cosí. La tessera del Pci, che era quasi d’obbligo, l’ho pagata qualche volta, poi a un certo momento ho deciso che non la pagavo piú: scelta precisa, perché non avevo scelto lo liberamente di pagarla. E non l’ho piú fatta: l’unica cosa in cui io mi ritrovavo in quel partito erano le feste dell’Unità, là c’era la gente, ci si vedeva, ci si parlava, ci si divertiva. Gli altri ambienti di ritrovo dei comunisti mi mettevano a disagio per
ché parlavano di cose che erano al di fuori dei miei problemi, oppure mi limitavo perché credevo di essere fuori io, e mi sentivo estranea. Invece mi sono sentita a mio agio nell’ambiente della fabbrica. Insieme alle lavoratrici ragionavo sui vari problemi e ci si sentiva di muoversi per migliorare le condizioni, vedevi lí le cose che eventualmente cambiavano. Credo che il disagio in sezione ci fosse perché non mi hanno aiutato a portare lí le cose che mi servivano per la fabbrica: quello non era un ambiente che portasse avanti le mie condizioni di fabbrica, e la mia vita era la fabbrica. Non era nient’altro. Anche la fase del cambio dei nome non mi ha appassionata per niente. Secondo me non era quello il problema.
ROSA: Mi è venuta in mente una cosa: quello che si è perso in questi anni non è- solo la critica al capitalismo: una volta la classe operaia nella società era al centro, aveva un peso. Quando sono andata a lavorare in fabbrica mi sentivo importante. Sentivo che significava qualcosa, questo adesso è sparito. 1 giovani, l’ultima cosa che vogliono fare è andare a lavorare in fabbrica, questo dipende dal fatto che si è persa la centralità, e quindi è come se non avesse valore. 1 piú dicono che gli spiacerebbe se i figli volessero andare in fabbrica, quindi c’è svalorizzazione anche agli occhi di chi ci vive.
MAFI: Quando sono entrata in fabbrica avevamo due delegate. Poi una si è dimessa e mi ha detto: tu sei piú brava, vai avanti tu. Tutte noi lavoratrici eravamo molto legate, c’era molta solidarietà. Poi sono andata in un’altra fabbrica, dove c’era un’organizzazione del lavoro molto rigida, ed è stato uno choc tremendo. Lo soffro ancora oggi. Prima pensavo che fosse il sindacato che doveva tutelarci poi ho capito che sono io che devo definire alcune cose, la realtà della fabbrica. Però mi è spiaciuto quando il Pci ha deciso di cambiare nome. Prima avevo la tessera, oggi non l’ho più. Il legame che sento con il comunismo, lo riconduco piú che altro a una idea di giustizia: la classe operaia nella società è quella che non conta niente, non conta niente neanche nella fabbrica, e c’è bisogno che anche questa gente abbia diritto di parola.
Lia Cigarini
C’è una politica della rappresentanza e c’è una politica della contrattazione. Fra loro non si escludono. Non possono escludersi, se non altro perché la contrattazione, nella politica come in tutte le relazioni umane, viene prima, a un livello piú elementare. Però adesso c’è come una tendenza, da parte della politica-rappresentanza, a mettere in ombra la contrattazione, e perfino ad eliminarla. Questa rivalità fra rappresentanza e contrattazione è familiare al movimento delle donne. Molte e molti vollero interpretarlo come una richiesta di rappresentanza. Dal primo momento, pensiamo agli scritti polemici di Carla Lonzi, si è dovuto combattere contro questa interpretazione che copriva la caratteristica originale del movimento, nato da una presa di coscienza e dal cambiamento dei rapporti tra donne. Nella politica la contrattazione ha un valore insostituìbile. Le viene dalla sua conformità con il linguaggio. Parlare è una forma dì contrattazione, la piú elementare. La lingua non è una creazione individuale, ma nasce dallo scambio fra parlanti, e non diventa mai dominio esclusivo di qualcuno, ma resta sempre, per restare viva, comune. Per me, una politica senza contrattazione è una politica finta che copre appena i rapporti di potere, e che esclude di fatto tutti quelli e quelle che non sanno (o non vogliono) parlare per finta. Perciò ho trovato terribile quello che è successo il 31 luglio scorso. L’ho visto come un tentativo di sottrarre competenza simbolica a quelli, donne e uomini, che per vivere devono mettersi sul mercato del lavoro. Il 31 luglio scorso i tre segretari delle maggiori organizzazioni sìndacali hanno firmato un accordo con il governo per contenere il costo del lavoro. Due le misure prese: la soppressione della scala mobile (che tutelava le buste paga dall’inflazione) e il blocco della contrattazione articolata, che dava la possibilità, ai lavoratori e lavoratrici di una determinata azienda, di ottenere un salario superiore a quello stabilito dal contratto collettivo, se favoriti dai rapporti di forza e dalla loro capacità di lotta. L’accordo ha suscitato molte critiche e, per fortuna, anche molta sorpresa. Tutti, compresi quelli che lo considerano necessario, lo hanno giudicato ingiusto. Se l’inflazione è un problema d’interesse generale, perché le misure colpiscono soltanto il lavoro dipendente? La risposta, purtroppo, è facile: perché era piú facile colpire in quella direzione. Dunque, un accordo oltre che ingiusto, vile. Stipulato, non a caso, nel momento in cui fabbriche e uffici chiudevano perle ferie annuali, così da evitare una pronta risposta collettiva da parte delle persone più colpite e piú ingiustamente colpite. I loro rappresentanti, però, lo hanno fischiato. Da qui la sorpresa, piú grande delle critiche. Negli stadi, a questo punto, il pubblico griderebbe “arbitro venduto”. Ma è difficile o, forse, impossibile gridarlo quando si tratta non di un arbitro ma del tuo rappresentante e quando l’avere rappresentanza equivale ad avere parola, come sempre piú tende ad essere. E come anche questo accordo, io dico, tende a fare che sia, nella maniera piú esplicita. Mi riferisco al blocco della contrattazione libera, che è un fatto insieme economico e simbolico. La contrattazione, infatti, è la pratica politica, che dà esistenza simbolica a chi, per vivere, dipende dal mercato del lavoro. C’è la possibilità di organizzarsi in sindacato o in partito, è vero. Ma l’organizzazione viene sentita ormai come una forma scissa dalle persone in came ed ossa. La contrattazione è anche l’unica politica delle donne nel mondo del lavoro. Voglio dire che è l’unica pratica che, nei rapporti di lavoro, può far valere il di piú che le donne sono, pensano e vogliono per sé per gli altri. E si capisce perché, considerando che l’essere in relazione è la nostra originale forma politica. Nell’organizzazione, invece, la presenza femminile tende a diventare una questione di quote e di posti, subordinata alla logica del potere. Ho parlato di un fatto insieme simbolico ed economico. Nell’informatica si parla di interfaccia tra uomo e macchina. Ecco, la contrattazione realizza l’interfaccia tra economico e simbolico, fra soldi e parole: le due cose si toccano senza confondersi. E lo stesso può dirsi dell’intera faccenda in discussione. Cosí, il segretario della Cgil (non parliamo degli altri due, troppo filogovernativi) non è in nessun modo un venduto. Però ha firmato. Non solo ha firmato contro gli interessi che rappresenta. Ha firmato anche contro gli impegni da lui stesso presi nell’ultimo congresso, che erano di difendere la contrattazione come un diritto di cui possono disporre solo le persone che lavorano. Dopo la firma, come si sa, egli ha dato le dimissioni. Ma dopo. E’ stato ricattato con la doppia minaccia della crisi di governo e della rottura dell’unità sindacale, è la spiegazione data da alcuni. E’ lui che ci ha ricattati e continua a ricattarci, hanno replicato altri, della base. Nella sua lettera di dimissioni, il segretario della Cgil ha scritto: non c’erano le condizioni per un accordo più favorevole ai lavoratori dipendenti. Nell’intervista con cui poi ha cercato di chiarire il suo agire, ha detto: ho firmato per senso di responsabilità verso il paese. Sono spiegazioni fra loro diverse ma non contraddittorie. Là dove la forza insieme vincolante e liberante, della contrattazione non si è imposta, è subentrato un senso esorbitante della propria responsabilità. Il capo del sindacato ha parlato come se fosse il capo del governo. Forse vuole diventarlo ma non lo è ancora. (E se mai lo diventerà, ci sarà da temere, perché egli uno che preferisce immaginarsi i suoi impegni invece di stare a quelli effettivamente presi.)
Tuttavia, il problema non è questo o quell’uomo, questa o quella donna, ma il tipo di rapporti che la politica degli uomini tende a far trionfare, troppo sbilanciati nel senso dell’organizzazione, della raprresentanza, del far capo a pochi. Se questa politica resterà l’unica, non ci sarà piú neanche un paese verso cui sentirsi responsabili. Annullato il rapporto contrattuale con altri, perduto il senso della sua necessità, infatti, il paese diventa una fantasia piegabilealla logica del piú forte e del dominio. A queste considerazioni, rivolte piú agli uomini che alle donne, devo aggiungerne altre che ci riguardano (e mi pesano) di più.
Io non faccio parte di sindacati né di partiti. Quello che ho scritto sopra, lo so per il legame che ho con donne che ne fanno parte. Con loro, in questi ultimi anni e perfino mesi, ho analizzato fatti, ho discusso idee, ho indagato dentro e fuori me stessa, aiutandole a fare lo stesso per quello che le riguarda. Queste donne, non meno di me, sanno il valore della pratica della contrattazione e come questa si leghi alla politica della libertà femminile. Ebbene, subito dopo il 31 luglio, nella fase più drammatica del dibattito io mi aspettavo che esse intervenissero per spiegare quello che ho cercato di dire qui. Che lo spiegassero loro con la maggiore forza e precisione che gli viene dal contesto in cui, diversamente da me, sono inserite, per scelta o per necessità.
Questo però non è capitato. Nessuna di loro ha voluto misurarsi con una contingenza storica che non sono la sola a giudicare difficile e importante, specialmente per la politica delle donne nel lavoro. A me pareva che dovessero farlo, per il sapere femminile sulla contrattazione da loro posseduto e perché il divieto della contrattazione polverizza lo strumento da esse scelto per agire la differenza.
Il loro silenzio non è imputabile a un’estraneità femminile. Qui si dovrebbe, semmai, parlare di un’estraneità maschile, nel senso che ho detto: piú facilmente della donna, l’uomo può immaginarsi di poter trascendere la relazione. Si tratta di un’altra cosa. E cioè che il sapere femminile della contrattazione manca di radici. In questo siamo simili al segretario della Cgil: neanche noi conosciamo effettivamente la fecondità di avere un vincolo e di saperci fare i conti. Manca di radici, secondo me, per la scarsità delle relazioni contrattuali fin qui realizzate fra donne. Non ci mancano relazioni fervide e strettissime quando sono in gioco progetti che riguardano luoghi, riviste, iniziative fra donne che si sono scelte. O quando sentiamo il bisogno dell’alimento simbolico di un sapere femminile. Ma allorché la scena cambia ed è in gioco l’agire nella politica mista, allora queste relazioni passano in secondo piano: diventano gratuite, oppure si restringono al contesto particolare di una città, di una categoria, di un partito. In ogni caso, riprendono il sopravvento geografie non disegnate dalla politica autonoma delle donne.
Ciò ha diverse conseguenze. In primo luogo, ci ritroviamo consegnate al separatismo per cui ci sono come due scene, quella delle donne e quella della politica. Da qui viene la troppo facile emarginazione di ogni contributo femminile. Ma, soprattutto, appare chiaro che le relazioni fra donne non sono vincolanti per le stesse che le nominano, per cui non producono, fiori possono produrre autorità femminile. Né danno, quindi, la forza di testa e di volontà per intervenire in un dibattito come questo, che vede coinvolti i massimi poteri del sindacato e dello stato. A pensarci bene, la mancanza di autorità non è una conseguenza, bensí l’origine del silenzio e della debolezza femminile: il contributo è debole o assente perchè non ci si è misurate veramente con niente.
In questi ultimi anni, ho seguito il congresso della Cgil e i due congressi del Pci-Pds, in stretta relazione con alcune donne lí attive in prima persona. L’ho fatto perché sono convinta che quei congressi facevano parte della politica delle donne. Ho sempre pensato che il mondo è uno, e ho sempre ragionato e agito perché le donne vi possarlo vivere da signore, come in casa propria. Nel caso di quei congressi, non era piú questione, come tante volte in passato, di lottare contro la cancellazione o l’emarginazione. Non piú questa la questione. La politica delle donne si trova al centro. Si tratta che ne prendiamo coscienza e che sappiamo starei. Se ciò non avviene – e non può avvenire, lo vedo, se ci viene a mancare la forza delle relazioni – io ho una smentita delle mie pretese personali e tutte ne abbiamo un rimando di miseria. Forse a suo tempo non fui chiara nel dire quali erano le mie pretese e le mie condizioni. Adesso l’ho fatto.
Clara Jourdan
Molti commenti ha suscitato la notizia della sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee che, in nome dell’uguaglianza dei sessi sul lavoro, impone all’Italia e ad altri paesi di denunciare la convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (01 1) che Yieta il lavoro notturno industriale femminile.
Pur non provocando effetti sulla legislazione italiana in materia – come ha spiegato anche il ministro del Lavoro in un comunicato ufficiale – il fatto giustamente preoccupa. Preoccupa non solo (e forse non soprattutto) chi ha a cuore il riposo notturno, ben piú gravemente ostacolato dagli accordi sindacali, ma chi ha a cuore la parità intesa come miglioramento per le donne, concezione sempre píú contraddetta dai fatti in cui la parità è diventata uno strumento contro le donne.
Non volendo ripiegare su una logica di tutela del lavoro femminile né rinunciare alla parità, alcune hanno cercato una via d’uscita in una nuova visione della parità, che non prenda a modello la condizione lavorativa maschile ma quella (maschile o femminile) piú vantaggiosa per chi lavora: è la cosiddetta “parità in avanti”, di contro alla “parità all’indietro”, detta anche “parità al ribasso”, correntemente praticata. Per esempio, la segretaria Cgil del Piemonte Titti di Salvo dice: “Perché non allargare invece i limiti al lavoro notturno per tutti, uomini e donne?” (L’Unità, 28/2/92). Già, perché no? In fondo, come riconosce Livia Turco, “non è bene per nessuno lavorare di notte” (La Repubblica, 1/3/92), e perfino il Parlamento europeo è d’accordo (risoluzione del 9 aprile). Avremmo cosí finalmente la quadratura del cerchio: se di tutela si tratta, tutela per tutti, e il principio di parità è salvo.
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Maria Marangelli, responsabile della formazione per la FIOM Lombardia
“In azienda parlo sempre, continuamente sollecitata dalle mie compagne e dai miei compagni di lavoro, che mi considerano un punto di riferimento importante. Ma quando vengo qui, al sindacato, divento muta, ascolto, mi sembra di non aver niente da dire, da dare.”
Luciana, delegata alla Atro, interviene cosí alla nostra riunione a Sesto San Giovanni.
Parla del suo silenzio, ma il suo non lo è già piú. Si sente autorizzata nella presa dì parola perché è stato creato lo spazio che la rende possibile. Il nostro gruppo donne FIOM Lombardia ha cominciato a riflettere a fondo sulla pratica polifica, specialmente dopo l’ultimo congresso CGIL. Finito il congresso, la nostra lotta sull’art. 15 dello Statuto per la libertà di relazione politica tra donne, non si è affatto esaurita. lo voglio rendere visibile che c’è un altro modo di fare sindacato, e questo posso farlo se posso mostrare la mia pratica.
Dopo il congresso, mi è capitato di mettere in forse il mio continuare ad appartenere al gruppo donne, perché non mi riconoscevo e non mi riconosco píú in una pratica che rípropone messaggi ambigui celati dietro lafinzione della necessità del “pluralismo”. La relazione politica forte che ho con Maìa B., una delle due segretarie della FIOM Lombardia, è stata la condizione essenziale che ha permesso di mostrare nel gruppo un percorso di demistificazione dei luoghi comuni, e d’invenzione dì un senso nostro per quello che siamo e facciamo nel sìndacato, quotidianamente: mettere fine al dualismo – non piú: noi e la FIOM, bensí: noi, la FIOM perché la politica delle donne sia al centro dell’azione del sindacato.
1 silenzi di Luciana rispecchiano una realtà troppo diffusa nel rapporto tra lav oratrici -1 av oratori e il sindacato.
Nei confronti delle sindacaliste impegnate in una politica dì donne, lei nutre le aspettative che lavoratrici e lavoratori nutrono nei confronti del sindacato: vuole avere la capacità di mettere in parolapubblica e dare cosí rappresentazione alla sua realtà, una realtà femminile. E’ la necessità di avere un quadro entro cui capire la propria esperienza, insieme ai percorsi possibili dì cambiamento.
Ma com’è possibile che proprio il sindacato, nato per dare esistenza simbolica a chi lavora, finisca per essere il luogo che, in ultìma istanza, impedisce la presa di parola? Le innumerevoli mediazioni tutte inteme alla struttura, producono regole del gioco che rendono il dibattito sindacale comprensibile ai soli addetti aì lavori. Quante come Luciana dicono: “Non mi sento adeguata, non sono all’altezza”. Occupandomi di formazione sindacale, lo sento ripetere molto spesso. E’ come se, alla gente che lavora, venisse richiesto, per fare sindacato, di allontanarsi dalla loro esperienza; come se questa non valesse la pena di essere indagata.
Fare politica di donne nasce per me dal desiderio di essere presso di me e di sentirmi intera laddove sono. Non c’è cosa da cui ricevo un maggior senso di equilibrio e di forza che non sia il fare le cose che penso, e viceversa.
Molte sindacaliste, nel tentativo di non omologarsi e per mantenere una certa autorevolezza, si assumono la titolarità delle problematiche delle donne: di tutte le donne, per non essere “elitarie”, e con tutte le donne, per non essere “settarie”. Esse tendono a colmare i vuoti-silenzi sostituendosi all’universo femminile e parlando in nome e per conto di esso. Questo è quanto si legge spesso nei documenti firmati dalle responsabili dei Coordinamenti. Ma questo non fa nascere una misura femminile del lavoro e della contrattazione, capace di agire dentro all’azione stessa del sindacato e di cambiarla in positivo per uomini e donne.
Occuparsi di tutte le donne è impossibile se non al prezzo dì una forte perdita di contatto con le donne reali. Cosí come è impossibile fare politica con qualsiasi donna: è necessario
scegliersi sulla base di una pratica comune, se si vuole produrre modificazioni concrete.
L’illusione di lavorare per e con tutte le donne dà corpo ad un linguaggio che non tocca piú il cuore delle donne. Mi chiedo come parla il linguaggio della parità, che cosa si comunica nella disquisizione tra parità formale e sostanziale, tra parìtà di fatto o di opportunità, tra discriminazioni dirette o indirette. Che cosa si sedimenta, se non l’ordine simbolico esistente, l’infinita comparazione con l’esistenza maschile? Mi chiedo se quell’appellarsi all’autorità, delle leggì, fino ad anteporre gli strumenti agli obiettivi come pratica costante, non faccia capo a un bisogno di legittimazione. 0 è l’incapacità del desiderio femminile di autorizzarsi in un senso indipendente dal giudizio di valore maschile?
Mi diceva Graziana R. in una chiacchierata in cui le proponevo di sostituire la prospettiva delle pari opportunità con quella della libertà femminile: “Mi stai effettivamente proponendo un’altra chìave di lettura. Pensa che in fabbrica ero arrivata a un punto morto. Stavo cercando un uomo che avesse piú opportunità per poi dimostrare che esistono dìscriminazioni nei confronti delle donne”.
Se questo è il frutto che ha prodotto la politica “per le donne” nel sindacato, credo che noi sindacaliste dovremmo sentirci gravate di un forte senso di responsabilità nel cogliere gli effetti sul piano simbolico delle nostre pratiche.
Come riflettono le sindacaliste nel nostro gruppo sulla propria pratica? Ritengo significative le cose che per la prima volta Rosa riesce a dire: “Bisogna uscire dalla finzione! Troppo spesso ancora ci troviamo in riunioni tra donne ai vari livelli dell’organizzazione dove non scegliamo di essere, come per dovere. Voglio poter andare a riunionì che mi interessano e che mi aiutano a pensare la mia quotidianità. Sono stufa di riunioni tecniche per organizzare le assemblee dell’otto marzo o le riunioni sulla Legge 125 che non mi danno risposta a questo problema. Ho spesso la sensazione di avere le idee chiare ma illavoro quotidiano mi fa smarrire la mia centralità, da non capire dove sono io”. Il tentativo di Rosa è quindi la ricerca di una sua centralità senza la quale non si può parlare di politica per le donne con il rischio di trovarsi travolte dalla realtà, confuse, non in grado di esprimere una politica di donne. Ma quali sono le riunioni tecniche di cui parla Rosa? Sono quelle che alimentano quella pratica, molto diffusa nel sindacato, che io chiamo l’illusione quantitativa: quante assemblee e quante donne vi sono, quanti corsi di formazione, quanti accordi aziendali che richiamano le pari opportunità, quante donne nelle segreterie, quante in carriera, occupate, disoccupate, inoccupate, segregate nei settori tradizionali, quante entrano in quelle maschili, quante molestie sessuali, quanti coordinamenti e cosí via.
Questa pratica si muove lungo due direttrici: l’elencazione delle miserie femminili e per converso l’esibizione di forza numerica. Questa rappresentazione di forza è sí un veicolo di trasmissione, ma non di produzione prima diforza, che risiede nella qualità della relazione politica tra donne. Di conseguenza, è una pratica reversibile, che non ha efficacia duratura. Né favorisce la sedimentazione di simbolico femminile, perché trae alimento da un sapere dato i cui presupposti teorici sono scontati.
Il nostro bisogno non è iscritto nel quadro teorico dato. Noi abbiamo bisogno di produrre forza per una nostra libera esistenza e per trasmetterla alle altre che il nostro ruolo politico ci richiede di rappresentare. Questo significa, fra l’altro, riconoscere e distinguere i desideri originati nell’esperienza di lavoro sindacale a tempo pieno, e quelli che la
ricchezza e la durezza dell’esperienza delle lavoratrici ci propone tutti i giorni. E’ certamente la strada più impegnativa, che ci chiede di rifondare un nostro quadro di realtà senza affidarci alla rappresentazione data, partendo dalla concretezza di fatti e cose, e dalle parole di uso comune con cui questa realtà è nominata. Questo è il modo in cui oggi ha senso per me prendere la parola: sottrarmi alle mistificazioni e andare all’essenziale.
Rosa Piantoni delegata Zucchi S.p.A. e di Milena Bianco delegata Confezioni Manerbiesi
Vorrei qui affrontare uno dei temi che mi stanno più a cuore, che tuttavia non mi pare venga a sufficienza sviluppato. Porterò l’esperienza che misuro su di me tutti i giorni in fabbrica. Voglio parlare del tema: “Ridare dignità al lavoro”. Questo è un concetto profondo che ha per me un significato importantissimo. Cosa vuol dire “ridare dignità al lavoro”? Una cosa mi pare certa: se va riconquistata, è segno che l’abbiamo perduta! A questo proposito sarebbe interessante capire meglio: come e perché l’abbiamo perduta? Per me la parola “dignità” significa rispetto di se stessi, del proprio ruolo e pretendere dagli altri il rispetto della pienezza di essere umano. Il mio è un lavoro produttivo in quanto produco beni di consumo; tutto ciò è considerato poco importante dai mass-media, trattato male dagli esperti economici, svalorizzato dagli illuministi del nostro tempo: vale a dire “io faccio un lavoro non rispettabile”. Eppure io, come tante e tanti altri, contribuisco a determinare la ricchezza economica del Paese. Tutto ciò pare non abbia significato; si dà più valore non al produrre ma al consumare, quasi a voler dire che produrre e consumare sono due elementi completamente separati che non hanno nulla a che fare tra di loro. E’ vero che una persona può consumare anche senza produrre, ma è altrettanto vero che non si può consumare se non c’è qualcuno che produce beni di consumo. Sarebbe interessante approfondire l’analisi rispetto a ciò che produciamo, se è veramente utile o no alla società e all’essere umano, uomo e donna, ma ciò mi porterebbe troppo lontano. Voglio tornare al tema proposto: farò alcuni esempi di come questa società capitalista mistifica la realtà con tutti i mezzi pur di garantirsi la sopravvivenza. I messaggi che vengono trasmessi sono relativi al consumare, e le persone che contano in questa società sono quelle che consumano beni di lusso. Mai una sola volta ho sentito parlare delle operaie che nel laboratorio, chine sulle macchine, cuciono, per ore ed ore un abito di alta moda firmato Pierre Cardin – Valentino – Versace e così via; loro non contano nulla, sono invisibili agli occhi della società, non ha valore la fatica fisica o l’impegno nel produrre. Secondo me si vuole continuare a mantenere nettamente separato il mondo produttivo a tutti gli effetti da quello creativo intellettuale, vale adire che chi produce merci deve farlo solo con le braccia e non con la testa e chi lo fa con la testa non lo deve fare con le braccia. Se questa è la realtà, come pensiamo di ridare dignità al lavoro produttivo? Le risposte fin qui date dal Sindacato sono state fallimentari rispetto alla dignità dell’operaio e dell’operaia. Porto come esempio (…) Dunque, secondo me, dobbiamo partire da queste realtà per chiederci cosa può e deve fare il sindacato per ridare dignità al lavoro e con esso alla lavoratrice ed al lavoratore. lo credo che la prima cosa da fare sia quella di guardare questi problemi spostando il nostro sguardo su un nuovo orizzonte. Dobbiamo imparare a guardare più da vicino i bisogni e le esigenze che manifestano le lavoratrici e i lavoratori. Solo così riusciremo a capire meglio, ad esempio, cosa significa per una donna che lavora in fabbrica fare turni di lavoro pazzeschi che sconvolgono la propria vita sociale e affettiva. E tutto questo in nome di chi? Del mercato? Del profitto? Dell’economia generale? Se è per tutto questo, è ora di dire che al centro del mondo va messo l’essere umano, uomo e donna che contano molto, ma molto di più di quei valori capitalistici. lo non credo che si verificherebbe un tracollo economico, una catastrofe politica se al centro della nostra politica sindacale non mettessimo solo le esigenze dei padroni ma anche quelle delle lavoratrici e dei lavoratori. In un confronto dialettico e conflittuale deve esserci pari dignità. Le nostre esigenze non hanno meno valore di quelle dei padroni, anzi, sotto il profilo umano valgono di più le nostre. Se non riconquisteremo questa nostra dignità il mondo andrà sempre peggio e saremo noi in prima persona a farne le spese, sotto il profilo sociale – economico e umano. La nostra CGIL in primo luogo, non può permettersi di perdere la forza che le viene data dai lavoratori e dalle lavoratrici che saranno sempre disposti a lottare se al centro del mondo vengono messi i loro interessi, che sono anche quelli della solidarietà, della pace e della dignità dell’essere umano, uomo e donna.
R.P.
Affrontare una fase congressuale significa, per me, a partire dalla propria esperienza, dai propri desideri e speranze, porsi con più forza la domanda: “Quale Sindacato vogliamo essere?” Se interrogo allora la mia esperienza e mi vedo, mentre, seduta alla macchina da cucire, 8 ore al giorno, per 5 giorni alla settimana, prendo una cerniera dopo l’altra, l’attacco alla gonna, a 70 gonne ogni ora e 560 gonne al giorno e ogni volta che ne attacco una compio 18 attività, ho immediatamente chiara una risposta: “Voglio essere un Sindacato che migliora le condizioni di chi lavora, a partire dalla fabbrica.” Quindi un Sindacato che si è dichiarato Sindacato dei diritti e non riesce a garantire il diritto, e cioè quello del benessere al lavoro, a mio parere ha già fallito negli obiettivi che si è dato. Porsi allora come obiettivo il miglioramento delle condizioni di lavoro, come garanzia di un diritto essenziale, quale la possibilità di un benessere al lavoro, significa allora analizzare autonomamente l’organizzazione del lavoro, assumendo come centrali gli obiettivi che noi ci diamo e non quelli dell’azienda. Le aziende infatti hanno come obiettivo il profitto, ciò è garantito da una sempre maggiore produttività a costi possibilmente sempre inferiori. Questo per le aziende è molto chiaro, così come molto efficaci sono le strategie che esse mettono in campo per garantire i loro interessi. Mi pare invece che il Sindacato, non solo non abbia ben chiari gli interessi e gli obiettivi di chi rappresenta, ma che in una logica di subalternità alle aziende, cerchi di parare al meglio gli effetti negativi delle strategie aziendali sulle lavoratrici e sui lavoratori, assumendo come propri gli stessi obiettivi aziendali. Così, ad esempio, per spiegarmi meglio, l’obiettivo delle aziende di vincere sulle competitività di mercato diventa per il Sindacato un obiettivo nella misura in cui garantisce i posti di lavoro. L’assunzione di tale obiettivo, cioè della garanzia di posti di lavoro alle condizioni poste dalle aziende, sempre più produttività, qualità, tempi stretti, che implicano sempre maggior sfruttamento, non permette più di mettere al centro le condizioni di chi lavora. E’ necessario allora, elaborare autonomamente i nostri obiettivi, dando centralità, non solo alla garanzia dei posti di lavoro a qualsiasi costo e condizione, ma a posti di lavoro che garantiscono il benessere di chi lavora. Quindi, rimettere in discussione l’organizzazione dei lavoro, su progetti costruiti nel rapporto con le lavoratrici e lavoratori, la loro esperienza e il loro sapere. Si tratta quindi di ricostruire il rapporto con i lavoratori, la cui voce deve avere un peso sulle scelte del Sindacato. Questo per me significa essere sindacato. Non grandi parole o definizioni come “Sindacato dei diritti”, “nuove solidarietà” ecc. ecc., ma gesti concreti anche minimi, che danno conto di una volontà vera, di un miglioramento costruito nel rapporto con i lavoratori. M.B.
Lia Cigarini
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Piú importante delle formule adottate fu l’intrecciarsi delle relazioni; questo, infatti, permise alla volontà femminile di prendere forza e forma. E’un punto di cui voglio sottolineare l’importanza.A differenza di quando ci si muove per collettivi e gruppi, che ti costringono a prendere posizione rispetto a cose precostituite, la relazione duale ti mette in gioco interamente: non c’è niente di escluso rispetto a quello che una è e ha capito, o può capire. La relazione non è il contenuto, che pesa e rallenta; la relazione è movimento e apre nuove possibilità, piú grandi. Costituisce, quindi, la leva di una politica dell’esistenza femminile, che è altra cosa da una politica di potere. E’ simbolico contro potere.
Di solito, in politica, per raggiungere un obiettivo si cerca di prendere potere e, per avere potere, si fanno alleanze. In queste relazioni, invece, è la soggettività ad essere centrale: “In ogni emendamento c’era la presenza della relazione, cosí che alla fine, a Rimini, c’era molto di piú di quello che io avevo fatto, c’era forza comune da spendere” (M. Marangelli, FIOM Milano); “Ho riconosciuto autorità a quelle di Brescia e ho seguito iI loropunto di vista, anche se io appartenevo alla maggioranza” (P. Fasciani, Camera del lavoro di Pescara); “Aver cambiato l’art. 15 è un guadagno aggiuntivo, mentre abbiamo guadagnato esistenza, presa di parola nella forma che vogliarno” (G. Ghilardini, CGIL scuola Milano).
Cosí, le donne che proponevano emendamenti, pur non essendo molte, hanno coinvolto mezza CGIL. Ed è successo, al Congresso della Lombardia, che donne con posizioni diverse rispetto ai contenuti della politica sindacale, si siano trovate d’accordo per sostenere la libertà di forma politica, facendo approvare a maggioranza un emendamento che continene un no secco ai coordinamenti, a qualsiasi forma definita a priori di come le donne debbano stare nel sindacato, e al principio di elettività.
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