Laura Minguzzi

Sono figlia di un ingegnere e di una operaia. Ho studiato alla facoltà di pedagogia e ho insegnato geografia per 28 anni . Adesso faccio l’imprenditrice. Sono andata in pensione quattro anni fa. Dato il mio carattere non potevo stare con le mani in mano.
Per fare questo passo mi ha aiutato una ex-collega, Anna Sergeevna Efimova, che io stimo molto. Mi ha introdotto in una ditta privata che si occupa di formazione, dove lei era andata a lavorare prima di me. Mi ha fatto conoscere un’altra persona molto valida, un ex-direttore di scuola, anche lui insegnante, che lavorava in questo centro di aggiornamento per insegnanti, ed è stato grazie a lui che ho potuto aprire una mia impresa.
Da allora io lavoro con soddisfazione, perché mi era sempre mancata la libertà di agire, di creare. Lì c’era questa libertà di azione. Inoltre penso che una donna libera, non limitata da ostacoli burocratici o da una morale politica possa fare molto di più.
Di che tipo di impresa si tratta?
E’ una ditta non statale che si occupa di formazione e aggiornamento per insegnanti. Si chiama “LA NUOVA SCUOLA DI PIETROBURGO” e non è un caso, perché il mio scopo è proprio quello di far conoscere alle-agli insegnanti tutto il meglio nell’ambito della pedagogia, i libri più nuovi, le nuove tecnologie e metodologie didattiche. Per questo pubblichiamo libri, organizziamo seminari per illustrare le ultime novità pedagogiche.
Tutte cose che prima erano solo sognate dalle insegnanti.
Quali rapporti ha con le donne e gli uomini che partecipano alla impresa?
Con le donne? Per prima cosa voglio dire che io amo la gente, comunicare con gli altri mi piace molto e io ho rapporti con vari tipi di persone, con insegnanti, genitori, clienti, direttori di scuole, bambini, che vengono in libreria o che incontro altrove. Così ho conosciuto Laura Minguzzi, che è capitata in negozio alla ricerca di novità.
Un giro che è infinito ed io da queste relazioni ricevo molta soddisfazione.
Con gli uomini ho soprattutto relazioni di affari, hanno fiducia in me e in varie occasioni mi hanno aiutato finanziariamente da quel momento sono diventati soci e/o amici.
Ci sono più donne o uomini nella sua impresa?
Nella libreria ho assunto più donne che uomini, ma come soci ci sono uomini.
Forse perché gli uomini hanno più capitale, più mezzi finanziari. Adesso ci sono anche uomini che si occupano seriamente di busness e che cercano dove investire il loro capitale e a me fa molto piacere che scelgano di investire nell’istruzione, cioè in imprese come la mia. In questo momento c’è questa tendenza.
Hai avuto qualche intoppo?
Quando ho cominciato mi sono trovata in difficoltà finanziarie perché il socio con cui avevo progettato la libreria con annesso un self-service, mi ha mollato su due piedi, tradendo la mia fiducia e le mie aspettative. A lui non interessava tanto il progetto, piuttosto era allettato dai possibili finanziamenti. Ancora adesso risento dei problemi e delle responsabilità che mi erano piombate sulle spalle e della delusione provata. In concreto aveva fatto alle mie spalle una società con un altro e in modo subdolo aveva tentato di estromettermi.
Io ho preferito separarmi, cedergli il “territorio” senza fare guerre, togliermi questo peso di dosso
cioè la parte dello stabile destinata al self-service, lui ha creato una società autonoma, e adesso il posto funziona. Non come era la mia idea originaria, ma io ne usufruisco mandando i miei collaboratori e le mie collaboratrici a mangiare lì gratis. Cerco di dare alle donne soprattutto il massimo delle comodità, oltre che la possibilità di avere una occupazione.
Con chi si consulta per prendere decisioni o risolvere problemi? Ha relazioni privilegiate?
A questo proposito mi è successa una storia incredibile, al limite dell’inverosimile. Ho conosciuto una persona, a cui ho parlato dei miei problemi, un estraneo, praticamente, con cui ho valutato la mia situazione,che si è offerto di cercare dei finanziamenti per la mia impresa. Io non ho dato molto peso alla cosa. Dopo due o tre settimane si è rifatto vivo questo giovanotto, io avevo completamente dimenticato questo episodio , non l’ho neanche riconosciuto. Si è presentato , mi chiamo Pietro e mi ha chiesto se mi ricordavo chi era e la promessa che mi aveva fatto di aiutarmi. Mi ha accompagnato nel mio giro di consegna di alcuni libri e in macchina mi ha dato una grossa cifra, senza pretendere nessuna ricevuta o interesse, sulla fiducia. Naturalmente io gli restituisco questi soldi, li considero un prestito che ci aiuta a respirare.
Sembra quasi un miracolo. Ma chi è costui, di che cosa si occupa?
E’ un industriale della carta che ha avuto successo e che può permettersi questi gesti, io amo molto questo tipo di persone. Non sempre può farci questi prestiti, a volte mi dice di no, comunque è una persona incantevole, un sognatore che vede che i suoi soldi sono al sicuro nelle mie mani e così è diventato mio socio.
Mi può descrivere una sua giornata di lavoro ?
Ufficialmente comincio alle nove, ma in realtà alle sette sono al lavoro. Faccio varie telefonate da casa. Al lunedì in ufficio ho una riunione e un corso per le libraie, affinché sappiano vendere in modo consapevole, dare consulenze sui libri e non fare semplicemente le commesse. Poi do le direttive per i diversi settori, ascolto i rendiconti degli ultimi giorni, cosa abbiamo ricevuto, quello che è andato bene e quello che non va, distribuisco i compiti, stabilisco il lavoro per tutta la settimana . Poi comincio a ricevere gente, chi vuole qualcosa da me oppure qualcuno che ho chiamato io. C’è da decidere l’acquisto di un nuovo libro, oppure un autore o un’autrice viene per chiedermi di pubblicare un suo testo. Per esempio adesso devo stampare velocemente un libro di una scrittrice che sta per morire e desidera ardentemente vedere il suo libro finche è in vita.
Alla sera, almeno una volta alla settimana mi piace andare a teatro. Inoltre di sera ho una seconda attività dove guadagno per investire soldi nella casa editrice. La mia giornata di lavoro è molto intensa. Torno a casa alle otto o alle nove e ancora faccio qualche telefonata..
E’ soddisfatta del suo lavoro?
Sono molto contenta, non tanto perché sono “proprietaria”, ma perché sono libera nella realizzazione delle mie idee, dei miei sogni, quello che penso posso realizzarlo autonomamente, con i miei soldi, certo con l’aiuto dei miei soci, ma essenzialmente fare come desidero io.
E’ una sensazione straordinaria, quella della libertà, che mi rende contenta, anche se le condizioni di lavoro nella società russa sono molto dure per gli imprenditori e io devo faticare parecchio.
Alla vecchiaia non ci pensa? Come si è organizzata per la pensione?
La vecchiaia non fa per me. Adesso non metto da parte niente. La pensione che prendo come insegnante è ridicola. Ma non importa, ora investo solo nel mio lavoro. per il momento mi posso permettere tutto il necessario. certo in caso di malattia per curarsi occorrono molti soldi. Per questo io faccio un secondo lavoro. E’ un lavoro molto ben pagato, nell’ambito della formazione, una attività sociale, per creare occupazione. E’ un lavoro che mi dà soddisfazione perché c’è ricchezza di scambi e poi cambiare genere di attività mi ricarica, non mi fa sentire la stanchezza.
Ultimamente ci stiamo ampliando e apriremo una filiale in un’altra repubblica, la Carelia, a Petrozavodsk , la capitale. Allargando la mia attività spero di assicurarmi anche un futuro migliore e di conseguenza anche una vecchiaia senza problemi di denaro.
Cosa pensa della guerra in Cecenia?
Da noi nessuno sostiene la guerra e neppure il governo. Ci sono dimostrazioni contro questa guerra insensata. Soprattutto le madri dei giovani che devono partire. C’è stato qualche tentativo di negoziato e ci eravamo illusi . Ma l’illusione è stata breve. In televisione mostrano scene molto cruente, di soldati russi con le teste tagliate dai “terroristi” ceceni. per giustificare la continuazione della guerra. Il popolo russo è contrario alla guerra ma c’è come una sorta di rassegnazione che non sia più possibile fermarla.

Sergio Bologna

Non è facile riaprire oggi una riflessione sull’autotutela dei lavoratori esclusi dal meccanismo di sostegno del cosiddetto welfare, dopo che il filo del discorso sul lavoro indipendente si è interrotto.
Sostituito il Ministro del lavoro e rimesso in moto faticosamente l’iter parlamentare della cosiddetta “legge Smuraglia”, è ripresa solo la chiacchiera sui “lavori atipici”(in realtà atipico non è il lavoro ma il genere di rapporto contrattuale, i sindacati tedeschi infatti usano sempre il termine “contratti di lavoro atipici”). Ma di concreto non si è visto nulla. Da circa un anno l’argomento, entrato per un periodo nel lessico del bon ton scomparso dal dibattito politico. Autorevoli sociologi di provenienza sindacale avevano decretato
a) che il lavoro autonomo era frutto delle fantasie di qualche sociologo
b) che all’evidenza empirico-scientifica esso appariva tutt’al più nella veste dell’amministratore di condomini (sic)
e via di questo passo.
La Confindustria faceva loro eco dichiarando che la proposta di legge a tutela dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa (proposta di legge Smuraglia) scambiava per emarginati alcuni degli strati più benestanti della nuova borghesia (“i consulenti non sono le tute blu”, titolava”il Sole 24 Ore”).
Tutto questo accadeva un anno fa circa. Poi il silenzio. La Sinistra Italiana, sicura di stare al potere chissà quanto, spalleggiata dai suoi equivalenti europei, non si preoccupava della giustizia sociale né del consenso.
Oggi le cose sono cambiate, in Germania e in Italia le sue poltrone traballano. E allora si chiacchiera di nuovo di lavoro, sempre più in difesa rispetto all’offensiva sulla flessibilità che i neoliberisti ora dispiegano a tutto campo. Ma lasciamo perdere le loro chiacchiere e veniamo ai fatti.
Che cosa hanno ottenuto in concreto i lavoratori indipendenti, nelle loro varie configurazioni, dagli ultimi due governi? Nulla , se non un inasprimento della pressione fiscale in vista di un improbabile futuro trattamento pensionistico, oppure l’onore di poter diventare, se giovani e meridionali, degli “autonomi di stato” ossia dei microimprenditori che godono di un capitale iniziale e di alcuni servizi gratuiti, forniti, il capitale e i servizi, dal generoso Stato Italiano.
Grazie all’attività meritoria della società per l’Imprenditoria Giovanile (IG) i giovani meridionali, tradizionalmente affascinati dal “posto fisso”, possibilmente d’impiego pubblico, possono diventare “autonomi di stato”, lavoratori indipendenti finanziati dallo stato. Solo il genio assistenzialista democristiano poteva partorire una simile figura.
Eppure non dobbiamo lamentarci, i finanziamenti dell’IG rappresentano una delle poche voci di spesa di politica “attiva” del lavoro, una spesa che rappresenta in totale appena l’8% dei centomila miliardi circa che lo stato devolve alle politiche del lavoro, che sono per il restante 92% politiche di sostegno al lavoro che già c’è, quindi politiche “passive”.
Se dunque nulla di buono ci si può aspettare da queste forze politiche e sindacali, il
discorso sull’autotutela diventa davvero un’emergenza. La gente deve costruire da sé il proprio welfare integrativo rispetto a quello a pagamento che si prospetta con la privatizzazione della previdenza
I lavoratori indipendenti e quelli che pendolano tra “contratti di lavoro atipici” e attività di lavoro autonomo non hanno e non avranno tutele se non quelle che potranno acquistarsi mediante i fondi pensione ed altre forme assicurative fornite dal mercato finanziario. Ma non basta, ci vuole l’autotutela, quella che deve essere costruita dal basso nelle relazioni individuali, nelle dinamiche socioculturali, la gente deve riprendere la capacità di costruzione di progetti comuni, quelli che la nostra generazione aveva imparato ad elaborare con l’impegno politico non istituzionale, con l’attività nel sociale. Ma le nuove generazioni hanno ancora questo gene nel loro DNA? E noi sappiamo trasmettere loro le tecniche dell’organizzazione, ci preoccupiamo di non disperdere questo sapere accumulato – oppure ci limitiamo a guardare, un po’ sazi e un po’ stanchi?
Si è parlato di riscoprire le società di mutuo soccorso di ottocentesca memoria, fondate non a caso dai lavoratori con maggiore potere contrattuale sul mercato del lavoro o con maggiori capacità professionali. Società che costruivano prima di tutto dei “luoghi” dove la comunità operaia si allargava alla comunità di quartiere, di paese, spazi dove discutere in assemblea o dove ballare.
Quanto ci sarebbe da fare oggi sul piano del recupero degli spazi ad uso sociale, per l’installazione di servizi non di mercato, per costruire strutture di welfare privato non dipendenti dal mercato finanziario. Ma le forze degli utenti, da sole, non bastano e la miseria politica di chi detiene le risorse pubbliche è tale da farci disperare su una prospettiva del genere.
Ci riusciranno le donne?

Francesca De Vecchi

Ho 29 anni, lavoro alla Libreria delle donne di Milano da circa un anno e ho appena iniziato un dottorato di ricerca in filosofia all’Università di Ginevra. Vorrei provare a abbozzare la situazione in cui mi trovo rispetto alla difficoltà di fare teoria e lavoro politico sul simbolico. Si tratta di un’apparente assenza di necessità e di contesto, di una parziale saturazione della ricerca di senso e dei desideri nell’esperienza vissuta (delle relazioni, dello studio, del lavoro) illuminata dal guadagno simbolico ereditato dalle donne delle generazioni precedenti – c’è agio, libertà; il patriarcato è morto, che altro dobbiamo dire? Si tratta, però, anche di una saturazione di fatiche e energie nel comporre e articolare la propria vita – ciò che faccio, ciò che sono – secondo questa stessa misura di senso ereditata con il cambiamento di simbolico avvenuto.
Partire dalla questione del lavoro forse può aiutare a esemplificare e far capire meglio la situazione un po’ aggrovigliata che ho tentato di abbozzare, perché è nel lavoro, nella necessità di ciò che assicura sopravvivenza e indipendenza, ma anche relazioni di scambio generative di senso e di desideri, che c’è la possibilità della ricerca sul simbolico.
Partecipando al gruppo di discussione sulla femminilizzazione del lavoro, una volta Lia Cigarini chiese a me e a altre giovani che cosa fosse per noi il lavoro. Io allora parlai di estremismo del senso come cifra di ciò che cercavo e volevo dal lavoro: il lavoro come esistenziale (sono quindi d’accordo con Dino Leon, “il manifesto”, 21 novembre 1998), dimensione dell’esistere dove ci deve essere tutto o quasi, ecco perché “estremismo” – un “estremismo”, che so e vedo, sentito e praticato da molte donne di questa generazione considerata spesso accomodante. Che cosa intendo con questa espressione?
Estremismo del senso significa fare e voler fare uno sforzo enorme per comporre la propria vita in modo da coniugare bisogno di senso e sussistenza economica, tenendo assieme professioni e contesti di lavoro diversi (per me la libreria, la ricerca e l’università, le traduzioni), inventandone e nominandone altri, senza accontentarsi, se insoddisfacenti, dei percorsi già battuti e consolidati che il mercato offre – e qui l’esclusione dal mercato ad opera del capitale di certi ruoli professionali ha paradossalmente agevolato la nascita di nuovi spazi di libertà dentro i suoi interstizi. Quest’estremismo del senso ovviamente è anche un agio, una libertà che deriva e poggia – senza di esso non sarebbe stato possibile – sul lavoro politico e simbolico fatto dal movimento delle donne; è un’eredità, e viverla è un modo di accettare e rispondere a questa eredità. C’è il rischio, però, di rimanere totalmente impigliata dentro questa prassi – ciò che faccio – senza riuscire a ridisegnare un orizzonte teorico proprio, a partire dalla propria esperienza. Estremismo del senso significa inoltre – e qui forse si capisce meglio perché parlo di estremismo – paralisi della teoria, trovarmi in una sorta di metafisica del senso dove questo pathos del senso ha l’effetto contrario di una censura della significazione, perché l’esperienza che vivo non sembra mai essere sufficiente e adeguata alla nominazione teorica.
Ora, di lavoro sul simbolico ce n’è da fare, e Lia Cigarini ha indicato chiaramente di quali problemi si tratti: la relazione duale di scambio-contrattazione funziona, ma non è riconosciuta come forma della politica; per molte donne le relazioni nel lavoro sono già un significante alternativo al danaro, ma oltre al fatto che questa realtà fatica a essere riconosciuta, c’è anche il rischio che passi un’idea di relazione strumentale (VD, 43). Queste sono questioni cruciali, ma non le posso pensare in astratto, le devo pensare a partire da ciò che faccio e da un rinnovato contesto di discussione, le cui modalità e interlocutori possono anche non essere gli stessi del passato. Quindi il lavoro politico che in questo momento sento imprescindibile è innanzitutto di riposizionamento. La ricerca sul simbolico nasce solo dalla necessità di farla, e la necessità per me adesso passa attraverso il lavoro/i lavori “di senso” e il denaro e la sussistenza. La Libreria delle donne di Milano non solo è un contesto politico che mi sta molto cuore, ma un riferimento obbligato per l’elaborazione teorica e la pratica politica che ha generato. Vorrei scommettere su di esso come luogo che alimenti e faccia circolare questa necessità.

Alberto Leiss

Mi sono chiesto che cosa vuol dire, a proposito del lavoro, nominare il valore simbolico della relazione “in sé”, come fa Lia Cigarini, distinguendola dalle relazioni strumentali, cioè “intrecciate per raggiungere obiettivi dati (ad esempio, posti di potere per governare in nome del bene comune)”.
I concetti di “sfruttamento” e “alienazione” sono stati riferiti alla relazione tra “proletario” e “proprietario” (tra servo e padrone), e alla relazione tra produttore e prodotto. La prima – secondo il vecchio Hegel – è un conflitto per la vita e per la morte, necessario al riconoscimento di sé. E’ vero che il movimento operaio, che ha basato la propria costituzione soggettiva su questa relazione conflittuale, ha nel tempo sostituito alla “morte dell’avversario” una pratica di “contrattazione” (i comunisti russi, e non solo loro, però, hanno davvero eliminato fisicamente padroni e classi di padroni).
Nella lotta, materiale e simbolica, contro i “padroni”, si è poco riconosciuta la qualità delle relazioni tra i “servi”, se non nei termini di solidarietà e uguaglianza. Per spostare i rapporti di forza serve una solidarietà tra i deboli qualificati come “uguali”. Questa dialettica si è svolta in un universo dominato dal maschile.
Servi e padroni esistono ancora. Ma la libertà che poteva essere conquistata sulla base del desiderio del servo forse è stata simbolicamente raggiunta. Intanto è avvenuta, nella sfera di un privato che tende a farsi politico, la libertà femminile. Viviamo il fenomeno della femminilizzazione del mercato del lavoro. Questi dati della realtà spingono in secondo piano la relazione conflittuale servo-padrone, e portano in primo piano la relazione conflittuale uomo-donna, anche nel contesto pubblico/politico del lavoro, come quella realmente costitutiva del sé? Forse sì, come aveva annunciato Carla Lonzi.
Resta la relazione tra produttori/produttrici e prodotto. Il carattere strumentale delle relazioni nei luoghi di lavoro non segue solo una logica di potere, ma anche quella delle funzioni tecniche per la realizzazione di beni e servizi. La qualità e l’efficacia, il controllo dei processi, la soddisfazione di clienti e utenti: tutto ciò (oggi al centro di teorie di gestione dell’impresa post-fordista che mettono sempre più al centro le risorse comunicative, e persino “emotive” del personale) può essere rimosso come inessenziale nella costituzione di senso del lavoro?
Si può dire che il fine del lavoro – luogo di socialità primario, accanto alla famiglia – non è tanto il prodotto, quanto la qualità delle relazioni (tra individui differenti) che si intrecciano nella produzione? E un rapporto non alienato con il prodotto significa anche vedere i contenuti relazionali del prodotto stesso. Un’automobile meno pericolosa, treni in orario, un metodo didattico più critico, un giornale utile ai suoi lettori…). O la cura della qualità del prodotto rischia solo di rifare il gioco del padrone? Bisogna vedere: qualità a vantaggio di chi?

Un intervento di Sergio Bologna

L’affermazione, contenuta nel numero di “Via Dogana” dedicato al lavoro, che le donne possono trovare spazi di libertà nel lavoro indipendente, sembra rendere molto inquieta una parte della sinistra con cui continuate a dialogare.
In effetti che il lavoro sia soltanto una costrizione è un vecchio tema della sinistra, un tema che ha avuto momenti di grandezza.
Non a caso la sinistra è diventata un soggetto politico e sindacale a partire dalla lotta contro il lavoro-costrizione. E ha creato strumenti di liberazione e solidarietà. Questi strumenti oggi sembrano aver perduto la loro funzione originaria, ridotti ad apparati che hanno come obiettivo primario quello di riprodurre se medesimi. Dunque il problema di trovare libertà dentro la costrizione è diventato un problema dell’individuo. La solidarietà di genere e di gruppo ha sostituito la solidarietà di classe, comunista o socialista. La società è organizzata oggi per corporazioni e persino gli strumenti di tutela del singolo lavoratore sono messi in pericolo, se dipendente, sono da creare se indipendente.
La sinistra riconosce questo e sostiene che per far fronte alla dilagante competizione ce vede i deboli sempre più deboli ed i forti sempre più forti, occorre affrettarsi a scrivere le nuove regole, a stilare la carta dei nuovi diritti.
Ma chi le scrive le regole se non la corporazione deputata a legiferare? La nostra, ce lo ripetono a ogni due passi, è una “democrazia delegata” che affida a una ristretta classe di professionisti della politica il potere di legiferare e di stabilire i livelli dei bisogni e dei diritti di tutti.
Far rispettare le regole, applicare i diritti, spetta però al gioco delle parti, cioè ai rapporti di forza sociali. Anche per il lavoro dipendente. Dunque il problema di garantirsi gli spazi di libertà reale e di rispetto dei propri diritti il singolo se lo deve risolvere con proprie azioni collettive e individuali.
Le grandi carte dei diritti che sono state scritte nei tempi passati e recenti, dalla Rivoluzione Francese allo Statuto dei Lavoratori, sono state scritte dopo una dura lotta sociale in cui i soggetti hanno espresso direttamente i propri bisogni e disegnato i confini delle proprie libertà.
Non è certo la situazione di oggi.
Se questa “indifferenza alle regole” preoccupa qualcuno, come l’amico Garibaldo, timoroso di una deriva neo-feudale, vorrei rispondergli che il neo-feudalesimo esiste già e che le organizzazioni della sinistra hanno contribuito non poco a consolidarlo.
Se mi risponde che l’affermazione della solitudine dell’individuo dinanzi alle corporazioni esprime una mentalità neo-feudale, vorrei ricordargli la breve e infelice esperienza della Libera Università di Milano (Lumhi), un’associazione i cui membri si erano prefissi lo scopo di arricchire la vita democratica di una città devastata dalla corruzione, dalla mediocrità, dal leghismo, di una città ripiegata su se stessa. Lumhi era l’esempio classico di quella che i tedeschi chiamano una Bürgerinitiative, un’iniziativa di cittadini, di lavoratori indipendenti, che si rimboccano le maniche per creare innovazione culturale e passione civile. Come hanno reagito le corporazioni, sindacato, amministrazioni, associazioni della sinistra di tutte le varianti, cattoliche o neo-comuniste? Con una sorridente tattica di emarginazione, sottraendoci ogni possibilità di sopravvivere, costringendoci a chiudere e tornare a casa, più soli e deboli di prima. Ma la libertà è come l’aria che si respira, va riguadagnata per istinto di sopravvivenza – questa sì è la “felice” costrizione – : l’esperienza di Lumhi ci insegna una vota di più che questa libertà le corporazioni e le consorterie della sinistra sono ben liete di togliercela, se possono.
Perciò, care compagne di “Via Dogana”, ritengo che con questa sinistra nessun dialogo è più da fare. Accettiamo l’idea che da tempo è nato l’ “homo novus”, con una mentalità radicalmente diversa da quella della sinistra, con una diversa e più avanzata percezione della democrazia, del lavoro, della solidarietà, dell’impegno civile. E non crediamo a chi dice che i valori sono gli stessi e che si sono semplicemente “appannati”, non seguiamo chi invoca “il rinnovamento della sinistra”. La sinistra ha cessato di essere un motore della democrazia ben prima del tramonto della società fordista. Oggi è stata chiamata al governo in tutta Europa per fare da ammortizzatore alla crisi economica incombente. Potrebbe dimostrare le sue doti di governo ma è pervasa da un vetero-keynesismo che lascerà dietro di sé soltanto un ben più numeroso e rigido apparato statale. Lavoro salariato nell’amministrazione pubblica, questo è l’orizzonte culturale della sinistra.

Un intervento di Francesco Garibaldo

Il numero di “Via Dogana” sul lavoro e le donne solleva alcune questioni quali il ruolo della soggettività e della produzione simbolica nei processi di cambiamento ed il tema della libertà nel lavoro. Questioni sulle quali non si può che convenire. Non esistono infatti processi di cambiamento reali, anche quando la mediazione fondamentale dell’azione è collettiva, che non nascano da un “sentimento di irriducibilità rispetto allo stato di cose presenti, una costellazione di bisogni insoddisfatti. Un sentimento materialisticamente determinato ma non risolvibile nella struttura della realtà data; una impossibilità ad adeguarsi”. Mi verrà perdonata questa autocitazione ma così scrivevo, a proposito del sindacato, nel 1986 e non ho cambiato idea. Conseguentemente tali sentimenti di irriducibilità per farsi azione, anche nel senso di un sistema di relazioni tra individui, hanno bisogno di rappresentarsi come un mondo simbolico, che struttura la comunicazione e l’empatia tra diversi soggetti, ed anche come un orizzonte simbolico, cioè come progetto che coniuga il piano di vita quotidiana ed i bisogni (che sono qualcosa di più dei desideri). Ed infine non vi è dubbio che nella tradizione del movimento sindacale italiano, ma il discorso potrebbe estendersi a livello internazionale, questo secolo è stato marcato da una lunga fase di tutela del lavoro contro un capitalismo spesso socialmente darwinista piuttosto che nella possibilità di conquistare per il lavoro, nel lavoro un orizzonte di senso ed uno spazio di autodeterminazione. Presenti ed autorevoli sono infine le voci singole e collettive, dentro il movimento sindacale italiano, che ne hanno messo in evidenza i limiti profondi sia sul piano dell’efficacia dell’azione che della capacità di reale coinvolgimento dei singoli, in particolare modo nel corso degli anni ’80.
Se quindi la cifra culturale dello sforzo compiuto mi trova in sintonia non posso evitare di notare begli articoli e nel dibattito che ne è seguito il profilarsi di due diverse sensibilità: l’una tesa a cogliere segnali anche deboli di attività che vadano oltre le debolezze denunciate, l’altra pronta a cogliere nel quindicennio appena trascorso il formarsi di una spinta liberatrice data dal processo di destrutturazione sociale ed istituzionale noto come “liberismo”. La riduzione del peso e del ruolo del movimento sindacale, l’allentarsi delle norme di tutela del lavoro, la caduta di credibilità di pratiche collettive di solidarietà, quali il contratto nazionale ad esempio, tutto ciò visto e vissuto come liberazione da vecchi vincoli, confesso che mi pare un’enormità e mi spaventa. È indubbio che in ogni processo di istituzionalizzazione, nel senso che i sociologi attribuiscono alla parola, è insito il momento della burocratizzazione e quindi della compressione, quando non liquidazione, della soggettività e quindi della creatività e della libertà, ma ciò non implica che la istituzionalizzazione va evitata ma che essa è solo una faccia di un processo, quindi non uno stato stabile. D’altronde i rimedi indicati, la solidarietà di gruppo basata su una qualche forma empatica rappresentata da un simbolico condiviso, scivolano rapidamente verso forme neo-feudali, una società civile cioè frammentata in gruppi che, non disponendo più di un ordine trascendente quale quello medioevale, inevitabilmente sono in lotta continua per espandere “i propri confini”. Dal punto di vista del diritto del lavoro vale quanto affermato da un gruppo di esperti europei: “a fronte di queste trasformazioni, il gruppo di esperti sottolinea la necessità di una duplice scelta: 1. Affermare il principio fondamentale secondo cui le parti in una relazione di lavoro non sono padrone della sua qualificazione giuridica; 2. Estendere con determinazione il campo di applicazione del diritto sociale per comprendervi tutte le forme di contratto di lavoro e non solo quello di stretta subordinazione del lavoratore”.
Fuori da questo quadro ed in particolare da quanto definito dal punto 1, il rischio di una deriva neo feudale è elevatissimo. D’altronde se questo secolo ha costruito una civiltà giuridica ed istituzionale sul lavoro, dove ciò è avvenuto, basata sulla uniformità e prescrittività della norma giuridica e della configurazione istituzionale, non è forse maturo il tempo per pensare a diritto azionabili dai titolari in relazione a condizioni e circostanze mutevoli? Non è forse questo un orizzonte simbolico che attiene alla libertà? Di qui potrebbe iniziare una nuova discussione.

 

Dino Leon

Cerco di spiegare meglio quel che ho detto all’incontro di “Via Dogana” sul lavoro di cui ha parlato Manuela Cartosio nel manifesto del 29 ottobre scorso. Tra “libertà” e “soggettività” da una parte e “rappresentanza” e “quantità” dall’altra, c’è il lavoro femminile (e le relazioni fra donne). C’è, però, anche la vita, lo star bene in allegria, l’intonazione generale dell’umore, la pratica della differenza, il riconoscimento reciproco di donna e uomo. E’ nel lavoro che si fa principalmente la pratica della differenza. Un altro buon motivo della sua centralità. Senza la pratica della differenza nel lavoro, prevale lo “schiacciamento” (alienazione, sradicamento, chiacchiera).
Il lavoro sale al di sopra di tutte le sue determinazioni particolari (i lavori). Il lavoro è, un “esistenziale” (o meglio uno dei contenuti dell’esistenziale “disposizione” ad essere gettati nel mondo che preesiste), agito dalla tensione fra la Cura e la Tecnica. I lavori possono essere rappresentati e di fatto lo sono. Il lavoro non può mai: non si dà rappresentanza né dell’essere né della vita. Il lavoro appartiene alla pura soggettività.
Le donne di Via Dogana – mi sembra – propongono di rimettere al centro soggettività pura del lavoro, attraverso la pratica delle relazioni e del partire da sé. E di meglio articolare direttamente il
lavoro nei lavori; direttamente, ciò senza quelle mediazioni che hanno cancellato ormai quasi del
tutto la presenza del lavoro nei lavori. Lavori senza rappresentanza, o con meno rappresentanza.
Cioè: con meno alienazione. I lavori autonomi sono precisamente quelli che si prestano meglio a garantire “la qualità delle relazioni come barriera al l’alienazione “. Prototipo dei lavori autonomi, il lavoro femminile o meglio l’idea che le donne si fanno del lavoro che desiderano fare.
Questo indiscutibilmente è vero. Naturalmente a condizione che si differenzino lavori “scelti” da quelli “subiti”, cioè – direi io – i lavori ricchi da quelli poveri. Poveri di tutto: di soggettività, di senso, di autonomia, di relazioni. In tutto simili al lavoro subordinato (lavori parasubordinati).
Ho mantenuto il singolare per il lavoro subordinato perché è l’antitesi speculare del lavoro di cura e tecnica. E’ il non-lavoro. Il lavoro da rifiutare (sciopero).
Garantire la qualità delle relazioni è dunque possibile principalmente per i lavori autonomi ricchi. Ricchi di cosa e perché? Ricchi di vicinanza al lavoro in sé, come esistenziale. Tecnica bene integrata nella vita, relazioni possibili perché libere. Soggettività operante. Alienati anch’essi (e qui
scandalo nell’uditorio). Sono alienati nell’essere pochi e nell’essere legati al mercato che resta il mercato del lavoro-merce.
Partendo da queste idee delle donne, si capisce che eliminando ciò che sta di fronte al capitale-merce (i lavori rappresentati, i sindacati, le leggi che creano diritti, i diritti che si acquisiscono senza leggi), eliminando tutto ciò – dicevo – si ottiene oggettivamente una situazione di minore alienazione del lavoro. E questo perché, a rigor di logica, l’antitesi difensiva al capitale-merce, poniamo il sindacato, anch’essa alienata. Minor rappresentanza, più soggettività, dunque minore alienazione.
Apriti cielo (Cartosio nel Manifesto del 29 ottobre). Discussione-refutazione dei sindacalista Garibaldo: nel sistema/modo del capitale la rappresentanza sta prendendo piede. Non è la soggettività ad avvantaggiarsene, è il sistema dei diritti che subisce la compressione. Non di meno, la soggettività è una risposta, forse la principale, al declino della rappresentanza nella mondializzazione. Se non si sviluppa il sistema delle reti di relazioni fra donne e fra uomini, torna Hitler. Insomma: siamo effettivamente in presenza di una contraddizione che nasce da un fatto storico (la Rivoluzione Francese del 1789 e seguenti): sia l’antitesi al capitale/merce che si dà nella rappresentanza sindacale, sia l’antitesi al potere ripieno di sé stesso che si dà nella rappresentanza democratica, non sono creazioni di soggettività, del soddisfacimento dei bisogni per un’esistenza più libera e umana, ma sono mediazioni fra nemici mortali: il capitale e il lavoro; il padrone e lo schiavo; il ricco e il povero; il potere e il soggetto; lo stato e l’antistato. Mediazioni che stanno portando all’estinzione progressiva della vita sul pianeta.

E’ chiaro che una rappresentanza senza diritti si sarebbe presto consunta. Ecco dunque che la mediazione ci ha dato i diritti della rappresentanza. Se ci riprendiamo soggettività, modificando i termini di scambio nella mediazione, essi si riprenderanno i diritti, il potere tornerà a generare mostri e scadrà, svuotata, la rappresentanza. Cartosio presenta questa eventualità come una catastrofe. La buona filosofia ci insegna che la catastrofe sta a monte, sta nell’usura irrimediabile delle mediazioni dell’89 che si trascina dietro il sistema della rappresentanza, e, dei diritti. Ogni analisi femminile porta a queste. conclusioni (Es. Marangelli in n.17/18, Via Dogana 1997).
Se dunque è possibile uscire dalla contraddizione, è però necessario modificare la mediazione attuale in cui la soggettività del lavoro/cura e del lavoro/tecnica è irrisoria e ridicola.
Le donne di Via Dogana non lo dicono, ma il cuore della nuova mediazione dovrebbe essere la scomparsa del lavoro subordinato, ciò la generalizzazione dei lavori autonomi, il lavoro dei soggetti in relazione tra loro.
Ora, mentre i lavoro autonomi poveri possono fino a un cero punto essere arricchiti, il lavoro subordinato in rapida contrazione, resterà sempre uguale a sé stesso, una semplice rappresentazione del salario di sussistenza. Resta perciò da stabilire come trasformare il lavoro subordinato in lavori autonomi poveri e questi in autonomi ricchi.
Anche a me sembra che la trasformazione passa dunque attraverso aggregazioni.
Perché, sono irriducibili la logica delle donne e quella della rappresentanza? Vaso pieno e, vaso vuoto. C’è al fondo una diversa concezione di democrazia. In una, il potere in democrazia è dato una volta per tutte, (dalle condizioni materiali dell’esistenza, nel modo di produzione). Tutto quello che si può ottenere è di farlo controllare al meglio da una rappresentanza di eletti. Democrazia vaso pieno, 1789. La democrazia di seconda generazione nasce dalla pratica delle donne e dal negativo dell’esperienza tedesca 1918/1945. Il potere in democrazia è un vaso vuoto i cui contenuti sono da versare dentro nello scontro libero di interessi su un piede di uguaglianza. Il vaso vuoto è di nessuno, non di maggioranze, i partiti. La sola mediazione accettabile è lo stato neutrale nel modo di produzione e redistribuzione (welfare), garante della parità degli interessi. La rappresentanza scade di importanza e ne acquisisce molta la rete di relazioni dirette fra donne e fra uomini. Emblematici della vecchia concezione il parlamento, le leggi e i diritti. Della nuova, accanto al rifiuto collettivo concordato del lavoro (subordinato) da estendere ai lavori autonomi, l’accettazione collettiva concordata dei lavori.

Alberto Leiss

E se il conflitto prossimo venturo, nell’universo del lavoro, fosse quello tra donne e uomini, più che il tradizionale – peraltro assopito, rimosso, o apertamente negato – tra dipendenti e “padroni”, insomma tra le classi? A sostenerlo, sulla base di un lavoro di riflessione, ricerca e discussione aperto da quasi otto anni in un gruppo “ad hoc” è Lia Cigarini, esponente storica della Libreria delle donne di Milano, quindi di un filone determinante del -femminismo italiano. In un breve saggio che apparirà sul prossimo numero della rivista “Democrazia e diritto” (interamente dedicato al lavoro), Cigarini parte dall’avvenuta femminilizzazione del mercato del lavoro nei punti più alti dello sviluppo in occidente. Se in America due terzi delle nuove imprese sociali sono prevalentemente femminili, in Europa sono quasi la metà. Anche nella più “arretrata” Italia le nuove occasioni di lavoro – sia autonomo, sia dipendente sono a prevalenza o a forte presenza femminile, soprattutto nelle aree del Nord. Ma non si tratta di un dato solo quantitativo.
Molti racconti dal mondo delle donne che lavorano, e alcune ricerche, dicono che dopo la presa di coscienza femminile nel rapporto “privato” con l’altro sesso, una rivoluzione di portata simile a quella che ha sconvolto coppie e famiglie, stia covando nelle fabbriche e negli uffici.
Le donne rifiuterebbero la “misura” dominante e maschile del lavoro: maggior guadagno, carriera, competizione sfrenata. Cercano invece più agio, qualità e senso del lavoro, relazioni interpersonali più soddisfacenti, tempi più elastici. La predilezione per il part-time, la ricerca di mediazioni per tenere insieme tempo di vita e tempo di lavoro, la scelta di fare meno figli, sono altrettanti indizi di questa “differenza”.
“Non sto negando la fatica, lo sfruttamento e la sofferenza delle donne al lavoro”, avverte l’autrice, già bersaglio di critiche da parte di chi sottolinea gli aspetti di subalternità delle donne che cercano di accedere al mercato. “Ma chi applica meccanicamente le categorie della discriminazione, della marginalità, della disoccupazione”, non vede e non capisce che “questo è il cambiamento centrale della nostra società”.
La sofferenza delle donne, semmai, è dovuta al modo di lavorare dominato dal modello “maschile”, alienato, gerarchizzato e competitivo. Si spiega così il proliferare di piccole aziende, cooperative, associazioni di professioniste (avvocate, architette, consulenti ecc.) oppure di operatrici nei servizi di cura di maestre, comunque formate da sole donne o da qualche uomo che accetta l’avventura di un mondo per lui un po’ “alla rovescia”. Questa connotazione di un grande che cercano di reinserirsi nel mercato mutamento – chiamato post-fordismo o più recentemente “new economy” – fatto anche di grandi sofferenze, e di una crisi profonda degli strumenti sindacali della contrattazione collettiva, e di gran parte dell’armatura normativa del mercato del lavoro, è stato al centro di un convegno organizzato l’altro ieri a Verona. Per iniziativa, non a caso, di una cooperativa gestita da donne, la Mag (Società Mutua per l’Autogestione) nata nel ’78 e “erede” di una storia che risale alle prime società di mutuo soccorso della seconda metà dell’800. Attorno alla Mag sono cresciute in questi anni 250 altre imprese “non a scopo di lucro” nel campo dei servizi, dell’agricoltura, e anche in qualche caso industriale. Ragazze molto giovani di associazioni “Onlus” come “Le fate” o “Stanze diverse”, che si occupano di bambini bisognosi di assistenza educativa, in gran parte figli di immigrati. Donne mature – è il caso, della “Davas” di Verona – che cercano di reinserirsi nel mercato offrendo servizi alle famiglie (“E’ stato un boom.. “). Ma anche cooperative come la “8 marzo”: dalla fine degli anni ’70 impegnata in un difficile recupero di terre incolte, oggi tenta la strada dell’agriturismo (qui metà sono donne, metà, uomini), o come quella coop metalmeccanica che ha aumentato da 20 a 64 i propri soci lavoratori grazie all’autoinvestimento iniziale e al coraggio di separarsi da un “padroncino” con cui non si andava d’accordo (qui le donne sono solo 7). C’è anche una signora nigeriana – molto applaudita – che parla della cooperativa “Extra-donna”: alcune immigrate che si sono messe insieme per offrire “pulizie e facchinaggio”, poi si sono accorte di essere state anche insegnanti nella loro Africa e sono riuscite ad avere dal comune una stanza (che sicuramente sarà tenuta “pulita”…). Dove insegnare ai figli di africani nati in Italia qual è la loro cultura di origine.
Tutte storie sorrette da una forte “ricerca di senso” nel lavoro, fatte di sacrifici economici, di soddisfazione, ma anche di difficoltà e fallimenti. Sorprende – anche qui – una generale richiesta di “flessibilità”.

Ecco la scommessa di questo discorso: che la femminilizzazione e l’autonomizzazione del lavoro producano una nuova leva per la ricerca di libertà e di minore alienazione, anche attraverso nuove forme di autorganizzazione e di autotutela. “Se il tempo di lavoro è tempo di vita – dice Loredana Aldegheri, della Mag, riprendendo l’analisi di Lia Cigarini gli affetti le relazioni, la loro qualità, entrano decisamente nell’ambito del lavoro. Allora la qualità del lavoro dipende dalla qualità delle relazioni”. Relazioni anche conflittuali, ma secondo quel modello di conflitto che si attribuisce alle donne, non “distruittivo” nei confronti dell’altro. Una possibile via di reazione “molecolare”, qui e ora, agli effetti negativi di quella “necessità” capitalistica globale che sarebbe illusorio negare, o pensare di sovvertire – come ha dimostrato la storia – per via “statale”.

La vostra critica alla democrazia formale sfocia quasi nel rifiuto dei principi e delle pratiche della democrazia rappresentativa. Non ti sembra un azzardo, visto che nel sindacato si stenta persino a praticare il principio “una testa-un voto”?

E’ in crisi tanto la rappresentanza politica che quella sindacale. Diminuiscono le iscrizioni, come pure la partecipazione alle assemblee e ai referendum. Nel mio lavoro di sindacalista io non coincido con l’organizzazione, parto dalla relazione tra donne. Questa pratica, che pone domanda sul senso del lavoro, produce modificazioni, è più efficace di riti sempre più disertati. L’assemblea è un’occasione per ascoltare. Da sola però non basta, vanno inventate altre occasioni di incontro fuori
dal luogo di lavoro.

 

Dilaga la contrattazione individuale, agita sia da donne che da uomini. Un fenomeno positivo secondo il vostro gruppo. Ma se si perde la dimensione del collettivo, che ci sta a fare il sindacato?

 

L’ingresso in massa delle donne, nel lavoro è un fatto dirompente e rivoluzionario che non lascia niente di inalterato. Ha la stessa portata storica del passaggio dall’agricoltura all’industria. La cosa non è riducibile a numeri, a quantità. Le donne arrivano nel lavoro avendo già maturato una presa di coscienza, avendo già cambiato modo di pensarsi. Prima una donna smetteva di pensarsi casalinga soltanto quando diventava operaia o impiegata, adesso non si pensa casalinga a prescindere.
Le donne portano nel lavoro una domanda di senso che modifica anche la contrattazione. Contrattano moltissimo su base individuale e producono modificazioni per loro positive. In parallelo, continua a esserci una domanda di contrattazione collettiva. Io sto in un mondo dove convivono queste due esigenze e non vedo perché debba precludermi l’una o l’altra.

 

Le due cose non vanno insieme: più cresce la contrattazione individuale, meno resta da contrattare collettivamente. Aggiungi il non trascurabile particolare che l’impresa ha tutto l’interesse a frammentare, dividere quel che una volta era unito.

 

Io non la vedo tutta questa grande voglia dei padroni di fare la contrattazione individuale. Ci sono giovani che contrattano al meglio per sé e dopo qualche mese vanno in un altro posto, lasciando il vecchio padrone con un palmo di naso. Questa mobilità per scelta preoccupa i padroni, la contrattazione individuale produce squilibrio. Ecco perché, semmai, spesso sono i padroni a chiedere la contrattazione collettiva.

 

La legge non serve, dite. E’ la pratica tra donne che cambia la realtà e i soggetti. A ben vedere non ne fate una questione sessuata, dite che le leggi non servono neppure per il lavoratore maschio. Di qui il rifiuto delle 35 ore per legge.

 

Si continuano a invocare nuove, regole, nuove leggi. E’ la spia che qualcosa non funziona. La legge non risolve il problema, non doma una realtà che va dalla parte opposta a quella sancita dal diritto. Prendiamo, per esempio, la legge 626 per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Ora c’è, ed è una buona legge. Eppure gli infortuni continuano a succedere, le morti bianche non diminuiscono. Diminuiranno soltanto se cambieranno i comportamenti di lavoratori e lavoratrici. E i comportamenti cambiano non per legge, ma se si prende coscienza di sé e dei valore del proprio corpo e della propria salute. Ancora: lo statuto dei lavoratori riconosce il diritto all’assemblea retribuita. Come la mettiamo, allora, con i lavoratori del macello che l’assemblea non la vogliono I
fare per non precludersi la possibilità di fare gli straordinari? Sono gli uomini a fare gli straordinari, mentre le dorme praticano tutte le, forme possibili di riduzione dell’orario.

 

E’ vero: non c’è una spinta dal basso per le 35 ore per legge. Proprio per questo dovresti almeno essere d’accordo con una legislazione che penalizzi gli straordinari, che li faccia costare di più.

Neppure quella funzionerebbe. C’è, una domanda enorme di straordinario in nero da parte di operai. Poiché le fabbriche non si possono militarizzare, la legge sarebbe facilmente aggirata.

 

Per riassumere in una battuta la nostra diversità di opinione direi che a te paiono buone cose che a me paiono pessime e che non riesco a considerare buone solo perché le donne scelgono (ma fino a che punto?) di farle. Detto brutalmente: mi pare che per voi il bene del mercato e dell’impresa coincida con il bene dei soggetti al lavoro.

 

Se si continua a dire che l’impresa sfrutta i lavoratori, se del lavoro si continua a vedere soltanto l’alienazione, non si va da nessuna parte, si continua a piangere. Se, invece, si comincia a pensare che l’impresa è una risorsa per il lavoro, si fanno passi avanti. Certo, il lavoro va interrogato, solo se agisce la domanda di senso si producono trasformazioni, guadagni di libertà. La libertà nel lavoro obbliga sia le donne che gli uomini a ripensarsi. Solo così si ottiene qualcosa anche sul versante della giustizia sociale.

Iaia Vantaggiato

Cosa accade quando l’esortazione a Non credere di avere dei diritti si specifica nell’invito più puntuale a non credere di avere dei diritti del lavoro? Ovvero, cosa accade quando il rifiuto del miserabilismo femminile – e, con esso, delle norme di tutela considerate necessarie al suo superamento – si estende all’ambito del mercato del lavoro e lì si trasforma in liquidazione di qualsivoglia miserabilismo, essendo diventato il devenir femme da travail un movimento cui partecipano, in egual misura, uomini e donne?
Si può essere o meno d’accordo con le tesi espresse dal gruppo milanese di riflessione sul lavoro che fa capo alla rivista Via Dogana ma non si può, di quelle tesi, denunciare l’assenza di radicalità. Soprattutto quando per pensiero radicale s’intenda un’interrogazione della realtà tesa a capovolgerne il senso dato e a svelarne gli aspetti nascosti: potenziali grimaldelli teorici per comprendere ciò che invece, pur essendo alla luce, chiaro non è.
Nella fattispecie: non c’è chi non veda le trasformazioni subite dal lavoro, dalla flessibilizzazione della manodopera al tramonto delle manifatture tradizionali. Sono prodotti, tali mutamenti, dalle sole astuzie del capitale o dietro di essi è possibile scorgere il riverbero di una qualche libera scelta? Alla flessibilità siamo semplicemente costretti – pena l’esclusione dal mercato del lavoro – o ad essa ci capita, talvolta, di aderire per desiderio autonomo? La fine della “grande fabbrica” reca con sé soltanto lutti – diritti e garanzie di welfare in congedo – o apre alla possibilità di nuove forme di valorizzazione del lavoro?
Si tratta di mutamenti complessi e dolorosi che non ammettono semplificazioni teoriche: limitarsi a definirli positivi o negativi non ne facilita la comprensione. E si tratta, altresì, di domande alle quali non è possibile rispondere se non partendo da quella “soggettività messa al lavoro” nella quale sembra risolversi, oggi, l’erogazione stessa della forza-lavoro. Ciò che s’impone è nient’altro che un’interrogazione di senso: lo stesso che uomini e donne cercano nel lavoro, quello che Via Doguna individua nella libertà.
Quanto è, in contrasto, quest’ultima, con il sistema dei diritti? Si pone veramente, la questione, nei termini di un aut-aut? Può il diritto inibire, la libertà individuale?
Sì, quando rifiuta di prendere atto delle trasformazioni e dei nuovi rapporti di forza (oggi, è vero, pericolosamente sbilanciati a favore del capitale). E’ sulla base di questa considerazione – e di fronte all’attuale frammentarsi del soggetto lavorativo – che lo stesso Statuto dei lavoratori pensato sul modello del lavoratore subordinato, a tempo indeterminato e full-time, viene oggi messo in discussione da giuslavoristi (maschi). E’ il medesimo meccanismo, in fondo, che spiega la crisi del sistema di welfare, un sistema fatto a immagine e somiglianza dell’uomo ma realizzato grazie al lavoro delle donne (e la denuncia delle ambiguità insite nel welfare è, – grazie, tra gli altri, agli studi di Antonella Picchio, Adele Pesce, Grazia Saraceno, Laura Balbo, nomi non in odor di differenza – patrimonio comune del pensiero delle donne. O lo era?).
Non sono solo le donne, a quanto pare, a desiderare lo scioglimento delle catene giuridiche: la critica ad una politica (e ad un diritto del lavoro) che ha come oggetto il solo lavoro subordinato – e, a cui Via Dogana la esplicito riferimento – è, ormai ampiamente condivisa. La stessa crisi della rappresentanza sindacale non può essere addebitata al venir meno della conflittualità femminile nei luoghi di lavoro, alla passiva cedevolezza nei confronti delle richieste del capitale di cui le donne sarebbero colpevoli. Affonda le sue radici, quella crisi, proprio nella frammentazione e moltiplicazione dei soggetti del lavoro e nell’emergere di un ventaglio di nuove figure la cui aggregazione appare problematica.
Un garantismo uguale per tutti e tutelato dalle grandi confederazioni non è più praticabile per nessuno (al pluralismo delle forme lavorative dovrebbe corrispondere, piuttosto, un pluralismo decisionale, una cornice istituzionale in grado di favorire l’autodeterminazione individuale altrimenti impensabile). In tal senso le donne, congedando non solo come insensate ma soprattutto come inefficaci le forme di lotta tradizionali (che, pensate da e per gli uomini nemmeno più agli uomini paiono adeguate), si fanno interpreti di nuove forme di conflittualità.
Che passano attraverso il rilancio di una dimensione non astratta né solo quantitativamente misurabile del lavoro stesso. Detto altrimenti: la potenza espressa da desideri, pulsioni, affetti e relazioni messe al lavoro è sempre eccedente, rispetto all’ordine capitalistico ed è, pertanto, immediatamente produttrice di conflitto e di trasformazioni.
Certo, l’esito di nessuna lotta appare oggi scontato tanto più che mai il bene del mercato può coincidere con il bene dei soggetti che lavorano. Il punto è che per farsi gioco delle leggi del mercato è d’obbligo scartarle. E spostarsi dal piano della necessità – cui il mercato appartiene – a quello della libertà.

Lia Cigarini e Maria Marangelli

Per storia personale siamo sempre state attente alla riflessione e alle lotte del lavoro.
Negli ultimi anni molte donne sono state coinvolte in questa riflessione, convinte che conosce il lavoro chi ha esperienza del lavoro e rompendo con l’idea che esso sia materia di esperti e sindacalisti/e.
È iniziata così la narrazione del lavoro a partire dall’esperienza femminile.
Siamo dunque partite dal ripensare il senso del lavoro, più precisamente la ricerca di senso delle donne e degli uomini nel lavoro, alla luce dell’esperienza femminile, ma per parlare del lavoro di donne e uomini. Il pensiero della differenza parte, infatti, dalla differenza femminile per mostrare che la realtà è fatta di donne e uomini. Mentre prima si faceva un discorso universale, ma si trattava soprattutto di uomini.
Si è parlato, a fronte della crescente e qualificata presenza femminile nel lavoro, di nascita collettiva nel fare mondo, non per dire che il fatto di lavorare sia, in sé, positivo per le donne (il lavoro in sé non è né buono né cattivo). Fondamentale è, invece, il senso che viene dato al lavoro dall’insieme dei rapporti umani e non meno fondamentale per quanto in sé esigua, è la risposta della singola/o, senza la quale l’opera simbolica non approda a nulla.
Se non si considera questo aspetto del senso, cioè la realtà umana implicata nel lavoro, se non la si considera con la necessaria attenzione, il lavoro diventa un’entità astratta, misurabile solo quantitativamente.
Al contrario, con l’interrogazione di senso, si vuole far venire fuori il significato del lavoro per chi lavora e far venir fuori da qui che cosa è il lavoro prima che si sovrappongano le definizioni di economisti, giuristi, sindacalisti, ecc. (la cui intelligenza teorica a pratica è preziosa se viene seconda rispetto alla ricerca di significato delle persone in carne e ossa).
La prima cosa da dire è che la femminilizzazione del lavoro non è prodotta dal mercato, ma viene da un’autonoma volontà femminile che ha saputo sfruttare le modificazioni del lavoro in corso: le donne sono infatti aumentate nel terziario avanzato, nel lavoro autonomo, nei cosiddetti “nuovi lavori”, ecc. Si è scoperto poi che, almeno in Lombardia e nel Veneto, nelle grandi imprese le donne tendono a collocarsi nei settori di ricerca o là dove è richiesta competenza professionale più che nei posti di alta competitività, meglio remunerati ma più logoranti. Oppure si tratta di lavoratrici autonome che tendono ad associarsi in microimprese, in cooperative sociali, in studi professionali di sole donne, ecc. Oppure nella scuola, nei servizi sociali, nell’assistenza. Probabilmente per poter lavorare secondo una propria misura.
Statisticamente considerata, tuttavia, la situazione sembra configurare più che il libero gioco della differenza una nuova e più qualificata divisione sessuata del lavoro.
Non ci basta. C’è qui un nodo di contraddizioni, di conflitto tra i sessi, c’è un evitamento dello schiacciamento maschile ottenuto rifugiandosi nella competenza delle relazioni e nella misura piccola.
La presa di coscienza deve partire da questa contraddizione. Allora, di tutta la ricerca del nostro gruppo ci interessa, in questo testo, sottolineare la critica ad una politica che ha come oggetto solo il lavoro subordinato e basata sulla riduzione per legge dell’orario di lavoro. Sul risarcimento in soldi per un lavoro inevitabilmente eterodiretto.
Secondo tale politica il lavoro alienato ed eterodiretto sarebbe ineliminabile.
Sembra, invece, di poter affermare che le donne non si consegnano interamente alla misura del denaro, né a quella della carriera, ma portano al mercato tutto, cioè anche la qualità delle relazioni sul posto di lavoro, la risposta degli altri e delle altre alla propria presenza, i risultati qualitativi del proprio lavoro. E la compatibilità dell’impegno di lavoro con le esigenze affettive.
Risulta centrale, quindi, la qualità dei legami e delle relazione per una soddisfacente qualità del lavoro, la qualità delle relazione come barriera all’alienazione.
Se tutto questo resta una caratteristica diffusa, ma inespressa, se non diventa base per una teoria del lavoro di uomini e donne, il modo di lavorare femminile diventa attitudine femminile alle relazioni, fatto caratteriale. Capita, così, lo “scippo” del di più femminile, che è sapere delle relazioni, da parte dell’impresa.
Su questo terreno ci troviamo in conflitto frontale con quegli interpreti del lavoro che leggono la differenza portata dalle donne in termini di eccesso di arrendevolezza e di flessibilità, di poca propensione a premere per gli aumenti salariali. L’accusa, poi che certi sindacalisti/e fanno alle donne di essere poco conflittuali sul lavoro e di peggiorarne quindi le condizioni in realtà è una accusa fatta alle donne stesse di non volere spogliare della loro differenza per piegarsi ai tradizionali schemi di lotta e di organizzazione, pensati da uomini per gli uomini.
Anche nel lavoro, infatti, lo abbiamo detto, c’è il conflitto tra i sessi.
La presenza irreversibile delle donne nel lavoro, tra l’altro, è un sintomo della modificazione del rapporto tra i sessi.
Da quello che a noi risulta, le lavoratrici ma anche i giovani adottano una conflittualità a livello di scambi quotidiani. C’è una valutazione continua su quali sono le cose in gioco, per cui valga la pena di far saltare la mediazione, su quali no. C’è molta contrattazione individuale o di gruppo sui tempi di lavoro, mobilità, ecc. Vi è una forte difficoltà a riconoscersi nelle piattaforme generali e da qui la tendenza diffusa a sottrarvisi. Da qui il fatto che si sciopera sempre meno e chi sciopera la fa più in virtù di una memoria storica che per un reale convincimento sull’efficacia dello strumento di lotta.
Si tratta, quindi, di dare spazio ad una contrattazione decentrata e differenziata dove si possono esprimere i nuovi bisogni e nuove forme associative, se necessario, invece che demonizzare la flessibilità femminile.
Non ci soddisfa neppure la posizione di chi afferma che la libertà del lavoro si possa assicurare con la proclamazione di un corrispondente diritto civile universale.
A parte la nostra convinzione che la libertà non è riducibile al sistema dei diritti, per quanto riguarda in particolare la libertà nel lavoro, pensiamo che la messa in campo dei diritti tenda a coprire la mancanza di una pratica politica per affrontare i problemi che si presentano.
Dunque, occorre trovare pratiche politiche per creare libertà. C’è la strada della presa di coscienza che è efficace perché dà forza personale, lucidità e rende capaci di relazioni. La relazione è, a sua volta, modificatrice della realtà in senso sia soggettivo che oggettivo. È l’invenzione di regole elastiche, trovate dalle persone nei contesti di lavoro, pensate in contesto e quindi rispondenti alle esigenze degli interessati. Non c’è libertà se le sue garanzie sono fissate dall’esterno.
La libertà nasce da invenzioni, da aperture che sciolgono vincoli non indispensabili. Il mondo del lavoro è un mondo con molte costrizioni dovute alla natura stessa del lavoro e quindi è impossibile che vi si introduca libertà dall’esterno.
Vorremmo con questo testo aprire una discussione su quale sia la pratica che può rispondere ai problemi della libertà del lavoro.

Nota: sul tema della libertà nel lavoro e dello sconvolgimento che l’espandersi del lavoro autonomo comporta nella percezione del tempo e dello spazio, ci sono stati utili Bruno Trentin, La città del lavoro (Feltrinelli, 1997) e Il lavoro autonomo di seconda generazione, a cura di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli (Feltrinelli, 1997).

Intervento del Gruppo Lavoro di Milano al convegno Luhmi 1997

Moltissimi lavoratori, anche dipendenti, soffrono di una realtà fatta di solitudine, di difficoltà di relazione con chi svolge lo stesso tipo di lavoro.
Il convegno di Luhmi del 1997 ha inoltre messo in luce che i lavoratori autonomi in molti casi si trovano in concorrenza tra di loro. Tutto ciò è causa di una debole capacità contrattuale e di una diffusa condizione di subalternità e di sfruttamento, soprattutto nel caso dei lavoratori autonomi di seconda generazione, ovvero i lavoratori che hanno prevalentemente un unico committente.
Il nostro è un gruppo di lavoratrici autonome e non che riflette sul lavoro che cambia e sulla sua femminilizzazione. Nei nostri incontri siamo arrivate alla conclusione che la discussione sulle forme associative deve partire dalla distinzione tra lavoro autonomo scelto, con i vantaggi e rischi che comporta, e lavoro autonomo subìto. Piccoli imprenditori e artigiani da una parte, e lavoratori parasubordinati dall’altra, per citare i due estremi, a nostro avviso non hanno molto in comune. Bisogna tenere assolutamente conto di questa diversità. Perché non solo tali lavoratori fanno lavori diversissimi fra di loro, ma hanno anche un atteggiamento mentale e una cultura del lavoro molto diversa. Il grado di diversità è stabilito dalla quantità di decisioni autonome che essi possono prendere. Al fine di creare una cultura del lavoro autonomo, è indispensabile una riflessione di ciascuno/a su che cosa si vuole essere: lavoratrice autonoma a tutti gli effetti, oppure parasubordinata. Perché solo da questa riflessione può dipendere una scelta rigorosa delle forme di coalizione.
Quindi: quali forme di aggregazione e coalizione il lavoro autonomo, sia quello scelto che quello parasubordinato, può creare?
La nostra convinzione è che si deve puntare sulla autotutela. Perciò bisogna che la forza nella contrattazione provenga da te stessa/o e dalla qualità delle relazioni associative che si riesce a stabilire – cioè il contrario della delega di tipo sindacale che prevede un gran numero di iscritti all’organizzazione e pochi dirigenti che trattano a loro nome. Ciò significa che se si vuole pensare a forme di autotutela del lavoro autonomo, questo va fatto al di fuori della logica della rappresentanza. Questa impostazione, a nostro parere, vale anche per il lavoro autonomo parasubordinato.
La rappresentanza, infatti, è ormai in crisi anche per il suo beneficiario tradizionale – il lavoro dipendente – e la crisi della rappresentanza sindacale sta nel fatto che si continua a pensare agli operai come a una realtà sociale omogenea, quasi seriale, mentre questo non è più vero da tempo. In secondo luogo, se mai è stato vero per gli operai, non lo è sicuramente – anzi la cosa non è nemmeno pensabile – per il lavoro autonomo.
Questo perché il lavoro autonomo, non essendo riconducibile a un tutto omogeneo, non è riducibile a quantità e non ha necessità di rappresentanza (in politica le cose di cui non c’è necessità non camminano e cammina solo il potere). Il sindacato inoltre ha la pretesa di essere l’unico rappresentante del lavoro. Non vorremmo prevalessero delle organizzazioni del lavoro autonomo parasubordinato strutturate come i sindacati di categoria o appoggiati ad essi. L’associazionismo del lavoro autonomo in parte è già plurale e sperimentale, e tale deve restare nei suoi sviluppi futuri.
Si può intervenire finalmente con la nostra esperienza di aggregazioni femminili non basate sulla rappresentanza, né sulla organizzazione rigida del movimento operaio tradizionale.
Possiamo dire, grazie alla politica delle donne, che si può andare oltre la rappresentanza, senza sentire la necessità di salvarla – le ragioni di questa crisi sono tali da non invitarci a farlo. Molte situazioni nei campi più diversi, dall’università all’esperienza di lavoratrici autonome associate, testimoniano già questa possibilità di andare oltre la rappresentanza, aumentando la propria forza.
Anche le donne prima di diventare un movimento, erano sole, molto diverse per età, ceto sociale, luoghi di provenienza e, spesso, anche rivali. Ma ciò che le ha spinte ad aggregarsi e a modificare le forme della politica, è stato il bisogno e il desiderio di incontrarsi, di raccontarsi le proprie esperienze più profonde, mai narrate prima di allora, liberamente, in piccoli gruppi. Certo in comune c’era l’oppressione patriarcale, ma la forza che si acquisiva e che si è acquisita da questo entrare in relazione l’una con l’altra, è stata quella della scoperta della propria singolarità e l’uscita dall’anonimato della propria singolarità. Non c’è stato bisogno di organizzazioni unitarie e partiti delle donne, né di una pratica di rivendicazione nei confronti del potere politico. C’è stata invece e soprattutto presa di coscienza e modificazione soggettiva nel rapporto con la realtà, modificazione della realtà stessa attraverso la migliore qualità delle relazioni scambio, necessarie per acquisire forza e valore. La intensificazione degli scambi modifica gli individui nel senso di renderli più consapevoli di sé, quindi più forti nel rapporto con il mondo. Cresce, quindi, anche la loro forza contrattuale.
Occorre perciò più narrazione e più rappresentazione, piuttosto che rappresentanza. È questa la politica del simbolico, che non conta sul fatto numerico, ma sulla qualità delle relazioni e sulla presa di coscienza di sé, dei propri desideri e dei propri problemi. È dalla conquista di un linguaggio originale, non più preso a prestito dal lavoro dipendente con la sua storia peculiare. Il confronto tra capitale e lavoro, se accettiamo questo linguaggio, domanda da parte del lavoro, non solo forza per resistere, ma anche creatività sociale, nel senso di nuove differenze, nuovi linguaggi e nuove forme di coscienza, nella maniera più spregiudicata.
Le donne hanno tenacemente voluto conservare nel tempo la formula politica vincente del partire da sé e dal mettersi in relazione con l’altra/o. Gli effetti sul piano della libertà femminile sono sotto gli occhi di tutti/e. Quelli che insistono con le quote e con altro per rimpolpare la presenza femminile nelle strutture della rappresentanza non capiscono che c’è un’indisponibilità di fondo delle donne a rinunciare alla propria singolarità e alla qualità delle proprie relazioni di scambio in nome della serialità della rappresentanza. La stessa indisponibilità delle donne alla organizzazione e alla rappresentanza si riscontra anche tra i lavoratori autonomi, specialmente tra i più giovani. La cosa non sorprende pensando a questo tipo di società di cui si dice che sia malata di individualismo, ma di cui forse dovremmo riconoscere il valore della singolarità personale, risorsa personale che non esclude la dimensione collettiva, basti pensare allo sviluppo della cooperazione e della mutualità.

Paola Plet e Donatella Barberis

A partire dagli anni 60 in tutta Europa si inizia a registrare la presenza significativa delle donne nel mercato del lavoro e da allora questo dato si è mantenuto con andamento positivo e in continua crescita, tale da far dire che “l’aumento della popolazione attiva in Europa almeno da dieci anni, riposa sull’esplosione dei tassi di attività delle donne ..”

Lo stesso dato proviene dagli USA. La rivista Economist in un articolodi fine 1996 intitolato Tomorrow’s second sex , dice che si può prefigurare in un prossimo futuro una sorta di sorpasso delle donne nel mercato del lavoro a scapito degli uomini.

Per ritornare alla nostra realtà europea e italiana e all’oggi, certamente il dato di crescita dell’occupazione femminile è davvero rilevante.
Il primo motivo di rilevanza del fenomeno è dato dal fatto che la presenza sul mercato del lavoro e la piena attività avviene in quelle classi di età da 25 a 49 anni, coincidenti con l’epoca della riproduzione e della cura figli che hanno costituito un fattore di esclusione per l’accesso al lavoro.
Attualmente,e questa è una tendenza che si mantiene da circa 10 anni, sono queste le classi di ètà in cui si incontrano i più alti tassi di attività delle donne; questo ci dice che sempre meno per le donne risulta discontinuo il percorso lavorativo nell’età della maternità.

Un altro motivo di attenzione a questo dato di crescita è che non ha subito una regressione nel momento della generale crisi occupazionale, dal momento che le donne si sono concentrate nel settore dei servizi che è quello che ha meno risentito della crisi economica.
La crisi dell’occupazione non ha come in altri tempi cacciato le donne dal mercato del lavoro.
E’ battuta quindi la tentazione reazionaria che propone nei momenti di crisi di rimandare le donne a casa per lasciar spazio sul mercato del lavoro agli uomini. Non è stato neppure possibile formularla.

Anche per questo motivo, il dato di tenuta dell’occupazione femminile è significativo, anche quando deve fare i conti con il tasso di disoccupazione.
Si può infatti obiettare che comunque le donne registrano il maggior tasso di disoccupazione: questo è vero infatti in tutti i paesi europei , ad eccezione della Gran Bretagna i tassi di disoccupazione sono sistematicamente più elevati di quelli degli uomini e regolarmente a partire dagli anni 80.
Ci sono molte commentatrici e commentatori che riconoscono la crescita dell’occupazione femminile, tuttavia insistono sull’ancora altissimo tasso di disoccupazione. E’ vero.
Tale dato di disoccupazione però non si deve leggere solo come difficoltà d’accesso al mondo del lavoro da parte delle donne, ma anche come indicatore della forte e costante crescita dell’offerta femminile e come segnale di determinazione e tenacia a rimanere e a ritornare sul mercato del lavoro, a dispetto delle difficoltà e anche a prezzo della disoccupazione.

Si dice che l’alto tasso di disoccupazione femminile – nel 1996 in Italia pari al 16,8% contro il 9,3% del tasso di disoccupazione maschile – è la prova della discriminazione e dello svantaggio delle donne nel loro ingresso nel lavoro.

Vogliamo, però, richiamare l’attenzione sulla metodologia di calcolo del tasso di disoccupazione maschile/femminile che, per sua definizione, è ottenuto dal rapporto – maschi con maschi e donne con donne – tra due valori assoluti, le ‘persone in cerca di lavoro’ al numeratore e ‘la forza lavoro’ al denominatore. Possiamo leggere dai dati ufficiali ISTAT che, in Italia nel 1996, le donne ‘in cerca di lavoro’ sono pari a 1.459.000 unità contro le 1.331.000 maschili mentre la ‘forza lavoro’ è costituita da 8.672.000 donne e 14.250.000 maschi. Il calcolo dei tassi di disoccupazione viene, quindi, svolto su quantità che differiscono nel numeratore ma soprattutto nel denominatore. Per una evidenza aritmentica, l’elevato valore del denominatore nel tasso disoccupazione maschile – dovuto alla massiccia presenza di maschi nella forza lavoro ed esito di un processo storico in via di cambiamento – ha l’effetto di schiacciare al ‘ribasso’ la misura della disoccupazione maschile relativamente a quella delle donne.

Volendo attribuire al tasso di disoccupazione il condiviso significato di indicatore del collo di bottiglia all’ingresso nel lavoro e segnale di difficoltà di inserimento, si potrebbe ricalcolare un tasso di disoccupazione “composto” in cui i maschi e le donne in cerca di lavoro siano confrontate con l’intero aggregato della forza lavoro. In tal modo può essere superata la distorsione ‘storica’ del calcolo ‘matematicamente privo di memoria storica’, che non tiene conto cioè dell’inevitabile maggiore presenza maschile nella forza lavoro spiegabile da ben note condizioni e in corso di lento ma progressivo cambiamento.

Il tasso di disoccupazione così ricalcolato (tavola seguente) indica uno “stato di disoccupazione” delle donne non così drammaticamente lontano dalla condizione maschile e, a nostro avviso, pienamente spiegabile dal fenomeno del recente e massiccio ingresso delle donne nel lavoro.

Tasso di disoccupazione – Italia, ottobre 1996 (Fonte ISTAT)

“tradizionale”
Femminile 16,8 %
Maschile 9,3 %
Totale 12,2 %

“composto”
Femminile 6,4 %
Maschile 5,8 %
Totale 12,2 %

La femminilizzazione del lavoro è un fenomeno che inizia ad essere riconosciuto pubblicamente anche in Italia. Già un articolo di Alberto Orioli (“Il Sole 24 Ore” 13/4/96) riferito alle rilevazioni ISTAT del ’94 e del ’95 recitava “Si sono persi 109.000 posti di lavoro nel ’95; ne ha ceduti 93.000 l’industria, altri 83.000 li ha persi l’agricoltura; solo il settore dei servizi ha riequilibrato il conto con un surplus positivo di 67.000 addetti; […]… l’Italia, nel suo complesso, crea nuovo lavoro soprattutto per le donne…..”

La naturale gradualità di eventi storici non “rivoluzionari” in senso tradizionale fa sì che tale taglio interpretativo resti ancora una riflessione isolata. Va sempre tenuto presente, infatti, che la massiccia comparsa delle donne sulla scena lavorativa è in Italia recente e che di conseguenza incide su dinamiche di ingresso e di uscita destinate a modificare la composizione del mercato del lavoro solo progressivamente e su archi temporali più lunghi.

Più spesso, invece, si riportano evidenze statistiche unicamente per denunciare l’avvenuta discriminazione delle donne ed il loro stato di svantaggio. Da parte di ambienti femminili legati alle “pari opportunità” la lettura dei dati avviene ancora, quasi sempre, secondo chiavi di lettura catastrofiche e autopunenti.

Tra le evidenze statistiche viene quasi sempre citato il tasso di disoccupazione , parametro fondamentale dell’analisi socio-economica e frequente punto di partenza di molte discussioni riguardanti la condizione delle donne nel mercato del lavoro.


Un altro aspetto che contraddistingue questo massiccio ingresso delle donne nel lavoro è il loro medio/alto livello di scolarizzazione.

Tra i laureati dell’anno 1986, le donne rappresentano già il 45,8%. Superano la componente maschile nei rami scientifico e letterario, raggiungono una quota superiore al 40% nel ramo politico-sociale e giuridico e superiore al 30% nel ramo medico ed economico. Tra i laureati del 1992, le donne passano a rappresentare il 50,4% del totale. A sei anni di distanza sono giunte a superare la componente maschile nei rami scientifico, letterario, politico-sociale, giuridico, rappresentano il 43% dei laureati nel ramo medico e il 39% dei laureati nel ramo economico.

Il medio/alto livello di scolarizzazione è individuabile anche nella fotografia della componente ‘persone in cerca di occupazione’. Sebbene nel 1995 le donne rappresentino all’incirca la metà di tale aggregato, risultano maggiormente presenti nelle fasce a più alta istruzione. Esse costituiscono, infatti, il 62% delle persone in cerca di lavoro in possesso di titoli di dottorato, laurea a laurea breve e il 59% di quelle in possesso di diploma liceale o diploma di scuola professionale; la percentuale femminile scende al 46% tra le persone in cerca di lavoro in possesso di licenza media ed elementare.

In termini di collocazione settoriale le donne in Italia, secondo fonte Istat, sono presenti nelle professioni relative ai settori dei servizi, servizi alla persona, assistenza e cura, educazione e amministrativo-settori in cui superano gli uomini come presenza- e di attività commerciali a contatto con il pubblico

Alle considerazioni fino ad ora svolte circa il panorama europeo e nazionale vogliamo aggiungere alcuni dati del mercato del lavoro in Lombardia, vero punto di partenza della nostra ricerca statistica.

Riteniamo importante l’analisi sul dato lombardo per dare qualche spunto di riflessione all’interno di una cornice contestuale più precisa.
La Lombardia infatti è un’area che ha già vissuto il passaggio dall’indistrializzazione ad una pervasiva terziarizzazione e che risulta una delle più integrate con il tessuto produttivo europeo, e viene a rappresentare quindi la linea di tendenza di fenomeni generali che, o sono già presenti o non tarderanno a manifestarsi anche in altre aree del territorio nazionale.

Riguardo la presenza delle donne nel mercato del lavoro lombardo i dati sono i seguenti:
nel 1995 il tasso di femminilizzazione è pari al 39,3% della forza lavoro e ad un apparentemente modesto 38,1% degli occupati (35% dato nazionale 1996). Risulterebbe immediato “gridare” alla discriminazione femminile se non si tenessero in considerazione i fenomeni sottostanti. Guardiamo, ad esempio, cosa significano le percentuali sopra indicate in termini di valori assoluti.
Tra il 1980 e il 1990:
– la f.za lavoro lombarda aumenta di 154.000 unità date da un aumento di 191.000 donne e una riduzione di 37.000 maschi;
– gli occupati lombardi aumentano di 163.000 unità risultato di una crescita di 193.00 occupate e una riduzione di 30.000 occupati maschi.
Tra il 1990 e il 1995 (periodo contraddistinto dalla recessione economica):
– la f.za lavoro lombarda si riduce di 80.000 unità di cui 5.000 donne e 75.000 maschi;
– gli occupati lombardi subiscono una contrazione di 158.000 unità costituite da 39.000 donne e 119.000 maschi.
Un discorso a parte infine si deve fare per Milano: qui a partire dagli anni 1990 più donne che uomini entrano nel lavoro nella misura del 53% rispetto ad un 47% maschile.

Questi dati indicano, al di là delle percentuali, l’avvio di un evidente fenomeno di femminilizzazione contrassegnato dal fatto che, in un periodo di sviluppo economico, ma di contrazione occupazionale, la crescita va tutta a vantaggio delle donne mentre la diminuzione dei posti di lavoro colpisce maggiormente, in termini assoluti, la componente maschile.

Il dato dell’ingresso delle donne nel lavoro non può quindi passare inosservato. Va letto con nuovi paradigmi,che non possono essere quelli della discriminazione e della debolezza, ma necessariamente contestualizzati all’interno di un movimento di presa di coscienza da parte delle donne circa il senso del lavoro e della spendibilità del loro patrimonio di saperi nel lavoro.

Riflessioni sulla crisi della funzione pubblica
di Maria Bucci e Chiara Eusebio

Un tecnico comunale dice : “Oggi non ho fatto niente perché non ho scritto nemmeno una delibera”. Alla domanda “come hai passato il tempo?” risponde: “Ho parlato con sei cittadini che avevano problemi e li ho risolti tutti senza passare per la burocrazia”. Gli rispondiamo che questo è più importante delle delibere e che la misura e la qualità del lavoro sono esattamente per noi quello che lui ha chiamato “non far niente”. Questo episodio è esemplare di come pensano di lavorare (o di non lavorare) molti e molte nella pubblica amministrazione. Far conto sulla propria responsabilità e sulle proprie competenze è molto efficacie perché è un modo di lavorare che sposta l’attenzione sui cittadini e che aggira le innumerevoli regole burocratiche per arrivare a dare risposte. Esiste una fitta rete di rapporti tra dipendenti che fa del lavoro informale una pratica quotidiana in cui il sapere viene giocato stando alla relazione con l’utente più che all’organizzazione alla burocrazia, ecc. Il lavorare informalmente testimonia della impossibilità di ingabbiare creatività, vivacità, desiderio di esserci che non trova canali nelle regole formali e che esplode nel fare quotidiano . Sempre più la misura del proprio lavoro sta nello scambio tra il bisogno reale dell’utente e l’obbligo a fornire una risposta.
Questo modo relazionale di lavorare viene tradotto nel gergo dei riformatori della pubblica amministrazione come ” orientamento al risultato, alla produttività, all’efficacia”, spacciandola come una grande invenzione di ingegneria organizzativa, mentre invece c’è l’imbroglio di non dire dove e da chi l’hanno appreso. I tentativi di riforma ( le leggi Bassanini per esempio) intuiscono la necessità della vicinanza tra le figure istituzionali e l’utenza per un lavorare più aperto alla relazionalità. Bassanini sembra essere così più avanti di quei lavoratori e di quelle lavoratrici del settore pubblico che pensano che il lavoro fatto informalmente ma relazionalmente sia “niente”. Ma il riformatore, in realtà invece di partire dal “vivo” della pubblica amministrazione, e cioè dagli impiegati e impiegate dai funzionari e funzionarie che praticano già le relazioni per poter eseguire il loro lavoro al meglio, scommette sulla dirigenza che è notoriamente la più incompetente e burocratica.
Sia il tecnico comunale che il legislatore sono in presenza di un cambiamento che è già in atto ma entrambi lo immiseriscono: il primo pensando che il suo è un modo personale di lavorare che rimane un “far niente” se non è racchiuso nei mansionari e nelle prescrizioni, l’altro rimuovendo i soggetti in carne ed ossa che già agiscono in relazione ed occultando così la fonte dell’ispirazione della riforma. Per la nostra esperienza, possiamo dire che sono più donne che uomini a lavorare nella pubblica amministrazione facendo conto sull’efficienza della relazione, di cui custodiscono il sapere. Gli esperti chiamati ad addestrare i “nuovi” dipendenti pubblici non si sporcano le mani andando a vedere cosa succede nelle singole realtà; in mano a loro il lavorare informalmente si trasforma in qualcosa d’altro. L’abbiamo verificato con un dirigente pubblico che ha elaborato un bel piano di “reingegnerizzazione” dell’ufficio con tanto di dati e statistiche. Un piano che non riteneva prioritari il sapere e le motivazioni di donne e uomini che si rapportano quotidianamente ai cittadini. In precedenza, allo stesso dirigente erano state imposte modifiche all’organizzazione del lavoro pensate dalle lavoratrici e dai lavoratori di un tribunale e guidate di fatto dalla delegata sindacale attraverso relazioni e anche conflitti.
Questa delegata ha mostrato competenze riconosciute da molti colleghi: il suo lavoro ha mostrato ad esempio che la fiducia è prioritaria nel rapporto tra magistrato ed assistente , rendendo questo rapporto riferimento anche per altri servizi. Ma il dirigente non riconosce il valore di questa donna e si ostina a elaborare progetti che sovrappongono metodi, regole, meccanismi tecnici alla realtà viva del lavoro.
La misura di questa donna è una misura già pubblica ma non ancora egemone, non apre conflitti radicali che contrasterebbero i “furti” silenziosi del riformatore.
Perché le molte donne e quegli uomini che lavorano relazionalmente non aprono questi conflitti? Alcuni uomini che partecipano a un corso di formazione sindacale organizzato da noi a Pescara, hanno dato una risposta. Per loro le regole sono rassicuranti e danno la certezza che qualcun altro si prenda la responsabilità, li proteggono dalla inadeguatezza che sentono rispetto alla complessità dei problemi. Hanno paura di fare o di ricevere del male se lasciati liberi da vincoli e da regole. Hanno sfiducia in se stessi e nei confronti dei propri simili. Portano avanti continue rivendicazioni di più riconoscimento che si esprimono con richieste di una qualifica in più, un po’ si salario in più, ma loro stessi non credono più alle grandi riforme.
Molte donne invece vedono nel conflitto la negazione del desiderio di armonia e scadono in un buonismo che porta con sé la perdita di memoria delle competenze relazionali. Non si è mai abbastanza pronte al conflitto, manca sempre qualcosa, le alleanze possibili e mobili vengono vissute come tradimenti nei confronti di una specie di dovere di coerenza. Quando una donna apre un varco in un posto di lavoro si lamenta della fatica di doverne gestire le conseguenze e di vivere come dolorosi i tagli operati.
Nel sindacato dove noi lavoriamo, dove agisce la relazione tra noi due, la pratica politica diretta è egemone perché molti delegati e delegate ne hanno visto l’efficacia e ne hanno tratto vantaggio. L’autorità che ci viene riconosciuta ci consente di non riutilizzare con passaggi democratici il fare sindacato; possiamo sottrarci a verifiche numeriche e di immagine nell’organizzazione. Veniamo in contatto con molti dipendenti pubblici, ma privilegiamo l’interlocuzione con chi investe sul senso del proprio lavoro. Ma tutto questo l’abbiamo guadagnato non sottraendoci a un conflitto molto pesante con un modo di pensare il sindacato secondo la rappresentanza e la democrazia. Abbiamo vinto il conflitto e una di noi due, Maria, ora è segretaria della Funzione Pubblica CGIL di Pescara.

Maria Marangelli

Faccio sindacato da anni e verifico intorno a me una povertà di analisi e di pratiche. A giudizio mio e di tanti altri queste pratiche e queste analisi non sanno star dietro alla realtà che cambia. Infatti, nel sindacato, e per di più in ritardo, del cambiamento si coglie solo quello originato dalle riorganizzazioni delle imprese e dalla competizione capitalistica a livello mondiale. Non si colgono i mutamenti nel rapporto con il lavoro, vale a dire la ricerca di senso delle donne e degli uomini nel lavoro. Di questo secondo mutamento si parla come di una realtà soggettiva, ma è giusto? Allora noi proponiamo che tutto il lavoro -sia considerato soggettivo o come causa o come effetto del cambiamento.
Se non si considera quest’aspetto dei senso del lavoro, cioè la realtà umana implicata nel lavoro, se non la si considera con la necessaria attenzione, il lavoro diventa un’entità astratta.
Questo vizio della politica del lavoro l’ho visto e l’ho misurato quando ho incominciato una pratica politica capace di tenere conto della soggettività, che è la pratica della differenza femminile. Intorno al desiderio di ripensare il lavoro, alla luce di questa pratica, si sono aggregate donne che fanno sindacato e che non lo fanno, che hanno un lavoro dipendente oppure autonomo, impegnate in lavori tradizionali oppure nuovi. Noi non vediamo la separazione e tanto meno la contrapposizione tra lavoro autonomo e lavoro dipendente. Più che misurare il prevalere del lavoro autonomo sul lavoro dipendente, ci interessa conoscere e far parlare l’esperienza di lavoro nelle diverse situazioni.
Per questa strada noi vogliamo far venir fuori il significato del lavoro per chi lavora e far venir fuori da qui che cos’è il lavoro, prima che si sovrappongano le definizioni di economisti, giuristi, sindacalisti ecc., la cui intelligenza teorica e pratica è preziosa se viene seconda rispetto alla ricerca di significato che noi proponiamo.
Negli ultimi anni a Milano e in Lombardia, più donne che uomini entrano nel mercato del lavoro, sia in quello del lavoro dipendente che in quello autonomo. Per questo parliamo di femminilizzazione del lavoro e la consideriamo una delle più grandi trasformazioni di questi tempi.
Non si ha una idea giusta della femminilizzazione del lavoro se non si considera il fatto che c’è un desiderio femminile di studiare e lavorare non solo per necessità economica né per essere come gli uomini, ma per un autonomo desiderio femminile di una presa sul mondo.
La femminilizzazione del lavoro, a nostro parere, non è prodotta dal mercato ma viene da un’autonoma volontà femminile che ha saputo sfruttare le modificazioni del lavoro in corso. Insomma, non può essere letta solo come un fenomeno di ingresso di una grande quantità di donne nel mercato. Di fatto è una modificazione qualitativa perché le donne portano nel lavoro attese e investimenti differenti da quelli maschili.
Una mancanza grave della nostra cultura politica, economica, giuridica è che non si ascolta la differenza femminile e che, di conseguenza, neanche si capisce tutto quello che hanno di particolare maschile le teorie politiche, economiche, giuridiche. Se non c’è un ascolto preciso in proposito, sia chiaro, questa difficoltà si pone anche a una donna.
Allora, la nostra esperienza ci dice che le donne non si consegnano interamente alla misura del denaro, né a quella della carriera ma portano al mercato tutto, cioè anche la qualità delle relazioni sul posto di lavoro, la risposta degli altri e delle altre alla propria presenza, i risultati qualitativi del proprio lavoro. E la compatibilità dell’impegno di lavoro con le esigenze affettive e familiari. (Non a caso il movimento delle donne si è data la pratica politica del partire da sé e della relazione.) Appare evidente, quindi, che la misura quantitativa tempo-salario è insufficiente così come ogni obiettivo unificante, come ad esempio quello della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro che mette in ombra le differenze qualitative.
Oltre la nostra esperienza abbiamo raccolto notizie e dati dal mondo del lavoro, dove risulta in particolare che le donne si collocano di preferenza in luoghi di ricerca, progettazione (anche per la più alta scolarizzazione femminile) piuttosto che di organizzazione e vendite, sebbene i primi siano meno retribuiti dei secondi e meno aperti a ulteriori sviluppi di carriere. Si apre una nuova divisione sessuata del lavoro (che a noi non dispiace), per cui le donne si trovano nei luoghi di maggior sapere e di minor potere.
Da questi comportamenti femminili e da questi atteggiamenti così frequenti nelle donne deriva una superiore capacità di vivere e di concepire il lavoro, più semplice, più relazionale, più rivolto all’essenziale, meno gerarchico.
Se tutto questo resta una caratteristica diffusa ma inespressa, se non diventa base per la teoria del lavoro, capita lo “scippo” del di più femminile da parte del capitale. Oggi si parla infatti, da parte di analisti ed esperti di organizzazione, della necessità di sviluppare “le competenze relazionali, la qualità del lavoro e del rapporto con l’altro (il cliente e il fornitore), la comunicazione, i processi integrati ecc.”. Su questo terreno, essendo no decise a contrastare l’operazione del capitale, che è fonte di sofferenza e laceranti contraddizioni per le donne, ci troviamo anche in conflitto frontale con quegli e quelle interpreti del lavoro femminile che leggono la differenza portata dalle donne in termini deteriori come arrendevolezza, servilismo eccesso di flessibilità. In realtà, queste persone hanno uno schema mentale, e di conseguenza un agire politico ricalcati su modelli maschili. Non s tratta di sostituire il modo femminile al modello maschile, bensì di mettere fine a questa parzialità maschile che è causa di errori teorici e politici L’accusa che certi sindacalisti fanno alle donne di essere poco conflittuali sul lavoro, in realtà è una accusa fatta alle donne stesse di non volersi spogliare della loro differenza per piegarsi ai tradizionali schemi di lotta e di organizzazione, pensati da uomini per gli uomini.
Non c’è infatti solo il conflitto capitale/lavoro, c’è anche il conflitto fra i sessi. Questo conflitto è presente, come ho detto prima, non solo nel modo di concepire il lavoro, ma anche nel modo di confliggere e lottare: le tradizionali organizzazioni sindacali e politiche che i lavoratori si sono date, non attirano le donne. Infatti, il grande aumento delle lavoratrici non ha avuto come conseguenza un proporzionale aumento delle iscrizioni sindacali. Sempre colpa delle donne? Questo non è un ragionare politico.
Alcuni, infine, dicono che volendo tener conto della qualità femminile si sconta il problema che di questa qualità non c’è misura, per cui sarebbe una cosa inafferrabile. Noi diciamo che se questo di più femminile viene preso come misura per il lavoro di donne e uomini (c’è una miseria simbolica nel conflitto capitale/lavoro che umilia anche molti lavoratori maschi, soprattutto giovani), se dunque la differenza femminile diventa misura, la posizione del lavoro precede le offensive del capitale diventando una proposta allettante, significativa, valorizzante per chi lavora. (Teniamo conto che il contesto della classe operaia e del partito, è andato perduto.)
Propongo, a chi si occupa di queste cose, di lavorare con la pratica del partire da sé, cioè a partire dall’esperienza personale di ciascuno e ciascuna e di privilegiare le contraddizioni vissute in prima persona, gli scacchi e le esperienze più difficili perché è in questi vissuti che di solito si nascondono i nodi problematici più vivi e interessanti. Partire da sé, quindi, per non proiettare sugli altri paure e convenienze di ragionamento che non si osa mettere in campo. Chiedo inoltre di rinunciare, per quanto possibile, al gergo specialistico e di nominare le cose sapendo che vi sono esperienze di lavoro, come quello delle donne, che non sono mai state nominate e che nei vecchi nomi vengono deformate o cancellate.

Anna Del Bo Boffino

Il lavoro di cura torna e ritorna nel pensiero politico delle donne, via via che la loro esistenza le induce ad affrontarne tutti gli aspetti. Verrebbe da dire “tutte le specialità”, perché nel giro di pochi decenni si è visto quanto sia vario e di diverse competenze. Si volesse anche solo guardare al piú minuto lavoro domestico”, ci si imbatterebbe subito in due attività di alto valore simbolico come il “nutrire” e il “pulire”. Nutrire attraverso la preparazione dei cibi ha significato profondamente emotivo nel rapporto che si stabilisce fra chi nutre e chi è nutrito (e tutti i disturbi che attualmente si rilevano nel rapporto con il cibo la dicono lunga sullo spessore di questa attività). La preparazione dei cibi è oggi in discussione perché è uscita dalla tradizione locale e familiare, ha assunto toni dietetici ed ecologici che hanno messo a dura prova la capacità di scelta delle donne. Allo stesso modo il “pulire” che adombra pure sempre questioni di coscienza (sporca o pulita?) si è arricchito degli strumenti offerti dalle nuove tecnologie e dei prodotti offerti con tanta insistenza pubblicitaria dal mercato dei consumi, che hanno fatto del “pulito” un’ossessiva rappresentazione d’immagine.
Se il “nutrire” e “pulire” sono tanto mutati e pongono non pochi problemi, che dire della maternità, del vivere in coppia? Una categoria compatta come 1-amore materno” si è disaggregata nelle sue valenze specifiche: gravidanza, rifiuto o accettazione della gravidanza, parto, cura neonatale, rapporto con il figlio maschio, con la figlia femmina, con il bambino, l’adolescente, l’adolescente ritardato che non esce mai di casa, e via ad elencare. Tutti passaggi che una donna deve affrontare con qualche cognizione ‘ almeno, di causa, a scanso di farsi venire i sensi di colpa di fronte agli scarsì risultati di figli inferiori alle aspettative.
Via via che le femministe (o semplicemente le donne con un minimo di autocoscienza) raggiungevano l’età di sposarsi, fare figli, crescerli, il lavoro di cura è stato messo in discussione, esaminato nei suoi aspetti, nelle sue contraddizioni. Mancava un’ulteriore tranche de vie alla parabola dell’accudimento: l’assistenza agli anzia i, rimasta nella nebulosa del rispet o per i vecchi e della cura delle ìnfermità, da palleggiare tra pubblico e privato, e che ora sta emergendo in tutta la sua drammatica urgenza. La vita si è allungata. Genitori 80/90enni sono sempre più numerosi, e donne di 50/60 anni e oltre, ancora in piena attività lavorativa o culturale, o appena alle soglie di un pensionamento che si presenta ricco di promesse di libertà (finalmente poter seguire le proprie inclinazioni, coltivare talenti mai germogliati!), si ritrovano a dover assistere un uomo, o piú spesso una donna di tarda età, nel suo inevitabile declino, nella progressiva perdita di facoltà fisiche e mentali, verso la completa dipendenza da chi li assiste.
Il rapporto madre/figlia, in particolare, conosce in questa fase una sua estrema intimità corporea e affettiva che risucchia la figlia in una sorta di “quarta dimensione” dove la simbiosi è pur sempre in agguato con effetti devastanti per chi, nonostante tutto, è destinata a sopravvivere.
La solitudine in cui si svolge questo lavoro di cura, e l’incertezza nel condurlo secondo coscienza sono certamente il risvolto della novità di questa condizione. Ma, come sempre, tocca alle donne affrontare da pioniere ed esploratrici nuove condizioni umane in tutta la loro difficoltà. Perciò quando si leggono invocazioni come quelle contenute nel testo “Costruiamo il bene comune”, a cura della Commissione diocesana di Milano “Giustizia e pace”, ci si chiede se mai ciò che riguarda da vicino le donne sarà visto e accolto dalle gerarchie cattoliche. “… non può avere basi morali autentiche una società che, mentre afferma valori quali la salute, la giustizia e la pace, si contraddice e rende piú poveri i poveri, si chiude alla solidarietà, nega aiuto e sostegno anche economico ai più bisognosi, quali gli handicappati, gli emarginati, gli immigrati, emargina gli anziani, favorisce la morte di chi soffre di una malattia inguaribile, manipola gli embrioni, strumentalizza la donna, inganna e delude i giovani, trascura e non rispetta i bambini e i ragazzi, accetta passivamente l’aborto”, dice un passo del messaggio. Un messaggio prodotto da una cultura tutta maschile, che ha sempre avuto il privilegio di appellarsi ai valori “alti” dell’etica ignorando la quotidianità della cura ai malati, agli handicappati, agli anziani, agli infermi, e anche ai bambini e agli adolescenti in crisi: questo immenso “pacchetto” di ore di vita riguardava solo le donne, figlie, madri, mogli, suore. Gli uomini ne usufruivano, se ne allontanavano appena non ne avessero bisogno, davano per scontato che non li riguardava, e che comunque quei compiti ‘venivano assolti dalle donne. Ora tutto è stato nominato: ed è lí, a invadere il mondo del potere, sottraendo pensieri, parole, opere a chi se ne riteneva, per cultura di genere, esente.
Nominare è stato il primo passo.
C’è ora da provvedere.

Anna Biffoli, Firenze

Cara Alessandra Bocchetti cercherò di spiegare perché non mi sono sentita tirata in causa sulla questione dell’andare in pensione (“troppe donne hanno fretta di tirarsi fuori dalla mischia, fa impressione Via Dogana n. 19).
Ho amato il mio lavoro fin dal primo momento che l’ho incontrato riconoscendogli una possibilità per me di essere “dentro la vita” che lo stare in famiglia o il frequentare la scuola d’avviamento non mi aveva dato. Il violento impatto con il mondo duro della fabbrica frantumò i sogni adolescenziali. Cosí io con tutta la forza e l’entusiasmo dei miei sedici anni e anche con la forza della disperazione mi gettai a capofitto dentro quel luogo facendo quello che in quel tempo consideravo indispensabile: capire la fabbrica nella sua complessa organizzazione, allearmi con il sindacato, fare sciopero ecc. fino a pagare con il licenziamento agli albori del movimento sessantottino. Una lotta dura iniziata dagli/Ile operaie a mio sostegno impose il mio rientro non prima però di aver scontato due mesi a casa senza stipendio (mediazione del sindacato!) per punizione. Salto molti anni e mi ritrovo a lavorare nella Sanità pubblica. Nel frattempo ho sperimentato il movimento delle donne, fino al presente che dice la politica è la politica delle donne. Questo ha voluto dire un. grosso cambiamento per me: mi sono trovata a lavorare con grandi progetti, con la consapevolezza di avere radici profonde. Ma il mio lavoro non è diventato misura, non è diventato lingua: dunque ho fatto sí un buon lavoro, ma monco. A grandi riconoscimenti personali non ha fatto seguito uno spostamento sensibile della politica sanitaria nel mio distretto. Eppure io so che ho agito pensando di poterne migliorare la qualità e ho sempre pensato che insieme alle e agli altri ci sarei riuscita. Invece la politica sanitaria ha fatto un notevole cambiamento, ma nel senso opposto a quello da me attivato praticamente. Nonostante questo ‘scacco’ io mi sento profondamente tranquilla nell’aver scelto di andare in pensione: trentotto anni di vita lavorativa sono per me (non per il governo!) sufficienti come esperienza da tramandare alle nuove generazioni.

Anna Biffoli, Firenze

Maria Marangelli FIOM di Milano

“Mettere al centro della politica la politica delle donne-, idea lanciata dalle pagine di Via Dogana, corrisponde alla necessità di essere intera nel luogo in cui ho scelto di stare e di lavorare: il sindacato alla Fiom di Milano. Questo vale anche per altre donne con le quali condivido la necessità di significare la differenza sessuale in questo luogo popolato e governato in maggioranza dagli uomini e dalle loro regole.
Altre scelgono di stare tra donne: un luogo protetto, di agio, di identificazione in altre come reazione all’estraneità alla politica degli uomini. Dove, tutto sommato, ci si sente presso di sé e dove rimangono fuori le ritualità maschili insopportabili. Nulla da dire sul fatto che sia giusto e naturale, ma non di politica si tratta quanto di una modalità di sussistenza.
Questa pratica risulta dannosa quando per dirsi, per essere compresa usa il linguaggio omologabile della rappresentanza di sesso e muove un agire sindacale femminile basato sul paradigma dell’oppressione/sfruttamento/discriminazione/ tutela. E’ dannosa per donne che hanno capacità e volontà di protagonismo e che non vogliono essere viste come discriminate o da porre sotto tutela (e queste donne giustamente la ignorano). E’ dannosa per la confusione simbolica che produce ostacolando un processo di presa di coscienza sul senso della differenza sessuale.
Il mio sapere di donna mi dice che alla base di qualsiasi contrattazione sta l’interrogazione dei propri desideri, la coscienza di sé per capire l’altro/l’altra. Essere sindacato si sostanzia nella contrattazione e nella comprensione di quali desideri, bisogni, necessità entrano in gioco e si confrontano. Fare sindacato è quindi dare voce all’esperienza del lavoro di donne e uomini. Tutto ciò appare scontato ma difficilmente si rintraccia negli uomini un nesso tra queste parole e la loro pratica. L’essere organizzazione prevale rispetto all’essere sindacato. Le parole prendono un corso indipendente- dalle’cose e dalla pratica. Nel giudizio di valore conta piú la fedeltà ad uno schieramento e alle tessere che consegni che la pratica e la qualità delle relazioni, dello scambio, dei percorsi di presa di coscienza individuale e del radicamento di capacità contrattuale collettiva nei luoghi di lavoro.
Si è chiamate/i dalle Segreterie a corrispondere alle decisioni che calano nelle zone come “ordini di servizio”: distribuire materiali e documentazione, fare le assemblee sugli accordi nazionali, sul contratto nazionale, fare le Rsu (Rappresentanze sindacali unitarie) nel piú breve tempo possibile. Il tutto vissuto dai sindacalisti ormai come incombenze sulle quali le Segreterie attendono il risultato finale, il voto. Non conta tutto ciò che c’è prima: gli umori, i vissuti, i bisogni espressi, i silenzi, le critiche, l’indifferenza a certi ragionamenti che rispondono piú al bisogno delle organizzazioni che ai bisogni della gente, l’esperienza di tutti i giomi di contrattazione individuale e collettiva. Tutto ciò appartiene ad una dimensione non indagata, non detta, non interpretata. E l’atteggiamento diffuso tra i sindacalisti è appunto quello di corrispondere unicamente ai risultati attesi. Non leggo nei miei colleghi nessuna curiosità, nessuna necessità di scambio sulle cose che avvengono nei luoghi di lavoro (in questo non c’è distinzione tra un socialista e un rifondatore, appartenenza che pure conta in misura determinante nella contrattazione dei posti di lavoro nella struttura sindacale).
La cosa che piú appassiona i sindacalisti maschi è la formazione dei e gli avvicendamenti nei gruppi dirigenti, il rispetto e il riprodursi a pioggia dal nazionale alla zona (fortunatamente non sono interessate le fabbriche) degli “equilibri congressuali” nei vari organismi dirigenti (leggasi equilibri tra diversi centri di potere), anche se poi molti di quegli organismi non si convocano mai o suscitano scarso interesse, a vedere dalle presenze.
Non c’è percezione che il progressivo indebolimento della capacità contrattuale della classe operaia e lavoratrice è sí prodotto dalle pesanti ristrutturazioni in atto nell’industria e dal posto di lavoro a rischio, ma è anche e soprattutto simbolico. L’incapacità di interrogare e interpretare i processi reali in corso, ì cambiamenti nel senso comune di pensare il lavoro e il sindacato, si traduce in un linguaggio ,lontano dalla realtà.
Questa situazione abbisogna urgentemente di mediazioni femminili.
La relazione tra donne, nell’interrogare il senso dell’agire, ha la capacità di mostrare cieche è essenziale, la possibilità e la necessità anche di schierarsi ma pensando ed agendo al di fuori della logica degli schieramenti. Il partire da sé è una misura necessaria per tutti, soprattutto per gli uomini che ora non ne percepiscono l’importanza. Lo stesso vale per il nesso tra parole e cose pratiche.
Questa è la misura che io uso nel giudizio che esprimo su uomini e donne e nei percorsi che indico ai delegati. La ricerca di misura è necessaria ogni giorno e su ogni avvenimento di una certa importanza. lo mi ritrovo a confrontare il mio punto di vista o con Mary che lavora alla Fiom di Bergamo o con Maia che è Segretaria della Fiom Regionale o con Dora che sta a Varese.
Questa pratica di relazione visibile ad alcuni uomini e ad alcune donne nel sindacato non è riconosciuta dai piú.
Qualcuno ama definirci: suore, assistenti sociali, praticone. Un segretario mi ha chiamata Madre priora. Altri vedono nella relazione tra me e Maia una congiura contro l’autonomia della Fiom di Milano essendo lei al regionale.
Impegnamo molta della nostra energia a modificare il contesto nell’ambito delle relazioni che abbiamo in un dato luogo, sottovalutando che i cambiamenti veri avvengono sul piano del simbolico. Siamo quindi riconosciute da quelle donne e quegli uomini che sanno vedere nella nostra pratica una risposta alle loro domande, ma non abbiamo ancora prodotto un cambiamento leggibile in tutto il sindacato.
Altro aspetto del problema sta nel considerare che, se gli uomini attingono ad un sapere femminile, questo sia di per sé un risultato importante perché si sarebbe riuscite a permeare la politica maschile. C’è il rischio di scivolare da “La politica delle donne è la politica”, a quel che pare il suo sinonimo ma non lo è: “la politica delle donne è la politica”, e cioè la politica delle donne si dà nella politica a tutto campo, il che ci porta ad essere delle brave sindacaliste alla pari di pochi altri bravi sindacalisti ma senza esercitare competenza simbolica. Succede sempre di più man mano che la realtà porta a galla le verità, che gli uomini si ritrovino a dire cose elaborate dal movimento delle donne senza che provino però la necessità di mostrarne l’origine e quindi appropriandosene senza capacità di govemarle proprio perché non hanno sulle questioni la competenza necessaria. Faccio tre esempi. Il tema della riduzione degli orari: ricorrono parole come “necessità di riconoscere la sfera degli affetti/dei sentimenti, ricomposizione di pubblico e privato, la cura, il tempo per sé” ecc. Qualità totale e organizzazione del lavoro: “fanno ostacolo al cambiamento organizzativo delle aziende le loro strutture gerarchiche, le burocrazie, il conflitto di potere e l’ambizione dei capi”. Professionalità e criteri di valutazione di donne e uomini al lavoro: “Da una separazione netta tra mansioni direttive ed esecutive alla necessità di ricomposizione del lavoro e delle mansioni, il senso della responsabilità, la competenza relazionale e comunicativa, l’importanza del processo rispetto alle singole mansioni, la qualità del lavoro”, ecc.
Visti gli esiti contraddittori della nostra pratica politica di donne, c’è quindi una questione sulla quale interrogarsi. Forse diamo per scontato ciò che agli occhi dell’altro non lo è affatto. lo mi penso in maniera diversa da come l’altro pensa me. Per me c’è coincidenza tra il mio agire e il mio essere donna, c’è in maniera consapevole. L’altro interpreta il mio agire e il proprio agire senza attribuire senso al mio essere donna e al suo essere uomo.
L’incapacità di dare valore a parole di donna deriva dunque dall’assenza di autocoscienza maschile. Ma anche dalla debolezza delle mediazioni femminili. Questo perché in fondo la relazione serve a trovare misura per sé e ad andare sole nel mondo, e si sottovaluta la necessità di mostrarne l’origine: il che pur non avendo nulla a che vedere con le quote, potrebbe in ultima istanza essere interpretato, come una politica di accesso al potere.

Orella Savoldi FILTEA di Brescia

Le firme delle intese sindacato – governo – imprenditori, quella dell’anno scorso e quella di due anni fa, avevano suscitato molta opposizione. Nel luglio di quest’anno, la conclusione del contratto dei metalmeccanici, che di quelle intese è figlio, viene salutata con soddisfazione da tutti (o quasi): un accordo “storico”. Questa stranezza si spiega con l’impoverimento della discussione sindacale, che negli ultimi tempi è stata dominata dalla contrapposizione fra chi agiva una sorta di rappresentanza presunta, nella convinzione di conoscere il “bene” di chi lavora, e chi invece avrebbe voluto al centro “i lavoratori, le lavoratrici”, “la nostra gente”, “gli iscritti” e così v ia. E tutta la discussione si esauriva nell’invocazione di nuove norme che regolassero i rapporti collettivi. Oggi questa discussione, che, pur nei suoi limiti, aveva a che fare con un interrogativo sul senso del sindacato, è ancora presente ma per certi aspetti ha subito un arretramento. Probabilmente l’accordo intervenuto sulle Rsu – il cui esito là dove è già stato appli cato si limita ad essere valutato quantitativamente in un’ottica competitiva (tanti delegati della CGIL, tanti della CISL, ecc.) – per molte e molti sembra aver esaurito il problema: il voto di lavoratori e lavoratrici oltre che costituire l’esercizio di un diritto democratico tanto invocato, viene interpretato anche come legittimazione delle politiche sindacali dell’organizzazione prescelta. Inoltre, dopo.le ultime elezioni politiche, all’interno della CGIL sembra prevalere una sorta di patto tacito che consiste in un ricompattamento fra posizioni diverse. Un atteggiamento tutto teso a difendere il sindacato che c’è: un sindacato tutto teso a misurare le scelte del nuovo governo.
Il problema è ancora una volta di autolegittimazione. L’esito delle ultime elezioni ha confermato che nel mondo del lavoro qualcosa nei comportamenti è cambiato. Di fronte a questo, chi all’interno del sindacato fino a ieri ha cercato legittimazione attraverso gli accordi che andava definire con i vari governi, ciecamente pensa ad una continuità non importa a quale prezzo. Altri, consapevoli di non sapere bene dove sono e chi sono i lavoratori, riconducono però ancora il problema alle regole democratiche e sono alla ricerca di nuove idee per convincere lavoratori e lavoratrici e per contrastare le politiche del nuovo governo correndo il rischio, a mio parere, dell’inefficacia. In tutto questo dibattere, spendere tempi ed energie, restano nell’insignificanza gli uomini e le donne al lavoro, le esperienze concrete di uomini e donne anche dell’organizzazione sindacale, i saperi, le intelligenze. Questo a mio parere è il nodo: la discussione sindacale prevalente si misura su interpretazioni astratte e non sui processi reali che sono accessibili solo nello scambio con uomini e donne nelle loro esperienze concrete. L’assenza di radici nei rapporti concreti porta a interpretazioni che si Confrontano su un piano ideologico: l’oggetto dell’attenzione non essendo la pratica, questa non suggerisce alcuna indicazione e la parola va per conto SUO.
Ciò non credo avvenga per cattiva volontà di sindacalisti o sindacaliste, né per una sorta di tradimento della causa da parte di alcuni, alcune. Penso sia legato ad una interpretazione della realtà che parte dai rapporti collettivi facendo una operazione di taglio su ciò che avviene prima, e che rimanda un’immagine fatta di tante scatole: organizzazione sindacale, organismi dirigenti, mondo del lavoro, i lavoratori, le donne, i soggetti deboli, la destra; scatole i cui confini di volta in volta sono ridisegnabili ma entro cui si continua a non voler vedere le singolarità nel loro agire concreto.
Ciò che manca nel dibattito sindacale, infatti, nel confronto frontale fra scatole e scatole, è la centralità delle singole esperienze concrete di uomini e donne. lo voglio sape~ re chi sono e cosa voglio quale scommessa metto in atto con l’altra/o quale promessa scambio, verso cosa e con quale pratica. Allora non si tratta di partire da un piano collettivo né di partire da sé per arrivare ad altre/i, ma certamente di partire dalla mia esperienza concreta, da ciò che questa mi suggerisce per mettermi in relazione con altre/i che già ci sono. Un mettersi in relazione che presuppone una pratica di ascolto dell’altra/o per capire chi è e che cosa vuole, quale agire possibile ci accomuna. L’ascolto per altro permetterebbe di trarre indicazioni precise anche a chi oggi tenta di ricondurre ciò che sta avvenendo ad un arretramento culturale che per essere rimediato necessita di memoria storica (non si sa bene in che modo). Invece, ciò che l’ascolto mi suggerisce è che si tratta di un’altra cultura che sta agendo, che dice la necessità di scambio: uno scambio politico che, a mio parere, può avvenire solo in presenza e non a colpi di messaggi e richieste di consenso. Questo scambio è avvenuto, per esempio, quando 10 ed altre abbiamo discusso delle Rsu nelle fabbriche. Nelle aziende tessili del bresciano c’è un diffuso rifiuto delle Rsu, per ragioni significative, come: la sfiducia in questo sindacato e il ritenere che le regole non siano essenziali. L’ascolto ci ha permesso di trovare soluzioni caso per caso. Dove non ne volevano assolutamente sapere, le Rsu non sono state fatte. Dove la questione era: “abbiarno le nostre rappresentanti che ci vanno bene da ventidue anni, perché adesso dobbiamo rieleggerle?”, ci siamo messe d’accordo per ricandidare le stesse. In altre aziende, dove la vecchie delegate non venivano piú riconosciute, o dove non ce n’erano ma ragionando è emersa la consapevolezza che essere organizzate o no è la stessa cosa (in una realtà in cui l’arroganza padronale si fa ogni giorno piú pesante), abbiamo valutato che era opportuno fare le Rsu. Le candidature sono state giocate dalle lavoratrici in base alle relazioni sul posto di lavoro, senza il meccanismo competitivo tra organizzazioni diverse: sono state elette cosí, a prescindere dal l’organizzazione sindacale di appartenenza, donne che dimostrano di avere piú presa sulla realtà, donne, che, come dicono le compagne, “hanno carattere”.
La politica della differenza agíta da alcune nel sindacato ha già indicato la strada della pratica delle relazioni: si tratta di guardare semplicemente le relazioni che già esistono, anche nel contesto sindacale che è fatto essenzialmente di rapporti e non di scatole e dalle relazioni trarre dati di realtà, elaborazioni ed indicazioni per un agire aderente alla scommessa che si vuole giocare.
In questo modo anche molte donne potrebbero definitivamente uscire da quel rivendicare autonomia di percorsi e regole sempre dentro scatole separate, che non ha fatto altro che riconfermare la marginalità dell’esperienza femminile nella politica di un’organizzazione che resta prevalentemente sorretta da regole maschili.

Mafi Acerbis delegata della Santi Confezioni di Brescia e Oriella Savoldi sindacalista Filtea di Brescia

Alla Santi, dove lavora Mafi, esiste (ed è molto ben _pagato) il quality man che, 15 secondo l’azienda, garantisce la qualità della giacca. In realtà, la qualità della giacca è permessa dall’abilità, della sensibilità, dall’esperienza, dall’autonomia e dal livello di responsabilità che Mafi e, le sue compagne in produzione mettono in campo nel lavoro che fanno. Si tratta, dunque, di fare ordine. Come? Non certo mettendosi sullo stesso piano di chi svalorizza il lavoro delle donne con l’affannarsi a dimostrare che, invece, esso ha un valore. Per dare valore al lavoro (come a ogni altra cosa), la prima cosa da fare è dargli un nome, imparare a parlarne, capire che rapporto hai con quello che fai. lo, che lavoro nel sindacato a tempo pieno, non sento mai nominare il lavoro così come, concretamente, si svolge. Fatto paradossale, per un’organizzazione che vorrebbe rappresentare chi lavora. Con Mafi, operaia, abbiamo cercato di riconoscere le cose che lei fa in fabbrica. All’inizio di questa ricerca, le attività che lei aveva individuato erano solo 8. Mafi, infatti, era così attraversata dall’idea che il suo fosse un lavoro banale che non riusciva nemmeno a vederne tutte le fasi. Alla fine, le attività nominate erano 27, e tutte molto complesse. Un ventaglio di operazioni. Aprendolo, comincia a venire in luce cos’è questo tipo di lavoro: è valutare e decidere, rapidamente e in relazione. E’ questa la qualità del lavoro: lotta per il senso di quello che una fa. “Oggi – dice Mafi l’azienda sa che deve fare i conti con noi: è un passo che mi fa uscire dalla condizione di numero a cui mi vorrebbe ridotta l’azienda”.
Oriella Savoldi

Entro in fabbrica mattina. Ecco le prime cose che faccio: 1. accensione della macchina; 2. verifica del suo funzionamento; 3. alimentazione delle spalline; 4. verifica di corrispondenza del tipo di spallina in lavorazione; 5. alimentazione giacche all’imbastitura; 6. rilevazione quantità e aggiornamento delle spalline in lavorazione; 7. separazione del numero di spalline imbastite per commessa; 8. verifica della correttezza della cucitura, della rifinitura del piastrone, dell’intacco di posizionamento delle spalline sul piastrone; 9. segnalazione della rifinitura non corretta del piastrone e dell’intacco o della sua assenza e attribuzione dei compiti di affrancatura del piastrone sulla cucitura della spalla e di rimozione del difetto di rifilatura del piastrone; 10. affrancatura del piastrone sulla cucitura della spalla; 11. rimozione difetto di rifilatura del piastrone; 12. individuazione e rimozione del difetto di intacco: a) predisposizione dell’intacco; b) riposizionamento corretto dell’intacco. La verifica e il controllo non rientrano nella valutazione aziendale. Perciò, le attività elencate vengono svolte prima di iniziare quello che l’azienda definisce “lavoro di imbastitura”. Passiamo ora a quelle attività che, invece, sono riconosciute. Sono 15, 12 delle quali (dalla 13 alla 24) vengono svolte in 54 secondi e ripetute 480 volte al giorno. 13. posizionamento della spallina sul piastrone; 14. posizionamento convesso di piastrone e spallina per l’imbastitura a triangolo; 15. imbastitura della spallina sul piastrone; 16. controllo presenza di difetti sul tessuto e della cucitura in prossimità della spalla e del giro manica sul davanti e sul dietro della giacca; 17. valutazione del difetto ed eventuale rimozione della giacca fallata; 18. rimozione o rimando della giacca con presenza di buchini; 19. posizionamento del davanti giromanica per l’imbastitura-inglassatura del piastrone della spallina e dei tessuti giromanica; 20. imbastitura-inglassatura della prima parte del giromanica; 21. posizionamento del davanti giromanica e imbastitura inglassatura della seconda parte del giromanica; 22. posizionamento, pulitura del lento e spezzature, imbastitura-inglassatura della quarta parte del giromanica; 23. controllo finale dell’imbastitura-inglassatura della quarta parte del giromanica; 24. controllo finale dell’imbastitura-inglassatura della spallina; 25. rilevazione quantità di produzione; 26. cambio spola; 27. spegnimento macchine. Analizziamone due, di queste attività. La prima è la numero 5: “alimentazione giacche all’imbastitura”. Qui l’imbastitrice (io) vede che sul carrello disposto al lato destro della macchina non sono disponibili giacche. Può fare almeno tre cose: a) chiamare la stiratrice che opera nelle vicinanze, la quale interrompe la stiratura, prende le giacche di cui ha già stirato il giromanica e le dispone sul carrello al lato destro della macchina; b) rivolgersi alla caporeparto, se è nelle vicinanze, affinché prelevi dalle “manicaie” (nel caso si tratti di tessuti che non richiedono stiratura) le giacche e le disponga sul carrello di alimentazione all’imbastitura; e) alzarsi (può succedere se la capo reparto non è presente e la stiratrice sta svolgendo altri compiti), prelevare dalle “manicaie” (o dalla zona stiratura) le giacche disponibili e predisporle sul carrello. Il tempo impiegato è circa 30 secondi e l’operazione può ripetersi per 2 o 3 volte al giorno. Sta a me decidere la cosa più opportuna da fare. E la necessità di decidere richiede un grado alto di coinvolgimento. Che consiste, in questa attività, nell’evitare la perdita di tempo causata dall’assenza di giacche da imbastire, nell’interrompere la monotonia, attenuando il disagio della postura fissa e evitando, al tempo stesso, la possibilità di essere richiamata: in fabbrica esistono prescrizioni molto rigide che vietano alle operatrici di linea di alzarsi. Dunque, oltre alle caratteristiche delle giacche, io devo sapere dove andare a prenderle e conoscere i compiti attribuiti alla caporeparto e alla stiratrice, nonché le prescrizioni che attengono alla mia collocazione. In più, devo fare attenzione ai rapporti che ho con le donne collocate in ruoli diversi dal mio: se la stiratrice è pressata, per esempio, il mio intervento la può danneggiare. Tutto questo lo devo valutare, per prendere poi la mia decisione, in tempi brevi. Brevissimi: 30secondi. La seconda attività che propongo di analizzare è la numero 18: “rimozione e rimando della giacca con buchini”. La presenza di buchini viene causata da colei che attacca la manica, la manicaia, magari nel rifare la cucitura. La giacca arriva a me, io rilevo il buchino. Non posso mandare avanti una giacca con un difetto. Anche qui devo decidere che fare. Posso: a) appoggiare la giacca sul bordo del carrello situato sul lato destro, in attesa che passi nelle vicinanze la capo reparto e, intanto, procedere con un’altra giacca. In questo caso, la caporeparto prende visione del difetto e la rimanda alla manicaia; b) dopo aver individuato il difetto, individuare anche la manicaia che lo ha prodotto (è possibile farlo dal colore del filo usato e dal tipo di tessuto) e tirarle la giacca. 0 alzarmi a portargliela, se è lontana. Il tutto avviene in circa 10 secondi. Il coinvolgimento, in questa attività, consiste nell’attenzione a non lasciar passare il difetto, evitando, così, la perdita di tempo che comporterebbe l’eventuale reimbastitura della giacca dopo che il difetto fosse stato individuato in una fase successiva di lavorazione. La scelta non è semplice. Se mandi giù una giacca con buchini e viene individuata al controllo finale, a quel punto devi riaggiustarla e, quindi, perdi un sacco di tempo. Se, però, mando indietro una giacca alla manicaia, e, magari, quel giorno lei è di cattivo umore, si crea un problema tra noi. Se, infine, ricorro alla caporeparto, può essere lei a riprendere la manicaia e anche questo crea problemi. Quelli che ho descritto sono solo due esempi volti a mostrare come il lavoro che svolgo sia tutt’altro che banale. La ripetizione esiste nel mio lavoro, come negarlo? Ma in fabbrica io non svolgo solo funzioni ripetitive: devo pensare, scegliere; devo possedere, cioè, una forte dose di autonomia e di responsabilità, una notevole capacità di decisione, una tensione continua a fare bene il lavoro.
Mafi Acerbis

Interventi al seminario “Saperi di donne” organizzato dal sindacato a Bergamo.