Sono partecipe alla vostra lotta, io stessa in queste settimane sto scioperando e lottando con le mie compagne di lavoro. Faccio l’operaia e la delegata sindacale in una fabbrica del Gruppo Zucchi-Bassetti. L’azienda ha presentato un piano industriale che prevede scorpori di attività produttive e conseguenti licenziamenti di 750 lavoratori e lavoratrici su un totale di 1700. E’ evidente che siamo da alcuni anni in presenza di una deindustrializzazione del nostro paese, intere aree produttive vengono ridimensionate,fabbriche chiuse e molte trasferite fuori dall’italia e/o dall’europa. Molti imprenditori italiani stanno affossando l’industria tessile sul piano produttivo, chiudono le fabbriche ed approno società commerciali , mantenendo i marchi le firme e tutto ciò che servi al “made in italy” Non hanno coscenza politica sociale, fanno prevalere il profitto,senza assumersi la responsabilità delle loro scelte.Presentano i probblemi come fossero loro le vittime del sistema economico della globalizzazione del mercato. Giustiustificano le loro scelte ,”costretti” da una riduzione dei consumi,da un costo di produzione elevato, la concorrenza di India, Cina,Pachistan ecc.che possono avvalersi di ciò che loro non hanno ” salari da fame” per molti lavoratori e lavoratrici di quei paesi . Lo sò che non ho detto niente di nuovo,ma per come viene presentata la situazione di crisi generale e di settore si coglie a pieno quanto bisogno c’è di mettere al centro la vita e il lavoro di ogniuno e ogniuna di noi. Io voglio continuare a vivere onestamente e dignitosamente del mio lavoro che oltre ad essere un diritto è una condizione di necessità,essenziale, quindi esigo rispetto, dai dirigenti aziendali, dal governo e da tutte le istituzioni.Col mio salario permetto entrate fiscali certe e immediate, la mia partecipazione alle lotte ha permesso migliori condizioni di vita a tutti, quindi non permetto che mi trattino come un “esubero”.Sò che sarà dura…so che nulla è dato per scontato e sempre è possibile modificare e costruire,che la contrattazione delle mie condizioni di vita e di lavoro è quotidiana li dove sono . Forse perderò il mio lavoro,o forse no! ma di una cosa sono certa che non finirò mai di lottare in qualunque luogo mi troverò a fare i conti con le ingiustizie. un abbraccio a tutte voi !!
Rosa Piantoni ( Pontoglio- Brescia)
Riteniamo importante far conoscere e sostenere le iniziative di lotta delle lavoratrici del COIN che hanno alle spalle 100 ore di sciopero dal 30 luglio scorso per impedire il licenziamento di 37 donne del negozio di piazzale Loreto, prossimo alla chiusura. Si tratta per ora di un caso, ma le difficoltà che attraversa il commercio, a causa della stagnazione economica, degli scarsi consumi e degli alti prezzi, rischia di far precipitare la situazione in una crisi generale del settore. Tutto ciò si aggiunge alle altre gravi situazioni di crisi presenti nei settori industriali e in particolare nel tessile vista l’alta presenza femminile
I fatti riguardanti il COIN sono questi: la direzione per ricollocare le lavoratrici lancia un ricatto pesantissimo e cioè la modifica unilaterale degli orari di lavoro e l’adesione obbligatoria al lavoro domenicale. Il sindacato, con i delegati dell’azienda ha avanzato proposte che tenessero in considerazione anche le esigenze della vita delle persone, mediando tra le due esigenze, aziendali e personali. La Direzione ha risposto negativamente su tutto. Le lavoratrici hanno deciso di intraprendere una dura lotta perché ritengono di essere nel giusto.
I problemi della conciliazione tra il lavoro e famiglia non sono problemi privati di ogni singola donna, ma bensì un problema sociale, collettivo che riguarda tutti, che va affrontato in modo strutturale per permettere alle donne di lavorare, alle giovani donne di poter diventare madri e per poter avere il tempo materiale per gestire gli affetti, la cura per i genitori anziani ecc.
Siamo stanche delle statistiche sul basso tasso di occupazione femminile in Italia, delle prediche sulla denatalità, degli appelli al valore della famiglia come centro di coesione per la società quando tutte le scelte vengono fatte sulla pelle delle donne. Aziende e istituzioni di fatto non riconoscono il valore sociale della maternità e non affrontano i problemi connessi alla conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
La lotta delle lavoratrici del COIN è la lotta di tutte noi.
SOSTENIAMOLA!
Le segretarie della Camera del lavoro di Milano
Nerina Benuzzi Graziella Carneri Fulvia Colombini
La straordinaria vita di Nadia d’Amelj Melodia, da trent’anni delegata sindacale nel grande magazzino milanese (domani in sciopero) e da sempre lavoratrice appassionata
Manuela Cartosio
«Nulla di importante al mondo è stato fatto senza passione». La citazione, attribuita a Hegel, accoglie chi visita la sezione «Lavora con noi» sul sito della Rinascente. Fossero spiritosi, di fianco ci metterebbero la foto di un’adorabile nemica, Nadia d’Amelj Melodia, universalmente nota come «la Damelì». E’ la capessa, sindacalmente parlando, delle commesse della Rinascente di piazza Duomo. Delegata della Filcams Cgil dal 1976, Nadia è la réclame della passione. Ne mette in abbondanza in tutto quel che fa. E fa tanto. Fa due lavori in uno, commessa e delegata, e in entrambi ha scelto di non far carriera. In azienda per ovvi motivi d’incompatibilità, nel sindacato «perché così sono più libera, non sono incasellata». La storica sede della Rinascente si allarga e si alza come una fisarmonica ma a Nadia non sfugge neppure un angolino. Se due uscite di sicurezza non superano il test d’emergenza, lei sa quali sono e pianta la grana in alto loco. Dal top manager all’ultimo degli interinali, conosce per nome e cognome «quasi» tutte le ottocento persone che lavorano alla Rinascente-Duomo. La sua attività di delegata non si esaurisce nel fare assemblee o organizzare scioperi. Nadia disegna i cartelloni e fa i fiori di carta da portare in corteo, «ho una buona manualità». Tiene il conto di nascite, matrimoni, crisi coniugali, depressioni e malattie che si succedono nel suo reame. Trasforma l’8 marzo nella giornata delle torte, «mi raccomando, le fette piccole piccole, un euro l’una, i soldi vanno a Emergency». Organizza a domicilio, il suo, una «scuola quadri» per trasmettere in modo conviviale i rudimenti del mestiere di sindacalista, «anche qui la professionalità si sta perdendo». Si aggiunga il saper fare «privato»: Nadia taglia, cuce, ripara il ferro da stiro e i rubinetti che perdono, imbianca e smalta. E ha pure il pollice verde, certificato sul terrazzo da due piante di gelsomino che hanno compiuto trent’anni.
Una casa al Gallaratese
«La Damelì» sta al Gallaratese, in una casa popolare dove, quando c’è da sedare una bega condominiale, si ricorre alla sue arti di mediazione. Nadia abita al settimo piano e, da un po’ di mesi, fa le scale a piedi. Si sta allenando per fare il fiato. A novembre partirà per la sua terza spedizione, quindici giorni di trekking d’alta quota in Nepal, al santuario dell’Annapurna, oltre i 5 mila metri. E’ l’ultima delle passioni di Nadia, scoppiata negli anni non più verdi di «una splendida sessantenne» prossima alla pensione.
Le prestazioni in alta quota, ovviamente, hanno alzato le quotazioni di Nadia superwoman presso le colleghe. Lei minimizza: «Non soffro di vertigini e di mal d’aria, un po’ di fiato l’avevo già perché vado in bicicletta. Non faccio cose rischiose. C’è solo da camminare otto ore al giorno». La molla per buttarsi nell’impresa? La bellezza, «è un’altra montagna, è un altro cielo». E la voglia di «misurarsi con se stessi, di sentire la propria fisicità».
A Nadia, turista consapevole, non sfugge l’altra faccia delle medaglia: per far arrivare una quindicina di «ricchi» europei ai campi base devono faticare una trentina di poveri nepalesi o tibetani. Lo sherpa, che fa da guida, e gli addetti alla cucina non se la passano male. Ma i portatori, «pagati meno di quanto costa mantenere gli yak», fanno la fame. Ci si sente «un po’ vermi» vedendo ragazzini e ragazzine caricarsi sulle spalle «la tua tenda e il cibo che loro non mangeranno». Un’idea, buona ma impervia, Nadia ce l’avrebbe: le spedizioni dovrebbero autotassarsi e girare i soldi alle comunità locali che «rinunciano» a far lavorare i minori come portatori.
Chiusa la parentesi montanara, torniamo alla Rinascente. Per nascita (famiglia medioborghese di proprietari terrieri pugliesi, «mi avevano già fidanzata a 13 anni») e per studi (diploma all’Accademia di Brera) Nadia non era destinata a fare la commessa. Comincia a «vendere» nel `61, dopo aver rotto i ponti con i genitori che le avevano vietato di fare la disegnatrice di cartoni animati. Detersivi porta a porta, «al mattino ci caricavano su un pullmino che batteva l’hinterland milanese, io riuscivo a piazzare solo i rossettini e le ciprie omaggio». Nel `67 nasce Alessandro, «non mi sono mai sposata».
Nel `70 «grazie a una raccomandazione» entra all’Upim, «sciopero tutti i giorni, io non capivo, mi sono presa della crumira». Ci mette poco a «capire» e di quell’esperienza personale ha fatto tesoro: «Quando una ragazzina un po’ saputella salta su in assemblea a dire che lo sciopero non la riguarda, mai colpevolizzarla». Dopo 21 contratti a termine, «non li hanno inventati adesso», nel `76 è assunta in pianta stabile alla Rinascente di piazza Duomo. «Ho venduto di tutto, dall’abbigliamento sportivo ai casalinghi. Adesso sono la regina delle tovaglie. Se si ritirano di dieci centimetri al primo lavaggio, io alla cliente lo dico».
Ancora negli anni `70 fare la commessa nel più prestigioso dei grandi magazzini italiani era «il massimo» per una signorina di bella presenza. All’uscita, «c’era la coda dei corteggiatori». L’azienda una volta «passava» le calze e il buono per il parrucchiere. Adesso solo la divisa, «l’ultima, rossa da caccia alla volpe, è orrenda».
Nadia non si è mai sentita «diminuita» a fare la commessa. «E’ un lavoro di relazione, meglio che tirare righe nello studio di un architetto». Saper parlare – «gli interventi non li preparo mai scritti, altrimenti la gente si annoia» – sensibilità e un certo caratterino sono le doti naturali che aiutano Nadia a fare la delegata. Pure questo è un lavoro di relazione. Non basta saper tener testa all’azienda, «prima devi costruire giorno dopo giorno la solidarietà dalla tua parte». Lo stereotipo «Eva contro Eva» un qualche fondamento ce l’ha, ammette Nadia, «tra donne ci si punzecchia». Ma, al dunque, le commesse sono «unite» di fronte all’azienda, «più forti» dei fattorini e degli addetti alla movimentazione merci (in piazza Duomo sono una sessantina) che si presentano con il cappello in mano dal dirigente per chiedere favori personali, non per rivendicare diritti collettivi.
Il settore del commercio è stato uno dei primi a essere investito dalla deregulation e il sindacato, Cgil compresa, ha le sue colpe. La più grossa, per Nadia, è aver accettato trattamenti diversi per vecchi e nuovi assunti. «Se io lavoro alla domenica prendo il 70% in più della paga normale, un apprendista il 30%. Non è giusto». Nonostante la frantumazione della forza lavoro, l’adesione agli scioperi alla Rinascente di piazza Duomo resta alta: l’80%, «quando va male».
Ma da una quindicina d’anni in qua si sciopera con le saracinesche alzate, «è una scelta politica di tutta la grande distribuzione». Praticata con rimpiazzi sul filo del lecito. Della nuova proprietà del gruppo Rinascente (vedi box) Nadia pensa tutto il male possibile: ha disdettato tutti gli accordi integrativi, e questo basterebbe. In più, «sono sciatti, poco preparati, non pensano in grande, si intignano su piccole cose». Hanno fatto sparire dai reparti tutte le sedie, licenziano persone malate a pochi anni dalla pensione, lesinano sulle assemblee, assoldano consulenti che scodellano ricette demenziali per contenere tempi e costi. Tipo: fornire un taglierino a ogni commessa perché faccia a pezzi in reparto gli scatoloni dopo averli svuotati, pesti ben bene sotto i piedi i cartoni, indi li avvii in magazzino. «E l’avete anche pagato quel genio?», ha reagito «la Damelì», e i taglierini per ora sono stati archiviati.
«Con gli arabi si va sul sicuro»
Dalla sua postazione in piazza Duomo, Nadia registra le evoluzioni dei consumi e della clientela. Si spende meno, «senza più gioia e contentezza per l’acquisto, in modo nevrotico». Una come lei dovrebbe detestare Natale e, invece, massima prova di attaccamento al lavoro, rimpiange «quelli di una volta, quando non c’era un centimetro tra un cliente e l’altro». Dopo le crisi internazionali, «sono tornati gli arabi, con mogli bellissime e guardaspalle, sono quelli che spendono di più, con loro si va sul sicuro». I clienti più malmostosi? «Quelli che arrivano cinque minuti prima della chiusura e pretendono di tenerti lì apposta per loro dopo le dieci di sera. Le signore che per dispetto infilano la mano nello scaffale, buttano tutto per aria e non comprano niente». I più detestabili? «Quelli che d’inverno tengono i bambini mezza giornata dentro la Rinascente senza togliergli il cappottino e poi, magari, danno in escandescenze se il pargolo piange».
Contro i taccheggiatori Nadia adotta la linea della prevenzione e della dissuasione. «Alludo, faccio capire al cliente che gli conviene posare l’osso. Non ho mai consegnato nessuno nelle mani dei guardiani. Le commesse in genere si comportano così, anche se l’azienda incentiva le denunce con un premio del 10% sul valore della merce recuperata». Niente prezzi scontati per le dipendenti della Rinascente, «aspettiamo i saldi, come tutti».
Tra un anno «la Damelì» andrà in pensione. Paura del salto nel vuoto? «Non è che non ci dorma la notte. Ho in mente tante cose da fare. Imparare bene l’inglese, fare un corso di giardinaggio, leggere finalmente in santa pace, adesso ho tempo solo in metropolitana…».
Le donne negli anni 70 lottavano “per poter scegliere”, oggi vorrebbero “non dover scegliere”
A.B.
Roma. Mamme italiane di trent’anni. Sono state loro a dare una piccola scossa alla natalità (ed era un po’ che i demografi discutevano di un quasi impercettibile picco), con un calcetto alla lowest low fertilità d’Italia, la bassissima fecondità, e già però i tecnici la chiamano così: maternità di recupero.
Che arriva un po’ più tardi, a volte parecchio tardi, ma arriva. A quella che in Inghilterra è stata definita “la migliore età per avere un bambino: 34 anni”. Dagli anni Settanta a oggi l’età in cui si fa il primo figlio è salita di dieci anni, si sa. Cosa si può fare per riportarla indietro, per alleggerire il pensiero di un figlio, per allontanare un po’ la media da quell’uno virgola tre figli per donna che significa estinzione a non troppo lungo termine? Visto che poi, in Finlandia, Danimarca e Svezia madri biondissime e modernissime e ben più giovani tengono una media di quasi due figli a coppia, visto che in Francia si fanno più bambini (ma anche più aborti). Politiche familiari, è la risposta. Baby bond, una specie di dote “per aiutare a mettere su famiglia e rafforzare l’autonomia dei giovani”, è la proposta della Margherita. Perché sta quasi tutto lì, nella difficoltà, nella precarietà, però non
solo. “C’è stato un cambiamento culturale notevole rispetto a trent’anni fa – dice al Foglio Marina Piazza, sociologa, presidente di Gender, ex presidente della Commissione nazionale per le pari opportunità della presidenza del Consiglio – Allora si lottava nelle piazze, per la libertà, l’aborto e il divorzio perché si aveva in testa uno slogan: ‘Per poter scegliere’, ora lo slogan, se ci fosse, sarebbe: ‘Per non dover scegliere’. Per non dover scegliere, giustamente, tra maternità e carriera, per avere tutto ma anche per non avere troppe responsabilità: c’è più paura, e c’è un desiderio di maternità e paternità che comincia ad aggirarsi, nebuloso, dopo i venticinque anni, per realizzarsi almeno cinque anni dopo”. Paura che la vita cambi, paura delle rinunce. “Se ci si ragiona troppo un figlio non lo si farà mai, ma si tende sempre di più ad aspettare che il desiderio sia sostenuto da elementi di realtà, sia ben protetto da famiglia, lavoro, sicurezza economica”, dice la Piazza. La paura è dovuta anche al fatto che l’Italia “non è una società accogliente nei confronti delle donne e dei figli. Nelle aziende la mentalità è questa: come sono belle le donne, come sarebbe bello se fossero uomini”.
Significa che si apprezzano le competenze femminili, ma si pretendono comportamenti maschili: ti
mando in Olanda, però devi partire tra un’ora; quest’incarico sarebbe perfetto per te, lavoraci anche la sera. “Sono pochissime le aziende, ad esempio, a concedere il part-time, soprattutto ad alti livelli – spiega la Piazza, che sta facendo una ricerca sul rapporto tra maternità e lavoro fra le giovani donne in Lombardia – mentre in Olanda sia madri sia padri hanno diritto al part time per i primi tre anni di vita del bambino: qui si va in congedo maternità e al ritorno la scrivania è stata spostata, si fa un bambino e si viene considerate residuali”. Non solo politiche familiari, quindi, quel che serve è “una politica di conciliazione”, dice la Piazza, un nuovo welfare.
“La questione dell’instabilità lavorativa è l’elemento principale che ostacola o ritarda una maternità – e se il primo figlio lo si fa a 32, 34 o 35 anni, quasi sicuramente non se ne avrà un altro, in Italia la media
statistica è molto vicina a quella reale”. Instabilità lavorativa significa contratti a termine, assegni di ricerca, “un percorso accidentato che prosegue mese per mese e che offre un’autonomia zoppa ma,
nelle fasce più alte, maggiori possibilità di carriera”. Marina Piazza ha incontrato giovani donne con assegni di ricerca all’Università: “Nessuna avrebbe mai fatto il cambio con un lavoro impiegatizio a tempo indeterminato”. In Svezia ci sono molti strumenti di flessibilità, “semplicemente perché tengono
conto che le donne esistono e vanno sostenute”. In Inghilterra il part time viene concesso anche ad alti livelli, e in Francia le imposte vengono pagate sul quoziente familiare. In Italia “c’è la famiglia”. Le nonne, i nonni. “Quest’ultimo rapporto Istat ha segnalato 20 punti percentuale in meno sul lavoro delle donne con più di 45 anni: sono quelle che restano a casa a occuparsi dei nipotini”. Perché mancano i servizi, mancano gli asili nido. “E c’è un altro fattore culturale: nonostante i cambiamenti, vige
ancora, in Italia, la scarsità di condivisione del lavoro di cura” dice Marina Piazza. Cioè la casa, i bambini, la spesa: “il settantasette per cento del lavoro familiare è fatto ancora dalle donne”, i mariti se la cavano alla grande. E per questo piccolo picco di natalità il rapporto Istat ha registrato un altro dato, fa notare la Piazza: “l’aumento dell’occupazione femminile, sempre costante negli ultimi anni, questa volta si è fermato”.
Isabella Bossi Fedrigotti
Le milanesi lo andavano dicendo da un pezzo, senza peraltro ricevere molto credito: sul lavoro siamo discriminate, avere un figlio è visto male nelle aziende e lo è, quasi altrettanto, essere in età di averlo. Adesso le imprese lo confermano a un’ indagine della Camera di commercio, secondo la quale le donne con bambini piccoli oppure in attesa creano difficoltà sul lavoro in quanto ” distratte dalla famiglia ” . Per contro, le signore senza figli e non intenzionate ad averne vanno benissimo, sono le benvenute in quanto s’ impegnano anche più degli uomini. Tutto logico e tutto comprensibile: chi ha un figlio piccolo, in particolare quando è malato, pensa per forza di cose più a lui che al lavoro, e non è disponibile per straordinari serali o festivi. Ed è sicuramente vero – come qualcuno si è affrettato ad accusare – che qualche mamma se ne approfitti con permessi, licenze e finti certificati medici, ma in tempi in cui le ristrutturazioni aziendali sono all’ ordine del giorno e sono tornate in auge le lettere di dimissioni firmate al momento dell’ assunzione, il fenomeno sembra piuttosto circoscritto. E’ , dunque, , la donna che Milano pretende, senza bambini, ma, ovviamente, senza anziani genitori, per lo più sola, insomma, visto che, linea generale, non tutti i mariti o compagni si rassegnano a un’ esistenza senza figli? Donne, quanto a stile di vita, il più possibile simili agli uomini, perfetti soggetti economici, perciò, certo non affettivi, non sentimentali, non familiari? Siamo sicuri che sia, questa, una prospettiva auspicabile, che farà bene alla nostra città, alle sue aziende e ai suoi cittadini, tanto più che l’ accusa più di frequente mossa alle donne è, attualmente, quella di essere diventate dure, aggressive, ambiziose e mascoline, senza più dolcezza né tenerezza? Per non parlare della conseguenza più vistosa di questa crisi tra imprese e lavoratrici, acuta denatalità milanese, che da tempo preoccupa Chiesa e istituzioni, inducendole a citare, tra le cause, l’ egoismo delle famiglie. Come se lavorare fuori casa fosse un capriccio delle donne e non, per lo più, una necessità, e cercare affermazione nella professione un chiaro indice di egoismo. Tanto egoiste sono le milanesi che è in costante aumento, tra loro, il numero di chi abbandona l’ impiego dopo il secondo figlio, proprio per le difficoltà di conciliare lavoro e bambini. Stando alle dichiarazioni, alle aziende converrebbe, dunque, non assumere più donne, non, almeno, in età fertile. E la tendenza – è giocoforza – qua e là è già in atto. A questo proposito, sebbene sia già stato citato qui un’ altra volta, resta emblematico ( e minaccioso) il dato di Trento, città tra le più prospere d’ Italia, dove una recente inchiesta ha individuato le donne tra i 28 e i 35 anni come il gruppo a più alto rischio povertà, per il semplice fatto che sono le ultime della lista a trovare un lavoro.
“La maternità un freno per la carriera”.
Il sindacato: mobbing e discriminazioni, aumentano le dimissioni forzate La Camera di commercio: “Più affidabili e determinate rispetto ai colleghi uomini, ma creano difficoltà all’ 80 per cento delle imprese” Sangalli: pochi servizi, serve una città a misura di famiglia.
Querzé Rita
Donne discriminate sul lavoro? Vero. Donne più affidabili e determinate dei colleghi maschi? Altrettanto vero. Donne costrette ad arrabattarsi con un’ offerta di servizi inadeguata? Verissimo. Così la pensano le aziende milanesi e italiane interpellate dalla Camera di commercio di Milano. Imprenditori e direttori del personale invitano le dipendenti a fare un sincero esame di coscienza. ” Se non siete valorizzate sul lavoro – dicono in sostanza – è colpa della vostra gestione della maternità: siete troppo spesso assenti per le malattie dei figli, poco disponibili a restare oltre l’ orario, più concentrate sulla famiglia che sul lavoro ” .
L’ INDAGINE – L’ indagine della Camera di commercio ha coinvolto 1.536 imprese italiane di cui 328 milanesi. Ogni azienda ha compilato un questionario. Il risultato è un quadro dai forti contrasti. Da una parte le donne sono considerate una risorsa con grandi potenzialità: più affidabili per il 25 per cento degli intervistati, più determinate addirittura per il 40 per cento. Tanto che solo l’ 8,3 per cento esclude a priori di affidare un ruolo di responsabilità a una donna. A penalizzare le signore, per otto imprese su dieci, è la maternità. Dopo la nascita del figlio le donne sarebbero meno motivate, meno disponibili. Troppe le assenze per le malattie del bambino. E se le donne guadagnano meno dei colleghi a parità di mansioni ( una differenza di trattamento ammessa dal 30 per cento degli imprenditori intervistati), la colpa è proprio della loro minore disponibilità. Oltre che della maggiore propensione ad ” accontentarsi ” .
MILANO MISOGINA – Il mondo dell’ impresa divide le proprie responsabilità con il contesto sociale cittadino. Secondo il 59 per cento degli intervistati Milano discrimina le donne. Una percentuale di due punti e mezzo superiore a quella registrata, in media, nel Paese. In particolare, le aziende ritengono che i servizi siano inadeguati ( 11,3 per cento). Per il 35 per cento, comunque, tutte le italiane vivono e lavorano in ambienti altrettanto difficili. E se si confronta Milano con le altre capitali europee fanno meglio in materia di parità soltanto Londra, Oslo, Amsterdam, Copenhagen e Stoccolma. Invitati anche a segnalare la propria ” donna simbolo ” , imprenditori e direttori del personale propongono Margaret Thatcher, Hillary Clinton, Rita Levi Montalcini. Tutti esempi di determinazione nel proprio contesto professionale, dalla politica alla ricerca. Mapiacciono anche la fede di Madre Teresa e il glamour di Rania di Giordania.
L’ APPELLO – Secondo il presidente della Camera di Commercio, Carlo Sangalli, disparità sono tali da richiedere un intervento. ” Occorre impegnarsi per superare alcuni pregiudizi ancora presenti nel mondo del lavoro, sia dipendente che autonomo, e per creare una città più a misura di famiglia. Le donne non devono rinunciare alla loro realizzazione professionale ” . ” Una migliore valorizzazione delle risorse femminili aiuterebbe le imprese a essere più competitive ” , Gianna Martinengo, presidente del Comitato per la promozione dell’ imprenditoria femminile della Camera di commercio.
SEMPRE PIU’ DIMISSIONI – Il sindacato si associa all’ appello antidiscriminazioni. E sottolinea come la situazione negli ultimi anni sia peggiorata. ” La crisi morde e le donne che tornano dalla maternità troppo spesso vengono spinte alle dimissioni ” , denuncia Graziella Carneri, segretario della Camera del Lavoro di Milano. ” Le imprese sostengono che le donne sono meno disponibili dopo la nascita di un figlio? Non è vero, si tratta di pregiudizi ” , Sabina Guancia, presidente dell’ Associazione per la famiglia vicina alla Cisl.
LA MATERNITA’ – Ma c’ è anche chi la pensa diversamente. ” Sarà impopolare, ma va rilevato che, soprattutto nel pubblico, dove l’ impiego è più stabile, non è raro trovare donne che sfruttano la maternità a rischio grazie a medici compiacenti ” , contesta Viviana Beccalossi, An, vicepresidente della giunta regionale. ” Ciò non toglie – continua Beccalossi – che le donne continuino spesso a muoversi in un contesto culturalmente ostile. Basti pensare alle riunioni politiche convocate alle nove di sera ” .
Negli Usa e in Europa il governo delle imprese e il sistema politico sono stati accomunati dalla stessa logica «inclusiva» che ha però accresciuto il potere delle élite politiche e manageriali. Un sentiero di lettura sulla crisi della democrazia a partire dall’implosione del modello imprenditoriale della new economy
Christian Marazzi
Gli scandali che circondano la gestione delle grandi società quotate in borsa a partire dal 2000 non sono incidenti di percorso di un capitalismo dominato dalla finanza di mercato. Sono, al contrario, la manifestazione evidente di contraddizioni che sono al cuore stesso di un regime di crescita finanziarizzato. E’ questa la tesi che Michel Aglietta e Antoine Rebérioux sviluppano in Dérives du capitalisme financier (Ed. Albin Michel), un libro che ha origine in una ricerca collettiva per conto del «Commissariato generale del Piano francese», iniziata nel 1999 quando imperversava l’ideologia della new economy, e diffuso per la prima volta nel 2001, un mese prima dell’esplosione dello scandalo Enron. Si tratta di uno studio rigoroso in cui gli autori, oltre a smontare la dottrina della sovranità azionariale (shareholder value) e i suoi effetti perversi sulla governance d’impresa, propongono una serie di riforme di democrazia economica «per rimettere il capitalismo contemporaneo sulla via del progresso sociale». Nell’analisi del capitalismo finanziario contemporaneo centrale è la crisi della sovranità degli azionisti come espressione dell’impossibilità di esercitare il controllo democratico dall’esterno dei processi produttivi. La liquidità dei mercati finanziari e lo sviluppo del risparmio gestito dai Fondi pensione e d’investimento con l’unica preoccupazione di massimizzare la rendita finanziaria, rendono del tutto illusorio il controllo delle imprese da parte degli azionisti. Questa contraddizione, tale per cui i proprietari di capitale (gli azionisti) non controllano le imprese in cui hanno investito la loro liquidità, e quindi lasciano ampi margini di manovra ai manager dirigenti, fu descritta per la prima volta da Berle e Means in The Modern Corporation and Private Property, pubblicato nel 1932.
Un’ideologia partecipativa
Aglietta e Rebérioux attualizzano l’analisi di Berle e Means alla luce delle trasformazioni dei modi di produrre che hanno fatto dell’impresa il luogo privilegiato della cooperazione lavorativa. L’impresa postfordista, nelle sue dimensioni tecnologiche, finanziarie, cognitive e organizzative, è per sua natura collettiva, «partenariale», e quindi non è un oggetto di diritti di proprietà. Ne consegue che centrale nella governance d’impresa non è più il controllo, bensì la formazione di un interesse collettivo che si esprime in una finalità riconosciuta e accettata dai soggetti della cooperazione produttiva. Questo esito democratico dovrebbe tradursi ugualmente nella gestione del risparmio collettivo, in modo da ridurre l’instabilità macro-finanziaria che sottende il capitalismo contemporaneo.
L’idea della democrazia economica come superamento delle contraddizioni poste in essere dalla logica della proprietà privata e del controllo esterno da parte degli azionisti dei processi di creazione della ricchezza sociale, merita di essere approfondita.
L’instabilità e la fragilità che minano alla radice la dottrina della «sovranità azionariale» e il concetto di democrazia su cui poggia, sono strutturali: «Il principio costitutivo di questa dottrina è di coniugare liquidità e controllo. Ora, la liquidità suppone precisamente una presa di distanza. E’ sinonimo di esteriorità». Affinché la liquidità possa esistere è necessario che la proprietà non abbia alcuna relazione con il suo proprietario. Niente sarebbe liquido se il valore assegnato dipendesse dalla capacità, dallo sforzo o dalla volontà del proprietario. «Il marmo cesserebbe di essere facilmente vendibile – scrive Berle nel 1963 – se il suo valore dipendesse dalla sua relazione con lo scultore».
Ne consegue che più si privilegia, come nel capitalismo contemporaneo, l’interesse degli azionisti, più la gestione delle imprese deve essere fatta nel nome di una esteriorità (il mercato finanziario). Questo processo contribuisce a deresponsabilizzare il potere manageriale, col risultato, tra altri, che il rapporto tra la remunerazione media dei più alti dirigenti delle grandi corporation americane rispetto al salario operaio medio è passato da 85 nel 1990 a 400 nel 2004. L’inefficacia del controllo azionariale esterno (che è esterno in virtù della natura liquida del capitale) è duplice: rafforza l’autoreferenzialità dei mercati finanziari (bolla speculativa), destabilizza la cooperazione delle forze produttive (ristrutturazioni, fusioni, delocalizzazioni).
Il salariato che è contemporaneamente dentro i processi produttivi, come operaio, e fuori, come risparmiatore, ben esemplifica la contraddizione del capitalismo finaziario: come risparmiatore, i cui fondi pensione sono investiti in borsa, ha interesse al miglior rendimento dei suoi investimenti, ma come operaio subisce direttamente gli effetti della finanziarizzazione, mettendo a repentaglio il suo salario e il suo posto di lavoro. In questo gioco autodistruttivo tra dentro e fuori, alla fine gli unici a guadagnarci sono i manager, quella «aristocrazia venale» indifferente sia alla sorte dei lavoratori sia, in ultima istanza, a quella degli azionisti.
Le proposte di democrazia economica avanzate da Aglietta e Rebérioux, nella forma di una effettiva rappresentanza dei salariati nei consigli d’amministrazione (sul modello svedese o tedesco, in cui i salariati hanno diritti equivalenti a quelli degli azionisti), e nella forma di piani di risparmio salariale e di risparmio-pensione gestiti politicamente nell’interesse della collettività (socializzazione dei rischi), hanno quale comun denominatore l’obiettivo di interiorizzare il controllo, di superare quella esteriorità della «proprietà liquida» che è la causa principale della crisi del capitalismo finanziario. L’idea è quella di una democrazia inclusiva basata sul concetto di prorietà sociale del capitale emergente dalla natura cooperativa e collettiva dei processi di creazione della ricchezza.
Pratiche di relazione
Per quanto condivisibile sul piano logico e formale, vi è più di un motivo per essere scettici di fronte a questa concezione economica della democrazia. Le contraddizioni del capitalismo finanziario vengono gestite per estensione dei medesimi processi che hanno portato alla crisi della new economy. Si pensi, ad esempio, ai processi di outsourcing planetario che hanno fatto seguito alla crisi della new economy, processi tendenti appunto a includere spazi di valorizzazione relativamente esterni, con effetti devastanti per il salario e l’occupazione nelle economie occidentali, per non parlare delle derive antidemocratiche, come la guerra, che di questi processi sono il corollario.
La domanda che ci poniamo è se sia ancora possibile, o comunque sufficiente, ragionare sulla democrazia utilizzando la categoria politica dell’inclusione, o se invece non sia preferibile partire dalle forme di soggettività che questo stesso capitalismo ha determinato. Da questo punto di vista i comportamenti soggettivi delle donne nel sistema economico postfordista, che ha fatto di tutto per interiorizzare e mettere a valore le competenze comunicativo-relazionali femminili maturate nella sfera riproduttiva, permettono di sviluppare un concetto di democrazia basato sulla differenza, piuttosto che sull’inclusione.
«Il problema fastidioso per il business non è trovare talenti femminili, ma trattenerli», scrive Laura D’Andrea Tyson, decano della London Business School (Business Week, 28 marzo). Il problema di come «trattenere la differenza» all’interno di un universo produttivo, in cui il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro tende a superare quello maschile, è oggetto di un’indagine apparsa sul numero di marzo della Harvard Business Review da cui emerge come le donne abbiano un rapporto col lavoro decisamente diverso da quello degli uomini. La differenza è particolarmente marcata tra le donne con qualifiche professionali elevate, e riguarda il rapporto delle donne col potere, con la leadership, con la carriera. Molte donne interrompono la loro attività, mettendo a repentaglio carriera e reddito, non solo per accudire i figli, ma sempre di più per autovalorizzarsi, per combattere la noia e la frustrazione del lavoro con la riappropriazione di spazi e di tempo per sé («It’s boring at the top for female executives», titolava un recente articolo del New York Times).
La questione non è risolvibile con il solo aumento della rappresentanza delle donne ai vertici del mondo economico (che le vede comunque rappresentate per un solo 2% nelle prime 500 compagnie americane). E non è neppure circoscrivibile alle sole donne altamente qualificate, come dimostrano due preziose ricerche apparse in Italia (Le parole per farlo. Donne al lavoro nel postfordsimo, a cura di Adriana Nannicini, DeriveApprodi; Parole che le donne usano nel mondo del lavoro oggi, Quaderni di Via Dogana, il manifesto del 23/05/05).
Il lavoro della differenza
Si tratta, piuttosto, del «lavoro della differenza», di quello scarto, o «eccedenza», irriducibile alla sola dimensione economica e alle misure di «democrazia inclusiva» che già abbiamo visto all’opera nella fase ascendente della new economy con l’uso delle stock options per trattenere competenze e creatività della forza-lavoro. Peter Druker, in Il management della società prossima ventura (Etas) ricorda che «le aziende che si sono spinte maggiormente in questa direzione hanno avuto il turnover più elevato. E’ incredibile quanto sono numerosi gli ex dipendenti Microsoft che mi è capitato di incontrare. Gli ex dipendenti della Microsoft odiano l’azienda, perché si rendono conto che essa offrì loro solo del denaro. Inoltre si rendono conto che il sistema di valori aziendale è unicamente finanziario, mentre essi si considerano professionisti, con un sistema di valori diverso».
L’ultimo libro di Richard Florida, The Flight of the Creative Class. The New Global Competition for Talent (HarperBusiness, 2005), si occupa, non a caso, della fuga dei knowledge workers americani verso altri paesi, una scelta difficilmente spiegabile sulla base dei soli differenziali salariali. La democrazia che andiamo cercando deve tener conto di quell’attivo sottrarsi, di quella resistenza della differenza, di quella esteriorità vitale, capace di innovazione di forme di vita e di valorizzazione. La democrazia è lo spazio del «dentro e fuori» abitato dalla pluralità di differenze.
I “seminari motivazionali come strumenti per umiliare i i dipendenti
Robin Corey
Un buon punto di partenza per indagare l’uso intimidatorio della paura nell’America contemporanea è il posto di lavoro, perché è lì – nelle pratiche di assunzione e licenziamento, promozione e retrocessione scarsamente regolamentate; nell’intimità coartata e coercitiva tra datore di lavoro e dipendente, tra controllore e controllato – che la paura produce un effetto particolarmente tossico. Nonostante il fatto che gli americani adulti trascorrano al lavoro la stragrande maggioranza delle proprie ore di veglia e nonostante il fatto che la stampa economica ammetta apertamente che “dal luogo di lavoro la paura non è mai assente nè mai deve esserlo” e che “la paura può essere un potente strumento a disposizione del management”, il lavoro rimane un’enorme terra incognita, resa inaccessibile al pubblico scrutinio dalle alte mura della legge e dell’indifferenza politica. I datori di lavoro e i dirigenti non agitano minacce di licenziamento, declassamento e altre sanzioni perché siano crudeli, ma perché credono, come scrive il fondatore della Intel Andrei Grove nel libro Oniy the Paranoid Survive, che la paura alimenti il ritmo febbrile dell’industria contemporanea e che essa sia un elemento essenziale della nostra economia politica La paura sul posto di lavoro crea un ordine sociale interno che può essere senza esagerazione descritto come feudale, un mondo più premoderno che postmoderno, il cui vero teorico non è Karl Marx nè Adam Smith, ma Joseph de Maistre.
Si consideri l’esperienza di un gruppo di lavoratrici dello stabilimento della Nabisco a Oxford in California, dove viene prodotta la salsa per le bistecche A-1 e tutta l’offerta mondiale di senape Grey Poupon. In una causa intentata nel 1995, queste lavoratrici denunciavano il fatto che i capi impedissero loro continuamente di andare in bagno. Dovendo scegliere tra orinarsi addosso e la minaccia di tre giorni di sospensione per visite al bagno non autorizzate, le lavoratrici scelsero di indossare i pannoloni, ai quali però presto dovettero rinunciare a causa dei costi, passando agli assorbenti e alla carta igienica che, se intrisi di urina, pongono seri rischi sanitari. E infatti numerose lavoratrici finirono per contrarre infezioni alla vescica e alle vie urinarie. (Venuto a conoscenza della loro condizione, il commentatore conservatore R Emmell Tyrrell Jr. consigliò loro di indossare gli speciali pannoloni utilizzati a New York dai cavalli delle carrozze di Central Park). Fu solamente nell’aprile del 1998 che, su pressione dei sindacati, il Governo federale affermò con terminologia confusa che i datori di lavoro dovevano concedere ai dipendenti il “tempestivo accesso” al bagno. La legge è stata da allora elusa più volte.
Nel settore privato, l’intimidazione e lo spionaggio coesistono con finte celebrazioni dell’individualismo, quando in realtà i dipendenti, temendo di perdere il proprio lavoro, vengono costretti a minuziose recite collettive di falsa bonomia e lealtà nei confronti dell’azienda. Gli effetti sono spesso umilianti e avvilenti. La Nyntex, dopo aver tagliato il numero dei dipendenti a metà degli anni Novanta, obbligò i propri Mba e tecnici specializzati a partecipare a un ritiro di tre giorni, nel corso del quale vennero incoraggiati a scoprire la propria creatività, saltellando in vario modo per una stanza. Alcuni saltellarono su una gamba sola, altri su due, altri ancora alzando le mani, e un uomo coprendosi un occhio con la mano. Secondo uno dei partecipanti, “i capi dicevano cose del tipo “guardate come siete creativi, quanti modi di saltare per la stanza sapete inventare”. E non ci fu nessuno che si rifiutò di farlo… nessuno”.
Il dirigente del settore marketing di un network radiofonico, che aveva subito un’analoga ondata di licenziamenti, ricorda come, in occasione di un seminano motivazionale, un consulente del management consegnò ai dipendenti delle pistole ad acqua dicendo di spruzzarsi gli uni addosso agli altri – per aiutarli a entrare in contatto con la parte più giocosa del loro io. “C’erano tutti questi quadri chi correvano di qua e di là, schizzandosi acqua addosso”, dice. Dopo avere inizialmente pensato di non partecipare, ritornò sulla sua decisione, chiedendosi: “Se non mi metto a giocare con le pistole ad acqua, licenzieranno anche me?”. Inoltre, secondo quanto sostiene, questi giochi facevano sentire “estremamente a disagio professionisti seri, sia uomini sia donne. In molti ci sentimmo a disagio, imbarazzati, poco disposti a partecipare, eppure continuammo. Era come se tutto fosse pensato per spezzarti dentro. Penso fosse un modo per umiliarci. Dopo un’ondata di licenziamenti alla Bank of America, i vertici aziendali istituirono un programma volontario di “adozione” di un bancomat. Al programma aderirono 2.800 dipendenti, che pulivano fedelmente il bancomat e lo spazio circostante – fuori dall’orario di lavoro e senza ricevere straordinari – semplicemente per salvare il posto di lavoro.
Interpretando la paura come facciamo oggi, come reazione collettiva a minacce di carattere non politico, come strumento di rigenerazione morale e spirituale della società, oppure reagendo esclusivamente agli oggetti della paura di origine estrema, ignoriamo o minimizziamo queste forme quotidiane di paura che rafforzano un ordine morale repressivo, limitano la libertà e creano e perpetuano disuguaglianza.
Seminario “Il lavoro nella quotidianità. La quotidianità nel lavoro”
Venezia, 18-19 aprile 2005
Anna M. Ponzellini (Università di Bergamo)
VERSIONE PROVVISORIA
Tuttavia, quando abbandoniamo il (consolante) approccio descrittivo delle “buone prassi”, il panorama che, soprattutto in Italia, ci offre la rilevazione quantitativa di tali esperienze appare estremamente preoccupante. Sono infatti pochissime – non oltre il 3%, secondo una stima avanzata da una indagine sulla contrattazione aziendale – le aziende dove negli ultimi anni sono state introdotte norme sul lavoro classificabili, anche in senso lato, come misure favorevoli alla conciliazione.
Nel paper si propone di trovare spiegazioni al mancato, o comunque insufficiente, riscontro nella esperienza contrattuale – e, più in generale, nella esperienza delle relazioni tra organizzazioni sindacali ed imprese – di bisogni sociali che pure, dal momento dell’ingresso di massa delle donne nel mercato del lavoro, sono diventati evidenti ed urgenti. Una carenza che potrebbe addirittura costituire la ragione della scarsa propensione delle lavoratrici italiane – in controtendenza rispetto al resto d’Europa – ad iscriversi al sindacato.
Per fare questo, si fa un’analisi delle oggettive difficoltà delle parti sociali – in particolare, del sindacato – a regolare contrattualmente e estendere all’insieme del mondo del lavoro esigenze differenziate, mutevoli nel tempo e “costose”, come quelle di cui sono portatori e portatrici i dipendenti con responsabilità familiari e di cura. Ipotizza però anche la possibilità che le relazioni industriali che conosciamo siano – per tradizione, cultura e struttura – inadatte a recepire e a tradurre in regole contrattuali questi nuovi bisogni, al di fuori di un percorso di reale innovazione.
Tra vita e lavoro: strategie differenziate ed equilibri mutevoli
Lo specifico equilibrio tra lavoro e vita che ciascuno immagina per sé è molto diverso tra persona a persona: dipende dal carico delle responsabilità familiari, dall’età dei figli, dalla distribuzione dei ruoli in famiglia, dal grado di investimento nella realizzazione professionale, dalla situazione dei servizi sul territorio, dalle reti familiari e di vicinato ma anche da aspetti meno razionali e meno facili da analizzare – eppure con potenti influenze sulle scelte esistenziali – come il sistema di valori di riferimento. Per le donne in particolare, nella scelta della modalità con cui partecipare (o non partecipare) al mercato del lavoro, oltre alle consuete variabili socio-economiche, sembra avere un grande peso l’ideologia della maternità.
Una ricerca empirica americana ha recentemente tentato di ricostruire le diverse strategie delle donne nell'”equilibrare e intrecciare” (balancing and weaving) il lavoro con la famiglia anche alla luce della variabile “ideologia” e non solo ha evidenziato quanto siano diversificate le combinazioni possibili dei diversi fattori che sono coinvolti nelle scelte – reddito, ore lavorate, ore dedicate personalmente alla cura, ore di cura condivise col partner, ore di cura acquistate sul mercato o ottenute dai servizi pubblici, etc. – ma anche quanto poco l’equilibrio raggiunto risponda ad un razionale calcolo costi-benefici: per esempio, molte donne decidono di non lavorare o di lavorare solo poche ore anche in presenza di un reddito familiare basso mentre, all’opposto, redditi anche molto elevati dei mariti non sono una ragione per molte donne per rinunciare ad un impiego a tempo pieno…. Tali strategie si rivelano anche poco prevedibili soprattutto perché, come argomenta la stessa ricerca, l’equilibrio è il risultato più che di una scelta decisa una volta per tutte di un “processo decisionale” che si confronta contemporaneamente con aspetti soggettivi, ideologici ed emotivi – l’idea della maternità, il grado di fiducia nella capacità educativa del servizio pubblico o della baby-sitter, la percezione dei propri bisogni economici – ma anche con aspetti oggettivi e pratici – la possibilità di ottenere un lavoro ad orario ridotto, di lavorare da casa, di pagare una baby sitter, di suddividere con il partner il lavoro di cura – che possono cambiare nel tempo (Hattery 2001).
L’evidenza della grande varietà degli equilibri di conciliazione mette in guardia nei confronti dei tentativi di ridurre gli atteggiamenti e le aspettative delle donne con famiglia a modelli sociali preconfezionati e stabili (seppure di straordinario potere esplicativo), come quello che suddivide le donne che lavorano in due semplicistiche macro-categorie, quella delle “self-made women” che vogliono soprattutto realizzarsi nel lavoro e quindi non rinunceranno al tempo pieno e alla carriera e quella delle “grateful slaves” che si sentono soprattutto realizzate nella famiglia e che quindi opteranno per il part time e non si cureranno di fare carriera (Hakim 1996).
L’esistenza di una larga gamma di opzioni negli equilibri tra vita e lavoro può spiegare la scarsa tenuta di modelli di partecipazione delle donne al mercato del lavoro e anche, almeno in parte, la difficoltà ad interpretare con certezza la domanda di riferimento per le politiche di welfare o per le misure aziendali. Più in generale, evidenzia la dubbia efficacia di risposte troppo standardizzate, come sono ad esempio gli orari rigidi degli asili-nido, il part time inteso come “lavoro a metà tempo per le donne”.
Scarse risposte dall’organizzazione del lavoro tradizionale: alcune evidenze empiriche
La domanda di innovazione dei modi di lavorare espressa dalle donne viene spesso descritta genericamente come richiesta di “flessibilità”, ma questa definizione non rappresenta la complessità e la varietà delle esigenze avanzate dalle lavoratrici né, ove ve ne siano, le linee di preferenza su cui si dirige il cambiamento. Molta ricerca empirica condotta negli ultimi anni ci dice che piuttosto che verso specifiche misure flessibili, la domanda di cambiamento si orienta in generale verso il raggiungimento di una maggiore autonomia personale, di una più ampia possibilità di scelta rispetto al “dove”, al “quanto” e al “quando” lavorare (AA.VV.1999). L’obiettivo di fondo di chi ha responsabilità familiari sembrerebbe quello, a partire dalle proprie differenziate preferenze ideologiche, di allargare la gamma delle opzioni organizzative per poter meglio costruire la propria specifica “combinazione di conciliazione”. Non a caso, gli equilibri vita-lavoro che Hattery nel suo lavoro definisce “innovativi” includono una molteplicità di intrecci – personalizzati ed autogestiti – di reddito-spazio-tempo: lavorare molte ore e pagarsi un aiuto in casa, lavorare fuori casa durante il tempo che i figli sono affidati ad un servizio educativo o ad una baby sitter e in casa per il restante tempo, lavorare full time ma in turno diverso dal partner, intraprendere una attività di cura di bambini presso la propria abitazione, etc. (Hattery 2001). In tutti i casi in cui, invece, l’autogestione del tempo resta impensabile, le preferenze delle lavoratrici e i lavoratori con carichi familiari si orientano ricorrentemente verso alcune ben individuate caratteristiche dell’orario di lavoro: orari meno lunghi, possibilmente compatti (senza intervalli) e prevedibili con certezza (Ponzellini, Tempia 2003).
Sfortunatamente, i tentativi di conciliare la famiglia con il lavoro si confrontano ancora oggi in molti luoghi di lavoro con una one-best-way dell’organizzazione della prestazione lavorativa che, com’è noto, ha a suo tempo esteso il modello efficiente della concentrazione spaziale e temporale del lavoro – ovvero il modello della fabbrica – a molti impieghi dove ciò non era affatto necessario (ad esempio, alla gran parte degli impieghi amministrativi, tecnici e creativi). Va un po’ meglio nei settori non raggiunti dal fordismo come quelli dei servizi, dove la grande modularità degli orari di lavoro offre significative opportunità per chi è alla ricerca di un proprio specifico equilibrio vita-lavoro ma dove spesso, al contempo, l’elevata variabilità dei flussi di clientela viene trasferita tout court sul lavoro, attraverso richieste di veloci adattamenti degli orari (straordinari, cambio turni) che entrano in contrasto con i bisogni di conciliazione…
Le poche indagini quantitative sulla introduzione nelle aziende di normative e condizioni di lavoro favorevoli ad un miglior equilibrio tra lavoro e vita confermano questa insoddisfacente situazione generale in termini sia di scarsità delle misure, sia persino di rallentamento del processo di innovazione. Due ricerche attuate congiuntamente da Fondazione Seveso e da Gender sulle misure di conciliazione in azienda – la prima riferita al periodo 1990-96 e la seconda al periodo 1996-2001 – mostrano una incidenza molto bassa delle norme di conciliazione nella contrattazione aziendale. Nella seconda indagine – che ha vagliato ben 1300 accordi aziendali stipulati in tutti i settori produttivi e in tutto il territorio nazionale e raccolti nell’Archivio nazionale del Cnel e in altri archivi locali e settoriali sulla contrattazione aziendale – norme sul lavoro classificabili, anche in senso lato, come misure favorevoli alla conciliazione risultano introdotte solo in 180 aziende. Anche se una manciata di queste misure, quelle più innovative, può essere considerata nel novero delle “buone prassi”, la stragrande maggioranza risulta costituita da norme banali, come l’introduzione di qualche tipo di permesso (in genere, non retribuito) o dell’elasticità in entrata ed uscita per gli impiegati… Quasi assente il telelavoro, pochissime le norme di specifici supporti alle carriere dei caregiver.. Se poi ci riferiamo all’unica raccolta sicuramente completa, quella degli accordi firmati nel settore metalmeccanico in Lombardia tra il 1995-e il 2001, su 480 accordi solo 17 (il 3%) contengono norme o provvedimenti classificabili come misure di conciliazione. Per giunta, nel corso della seconda indagine, il riesame di alcune buone prassi analizzate in precedenza ha mostrato come in molte aziende, nei cinque anni tra le due indagini, tali misure erano state abbandonate a causa dei motivi più vari: difficoltà applicative, problemi economici, turn over dei responsabili aziendali o delle RSU (Ponzellini, Tempia 2003).
Allo stato attuale, dunque, sembra che le aziende non siano in grado di dare risposte efficaci ai bisogni di conciliazione. Da un punto di vista prettamente organizzativo, sono soprattutto due le ragioni ipotizzabili. La prima è che consegnare ai dipendenti una più ampia autonomia nella organizzazione del loro lavoro significa introdurre strumenti per il controllo e la valutazione della prestazione più sofisticati e costosi di quelli attuali, ancora sostanzialmente basati sul tempo di presenza al lavoro. La seconda è che per tutti i lavori che restano “vincolati” (al contatto col cliente, alla macchina, alla presenza di altre persone), allargare le opzioni di presenza attraverso una più o meno spinta modularizzazione degli orari – operazione in via di principio non impossibile – significherebbe rendere il sistema organizzativo molti più complesso da gestire e quindi costoso. Per converso, i vantaggi del poter contare su dipendenti più equilibrati e soddisfatti della propria vita personale non sono ancora entrati nella contabilità dei bilanci aziendali…
Tuttavia, le insufficienze della razionalità organizzativa non spiegano del tutto la persistente “invisibilità” che nei luoghi di lavoro hanno i bisogni dell’altra faccia della quotidianità. Si rende necessario un punto di osservazione meno schematico, che analizzi tutte le fasi del processo di espressione, rappresentanza e negoziazione di questi nuovi bisogni.
Poca “voice” e molta “exit” nella rappresentanza dei bisogni di conciliazione?
Nell’arena delle relazioni di lavoro, il processo attraverso cui un’istanza del lavoratore ottiene una riposta dall’impresa passa per almeno tre stadi: il momento in cui il bisogno si esprime, quello in cui acquista una voce collettiva e viene rappresentato da parte di un sindacato, quello in cui viene negoziato ed ottiene una risposta dal datore di lavoro. Nel caso dei bisogni di conciliazione, finora è stato dato molto risalto alle difficoltà e ai cattivi risultati dell’ultima fase, quella della contrattazione collettiva, ma forse sarebbe utile prestare qualche maggiore attenzione anche alle altre due.
Innanzitutto, la domanda di conciliazione richiede di essere segnalata, resa visibile. In pratica, questo avviene molto raramente nei luoghi di lavoro: perché? E’ stato spesso detto che le donne fanno fatica a rendersi visibili nella società, ad incidere nel contesto politico e anche a “negoziare una cittadinanza nel lavoro” (Gherardi 1995). Forse questa difficoltà non deriva dal fatto che le donne sono disavvezze, o disinteressate, al discorso politico bensì dal fatto che “tutte le domande che riguardano i bisogni personali, la vita affettiva, il benessere psicofisico fanno fatica ad essere ammesse nel discorso politico” (Melucci 1994).
L’esempio di ciò che succede nelle relazioni di lavoro può essere illuminante anche per altri contesti. Quel che si può osservare è che le donne che lavorano – e i maschi a maggior ragione – hanno spesso difficoltà ad esprimere nei luoghi di lavoro i bisogni che riguardano la loro vita personale e familiare. Un effetto di scoraggiamento viene direttamente dalla cultura delle imprese: è noto, per esempio, che le donne che occupano posizioni professionalmente importanti o che comunque hanno ambizioni di carriera parlano pochissimo della loro vita personale e famigliare, in quanto hanno capito che è controproducente per il loro successo professionale mostrare una immagine di sé che non sia del tutto committed al lavoro. Ma ci sono anche altri effetti di scoraggiamento più ambigui, che fanno sì che la domanda di conciliazione sia difficile da esprimere anche tra lavoratori e al sindacato. Come abbiamo visto sopra, l’equilibrio vita-lavoro che ciascuno vuole raggiungere fa riferimento a scelte basate anche su opinioni e assunti ideologici personali, che riguardano il valore che si dà alla maternità e alla paternità, l’interpretazione dei ruoli familiari e della condivisione del lavoro di cura ma anche, per converso, il significato che si da’ all’esperienza lavorativa e il grado di committment al lavoro che si è scelto… Questi aspetti del privato si intravedono inevitabilmente quando si avanzano richieste che attengono l’equilibrio lavoro-famiglia e non sempre si è in grado o si vuole metterli in discussione. In questo senso certamente, l’assemblea sindacale – che costituisce il luogo deve tradizionalmente i lavoratori fanno sentire la voce delle proprie opinioni e delle proprie esigenze e ne chiedono la rappresentanza, dove si discute delle rivendicazioni collettive, dove si stendono le piattaforme contrattuali – non appare lo spazio adatto a far emergere esigenze così più specifiche, frammentate e personali. Per di più, il sindacato non agisce esclusivamente come tramite neutrale dei bisogni dei lavoratori e negoziatore di questi nei confronti delle aziende ma li filtra alla luce della sua strategia politica, spesso legata a rappresentazioni stereotipate di quelli che “dovrebbero essere” i bisogni dei lavoratori. Insomma, il sindacato ha una sua ideologia attraverso cui legittima – o non legittima – i bisogni. Pensiamo per esempio al part time, che per molti anni il sindacato ha osteggiato, considerandolo (in parte anche a ragione, ma comunque del tutto indipendentemente dalla domanda crescente da parte delle lavoratrici) una forma di lavoro “insufficiente a garantire alle donne indipendenza economica e quindi emancipazione sociale”. Pensiamo anche al telelavoro rispetto al quale, almeno inizialmente, la risposta del sindacato è stata ugualmente ostile, perché “ricacciava le donne dentro le pareti domestiche”.
Oltre agli effetti di scoraggiamento culturale ed ideologico, vi sono motivi di ordine più strutturale che ostacolano il processo di rappresentanza della domanda di conciliazione all’interno delle tradizionali istituzioni delle relazioni industriali. Come abbiamo visto, si tratta di bisogni molto differenziati e mutevoli, quindi difficili da portare a sintesi e ricondurre all’interno della contrattazione collettiva. Non esiste infatti una flessibilità-che-va-bene-per-tutti da sostituire alla vecchia routine-standard-maschile del mondo fordista…ma molte esigenze diverse che chiedono di avere risposte, a volte anche personalizzate e, in questo senso, l’emergere della domanda di conciliazione si collega alla spinta verso una maggiore autonomia nel lavoro e alla parallela crescente individualizzazione delle relazioni di lavoro che caratterizza in generale il lavoro nella cosiddetta “società della conoscenza”: nuove soggettività, lavori non-standard, lavoratori di alta qualificazione.
Questa difficoltà per le istanze delle donne e in generale per i bisogni personali ad emergere, essere legittimati, acquistare una dimensione collettiva – per dirla alla Hirschman (1970), ad utilizzare l’opzione “voice” – potrebbe essere una delle ragioni per cui questi soggetti scelgono spesso la via dell'”exit”. Il fatto che il tasso di sindacalizzazione femminile sia più basso di quello maschile, soprattutto in Italia (Ebbinghaus, Visser 1999; Feltrin 1999) potrebbe essere un segnale di disaffezione da parte delle donne nei confronti di una rappresentanza che non risponde adeguatamente alle loro attese. Anche il fatto che – come denuncia lo stesso sindacato – spesso i dipendenti che hanno qualche problema familiare si rivolgano direttamente alle direzioni del personale, può essere considerata una opzione “exit”..
Nelle relazioni industriali, la discussione su quale risposta dare alla frammentazione delle domande dei lavoratori è aperta da tempo e già interroga il diritto del lavoro e gli attori sociali su come sia possibile rendere tra loro compatibili libertà individuale e sicurezza sociale (Muckenberger 1982), su quali nuove forme di solidarietà siano percorribili per il lavoro non-standard (Volkenburg 1995, Cella 1999), su come aumentare lo spazio di autonomia dei lavoratori (Accornero 2001). Il compito futuro del sindacato potrebbe essere quello di contrattare l’allargamento delle opzioni professionali e/o di intreccio vita-lavoro possibili o anche quello di stabilire soltanto una cornice normativa generale entro cui i singoli individui possano negoziare le proprie condizioni di lavoro o infine – quando i bisogni, come quelli di conciliazione si intrecciano ad altri aspetti del sociale – quello di spostarne la rappresentanza al di fuori dei luoghi di lavoro su tavoli di governance territoriale.
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Volkenburg B. (1995), “Individualization, Participation and Solidarity”, in European Journal of Industrial Relations, n. 1
Una multinazionale del calibro della Nike, spinta dalle pressioni del movimento no global e dei media di tutto il mondo, ha proceduto a verificare gli standard di trattamento dei lavoratori praticati dai suoi fornitori, eliminando il 43% degli stessi e rendendo pubblica la lista di quelli rimasti.
Indipendentemente dalle motivazioni che hanno determinato questo passo, ci sembra importante – nell’auspicio di un contagio benefico – segnalare le iniziative concrete di “Responsabilità Sociale (delle Imprese)” piuttosto che i frequenti fumosi proclami intorno a questo tema. MB
Daniela Roveda
LOS ANGELES – La Nike si è cosparsa il capo di cenere. In un raro mea culpa per un’azienda occidentale, il colosso accusato di avere chiuso un occhio sulle condizioni di lavoro negli stabilimenti del Terzo Mondo che fabbricano le scarpe indossate da Michael Jordan e Kobe Bryant ha preso le misure moralmente necessarie. e ieri ha pubblicato una lista di 700 fornitori, indirizzo compreso, affinché chiunque possa andare a controllare lo stato delle fabbriche.
La presa di coscienza della Nike potrebbe avere oltretutto ripercussioni positive di ampio respiro sulle condizioni di lavoro di interi Paesi in via di sviluppo. L’iniziativa infatti potrebbe forzare molte altre società americane ed europee a identificare i propri fornitori, costringendoli ad adeguare le condizioni di lavoro (igieniche, psicologiche, ambientali e legali) agli standard occidentali. Finora l’identità dei fornitori era stata mantenuta segreta da società intenzionate a salvaguardare i segreti aziendali.
L’iniziativa della Nike. presa in modo del tutto volontario, è inoltre una vittoria per gli attivisti che da molti anni denunciano la prassi occidentale di rifornirsi da fabbriche che. secondo le accuse, sfruttano i lavoratori. La Nike era divenuta addirittura il simbolo dell’omertà occidentale dopo aver ignorato negli anni 90 le pressanti critiche sullo sfruttamento del lavoro minorile e sulle condizioni inaccettabili di molte fabbriche localizzate in Cina, Thailandia, Corea, Vietnam ed altri Paesi asiatici.
Nel rapporto che include la lista dei fornitori il presidente della Nike, Philip Knight ha addirittura ammesso apertamente la propria responsabilità: “La tiepida risposta iniziale della Nike alle critiche è stato un errore di cui sono interamente responsabile” ha scritto Knight. Per riparare il danno all’immagine, Nike ha investito ingenti risorse per valutare individualmente ciascuna delle 700 e più fabbriche che impiegano complessivamente 650mila Per garantire l’obbiettività del rapporto, la società ha ingaggiato l’organizzazione indipendente Fair Labor Association per aiutarla a individuare le irregolarità e gli abusi e per correggerli. Nike ha anche cancellato i contratti di fornitura agli stabilimenti che non si sono adeguati alle sue richieste, il 43% del totale. E chi non ci crede può andare a controllare di persona.
Norvegia, il governo ha deciso di punire le imprese che al vertice hanno presenze femminili sotto al 40 per cento
Una legge senza precedenti sulle pari opportunità. Nelle società controllate dallo Stato percentuali già rispettate
Danilo Taino
DAL NOSTRO INVIATO OSLO – Se le idee nuove in fatto di politiche sociali fossero petrolio, i pozzi norvegesi non sarebbero certo sulla via dell’ esaurimento. Il governo conservatore di Kjell Magne Bondevik ha fatto sapere alle imprese del Paese che le cose non vanno bene in fatto di pari opportunità tra uomini e donne e ora dalla carota ha deciso di passare al bastone. Nel 2002, infatti, aveva varato una legge in base alla quale entro la metà del 2005 il 40 per cento delle poltrone dei consigli di amministrazione di ogni società, fosse essa di Stato o pubblica, doveva essere riservato alle donne. Ma le aziende «stanno puntando i piedi», ha detto il ministro per gli Affari della Famiglia e dei Figli Laila Daavoey. E, a questo punto, «nei casi peggiori – ha aggiunto – dovremo chiuderle». Sì, proprio così: le imprese che non si adegueranno potrebbero essere messe in liquidazione. Entro il 2007. La legge norvegese, che era già considerata dagli imprenditori la più dura del pianeta tra quelle che intendono affermare la parità per legge, ora è diventata un caso senza precedenti. Il governo farà un censimento a metà agosto per conoscere la situazione e su questa base fisserà una data limite, il 2007, per le aziende inadempienti: passata quella data, ci sarà un ultimo richiamo e poi la chiusura forzata. Il fatto è, spiega la signora Daavoey, che nel 2002 i consiglieri d’ amministrazione donna erano il sei per cento del totale e ora sono saliti all’ 11: pochissimo, se si tiene conto che tutte le società pubbliche si sono adeguate alla norma e che «ci sono in giro migliaia di donne qualificate: le imprese possono scegliere tra metà della popolazione». Si tratta, in sostanza, di scardinare uno degli ultimi bastioni norvegesi del potere maschile in un Paese dove le donne occupano quasi la metà di posti di lavoro, il 40 per cento delle poltrone ministeriali e il 37 per cento dei seggi del Parlamento. Nelle stanze in cui la politica non era ancora entrata, insomma, il denaro favoriva i maschi. Detto fatto: anche i tavoli del potere economico dovranno ora essere condivisi. Il raggiungimento della parità tra sessi è da tempo una priorità per tutti i Paesi scandinavi, i quali sono spesso stati, per l’ Occidente, un modello nel campo. La Norvegia, però, era rimasta obiettivamente indietro in fatto di comando d’ impresa, tanto che in molti Paesi dell’ Europa continentale la situazione è più favorevole alle donne. La minaccia di chiudere un’ impresa, di distruggere ricchezza e posti di lavoro questa volta però ha sollevato onde più alte del solito. L’ associazione locale degli imprenditori si è opposta: il piano, dice, viola i diritti degli azionisti di scegliere i dirigenti liberamente. E la Borsa di Oslo ha detto che si oppone all’ uso della forza anche se ritiene sia una buona idea aumentare la percentuale di donne nei consigli. Il fatto è che, proprio come il petrolio, i modelli di Welfare e le politiche sociali scandinave tendono a essere esportate. E la questione della parità tra uomo e donna è un terreno straordinario per accendere dibattiti in tutto il mondo. Lo scontro di rilievo internazionale più recente è quello avvenuto nella nobile università americana di Harvard, dove il suo presidente, l’ ex ministro del Tesoro Larry Summers, è stato criticato e censurato: aveva sostenuto che, per spiegare come mai le donne non hanno gli stessi risultati degli uomini in certe materie scientifiche, si trattava di indagare anche le differenze biologiche. Al di là della discussione banale donne-contro-uomini, le domande che solleva l’ iniziativa di Oslo sono in realtà molto serie. Le quote obbligatorie tese a favorire nella società minoranze o gruppi sociali sfavoriti sono infatti al centro di una revisione e di un dibattito acceso proprio negli Stati Uniti, il Paese che ha dato il via a questa politica negli Anni Sessanta. I favorevoli sostengono che si tratta dell’ unico modo per garantire ai meno protetti di potersi affermare. I contrari dicono che abbassa la qualità generale delle prestazioni di lavoro o scolastiche, crea ingiustizie e impigrisce le stesse persone che ne possono beneficiare. Questione da risolvere con il pragmatismo, probabilmente. Ma l’ iniziativa di Oslo alza l’ asticella e rende tutto un po’ più radicale.
La ricerca femminile del posto diminuita del 12 per cento
Chiara Saraceno
A prima vista, i dati presentati ieri dall´Istat sulle tendenze nel mercato del lavoro nel quarto semestre 2004 e per il periodo 2003-2004 delineano un quadro positivo. Il tasso di occupazione è stabile. Vi è stata una vistosa diminuzione delle persone in cerca di occupazione (-4,3%) e, molto più contenuto, del tasso di disoccupazione (-0,4%). Soprattutto, la diminuzione delle persone in cerca di occupazione e del tasso di disoccupazione ha riguardato il Mezzogiorno (-8,5% delle persone in cerca di occupazione, -1,1 del tasso di disoccupazione). Un ottimo segno, si direbbe, anche se il tasso di disoccupazione in queste regioni continua a riguardare il 15% delle forze di lavoro, a fronte del 4,3 del Nord e del 6,5 del Centro.
C´è tuttavia poco da essere ottimisti. L´occupazione ha praticamente smesso di crescere. E la diminuzione sia della offerta di lavoro che della disoccupazione è pressoché tutta dovuta alla diminuzione del tasso di attività, in particolare delle donne e in particolare nel Mezzogiorno, dove le donne in cerca di occupazione sono diminuite lo scorso anno del 12%. Continua quindi a indebolirsi il fattore che dal 1998 maggiormente aveva contribuito all´innalzamento del tasso di occupazione nel nostro paese, ma che già dal 2001 aveva cominciato a dare segni di cedimento, come si evince dal grafico. Siamo di fronte a una vistosa modifica delle preferenze delle donne, in particolare meridionali, una quota crescente delle quali non sarebbe più interessata a entrare nel mercato del lavoro, nonostante l´aumento dell´istruzione? Non credo.
Sono piuttosto le condizioni del mercato del lavoro nel Mezzogiorno, unite alla mancanza di servizi adeguati per favorire la conciliazione tra lavoro remunerato e responsabilità familiari, a spiegare in larga misura questo fenomeno, che è in controtendenza sia con quanto avviene nelle altre regioni, sia con gli obiettivi europei. Tra le giovani donne meridionali (15-24 anni) in cerca di lavoro il tasso di disoccupazione tocca il 44,6%, contro il 17,7% del Nord e il 25,9 del Centro. La disoccupazione femminile di lunga durata nel Mezzogiorno riguarda il 12,2% delle disoccupate, il doppio di quella maschile nelle stesse regioni, due volte e mezza quella media nazionale per le donne, sette volte quella delle donne nel Nord-Est (1,7%). Se le donne meridionali ricominciano a non presentarsi più sul mercato del lavoro, non è perché non lo desiderino o non ne abbiano bisogno. Piuttosto perché le chance di trovare una occupazione – anche nella definizione “larga” utilizzata dall´Istat come da tutti gli organismi internazionali (aver fatto almeno un´ora di lavoro remunerato nell´ultima settimana) – sono troppo scoraggianti.
*Professore ordinario di Sociologia
della famiglia a Torino
Tratto dal sito www.lavoce.info
«Ci sono priorità diverse, lo ha detto Ciampi». Rognoni e la sinistra per il sì mentre laici del Polo, Unicost e Mi hanno votato no
No al gruppo di studio per conciliare lavoro e famiglia
Dino Martirano
ROMA – Il Consiglio superiore della magistratura celebra il quarantennale dell’ ingresso delle donne in magistratura bocciando un progetto per le pari opportunità. Saltano, dunque, il finanziamento europeo di 210 mila euro e il gruppo di studio che avrebbe dovuto approfondire il tema della «conciliazione tra la vita familiare e quella lavorativa». La proposta di studiare da vicino i diversi percorsi professionali che rallentano le carriere delle donne magistrato è stata bocciata (13 voti contro 11) nonostante che il vicepresidente Rognoni, il primo presidente della Cassazione Marvulli e il pg della Corte Favara abbiano votato a favore, insieme ai laici di centrosinistra e a Magistratura democratica. Nulla da fare, dunque, perché hanno fatto fronte comune i «laici» di centrodestra, i togati di Unicost e di Magistratura indipendente e Giuseppe Fici del Movimento per la Giustizia. 40 ANNI – Nel 1965, quando le prime 4 donne entrarono in magistratura, il problema delle pari opportunità era relativo. E così anche nel ‘ 71, quando la presenza femminile non superava il 2,9% o nell’ 81 quando le toghe rosa erano il 10,3%. Ma oggi la situazione è addirittura ribaltata: agli ultimi concorsi di accesso in magistratura, il 60% dei promossi erano donne. E tra i magistrati sotto i 30 anni, il 58 per cento sono donne e presto gli uomini saranno in minoranza in tutte le classi d’ età. I CAPI – L’ unica eccezione sono i ruoli direttivi. Qui gli uomini dominano perché le donne occupano 18 poltrone su 421 di cui 14 nei tribunali e nelle procure per minorenni. Stesso discorso vale per i semidirettivi: 51 donne su 665 posti disponibili. E proprio dalla lettura di questi dati, conferma il consigliere togato Giuliana Civinini (Magistratura democratica), «era partito il progetto che prevedeva l’ istituzione di un gruppo di lavoro esterno composto da quattro magistrati (Luisa Napolitano, Ezia Maccora, Iside Russo e la dottoressa Gattiboni, ndr), da un sociologo, da uno statistico e da tre addetti di segreteria». Ma il consiglio ha ritenuto di non dover percorrere questa strada, spiega il «laico» Nino Marotta (Udc): «L’ iniziativa era importante, ma in questo momento di ingorgo dei lavori ci sono priorità diverse. Il Csm è in una situazione di sofferenza e noi non abbiamo fatto altro che adeguarci all’ ultimo, meditato appello del capo dello Stato». Marotta dice questo perché, proprio alcune settimane fa, il Carlo Azeglio Ciampi, che è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura, aveva rimarcato i tempi lunghi che il consiglio impiega per nominare i capi degli uffici e per i trasferimenti dei magistrati. CARRIERE – La motivazione di chi ha azzoppato il progetto «pari opportunità» non convince Giuliana Civinini: «E’ strumentale tirare in ballo l’ appello del capo dello Stato, perché qui si parlava di un gruppo di lavoro esterno al consiglio la cui istituzione, fra l’ altro, è stata discussa in una commissione che nulla ha a che fare con le nomine dei capi degli uffici». Conclude la dottoressa Civini, con un po’ di amarezza : «Devo dire che in occasione del quarantennale dell’ ingresso delle donne in magistratura il Csm ci ha fatto davvero un bel regalo». Il vicepresidente Virginio Rognoni ha fatto quel che poteva e in questo caso ha abbandonato quella posizione di neutralità che tante volte ha rimarcato con l’ astensione. Parla invece il «laico» di centrosinistra Luigi Berlinguer: «Le due esigenze che si sono manifestate erano compatibili. Resta, comunque, il problema per la donna magistrato tra impegni di lavoro e vita familiare». Se ne parlerà il 26 aprile a Roma, quando le donne magistrato celebreranno i loro primi quarant’ anni con la toga. All’ ordine del giorno il nuovo ordinamento giudiziario che, a loro parere, immagina un magistrato uomo che sgomita e fa i concorsi per i posti direttivi e un magistrato donna che accetta un ruolo impiegatizio. E che non diventerà mai capo dell’ ufficio. Dino Martirano SILVIA GOVERNATORI «Mi batto da 13 anni, troppi ostacoli» ROMA – Nel ‘ 92, il giudice Silvia Governatori abitava a Modena, aveva due figli piccoli e lavorava a Siracusa. E fu proprio lei, 13 anni fa, a mettere in mora il Csm affinché «rimuovesse gli ostacoli che impediscono la realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra uomini e donne». Dottoressa Governatori, il Csm non affronta il problema. Nulla è cambiato? «Credo che la delibera non sia passata perché nel Csm ci siano molte persone che non amano promuovere un magistrato per la sua competenza e il suo impegno professionale». Eppure tante donne magistrato son temute, rispettate. «Non è femminismo il nostro, men che mai vecchio stile. Ma se la magistratura è un sistema democratico, allora tutti i magistrati, uomini e donne, vanno valutati per ciò che sanno fare». E’ vero che agli ultimi concorsi le donne risultano più preparate dei colleghi magistrati? «Sono più determinate. Ma la nostra è una battaglia per la limpidità. Perché la compresenza è anche una scelta di professionalità, quella che si vede tutti i giorni in udienza».
Maria Pierdicchi* e Rosanna D’Antona**
L’Italia è un grande Paese produttore di creatività, talento e flessibilità, ma queste risorse non riescono a essere coltivate e incanalate nella direzione auspicabile e utile a creare vantaggi competitivi sostenibili e per il bene collettivo. Tuttavia, quando si analizzano queste carenze, si tende a ignorare una dimensione molto importante: il ruolo ancora marginale che le donne hanno nell’economia e nella leadership del Paese. Il tasso di occupazione femminile italiano è tra i più bassi al mondo. Meno del 40% (36,8%) della popolazione femminile in età lavorativa si presenta sul mercato del lavoro, cioè partecipa alla produzione di beni e servizi. Si tratta del 32° posto al mondo. La media europea di occupazione femminile è il 55,6%, in Svezia è il 72,2%, in Inghilterra il 65,3%, in Francia il 56,7 per cento.
Negli Stati Uniti la situazione è diversa alla base, ma analoga al vertice. In altre parole, mentre la forza lavoro femminile complessiva è pari al 49%, scende drasticamente al 15,7 a livello di corporate officer per ridursi ulteriormente al 7,9% e 5,2%, rispettivamente, per le posizioni di senior management e quelle di leadership tra le principali aziende americane.
In Italia non solo le donne lavorano poco, ma quando lo fanno non riescono a raggiungere posizioni di rilievo: la percentuale delle dirigenti d’impresa non raggiunge il 5%, le donne che siedono nei Cda delle società quotate si contano su due mani. Le lavoratrici italiane percepiscono in media un reddito stimato inferiore, tra il 10% e il 30%, a quello dei lavoratori, per lo più dovuto -al minor livello di qualificazione delle posizioni occupate.
Se passiamo alla politica il quadro è ancora peggiore: le donne in Parlamento non superano il 13%, contro il 42% della Svezia e il 30% dell’India. Ci si potrebbe domandare se le donne italiane preferiscano fare le casalinghe e non investire nella propria educazione e formazione professionale per scelta deliberata. Le cose non stanno così.
L’Italia mantiene da anni un tasso di natalità tra i più bassi al mondo: 1,24 figli per donna contro i 2,06 degli Usa e l’1,47 dell’Europa. Non è quindi la scelta di dedizione alla famiglia e alla cura dei figli che può spiegare la scarsa partecipazione al mondo del lavoro.
Tra le cinque barriere all’avanzamento di carriera rilevate negli Usa vi sono nell’ordine: gli stereotipi e i preconcetti sulle capacità e i ruoli delle donne, l’assenza di modelli femminili di successo di riferimento, la scarsa esperienza in ruoli di leadership di linea, l’impegno familiare, le responsabilità personali e, infine, l’assenza di “mentoring”.
Ma vediamo la formazione scolastica: le donne italiane da anni hanno superato per istruzione e performance scolastica gli uomini. Su mille donne con licenza media 694 conseguono la maturità, mentre fra gli uomini solo 566.
All’università le donne non solo rappresentano il 56% del totale ma, soprattutto, conseguono risultati migliori. E il 55% dei laureati con votazioni superiori al 106/110 sono donne. Le donne che si laureano con 110 e lode sono il 26,9%, gli uomini il 17,7 per cento. E il fenomeno non riguarda solo le facoltà tradizionalmente considerate più “femminili”: tra i laureati in ingegneria che conseguono 110 e lode il 24,8% sono donne, contro il 13,6% degli uomini.
I dati sembrano quindi indicarci che risorse femminili eccellenti si formano nelle nostre scuole, anche in facoltà scientifiche cruciali per il sistema economico, ma non si canalizzano in occupazione produttiva che salga man mano nella gerarchia e nella qualificazione aziendale.
Che cosa significa questa perdita per il Paese? Qui le osservazioni possono essere di due tipi. Dal punto di vista sociale e politico è evidente che le pari opportunità sono lontane dall’essere state raggiunte.
Ma per restare su un piano puramente economico, la perdita, non è da meno: le risorse femminili rappresentano un pool di competenze che potrebbe fare una differenza per molte aziende e istituzioni. Questo lo hanno già capito molte società multinazionali che hanno attivato da anni veri e propri programmi di qualità per le proprie risorse umane e soprattutto per i cosiddetti high potentials. Si tratta però di aziende straniere, che adattano in Italia programmi legati alla consapevolezza del valore della leadership al femminile su input delle sedi centrali che hanno maturato esperienze simili all’estero. In Italia, invece, solo pochissime aziende stanno timidamente iniziando i primi passi in questa direzione. Negli Usa la valorizzazione delle diversità, in particolare quella di genere, rappresenta da anni una leva competitiva che le aziende promuovono attivamente con una serie di iniziative mirate ad aumentare la presenza femminile nel management e a valorizzarne la leadership.
In un contesto competitivo in cui l’eccellenza e il capitale umano rappresentano fattori cruciali di innovazione e crescita, la diversità viene vista come un fattore fondamentale di successo.
Autorevoli ricerche americane hanno dimostrato che le società con la più alta percentuale di donne al vertice hanno prodotto risultati finanziari migliori del 35% sul return on equity (Roe) e del 34% sul return to shareholders (Trs), per non contare i benefici intangibili per tutti gli stakeholders.
Purtroppo, di tutto ciò in Italia si parla molto poco e per lo più in ristretti circoli frequentati da aziende multinazionali e da poche donne manager che vivono sulla loro pelle la difficoltà di emergere.
Forse un motivo della nostra disattenzione per le eccellenze femminili risiede nella scarsa cultura del merito del Paese? La logica della cooptazione, il permanere di strutture fortemente gerarchiche, la responsabilità gestita come occupazione ed esercizio di potere mal si combinano con la competenza, il merito e il desiderio di crescere e mettersi in gioco.
Forse una maggiore presenza di donne nelle nostre organizzazioni e nel loro management potrebbe favorire la rimozione di queste consolidate sclerosi e iniettare una cultura del fare più innovativa e orientata ai risultati, contribuendo in tal modo a quel cambiamento di cui tutti avvertiamo un impellente bisogno.
Anche molti Governi hanno fatto della maggior partecipazione femminile al lavoro e alla politica un obiettivo nazionale. In Europa l’attenzione al tema è molto più viva e infatti l’agenda di Lisbona prevede tra gli obiettivi dell’Italia il raggiungimento nel 2010 di un tasso di occupazione femminile del 60 per cento.
Si tratta di un traguardo già perso, ma che dovrebbe spingere i nostri leader quanto meno ad affrontare con sistematicità le sfide che tale obiettivo richiama.
*Direttore generale Standard&Poor’s
**Presidente D’Antona&Partners
Cinzia Sasso
L’annuncio è il tic-tic di un paio di scarpette col tacco, qui, dove le strade sono sempre coperte di neve e dove oggi il termometro, mite, a mezzogiorno segna meno sei. Il passo è leggero ma non perché Sari Baldauf, cinquant’ anni il prossimo dieci di agosto, da un paio di settimane è una donna libera: era leggero anche prima, quando era la signora della Nokia, il colosso europeo delle telecomunicazioni, membro del board di un’ azienda da 55mila dipendenti, il vice presidente esecutivo e general manager delle reti, le infrastrutture sulle quali corrono da un capo all’ altro del mondo le informazioni. Ora, la signora che il Financial Times ha eletto come la donna più influente del business europeo e che era orgogliosa di esserlo, quella che alcuni nella comunità degli affari si aspettavano di vedere prendere il posto di Jorma Ollila, il Ceo con contratto in scadenza, non è più nessuno. è tornata ad essere solo quello cui tiene davvero: Sari, una persona, non più un ruolo; un nome semplice da rintracciare alla B sull’ elenco del telefono, non l’ unico nome femminile nel consiglio di amministrazione dell’ azienda; una che passa il tempo a leggere, andare in palestra, sciare con i nipoti, non l’ infaticabile business woman che salta su e giù dagli aerei a firmare contratti da una parte all’ altra di questo inquieto mondo. Stringe la mano con il massimo calore possibile per un finlandese, sorride solo con gli occhi, occhi azzurrissimi e un poco taglienti; sfila la pelliccia di visone a cappa, con il cappuccio, sistema la sciarpa di un rosso vermiglio proprio come il rossetto e si scusa: «Ho una fame terribile, devo chiedere un sandwich». Ha capelli neri cortissimi, è piccolina minuta e piuttosto elegante per una tarda mattina: pantaloni e giacca nera, scarpe, appunto, col tacco. Questo non è più il suo posto di lavoro; non ama, ma capisce, la curiosità sulla sua scelta e dunque eccola di nuovo, per una breve parentesi, in quella che per vent’ anni è stata la sua sala riunioni – divani bianchi, tavolo di cristallo, un tappeto di piccole orchidee bianche, dalle vetrate il golfo di Finlandia ghiacciato con i traghetti che sembrano di cartone, sospesi – disposta a rispondere “alla” domanda: perché mai una persona nel pieno della carriera, destinata a mete ancora più alte, potente, uno stipendio da oltre 900mila euro l’ anno, influente, in buona salute, giovane ancora, amata dai suoi azionisti, decide di lasciare tutto? Forse perché, dopo vent’ anni di lavoro, è sopraffatta dalla stanchezza? Sari, stavolta, sorride davvero: «O no, non sono affatto stanca. Ho dormito abbastanza in questi dieci giorni». Poi torna seria: «Quando fai qualcosa di molto interessante, che ti prende tanto, è davvero difficile capire quando fermarsi. Quando ho cominciato, ventuno anni fa, a lavorare in Nokia, pensavo di restarci tre anni e poi di mettermi a fare ricerca. Invece ho scoperto che era molto più bello fare le cose nella pratica che studiarle nella teoria. Ma essere in cima e avere il potere non è mai stato il mio obiettivo: mi ha sempre mosso il gusto di far funzionare le cose. E così mi sono ritrovata in un meccanismo che andava veloce, sempre più veloce. Lavoravo dalle dodici alle quattordici ore al giorno, e quando viaggi molto le ore sono molte di più: finisci le riunioni, la cena d’ affari, vai in albergo e ti colleghi col tuo pc per leggere la posta che nel frattempo hai ricevuto in Finlandia. Quando sei in un ruolo globale, senza confini, quando oggi sei in Cina e domani a Parigi, stai in servizio ventiquattro ore al giorno per sette giorni su sette. Non ho rimpianti, è stato entusiasmante. Ma arriva un momento in cui invece vuoi molto più tempo per i tuoi interessi personali, per te. Io amo le cose semplici – andare a funghi nei boschi per esempio – e nell’ utilizzo del tempo ci sono dei limiti». Hanno scritto che Sari si darà anima e corpo all’ International Youth Foundation, che si occupa del futuro dei giovani, di preparare, per i ragazzi, un futuro. Ma è vero solo in parte: già da cinque anni è nel direttivo dell’ associazione e Nokia con loro ha lanciato un progetto per consentire alle comunità più periferiche di connettersi con il resto del mondo. Non è come la Irene del Cuore Sacro di Ozpetek, non ha lasciato perché ha scoperto il volontariato. I bisogni degli altri, Sari, li conosceva da tempo. In uno dei suoi ultimi discorsi da “lady Nokia”, imbarazzata per essere chiamata a parlare come super donna, si è quasi scusata della sua condizione di privilegio: «La nostra educazione, il diritto che ci è riconosciuto di occuparci di noi stessi, la possibilità di avere un lavoro, ci rendono molto diversi da altre persone che pure sono come noi; rendono diversa me da altre donne come base di partenza e dunque, è ovvio, anche come meta di arrivo. Metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al giorno; metà della popolazione ha meno di 25 anni e l’ 85 per cento dei giovani vive in un Paese povero; il 40 per cento dei disoccupati sono ragazzi». A loro Sari Baldauf ha pensato anche nei suoi anni ai vertici. Dunque: «Adesso, per sei mesi, non farò nulla. Ho deciso di prendermi un periodo di stacco, e poi di vedere. Non vorrei ritrovarmi di nuovo con l’ agenda piena dalla mattina alla sera, e questo è un pericolo, perché sono una persona che tende a farsi tirare dentro alle cose; non vorrei sentirmi ancora rimproverare da mia madre, che si lamenta perché sono sempre in volo». La decisione di oggi, dice, era già presa da tempo «bisogna fare delle pianificazioni, perché sennò la vita fa i suoi piani che si antepongono ai tuoi e ti tiene dentro». Tre anni fa lo aveva comunicato al suo presidente, e dieci anni fa aveva fatto un primo passo, «una mossa legata logicamente a quello che ho deciso adesso»: sei mesi di aspettativa per andare sugli sci e per studiare la storia dell’ Europa e la cultura dell’ Asia. «Davvero, non è stanchezza. Io voglio lavorare ancora e non sarei capace di non farlo. Ma ci saranno altri modi. Ho sempre pensato che non voglio perdere la mia identità, che non voglio confondere la mia persona con il ruolo che esercito. Io voglio essere me stessa. Nokia è un ottimo posto dove lavorare, c’ è molto rispetto, ma io dovevo ritrovarmi». Continua ad alzarsi tra le sei e del sette del mattino perché «è bello avere una lunga giornata davanti»; gioca a tennis, va in montagna, nella sua bellissima villa sulla costa meridionale della Finlandia; verrà presto in Italia «a Siena, la Toscana è così dolce», a studiare una delle poche lingue che non conosce, l’ italiano. E ora, finito il sandwich di pane nero, ha un po’ fretta: deve andare in palestra. L’ americana Gail Sheehy direbbe che, entrata «nella seconda età adulta», quella della maturità piena che però oggi è ancora giovinezza, ha raggiunto «la padronanza»: il momento in cui una persona prende in mano le redini della propria vita, libera finalmente dai condizionamenti. «Per una donna – dice Sari – è più semplice scegliere se lavorare o stare a casa. Gli uomini sono meno liberi, devono subire una pressione sociale più forte. Se un uomo avesse preso la mia decisione, se ne parlerebbe di più, e forse non avrebbe avuto la mia stessa libertà di farlo». Ma è l’ unica differenza di genere che concede: «Quando lavori sei te stesso. Non credo che esista un modo femminile o uno maschile di esercitare il potere. è uno stereotipo, un’ opinione datata, vecchia, superata: io non mi sono mai sentita di dover essere come un uomo, né ho mai percepito che questo fosse ciò che gli altri si aspettavano da me. Le differenze sono solo culturali, e personali. Forse per le donne è solo più facile essere aperte alle emozioni, attente ai bisogni degli altri, capaci di ascoltare. Forse hanno soprattutto dei vantaggi». Differenze sfumate, certo, in un Paese nordico: in Finlandia le donne hanno avuto il diritto di voto nel 1906, quarant’ anni prima che in Italia. Il presidente della Repubblica è una donna e così la metà dei ministri al governo; al Parlamento le donne deputato sono 75 e 125 gli uomini; se in Italia le laureate sono il 10 per cento, in Finlandia sono il 36. Sari Baldauf non ama parlare di se stessa. «La mia è una famiglia ordinaria, non c’ è niente da raccontare». è nata in un paesino al confine con la Russia ma a tre anni si è trasferita sulla costa meridionale, a Kotka. Suo padre era un uomo d’ affari, lei la maggiore di quattro fratelli; voleva diventare un medico, poi, però, influenzata da quel che aveva sempre respirato in famiglia, si è iscritta a economia. La laurea, il matrimonio, il primo lavoro come marketing manager ad Abu Dhabi, dove aveva seguito il marito. Più tardi un dottorato onorario alla Helsinki University of Tecnology. Nel 1983 l’ incontro con Nokia. E da allora un successo sempre crescente. Ma anche un distacco crescente: «Il successo non è qualcosa di garantito, che raggiungi una volta per tutte. Lo devi guadagnare giorno per giorno. E se ti lasci trasportare puoi finire nell’ arroganza o nell’ autocompiacimento: non ascolti più, o diventi pigro. E comunque il successo non è mai di una persona, è di un gruppo. Non esiste l’ uomo di successo, il mago del business; esiste un buon team, allenato a rendere al massimo, ognuno con il proprio potenziale». Non per forza “cosa buona”: «Il successo è pericoloso per i singoli, ma anche per i Paesi, le società. E bisogna stare attenti perché è sempre relativo». E il denaro? «C’ è chi ne ha molto e pensa di non averne mai abbastanza. I soldi sono un privilegio perché ti danno la libertà di scelta: se non devi preoccuparti delle cose di tutti i giorni, puoi davvero pensare a cosa è meglio per te». E così a 49 anni, dopo aver passato in azienda gli anni d’ oro dei trionfi e delle stock option, lady Nokia ha deciso di approfittare del suo vero, concreto privilegio. Ha scritto una lettera, «Caro presidente, vi lascio», e si è ripresa la vita. Come dice un vecchio proverbio cinese: «Anche il viaggio più lungo inizia con il primo passo».
Come Procter & Gamble, Ikea e Kodak applicano la teoria del diversity management
Enzo Riboni
Marta Clementi è una diversity manager. Lavora alla P&G-Procter & Gamble e la sua attività è letteralmente la traduzione italiana di quanto promette il suo ruolo: prendersi la responsabilità di gestire le diversità in azienda. «È una posizione – spiega – che è stata istituita come vera e propria leva di management per ottimizzare la gestione del personale e per migliorare le performance aziendali». Sportello Se si pensa alla diversità solo come debolezza, di genere, di cultura o religione, psicofisica o di inclinazioni sessuali, l’ affermazione può sembrare esagerata. E il Diversity management (Dm) si ridurrebbe a una sorta di sportello buonista di supporto al disagio, dedicato a metter toppe sui problemi personali dei collaboratori. «In realtà l’ interesse a costruire una struttura di Dm è tutto aziendale – sostiene Cristina Bombelli, coordinatrice del Laboratorio Armonia della Sda Bocconi che studia proprio la gestione delle diversità – perché ha lo scopo di ottimizzare e valorizzare il contributo, unico, che ciascun dipendente può portare al raggiungimento degli obiettivi dell’ impresa». Il problema si è posto prima di tutto nelle multinazionali, alle prese con una globalizzazione che ha dilatato la multiculturalità in azienda e con le diversità di genere che hanno trasformato il politically correct uomo-donna da principio etico a imperativo di business. È così che negli Usa i guru della gestione aziendale si sono inventati il diversity management, una tendenza che sta aprendo brecce anche da noi. «Nella casa madre americana il diversity management è partito già da diversi anni – conferma Clementi che in Procter & Gamble risponde direttamente al direttore risorse umane – ma ora la mia funzione si sta consolidando anche in Italia. L’ intento è di fare leva sulle differenze e sull’ inclusione per ottenere un vantaggio competitivo, liberando il potenziale delle persone». Con l’ idea che certe scarse performance dei dipendenti siano facilmente migliorabili adattandosi alle diversità. Sono i Dm, per esempio, i motori di soluzioni come le nursery o gli asili nido aziendali, oppure di strumenti di flessibilità quali il part time, il telelavoro e il periodo sabbatico. O addirittura, come in P&G, la cosiddetta carriera di coppia, in cui se un dipendente con alto potenziale è trasferito, l’ azienda provvede a trovare un impiego nella stessa città pure al o alla consorte. Stereotipi In alcune aziende chi orienta le politiche di Dm è direttamente il responsabile del personale. «Perché vogliamo che coinvolga tutta la funzione del personale – spiega Erminia Belli, direttore risorse umane di Kodak -. All’ inizio siamo partiti con la formazione di tutti i dipendenti per smantellare stereotipi come la diversità intesa solo come negatività. Il secondo passo è stato la valorizzazione della diversità di genere, attraverso un’ organizzazione aziendale che permettesse ai dipendenti di conciliare tempo di lavoro e di vita. Soprattutto per le donne, che da noi possono ottenere il part time anche se sono quadri o dirigenti». Il Dm ha una guida al femminile pure in Ikea. Simona Scarpaleggia, che dirige il nuovo centro commerciale Ikea-Roma Buffalotta dopo aver da poco lasciato la guida delle risorse umane del gruppo, sta ora applicando la sua politica di diversity direttamente sul campo: «Ora sto gestendo la diversità culturale. Basti pensare che su 470 persone in organico 50 sono straniere e sono state inserite non solo nelle aree strettamente operative, ma anche nel management». Osservatorio Intanto l’ osservatorio bocconiano di Laboratorio Armonia ha costituito un network di imprese che sta costruendo un know how di gestione delle diversità nel mondo aziendale attraverso una ricognizione sui progetti di diversity management in Italia. «Il contesto – spiega Bombelli – è quello di una crescente diversificazione dei clienti e dei mercati, di nuove modalità di lavoro, di fusioni che mettono insieme culture aziendali diverse, di femminilizzazione crescente del mercato del lavoro che costringe a confrontarsi con le differenze di genere, di fenomeni migratori che mettono in comunicazione diversità etniche e religiose. Tutto ciò rende strategica l’ individuazione e la valorizzazione delle diversità delle persone». Per le quali sembra avvicinarsi il sogno proibito di lavorare in un’ azienda tagliata su misura. «Al punto che – spiega Luciano Pero, docente di organizzazione aziendale al Politecnico di Milano – alcune imprese cominciano ad offrire grosse novità come l’ orario di lavoro a menu, variabile da lavoratore a lavoratore visto che le esigenze di vita di un giovane appena assunto, di una neomamma o di un professionista maturo sono radicalmente diverse. Si arriva a segmentare gli orari, su profili che vanno dal salarialista, al “tengo famiglia”, al professional, all’ anziano». Enzo Riboni enzribo@tin.it In pillole La diversity Perché non gestire la diversità comporta molti problemi. La collocazione Ogni azienda infatti ha l’ obiettivo di mettere la persona giusta al posto giusto. Le attitudini Perché trovare il posto giusto per ciascuno non significa solo capire la professionalità di ogni dipendente, le sue conoscenze e competenze, ma anche valutare le sue attitudini individuali, per non perdere ottimi talenti. I bisogni Capire i bisogni delle persone, anche quelli non direttamente legati alle prestazioni lavorative, ha un’ evidente funzione motivante. Le ricerche Le indagini sul management femminile dicono che le donne sono relativamente sensibili ad aumenti salariali e di status e prediligono gli aspetti più qualitativi come i bonus temporali, cioè la possibilità di spendere il rapporto tempo di lavoro-tempo di vita in modo elastico e personalizzato. La Professione Quella del diversity manager che prima considerava solo le diversità di genere cercando di rimuovere barriere allo sviluppo delle carriere femminili, ora invece punta anche a differenze meno visibili, fino a toccare gli stili di comportamento di ciascuno. PROCTER & GAMBLE Considera le diversità di sesso, età, etnia, valori, credo, orientamento sessuale, nazionalità, sede di lavoro, stato economico, istruzione, stato civile IKEA Chi è in maternità facoltativa può seguire corsi di formazione online, soprattutto di inglese, per rientrare con maggiori competenze di prima KODAK Il part-time viene quasi sempre concesso a chi lo richiede, qualunque sia il proprio livello contrattuale, fino ai quadri intermedi e agli stessi dirigenti.
Donata Gottardi
Il Governo o, meglio, il Ministero del lavoro ha ritirato il decreto sul contratto di inserimento che avrebbe sancito l’inserimento delle donne italiane tra le categorie di svantaggio sociale.
La ragione ha prevalso. La ragione intesa come rispetto delle regole fondamentali dell’ordinamento giuridico.
Certo il modo in cui si è venuti a conoscenza del decreto – pubblicato sul sito Internet del Ministero senza nemmeno avvertire che doveva ancora essere completato l’iter della sua approvazione – e in cui si è comunicato il ritiro – un articolo di Tiraboschi sul Sole 24 ore del 5 gennaio – dichiarano in pieno una tecnica di comunicazione che, formalmente adottata per essere più vicina agli utenti, porta il segno dell’insofferenza verso le procedure di approvazione delle norme.
Il ritiro del decreto, stando alle dichiarazioni di Tiraboschi, è avvenuto per “ragioni di opportunità «politica», più che vere e proprie considerazioni di merito sulla reale portata del decreto”.
Possiamo essere soddisfatti – e ancora più soddisfatte – del risultato. Abbiamo evitato una ferita profonda al principio di parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori e un danno alle imprese, su cui sarebbero ricadute le conseguenze delle pronunce di incostituzionalità della Corte nazionale e quelle della Corte di giustizia europea.
E non importa nemmeno se tutto questo viene attribuito ai condizionamenti di “un astratto formalismo e alle ambigue logiche del politicamente corretto”. È sempre difficile ammettere le sconfitte ed è diventato normale reagire con roboanti dichiarazioni di incomprensione.
Ci si potrebbe fermare qui se non fosse per il richiamo a “tabù da spezzare” e se non fosse per il rischio di manipolazione e di esautorazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, che sono diventati tali anche per l’ordinamento europeo. Preoccupa anche che il Sole 24 ore non ospiti il diverso punto di vista soprattutto di chi ha sollevato da subito la questione.
Purtroppo oggi appare chiaro dall’intera vicenda del contratto di inserimento per le donne che si sta perdendo coscienza della linea di demarcazione che separa il regime degli aiuti all’occupazione (e quindi degli aiuti di Stato) dalla tutela della parità tra donna e uomo. Eppure la vicenda dei contratti di formazione e lavoro, precedente diretto dei contratti di inserimento, avrebbe dovuto consigliare qualcosa di meglio di un fallace contratto a termine stipulabile con ogni donna in Italia con relativo sottoinquadramento – certamente non obbligatorio, ci mancherebbe altro – fino a due livelli retributivi.
Gli “interessi delle donne in carne ed ossa” non vengono sacrificati dal principio di parità. È l’opposto. Vengono difesi dal rispetto del principio di parità, che nel corso degli ultimi quindici anni si è evoluto nel principio di parità di opportunità.
Non ci si difende con la competizione al ribasso. Tutti ormai siamo consapevoli che la concorrenza dei paesi emergenti non si batte risparmiando sui costi. Nessun ribasso potrebbe mai bastare. Per essere competitivi occorre qualità e innovazione e un modello sociale fondato sull’equilibrio di diritti e doveri. E le donne possono portare vantaggi enormi al sistema se si progetta un’organizzazione del lavoro inclusiva e compatibile, se si attuano politiche di conciliazione tra vita professionale e vita familiare, compresi gli strumenti di redistribuzione dei ruoli.
Il diritto del lavoro ha sempre saputo evolversi, magari con lentezza; ma non si risolvono i problemi cercando di cancellarne principi e fondamenti, erigendo totem propiziatori all’incremento del tasso di occupazione, di qualsiasi occupazione si tratti (basta un’ora alla settimana per essere occupati).
Per cambiare bisogna conoscere. Ignorare principi fondamentali come quello della parità tra donne e uomini e le tecniche normative per la sua attuazione non aiuta. Le forzature e le inversioni di marcia ancora non pagano.
Non è scoperta recente quella del divario occupazionale. Ed è anche per questo che sono state adottate leggi che prevedono organismi e strumenti di azione positiva. La soluzione non sta nel cancellarli o sterilizzarli, ma, al contrario, nel renderli finalmente efficaci. Bisogna prendere sul serio la questione femminile.
Quando l’inefficienza burocratica si trasforma in sadismo verso i più deboli
Pietro Ichino
Mariam ora è indignata con l’Italia. Lo dice pacatamente, ma è una sentenza durissima: “È una vergogna”. Eppure in Italia è sempre stata bene ed è grata al nostro Paese. Ci è arrivata dalle Fi-lippine nel 1988, diciassettenne, ha ottenuto il permesso di soggiorno come colf e da allora ha sgob-bato pulendo case, assistendo vecchi, malati e bambini, dichiarando ogni anno i suoi redditi; ma ha anche trovato tante porte aperte; e oggi sono in molti a contendersi i suoi servizi precisi e discreti. I guai sono incominciati quando ha avuto la cattiva idea di sposarsi a Manila con il suo connazionale Warren G., assumendone il cognome secondo la legge filippina. La sua ambasciata in Italia le ha ri-lasciato in mezz’ora un certificato da cui risulta che Mariam P. e Mariam G. sono la stessa persona; il grave problema è che ora occorre modificare l’intestazione del suo permesso di lavoro italiano e ottenere il permesso per il ricongiungimento in Italia con il marito.
La prima pratica, come le altre relative ai permessi di lavoro, per l’intera città di Milano e la provincia è affidata al solo commissariato di via Cagni. Per accedere allo sportello competente oc-corre un numero di prenotazione; e se si vuole essere tra i fortunati che lo ottengono, occorre met-tersi in coda fin dal giorno prima e per tutta la notte. È una specie di crudele gara di resistenza fisi-ca: vince chi, arrivando prima, è disposto a stare più a lungo fuori del commissariato all’addiaccio.
Al termine di una giornata di lavoro, dunque, Mariam chiede quattro ore di ferie per la mat-tina seguente e va al commissariato portandosi il necessario per passarvi la notte. Trova già un bel gruppo di aspiranti in attesa e si mette pazientemente in coda. In piedi per la strada, per ore; chi si allontana anche solo per dieci minuti rischia il “posto”. La notte passa penosamente, anche perché non c’è gran solidarietà tra gli stranieri in attesa: parlano lingue diverse, si guardano con diffidenza, ogni tanto scoppia una rissa perché qualcuno cerca di guadagnare qualche posizione a spese di altri. Poi spunta l’alba, finalmente il cancello si apre. Nella corsa per raggiungere lo sportello Mariam, che era già indietro nella coda, perde qualche altra posizione. Uno per uno i postulanti ricevono il numero di prenotazione; ma quando sta per arrivarci anche lei la distribuzione finisce: per questa mattina lo sportello non potrà ricevere altre persone. Chi è rimasto fuori ritorni un altro giorno.
La seconda volta Mariam prende due mezze giornate di ferie e si presenta al commissariato nel primo pomeriggio, conquistando così uno dei primissimi posti; questa volta si fa sostituire da un’amica filippina dalle sei a mezzanotte (a buon rendere). Così la mattina dopo riesce ad avere il numero di prenotazione e poi a presentare finalmente la sua domanda; le dicono di tornare fra quat-tro mesi. Anche per ritirare il documento richiesto occorre – non è chiaro perché – la stessa penosa gara notturna per la prenotazione e per ottenere il numero. Questa volta, arrivata allo sportello, Ma-riam si sente dire che la sua pratica non ha potuto essere evasa e che deve tornare fra altri quattro mesi. Protesta che nel frattempo il suo permesso di lavoro scadrà; le rispondono che non sanno che cosa farci (provvedere nello stesso tempo alla modifica del nome sul permesso e al suo rinnovo su-pera le capacità della nostra amministrazione pubblica). Chiede di poter telefonare prima di tornare, per accertarsi che il documento sia pronto prima di rifare la notte all’addiaccio; ma le rispondono che non si danno informazioni per telefono (anzi, per la verità al telefono non si risponde neppure: quando la linea non è occupata, non risponde mai nessuno: è o non è un ufficio pubblico?).
Stesso discorso identico per la pratica di ricongiungimento con il marito, che è di competen-za del commissariato di viale Certosa; con una sola differenza: qui avvertono fin dall’inizio che la pratica richiederà sette mesi. Anche qui, comunque, “non si danno informazioni per telefono”.
A conti fatti, per essersi sposata, Mariam ha perso in un anno sei giornate di lavoro e altret-tante notti davanti ai commissariati; e ora rischia anche di restare senza permesso di lavoro. Per questo è indignata. Lei lavora qui da anni e paga le tasse: ha diritto di essere trattata dall’amministrazione in modo civile. Se uno sportello non basta a smaltire quotidianamente le prati-che necessarie, che cosa si aspetta a raddoppiarlo, come si farebbe per qualsiasi servizio ammini-strativo indispensabile ai cittadini italiani, o se necessario a quadruplicarlo, magari adibendovi qual-cuno dei suoi stessi utenti asiatici e africani? E come può la capitale morale ed economica del Paese non vergognarsi di quelle file di lavoratori stranieri condannati da una burocrazia sadica e razzista a passare le notti all’addiaccio davanti ai commissariati per poter rispettare le nostre leggi?
Maria Benvenuti
Di recente (11 novembre 2004) è stato presentato al pubblico il Rapporto del CNEL sul mercato del lavoro 2003, rapporto che è possibile “scaricare” all’indirizzo web www.cnel.it (area download).
Si tratta di una riflessione di oltre 400 pagine; di queste, vi raccomandiamo la trentina circa dedicata al tema seguente: “Azioni positive, flessibilità nell’impresa e conciliazione lavoro-famiglia” (parte seconda da pag. 65 a pag. 98).
Il punto di partenza è l’evidenza dello scarto tra il massiccio ingresso delle donne verificatosi in Italia nel decennio considerato (1993-2003) e l’inerzia del “sistema-paese” (ad esempio: offerta pressoché invariata di servizi pubblici alle famiglie; persistente rigidità delle imprese a livello organizzativo). La causa principale di questo “sfasamento” viene individuata nella scarsissima presenza e influenza delle donne in ambito politico.
Dopo aver riepilogato brevemente i principali dati sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro (in tutto il mondo le donne costituiscono oramai il 40% della forza lavoro complessiva, in Italia siamo al 37,9%), le pagine che vi segnaliamo sono principalmente dedicate alla questione dell’orario di lavoro nei suoi vari aspetti. Vengono presentati una serie di dati, non sempre recentissimi e tuttavia interessanti, come quello emerso da una ricerca condotta tra le lavoratrici e i lavoratori dell’Unione Europea nel 1998, secondo cui il 37% delle donne che lavora a tempo pieno preferirebbe lavorare part-time; oppure quello di fonte Istat, in base al quale nel 2003 le donne dipendenti che lavorano meno di 30 ore (alla settimana) rappresenterebbero circa un terzo del totale delle lavoratrici dipendenti.
Segue una carrellata di “azioni positive” adottate dalle aziende – anche queste principalmente attinenti le misure di “flessibilità” degli orari – e di altre misure rivolte in ogni caso a favorire la “conciliazione” tempi di lavoro e tempi di vita familiare (ad esempio, asili nido aziendali).
L’attenzione al lavoro femminile è comunque presente in molte altre parti del rapporto. Tra queste segnaliamo rapidamente: p. 22 per i dati generali sul mercato del lavoro; p. 170 per il rapporto tra “istruzione e inserimento nel mercato del lavoro”; p. 311 per i dati sugli infortuni; a p. 324 troviamo una fotografia della composizione per “genere” e condizione professionale nel settore della moda. Infine, a pag. 380 la tradizionale indagine Excelsior ci dice che la previsione di minori opportunità occupazionali per il 2004 (rispetto al 2003) dovrebbe penalizzare di più le donne rispetto agli uomini (e viene fornita una stima della differenza col 2003).
Tiziana Vettor
Le conseguenze sulla vita personale indotte dal nuovo capitalismo «flessibile» sono al centro di alcune recenti analisi. Richard Sennet sottolinea lo stato di ansia in cui si trovano la maggior parte dei lavoratori e in generale l’effetto «tellurico» sulle relazioni sociali causato del nuovo paradigma produttivo (Sennet 2000). Franco Berardi parla apertamente di infelicità e alienazione che dilagano nella «fabbrica» postfordista (Berardi 2001). Ulrich Beck è a sua volta esplicito, descrivendo la società odierna come la società del rischio, che è, innanzitutto, il rischio esistenziale cui sono soggetti i lavoratori: le trasformazioni del lavoro in atto hanno comportato una progressiva e inarrestabile demolizione del welfare state e la deregulation del mercato del lavoro con la conseguenza di un progressivo peggioramento della condizione umana (Beck 2000).
Che cosa ci sta capitando? Si chiede uno psichiatra e psicoanalista, Cristophe Dejours, direttore del Laboratoire de Psychologie du Travail e autore del recente L’ingranaggio siamo noi (Dejours 2000). Perché tanta indifferenza per l’infelicità nei luoghi di lavoro (ma anche fuori da questi)? Perché nessuno agisce, nessuno si oppone? Per capire questa incapacità di difendere noi stessi e gli/le altre dalla violenza del neoliberismo, Dejours propone di indagare il rapporto soggettivo che uomini e donne hanno con il lavoro. Il suo è un libro controcorrente nella cultura politica di sinistra, e vicino invece alla cultura delle donne – l’autore lo sa e lo dice – per la grande attenzione che dà alla vita soggettiva (Muraro 1998).
2. Un altro approccio
Il problema, per Dejours, non è cercare di comprendere la logica economica cui la quasi totalità dei paesi del pianeta oggi si ispira, ma metterla invece tra parentesi, per concentrare lo sforzo analitico sui comportamenti umani che la producono e su quelli che portano ad accettarla, a sottomettervisi. Il punto è precisamente quello del rapporto tra soggettività e lavoro. Secondo questa prospettiva l’attuale assetto economico non è solo il risultato di scelte economiche ineludibili spiegate dalla scienza economica, ma anche di comportamenti dei/delle singoli/e.
Privilegiare la soggettività nel lavoro è operazione complessa, e dai più svalutata. A partire, dice Dejours, dalle principali organizzazioni sindacali (ma non solo: analogo discorso vale anche per le organizzazioni politiche), le quali si sono rivelate storicamente contrarie ad accogliere il tema della soggettività e, in primis, a considerare la sofferenza di uomini e donne provocata dal lavoro[1]. Il che non è stato privo di gravi conseguenze: a questo atteggiamento di chiusura Dejours in particolare imputa «un ritardo enorme rispetto allo sviluppo delle tesi avanzate dal liberismo economico, ritardo che ha lasciato libero il campo ai sostenitori dei concetti di risorsa umana, di cultura di impresa, e ha creato indirettamente una grave difficoltà a produrre un progetto alternativo all’economicismo di sinistra come di destra» (Dujours 2000, p. 52). Ma, soprattutto, il rifiuto sindacale di prendere in considerazione questo aspetto «ha rappresentato la prima fase di costruzione della tolleranza verso la sofferenza nel lavoro» (p. 53), laddove questa riveste un ruolo fondamentale nella comprensione delle «molle soggettive del dominio» (p. 16), nella spiegazione, cioè, della mancata rivolta o del mancato rifiuto, da parte della maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici, di una condizione umana di ostaggio del «male». Male che Dejours identifica nella «tolleranza della menzogna» (il prevalere del discorso economicistico o delle pretese dell’economia di mercato) «nella sua mancata denuncia e, più ancora, nel concorso alla sua produzione», vale a dire nella «partecipazione all’ingiustizia e alla sofferenza inflitta ad altri» (p. 106).
Nell’analisi di Dejours, più precisamente, l’elemento della sofferenza non è che l’inizio di un processo soggettivo che sfocia nella paura del «male» così come egli lo ha descritto (Dejours 2000, pp. 106 sgg). Ed è proprio la «comparsa della paura» l’unica spiegazione verosimile (dopo quella rappresentata dalla svalorizzazione della soggettività nel lavoro) del perpetuarsi dello stesso male (p. 67). Contro la sofferenza e la paura patite sul lavoro si assiste in realtà anche allo sviluppo di strategie difensive, che tuttavia, sottolinea l’autore, appaiono diverse tra uomini e donne. Del resto, precisa Dejours, ciò che è radicalmente diverso è, prima ancora delle strategie difensive, lo stesso rapporto che donne e uomini hanno con il lavoro e la sofferenza nel lavoro (p. 185).
3. Soggettività e differenza sessuale
Dejours rende esplicito il debito di riconoscenza della sua ricerca nei confronti del lavoro di quelle studiose, come Daniele Kergoat, che attraverso studi pioneristici hanno tentato di «captare l’esperienza complessa del lavoro femminile», sollecitandone e raccogliendone la narrazione (Cigarini 2000a, p. 149). Ma insieme con questo raro merito Dejours ha, soprattutto, quello di avere colto un aspetto dirimente dell’approccio metodologico da esse proposto e utilizzato, e cioè di avere correttamente inteso che elemento fondamentale dell’analisi della soggettività nel lavoro è il fatto della differenza sessuale. Un nuovo approccio nell’analisi che si è potuto affermare grazie alla personale presa di coscienza femminista da parte di quelle stesse studiose e ricercatrici da cui poi è scaturito un profondo cambiamento nella metodologia della ricerca, appunto spostatasi da un approccio oggettivizzante, neutro, indifferente alla differenza sessuale, ad uno centrato invece sulla soggettività e la parola di uomini e di donne.
Ispirate a questo diverso approccio sono senz’altro le ricerche di Cristina Borderías, studiosa di storia contemporanea dell’Università di Barcellona, ora confluite nel libro Strategie della libertà. Storie e teorie del lavoro femminile (Borderías 2000), nonché quelle intraprese dal gruppo di ricerca sul lavoro costituitosi alcuni anni fa alla Libreria delle donne di Milano, dei cui risultati teorici si è dato conto anche sulle pagine di Democrazia e diritto (Cigarini 2000a).
Cristina Borderías proviene dal movimento della storia orale, che privilegia il metodo biografico, ma questo da solo non sarebbe bastato – come lei stessa spiega – a leggere le biografie delle donne senza farsi intrappolare nelle tradizionali categorie interpretative di stampo oggettivo sul lavoro femminile; c’è voluta quella presa di coscienza che, è ancora lei a dirlo, l’ha portata a rompere la distinzione tra soggetto e oggetto della ricerca, ascoltando le donne intervistate come narratrici e interpreti della propria storia invece che come mere fornitrici di dati da interpretare (Jourdan 2001). Così è riuscita a mettere in gioco la soggettività di queste donne, la soggettività di chi lavora, e ad una storia astratta costruita da sociologi, economisti, sindacalisti e giuristi sulle donne ha potuto contrapporre una storia concreta sorta dalle loro esperienze e raccontata da loro stesse. Il lavoro femminile, infatti, è stato tradizionalmente letto come debole, non qualificato e marginale perché interpretato a partire dall’uso indiscriminato di paradigmi concettuali – gli unici, peraltro, ad avere dignità scientifico-disciplinare – che nascevano all’interno delle analisi del lavoro salariato maschile (il lavoro in fabbrica di fordistica memoria). Si pensi solo a come fino agli anni settanta veniva indagato il lavoro domestico: cura, affetti senza misura, tempo come valore in sé – ovvero tutto ciò che faceva irrazionale quel lavoro – dovevano cedere il passo alla produttività, a un tempo tutto cronometrato, alla messa tra parentesi di qualsiasi relazione personale; efficienza e redditività invadevano lo spazio domestico allo scopo di addomesticarne le passioni e renderlo finalmente razionale (Vantaggiato 2001a). Scrive Borderías: «La storia degli studi sul lavoro femminile è la storia di un itinerario che va dall’invisibilità, cancellazione e costruzione di una immagine fortemente negativa di questa esperienza, all’affermazione della soggettività e della differenza sessuale» (Borderías 2000, p. 108)[2].
Anche le componenti del gruppo di ricerca della Libreria delle donne di Milano hanno proceduto rifacendosi all’esperienza storica del femminismo, alla quale ora bisognerà brevemente guardare per comprendere meglio quella svolta metodologica di cui parla Cristina Borderías.
Il movimento femminista non fu (così sicuramente nell’esperienza italiana e, segnatamente, milanese) un movimento di liberazione, ma di libertà, per libertà intendendosi il poter trovare liberamente il senso della propria vita (Libreria delle donne di Milano 1987; Ribero 1999). Se lo si intende come movimento di liberazione, si continua ad alludere a un modello paritario, e a legittimare solo il discorso sulla discriminazione. La libertà femminile è nata, invece, in opposizione a eguaglianza e tutela antidiscriminatoria (Muraro 1997; 1995). Racconta Lia Cigarini: «Insieme ad altre ho pensato che la questione prioritaria da porsi fosse quella di trovare un senso al mio essere donna, cioè di chiedersi chi siamo e che cosa vogliamo. Questa è stata la rottura con la precedente politica dell’assimilazione al mondo maschile. […] Ponendo dall’inizio la questione dell’essere donna, abbiamo cominciato a lottare sul terreno della libertà femminile, perché la libertà spetta a causa del suo essere donna e non a prescindere dal suo sesso come recita invece la Costituzione e tutte le leggi di parità che ne sono seguite» (Cigarini 1995, p. 229). E fu nell’atto dell’autointerrogazione della soggettività che la libertà femminile prese corpo: «raccontata in prima persona, l’esperienza femminile muta o tacita o costretta al conformismo sociale e all’imitazione dei modelli maschili acquistava un altro significato e apriva nuove strategie narrative della vita femminile, in cui i destini prescritti lasciavano il posto alla libera costruzione di sé» (Dominijanni 1998, p. 25).
L’esperienza del femminismo ha fatto sì, quindi, che le donne mettessero in atto un’interrogazione radicale della soggettività attraverso una pratica dell’autointerrogazione – consegnataci con il nome di «pratica del partire da sé» (Diotima 1996) – che andava ad indagare senza pregiudizi l’esperienza e i vissuti, anche quelli più profondi, e che si è rivelata capace di restituire il senso, l’autenticità e l’originalità delle vite di donne cancellati (rimossi?) dalla ricerca «oggettiva» o, se si preferisce, dal pensiero scientifico e/o dal pensiero toutcourt, del quale il femminismo della differenza ha svelato il finto carattere neutro (Diotima 1987).
È questo, dunque, il retroterra culturale e politico delle ricerche sulla soggettività nel lavoro. Esse infatti portano il segno inequivocabile dell’importanza che le donne attribuiscono al primato della soggettività (domanda di senso e quindi autonarrazione) e della differenza sessuale. La differenza sessuale ha qui infatti a che vedere con la dicibilità della propria esperienza di sé e del mondo (Rivera Garretas 1998). Essa, in altri termini, è semplicemente il senso e il significato che si dà al proprio essere corpo (donna/uomo), aprendo la via alla libertà (Cigarini 1995, pp. 229 sgg.).
4. La via alla libertà nel lavoro
Nel gruppo di ricerca della Libreria delle donne ci siamo interrogate sul nostro rapporto con il lavoro e più in generale su che cosa le donne ritengono essenziale e importante nel lavoro (Cigarini 2000a; Cigarini-Marangelli 1998). L’indagine sulla soggettività ha evidenziato molti aspetti di questo rapporto e, in primis, che esso si gioca nell’agire e pensarsi in relazione. Le donne, cioè, vivono il rapporto con il lavoro come alienato laddove quest’ultimo si presenti povero di scambi e di relazioni (Cigarini 1997, p. 13). «Sono soddisfatta del mio lavoro, non perché guadagno tanto, ma perché ho delle buone relazioni», dicono spesso, mostrando di avere una misura del lavoro che eccede quella del denaro e della carriera, e che si verifica soprattutto nelle relazioni con i colleghi e le colleghe (Cigarini-Marangelli 1998).
Notoriamente, in questo aspetto relazionale del lavoro femminile è stata individuata anche una decisiva chiave di lettura delle attuali trasformazioni del lavoro tout court, che nel postfordismo evolve appunto verso forme sempre più relazionali, «femminilizzate»[3]. In queste forme peraltro è stato individuato anche il pericolo di consegnare tutto ciò che si è al mercato (Caccia 1998; Gorz 1997). C’è qui un fraintendimento, o un’incapacità di comprendere in che cosa consista la relazionalità femminile, e, di converso, uno dei principali motivi della sofferenza femminile nel lavoro. La relazionalità femminile, infatti, è una barriera all’alienazione, poiché si oppone all’astrazione, definendosi in base ad una concretezza estrema: il contatto con l’altro/a, e il prendersene cura, la capacità di ragionare in «contesto», la facilità nel creare legami (Vantggiato 2001b). Quanto alla sofferenza, una delle sue cause è senz’altro rintracciabile nello stare in un contesto di lavoro fatto di relazioni strumentali per l’acquisizione e la gestione del potere (è per questo che le donne in molti casi non vogliono accedere a posizioni di vertice, e non a causa del famigerato «tetto di vetro» che le esclude) (Borderías 2000).
Il potere, secondo Dejours, è una delle espressioni più significative della virilità nel lavoro. Numerosi, del resto, sono i racconti dai quali emerge la spaccatura esistenziale, simbolica, fra i due sessi nel rapporto con il lavoro, e il configurarsi di un conflitto tra i sessi nel lavoro (Cigarini 2000a). Della virilità Dejours parla, in particolare, per spiegare le strategie difensive attuate nei confronti della paura. Gli uomini per combatterla si appellerebbero al senso di virilità, o meglio al cinismo virile (Dejours 2000, p. 122), coltivato nel lavoro e che Dejours propone di considerare fra le cause del male dell’indifferenza verso il male. Per spiegarla, egli si sofferma sul significato della virtù del coraggio, su cui si fonda il valore sociale della virilità. «Il coraggio è, in origine, la capacità di andare in guerra ad affrontare la morte e a darla ad altri. Ma questa virtù dell’anima è umanizzante? Non è certo: essa forma uomini virili, ma forse non umani, essa infatti non è esente da ambiguità verso l’umanità. Chi non è capace di vincere la sua paura e di andare a combattere, costui non sarebbe un uomo coraggioso. E neanche un essere umano? Dalle donne generalmente non si esige un simile apprendistato, tolte quelle chiamate ad occupare posizioni professionali esclusive degli uomini. In tal caso però possono insorgere spesso difficoltà psicologiche ed affettive nella sfera privata». E continua: «Ma, trovarsi dalla parte delle donne, non è forse far parte dell’umanità? E se la caratteristica dell’essere umano e della sua umanità non fosse proprio quella di non poter fare violenza ad altri? Solo dagli uomini si può pretendere che esercitino la violenza nei confronti degli altri. E solo gli uomini possono giudicare una vigliaccheria il rifiuto di combattere delle violenze quando ciò viene loro richiesto o quando, come si dice, la situazione lo esige. Fra le donne non troviamo una simile configurazione. Rifiutarsi di esercitare la violenza, per una donna, non è svalorizzazione agli occhi delle altre donne. Che una donna rifiuti di fare del male ad altri non può essere considerato un vizio se non da uomini che associano un tale rifiuto alla debolezza, e questa debolezza all’inferiorità congenita delle donne… il sesso debole. La debolezza del sesso debole non è nell’incapacità di sopportare la sofferenza, ma di infliggerla ad altri». E conclude: «La virilità è il male associato ad una virtù – il coraggio – in nome delle necessità inerenti all’attività lavorativa […] è la forma banalizzata con cui si esprime la giustificazione dei mezzi attraverso i fini […] è il concetto che permette di erigere a valore, in nome del lavoro, l’infelicità inflitta ad altri» [4].
Anche per le donne funzionano certamente strategie collettive di difesa specifiche. Nelle donne però «si osserva un rapporto notevolmente diverso da una parte con il sapere e con la padronanza, dall’altra con il reale, con il fallimento e con il non riuscire a far fronte. Nelle donne c’è un riconoscimento basilare del reale: la strategia difensiva consiste nel circoscriverlo, mentre nelle strategie collettive di difesa che portano l’impronta della virilità il reale e il suo corollario (l’esperienza del fallimento) sono oggetto di negazione collettiva e di razionalizzazione» (Dejours 2000, pp. 143-144).
L’interrogazione sul senso del lavoro per le donne ha rivelato anche altro. Esse nel rapporto con il lavoro mettono al centro l’importanza di poter decidere qualcosa del proprio lavoro, la competenza professionale e la formazione culturale più che la competizione, il tentativo di tenere assieme vita e lavoro (Cigarini 2000a).
L’interrogazione sul senso del lavoro apre la via alla libertà. Dire il senso che per ciascuno/a ha il proprio lavoro significa riposizionarsi continuamente rispetto a quest’ultimo. Significa darsi la possibilità di una espressione di sé, dei propri desideri, paure, capacità, competenze, risorse; e la possibilità di modificare la realtà sia in senso soggettivo (le relazioni di lavoro) che oggettivo (il più generale contesto di lavoro, le forme contrattuali). La libertà nel lavoro di cui parlo è proprio questo: presa di coscienza del proprio desiderio, ricerca di senso e modificazione del contesto. Una nozione della libertà profondamente diversa da quella che ereditiamo dal pensiero giuridico. Essa non è riducibile – e quindi non si identifica – con il sistema dei diritti, collocandosi sopra la legge, nel luogo dell’esistenza simbolica (Cigarini 1995, pp. 195 sgg.), e si deve alla politica delle donne, alla pratica femminista dell’autointerrogazione, al partire da sé.
5. Più libertà e meno regola eteronoma
Soggettività, differenza sessuale, libertà nel lavoro (nei significati qui accolti) sono problematiche spesso non considerate nei recenti studi sull’«orrore economico» (Forrester 2000) (ovvero sulle trasformazioni produttive e del lavoro in atto) e, malgrado la loro importanza (sul piano della metodologia della ricerca, delle analisi e delle proposte), continueranno a non esserlo fintanto che prevarrà uno sguardo oggettivizzante o legalista. Molti/e sembrano ancora non accorgersi che il mondo del lavoro, proprio perché è un mondo di costrizioni (non si dimentichi che il diritto del lavoro si è costruito sul modello paradigmatico del lavoro subordinato), ha bisogno di qualcosa in più della sola legalità formale. Il «male» nel lavoro, per stare ancora con Dejours, è (anche) sistematica violazione delle regole lavoristiche e ciò nonostante l’ordinamento italiano sia senz’altro dotato di norme a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici fra le più garantiste e complete. Con questo naturalmente non intendo dire che di quelle norme ci si debba disfare[5]. Intendo dire che la libertà nel lavoro nasce e agisce su un altro piano. Nasce da aperture che sciolgono vincoli non indispensabili, da invenzioni di regole elastiche, trovate dai/dalle singoli/e nei contesti di lavoro in base alle proprie esigenze.
Alcuni giuristi del lavoro cominciano a mostrarsi consapevoli di tutto questo, in particolare coloro che hanno riflettuto sui destini del diritto del lavoro a seguito della svolta dal fordismo al postfordismo. Così si è espresso Marco Barbieri in un recente convegno: «Una prospettiva diversa in grado di determinare un nuovo sviluppo del diritto del lavoro deve fare i conti con la capacità di quest’ultimo di essere più strumento di libertà (di relazione, di produzione di senso) tra i soggetti concreti che lavorano e meno regola eteronoma che assume le persone come “destinatarie”. È, insomma, la via stretta della liberazione del lavoro, piuttosto che quella della liberazione dal lavoro, quella che mi pare capace oggi di offrire un orizzonte di senso alla mediazione giuridica. Insomma, non è tanto dentro il confronto/scontro – giuridicamente, il bilanciamento degli interessi – tra efficienza economica e giustizia sociale che si può aprire una nuova stagione del diritto del lavoro e dei diritti dei lavoratori. Al contrario, è necessario lavorare con analisi e proposte sull’equilibrio tra esigenze del mercato (del capitale, cioè) e libertà (desideri) delle persone che lavorano: sapendo che il diritto può molto ma non può tutto» (Barbieri 2001)[6].
Bibliografia
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[1]. Scrive Dejours: «[L’approccio privilegiante] la soggettività individuale si pensava che conducesse a pratiche individualistiche e nuocesse all’azione collettiva. […] Considerate antimaterialistiche tali preoccupazioni erano sospettate di nuocere […] alla coscienza di classe, e di favorire un “ripiegamento individualistico piccolo-borghese” di natura fondamentalmente reazionaria» (Dejours 2000, pp. 49-50).
[2]. Cfr. anche Boccia-Pesce 1988, in particolare i contributi delle stesse Boccia, pp. 3-4 e Pesce,pp. 12-13.
[3]. «Giova indicare – almeno sommariamente – quali caratteristiche del paradigma postfordista ne abbiano ispirato l’accostamento a un modello femminilizzato del modo di produzione. L’immaterialità della merce, innanzitutto, e dello stesso processo produttivo, ossia l’utilizzo – per la produzione di beni – di materie prime quali il sapere e la comunicazione. A definire una merce che tende a diventare “immateriale”, sono, infatti, elementi legati alla conoscenza, al sapere e al linguaggio come pure all’assistenza e, dunque, alla cura» (Vantaggiato 2001b, pp. 264-265. Per analoghe considerazioni, Marazzi 1996 e 1998; Revelli 2001).
[4]. Dejours 1998, Suffrance in France, éditions du Seul, Paris (Dejours 2000) citato in Muraro 1998, pp. 6 sgg.
[5]. Cartosio 1998, che, invece, considera la libertà nel lavoro nel senso datone in queste pagine, in alternativa ai sistemi dei diritti a tutela dei lavoratori.
[6]. Cfr. anche Scarpelli 1999, pp. 553 sgg.; Vettor 1999, pp. 619 sgg.